"Confessione"
di Lev Nikolaevic Tolstoi (1882)
1.
Sono stato battezzato e educato nella fede cristiana ortodossa. Me la
insegnarono fino dall'infanzia e durante tutto il periodo della adolescenza e
della prima giovinezza. Ma quando, a diciotto anni, abbandonai l'università al
secondo corso, io non credevo ormai più a nulla di quello che mi avevano
insegnato.
A giudicare da alcuni ricordi, non ho neanche mai creduto seriamente, avevo
soltanto fiducia in quello che mi insegnavano e in quello che professavano
davanti a me i grandi; però quella fiducia era molto vacillante.
Quando avevo undici anni, un ragazzo, che è morto da molto tempo, Volondin'ka
M., il quale studiava in un ginnasio, venendo a passare una domenica da noi ci
annunziò, come ultima novità, la scoperta che aveva fatto al ginnasio. La
scoperta consisteva in questo, che Dio non c'è e che tutto quel che ci insegnano
non sono altro che frottole (questo accadeva nel 1838). Ricordo che i miei
fratelli maggiori si interessarono a questa novità e chiamarono a consulto anche
me. Noi tutti, ricordo, ci animammo molto e accogliemmo questa notizia come
qualcosa di molto interessante e di possibilissimo.
Ricordo anche che, quando mio fratello maggiore Dimitrij, mentre era studente
all'università, improvvisamente, con la passionalità propria della sua natura,
abbracciò la fede e cominciò ad assistere a tutti i servizi divini, a digiunare,
a condurre una vita pura e morale, noi tutti, e anche i più anziani, in
continuazione lo mettevamo in ridicolo e, chi sa poi perché, lo soprannominammo
Noè.
Ricordo come Musin-Puskin, allora curatore dell'università di Kazan', avendoci
invitati a casa sua a ballare, beffardamente cercasse di convincere mio
fratello, che si rifiutava, con l'argomento che anche David aveva danzato
dinnanzi all'arca. Io simpatizzavo allora con questi scherzi dei più anziani e
ne traevo la seguente conclusione: studiare il catechismo è necessario, andare
in chiesa è necessario, ma non bisogna prendere tutto ciò troppo sul serio.
Ricordo ancora che, molto giovane, leggevo Voltaire e che le sue irrisioni non
solo non mi ripugnavano, ma anzi mi divertivano molto.
Il mio distacco dalla fede avvenne in me così come avveniva ed avviene ora nelle
persone del nostro tipo di cultura. Esso, mi sembra, nella maggioranza dei casi
avviene così: gli uomini vivono come vivono tutti, e tutti vivono fondandosi su
princìpi che non solo non hanno nulla in comune con la dottrina della fede, ma
che per lo più sono contrari ad essa; la dottrina della fede non ha una sua
parte nella vita, e nelle relazioni con le altre persone non accade mai di
imbattersi in essa, così come nella nostra vita non ci accade mai di
consultarla; la dottrina della fede viene professata in un qualche luogo,
lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Se ci troviamo ad avere a che
fare con essa, è soltanto come con un fenomeno esterno, non collegato con la
vita.
Dalla vita di un uomo, dalle sue azioni, oggi come anche allora, non si può in
alcun modo venire a sapere se egli è credente o no. Seppure vi è una differenza
tra coloro che manifestamente professano l'ortodossia e coloro che la negano,
essa non è certo a favore dei primi. Come oggi anche allora la dichiarata
accettazione e professione dell'ortodossia per lo più si riscontrava in persone
ottuse, crudeli e immorali, e che si ritenevano molto importanti. Mentre
l'intelligenza, l'onestà, la rettitudine, la coscienza morale per lo più si
incontravano in persone che si riconoscevano non credenti.
Nelle scuole insegnano il catechismo e mandano gli allievi in chiesa: ai
funzionari chiedono attestati di frequenza alla comunione. Ma un uomo della
nostra cerchia che non studia più, e che non si trova a prestar servizio
statale, anche oggi, ma ancor più in passato poteva aver vissuto decine d'anni
senza ricordarsi neppure una volta di vivere in mezzo a dei cristiani e di
essere egli stesso considerato uno che professa la fede cristiana ortodossa.
E' così che oggi, come in passato, la dottrina della fede, accettata sulla
fiducia e sostenuta da pressione esterna, a poco a poco si esaurisce sotto
l'influenza di conoscenze e di esperienze di vita antitetiche alla dottrina
stessa, e un uomo molto spesso vive a lungo immaginandosi che sia integra in lui
quella dottrina della fede che gli è stata comunicata fin dall'infanzia, mentre
da tempo non ve n'è più alcuna traccia.
S., uomo intelligente e sincero, mi raccontava come smise di credere. Aveva
ormai circa ventisei anni quando, trovandosi a caccia, accampato per la notte,
secondo la vecchia abitudine presa fin dall'infanzia, la sera si inginocchiò per
la preghiera. Il fratello maggiore che si trovava a caccia con lui se ne stava
sdraiato sul fieno e lo guardava. Quando S. ebbe finito e si accinse a coricarsi
suo fratello gli disse: "Ma tu lo fai ancora?". Ed essi non si dissero
nient'altro. S. da quel giorno smise di genuflettersi a pregare e di andare in
chiesa. E sono ormai trent'anni che non prega, non si comunica e non va in
chiesa. E ciò non perché egli conoscesse quali fossero le convinzioni di suo
fratello e fosse d'accordo con lui, non perché egli avesse deciso qualcosa in
cuor suo, ma soltanto perché la parola detta dal fratello era stata come la
spinta data con un dito a un muro che era già pronto a crollare per il suo
stesso peso; quella parola era stata il segnale del fatto che là dove egli
credeva che fosse la fede da tempo ormai c'era un posto vuoto, e perciò le
parole che diceva e i segni della croce e le genuflessioni che egli faceva
mentre pregava erano atti del tutto privi di senso. Avendone riconosciuta
l'insensatezza egli non poteva continuare a compierli.
Così è potuto accadere e accade, penso, alla stragrande maggioranza degli
uomini. Parlo delle persone del nostro tipo di cultura, parlo delle persone
sincere con se stesse e non di coloro che dell'oggetto stesso della fede si
fanno un mezzo per raggiungere dei fini transitori, quali che essi siano.
(Queste persone sono i più radicali non credenti, poiché, se per loro la fede è
un mezzo per raggiungere un qualsivoglia scopo di vita, essa davvero non è più
fede). Queste persone del nostro tipo di cultura si trovano in una posizione in
cui la luce del sapere e della vita ha fatto crollare un edificio fittizio, sia
che esse se ne siano già accorte ed abbiano lasciato libero quel posto, sia che
non se ne siano ancora accorte.
La dottrina della fede che mi era stata insegnata fin dall'infanzia è scomparsa
in me, così come negli altri, con l'unica differenza che, siccome avevo
cominciato molto presto a leggere e a pensare, il mio rifiuto della dottrina e
della fede assai presto divenne cosciente. Fin dall'età di sedici anni avevo
smesso di inginocchiarmi per la preghiera, e avevo smesso di andare in chiesa
per mia iniziativa e di digiunare. Cessai di credere in quello che mi era stato
insegnato sin dall'infanzia, ma in qualche cosa credevo.
In che cosa credevo non avrei potuto assolutamente dirlo. Credevo anche in Dio
o, più semplicemente, non negavo Dio ma in quale Dio non avrei potuto dirlo; io
non negavo neppure Cristo né il suo insegnamento ma in che cosa consistesse il
suo insegnamento, anche questo non avrei potuto dirlo.
Oggi, ricordando quel tempo, vedo chiaramente che la mia fede - ciò che
all'infuori degli istinti animali muoveva la mia vita - l'unica autentica mia
fede in quel tempo era la fede nel perfezionamento. Ma in che cosa consistesse
il perfezionamento e quale fosse il suo fine, non avrei potuto dirlo. Io mi
sforzavo di perfezionarmi intellettualmente, imparavo tutto quel che potevo,
tutto quello verso cui la vita mi spingeva; mi sforzavo di perfezionare la mia
volontà: mi ero compilato delle regole che mi sforzavo di seguire; mi
perfezionavo fisicamente, esercitando la forza e la destrezza con ogni specie di
attività e allenandomi alla resistenza e alla pazienza con privazioni di ogni
specie. E tutto ciò io lo consideravo perfezionamento. L'inizio di tutto era
stato, si capisce, il perfezionamento morale, ma presto era stato sostituito dal
perfezionamento in generale, cioè dal desiderio di essere migliore non dinnanzi
a me stesso o dinnanzi a Dio, bensì dal desiderio di essere migliore dinnanzi
agli altri uomini. E molto presto questa aspirazione ad essere migliore dinnanzi
agli uomini fu sostituita dal desiderio di essere più forte degli altri uomini,
cioè più celebre, più importante, più ricco degli altri.
2.
Un giorno o l'altro racconterò la storia della mia vita, storia commovente e
istruttiva in quei dieci anni della mia giovinezza. Penso che molti, moltissimi
abbiano passato le stesse prove. Io con tutta l'anima desideravo essere buono;
ma ero giovane, preda delle passioni, ed ero solo, completamente solo quando
cercavo il bene. Ogni volta, quando tentavo di manifestare quello che formava il
mio più intimo desiderio: cio che volevo essere moralmente buono, io incontravo
disprezzo e canzonature; ma non appena mi abbandonavo a ripugnanti passioni, mi
lodavano e mi incoraggiavano. L'ambizione, l'amore del potere, la cupidigia, la
lussuria, la superbia, l'ira, la vendetta: tutto questo veniva rispettato.
Quando mi abbandonavo a queste passioni diventavo simile a un grande e sentivo
che erano contenti di me. La mia buona zietta, con la quale vivevo, che era
l'essere più puro di questo mondo, mi diceva sempre che nient'altro avrebbe
desiderato per me quanto che io avessi una relazione con una donna sposata: "Rien
ne forme un jeune homme comme une liaison avec une femme comme il faut"; ed ella
mi augurava anche un'altra fortuna: quella di essere aiutante di campo e, meglio
di tutto aiutante di campo addetto al sovrano; e poi, felicità suprema, che io
sposassi una ragazza molto ricca perché, in conseguenza di tale matrimonio,
potessi avere quanti più schiavi possibile. Non posso ricordare quegli anni
senza orrore, senza disgusto, senza un dolore al cuore. Uccidevo uomini in
guerra, li sfidavo a duello per ucciderli, continuavo a perdere al gioco,
dilapidavo il frutto del lavoro dei muziki, e somministravo loro punizioni,
commettevo adulterio, ingannavo. Menzogna, ruberia, fornicazioni di ogni genere,
ubriachezza, violenza, assassinio... Non vi era delitto che io non commettessi e
per tutto questo i miei coetanei mi lodavano e mi consideravano un uomo
relativamente morale.
Così vissi dieci anni.
Nel frattempo mi misi a scrivere per vanagloria, per cupidigia e per superbia.
Nei miei scritti facevo ciò che facevo nella vita. Per avere la gloria e i
denari in vista dei quali scrivevo, bisognava nascondere il bene e mostrare il
male. E io facevo proprio così. Quante volte mi sono ingegnato di nascondere nei
miei scritti, sotto una patina di indifferenza e perfino di leggera ironia, le
aspirazioni al bene che costituivano il senso della mia vita. E questo io
raggiunsi, che mi lodarono.
A ventisei anni, dopo la guerra, andai a Pietroburgo e mi legai con gli
scrittori. Mi accolsero come uno di loro e mi adularono. Non feci in tempo a
guardarmi intorno che le opinioni sulla vita di quegli uomini con i quali mi ero
legato - proprie al ceto degli scrittori - si erano impadronite di me e avevano
già completamente cancellato in me tutti i precedenti tentativi di diventare
migliore. Quelle opinioni fornirono alla dissolutezza della mia vita la teoria
che la giustificava.
L'opinione sulla vita di quegli uomini, miei consoci nello scrivere, era questa:
che la vita in generale va avanti e si sviluppa e che in questo sviluppo la
parte principale è quella di noi, uomini di pensiero, ma tra gli uomini di
pensiero l'influenza maggiore l'abbiamo noi artisti, poeti. La nostra vocazione
è quella di insegnare agli uomini. Affinché a ognuno di noi non si presentasse
questa naturale domanda: che cosa so io e che cosa devo insegnare?, in tale
teoria veniva spiegato che ciò non era necessario saperlo e che l'artista e il
poeta insegnano inconsciamente. Io venivo considerato un poeta e un artista
meraviglioso, e perciò era per me molto naturale adottare tale teoria. Io -
artista, poeta - scrivevo, insegnavo senza sapere io stesso che cosa. Per questo
mi pagavano, ed io avevo un buonissimo mangiare, alloggio, donne, società, e
avevo la gloria. Di conseguenza quello che insegnavo andava molto bene.
Tale fede nell'importanza della poesia e nello sviluppo della vita era un vero
culto ed io ero uno dei suoi sacerdoti. Essere un suo sacerdote era molto
vantaggioso e piacevole. Ed io abbastanza a lungo vissi in tale fede senza
dubitare della sua verità. Ma durante il secondo e particolarmente durante il
terzo anno di quella vita, cominciai a dubitare dell'infallibilità di quella
fede e cominciai ad analizzarla. Primo motivo di dubbio fu il fatto che avevo
cominciato ad osservare che non tutti i sacerdoti di quel culto erano d'accordo
tra loro. Gli uni dicevano: noi siamo i maestri migliori e più utili, noi
insegnamo ciò che è necessario e gli altri insegnano in modo sbagliato. E gli
altri dicevano: noi siamo nel vero e voi insegnate in modo sbagliato. Ed essi
discutevano, litigavano, si ingiuriavano, si ingannavano, si imbrogliavano l'un
l'altro. Inoltre fra loro c'erano molte persone che non si preoccupavano neppure
di chi fosse nel giusto e chi no, ma semplicemente avevano raggiunto i loro
scopi interessati con l'aiuto di questa nostra attività. Tutto ciò mi spinse a
dubitare della sincerità della nostra fede.
Oltretutto, dopo aver messo in dubbio la sincerità della fede degli scrittori,
osservai più attentamente i suoi sacerdoti e mi convinsi che quasi tutti i
sacerdoti di quella fede, cioè gli scrittori, erano persone immorali e per la
maggior parte persone cattive, delle nullità, per carattere molto inferiori alle
persone che avevo incontrato prima nella mia vita scioperata e nella mia vita
militare, ma sicuri e contenti di sé come solo possono esserlo o gli uomini che
sono veramente santi oppure quelli che non sanno neppure cosa sia la santità.
Quegli uomini mi diventarono odiosi ed io diventai odioso a me stesso e capii
che quella fede era un inganno.
Ma lo strano è che per quanto avessi capito ben presto tutta la menzogna di
quella fede e l'avessi rinnegata, pur tuttavia al rango datomi da quella gente -
al rango di artista, di poeta, di maestro - io non rinunziai. Ingenuamente mi
figuravo di essere poeta, artista, di poter insegnare a tutti, senza sapere io
stesso che cosa insegnavo. E così continuavo a fare.
Dal contatto con quegli uomini ricavai un nuovo vizio: una superbia spinta fino
alla morbosità e la folle sicurezza di essere chiamato ad insegnare agli uomini
senza sapere io stesso che cosa. Ora ricordare quel tempo, ricordare il mio
stato d'animo d'allora e lo stato d'animo di quelle persone (come loro, del
resto, ve ne sono ancora a migliaia) per me è penoso e terribile e ridicolo; mi
suscita esattamente la stessa sensazione che si prova in un manicomio.
Noi tutti allora eravamo convinti che bisognasse parlare e parlare, scrivere,
stampare il più possibile e il più presto possibile, che tutto ciò fosse
necessario per il bene dell'umanità. E noi, a migliaia, smentendoci e
ingiuriandoci l'un l'altro, non facevamo che pubblicare, scrivere, per istruire
gli altri. E, senza accorgerci che non sapevamo nulla, che al più semplice
problema della vita - che cosa è bene, che cosa è male? - non sapevamo cosa
rispondere, noi tutti senza ascoltarci l'un l'altro parlavamo tutti
contemporaneamente, talvolta indulgendo e lodandoci l'uno con l'altro affinché
anche con noi fossero indulgenti e ci lodassero, e talvolta invece irritandoci e
urlando uno più forte dell'altro, proprio come in un manicomio.
Migliaia di operai giorno e notte lavoravano fino allo stremo delle forze,
componevano, stampavano milioni di parole e la posta le propagava a tutta la
Russia e noi sempre di più continuavamo a insegnare, insegnare, insegnare e non
arrivavamo mai ad insegnare tutto ed eravamo sempre impermaliti perché ci davano
poco ascolto.
Terribilmente strano, ma ora per me chiarissimo. La vera intima teoria nostra
era questa: fare in modo di avere quanti più denari e lodi possibile. Per
raggiungere questo scopo noi non sapevamo far altro che scrivere libretti e
giornali. E questo facevamo. Ma affinché noi si potesse fare una cosa talmente
inutile, pur essendo persuasi di essere persone molto importanti, avevamo
bisogno anche di una teoria che giustificasse la nostra attività. Ed ecco che
inventammo quanto segue: tutto ciò che è reale è razionale. E tutto ciò che è
reale si sviluppa. Ma tutto si sviluppa per mezzo dell'istruzione. E
l'istruzione si misura dalla diffusione dei libri, dei giornali. Ma a noi pagano
denari e ci rispettano perché scriviamo libri e giornali, quindi noi siamo gli
uomini migliori e più utili. Questa teoria sarebbe andata molto bene se noi
tutti fossimo stati d'accordo; ma giacché contro ogni idea espressa da uno
veniva sempre fuori un'idea diametralmente opposta, espressa da un altro, questo
stesso fatto avrebbe dovuto farci ricredere. Ma di questo noi non ci
accorgevamo. Ci pagavano, e le persone del nostro partito ci lodavano, di
conseguenza ci ritenevamo nel giusto.
Ora è chiaro per me che non vi era nessuna differenza rispetto a un manicomio;
ma allora lo sospettavo soltanto vagamente e, soltanto, come tutti i pazzi, davo
del pazzo a tutti salvo che a me.
3.
Così vissi, dedito a questa follia, ancora per sei anni, fino al mio matrimonio.
Nel frattempo andai all'estero. La vita in Europa e il contatto con uomini
europei colti e d'avanguardia mi confermò ancor più in quella fede nel
perfezionamento in generale di cui mi ero fatto una ragione di vita, poiché
quella stessa fede io la trovai anche in loro. Tale fede prese in me la solita
forma, quella che essa ha presso la maggioranza degli uomini colti del nostro
tempo. Tale fede veniva espressa con la parola "progresso". Allora mi sembrava
che con questa parola si esprimesse qualcosa. Io non capivo ancora che,
tormentato, come ogni uomo vivente, dal problema di come fosse meglio per me
vivere, io, rispondendo: vivere in conformità col progresso, dicevo esattamente
quello che avrebbe detto un uomo, dalle onde e dal vento trasportato su una
barchetta, di fronte al problema principale e unico per lui: "Dove dirigersi?"
se egli, senza rispondere alla domanda, dicesse: "Da qualche parte sarò
portato".
Allora io non me ne accorgevo. Solo raramente non la ragione bensì il sentimento
si ribellava contro questa superstizione, tipica del nostro tempo, per mezzo
della quale gli uomini nascondono a se stessi la propria incomprensione della
vita. Così, quando ero a Parigi, la vista di una esecuzione capitale mi rivelò
quanto fosse fragile la mia superstizione del progresso. Quando vidi come la
testa si staccava dal corpo e come l'una e l'altro, separatamente, andavano a
sbattere nella cassa, allora capii, non con l'intelligenza, ma con tutto il mio
essere, che non vi è alcuna teoria della razionalità dell'esistente e del
progresso che possa giustificare un simile atto e che quand'anche tutti gli
uomini al mondo, fin dalla sua creazione, basandosi su teorie quali che siano,
trovassero che ciò fosse necessario, io so che ciò non è necessario, che ciò è
male e che, quindi, arbitro di quel che è bene e necessario non è quel che
dicono e fanno gli uomini, e neppure lo è il progresso, ma lo sono io, col mio
cuore. Un altro caso in cui presi coscienza della insufficienza della
superstizione del progresso nei confronti della vita, fu la morte di mio
fratello. Uomo intelligente, buono, serio, egli si ammalò ancor giovane, soffrì
per più di un anno e morì tra i tormenti, senza comprendere perché aveva vissuto
e tanto meno perché moriva. Non vi erano teorie che potessero dare, né a me né a
lui, una risposta a queste domande durante il periodo della sua lenta e
tormentosa agonia.
Ma questi erano soltanto rari casi di dubbio, in sostanza io continuavo a vivere
professando solo la fede del progresso. "Tutto si sviluppa e anch'io mi
sviluppo, ma perché io mi sviluppi insieme a tutti gli altri, questo si vedrà".
Così avrei dovuto allora formulare la mia fede.
Tornato all'estero mi stabilii in campagna e mi venne fatto di occuparmi delle
scuole dei contadini. Tale occupazione mi andava particolarmente a genio perché
in essa non v'era quella menzogna, divenuta per me evidente, che nell'attività
del magistero letterario mi saltava ormai agli occhi. Anche qui io agivo in nome
del progresso, ma ormai mi rapportavo criticamente al progresso stesso. Mi
dicevo che in certe sue manifestazioni il progresso si compiva irregolarmente e
che quindi con le persone primitive, con i figli dei contadini, bisogna
comportarsi del tutto liberamente offrendo loro di scegliere la via del
progresso che essi preferiscono.
Ma in sostanza giravo sempre intorno ad uno stesso insolubile problema che
consisteva nell'insegnare senza sapere che cosa. Nelle alte sfere dell'attività
letteraria mi era chiaro che non si poteva insegnare senza sapere che cosa
insegnare, poiché vedevo che tutti insegnavano cose diverse e che le discussioni
tra di loro servivano soltanto a nascondere a se stessi la propria ignoranza, ma
qui, con i figli dei contadini, pensavo che si poteva aggirare questa difficoltà
offrendo ai ragazzi di imparare quello che volevano. Ora mi viene da ridere se
ricordo come menavo il can per l'aia per soddisfare la mia libidine e cioè
quella di insegnare, per quanto in fondo all'animo sapessi benissimo che non
potevo insegnare nulla di quello che era necessario giacché io stesso non sapevo
che cosa fosse necessario. Dopo un anno trascorso nelle attività della scuola,
andai una seconda volta all'estero per imparare là come fare ad istruire gli
altri pur non sapendo nulla io stesso.
E questo mi parve di averlo imparato all'estero, e armato di tutta questa
sapienza, nell'anno della liberazione dei contadini, tornai in Russia e, avendo
accettato il posto di arbitro conciliatore, mi misi ad istruire il popolo
incolto nelle scuole e le persone colte nella rivista che cominciai a
pubblicare. La cosa pareva funzionare bene, ma io sentivo che non ero del tutto
sano di mente e che questo non poteva durare a lungo. E sarei forse giunto
allora a quella disperazione a cui arrivai nel corso dei successivi quindici
anni se non vi fosse stato per me un lato della vita che non avevo ancora
sperimentato e che mi prometteva la salvezza: era la vita di famiglia.
Per la durata di un anno feci l'arbitro conciliatore, mi occupai delle scuole,
della rivista, e mi tormentai talmente soprattutto per il fatto che mi ero
cacciato in un vicolo cieco, e così pesante mi era diventata la lotta che
conducevo come arbitro conciliatore, così confusa mi appariva la mia attività
nelle scuole e così odiosa mi era diventata l'influenza che avevo nella rivista,
che consisteva sempre nella stessa cosa: nel desiderio di insegnare a tutti e di
nascondere il fatto che non sapevo cosa insegnare, che io mi ammalai, più
spiritualmente che non fisicamente, lasciai perdere tutto e me ne andai nella
steppa tra i baskiry a respirare aria, a bere kumys e a vivere una vita animale.
Tornato di là mi sposai. Le nuove condizioni di una felice vita familiare mi
distrassero completamente da qualsiasi ricerca del senso generale della vita.
Tutta la mia vita si concentrò in quel tempo sulla famiglia, sulla moglie, sui
figli e quindi sulle cure per aumentare i nostri mezzi di vita. L'aspirazione al
perfezionamento, che già prima era stata sostituita dall'aspirazione al
perfezionamento in generale, al progresso, venne ormai sostituita addirittura
dall'aspirazione ad avere tutto il meglio possibile per me e per la mia
famiglia.
Passarono ancora quindici anni.
Nonostante che io considerassi lo scrivere una sciocchezza, tuttavia nel corso
di questi quindici anni continuai a scrivere. Avevo ormai gustato la seduzione
dello scrivere, la seduzione di una enorme remunerazione in denaro e degli
applausi per un lavoro da nulla e mi dedicavo ad esso come ad un mezzo per
migliorare la mia situazione materiale e per soffocare nel mio animo tutte le
domande sul senso della vita mia e della vita in generale.
Scrivevo insegnando quella che era per me l'unica verità: che bisognava vivere
così da avere il meglio possibile per sé e per la propria famiglia.
Così vivevo, ma cinque anni or sono cominciò a succedermi qualcosa di molto
strano: cominciarono a prendermi da principio dei momenti di perplessità, delle
interruzioni di vita, quasi che non sapessi come vivere, cosa fare, ed io mi
smarrivo, piombavo nello sconforto. Ma questo passava ed io continuavo a vivere
come prima. Poi questi momenti di perplessità cominciarono a ripetersi sempre
più spesso e sempre nella stessa forma. Questi arresti di vita si esprimevano
sempre con le medesime domande: Perché? Be', e poi?
Dapprima mi sembrava che fossero questioni così, oziose e fuori luogo. Mi
sembrava che tutto ciò fosse risaputo e che se una volta o l'altra io avessi
voluto risolverle non avrei durato nessuna fatica, che per ora soltanto non
avevo tempo di occuparmene, ma quando mi fossi messo a pensarci, allora sì che
avrei trovato le risposte. Ma le domande sempre più spesso cominciarono a
ripetersi e sempre più insistentemente venivano richieste delle risposte e, come
tanti punti che cadessero tutti sempre nello stesso posto, queste domande senza
risposta si aggrumavano in una sola macchia nera.
Accadde ciò che accade a chiunque si ammali di una malattia interna mortale.
Dapprima compaiono trascurabili sintomi di malessere a cui il malato non fa
attenzione, poi tali sintomi si ripetono sempre più spesso e confluiscono in
un'unica sofferenza ininterrotta. La sofferenza aumenta e il malato non fa in
tempo a guardarsi intorno e ormai si accorge che ciò che aveva preso per un
malessere è la cosa per lui più importante al mondo: è la morte.
Lo stesso accadde a me. Io capii che non si trattava di un malessere casuale,
bensì di qualcosa di molto serio e che se si ripetevano sempre le stesse domande
ad esse bisognava rispondere. Le questioni sembravano così stupide, semplici,
infantili. Ma non appena mi accostai ad esse e cercai di risolverle, in quel
momento stesso mi convinsi, in primo luogo, del fatto che non erano né infantili
né stupide, ma che erano i problemi più importanti e profondi della vita e, in
secondo luogo, che per quanto pensassi, non riuscivo assolutamente a risolverli.
Prima di occuparmi del mio possesso di Samara, dell'educazione di un figlio,
della scrittura di un libro, devo sapere perché lo faccio. Fino a che non so
perché, io non posso far niente. In mezzo ai miei pensieri circa
l'amministrazione delle mie proprietà, pensieri che in quel tempo mi occupavano
molto, a un tratto mi veniva in testa la domanda: "E va bene, avrai 6000
desiatiny nel governatorato di Samara, 300 capi di cavalli, e poi..?". Ed io
rimanevo del tutto sconcertato e non sapevo cosa altro pensare. Oppure, se
cominciavo a pensare come educare i figli, mi dicevo: "Perché?". Oppure, quando
mi domandavo come potesse il popolo raggiungere il benessere, a un tratto mi
dicevo: "E a me che me ne importa?". Oppure, pensando alla gloria che mi
avrebbero procurato le mie opere, mi dicevo: "E va bene, sarai più famoso di
Gogol', di Puskin, di Shakespeare, di Molière, di tutti gli scrittori del mondo,
be' e poi..?".
E nulla, nulla io potevo rispondere.
4.
La mia vita si arrestò. Io potevo respirare, mangiare, bere, dormire, non bere,
non dormire; ma la vita non c'era perché non c'erano desideri la cui
soddisfazione mi sembrasse razionale.
Se desideravo qualcosa, sapevo in anticipo che, soddisfacessi o no il mio
desiderio, non ne sarebbe risultato niente.
Se fosse venuta una fata e mi avesse proposto di esaudire i miei desideri io non
avrei saputo cosa dire. Se nei momenti di ubriachezza avevo, non dico desideri,
ma abitudini di antichi desideri, nei momenti di lucidità sapevo che era un
inganno, che non c'era nulla da desiderare. La verità io non potevo neppure
desiderare di conoscerla, giacché intuivo in che cosa consistesse. La verità era
questa: che la vita è non-senso.
Era come se avessi vissuto molto a lungo e, cammina cammina, fossi arrivato a un
abisso e avessi visto chiaramente che davanti a me non c'era nulla, se non la
rovina: e fermarsi non si può, e tornare indietro non si può e neppure si può
chiudere gli occhi per non vedere che davanti non c'è nulla se non l'inganno
della vita e della felicità e le sofferenze vere e la vera morte:
l'annientamento completo.
La vita mi aveva disgustato; una forza invincibile mi trascinava a sbarazzarmene
in un modo qualsiasi. Non si può dire che io volessi uccidermi. La forza che mi
trascinava via dalla vita era più potente, più completa, più universale del mio
volere. Era una forza simile a quella della mia precedente aspirazione alla
vita, soltanto di segno opposto. Con tutte le mie forze aspiravo ad andarmene
dalla vita. Il pensiero del suicidio mi venne in un modo altrettanto naturale
così come prima mi erano venuti quei pensieri di migliorare la mia vita. Tale
pensiero era così allettante che io dovetti usare delle astuzie con me stesso
per non portarlo a compimento in modo troppo precipitoso. Non volevo affrettarmi
soltanto perché volevo fare tutti gli sforzi possibili per trovare il bandolo
della matassa! Se poi non lo troverò, farò sempre in tempo, dicevo a me stesso.
Ed ecco allora che io, uomo felice, portai via una corda dalla mia stanza, dove
ogni sera restavo solo a spogliarmi, per non impiccarmi a una trave fra gli
armadi e smisi di andare a caccia col fucile per non venire tentato da un modo
troppo facile di sbarazzarmi della vita. Io stesso non sapevo che cosa volevo:
avevo paura della vita, anelavo a staccarmene, e tuttavia speravo ancora
qualcosa da essa.
E questo mi accadeva in un momento in cui, da tutti i punti di vista, avevo ciò
che viene ritenuto la felicità completa: accadeva quando non avevo ancora
cinquant'anni. Avevo una moglie buona, che mi amava e che io amavo, dei bravi
figlioli, una grande proprietà che, senza fatica da parte mia, cresceva e si
ingrandiva. Ero rispettato dagli amici intimi e dai conoscenti, dagli estranei
ero lodato più di quanto non fossi mai stato, e potevo ritenere, senza
particolare vanteria, di avere raggiunto la celebrità.
Oltre a ciò io, non solo non ero malato né di corpo né di spirito, ma, al
contrario, godevo di una forza morale e fisica quale raramente ho incontrato nei
miei coetanei: fisicamente potevo lavorare alla fienagione senza restare
indietro ai muziki; intellettualmente potevo lavorare dalle otto alle dieci ore
di seguito senza risentire di tale sforzo nessuna conseguenza. E, pur trovandomi
in una situazione come questa, io giunsi a non poter più vivere e, avendo paura
della morte, dovevo adoperare tutte le astuzie nei confronti di me stesso per
non togliermi la vita.
Questo stato d'animo si esprimeva per me così: la mia vita è un certo qual
stupido e malvagio scherzo giocatomi da qualcuno. Per quanto io non riconoscessi
nessun "qualcuno" che mi avesse creato, questa forma di rappresentazione: che
qualcuno si fosse preso gioco di me in modo stupido e malvagio, mettendomi al
mondo, costituiva la forma di rappresentazione per me più naturale.
Involontariamente mi immaginavo che laggiù, da qualche parte, ci fosse qualcuno
che ora si fregava le mani vedendo come io, che avevo vissuto per 30-40 anni,
che avevo vissuto studiando, sviluppandomi, crescendo nel corpo e nello spirito,
adesso, dopo aver consolidato il mio intelletto, giunto a quel culmine della
vita da cui essa tutta si discopre, ecco, me ne stavo lì come un imbecille
rimbecillito, comprendendo chiaramente che nella vita non c'è, non c'è stato e
non ci sarà niente. "E lui se la ride..."
Ma, ci sia o non ci sia questo qualcuno che se la ride di me, non è che per
questo io stia meglio. Non potevo attribuire alcun senso razionale né ad un
singolo atto, né all'intera mia vita. Quello che mi meravigliava era soltanto
come avessi fatto a non capirlo fin da principio. Tutto ciò è noto a tutti da
così tanto tempo. Se non oggi, domani verranno le malattie, la morte (e già sono
venute) per le persone amate, per me, e non rimarrà nulla se non la putredine e
i vermi. Le cose che ho fatto, quali che siano state, tutte verranno
dimenticate; prima o poi neanche io ci sarò più. E allora perché mai darsi da
fare? Come può un uomo non vedere ciò e vivere: ecco quel che è sorprendente! Si
può vivere soltanto fino a quando si è ubriachi di vita; ma appena passa
l'ubriacatura non si può non vedere che tutto questo è soltanto un inganno, uno
stupido inganno! Certo è che non c'è niente di buffo o di spiritoso, ma è
semplicemente crudele e stupido.
Già da lungo tempo è stata raccontata la favola orientale del viandante
inseguito nella steppa da una belva inferocita. Per mettersi in salvo dalla
belva il viandante balza dentro un pozzo senza acqua, ma sul fondo del pozzo
vede un drago che spalanca le fauci per divorarlo. E l'infelice, non osando
striciar fuori per non essere sbranato dalla belva inferocita, non osando
neppure saltare sul fondo del pozzo per non essere divorato dal drago, si
afferra ai rami di un cespuglio selvatico cresciuto nelle fenditure del pozzo e
si regge ad esso. Le sue mani allentano la presa ed egli sente che presto dovrà
arrendersi alla fine che lo attende da ambedue le parti; ma egli continua a
reggersi e mentre sta aggrappato si guarda attorno e vede due topi, uno nero e
l'altro bianco che girando uno di qua e uno di là dal fusto del cespuglio a cui
sta appeso, si sono messi a roderlo. Ed ecco che il cespuglio è lì lì per
schiantarsi e precipitare ed egli cadrà nelle fauci del drago. Il viandante vede
tutto ciò e sa che inevitabilmente perirà; ma mentre sta così appeso cerca
intorno a sé e trova sulle foglie del cespuglio delle gocce di miele, le
raggiunge con la lingua e le lecca. Così anch'io mi reggo ai rami della vita
sapendo che il drago della morte, pronto a sbranarmi, mi aspetta inevitabilmente
e non posso capire come mai sono sottoposto a questa tortura. Ed io provo a
succhiare quel miele in cui prima trovavo consolazione; ma questo miele ormai
non mi rallegra più e il topo bianco e il topo nero - giorno e notte - rodono il
ramo a cui mi reggo. Vedo chiaramente il drago, e il miele non è più dolce per
me. Vedo una cosa sola: il drago inevitabile e i topi - e non posso distogliere
lo sguardo da essi. E questa non è una favola bensì la vera verità,
indiscutibile e comprensibile a tutti.
L'antico inganno delle gioie della vita che attutiva il terrore del drago ormai
non m'inganna più. Per quanto mi dica: tu non puoi comprendere il senso della
vita, non pensare, vivi: io non posso farlo, perché troppo a lungo l'ho fatto
prima. Ora io non posso non vedere i giorni e le notti che corrono via e che mi
conducono alla morte. Vedo solo questo perché solo questo è la verità. Tutto il
resto è menzogna. Quelle due gocce di miele che più a lungo delle altre hanno
fatto sì che distogliessi gli occhi dalla crudele verità e cioè l'amore per la
famiglia e quello per lo scrivere, che io chiamavo arte, ormai non sono più
dolci per me.
"La famiglia" - mi dicevo; ma la famiglia sono la moglie, i figli; anch'essi
sono degli uomini. Essi si trovano nelle medesime condizioni in cui mi trovo io:
o devono vivere nella menzogna o guardare in faccia la terribile verità. Per
quale scopo devono vivere? Per quale scopo devo amarli, proteggerli, allevarli e
tutelarli? Per farli giungere alla stessa disperazione che è in me oppure alla
ottusità! Amandoli io non posso nascondere loro la verità; ogni passo nella
conoscenza li conduce a questa verità. E la verità è la morte.
"L'arte, la poesia?...". Per lungo tempo sotto l'influenza del successo,
dell'elogio degli uomini io cercavo di convincermi che quello era un lavoro che
si poteva fare nonostante il fatto che sarebbe venuta la morte la quale avrebbe
distrutto tutto e me e le cose che avevo fatto e il ricordo di esse: ma presto
vidi che anche questo era un inganno. Mi fu chiaro che l'arte è un abbellimento
della vita, qualcosa che attrae verso la vita. Ma la vita aveva perduto per me
la sua attrattiva e come potevo io attrarre gli altri? Fino a quando la vita che
vivevo non era la mia propria, bensì la vita degli altri che mi trasportava
sulle sue onde, finché credetti che la vita avesse un senso, per quanto io non
lo sapessi esprimere, i riflessi della vita, di qualsiasi genere fossero, nella
poesia e nelle arti, mi procuravano gioia, era rallegrante per me guardare la
vita in quello specchietto dell'arte; ma quando cominciai a cercare il senso
della vita, quando sentii l'esigenza di vivere la vita mia propria, quello
specchietto mi divenne o inutile, superfluo e ridicolo oppure tormentoso. Non
era certo consolante per me il fatto di vedere nello specchietto che la mia
situazione era stupida e disperata. Era bello per me trarne gioia quando nel
fondo dell'animo credevo che la mia vita avesse un senso. Allora quel gioco di
luci e di ombre nella vita - del comico, del tragico, del commovente, del bello,
del terribile - era per me divertente. Ma da quando seppi che la vita è
insensata e terribile, il gioco nello specchietto non riuscì più a rallegrarmi.
Nessuna dolcezza poteva più essere dolce per me da quando avevo visto il drago e
i topi che rodevano il mio sostegno.
Ma questo era ancora poco. Se avessi semplicemente capito che la vita non ha
senso, avrei potuto saperlo tranquillamente, avrei potuto sapere che questo era
il mio destino. Ma io non potevo darmene pace. Se fossi stato come un uomo che è
vissuto in una foresta da cui sa che non vi è uscita, io avrei potuto vivere; ma
ero come un uomo che si è sperduto in una foresta il quale è preso dal terrore
per il fatto di essersi perduto, ed egli si butta da tutte le parti volendo
ritornare sulla buona strada, sa che ogni passo lo fa sbagliare ancor di più e
tuttavia non può fare a meno di buttarsi in qua e in là.
Ecco quel che era terribile. E per liberarmi da questo terrore io volevo
uccidermi. Provavo terrore dinnanzi a quel che mi aspettava, sapevo che questo
terrore era più terribile della mia stessa situazione, ma non potevo scacciarlo
e non potevo aspettare pazientemente la fine. Per quanto fosse convincente il
ragionamento che tanto una vena nel cuore si sarebbe rotta, oppure qualcos'altro
dentro di me sarebbe schiantato e tutto sarebbe finito, io non riuscivo ad
aspettare pazientemente la fine. Il terrore delle tenebre era troppo grande ed
io al più presto, al più presto volevo liberarmene con l'aiuto di una corda o
una pallottola. Ed era questo sentimento appunto che fortissimamente mi
trascinava al suicidio.
5.
"Ma forse mi è sfuggito qualcosa oppure qualcosa non ho capito", mi dicevo
talvolta. "Non è possibile che questo stato di disperazione sia proprio degli
uomini". E cercavo spiegazioni ai miei problemi in tutte le conoscenze che gli
uomini avevano acquisito. E cercavo tormentosamente e a lungo, e non per oziosa
curiosità, cercavo non fiaccamente, bensì cercavo tormentosamente, ostinatamente
per giorni e per notti cercavo così come cerca la salvezza un uomo che sta per
soccombere - e non trovavo nulla.
Cercavo in tutte le scienze e non soltanto non trovai nulla, ma mi convinsi che
tutti coloro i quali, come me, avevano cercato nella scienza, esattamente come
me, non avevano trovato nulla. E non soltanto non avevano trovato nulla ma
avevano riconosciuto apertamente che proprio quel che mi aveva condotto alla
disperazione - e cioè l'insensatezza della vita - era l'unica scienza
indiscutibile, che fosse accessibile all'uomo.
Io cercavo dappertutto e - grazie alla vita trascorsa nello studio e grazie
anche al fatto che, per miei rapporti con il mondo della scienza ero in contatto
con i dotti dei più svariati rami del sapere, i quali non si rifiutavano di
svelarmi tutte le loro conoscenze - non solo attraverso i libri ma anche in
conversazioni, venni a sapere tutto ciò che al problema della vita risponde la
scienza. Per lungo tempo non potei assolutamente credere che la scienza non
rispondesse ai problemi della vita niente di più di quel che essa appunto
risponde. Per lungo tempo, tenuto conto del sussiego e della serietà del tono
con cui la scienza sostiene le sue tesi che nulla hanno in comune con i problemi
della vita umana, mi sembrò che ci fosse qualcosa che io non comprendevo. Per
lungo tempo fui intimidito di fronte alla scienza e mi sembrò che la
incongruenza fra le risposte e le mie domande provenisse non da una colpa della
scienza, ma dalla mia ignoranza: e non si trattava per me né di uno scherzo né
di un divertimento, bensì era in questione tutta la mia vita ed io, volente o
nolente, dovetti convincermi che i miei problemi erano gli unici problemi
legittimi che dovevano trovarsi alla base di ogni scienza e che io non ero in
colpa con le mie domande, bensì la scienza se aveva la pretesa di rispondere a
tali domande.
La mia domanda - quella che a cinquant'anni mi conduceva al suicidio era la
domanda più semplice, quella che sta in fondo all'animo di ogni uomo, dal
bambino più stolto al vecchio più saggio, quella domanda senza la quale, come io
avevo sperimentato in concreto, la vita non è possibile. La domanda era questa:
"Che cosa verrà fuori da quello che faccio oggi, da ciò che farò domani; che
cosa verrà fuori da tutta la mia vita?"
Formulata in altro modo, la domanda sarebbe questa: "A quale scopo vivere, a
quale scopo desiderare qualcosa, a quale scopo fare qualche cosa?". In altro
modo ancora, la domanda si può formulare così: "Vi è nella mia vita un qualche
senso che non venga annullato dalla morte che mi incombe inevitabilmente?"
Proprio a questa stessa domanda, diversamente formulata, io cercavo risposta
nella scienza umana. E trovai che in rapporto a tale domanda tutte le scienze
dell'uomo si dividono per così dire in due emisferi opposti alle due estremità
dei quali vi sono due poli: uno negativo e uno positivo; ma che né a un polo né
all'altro, non vi è alcuna risposta ai problemi della vita.
Uno dei due settori è come se non ammettesse neppure che la domanda sia lecita,
mentre invece risponde con precisione e con chiarezza a questioni di propria
pertinenza, che esso si pone indipendentemente: è il settore delle scienze
sperimentali al cui punto estremo sta la matematica; l'altro settore ammette che
la domanda è lecita ma non le risponde: è il settore delle scienze speculative
al cui punto estremo c'è la metafisica.
Fin dalla prima giovinezza mi hanno interessato le scienze speculative, ma poi
mi hanno attratto anche le scienze matematiche e naturali, e fino a quando io
non mi posi chiaramente il mio problema, cioè fino a quando tale problema non
crebbe e non s'ingrandì dentro di me da sé solo, esigendo insistentemente una
soluzione, fino ad allora io mi accontentai delle pseudo-risposte che dà la
scienza.
Talvolta, restando nel campo sperimentale, mi dicevo: "Ogni cosa si sviluppa, si
differenzia, va verso la complessità e il perfezionamento ed esistono delle
leggi che guidano questo processo. Tu sei una parte del tutto. Quando avrai
compreso, per quanto è possibile, il tutto, e quando avrai compreso la legge
dello sviluppo, capirai anche sia qual è il tuo posto in questo tutto, sia te
stesso". Per quanto mi vergogni a confessarlo, pure vi è stato un tempo in cui
sembrava mi contentassi di ciò. Era per l'appunto il tempo in cui io stesso mi
sviluppavo e diventavo più complesso. I miei muscoli crescevano e si
rafforzavano, la memoria si arricchiva, la capacità di pensare e di capire
aumentava, io crescevo e mi sviluppavo e, sentendo in me questa crescita, mi
veniva naturale di pensare che proprio questa fosse la legge di tutto quanto il
mondo, e che in essa io avrei trovato soluzione anche ai problemi della mia
vita.
Ma venne il tempo in cui la crescita in me si arrestò: mi accorsi che non mi
sviluppavo, bensì mi inaridivo, i miei muscoli diventavano deboli, i denti
cadevano ed io mi resi conto che questa legge non solo non mi spiegava niente,
ma anzi che una legge simile non vi era mai stata né poteva esserci e che io
avevo preso per legge quel che avevo riscontrato in me stesso durante un
determinato periodo della mia vita. Mi rapportai in modo più rigoroso la
definizione di quella legge; e mi divenne chiaro che leggi di sviluppo infinito
non ve ne possono essere; mi divenne chiaro che dire: tutto si sviluppa, si
perfeziona, si complica, si differenzia, nel tempo e nello spazio infinito,
significa non dire assolutamente nulla. Sono tutte parole prive di significato,
giacché nell'infinito non vi è né il complicato né il semplice, né il davanti né
il dietro, né il meglio né il peggio.
Ma l'essenziale era che il mio problema personale: - che cosa sono io con i miei
desideri? - restava completamente senza risposta. Ed io compresi che quelle
scienze sono molto interessanti, molto attraenti, ma che esatte e chiare queste
scienze non sono, se non in ragione inversamente proporzionale alla loro
applicabilità alle questioni della vita: quanto più tentano di dare soluzioni
alle questioni della vita, tanto più diventano confuse e poco attraenti. Se ci
volgiamo al settore delle scienze che tentano di dare una soluzione ai problemi
della vita - e cioè la fisiologia, la psicologia, la biologia, la sociologia -
riscontriamo in esse una povertà di pensiero sbalorditiva, una suprema
indeterminatezza, una pretesa del tutto ingiustificata di risolvere questioni
che non sono di loro competenza e continue contraddizioni di un pensatore con
gli altri e perfino con se stesso. Se ci volgiamo al settore delle scienze che
non si preoccupano della soluzione dei problemi della vita, ma che invece
risolvono questioni scientifiche, specialistiche di loro competenza, rimaniamo
ammirati della forza dell'intelletto umano, ma sappiamo in anticipo che risposte
ai problemi della vita non ce ne saranno. Queste scienze ignorano addirittura il
problema della vita. Esse dicono: "Noi non abbiamo risposta alla domanda: "Chi
sei tu e perché vivi?" e di questo non ci occupiamo; ma ecco, se hai bisogno di
conoscere le leggi delle combinazioni chimiche, della luce, le leggi di sviluppo
degli organismi, se hai bisogno di conoscere le leggi dei corpi, delle loro
forme e la relazione tra numeri e grandezze, se hai bisogno di conoscere le
leggi del tuo intelletto, a tutto ciò noi abbiamo risposte chiare, precise,
sicure".
In generale il rapporto delle scienze sperimentali con il problema della vita
può essere espresso così: Domanda: Perché io vivo? Risposta: Nello spazio
infinitamente grande, in un tempo infinitamente lungo, particelle infinitamente
piccole si modificano in una complessità infinita e quando tu avrai capito le
leggi di tali modificazioni, allora avrai capito anche perché vivi.
Talvolta, restando nel campo speculativo, mi dicevo: "Tutta l'umanità vive e si
svilupppa sulla base dei princìpi spirituali, degli ideali che la guidano.
Questi ideali si esprimono nelle religioni, nelle scienze, nelle arti, nelle
forme della statualità. Questi ideali diventano sempre più alti e l'umanità va
verso il bene supremo. Io sono una parte dell'umanità e quindi la mia missione
consiste nel cooperare alla presa di coscienza e alla realizzazione degli ideali
dell'umanità". E al tempo della mia stoltezza questo mi appagava; ma non appena
il problema della vita mi si pose chiaramente, tutta questa teoria crollò
istantaneamente. Per non parlare della approssimazione, in qualche modo
scorretta, con cui le scienze di questo tipo fanno passare per deduzioni
generali. Deduzioni tratte dallo studio di una piccola parte dell'umanità, per
non parlare delle contraddizioni interne tra i diversi sostenitori di questo
modo di vedere, quando cercano di definire in che cosa consistano gli ideali
dell'umanità, per non parlare di tutto questo, la stranezza - per non dire la
stupidità - di questo modo di vedere sta in ciò, che, per rispondere alla
domanda che sta di fronte a ogni uomo "che cosa sono io?" oppure "perché vivo?"
oppure "che cosa devo fare?" l'uomo debba prima risolvere la questione "che cosa
è la vita di tutta una umanità a lui sconosciuta, di cui gli è nota soltanto una
minuscola parte in un minuscolo periodo di tempo?" Per capire che cosa egli sia,
un uomo dovrebbe prima capire che cosa sia tutta questa misteriosa umanità
formata di tanti uomini simili a lui e che, come lui, non capiscono se stessi.
Devo confessare che c'è stato un tempo in cui io credevo questo. Era un tempo in
cui avevo degli ideali prediletti che giustificavano i miei capricci e mi ero
sforzato di inventare una teoria in base alla quale io potessi considerare i
miei capricci come una legge dell'umanità. Ma non appena il problema della vita
sorse nel mio animo in tutta la sua chiarezza, questa soluzione fu
immediatamente ridotta in polvere. Ed io capii che, come fra le scienze
sperimentali esistono le scienze vere e le semiscienze che tentano di dare
risposte a domande che non sono di loro competenza, così anche in questo campo
esiste tutta una serie di cognizioni - quelle più diffuse - le quali tentano di
rispondere a questioni non di loro competenza. Queste semiscienze e cioè le
scienze giuridiche, sociali e storiche - tentano di risolvere i problemi
dell'uomo facendo come se, ognuna per conto proprio, esse apparentemente
risolvessero il problema della vita di tutta l'umanità.
Ma come nel campo delle scienze sperimentali l'uomo che si chieda sinceramente
come debba vivere non può contentarsi della risposta: "Studia nello spazio
infinito i mutamenti infiniti nel tempo e nella complessità delle particelle
infinite, e allora comprenderai la tua vita", esattamente allo stesso modo,
l'uomo sincero non può contentarsi della risposta: "Studia la vita di tutta
l'umanità, di cui non possiamo conoscere né il principio né la fine e di cui
neppure una piccola parte conosciamo, e allora comprenderai la tua vita". Ed
esattamente allo stesso modo come nel campo delle semiscienze sperimentali,
anche queste semiscienze sono tanto più ricolme di oscurità, di imprecisioni, di
sciocchezze e di contraddizioni, quanto più esse si sottraggono ai loro compiti.
Compito della scienza sperimentale è quello di studiare la consequenzialità
causale dei fenomeni materiali. Basta che la scienza sperimentale introduca la
questione della causa finale e ne vien fuori una scempiaggine. Compito della
scienza speculativa è quello di comprendere l'essenza non causale della vita.
Basta introdurre l'indagine sui fenomeni causali, come i fenomeni sociali,
storici, e ne vien fuori una scempiaggine.
La scienza sperimentale dà una conoscenza positiva e mostra la grandezza
dell'intelletto umano soltanto quando non include nei suoi studi la ricerca
della causa ultima. Ed al contrario la scienza speculativa è scienza e mostra la
grandezza dell'intelletto umano soltanto quando prescinde completamente dai
problemi della consequenzialità dei fenomeni causali e considera l'uomo soltanto
in rapporto alla causa ultima. Tale, in questo campo, è la scienza che
costituisce il polo di questo emisfero: la metafisica o filosofia speculativa.
Questa scienza pone chiaramente la domanda: "Che cosa sono io e che cosa è tutto
il mondo? e perché ci sono io e perché c'è tutto il mondo?" E, da quando esiste,
essa risponde sempre allo stesso modo. Sia che il filosofo chiami idee, oppure
essenze, oppure spirito, oppure volontà, l'essenza di vita che è in me e in
tutto l'esistente, egli dice sempre la stessa cosa: che questa essenza esiste e
che l'io è questa stessa essenza; ma perché essa esista egli non lo sa e se è un
vero pensatore non risponderà. Io domando: "perché questa essenza esiste? Che
cosa deriverà dal fatto che essa esiste e continuerà a esistere?" ...E la
filosofia non solo non risponde, ma da parte sua continua a chiedere soltanto
questo. E, se è vera filosofia, tutto il suo lavoro consiste soltanto in ciò,
nel porre chiaramente questo problema. E se si tiene strettamente al suo
compito, alla domanda: "Che cosa sono io e che cosa è tutto il mondo?", essa non
può rispondere se non "tutto e nulla"; e alla domanda "Perché esiste il mondo e
perché esisto io?", non può rispondere altro che "non so".
Così che, per quanto io rigiri queste risposte speculative della filosofia, in
nessun modo riceverò qualcosa che assomigli ad una risposta, e ciò non perché,
come in campo sperimentale, esatto, la risposta non sia pertinente alla mia
domanda, ma perché qui, sebbene tutto il lavoro della ragione sia concentrato
appunto sul mio problema, una risposta non c'è, e invece della risposta si
ottiene quella stessa domanda, soltanto in una forma ulteriormente complicata.
6.
Nelle mie ricerche di risposte al problema della vita provavo esattamente lo
stesso sentimento che prova un uomo il quale si sia sperduto nella foresta.
Sbocca in una radura, si arrampica su un albero e vede distintamente degli spazi
sconfinati, ma vede pure che una casa là non c'è e non ci può essere, si
addentra nel folto, nell'oscurità, e scruta le tenebre e anche lì niente,
nessuna casa.
Così io andavo vagando in questa foresta delle scienze umane fra le radure delle
scienze matematiche e sperimentali che mi aprivano orizzonti nitidi, ma tali che
nella loro direzione non vi poteva essere neppure una casa, e fra le tenebre
delle scienze speculative, nelle quali finii per immergermi in un buio sempre
più fitto, via via che avanzavo, finché mi convinsi del fatto che un'uscita non
c'era e non poteva esserci.
Se mi volgevo al lato chiaro delle scienze, capivo che non facevo altro se non
distogliere gli occhi dal problema. Per quanto attraenti, nitidi fossero gli
orizzonti che mi si aprivano dinnanzi, per quanto piacevole fosse immergermi
nell'infinito di queste scienze, avevo ormai compreso che esse, queste scienze,
erano tanto più chiare quanto meno mi erano necessarie e quanto meno fornivano
risposte al problema. "Ebbene, io so - mi dicevo - tutto quel che la scienza
così ostinatamente desidera sapere, ma una risposta alla domanda circa il senso
della mia vita su questa strada non c'è".
Nel campo speculativo capivo che nonostante, o forse proprio perché il fine
della scienza si riassumeva tutto nella risposta da dare alla mia domanda, non
c'era altra risposta se non quella che io stesso mi ero dato: "Qual è il senso
della mia vita?" - Nessuno - Ovvero: "Perché esiste tutto ciò che esiste e
perché esisto io?" - Esiste perché esiste.
Interrogando una parte delle scienze prodotte dagli uomini io ricevevo
un'innumerevole quantità di risposte precise su quel che non chiedevo: sulla
composizione chimica delle stelle, sul moto del sole verso la costellazione
d'Ercole, sull'origine delle specie e dell'uomo, sulle forme degli atomi
infinitamente piccoli, sulla vibrazione delle particelle imponderabili
infinitamente piccole dell'etere; ma la risposta alla mia domanda: in che cosa
consiste il senso della mia vita?, in questo settore delle scienze era una sola:
tu sei quel che tu chiami la tua vita, tu sei un temporaneo, casuale
concatenamento di particelle. L'azione reciproca, il modificarsi di queste
particelle produce in te ciò che tu chiami la tua vita. Questo concatenamento
resisterà per qualche tempo; poi dopo, l'azione reciproca di queste particelle
cesserà e cesserà quel che tu chiami vita e cesseranno anche tutti i tuoi
problemi. Tu sei un pallottolino di un qualche cosa che si è formato per caso.
Il pallottolino fermenta e chiama vita questa sua fermentazione. Il pallottolino
si dissolverà e allora finiranno la fermentazione e tutti i problemi. Così
risponde la parte chiara delle scienze e non può dire nient'altro se soltanto si
attiene rigorosamente ai propri fondamenti.
Da ciò risulta che la risposta non è una risposta. Io ho bisogno di sapere qual
è il senso della mia vita, e il fatto che essa sia una particella dell'infinito
non solo non le dà alcun senso, ma anzi distrugge ogni possibile senso.
Queste confuse contaminazioni del settore della scienza sperimentale, esatta,
con la speculazione, e in base alle quali si dice che il senso della vita
consiste nello sviluppo e nella cooperazione a tale sviluppo, non possono
considerarsi delle risposte a causa della loro imprecisione e mancanza di
chiarezza.
L'altro settore della scienza, quello speculativo, qualora si attenga
rigorosamente ai suoi fondamenti, se risponde in modo diretto alla domanda, dà,
e ha dato dovunque e sempre, la stessa risposta: il mondo è qualcosa di infinito
e di incomprensibile. La vita umana è parte inintelligibile di questo
inintelligibile "tutto". Ancora una volta io prescindo da tutte quelle
contaminazioni tra scienze speculative e scienze sperimentali che costituiscono
la zavorra delle semiscienze, delle cosiddette scienze giuridiche, politiche,
storiche. In queste scienze, altrettanto erroneamente, vengono di nuovo
introdotti i concetti di sviluppo, di perfezionamento, con la sola differenza
che là si trattava dello sviluppo del tutto, mentre qui si tratta di quello
della vita degli uomini. L'errore è esattamente lo stesso: lo sviluppo, il
perfezionamento nell'infinito non può avere né scopo né direzione e, per quanto
riguarda il mio problema, non dà nessuna risposta. Là dove la scienza
speculativa è precisa, nella filosofia vera, non in quella che Schopenhauer
chiamava filosofia professorale, la quale serve soltanto a distribuire tutti i
fenomeni esistenti in nuove rubriche filosofiche e a chiamarli con nuovi nomi;
là dove il filosofo non perde di vista il problema essenziale, la risposta è
sempre la stessa, è la risposta che è stata data da Socrate, da Schopenhauer, da
Salomone, da Buddha.
"Noi di tanto ci avviciniamo alla verità, di quanto ci allontaniamo dalla vita"
dice Socrate preparandosi alla morte. "A che cosa noi, amanti della verità,
aspiriamo in vita? A essere liberati dal corpo e da tutto il male che scaturisce
dalla vita del corpo". Se così è, come non rallegrarci quando la morte viene a
noi?
"Il saggio per tutta la vita cerca la morte e perciò la morte non gli fa paura".
"Avendo riconosciuto nella volontà l'essenza in sé del mondo" dice Schopenhauer
"e in tutti i fenomeni del mondo null'altro che l'oggettività di lei; avendo
questa oggettività perseguito dall'inconsapevole impulso delle oscure forze
naturali fino alle più lucide azioni umane, non vogliamo sfuggire alla
conseguenza: che con libera negazione, con la soppressione della volontà,
vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere
senza meta e senza posa, per tutti i gradi dell'oggettività, nel quale e
mediante il quale il mondo consiste; soppressa la varietà delle forme
succedentesi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il suo
fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e
da ultimo ancora la più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto.
Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non
resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro questo dissolvimento
nel nulla, la nostra natura, è anch'essa nient'altro che la volontà di vivere ("Wille
zum Leben"). Volontà di vivere siamo noi stessi. Volontà di vivere è il nostro
mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione
del come avidamente vogliamo la vita e nient'altro siamo se non questa volontà,
e niente conosciamo se non lei... quel che rimane dopo la soppressione completa
della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il
nulla. Ma viceversa, per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa
e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue
vie lattee, è - il nulla". "Vanità delle vanità" dice Salomone "Vanità delle
vanità; tutto è vanità! Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che dura sotto
il sole? Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste in
perpetuo... Quello ch'è stato è quel che sarà; quel che si è fatto è quel che si
farà; non v'è nulla di nuovo sotto il sole. V'ha egli qualcosa della quale si
dica: "Guarda, questo è nuovo?". Quella cosa esisteva già nei secoli che ci
hanno preceduto. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; e di quel che
succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme e ho applicato il cuore
a cercare e ad investigare con sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo:
occupazione penosa, che Dio ha dato ai figliuoli degli uomini perché vi si
affatichino. Io ho veduto tutto ciò che si fa sotto il sole; ed ecco tutto è
vanità e tormento di spirito... Io ho detto, parlando in cuor mio: "Ecco io ho
acquistato maggior sapienza di tutti quelli che hanno regnato prima di me in
Gerusalemme"; sì, il mio cuore ha posseduto molta sapienza e molta scienza. E ho
applicato il cuore a conoscere la sapienza, e a conoscere la follia e la
stoltezza; e ho riconosciuto che anche questo è un tormento di spirito. Poiché
dov'è molta sapienza v'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce
il suo dolore.
Io ho detto in cuor mio: "Andiamo! Io ti voglio mettere alla prova con la gioia,
e tu godrai il piacere!". Ed ecco che anche questo è vanità. Io ho detto del
riso: "E' una follia"; e della gioia "A che giova?". Presi quindi in cuor mio la
risoluzione di abbandonare la carne alle attrattive del vino e, pur lasciando
che il mio cuore mi guidasse saviamente, d'attenermi alla follia, finché io
vedessi ciò ch'è bene che gli uomini facciano sotto il cielo, durante il numero
dei giorni della loro vita. Io intrapresi dei grandi lavori; mi edificai delle
case; mi piantai delle vigne; mi feci dei giardini e dei parchi, e vi piantai
degli alberi fruttiferi d'ogni specie; mi costruii degli stagni per adacquare
con essi il bosco dove crescevano gli alberi; comprai servi e serve, ed ebbi dei
servi nati in casa; ebbi pure greggi ed armenti, in gran numero, più di tutti
quelli che erano stati prima di me a Gerusalemme; accumulai argento, oro, e le
ricchezze dei re e delle province; mi procurai dei cantanti e delle cantanti, e
ciò che fa la delizia dei figliuoli degli uomini; strumenti musicali d'ogni
maniera. Così divenni grande e sorpassai tutti quelli che erano stati prima di
me a Gerusalemme; e la mia sapienza rimase pur sempre meco. Di tutto quello che
i miei occhi desideravano io nulla rifiutai loro; non privai il cuore d'alcuna
gioia... Poi considerai tutte le opere che le mie mani avevano fatte, e la
fatica che avevo durato a farle, ed ecco che tutto era vanità e tormento di
spirito, e che non se ne trae alcun profitto sotto il sole. Allora mi misi ad
esaminare la sapienza, la follia e la stoltezza... Ma ho riconosciuto pure che
tutti... hanno la medesima sorte. Onde io ho detto in cuor mio: "La sorte che
tocca allo stolto tocca anche a me; perché dunque essere stato così savio?" E ho
detto in cuor mio che anche questo è vanità. Poiché tanto del savio quanto dello
stolto non rimane ricordo eterno; giacché, nei giorni a venire, tutto sarà da
tempo dimenticato. Purtroppo il savio muore al pari dello stolto! Perciò io ho
odiato la vita, perché tutto ciò che si fa sotto il sole m'è divenuto odioso,
poiché tutto è vanità e un tormento di spirito. Ed ho odiata ogni fatica che ho
durata sotto il sole, e di cui debbo lasciare il godimento a colui che verrà
dopo di me... Difatti che profitto trae l'uomo da tutto il suo lavoro, dalle
preoccupazioni del suo cuore, da tutto quel che gli è costato tanta fatica sotto
il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolore, la sua occupazione non è che
fastidio; perfino la notte il suo cuore non posa. Anche questo è vanità. Non v'è
nulla di meglio per l'uomo del mangiare, del bere e del far godere all'anima sua
il benessere in mezzo alla fatica che dura...
Tutto succede ugualmente a tutti; la medesima sorte attende il giusto e l'empio,
il buono e puro e l'impuro, chi offre sacrifizi e chi non li offre; tanto è il
buono quanto il peccatore, tanto è colui che giura quanto chi teme di giurare.
Questo è un male tra tutto quello che si fa sotto il sole: che tutti abbiano la
medesima sorte; e così il cuore dei figliuoli degli uomini è pieno di malvagità
e hanno la follia nel cuore mentre vivono; poi, se ne vanno ai morti... Per chi
è associato a tutti gli altri viventi c'è speranza: perché un cane vivo val
meglio di un leone morto. Difatti i viventi sanno che morranno; ma i morti non
sanno nulla e non v'è più per essi alcun salario; poiché la loro memoria è
dimenticata; e il loro amore come il loro odio e la loro invidia sono da lungo
periti, ed essi non hanno più e non avranno mai alcuna parte in tutto quello che
si fa sotto il sole".
Così dice Salomone, o colui che ha scritto queste parole.
Ed ecco ciò che dice la saggezza indiana:
Sakya-Muni, un giovane principe felice, cui erano state nascoste le malattie, la
vecchiaia, la morte, va a fare una passeggiata in carrozza e vede un vecchio
spaventevole, sdentato e bavoso. Il principe, al quale fino a quel momento la
vecchiaia era stata tenuta nascosta, si meraviglia e chiede al cocchiere che
cosa sia mai e perché quell'uomo sia giunto a ridursi in uno stato così pietoso
e indecente. E quando viene a sapere che questa è la sorte comune a tutti gli
uomini, che anche su di lui, giovane principe, inevitabilmente incombe lo stesso
destino, egli non può più continuare la sua passeggiata, dà ordine di tornare
indietro per meditare su tutto ciò. E si chiude a chiave da solo, e riflette. E
probabilmente riesce a inventarsi una consolazione qualsiasi perché di nuovo
felice e contento riparte per una passeggiata. Ma questa volta gli si fa
incontro un malato. Egli vede un uomo macilento, livido, vacillante, con gli
occhi intorbiditi. Il principe, al quale erano state tenute nascoste le
malattie, si ferma e chiede di che si tratta. E quando viene a sapere che è la
malattia, che ad essa tutti gli uomini sono soggetti, e che anche lui, principe
felice e sano, domani può ammalarsi allo stesso modo, ancora una volta non se la
sente più di divertirsi e dà ordine di tornare, e di nuovo cerca di ritrovare la
calma e probabilmente ci riesce perché per la terza volta inizia una
passeggiata; ma anche questa volta egli vede un nuovo spettacolo; vede che
stanno trasportando qualcosa: "Che cos'è?" "Un uomo morto"; "Che significa
morto?", chiede il principe. Gli dicono che diventare morto significa diventare
com'è diventato quell'uomo. Il principe si avvicina al morto, lo scopre e lo
guarda: "Che ne sarà di lui, dopo?", chiede il principe. Gli dicono che lo
metteranno sotto terra. "Perché?"; "Giacché egli certamente non sarà mai più
vivo e da lui verranno solo putredine e vermi"; "E questa è la sorte di tutti
gli uomini? Anche per me sarà la stessa cosa? Mi sotterreranno e da me verrà
fuori putredine e mi mangeranno i vermi?"; "Sì". "Torniamo indietro! Non voglio
continuare la passeggiata e non ne farò mai più". E Sakya-Muni non riusciva a
trovare consolazione nella vita e decise che la vita era il più grande dei mali
e adoperava tutte le forze dell'animo per liberarsene e per liberarne gli altri.
In modo tale che anche dopo la morte la vita non si rinnovasse come che sia, in
modo da distruggere la vita del tutto, alle radici. Tutta la saggezza indiana
dice questo.
Ed ecco quali sono le risposte appropriate che dà la saggezza umana quando
risponde al problema della vita.
"La vita del corpo è male e menzogna. E perciò la distruzione di questa vita del
corpo è un bene e noi dobbiamo desiderarla", dice Socrate. "La vita è quello che
non dovrebbe esserci, è un male, e il passaggio al nulla è l'unico bene della
vita", dice Schopenhauer.
"Tutto al mondo - la stoltezza e la sapienza, la ricchezza e la miseria,
l'allegria e il dolore - tutto è vanità e futilità. L'uomo muore e non resta
nulla. E questo è stolto", dice Salomone.
"Vivere con la coscienza dell'inevitabilità delle sofferenze, del venir meno
delle forze, della vecchiaia e della morte, non si può: bisogna liberarsi della
vita, di ogni possibilità di vita", dice Buddha.
E quello che hanno detto questi forti intelletti, lo hanno detto, pensato e
sentito milioni di milioni di uomini simili a loro. E lo penso e lo sento
anch'io.
Cosicché il mio vagabondare fra le scienze non solo non mi ha tratto fuori dalla
disperazione, ma l'ha soltanto rafforzata. Una scienza non dava risposte ai
problemi della vita, un'altra scienza la dava, confermando addirittura la mia
disperazione e dimostrando che quello a cui ero arrivato non era frutto di un
mio errore, di uno stato morboso del mio intelletto, bensì, al contrario, mi
confermava che avevo pensato in modo giusto e che concordavo con le conclusioni
dei più forti intelletti dell'umanità.
Non c'è da illudersi. Tutto è vanità. Felice colui che non è nato, la morte è
migliore della vita; bisogna sbarazzarsi della vita.
7.
Non trovando una spiegazione nella scienza, cominciai a cercarla nella vita,
sperando di trovarla tra gli uomini che mi circondavano, e mi misi ad osservare
gli uomini tali e quali a me, a guardare come essi vivevano intorno a me e come
si rapportavano al problema che mi aveva condotto alla disperazione.
Ed ecco ciò che trovai negli uomini che si trovavano nella mia stessa situazione
per cultura e per genere di vita.
Trovai che per gli uomini della mia cerchia vi sono quattro vie d'uscita dalla
terribile situazione in cui tutti ci troviamo.
La prima via è quella dell'ignoranza. Essa consiste in ciò, nel non sapere, nel
non comprendere che la vita è male e non-senso. Le persone di questa categoria -
per la maggior parte donne, oppure uomini molto giovani e molto ottusi - non
hanno ancora capito il problema della vita che si era presentato a Schopenhauer,
a Salomone, a Buddha. Esse non vedono né il drago che le attende, né i topi che
rodono i cespugli a cui si reggono e leccano le gocce di miele. Ma leccano le
gocce di miele solo fino al momento in cui qualcosa attirerà la loro attenzione
sul drago e sui topi, e allora questo loro leccare il miele avrà fine. Da loro
non ho nulla da imparare, non si può cessare di sapere quello che si sa.
La seconda via è quella dell'epicureismo. Essa consiste in ciò: pur conoscendo
la situazione disperata della vita, nel profittare per il momento dei beni che
ci sono, nel non guardare né il drago né i topi, ma nel leccare il miele nel
miglior modo possibile, specialmente se sul cespuglio ce n'è molto. E' quello
che Salomone esprime così: "Così io ho lodata la gioia, perché non v'è per
l'uomo altro bene sotto il sole, fuori del mangiare, del bere e del gioire;
questo è quello che lo accompagnerà in mezzo al suo lavoro, durante i giorni di
vita che Dio gli dà sotto il sole.
Mangia il tuo pane con gioia e bevi il tuo vino con cuore allegro... Godi la
vita con la donna che ami durante tutti i giorni della vita della tua vanità,
che Dio t'ha data sotto il sole per tutto il tempo della tua vanità; poiché
questa è la tua parte nella vita, in mezzo a tutta la fatica che duri sotto il
sole...
Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze; poiché
nel soggiorno dei morti dove vai, non v'è più né lavoro, né pensiero, né
scienza, né sapienza".
A questa seconda via si attiene la maggioranza delle persone della nostra
cerchia. Le condizioni in cui si trovano fanno sì che esse abbiano più beni che
mali, e l'ottusità morale dà loro la possibilità di dimenticare che i vantaggi
della loro situazione sono accidentali, che non tutti possono avere 1000 donne e
palazzi come Salomone, che per ogni uomo che ha 1000 donne vi sono 1000 uomini
senza donne e che per ogni palazzo vi sono 1000 uomini che lo costruiscono col
sudore della fronte e che quella stessa casualità che oggi mi ha fatto essere
Salomone, domani può farmi essere lo schiavo di Salomone. L'ottusità
dell'immaginazione di queste persone dà loro la possibilità di dimenticare
quello che non dava pace a Buddha; l'ineluttabilità della malattia, della
vecchiaia e della morte, la quale, se non oggi, domani distruggerà tutti questi
piaceri. Il fatto che alcune di queste persone affermino che l'ottusità del loro
pensiero e della loro immaginazione è la filosofia che esse chiamano positiva
non le distingue, a mio parere, dalla categoria di coloro che, non vedendo il
problema, leccano il miele. E queste persone io non le potevo imitare: non
avendo la loro ottusità di immaginazione, io non potevo produrla artificialmente
in me. Io non potevo staccare gli occhi dai topi e dal drago, come qualsiasi
altra persona vivente non può farlo, una volta che li abbia visti.
La terza via è quella della forza e dell'energia. Essa consiste in ciò, nel
distruggere la vita, dopo aver compreso che la vita è un male e un non-senso.
Così fanno le rare persone che sono forti e conseguenti. Avendo compreso tutta
la stupidità dello scherzo che è stato loro giocato e avendo compreso che il
bene dei morti è superiore al bene dei vivi e che meglio di tutto è il
non-essere, esse si comportano proprio così e di colpo mettono fine a questo
stupido scherzo, tanto più che per fortuna i mezzi ci sono: un cappio al collo,
l'acqua, un coltello per trapassarsi il cuore, i treni sulle strade ferrate. E
le persone della nostra cerchia che agiscono così diventano sempre più e più
numerose. E, per la maggior parte, così agiscono le persone nel miglior periodo
della vita, quando le forze dell'animo sono in piena fioritura e le abitudini
degradanti per l'intelletto umano, che hanno acquisito, sono ancora poche. Io
vedevo che questa era la via d'uscita più degna e avrei voluto agire così.
La quarta via è quella della debolezza. Essa consiste in ciò, nel continuare a
trascinare la vita, pur comprendendone il male e l'insensatezza, e sapendo in
anticipo che non ne può risultare nulla. Le persone di questa specie sanno che
la morte è meglio della vita, ma, non avendo la forza di agire ragionevolmente,
di mettere fine al più presto all'inganno ed uccidersi, è come se aspettassero
qualcosa. Questa è la via d'uscita della debolezza, giacché, se io so che cosa è
il meglio ed esso è in mio potere, perché non affidarsi al meglio?... Io
appartenevo a questa categoria.
Le persone della mia stessa specie, dunque, si salvano dalla terribile
contraddizione attraverso quattro vie. Per quanto io tendessi tutte le forze
della mia attenzione intellettuale, eccetto queste quattro vie, non vedevo
nient'altro. Prima via: non capire che la vita è non-senso, vanità e male e che
è meglio non vivere. Io non potevo ignorare ciò e, sapendolo, non potevo
chiudere gli occhi. Altra via: godere della vita così com'è, senza pensare al
futuro. E questo non potevo farlo. Io, come Sakya-Muni, non potevo andarmene a
caccia quando sapevo che esistono la vecchiaia, le sofferenze, la morte.
L'immaginazione era in me troppo viva. Inoltre io non riuscivo a rallegrarmi di
un'occasione fugace che mi concedeva per un istante in sorte il piacere. Terza
via: avendo compreso che la vita è soltanto male e stupidità, interromperla,
uccidersi. Io l'avevo capito, eppure, chissà perché, ancora non mi uccidevo.
Quarta via: vivere nella situazione di Salomone, di Schopenhauer, cioè sapere
che la vita è uno stupido scherzo che mi è stato giocato, e ciò nonostante
vivere, lavarsi, vestirsi, pranzare, parlare e perfino scrivere dei libri.
Questo era per me ripugnante, tormentoso, e tuttavia restavo in questa
situazione. Ora vedo che, se non mi sono ucciso, fu a causa di una vaga
coscienza del disorientamento dei miei pensieri. Per quanto convincente e
indubitabile mi sembrasse il corso dei miei pensieri e dei pensieri dei saggi
che ci hanno condotto a comprendere il non-senso della vita, pure rimaneva in me
un vago dubbio sulla giustezza del punto di partenza del mio ragionamento.
Il dubbio era questo: Io - o la mia ragione - abbiamo riconosciuto che la vita
non è razionale. Se una ragione suprema non esiste (ed essa non esiste, e nulla
può dimostrare che esista), allora il creatore della vita è per me la ragione.
Se non ci fosse la ragione, secondo me non ci sarebbe neppure la vita. E come fa
questa ragione a negare la vita, se essa stessa è l'autore della vita? Ma,
d'altra parte, se non ci fosse la vita, non ci sarebbe neppure la mia ragione,
vale a dire la ragione è figlia della vita! La vita è tutto. La ragione è frutto
della vita, eppure la ragione nega nientemeno che la vita. Io sentivo che qui
c'era qualcosa che non andava.
La vita è un male senza senso, questo è indubbio, mi dicevo. Ma io ho vissuto,
vivo ancora, e tutta l'umanità ha vissuto e vive. E come mai? E perché essa vive
quando potrebbe non vivere?
Il ragionamento sulla vanità della vita non è poi così ingegnoso; da tempo tutte
le persone, anche le più semplici lo fanno, e tuttavia hanno vissuto e vivono.
Perché, allora, continuano a vivere e non gli viene mai in mente di dubitare
della razionalità della vita?
La mia conoscenza, confermata dalla saggezza dei saggi, mi aveva rivelato che
tutto al mondo, ciò che è organico e ciò che è inorganico, tutto è strutturato
in modo straordinariamente intelligente e che soltanto la mia situazione è
stupida. Ma quegli imbecilli - le enormi masse di uomini semplici - non sanno
nulla di come tutto l'organico e l'inorganico sia strutturato nel mondo, eppure
vivono e sembra loro che la vita sia strutturata in modo molto razionale.
E mi venne in testa: ma se ci fosse qualcosa che io ancora non so? Giacché
proprio così si comporta l'ignoranza. Essa, infatti, dice sempre la stessa cosa.
Quando non sa qualcosa, dice che quello che non sa è sciocco. In effetti risulta
che vi è un'umanità intera che ha visuto e che vive come se comprendesse il
senso della propria vita, giacché non comprendendolo non avrebbe potuto vivere,
e io invece dico che tutta questa vita è un non-senso, e non posso vivere.
Nessuno impedisce a me e a Schopenhauer di negare la vita. Ma allora ucciditi e
non ragionerai più. La vita non ti piace? Ucciditi. E se vivi senza riuscire a
capire qual è il senso della vita, ebbene allora falla finita e non tirarla in
lungo, seguitando a raccontare e a scrivere che non la capisci. Sei capitato in
mezzo a un'allegra compagnia, tutti si trovano bene, sanno quel che fanno e tu
invece ti annoi e trovi tutto ripugnante, e allora vattene.
Ma in effetti noi, che siamo convinti della necessità del suicidio, ma che non
ci decidiamo a compierlo, che cosa siamo, se non gli uomini più deboli,
incoerenti e, per dirla semplicemente, i più stupidi, che si beano della propria
stupidità, come il tonto si bea di un paniere variopinto? La nostra sapienza,
per quanto indubbiamente tale, non ci ha dato di conoscere il senso della nostra
vita. Mentre tutta l'umanità, che è quella che costruisce la vita, e sono
milioni di uomini, non ha dubbi sul senso di essa.
In effetti fin da tempi lontanissimi, fin da quando esiste la vita di cui io so
qualche cosa, sono vissuti degli uomini i quali, pur conoscendo quel
ragionamento sulla vanità della vita, che me ne ha mostrato il non-senso,
tuttavia sono vissuti attribuendole un certo qual senso. Da quando una qualche
vita degli uomini ha avuto inizio, in loro questo senso della vita c'era già, ed
essi hanno condotto quella vita che è giunta fino a me. Tutto quello che è in me
e intorno a me, tutto ciò è frutto della loro scienza della vita. Quegli stessi
strumenti del pensiero con i quali io analizzo questa vita e la condanno, tutto
quanto è stato fatto da loro e non da me. Io stesso sono nato, sono stato
educato, sono cresciuto grazie a loro. Essi hanno estratto il ferro, hanno
insegnato a tagliare la legna, hanno addomesticato mucche, cavalli, hanno
insegnato a seminare, hanno dato un ordine alla nostra vita; essi mi hanno
insegnato a pensare, a parlare.
Io, che sono un loro prodotto, io che sono stato nutrito, allevato, istruito da
loro, che penso con il loro pensiero e con le loro parole, proprio io ho
dimostrato loro che essi sono un non-senso! "Qui c'è qualcosa che non va" mi
dicevo. "Non so dove, ma devo essermi sbagliato". Però non riuscivo in alcun
modo a trovare dove fosse l'errore.
8.
Tutti questi dubbi che ora io sono in grado di esporre più o meno coerentemente,
allora non avrei saputo esprimerli. Allora sentivo soltanto che, per quanto
logicamente inevitabili fossero le mie conclusioni sulla vanità della vita,
confermate dai più grandi pensatori, c'era in esse qualcosa che non andava. Se
fosse nel ragionamento stesso, nel modo d'impostare il problema, non lo so.
Sentivo soltanto che la sua persuasività sul piano razionale era assoluta, ma
che non bastava. Tutte quelle argomentazioni non riuscivano a convincermi fino
al punto di farmi fare ciò che derivava dai miei ragionamenti e cioè uccidermi.
Direi una bugia se dicessi che fu con la ragione che arrivai fin dove arrivai e
non mi uccisi. La ragione lavorava, ma lavorava anche qualcos'altro che io non
posso chiamare altrimenti che la coscienza della vita. Lavorava inoltre anche
una forza che mi obbligava a rivolgere l'attenzione a questa piuttosto che a
quella, e fu tale forza che mi trasse fuori dalla mia situazione disperata e
indirizzò la ragione in modo completamente diverso. Tale forza mi obbligava a
tener conto del fatto che io e qualche centinaio di uomini simili a me non
eravamo tutta l'unanità, che la vita dell'umanità io ancora non la conoscevo.
Se consideravo la ristretta cerchia dei miei coetanei, vedevo soltanto persone
che non avevano capito il problema, oppure che avevano capito il problema e lo
soffocavano con l'ubriacatura della vita, oppure che l'avevano capito e
mettevano fine alla loro vita, oppure che l'avevano capito e per debolezza
vivevano fino in fondo una vita disperata. E non ne vedevo altre. Mi sembrava
che quella ristretta cerchia di persone istruite, ricche e oziose a cui
appartenevo, costituisse l'umanità intera e che quei miliardi di esseri vissuti
e viventi, fossero così, delle bestie qualsiasi e non degli uomini.
Per quanto strano, per quanto inverosimile e incomprensibile mi sembri oggi il
fatto che io, analizzando la vita, abbia potuto perdere di vista la vita
dell'umanità che mi circondava da ogni parte, che io abbia potuto ingannarmi
ridicolmente fino al punto di pensare che la vita mia, dei Salomone o degli
Schopenhauer era la vera vita, la vita normale, mentre la vita di miliardi di
altri esseri era una circostanza non meritevole di attenzione, per quanto strano
questo mi appaia oggi, io vedo che la cosa stava proprio così. Nell'errore
originato dalla superbia per la mia intelligenza, mi sembrava talmente
indiscutibile che io, Salomone e Schopenhauer avessimo impostato il problema in
modo così giusto ed esatto che non poteva esservene un altro, e mi sembrava
talmente indiscutibile che tutti quei miliardi di esseri appartenessero alla
categoria di coloro che ancora non erano arrivati a comprendere tutta la
profondità del problema, che, cercando il senso della mia vita, a me neanche una
volta venne in mente: "Ma quale senso danno e hanno dato alla propria vita tutti
i miliardi di vissuti e viventi in questo mondo?". A lungo vissi questa follia
che è propria, particolarmente, non a parole ma nei fatti, di noi che siamo le
persone più liberali e più istruite. Ma grazie forse ad un mio non so quale
strano amore fisico per l'autentico popolo lavoratore, il quale ha fatto sì che
io lo capissi e che mi accorgessi che esso non è così stupido come pensiamo noi,
o forse grazie alla sincerità della mia convinzione che io non potevo sapere
niente se non che la miglior cosa che io potessi fare era di impiccarmi, sta di
fatto che io ebbi la sensazione che, se volevo vivere e capire il senso della
vita, io questo senso della vita dovevo cercarlo non presso coloro che il senso
della vita l'avevano perduto e che volevano uccidersi, bensì presso quei
miliardi di uomini già vissuti o viventi, che costruiscono la vita e portano su
di sé il peso della vita propria e della nostra. Ed io guardai alle enormi masse
di uomini semplici, ignoranti e poveri, già vissuti o viventi, e vidi tutt'altra
cosa. Vidi che tutti quei miliardi di uomini vissuti o viventi, tutti, salvo
rare eccezioni, non rientravano nella mia classificazione, vidi che mi era
impossibile ritenere che essi non comprendessero il problema, giacché essi
stessi lo impostano e rispondono con una chiarezza straordinaria. Definirli
epicurei anche non potevo, giacché la loro vita è costituita più da privazioni e
sofferenze che non di godimenti; ancora meno potevo classificarli fra coloro che
irrazionalmente conducono una vita senza senso, giacché ogni atto della loro
vita e la morte stessa vengono da loro spiegati. Uccidersi lo considerano come
il male più grande. Ma allora tutta l'umanità aveva una chissà quale conoscenza
del senso della vita che io disconoscevo e disprezzavo. Ne risultava che la
conoscenza razionale non dà un senso alla vita, anzi taglia fuori la vita; e
invece il senso attribuito alla vita da miliardi di uomini, da tutta l'umanità,
si basa su una chissà quale conoscenza spregevole e falsa.
La conoscenza razionale, attraverso gli scienziati e i pensatori, nega che la
vita abbia un senso, mentre enormi masse di uomini - tutta l'umanità - questo
senso lo ritrovano in una conoscenza non razionale. E questa conoscenza non
razionale è la fede, quella stessa fede che io non potevo non respingere. E' Dio
1 e 3, è la creazione in 6 giorni, i diavoli e gli angeli e tutto quello che io
non posso accettare a meno di non uscir di senno.
La mia situazione era terribile. Io sapevo che nulla avrei trovato sulla via
della conoscenza razionale, se non la negazione della vita, e là invece, nella
fede, null'altro se non la negazione della ragione che è ancora più impossibile
della negazione della vita. Secondo la conoscenza razionale la vita era un male
e gli uomini lo sapevano, il non vivere dipendeva dagli uomini, e tuttavia essi
erano vissuti e vivevano, per quanto già da tempo sapessi che la vita è
insensata e che è un male. Secondo la fede, per comprendere il senso della vita,
avrei dovuto rinunciare alla ragione, a quella stessa ragione alla quale tale
senso è necessario.
9.
La contraddizione che ne risultava aveva soltanto due vie d'uscita: o quello che
io chiamavo razionale non era così razionale come pensavo, oppure quello che mi
sembrava irrazionale non era così irrazionale come pensavo. Ed io mi misi a
controllare l'itinerario dei ragionamenti della mia conoscenza razionale.
Controllando tale itinerario, trovai che esso era assolutamente corretto. La
conclusione che la vita è nulla era inevitabile; però io mi accorsi dell'errore.
L'errore consisteva nel fatto che io ragionavo in un modo che non era conforme
al problema che avevo posto. Il problema era questo: perché devo vivere, cioè
che cosa risulterà di autentico, di indistruttibile dalla mia vita illusoria,
distruttibile, e quale senso ha la mia esistenza finita in questo universo
infinito? E per dare una risposta a tale problema, io studiavo la vita.
Le soluzioni di tutti i possibili problemi della vita, evidentemente, non
potevano soddisfarmi, giacché la mia domanda, per quanto semplice possa apparire
ad un primo sguardo, include in sé l'esigenza di spiegare il finito mediante
l'infinito e viveversa.
Io domandavo: qual è il significato non temporale, non casuale, non spaziale
della mia vita? e invece rispondevo a quest'altra domanda: qual è il significato
temporale, casuale, spaziale della mia vita? Il risultato fu che dopo un lungo
lavorìo del pensiero, io risposi: nessuno.
Nei miei ragionamenti continuamente agguagliavo - e non potevo fare diversamente
- il finito al finito, l'infinito all'infinito, ragione per cui mi risultava
sempre quel che doveva risultare: la forza è la forza, la sostanza è la
sostanza, la volontà è la volontà, l'infinità è l'infinità, il nulla è il nulla
e più che questo nient'altro poteva risultare. Era qualcosa di simile a quel che
capita in matematica quando, credendo di risolvere un'equazione, si risolve una
identità. Il corso del ragionamento è esatto ma come risultato si ottiene la
risposta: a = a, oppure x = x, oppure 0 = 0. La stessa accadeva anche nel mio
ragionamento circa il problema del significato della mia vita. Le risposte che
tutta quanta la scienza dava a quel problema erano soltanto delle identità.
Ed effettivamente la conoscenza rigorosamente razionale, quella conoscenza che,
come per Cartesio, comincia dal dubbio assoluto su tutto, respinge ogni sapere
basato sulla fede, e ricostruisce tutto ex novo sulle leggi della ragione e
dell'esperienza - e non può dare altra risposta al problema della vita, se non
quella stessa che avevo ottenuto anch'io: una risposta indeterminata. Mi era
soltanto sembrato, inizialmente, che la scienza desse una risposta positiva; la
risposta di Schopenhauer: la vita non ha senso, essa è un male. Ma avendo
approfondito meglio la questione, mi resi conto che la risposta non era
positiva, che era soltanto il mio sentimento ad averla formulata così. Mentre la
risposta espressa rigorosamente, così come la formulano sia i bramini, sia
Salomone, sia Schopenhauer, è soltanto una risposta indeterminata, ovvero una
identità: 0 = 0, la vita che mi appare essere il nulla, è il nulla. Quindi la
conoscenza fiolosofica non nega proprio niente, risponde soltanto che essa non
può risolvere questo problema, e che per lei la soluzione rimane indeterminata.
Avendo compreso ciò, io compresi pure che non era possibile cercare nella
conoscenza razionale una risposta alla mia domanda e che la risposta data dalla
conoscenza razionale indica soltanto che la risposta può essere ottenuta
unicamente mediante una diversa impostazione del problema e unicamente quando
nel ragionamento venga introdotto il problema del rapporto tra il finito e
l'infinito. Compresi anche questo, che, per quanto irrazionali e mostruose siano
le risposte date dalla fede, esse hanno la prerogativa di introdurre in ogni
risposta il rapporto tra il finito e l'infinito, senza di che una risposta non
può darsi. In qualsiasi modo io ponga il problema: come devo vivere? la risposta
sarà: secondo la legge divina. Quale sarà il risultato autentico della mia vita?
I tormenti eterni oppure la beatitudine eterna. Qual è il senso che non è
distrutto dalla morte? L'unione con un Dio infinito, il paradiso.
Cosicché, oltre la conoscenza razionale che prima era per me l'unica, io ero
inevitabilmente condotto ad ammettere che ogni individuo vivente possiede anche
un'altra conoscenza, irrazionale questa: la fede, che dà la possibilità di
vivere. Tutta l'irrazionalità della fede rimaneva per me la stessa di prima, ma
io non potevo non riconoscere che essa sola dà all'umanità delle risposte circa
i problemi della vita e, in conseguenza di ciò, anche la possibilità di vivere.
La conoscenza razionale mi aveva condotto a riconoscere che la vita è priva di
senso; la mia vita si era arrestata ed io volevo annientarmi. Considerai gli
uomini, tutta l'umanità e vidi che gli uomini vivono e affermano di conoscere il
senso della vita. Considerai me stesso: avevo vissuto finché avevo saputo qual
era il senso della vita. Come agli altri uomini, così anche a me il senso della
vita e la possibilità di vivere li aveva dati la fede.
Considerai poi gli uomini degli altri paesi, sia i miei contemporanei sia quelli
che non erano più vivi, e vidi sempre la stessa cosa. Dove c'è vita, ivi la
fede, da quando l'umanità esiste, dà la possibilità di vivere, e i caratteri
principali della fede sono ovunque e sempre gli stessi.
Quali che siano le risposte che una qualsiasi fede fornisce a chiunque, ognuna
di esse all'esistenza finita dell'uomo conferisce il senso dell'infinito - un
senso che non è annullato né dalle sofferenze, né dalle privazioni, né dalla
morte. Quindi solo nella fede si può trovare il senso della vita e la
possibilità di vivere. Ed io compresi che la fede nel suo significato più
essenziale non è soltanto "il rendere visibili le cose invisibili", ecc., non è
la rivelazione (questa è soltanto la descrizione di uno dei segni della fede),
non è soltanto il rapporto dell'uomo con Dio (bisogna definire la fede e poi Dio
e non attraverso Dio definire la fede), non è soltanto il consenso con ciò che
all'uomo è stato detto, come per lo più essa viene intesa, no, la fede è la
conoscenza del senso della vita umana, grazie al quale l'uomo non annienta se
stesso, bensì vive. La fede è la forza della vita. Se l'uomo vive, significa che
in qualcosa crede. Se non credesse che bisogna vivere per qualche cosa, egli non
vivrebbe. Se non vede e non capisce l'illusorietà del finito, egli crede in
questo finito; se capisce l'illusorietà del finito, egli deve credere
nell'infinito. Senza la fede non si può vivere.
Ed io mi ricordai di tutto il corso del mio travaglio interiore e ne fui
atterrito. Ora mi era chiaro che, perché un uomo possa vivere, egli deve, o non
vedere l'infinito, oppure avere una spiegazione del senso della vita tale per
cui il finito venga eguagliato all'infinito. Una tale spiegazione io ce l'avevo,
ma essa non mi era stata necessaria fino a quando avevo avuto fede nel finito e
non avevo cominciato a sottoporlo al controllo della ragione. E alla luce della
ragione tutta la precedente spiegazione andò in polvere. Ma venne il tempo in
cui io smisi di credere nel finito. E allora cominciai, su basi razionali, a
costruire su ciò che sapevo una spiegazione che mi desse il senso della vita; ma
non riuscivo a costruire nulla. Insieme con i migliori intelletti dell'umanità
arrivai al risultato che 0 = 0 e fui molto sorpreso di aver ottenuto tale
soluzione, mentre invece non potevo sortir fuori nient'altro.
Che cosa facevo quando cercavo una risposta nelle scienze sperimentali? Volevo
sapere perché vivevo, e a tale scopo studiavo tutto ciò che stava fuori di me.
E' chiaro che potevo venire a sapere molto, ma nulla di ciò che mi era
necessario.
Che cosa facevo quando cercavo una risposta nelle scienze filosofiche? Studiavo
i pensieri di quegli esseri che si erano trovati nella mia stessa situazione e
che alla domanda: perché vivo?, non avevano risposta. E' chiaro che non potevo
venire a sapere niente se non quello che io già sapevo, cioè che non si può
sapere nulla.
Che cosa sono io? - una parte dell'infinito. Già in queste due parole sta tutto
il problema. Forse che questa domanda l'umanità se l'è fatta soltanto da ieri? E
forse che nessuno prima di me si era fatto questa domanda - una domanda così
semplice che ogni bambino intelligente ha sulla punta della lingua?
Questo problema è stato posto sin da quando esistono gli uomini; e da quando
esistono gli uomini si è capito che per risolvere questo problema è altrettanto
insufficiente eguagliare il finito al finito quanto l'infinito all'infinito, e
da quando esistono gli uomini i rapporti del finito con l'infinito sono stati
trovati ed espressi.
Tutti questi concetti con l'aiuto dei quali si eguaglia il finito all'infinito e
si ottiene il senso della vita, i concetti di Dio, di libertà, di bene, noi li
sottoponiamo ad una indagine logica. E questi concetti non reggono alla critica
della ragione.
Se non fosse così terribile, sarebbe ridicolo; con quanta superbia e presunzione
noi, come bambini, smontiamo l'orologio, ne togliamo la molla, ne facciamo un
giocattolo e poi ci meravigliamo che l'orologio non cammina più.
E' necessaria e preziosa la soluzione della contraddizione tra il finito e
l'infinito e una risposta al problema della vita che sia tale da rendere
possibile la vita. E questa unica soluzione che noi troviamo ovunque, sempre e
presso tutti i popoli, soluzione che ci viene dal tempo in cui si perde per noi
la vita degli uomini, soluzione così difficile che noi non possiamo fare nulla
di simile - ebbene proprio tale soluzione noi la distruggiamo alla leggera per
tornare a porre quel problema che è presente a ciascuno e per il quale non
abbiamo risposta.
I concetti di un Dio infinito, della divinità dell'anima, del rapporto delle
cose umane con Dio, e quelli del bene morale e del male, sono concetti elaborati
nella lontananza storica della vita umana, nascosta ai nostri occhi, sono
concetti senza i quali non ci sarebbe la vita e non ci sarei neppure io stesso;
ma io, dopo aver respinto tutto questo lavoro di tutta l'umanità, da solo voglio
fare tutto ex novo e a modo mio.
Allora non la pensavo così, ma i germi di questi pensieri erano già dentro di
me.
Io capivo: 1) che la mia situazione e, insieme, quella di Schopenhauer e di
Salomone, nonostante la nostra saggezza, era stupida: noi comprendiamo che la
vita è un male e tuttavia viviamo. Questo è chiaramente stupido giacché se la
vita è stupida - e io amo tanto tutto ciò che è razionale - allora è necessario
distruggere la vita e nessuno più avrà bisogno di negarla. 2) Io capivo che
tutti i nostri ragionamenti giravano in un circolo vizioso, come una ruota che
non s'inserisce nell'ingranaggio. Per quanto bene e a lungo ragionassimo, noi
non potevamo ottenere risposta alla questione e sempre ci sarebbe stato 0 = 0, e
per questo la nostra strada probabilmente era sbagliata. 3) Io cominciavo a
capire che nelle risposte date dalla fede era custodita la saggezza più profonda
dell'umanità, e che non avevo il diritto di negarle basandomi sulla ragione e
che, quel che più conta, quelle risposte erano le uniche che davano una
soluzione al problema della vita.
10.
Io capivo tutto ciò, ma non per questo le cose mi erano più facili.
Ora ero pronto ad accettare qualsiasi fede purché essa non esigesse da me una
recisa negazione della ragione, il che avrebbe comportato una menzogna. Ed io mi
misi a studiare sui libri sia il buddismo, sia il maomettismo, sia soprattutto
il cristianesimo tanto sui libri quanto nelle persone viventi che mi
circondavano.
Naturalmente, mi rivolsi innanzi tutto alle persone della mia cerchia che erano
credenti, alle persone colte, ai teologi ortodossi, ai monaci-startsy, ai
teologi ortodossi di una nuova tendenza e perfino ai cosiddetti nuovi cristiani
che professavano la salvezza mediante la fede nella redenzione. Io mi aggrappai
a questi credenti e chiesi loro com'era che credevano e in che cosa vedevano il
senso della vita.
Nonostante che io facessi loro tutte le concessioni possibili, e che rifuggissi
da tutte le discussioni, non potevo accettare la fede di queste persone; vedevo
che quello che essi spacciavano per fede non era la spiegazione bensì
l'ottenebramento del senso della vita, e che essi stessi asserivano la propria
fede non per rispondere a quel problema della vita che mi aveva condotto alla
fede, bensì in vista di certi altri scopi che mi erano estranei.
Ricordo il tormentoso sentimento di terrore di un ritorno, dopo la speranza,
all'antica disperazione, sentimento che tante e tante volte provai nei rapporti
con quelle persone. Quanto più particolareggiatamente essi mi esponevano le loro
dottrine, tanto più chiaramente io scorgevo il loro errore e sentivo svanire la
mia speranza di trovare nella loro fede la spiegazione del senso della vita.
Non era il fatto che nella esposizione della loro dottrina religiosa essi
mescolassero alle verità cristiane che mi erano sempre state vicine altre cose
inutili e non razionali, no, non era questo che mi respingeva: mi respingeva
invece il fatto che la vita di quelle persone era tale e quale alla mia, con
l'unica differenza che essa non trovava corrispondenza proprio in quei princìpi
che essi esponevano nella loro dottrina. Io sentivo chiaramente che essi
ingannavano se stessi e che per loro, proprio come per me, non vi era nessun
altro senso della vita se non quello di vivere finché c'è vita e di acchiappare
tutto quello che è a portata di mano. Me ne accorgevo perché, se in essi ci
fosse stato quel senso della vita col quale si distrugge il timore delle
privazioni, delle sofferenze e della morte, essi non ne avrebbero avuto paura. E
invece essi, questi credenti della nostra cerchia, proprio come me, vivevano
nell'opulenza, cercavano di accrescerla o di conservarla, avevano paura delle
privazioni, delle sofferenze, della morte e proprio come me, e come tutti noi
non credenti, vivevano soddisfacendo le loro libidini, vivevano altrettanto male
quanto i non credenti, se non peggio.
Non vi erano ragionamenti che potessero convincermi della veracità della loro
fede.
Soltanto delle azioni che mi avessero mostrato che vi era in essi un senso della
vita grazie al quale la povertà, la malattia e la morte, che per me erano
terribili, non lo erano per loro, avrebbero potuto convincermi. Ma azioni simili
io non ne vedevo fra quegli svariati credenti della nostra cerchia. Di azioni
simili io ne vedevo, al contrario, fra le persone della nostra cerchia che erano
le più incredule, e mai fra i cosiddetti credenti della nostra cerchia.
Ed io capii che la fede di quelle persone non era la fede che io cercavo, che la
loro fede non era la fede, era soltanto una delle consolazioni epicuree della
vita. Io capii che quella fede poteva servire forse, se non come consolazione,
per lo meno come una certa qual distrazione a un Salomone che si pentisse sul
letto di morte, ma che essa non poteva andar bene per la stragrande maggioranza
dell'umanità, la cui vocazione non è quella di sollazzarsi godendo delle fatiche
altrui, bensì quella di produrre la vita. Affinché tutta l'umanità potesse
vivere, affinché essa continuasse la vita dandole un senso, essi, quei miliardi
di uomini dovevano avere una diversa, una vera conoscenza della fede. Certo non
è il fatto che io, Salomone e Schopenhauer non ci siamo uccisi, non è questo che
mi ha convinto dell'esistenza della fede, bensì il fatto che quei miliardi di
uomini sono vissuti e vivono ed hanno portato me e i Salomone sulle proprie onde
di vita.
Ed io cominciai ad avvicinarmi ai credenti che v'erano tra le persone povere,
semplici, ignoranti, ad avvicinarmi ai pellegrini, ai monaci, agli scismatici,
ai muziki. La dottrina religiosa di questa gente del popolo era anch'essa
cristiana così come la dottrina religiosa degli pseudocredenti della nostra
cerchia. Alle verità cristiane era mescolata anche molta superstizione, ma la
differenza era questa, che le superstizioni dei credenti della nostra cerchia
erano per loro completamente superflue, non erano collegate con la loro vita,
erano soltanto una specie di divertimento epicureo; e invece le superstizioni
dei credenti che appartenevano al popolo lavoratore erano fino a tal punto
collegate con la loro vita che non si poteva assolutamente immaginarsi la loro
vita senza quelle superstizioni: esse costituivano una condizione
imprescindibile di quella vita. Tutta la vita dei credenti della nostra cerchia
era in contraddizione con la loro fede e tutta la vita delle persone credenti e
lavoratrici era la conferma di quel senso della vita che veniva dato dalla
conoscenza della fede. Ed io cominciai a guardare attentamente la vita e le
credenze di quegli uomini, e più le studiavo, tanto più mi convincevo che essi
possedevano la vera fede e che la fede era per loro indispensabile ed essa sola
dava loro il senso della vita e la possibilità di vivere. Contrariamente a ciò
che vedevo nella nostra cerchia, dove la vita senza la fede è possibile, e dove
a mala pena uno su mille si professa credente, nel loro ambiente a mala pena vi
è un non credente su mille. Contrariamente a quello che vedevo nella nostra
cerchia, dove tutta la vita trascorre nell'ozio, nei divertimenti e nella
scontentezza della vita, io vedevo che tutta la vita di quegli uomini
trascorreva in una dura fatica e che essi erano meno scontenti della vita che
non i ricchi. Contrariamente al fatto che gli uomini della nostra cerchia
facevano resistenza e protestavano contro la sorte a causa delle privazioni e
delle sofferenze, questi uomini accettavano le malattie e i dolori senza alcuna
perplessità, senza alcuna ribellione, bensì con tranquilla e salda convinzione
che tutto ciò doveva essere così e non poteva essere altrimenti, che tutto ciò
era bene. Contrariamente a noi, che quanto più siamo intelligenti tanto meno
comprendiamo il senso della vita, e vediamo una specie di beffa malvagia nel
fatto di dover soffrire e morire, questi uomini vivono, soffrono e si appressano
alla morte con tranquillità, il più delle volte con gioia. Contrariamente a ciò
che avviene nella nostra cerchia, dove una morte quieta, una morte senza terrore
e disperazione è una eccezione rarissima, una morte inquieta, ribelle, triste è
una rarissima eccezione tra il popolo. E di questi uomini, privati di tutto ciò
che per me e per Salomone costituisce l'unico bene della vita e che
ciononostante godono della più profonda felicità, ve n'è una moltitudine
immensa.
Allargai il raggio delle mie osservazioni, esaminai la vita di enormi masse di
uomini, sia di quelli passati sia di quelli contemporanei. E di uomini che
avevano capito il senso della vita, che avevano saputo vivere e morire io ne
vedevo non due, tre, dieci, bensì centinaia, migliaia, milioni. E tutti loro,
infinitamente diversi per indole, intelligenza, educazione, condizione, tutti
allo stesso modo e in completa contrapposizione alla mia ignoranza conoscevano
il senso della vita e della morte, sopportavano privazioni e sofferenze,
vivevano e morivano vedendo in ciò non la vanità, ma il bene.
Ed io fui preso da amore per quegli uomini. Quanto più penetravo nella loro vita
di uomini viventi e nella vita degli uomini che erano già morti, dei quali
leggevo o sentivo raccontare, tanto più io li amavo, e tanto più mi diventava
facile vivere. Vissi così circa due anni e in me si verificò quel rivolgimento
che da tempo già si preparava e del quale erano sempre esistite dentro di me le
premesse. Mi accadde che la vita della nostra cerchia - dei ricchi, delle
persone istruite non solo mi disgustò, ma perse qualsiasi senso. Tutto quello
che noi facevamo, i nostri ragionamenti, la nostra scienza, le nostre arti,
tutto ciò mi apparve come un trastullo da ragazzi. Io capii che non si doveva
cercare un senso in tutto ciò. E invece quel che faceva il popolo lavoratore, il
quale costruisce la vita, mi appariva come l'unica occupazione degna di
rispetto. E capii che il senso che veniva attribuito a quella vita era la
verità, e l'accettai.
11.
Ed essendomi ricordato come le stesse credenze mi ripugnavano e mi sembravano
insensate quando le professavano in modo contrario ad esse, e come invece mi
attiravano e mi sembravano ragionevoli quando vedevo che degli uomini ne
vivevano, io capii perché un tempo avevo respinto quelle credenze, perché le
avevo trovate insensate, mentre ora le accettavo e le trovavo pienamente
sensate. Capii che mi ero ingannato e come mi ero ingannato. Mi ero ingannato
non tanto perché avessi pensato in modo sbagliato, quanto perché avevo vissuto
male. Capii che la verità mi era stata nascosta non tanto dall'errore del mio
pensiero, quanto dalla mia vita stessa, in quelle eccezionali condizioni di
epicureismo, di soddisfazione di ogni libidine, in cui l'avevo trascorsa. Capii
che la mia domanda: che cosa è la mia vita? e la risposta: un male, erano del
tutto corrette. Sbagliato era soltanto il fatto che quella risposta - che si
riferiva soltanto a me - io l'avevo riferita alla vita in generale: io mi ero
chiesto che cosa era la mia vita e avevo ricevuto come risposta: un male e un
non-senso. E in effetti la mia vita - vita di connivenza con la libidine - era
insensata e malvagia e perciò la risposta: "la vita è insensata e malvagia" si
riferiva soltanto alla mia vita e non alla vita umana in generale. Capii quella
verità che trovai in seguito nel Vangelo: che gli uomini hanno preferito le
tenebre piuttosto che la luce perché le loro opere erano malvage. Poiché colui
che compie cattive azioni odia la luce e non va verso la luce affinché le sue
opere non siano rese visibili. Capii che per capire il senso della vita occorre
innanzi tutto che la vita non sia insensata e malvagia; e soltanto dopo, la
ragione, per comprenderlo. Capii perché così a lungo avevo girato intorno ad una
verità tanto evidente e che, se si vuole darsi pensiero e parlare della vita
dell'umanità, bisogna darsi pensiero e parlare della vita dell'umanità e non
della vita di alcuni parassiti della vita. La verità era sempre stata questa,
com'è vero che 2 x 2 = 4, ma io non l'avevo ammesso, perché, se avessi
riconosciuto che 2 x 2 = 4 avrei dovuto riconoscere che non ero buono. E
sentirmi buono era più importante e necesario per me che non ammettere che 2 x 2
= 4. Presi ad amare gli uomini buoni, a detestare me stesso, e riconobbi la
verità. Da allora tutto mi divenne chiaro.
Che accadrebbe se un boia, che ha trascorso la vita a torturare e a tagliar
teste, oppure un ubriacone, oppure un pazzo rinchiuso per tutta la vita in una
stanza chiusa, che ha lordato questa sua stanza e si immagina che morirebbe se
ne uscisse, che accadrebbe se essi si chiedessero: che cosa è la vita?
Evidentemente alla domanda: che cosa è la vita?, essi non potrebbero darsi altra
risposta se non che la vita è il peggiore dei mali; e la risposta del pazzo
sarebbe del tutto giusta, ma soltanto per lui. E se fossi anch'io un pazzo come
lui? E se noi tutti uomini ricchi e istruiti fossimo dei pazzi come lui?
Ed io capii che effettivamente noi siamo dei pazzi come lui. Io davvero ero
stato un pazzo come lui. E infatti l'uccello esiste in quanto deve volare,
procacciare il cibo, costruire i nidi, e quando vedo che un uccello fa questo,
io mi rallegro della sua gioia. La capra, la lepre, il lupo, esistono in quanto
devono nutrirsi, moltiplicarsi, nutrire la loro famiglia e, quando fanno questo,
io ho ferma coscienza che essi sono felici e che la loro vita è razionale. Ma
che cosa deve fare l'uomo? Egli deve provvedere alla propria vita esattamente
come gli animali, ma con l'unica differenza che se vi provvederà da solo egli
soccomberà: bisogna che egli provveda non soltanto per sé ma per tutti: e se lo
fa, io ho ferma coscienza che egli è felice e la sua vita è secondo ragione. Ma
che cosa ho fatto io durante il trentennio della mia vita cosciente? Non
soltanto non mi sono dato da fare per la vita di tutti gli altri, ma neppure per
la mia. Ho vissuto come un parassita e se mi chiedevo per che cosa vivevo, la
risposta era: per nulla. Se il senso della vita umana sta nel promuoverla, come
avrei potuto io, che per trenta'anni mi ero dato da fare non per promuovere la
vita, bensì per distruggerla in me e negli altri, ricevere un'altra risposta se
non questa: che la mia vita era un non-senso e un male? Ed essa, in effetti, era
un non-senso e un male.
La vita dell'universo si compie per volontà di qualcuno; e di questa vita di
tutto l'universo e delle nostre vite qualcuno se ne serve per un qualche suo
scopo. Per avere la speranza di capire il senso di questa volontà è necessario
anzitutto sottomettervisi, fare ciò che ci viene richiesto. E se io non farò
quello che da me si vuole, allora io non capirò mai né quello che si vuole da
me, né tanto meno quello che si vuole da tutti noi e da tutto l'universo.
Se un mendicante nudo, affamato, viene prelevato da un crocicchio, viene
condotto in un posto coperto dentro un bellissimo stabilimento, viene sfamato e
dissetato, e gli si impone di muovere in su e in giù un pezzo di legno
qualsiasi, è evidente che, prima di riuscire a capire perché è stato preso,
perché deve muovere il bastone, e se l'organizzazione di tutto l'impianto sia
razionale o meno, il mendicante prima di tutto deve muovere il bastone. Se
muoverà il bastone, capirà che esso aziona una pompa, che la pompa fa montare
l'acqua, che l'acqua va nelle aiuole. Poi lo porteranno fuori dal pozzo coperto
e lo metteranno ad un altro lavoro ed egli coglierà dei frutti ed entrerà a far
parte della gioia del suo padrone e, passando da un lavoro inferiore a uno
superiore, comprendendo sempre meglio l'organizzazione di tutto l'impianto,
essendo parte di essa, non gli verrà mai in mente di chiedere perché è lì, e
tanto meno si metterà a rimproverare il padrone. Così pure non rimprovereranno
il padrone coloro che fanno la sua volontà, gli uomini semplici, i lavoratori,
gli ignoranti, coloro che noi consideriamo delle bestie; ed ecco invece noi, i
sapienti, mangiamo a quattro palmenti tutto quel che è del padrone, ma, quanto a
fare quello che il padrone vuole da noi, non ci pensiamo nemmeno, e, invece di
lavorare, ci sediamo in cerchio e cominciamo a cavillare: "Perché mai muovere un
pezzo di legno? E' una stupidaggine". Pensiamo e ripensiamo. Finché arriviamo
alla conclusione che il padrone è stupido oppure che non esiste, e che noi
invece siamo intelligenti, soltanto sentiamo che non serviamo a nulla e che, in
un modo o nell'altro, bisogna che ci sbarazziamo di noi stessi.
12.
La coscienza dell'errore in cui cade la conoscenza razionale mi aiutò a
liberarmi dalla tentazione dell'ozioso filosofare. La convinzione che la verità
si può trovare soltanto mediante la vita, mi spinse a dubitare della giustezza
del mio modo di vivere; ma ciò che mi salvò fu soltanto il fatto che io riuscii
a svincolarmi dal mio esclusivismo e a vedere la vera vita del semplice popolo
lavoratore e a capire che quella soltanto è la vera vita. Capii che, se volevo
capire la vita e il suo senso, dovevo vivere non la vita del parassita bensì la
vita vera e che, accettando il senso che ad essa l'umanità vera attribuisce,
dovevo prima fondermi con quella vita, e poi verificarlo.
In quello stesso periodo mi accadde quanto segue. Durante tutto il corso di
quell'anno nel quale io quasi ad ogni istante mi chiedevo se farla finita con un
nodo scorsoio o con una pallottola, durante tutto quel tempo, durante tutto quel
corso di pensieri e di osservazioni di cui ho parlato, il mio cuore soffriva per
un sentimento tormentoso. Questo sentimento io non lo posso chiamare altrimenti
se non la ricerca di Dio.
Dico che questa ricerca di Dio era un sentimento e non un ragionamento, poiché
tale ricerca scaturiva non dal corso dei miei pensieri anzi essa si
contrapponeva nettamente ad esso - bensì dal cuore. Era un sentimento di paura,
di abbandono, di solitudine in mezzo a un tutto estraneo e, insieme, di speranza
nell'aiuto di qualcuno.
Nonostante il fatto che io fossi assolutamente convinto dell'impossibilità di
dimostrare l'esistenza di Dio (Kant mi aveva dimostrato - ed io l'avevo
perfettamente capito - che dimostrarla era impossibile), nondimeno cercavo Dio,
speravo di trovarlo e secondo l'antica abitudine, mi rivolgevo con la preghiera
a colui che cercavo e non trovavo. Ora verificavo nella mente le deduzioni di
Kant e di Schopenhauer circa l'impossibilità di dimostrare l'esistenza di Dio,
ora mi mettevo a confutarle. Quella della causa, mi dicevo, non è una categoria
del pensiero come lo sono lo spazio e il tempo. Se io esisto, deve esistere
anche una causa di ciò, ed anche una causa delle cause. E questa causa di tutto
è quel che chiamiamo Dio; e io mi fermavo su questo pensiero e con tutto il mio
essere mi sforzavo di prendere coscienza della presenza di questa causa. E non
appena riconoscevo che vi era una forza in potere della quale io mi trovavo,
immediatamente sentivo la possibilità di vivere. Però mi chiedevo: "Che cosa è
questa causa, questa forza? Che devo pensare di essa, come devo comportarmi con
quello che io chiamo Dio?". Ed erano soltanto risposte a me ben note quelle che
mi venivano in mente: "Egli è il creatore, il dispensatore di tutti i beni".
Queste risposte non mi soddisfacevano ed io sentivo scomparire in me quello che
mi era necessario per vivere. Venivo preso dal terrore e cominciavo a pregare
colui che stavo cercando, affinché mi aiutasse. E più pregavo, più mi era
evidente che egli non mi ascoltava e che non vi era nessuno a cui io potessi
rivolgermi. E con la disperazione nel cuore, perché Dio non c'era, io dicevo:
"Signore, abbi pietà, salvami! Signore, illuminami, Dio mio!". Ma nessuna aveva
pietà di me e io sentivo che la mia vita si arrestava.
Ma sempre di nuovo, sempre da diverse altre parti arrivavo a quella stessa
conclusione, che non potevo essere venuto al mondo senza un motivo, una causa,
un senso qualsiasi, che non potevo essere come un uccellino caduto dal nido,
quale appunto sentivo di essere. Ammettiamo che io, uccellino caduto dal nido,
me ne stia disteso sul dorso e pigoli nell'erba alta, ma io pigolo perché so che
una madre mi ha portato dentro di sé, mi ha covato, riscaldato, nutrito, amato.
Dov'è questa madre? Se sono stato abbandonato, chi è che mi ha abbandonato? Non
posso nascondermi che qualcuno mi ha generato con amore. Chi è dunque questo
qualcuno? Ancora una volta, Dio.
"Egli conosce, vede le mie ricerche, la mia disperazione, la mia lotta. Egli
esiste", mi dicevo. E mi bastava ammettere ciò per un istante che subito la vita
si sollevava in me ed io sentivo la possibilità e la gioia dell'esistenza. Poi
di nuovo, dall'ammissione dell'esistenza di Dio, io passavo alla ricerca del mio
rapporto con lui, e di nuovo quel Dio mi si presentava come il nostro creatore,
uno e trino, che ci ha inviato il figlio-redentore. E di nuovo quel Dio,
separato dal mondo, separato da me, come un blocco di ghiaccio si scioglieva, si
scioglieva sotto i miei occhi, e di nuovo non restava nulla, e di nuovo la
sorgente di vita si disseccava, io ricadevo nella disperazione e sentivo che non
restava nient'altro da fare se non uccidermi. E, quel che era peggio, sentivo
che non ero capace di fare neanche questo. Non due o tre volte, ma una decina,
un centinaio di volte venni a trovarmi in questa situazione - ora di gioia e di
reviviscenza, ora nuovamente di disperazione e di coscienza della impossibilità
di vivere.
Ricordo, era un principio di primavera, io ero solo in un bosco e ne ascoltavo i
rumori. Io ascoltavo e pensavo sempre alla stessa cosa, così come continuamente
avevo pensato sempre alla stessa cosa in quegli ultimi tre anni. Di nuovo
cercavo Dio.
"Va bene, non c'è alcun Dio," mi dicevo "non ce n'è uno che sia, non la mia
rappresentazione, bensì una realtà come quella di tutta la mia vita: uno così
non c'è. E non c'è niente, non vi sono miracoli che possano esserne la
dimostrazione, giacché i miracoli sarebbero una mia rappresentazione, e per di
più non razionale."
"Ma la mia idea di Dio, di quel Dio che sto cercando?" mi chiedevo. "Questa idea
di dove è venuta fuori?". E di nuovo a questo pensiero, onde gioiose di vita si
sollevavano in me. Intorno a me tutto si rianimava, prendeva senso. Ma la gioia
non durava a lungo. L'intelletto continuava il proprio lavoro. "L'idea di Dio
non è Dio", mi dicevo. "L'idea è qualcosa che ha origine dentro di me, l'idea di
Dio è qualcosa che io posso suscitare o non suscitare in me stesso. Non è questo
che io cerco. Io cerco qualcosa senza di cui non vi potrebbe essere la vita". E
di nuovo tutto cominciò a morire intorno a me e dentro di me, e di nuovo mi
venne voglia di uccidermi.
Ma a questo punto considerai me stesso, quello che avveniva dentro di me; e mi
ricordai tutte le centinaia di volte in cui si era prodotta in me la sensazione
di morire e di rivivere. Mi ricordai che io vivevo soltanto quando credevo in
Dio. Come prima, anche ora mi dissi: "Mi basta sapere che Dio c'è, ed io vivo;
mi basta dimenticarlo o non crederci, ed io muoio. Ma che cosa sono queste
reviviscenze e queste agonie? Certo io non vivo quando perdo la fede
nell'esistenza di Dio, certo io già da tempo mi sarei ucciso se non avessi avuto
la vaga speranza di poterlo trovare. Certo io vivo, vivo veramente soltanto
quando lo sento e lo cerco. Ma allora cosa vado cercando ancora? gridò una voce
dentro di me. Eccolo, è lui. Egli è colui senza il quale non si può vivere.
Conoscere Dio e vivere è la stessa cosa. Dio è la vita.
Vivi cercando Dio e allora non ci sarà vita senza Dio". E con più forza di
qualsiasi altra volta tutto si illuminò dentro di me e intorno a me, e quella
luce ormai non mi abbandonava più.
Ed io mi salvai dal suicidio. Quando e come si compì in me questo rivolgimento
non saprei dirlo. Così come senza che me ne accorgessi, a poco a poco in me si
spengeva la forza vitale ed io giungevo all'impossibilità di vivere, nello
stesso modo, senza che me ne accorgessi e a poco a poco in me quella forza
vitale ritornava. E lo strano era che quella forza vitale che ritornava in me,
non era una forza nuova, bensì la più antica, quella stessa che mi aveva mosso
nei primi tempi della mia vita.
Ero tornato in tutto e per tutto il me stesso di prima, ragazzo e giovinetto.
Ero tornato alla fede in quella volontà che mi aveva prodotto e che ora esigeva
da me qualcosa: ero tornato alla convinzione che lo scopo principale ed unico
della mia vita era quello di essere migliore, cioè di vivere più in accordo con
quella volontà; ero tornato alla convinzione che un'espressione di quella
volontà la potevo trovare in ciò che tutta l'umanità fin dai tempi a me ignoti
aveva elaborato per la propria guida, cioè tornai alla fede in Dio, nel
perfezionamento morale e nella tradizione che trasmette il senso della vita. La
differenza era soltanto questa, che un tempo tutto ciò era stato accettato
inconsciamente, mentre adesso sapevo che senza di ciò non potevo vivere. Era
come se mi fosse successo questo: un giorno, non so quando, mi avevano messo in
una barca e poi mi avevano allontanato da una riva qualsiasi a me sconosciuta e
mi avevano indicato la direzione verso un'altra riva, avevano messo i remi nelle
mie mani inesperte e mi avevano lasciato solo.
Remavo come potevo e navigavo; ma, quanto più andavo verso il centro del fiume,
tanto più rapida si faceva la corrente che mi portava lontano dalla meta e
sempre più spesso incontravo dei rematori che, come me, erano trasportati dalla
corrente. Vi erano rematori solitari che continuavano a remare; vi erano
rematori che avevano gettato via i remi; vi erano grandi barche, bastimenti
enormi pieni di gente; alcuni lottavano con la corrente, altri vi si
abbandonavano. E quanto più avanzavo, tanto più, guardando in giù, in direzione
di tutta la fiumana dei naviganti, io dimenticavo la direzione che mi era stata
indicata. Proprio in mezzo alla fiumana, nel fitto delle barche e dei bastimenti
che scendevano lungo la corrente, finii col perdere del tutto la direzione e
gettai i remi. Da tutte le parti, con allegria e con giubilo intorno a me, con
le vele o con i remi i navigatori venivano giù veloci seguendo la corrente,
assicurando a me, e assicurandosi fra loro, a vicenda, che non vi poteva essere
un'altra direzione. Ed io credetti loro e navigai per un po' insieme con loro. E
fui portato lontano, così lontano che sentii il rumore delle cateratte contro le
quali dovevo andare a infrangermi e vidi le barche che vi si infrangevano. Ed io
tornai in me. A lungo non riuscii a capire che cosa mi era successo. Vedevo
davanti a me soltanto la perdizione, verso la quale correvo e di cui avevo
paura, da nessuna parte vedevo scampo e non sapevo che fare. Ma avendo gettato
uno sguardo indietro, vidi innumerevoli barche che senza interruzione,
ostinatamente, fendevano la corrente, mi ricordai della riva, dei remi e della
direzione, e cominciai a remare indietro per risalire la corrente verso la riva.
La riva era Dio, la direzione da seguire era la tradizione, i remi la libertà a
me data di remare verso la riva e di ricongiungermi con Dio. E così la forza
vitale si rinnovò in me e di nuovo cominciai a vivere.
13.
Io rifiutai la vita della nostra cerchia, poiché avevo compreso che quella non
era vita, ma soltanto un simulacro di vita, che le condizioni di opulenza nelle
quali vivevamo ci privavano della possibilità di capire la vita e che, per
capire la vita, io dovevo capire la vita non di quelle che erano eccezioni, non
di noi, parassiti della vita, bensì la vita del semplice popolo lavoratore che
costruisce la vita, ed il senso che esso le dà. Il semplice popolo lavoratore
intorno a me era il popolo russo ed io mi rivolsi ad esso e al senso che esso dà
della vita. Questo senso, se pure lo si può esprimere, era il seguente. Ogni
uomo è venuto al mondo per volontà di Dio. E Dio ha creato l'uomo in modo tale
che ogni uomo può perdere la propria anima o salvarla. Il compito dell'uomo
nella vita è di salvare la propria anima; per salvare la propria anima bisogna
vivere secondo la volontà di Dio e per vivere secondo la volontà di Dio bisogna
rinnegare tutti i piaceri della vita, darsi da fare, umiliarsi, sopportare ed
essere misericordiosi. Questo senso della vita il popolo lo attinge da tutta
quanta la dottrina della fede che gli è stata tramandata e che gli viene
tramessa dai pastori e dalla tradizione che vive nel popolo stesso e che si
esprime nelle leggende, nei proverbi, nei racconti. Tale senso era per me chiaro
e vicino al mio cuore. Ma a questo senso della fede popolare è indissolubilmente
legato presso il nostro popolo non scismatico, in mezzo al quale io vivevo,
molto di ciò che mi respingeva e che mi appariva inesplicabile: i sacramenti, le
funzioni religiose, i digiuni, l'adorazione delle reliquie e delle icone.
Separare una cosa dall'altra il popolo non può e non lo potevo neppure io. Per
quanto strano mi sembrasse molto di quel che rientrava nella fede del popolo, io
accettai tutto: andavo alle funzioni, la mattina e la sera mi inginocchiavo per
la preghiera, digiunavo, facevo le mie devozioni e in un primo tempo la mia
ragione non si oppose a nulla di tutto ciò. Quelle stesse cose che prima mi
sembravano inammissibili, ora non suscitavano in me alcuna resistenza.
Il mio atteggiamento nei confronti della fede era ora completamente diverso da
quello di prima. Prima la vita stessa mi appariva piena di significato e la fede
mi appariva come l'arbitraria affermazione di certi princìpi per me
completamente inutili, irrazionali e non collegati con la vita. Allora mi ero
chiesto che senso avessero questi princìpi ed essendomi convinto che non ne
avevano alcuno, li respinsi. Adesso, al contrario, sapevo con certezza che la
mia vita non aveva e non poteva avere nessun senso e i princìpi della fede non
solo non mi sembravano inutili, ma una esperienza irrefutabile mi conduceva alla
convinzione che soltanto questi princìpi della fede conferiscono un senso alla
vita. Prima io guardavo ad essi come a un abracadabra completamente inutile, ora
invece, anche se non li capivo, sapevo tuttavia che in essi un senso c'era, e mi
dicevo che bisognava imparare a comprenderli.
Facevo il seguente ragionamento. Mi dicevo: la conoscenza della fede, come anche
tutta l'umanità con la sua intelligenza, ha un'origine misteriosa. Questa
origine è Dio, il quale è origine sia del corpo dell'uomo, sia della sua
intelligenza. Come per successione da Dio è venuto a me il mio corpo, così da
lui mi sono venute la ragione e la percezione della vita, e perciò tutti i gradi
di sviluppo di tale percezione della vita non possono essere sbagliati. Tutto
quello in cui gli uomini credono veramente deve essere la verità; essa può
essere variamente espressa, ma non può essere una menzogna e perciò, se mi
appare come una menzogna, questo significa soltanto che io non la capisco.
Inoltre mi dicevo: l'essenza di ogni fede consiste nel fatto che essa alla vita
dà un senso che non è annullato dalla morte. Naturalmente affinché la fede possa
rispondere alla domanda di uno zar che muore in mezzo al lusso, di un vecchio,
schiavo e stremato dalla fatica, di un bambino scioccherello, di un saggio
starets, di una vecchia rimbambita, di una giovane donna felice, di un
giovinetto agitato dalle passioni, cioè di tutti gli uomini nelle più svariate
condizioni di vita e di formazione, è naturale che se vi è un'unica risposta che
risponde all'unico, all'eterno interrogativo della vita: "Perché vivo, quale
sarà il risultato della mia vita?", ebbene, questa risposta, per quanto unica
nella sostanza, deve essere infinitamente varia nelle sue manifestazioni; e
quanto più unica, quanto più vera, quanto più profonda sarà questa risposta,
tanto più strana e mostruosa, naturalmente, essa dovrà apparire nei suoi
tentativi di esprimersi in conformità con la formazione e la situazione di
ognuno. Ma questi ragionamenti che, secondo me, giustificavano la stranezza del
lato rituale della fede, erano tuttavia insufficienti a che io, in quello che
per me era l'unica cosa seria della vita, e cioè nella fede, mi permettessi di
compiere degli atti di cui non ero convinto. Con tutte le forze dell'animo
desideravo essere in grado di fondermi col popolo, osservando il lato rituale
della sua fede; ma non potevo farlo. Sentivo che avrei mentito davanti a me
stesso, che, se l'avessi fatto, avrei irriso a quello che per me era sacro. Ma
qui mi vennero in aiuto le nuove opere dei nostri teologi russi.
Secondo l'interpretazione di questi teologi il dogma fondamentale della fede è
l'infallibilità della chiesa. Dall'accettazione di questo dogma deriva, come
necessaria conseguenza, la verità di tutto ciò che viene professato dalla
chiesa. La chiesa come comunità dei credenti, uniti dall'amore e detentori
perciò della vera conoscenza, divenne il fondamento della mia fede. Io mi dicevo
che la verità divina non può essere accessibile ad un uomo solo, che essa si
rivela soltanto ad una comunità di uomini, uniti dall'amore. Per accedere alla
verità bisogna non separarsi e per non separarsi bisogna amare e riconciliarsi
con coloro con i quali siamo in disaccordo. La verità si rivelerà all'amore e
perciò, se non ti sottometti alle cerimonie della chiesa, tu violi l'amore; e
violando ti privi della possibilità di conoscere la verità. Io non vedevo
affatto il sofisma che si celava in questo ragionamento. Non vedevo allora il
fatto che l'unione nell'amore può dare un amore più grande ma non può, in alcun
modo, dare la verità teologica che è espressa con precise parole nel simbolo
niceano, non vedevo neanche il fatto che l'amore non può assolutamente rendere
una determinata espressione della verità obbligatoria per l'unione. Non vedevo
allora l'errore di questo ragionamento e grazie ad esso ebbi la possibilità di
accettare e osservare tutti i riti della chiesa ortodossa senza comprenderne la
maggior parte. Cercavo allora con tutte le forze dell'animo di evitare qualsiasi
ragionamento, qualsiasi contraddizione, e mi sforzavo di spiegare nel modo più
razionale possibile i princìpi della chiesa nei quali m'imbattevo.
Osservando i riti della chiesa io domavo la mia ragione e mi sottomettevo alla
tradizione che era propria di tutta l'umanità. Mi univo ai miei antenati, a
coloro che amavo: padre, madre, nonni, nonne. Essi, e tutti quelli che erano
venuti prima, erano stati credenti, avevano vissuto e mi avevano generato. Mi
univo anche con tutti i milioni di uomini del popolo che io rispettavo. Inoltre
questi stessi atti non avevano in sé nulla di male (io ritenevo che fosse male
solo essere schiavo della libidine). Alzandomi presto per andare a messa io
sapevo che facevo bene già soltanto perché per umiliare la mia superbia
dell'intelligenza, per avvicinarmi ai miei antenati e ai miei contemporanei, in
nome della ricerca del senso della vita, sacrificavo i comodi del mio corpo. Lo
stesso valeva per le altre devozioni, per il fatto di recitare quotidianamente
le preghiere con le genuflessioni, lo stesso valeva per l'osservanza di tutti i
digiuni. Per quanto insignificanti fossero questi sacrifici, erano sacrifici a
fin di bene. Facevo le mie devozioni, digiunavo, dicevo a tempo debito le
preghiere con le genuflessioni a casa e in chiesa. Mentre ascoltavo le funzioni
religiose io penetravo ogni parola e davo ad essa un senso, quando potevo.
Durante la messa le parole più importanti per me erano: "amiamoci l'un l'altro
in unità d'intenti". Le parole che seguivano, "confessiamo il padre, il figlio e
lo spirito santo", le tralasciavo perché non potevo comprenderle.
14.
Allora mi era così indispensabile credere per vivere che inconsciamente mi
nascondevo le contraddizioni e le oscurità della dottrina della fede. Ma questo
dare un senso ai riti aveva un limite. Se la preghiera liturgica diventava per
me sempre più chiara nelle sue parole principali, se io in qualche modo mi
spiegavo le parole: "Invochiamo la santissima madre nostra signora e tutti i
santi, dedichiamo noi stessi, consacriamoci l'un l'altro e tutta la vita nostra
a Cristo-Dio", se io spiegavo la frequente ripetizione di preghiere per lo zar e
per i suoi parenti con il fatto che essi erano maggiormente sottoposti alle
tentazioni che non gli altri e perciò avevano maggior bisogno di preghiere, e
quanto alle preghiere per l'assoggettamento ai nostri piedi del nemico e
dell'avversario, se io me le spiegavo con il fatto che il nemico è il male,
tuttavia queste preghiere ed altre, come l'inno dei cherubini e tutto il mistero
dell'offertorio o del "capo eletto" ecc., quasi i due terzi di tutte le funzioni
o non avevano nessuna spiegazione, oppure io sentivo che, adducendo una
spiegazione, mentivo, e con ciò distruggevo del tutto il mio rapporto con Dio,
perdendo completamente qualsiasi possibilità di fede.
La stessa sensazione la provavo durante la celebrazione delle feste principali.
Ricordare il giorno di sabato, cioè consacrare un giorno a Dio era per me
comprensibile. Ma la festa principale era in ricordo dell'evento della
resurrezione, la cui effettiva realtà io non potevo né figurarmi né comprendere.
E con questo nome, "resurrezione", veniva designato ogni settimana il giorno
festivo. E in tali giorni veniva celebrato il mistero della eucarestia che mi
era completamente incomprensibile. Tutte le rimanenti dodici feste, eccetto il
natale, erano ricordi di miracoli, di cose cui cercavo di non pensare per non
negarle: e cioè l'assunzione, la pentecoste, l'epifania, l'intercessione ecc.
Quando si celebravano queste feste, sentendo che si attribuiva importanza
proprio a quello che per me rivestiva importanza in senso inverso, io, o
inventavo spiegazioni per me tranquillizzanti, oppure chiudevo gli occhi per non
vedere ciò che poteva scandalizzarmi.
Questo incideva su di me più fortemente quando prendevo parte ai sacramenti più
comuni, considerati come i più importanti: battesimo e comunione. Qui mi
scontravo con atti pienamente comprensibili; questi atti mi sembravano
peccaminosi ed io venivo posto nel dilemma: o mentire o rifiutarli.
Non dimenticherò mai il sentimento tormentoso che provai il giorno in cui feci
la comunione per la prima volta dopo molti anni.
Le funzioni religiose, la confessione, le regole, tutto questo mi era
comprensibile e produceva in me la gioiosa coscienza del fatto che il senso
della vita mi si rivelava. La comunione stessa io me la spiegavo come un atto
compiuto in ricordo di Cristo e che significava la purificazione dal peccato e
la piena accettazione dell'insegnamento di Cristo. Anche se questa spiegazione
era artificiosa io non mi accorgevo della sua artificiosità. Era una tale gioia
abbassarmi e umiliarmi di fronte al prete, un semplice, timido sacerdote,
rovesciare fuori tutto il sudiciume della mia anima, pentendomi dei miei vizi,
era per me una tale gioia fondermi nel pensiero con le aspirazioni dei padri che
avevano scritto le preghiere delle regole, era una tale gioia l'unione con tutti
quelli che avevano creduto e che credevano, che io non mi rendevo conto della
artificiosità della mia spiegazione. Ma quando mi avvicinai alla porta reale
(dell'iconostasi) e il sacerdote mi fece ripetere che io credevo che quel che
stavo per inghiottire era il vero corpo e il vero sangue, fu come se mi avessero
trafitto il cuore; non era soltanto una nota falsa, era la crudele esigenza di
qualcuno che, evidentemente, non aveva mai neppure saputo che cosa fosse la
fede.
Ma ora io mi permetto di dire che era una crudele esigenza, mentre allora non ci
pensai neppure, sentii soltanto un dolore indescrivibile. Non ero più nella
situazione in cui mi trovavo da giovane, quando pensavo che tutto nella vita
fosse chiaro; in effetti ero giunto alla fede perché, eccetto la fede, nulla,
davvero nulla, avevo trovato se non la morte; per questo abbandonare quella fede
era impossibile ed io mi sottomisi. E trovai nel mio animo un sentimento che mi
aiutò a sopportare tutto ciò. Era un sentimento di autoumiliazione e di
sottomissione. Io mi sottomisi, inghiottii quel sangue e quel corpo senza alcun
sentimento sacrilego, col desiderio di credere, ma il colpo era stato ormai
vibrato. E, dal momento che sapevo in anticipo che cosa mi aspettava, ormai non
potevo più ritornare una seconda volta.
Continuavo come prima a frequentare le funzioni religiose e continuavo a credere
che nella dottrina religiosa che professavo ci fosse la verità e mi accadeva
qualcosa che ora mi è chiaro, ma che allora mi sembrò strano.
Se ascoltavo i discorsi di un pellegrino-muzik su Dio, sulla fede, sulla vita,
sulla salvezza, sentivo che mi si rivelava la conoscenza della fede. Se mi
avvicinavo al popolo, ascoltandone i giudizi sulla vita, sulla fede, sempre e
sempre più comprendevo la verità. Lo stesso mi accadeva leggendo le Cet'i-Minei
e i Prologhi; essi diventarono la mia lettura preferita. A prescindere dai
miracoli, ognuno dei quali io consideravo come una fabula che servisse a
esprimere un'idea centrale, tale lettura mi rivelava il senso della vita.
C'erano le vite di Macario il Grande, del principe Joassaf (la storia di Buddha),
c'erano le parabole di Giovanni Crisostomo, del viandante nel pozzo, del monaco
che aveva trovato l'oro, di Pietro il pubblicano; c'era la storia dei martiri, i
quali tutti attestavano un'unica cosa, che la morte non esclude la vita; vi
erano le storie degli analfabeti, degli sciocchi e di coloro che nulla sapevano
degli insegnamenti della chiesa e che tuttavia si erano salvati.
Ma bastava che mi incontrassi con persone istruite che erano credenti oppure che
prendessi in mano i loro libri e subito sorgeva in me una certa quale
insicurezza, scontentezza, insofferenza per la discussione, e sentivo che quanto
più andavo al fondo dei loro discorsi, tanto più mi allontanavo dalla verità e
andavo verso l'abisso.
15.
Quante volte invidiavo i muziki per la loro ignoranza e perché non sapevano né
leggere né scrivere. Da quei princìpi della fede da cui per me derivavano
chiaramente dei non-sensi, per loro non derivava nulla di sbagliato; essi
potevano accettarli e insieme potevano credere nella verità, in quella verità in
cui credevo anch'io. Soltanto che per me, sventurato, era chiaro che la verità
era intessuta mediante fili sottilissimi con la menzogna, e che io sotto quella
forma non potevo accettarla.
Così vissi per tre anni circa e in un primo tempo quando io, come un catecumeno,
solo a poco a poco mi accostavo alla verità e, guidato soltanto dall'istinto,
andavo là dove mi sembrava che vi fosse più luce, tali contrasti mi colpivano
meno. Quando non capivo qualcosa mi dicevo: "Sono colpevole, sono cattivo". Ma
quanto più cominciavo a penetrare quelle verità che andavo studiando, quanto più
esse diventavano il fondamento della mia vita, tanto più pesanti ed evidenti
divennero quei contrasti e tanto più netta si faceva la linea divisoria fra
quello che non capivo perché ero incapace di capire e quello che non si poteva
capire se non mentendo a se stessi.
Nonostante questi dubbi e queste sofferenze mi attenevo ancora all'ortodossia.
Ma ecco apparire i problemi della vita che bisognava risolvere e a questo punto
la soluzione di tali problemi proposta dalla chiesa - soluzione che era
contraria ai fondamenti stessi della fede di cui vivevo - mi costrinse
definitivamente a rinunciare alla possibilità di un rapporto con l'ortodossia.
Quei problemi riguardavano in primo luogo l'atteggiamento della chiesa ortodossa
nei confronti delle altre chiese: del cattolicesimo e dei cosiddetti scismatici.
A quel tempo, in conseguenza del mio interesse per la fede io mi ero avvicinato
ai credenti di varie confessioni: cattolici, protestanti, vecchi credenti,
molokani e altri. E tra loro incontravo molte persone moralmente elevate e di
sincera fede.
Io desideravo essere fratello di queste persone. E invece? Quella dottrina che
mi aveva promesso di unire tutti in un'unica fede e in un unico amore, quella
dottrina stessa per bocca dei suoi migliori rappresentanti mi diceva che quelle
erano tutte persone che si trovavano immerse nella menzogna e che ciò che dava
loro la forza di vivere era la tentazione del diavolo e che noi soli eravamo in
possesso dell'unica verità possibile. Ed io vidi che tutti quelli che non
professavano la nostra fede gli ortodossi li consideravano eretici, proprio così
come i cattolici e gli altri consideravano l'ortodossia una eresia; io vidi che
verso tutti quelli che non professavano la loro fede con quei simboli esteriori
e con quelle parole con cui la professavano gli ortodossi, questi ultimi, anche
se cercavano di nasconderlo, avevano, com'era inevitabile, un atteggiamento
ostile, prima di tutto perché l'affermazione che tu sei nel falso ed io nel vero
è quanto di più crudele un uomo possa dire a un altro uomo e in secondo luogo
perché un uomo che ama i propri figli e fratelli non può non comportarsi con
ostilità nei confronti di persone che vogliono convertire i suoi figli e
fratelli ad una falsa fede. E tale ostilità va rafforzandosi nella misura in cui
aumenta la conoscenza della dottrina della fede. E a me, che la verità la ponevo
nell'unione mediante l'amore, involontariamente saltava agli occhi che era la
stessa dottrina della fede a distruggere ciò che essa avrebbe dovuto produrre.
Questo scandalo è a tal punto evidente, a tal punto per noi persone colte che
abbiamo vissuto in paesi dove si professano fedi diverse e che abbiamo visto la
reazione di rigetto sprezzante, incrollabile e sicura di sé che ha il cattolico
nei confronto dell'ortodosso e del protestante, o che ha l'ortodosso nei
confronti del cattolico e del protestante o che ha il protestante nei confronti
di entrambi e l'analogo atteggiamento di un vecchio credente, di un paskovets,
di uno shaker e di tutte le altre religioni, che l'evidenza stessa di tale
scandalo in un primo momento lascia perplessi. Uno dice a se stesso: ma non può
essere che le cose siano così semplici e che tuttavia gli uomini non si siano
accorti che se due affermazioni si negano a vicenda, allora né nell'una né
nell'altra può esserci quell'unica verità che la fede deve essere. C'era
qualcosa che non andava. Doveva esserci una spiegazione ed io pensavo che la
spiegazione c'era e mi misi a cercarla, e leggevo tutto quello che potevo a tale
proposito, e consultavo tutti quelli che potevo. E non ricevevo nessuna
spiegazione se non quella per cui gli ussari di Sumy ritengono che il primo
reggimento del mondo sia quello degli ussari di Sumy mentre gli ulani gialli
ritengono che il primo reggimento del mondo sia quello degli ulani gialli.
Personalità ecclesiastiche di tutte le diverse confessioni, i loro migliori
rappresentanti, non mi hanno detto nient'altro che questo, che erano convinti di
essere essi stessi nella verità, e che gli altri erano nell'errore, e che tutto
quello che potevano fare era di pregare per loro. Andai dagli archimandriti, dai
metropoliti, dagli startsy, dagli schimniki, e li interrogai, ma nessuno di loro
fece il minimo tentativo di spiegarmi cosa fosse questo scandalo. Uno solo di
loro mi spiegò tutto, ma me lo spiegò in modo tale che io non chiesi più nulla a
nessuno.
Io gli dicevo che per ogni non credente che si volge verso la fede (e questo
atteggiamento mentale contraddistingue tutta la nostra giovane generazione) il
problema che si presenta per primo è questo: perché la verità non è nel
luteranesimo, non è nel cattolicesimo, bensì nell'ortodossia? Glielo insegnano
al ginnasio ed egli non può ignorare - come invece lo ignora il muzik - che
esattamente allo stesso modo sia il protestantesimo sia il cattolicesimo
affermano che la propria fede è l'unica vera. Le prove storiche che ogni
confessione deforma a modo suo non sono sufficienti. Non è possibile - dicevo io
- intendere la dottrina in modo più alto, così che per l'altezza della fede
scompaiano le differenze, così come scompaiono per chi crede veramente? Non è
possibile andare oltre su quella strada su cui stiamo andando con i vecchi
credenti? Essi sostenevano che la croce, l'alleluia e il giro intorno all'altare
per noi erano diversi. Noi abbiamo detto: voi credete nel simbolo niceano, nei
sette sacramenti, e anche noi crediamo. Suvvia, atteniamoci a questo e per il
resto fate come volete. Ci siamo riuniti con loro perché abbiamo posto quello
che nella fede è essenziale al di sopra di quello che non è essenziale. Ed ora
non si potrebbe dire ai cattolici: voi credete in questo e questo, che è
l'essenziale, e quanto al filioque e al papa, fate come volete. Non si potrebbe
dire la stessa cosa anche ai protestanti riunendoci con loro nell'essenziale? Il
mio interlocutore era d'accordo con la mia idea, ma mi disse che cedimenti di
tal fatta avrebbero provocato biasimo contro il potere ecclesiastico, come se
esso si fosse allontanato dalla fede degli avi, e avrebbero provocato uno
scisma, mentre la vocazione del potere ecclesiastico era quella di salvaguardare
in tutta la sua purezza la fede ortodossa greco-russa, che gli era stata
tramandata dagli avi.
Capii tutto. Io cerco la fede, la forza della vita, ed essi cercano il modo
migliore per ottemperare di fronte agli uomini a certi impegni umani. E quando
ottemperano a questi impegni umani essi lo fanno in quanto uomini. Essi hanno un
bel dire della propria compassione per i fratelli smarriti, delle preghiere
innalzate per loro al trono dell'altissimo, per ottemperare gli impegni umani è
necessaria la violenza, ed essa sempre è stata, è e sarà adoperata. Se due fedi
ritengono di essere ciascuna nella verità mentre l'altra è nell'errore ciascuna
di esse, desiderando attrarre i fratelli verso la verità, propaganderà la
propria dottrina. E se una falsa dottrina verrà predicata ai figli inesperti
della chiesa che si trova nella verità, questa chiesa non può non bruciare il
libro, non può non estromettere la persona che voglia tentare i suoi figli. Che
fare del sektant il quale arde del fuoco di una fede che secondo l'ortodossia è
falsa e il quale induce in tentazione i figli della chiesa nella cosa più
importante della vita e cioè nella fede? Che fare di lui, come non tagliargli la
testa o non imprigionarlo? Sotto Aleksej Michajlovic si mandava al rogo, cioè
veniva inflitto quello che, a quei tempi, era considerato il massimo della pena;
anche al tempo nostro viene applicato il massimo della pena, che è la cella di
isolamento. Ed io rivolsi la mia attenzione a ciò che si fa in nome della
professione di fede e inorridii, e rinnegai, ormai quasi del tutto,
l'ortodossia. Una seconda questione in cui la chiesa aveva a che fare con i
problemi della vita era quella della guerra e della pena di morte.
In quel mentre in Russia c'era la guerra. E i russi, in nome dell'amore
cristiano, cominciarono ad uccidere i loro fratelli. Non pensare a questo, non
era possibile. Non vedere che l'omicidio era un male contrario ai primi
fondamenti stessi di ogni fede, non era possibile. E intanto nelle chiese si
pregava per il successo delle nostre armi e i maestri della fede consideravano
quell'omicidio come qualcosa che derivava dalla fede. E non soltanto tali
uccisioni in guerra, ma durante i disordini verificatisi dopo la guerra, io ho
visto dei membri della chiesa, dei suoi maestri, dei monaci, degli schimniki,
che approvavano l'uccisione di giovani sviati e abbandonati a se stessi. Ed io
rivolsi la mia attenzione a tutto quello che veniva fatto dagli uomini che
professavano il cristianesimo e inorridii.
16.
Ed io cessai di dubitare, ma mi convinsi pienamente che, nella conoscenza della
fede cui avevo aderito, non tutto era verità. Prima avrei detto che tutta la
dottrina della fede era falsa; ma ora non era possibile dire ciò. Tutto il
popolo possedeva la conoscenza della verità, questo era indubbio, perché
altrimenti non avrebbe vissuto. Inoltre questa conoscenza della verità ormai mi
era accessibile, io vivevo di essa e ne sentivo tutta la validità; ma in questa
conoscenza c'era anche la menzogna. E di ciò non potevo dubitare. E tutto quello
che prima mi aveva respinto ora mi stava vivamente davanti. Per quanto io
vedessi che in tutto il popolo quella mescolanza di menzogna che mi aveva
respinto era presente in minor misura che non fra i rappresentanti della chiesa,
tuttavia vedevo che nelle credenze del popolo il falso era commisto al vero.
Ma da dove era venuto il falso e da dove era venuto il vero? Sia la menzogna sia
la verità sono tramandate da ciò che chiamiamo la chiesa. Sia la menzogna sia la
verità sono contenute nella tradizione, nella cosiddetta sacra tradizione e
nella scrittura.
E, che lo volessi o no, io ero indotto allo studio, all'indagine su questa
scrittura e su questa tradizione, indagine che avevo tanto temuto fino a quel
momento.
E così mi volsi allo studio di quella teologia che una volta con tanto disprezzo
avevo rifiutato come inutile. Allora essa mi era sembrata una serie di inutili
non-sensi, allora da tutte le parti mi circondavano manifestazioni di vita che
mi sembravano chiare e piene di significato, ora invece sarei stato contento di
respingere quello che non poteva entrare in una mente sana, ma non sapevo come
cavarmela. Su questa dottrina religiosa si fonda, o per lo meno ad essa è
indissolubilmente legata, l'unica conoscenza del significato della vita che mi
sia stata rivelata. Per quanto ciò possa apparire folle alla mia vecchia
pervicace ragione, è questa l'unica speranza di salvezza. Bisogna esaminarla
cautamente, attentamente, per comprenderla, anche se non mi sarà mai dato
comprenderla come posso comprendere una tesi scientifica. Io non cerco e non
posso cercare di raggiungere questo, ben sapendo quale sia la peculiarità della
conoscenza della fede. Non cercherò la spiegazione di tutto quanto.
Io so che la spiegazione di tutto, così come il principio di tutto, deve celarsi
nell'infinito. Ma io voglio comprendere fino a essere condotto a ciò che è
inevitabilmente inspiegabile, voglio che tutto ciò che è inspiegabile rimanga
tale, non perché le esigenze del mio intelletto non siano giustificate (esse
sono giustificate e fuori di esse io non posso comprendere nulla), ma perché
vedo i limiti della mia ragione. Io voglio comprendere in modo tale che ogni
proposizione inspiegabile mi si presenti come una necessità della ragione stessa
e non come un obbligo di credere.
Che nella dottrina vi sia il vero è per me indubitabile: ma indubitabile è anche
il fatto che in essa vi sia il falso ed io devo trovare il vero e il falso e
separare l'uno dall'altro. Ed ecco io a questo mi accingo. Che cosa ho trovato
di falso e che cosa ho trovato di vero in questa dottrina e a quali conclusioni
sono giunto, costituirà le parti successive di quest'opera, la quale, se ne
varrà la pena e sarà utile a qualcuno, probabilmente sarà, chissà quando e
chissà dove, pubblicata.
Questo è stato scritto da me tre anni fa.
Nel riguardare adesso la parte stampata e nel seguire di nuovo quel corso di
pensieri e quei sentimenti che erano in me quando ne vivevo le sofferenze,
alcuni giorni orsono ho fatto un sogno. Questo sogno esprimeva per me in sintesi
tutto quel che avevo sofferto e descritto e perciò penso che, anche per quelli
che mi hanno capito, la descrizione di questo sogno ravviverà, chiarirà e
raccoglierà in un tutto unico quello che così per esteso è raccontato in queste
pagine. Ecco il sogno: io mi vedo sdraiato su un letto. E non stò né bene né
male, sono sdraiato sul dorso. Ma comincio a chiedermi se stò comodo, così
sdraiato; mi pare che qualcosa mi dia noia ai piedi; sento che qualcosa o è
troppo corto, o non è in pari; comunque mi dà noia; muovo un po' i piedi e nello
stesso tempo comincio a considerare in che maniera e su che cosa sto sdraiato,
il che finora non mi era venuto in mente. E guardando meglio il mio letto vedo
che sto sdraiato su certe cinghie di corda intrecciata, fissate ai lati del
letto. Le piante dei piedi poggiano su una di queste cinghie, le ginocchia su
un'altra, le gambe dunque sono a disagio. Io so, non so come, che queste cinghie
si possono muovere. E con un movimento delle gambe respingo l'ultima cinghia che
sta sotto i miei piedi. Mi pare che così starò più comodo. Ma l'ho spinta troppo
lontano, voglio riafferrarla con i piedi, ma con questo movimento anche l'altra
cinghia mi sfugge via da sotto le ginocchia e le gambe penzolano. Faccio un
movimento con tutto il corpo per rimettermi in equilibrio, convintissimo di
riuscirci; ma con questo movimento anche le altre cinghie si spostano e
scivolano sotto di me e vedo che la cosa volge al peggio; tutta la parte
inferiore del mio corpo cala giù e rimane penzoloni, i piedi non arrivano a
toccare terra. Io mi reggo soltanto con la parte superiore della schiena e tutto
diventa per me non solo scomodo, ma addirittura atroce. Allora soltanto mi
chiedo quel che prima non mi veniva neppure in testa: io mi chiedo: dove e su
che cosa sono sdraiato? Comincio a guardarmi intorno e innanzitutto guardo in
basso là dove penzola il mio corpo e dove sento che sto per cadere. Guardo in
basso e non credo ai miei occhi. Mi trovo ad un'altezza che non è neppure
paragonabile a quella di una torre altissima o di una montagna, mi trovo ad una
altezza tale, che mai avrei saputo immaginare.
Non riesco a capire se vedo o no qualcosa là in fondo, in quel precipizio senza
fondo sul quale sono sospeso e che mi attrae. Il cuore mi si stringe e sono
atterrito. Guardare là è terribile. Sento che se guarderò là, scivolerò dalle
ultime cinghie e perirò. Io non guardo, ma non guardare è ancora peggio, perché
allora penso a quel che mi accadrà quando sarò scivolato via dall'ultima
cinghia. E penso che per il terrore sto perdendo l'ultimo sostegno e lentamente
scivolo sul dorso sempre più in basso. Ancora un istante e mi staccherò. E
allora mi viene da pensare: non è possibile che questo sia vero. E' un sogno.
Svègliati. Tento di svegliarmi, ma non ci riesco. Che fare? che fare? mi
domando, e guardo verso l'alto. Anche là in alto c'è un altro abisso. Io guardo
in quell'abisso del cielo e mi sforzo di dimenticare l'abisso che è in basso ed
effettivamente ci riesco. L'infinito in basso mi respinge e mi atterrisce.
L'infinito in alto mi attrae e mi dà forza. Io sto sospeso sopra l'abisso, sulle
ultime cinghie che non mi sono ancora scivolate via. So di stare sospeso, ma
guardo soltanto in alto e il mio terrore sparisce. Come accade in sogno una voce
dice: "Stai attento, è questo!" e io guardo sempre più lontano in alto
nell'infinito e sento che mi sto calmando, ricordo tutto ciò che è accaduto, e
ripenso a come è accaduto: come ho messo i piedi, come sono rimasto penzoloni,
come mi sono atterrito e come mi sono salvato dal terrore guardando in alto. E
mi vado chiedendo: be', e ora? non sono forse ugualmente penzoloni? E io non
tanto mi guardo attorno, quanto, con tutto il mio corpo, sento il punto di
appoggio sul quale mi reggo e vedo che non penzolo più e che non cado, ma mi
reggo saldamente. Mi chiedo come mi reggo, mi palpo, mi guardo intorno e vedo
che sotto di me, proprio a metà del mio corpo, c'è una sola cinghia e che quando
guardo in alto poggio su di essa nell'equilibrio più stabile e mi accorgo che
anche prima essa sola mi reggeva. Ed ecco che, come accade in sogno, questo
meccanismo, per mezzo del quale mi reggo, mi appare molto naturale,
comprensibile e sicuro, nonostante che in realtà tale meccanismo non abbia
nessun senso. In sogno io persino mi meraviglio di non averlo capito prima. Vien
fuori che vicino alla mia testa c'è un palo e la solidità di questo palo non dà
adito ad alcun dubbio, nonostante che questo palo sottile non abbia nulla su cui
poggiare. E poi dal palo in modo molto ingegnoso e insieme semplice si diparte
una corda e se te ne stai su questa corda con il centro del corpo e guardi in
alto, non c'è nessun pericolo di cadere. Tutto questo mi era chiaro ed io ero
contento e tranquillo. Ed era come se qualcuno mi dicesse: Attento, non
dimenticare. E mi svegliai.