Le vie del sapere

di Gianni Vergineo

1. I due occhi della conoscenza.

Guido e Salvatore Rampone, zio e nipote, sembrano in questo libro sui Futuri possibili della tecnologia multimediale, sconvolgere la scala gerarchica tradizionale del rapporto familiare. Si danno la mano e si scambiano le parti: lo zio interpreta la parte dionisiaca, portata all’estasi e all’ebbrezza; il nipote ricopre il ruolo apollineo, aperto alla solare razionalità illuministica. Nell’uno domina il senso del mistero creativo; nell’altro, l’amore della conoscenza intellettiva. Da un canto, la sapienza; dall’altro, la scienza. Due vie, due culture, due concezioni, sinora separate, se non contrapposte, qui si avvicinano alla ricerca di un sentiero comune in cui la realtà interna dialoghi con il mondo esterno, la vita spirituale con la dimensione naturale, la parola con l’azione, la creazione con la visione, la fantasia col pensiero, il sentimento con la ragione. Ai due autori sembra che questo miracolo possa avvenire nella rivoluzione multidimensionale, grazie alla rete telematica, nel cyberspazio. È possibile che, attraverso gli ipertesti e i multimedia, i due umanesimi, classico e scientifico, sinora diffidenti l’uno dell’altro, per effetto di chiusure dettate da orgogli e pregiudizi assurdi, riescano a trovare la comune origine nell’unità dello spirito umano e si riconoscano fratelli. La separazione non ha più senso, in un mondo, quale quello attuale, che non ha più confini, e in un genere umano, che non ha più classi chiuse e statiche, e la libertà, la contingenza, la relatività vincono le leggi dell’autorità, della necessità, dell’assolutezza; e al monismo enciclopedistico subentra il pluralismo epistemologico, per cui ogni disciplina ha un suo statuto specifico, ideale e linguistico, e insieme una virtualità indefinita di apertura e di integrazione. Tra il versante spirituale (umanesimo classico) e il versante naturale (umanesimo scientifico), tra il soggetto e l’oggetto, la verità abitante nell’uomo e quella immanente nell’essere, non esistono più confini netti, fissi, rigidi. La conoscenza non è più un riflesso delle cose nello specchio della mente (adaequatio intellectus ad rem), ma una sintesi dinamica e creativa di dati empirici e di categorie mentali, di contenuti e forme, di fatti e paradigmi interpretativi. L’interno e l’esterno, il concetto e l’immagine, lo schema mentale e la cosa, sono due lati di una stessa realtà: due aspetti inseparabili. Si ammette la distinzione, che mantiene la sintesi, non la separazione che lacera l’unità conoscitiva. I due umanesimi, dunque, non hanno legittimazione epistemologica; ma solo una spiegazione storica: gli antichi conoscevano un solo umanesimo, dove la scientia rerum e la scientia sui, la conoscenza delle cose e la conoscenza di sé, erano in rapporto di complementarità dialettica, anche se la linea aristotelica privilegiava la via del mondo e della natura (oggettivismo); e quella platonica la via di Dio e dello spirito (soggettivismo). Ma né Platone si negava ai problemi cosmologici, perché per lui il mondo non era solo imitazione del cosmo iperuranio, ideale, perfetto, ma anche partecipazione (metexis) e comunanza (coinonia) con la realtà suprema delle idee; né Aristotele si sottraeva alle scienze umane e storiche, alle virtù etiche e politiche (attive) e dianoetiche (contemplative) della persona umana. Differenze di accento, non di valore o di grado. Tra la sapienza e la scienza, l’occhio che guarda la verità in interiore homine, e quello che la cerca fuori dall’uomo, nelle cose sensibili, non c’era una barriera tanto opaca da impedire la reciproca visione. Solo i pregiudizi e gli equivoci potevano soffocare la trasparenza delle due visioni. In un dialogo di Platone (Fedro LIX) Socrate lascia intendere che i problemi dell’informazione e comunicazione erano già vivi ai tempi dell’invenzione dell’alfabeto. "Ho sentito narrare - dice - che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato Ibis e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Il re dell’intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i greci chiamano Tebe Egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti, dicendo che esse dovevano essere diffuse presso tutti gli egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: - Questa scienza, o re, disse Theuth, renderà gli egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria, perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria - . E il re rispose: - O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria, perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla memoria. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza, perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti". Il dio Theuth è qui il simbolo dell’umanesimo scientifico, come il greco Hermes, inventore di calcoli e calcolatori: è l’occhio della scienza che si presta alla tecnica. E la sua invenzione tecnologica più rivoluzionaria è l’alfabeto: un’invenzione diretta a sottrarre il fuoco del sapere agli dèi del potere e a donarlo prometeicamente agli uomini. Thamus, invece, simboleggia l’occhio della sapienza interiore, che è aristocraticamente sdegnosa di espedienti tecnologici, sicura di sé e dell’autorità divina su cui poggia, in virtù di un sacro retaggio. È naturale che egli legga i testi della scienza e della tecnica con gli occhi della tradizione sapienziale. Tutto ciò che viene dai sensi è apparenza, impressione, illusione, non conoscenza autentica: è doxa, opinione; non epistème, scienza vera, quella che dà al sapiente il diritto di "stare sopra", di dominare e governare gli uomini e le cose. Perciò l’alfabeto, che mira alla diffusione del sapere, attraverso grafemi convenzionali, non può essere altro che un fattore di degradazione della memoria, di volgarizzazione della cultura, di impoverimento dell’intelligenza. L’estensione diluisce l’intensità, come la democrazia (potere di molti) vanifica la monocrazia (potere di uno), pluralizzando l’unità del potere nella molteplicità dei cittadini. La conseguenza di questa rivoluzione è che gli uomini non saranno più sapienti, ma saccenti. Di qui la condanna socratica del libro: un libro è come un dipinto: le figure possono magari sembrar vive, ma non possono parlare, un libro non risponde alle obiezioni, alle domande, alle preghiere: parla come se esistesse solo il suo discorso. È tuttalpiù un memorandum buono a rinfrescare di tanto in tanto la memoria, nulla di più. Chi ha ragione ? Platone lascia le porte aperte. Pur essendo discepolo di Socrate, egli scrive libri. Ma i suoi libri sono dialoghi, non trattati: drammi del pensiero che procede tra tesi e antitesi. E perciò vivi. Perché il punto è proprio questo: non un discorso unidirezionale, ma un dialogo pluridirezionale; non una verità data e definita in partenza, una volta per sempre, ma una verità che si dà e si definisce dialetticamente, si pone e si corregge di fronte alle contraddizioni, e giunge ad una conclusione, dopo un intenso processo maieutico; e spesso non ha conclusione, perché, mentre sembra trovare il punto di convergenza, si biforca e dialettizza nuovamente. Platone enfatizza l’occhio di Thamus, che cerca la verità nel mito, ma sa che esso ha bisogno anche dell’occhio di Theuth, che la cerca nelle cose del mondo.

2. La civiltà del libro e la multimedialità

L’invenzione dell’alfabeto affianca alla "cultura orale" della tradizione la "cultura grafica" dell’alfabeto: una rivoluzione sconvolgente, di fronte alla quale le reazioni più vistose muovono da posizioni estreme, come oggi di fronte alla rivoluzione elettronica: da una parte gli apocalittici, come Thamus, che gridano alla fine del mondo, davanti all’ascesa di nuovi ceti sociali armati di libro e di penna; dall’altra, gli integrati, che benedicono le conquiste del progresso, che allargano le vie della partecipazione al Sancta sanctorum del sapere e del potere. Per ogni invenzione e scoperta è sempre la stessa manfrina. I soggetti minacciati di declino la vedono come una dannazione; i soggetti emergenti come il preludio di una terra promessa. Gli uni danno corpo alla loro paura; gli altri, alla loro speranza. In ogni caso, perdono di vista la tecnologia nella sua funzione oggettiva, e le attribuiscono disvalori o valori che dipendono solo dalla mente e dalle mani degli uomini. Fanno di una cosa strumentale il veicolo del male o del bene: trasformano il mezzo in fine. Per dirla col Postman, sono zelanti profeti con un occhio solo: o l’occhio che vede solo la pars destruens; o l’occhio che vede solo la pars construens. La verità è che ogni rivoluzione distrugge e costruisce, nega e afferma: è morte e creazione, peccato e redenzione. Come la vita. Ma il motore di tutto, non è la macchina, bensì l’uomo; la macchina è solo la causa strumentale. È lui che la usa, la indirizza, la guida, la punta. Il fine è scelto da lui. E, purtroppo, poiché la sua natura è ambigua, ambigua è anche e sempre l’uso dei suoi strumenti. È un fatto, però, che tutta la civiltà degli antichi, greco-romana, è legata alla scrittura e al libro. La loro carta da scrivere era il papiro, e, dopo l’embargo di Alessandria contro Pergamo, la pergamena (cartapecora), senza parlare di tante altre materie scrittorie occasionali. Il loro libro era un rotolo papiraceo (volumen) o un codex membraneus a forma di quaderno (quaternio). Con questi mezzi, il docente nei vari gradi scolastici trasmetteva i vari elementi del sapere, ma non senza far ricorso ad una certa multimedialità, compresenza di altri mezzi di comunicazione, per rendere più accessibile la dimensione semantica delle parole e più chiara la intelligenza dei concetti. Ad essi si affidava soprattutto il ludi magister (grado elementare), che spesso aveva bisogno di rappresentazioni iconografiche e ideografiche accessibili alle menti dei bambini, sia per trasmettere messaggi, sia per stimolare gli stessi educandi all’espressione plurima dei contenuti mentali. Il grammaticus (docente di grado medio) aveva meno bisogno di questi sussidi, e ancor meno il rhetor (docente di grado superiore) per la progressiva intellettualizzazione del processo educativo. L’età cristiana continua a vivere del retaggio classico, ma in una prospettiva diversa di valori. L’universalità della buona novella, sia in senso geografico che sociale, porta le classi umili nell’ecclesia, assemblea dei credenti, accanto ai dotti, ai ricchi, ai potenti. Si impone la necessità di una catechesi evangelica e biblica fatta non solo di parole orali, ma anche di immagini dipinte o scolpite. È questa la Bibbia dei poveri che vale anche per la gioia degli occhi e dello spirito dei potenti. È così che il primo grande movimento di riforma, quello di Cluny, dei monaci neri, finisce col fare delle cattedrali gotiche tanti grandiosi poemi di pitture, sculture, rilievi, dove i fedeli potevano leggere i misteri della fede, i più significativi episodi del vecchio e nuovo testamento, esempi di vite eroiche e di santità, ma anche vicende realistiche, figure mostruose e terrificanti, di forte pregnanza simbolica o allegorica, come nelle miniature delle pergamene. Questa produzione di cultura di massa non poteva non suscitare lo sdegno degli apocalittici del tempo. E lo suscitò, infatti, in forme di violenta polemica rigorista. Di questa reazione si ha una testimonianza impressionante nell’Apologia ad Guillelmum di San Bernardo di Chiaravalle, che alla riforma cluniacense dei monaci neri oppose la più severa riforma cistercense dei monaci bianchi, nemica delle immagini. Contro Sugerio, abate di Cluny, preoccupato di educare le masse, escluse dall’esercizio della scrittura, con la literatura laicorum delle sculture e dei portali, dei rilievi dei capitelli, delle pitture parietali, San Bernardo leva la sua voce tonante di apocalittica potenza. L’odio verso questi libri di pietra, di ori e gemme preziose, muoveva da una tensione ascetica tutta concentrata nell’interiorità, al di là del vano e vario balenio di sensazioni e immagini per cui l’abbagliante splendore delle cattedrali era una perenne tentazione dei sensi. Ai suoi occhi la casa di Dio deve essere nuda e pura. "Cosa ci sta a fare nei chiostri - egli grida - davanti ai frati leggenti, quella ridicola mostruosità, quella mirabile, per così dire, deforme formosità e formosa deformità? A che quelle immonde scimmie? A che quei feroci leoni? A che quei mostruosi centauri? A che quei semiuomini? A che quelle maculate tigri? A che quei soldati pugnanti? A che quei cacciatori tibicinanti? Si potrebbe scorgere una pluralità di corpi sotto una sola testa e viceversa su un solo corpo una moltitudine di teste. Da una parte si vede in un quadrupede la coda di un serpente; dall’altra in un pesce la testa di un quadrupede. Lì una bestia porta davanti la forma di cavallo, dietro quello di una capra; qui, un animale cornuto ha la parte posteriore di un cavallo. Tanta e così mirabile varietà di forme diverse appare dovunque e dà più piacere leggere nei marmi che nei codici, e occupare l’intero giorno ammirando una per una queste immagini che meditando sulla legge di Dio. Oh Dio, se non si ha vergogna di queste vanità, perché non si ha ritegno almeno degli sprechi?" Per San Bernardo questa multimedialità comunicativa è un attentato alla vita spirituale. Tutte le cose preziose e speciose appartengono al fango del mondo: le cose che sono delizia per gli occhi (pulcre lucentia), che carezzano l’orecchio con dolci note musicali (canore mulcemtia), che inebriano l’olfatto con soavi profumi (soave olentia), che tentano il palato con graditi sapori (dulce sapientia), che piacciono al tatto (tactu placentia): tutti i diletti del corpo (oblectamenta corporea) sono armi del demonio. Ma, alla fine, anche le abbazie cistercensi finiscono con l’accettare la multimedialità delle abbazie cluniacensi. Ma non è solo questione di piegare i codici comunicativi al livello intellettivo del popolo senza alfabeto, giacché anche i chierici, i dotti, i signori dell’alfabeto e del potere, indulgono a queste forme multimediali di conoscenze. Gli stessi libri di grande livello culturale, pergamene di altissimo pregio, non sono solo veicoli di scritture eleganti e raffinate, ma anche capolavori di arte pittorica, di maestri di miniature, dove il codice dei segni verbali si coniuga con altri codici espressivi e comunicativi. Il costo dei materiali scrittorii e la difficoltà di approntare i codici delle opere trasmesse non consentono di superare certi limiti di quantità. Non tutti possono disporre di amanuensi e miniaturisti. Perciò il possesso di un codice è spesso un simbolo di dignità sociale. Il carattere aristocratico dell’umanesimo nasce da questo collegamento della dignità intellettuale e della dignità economica. Il primo poeta che si può considerare come il padre dell’umanesimo, il Petrarca, è legato a questo risvolto economico-sociale. Ogni umanista è orgoglioso delle sue pergamene: che gli danno il senso di una dignitas, di una excellentia, di una libertas, che ha una dimensione spirituale. La sapientia, liberale e disinteressata, lo innalza e insieme lo isola in una sfera dalla quale egli può guardare con disprezzo la scienza e la tecnica. La polemica del Petrarca contro i medici averroisti padovani, naturalisti assertori del valore assoluto della scienza, è il primo passo verso l’isolamento della cultura umanistica, con la conseguente antinomia tra artes liberales e artes mechanicae, tra "paideia" dello spirito e attività tecnico-manuale, tra il mondo morale e il mondo naturale, tra la mente e la mano, tra l’homo sapiens e l’homo faber. Da una parte, abbiamo l’universo dell’aristocrazia spirituale; dall’altra il volgo o la plebe. È naturale che l’invenzione della carta e della stampa provocasse nell’aristocrazia della pergamena uno choc di estrema violenza. La rivoluzione tipografica di Gutemberg è il più alto salto di democratizzazione del sapere della storia umana. Come la bussola apre al commercio le vie del mondo e la polvere da sparo trasferisce alla fanteria dei borghi l’arte della guerra contro la cavalleria dei castelli, così la stampa schiude la cultura dei codici ai ceti popolari. Il libro stampato inaugura la civiltà moderna, che è civiltà essenzialmente borghese, attiva, creativa, produttiva. Esso accende tutte le rivoluzioni moderne: religiose (il libero esame protestante esalta con la coscienza individuale la lettura delle sacre scritture tradotte e diffuse ovunque negli idiomi nazionali); industriale (la macchina a vapore sconvolge col capitalismo di concorrenza la tecnica produttiva); sociale (nuovi mezzi di produzione fanno emergere nuovi ceti e classi); politiche (la libertà dallo stato oppressore spicca il volo dalla rivoluzione inglese a quella americana, a quella francese più sconvolgente di tutte); intellettuale (la scienza sperimentale prende il posto dell’aristocratica sapienza umanistica). La stampa consente all’attivismo pedagogico moderno una multidimensionalità sempre più vasta. Nasce l’umanesimo scientifico con Galilei, Cartesio, Bacone. L’umanesimo classico, pur benemerito dell’unificazione spirituale dell’Europa con la fede di Erasmo e di Tommaso Moro in un Logos universale, esaurita la sua funzione, si retoricizza e si rifugia nei collegi gesuitici. L’abisso diviene incolmabile, mentre l’umanesimo scientifico trionfa sempre più superbamente. L’uno si chiude in un orgoglio nobilesco da decadenza; l’altro, preso dall’ebbrezza dei successi, si pone come valore assoluto: si annette anche l’ambito conoscitivo interno e arriva a proclamare la morte di Dio. Questo peccato di dismisura o tracotanza (la hybris della tragedia greca) si traduce nella pretesa di quantificare e matematizzare ogni aspetto dell’essere, lasciando fuori dall’ambito scientifico l’intero continente della vita interiore e riducendo la logica del vivente alla logica del meccanico. Sul versante fisico-matematico il progresso è esaltante: invenzioni e scoperte continuano una dopo l’altra. Dalla macchina a vapore si arriva alla macchina elettrica, che produce il fordismo, cioè il capitalismo di organizzazione, che porta al taylorismo, alla psicotecnica, alla misurazione dell’intelligenza e delle attitudini. Infine, il salto più grande: dalla macchina elettrica alla macchina elettronica (il capitalismo d’automazione). È qui che si affaccia la necessità di recuperare l’occhio dell’umanesimo classico e tentare una sintesi. Il passaggio dell’informatica alla rete telematica, ad Internet, alla tecnologia elettronica interattiva, sembra condannare a morte la civiltà del libro, che poi è tutta la nostra storia, dal libro papiraceo o membranaceo al libro a stampa, sublimando la multimedialità, già tentata nel passato, ma solo oggi assurta ad un grado altamente qualificante. La concentrazione delle industrie e delle metropoli industriali dell’età fordista è messa in crisi dalla rete elettronica, il cui carattere multidimensionale evidenzia sempre più chiaramente la multidimensionalità dell’uomo: la tendenza in atto è la decentrazione, la risoluzione progressiva delle megalopoli in sistemi policentrici, autogovernati, autoorganizzati, autodiretti, che la rete sottrae all’isolamento e mette in comunicazione tendenzialmente planetaria. Questo processo si coniuga con la dematerializzazione, disincarnazione, demassificazione, telematizzazione dei rapporti umani e sociali. Ma anche qui il Paradiso della Città cosmica ideale nasconde il serpente (la vanificazione della persona nell’immagine). È qui che i due autori di questo libro si incontrano e si confrontano dialetticamente sulla base della convinzione comune che la tecnologia interattiva sia un principio incoraggiante di un nuovo percorso storico, diretto a fare della multidimensionalità non il fattore di vanificazione della realtà, ma quello di potenziazione di risorse umane finora inespresse, in una prospettiva di grande sintesi. Il punto su cui convergono l’umanesimo classico di Guido e l’umanesimo scientifico di Salvatore, i due occhi della conoscenza, è la coscienza creatrice dell’uomo, laddove poesia e filosofia, immagine e concetto, sapienza e scienza, sentimento e idea, etica ed economia, trovano il loro centro di unità. I due occhi sono a servizio di una stessa mente. E sono aperti sulla stessa realtà, dove la via interna e la via esterna, l’essere e l’esistere, l’identità e il divenire richiamano il Principio da cui tutto prende senso e valore: il Logos di Erasmo e di Tommaso Moro. Se questo è un sogno, che sarà il risveglio?

Gianni Vergineo

Gianni Vergineo è uno storico ed un letterato profondamente stimato in terra sannita. Ha scritto opere di grande rilievo, tra cui la storia di Benevento in quattro poderosi volumi e una pregevole storia della letteratura italiana. Il suo spessore culturale è di tipo multidisciplinare, multidimensionale; la sua visione non ha nulla di dogmatico, è proteiforme, vicina all’umanesimo aperto di Erasmo da Rotterdam e alla tensione ideale di Tommaso Moro. Il suo cristianesimo non ha nulla del secolare ricorso agli orpelli, ai giochi dogmatici, è nutrito di acume filosofico quale "conoscenza sapienzale di vita". Egli squarcia ogni velo e tra l’umana illusione e la follia spinge il suo sguardo al Logos, per radicarsi nel mondo e illuminare la sua fede in un’esistenza come continuo rinascere con l’occhio dell’interiorità e della libertà dello spirito, senza privarsi dell’occhio esterno, della quotidianità e della microstoria.

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