Le
origini dell'oratorio sono molto incerte e per il momento i documenti
rinvenuti non aiutano a comprendere quando esso sia stato edificato.
Sicuramente in origine il dipinto della Vergine era collocato
entro un semplice tabernacolo, posto al quadrivio di strade percorse
giornalmente dagli scalpellini che si recavano alle cave di Maiano
o di Trassinaia.
La prima notizia sull'edificio è ricavata da un atto notarile
dell'anno 1525, che riguarda una donazione da parte di un gruppo
di parrocchiani di Settignano al convento della Santissima Annunziata
di Firenze. Esso dà adito a varie interpretazioni e lascia
nel dubbio sulle caratteristiche della costruzione sacra:
"Item ad donandum se titulo donationis libere et irrevocabilis
concedendum e tradendum quoddam tabernaculum seu oratorium dicti
populi, sub invocatione Beate Marie del Vannella situm in dicto
populo, loco dicto alla Vergine Maria del Vannella (...)"
Nell'anno 1526 l'oratorio o il tabernacolo venne unito alla chiesa
di Santa Maria di Settignano, con atto di annessione firmato
dall'Arcivescovo di Firenze Niccolò Ridolfi.
Alcuni anni più tardi, in un documento del 1537 riguardante
la raccolta delle offerte ed elemosine destinate alla sacra immagine
del Vannella, e depositate presso l'Ospedale degli Innocenti
di Firenze, si nomina l'edificio che accoglieva l'affresco con
le parole "Tabernaculi Virginis Marie del Giovannella"
e ancora: "Oratorio seu tabernaculo del Giovannella".
Come si vede, anche questo documento non dà alcuna certezza
se in quel periodo vi sia stato soltanto un tabernacolo o un
vero e proprio oratorio. Le elemosine sopra citate, depositate
nel 1537 presso l'Ospedale degli Innocenti, erano state destinate
al restauro della chiesa di Santa Maria di Settignano e così
vennero impiegate nel 1618, dopo aver ottenuto opportuna licenza
dal vescovo e dal granduca Cosimo II de' Medici. Le notizie sull'antico
sacello del Vannella si interrompono qui per mancanza di documenti
e riprendono soltanto nella prima metà del Settecento.
L'oratorio, nella forma attuale, deriva da un ampliamento o ricostruzione
effettuata fra il 1719 ed il 1721. Nel 1719, "otto persone"
del paese si impegnarono a restaurare a loro spese il sacello
"in necessità di essere risarcito, ampliato e ridotto
a miglior forma". Il priore dell'epoca, Don Domenico Buongiovanni,
favorevole all'iniziativa, scrisse una lettera all'arcivescovo,
controfirmata dalle otto persone benemerite, per ottenere il
relativo permesso e il vescovo fu ben lieto di accogliere tale
iniziativa e dette il proprio benestare con entusiasmo.
I lavori di ristrutturazione durarono circa due anni. La lapide
collocata sotto l'altare ricorda il compimento dell'opera con
"A.D. MDCCXIX M. FEBR.°"
Il cartiglio avvolto alla cornice dell'affresco nel soffitto,
commissionato a Mariotto Formigli, indica il termine della decorazione
alla data 1721.
La documentazione d'archivio riguardante l'edificio in modo continuativo
inizia nel 1726, ed è da tale data che possiamo seguire
in modo costante le vicende dell'oratorio e registrare i progressi
del suo abbellimento e arricchimento con arredi sacri.
Il 16 maggio 1728 gli Operai del Vannella, radunati in assemblea
"risolverono per partito di far un'aggiunta di fabbrica
dietro e accanto a detto Oratorio da non comunicarsi con porte
et aperture di sorte alcuna prima che sia terminata detta fabbrica
(
)" Si trattava evidentemente dei lavori di costruzione
della nuova cappella, poi dedicata a Santa Cristina, sul dietro
dell'oratorio. Per poter liberare la parte retrostante l'oratorio
e anche per togliere l'umidità che proveniva dalla parte
posteriore dell'edificio, occorreva però far spostare
la strada sul davanti. Ma ciò dipendeva dalla concessione
del granduca Gian Gastone de' Medici, cui gli Operai si rivolsero
con una supplica, che fu accolta.
Dopo la costruzione della cappella, sul retro dell'oratorio,
gli Operai pensarono di aprire delle porte per far comunicare
internamente la nuova cappella con l'oratorio. Il lavoro venne
effettuato a spese di alcuni Operai che fornirono anche i materiali
occorrenti.
(
)
Il 27 maggio 1730 Santi Smorti, abitante a Firenze, ma nativo
di Settignano, donò all'oratorio "la reliquia di
S. Cristina V. e martire con suo reliquiario dorato e con l'autentica
per servirsi di detta reliquia principalmente per la festa che
si fa in detto Oratorio la 2° festa di Pentecoste ( ...)".
Nel settembre dello stesso anno fu comprata dall'Opera di Santa
Maria del Fiore di Firenze una "pietra sagrata" per
il nuovo altare della cappella di Santa Cristina.
Nel 1732 lo scultore Lazzaro Ricci realizzò una statua
di gesso colorato raffigurante Gesù Bambino da collocare
sopra l'altare e due anni più tardi Francesco Miniati
intagliò un baldacchino dorato sopra il ciborio dell'altare.
Maria Vittoria Zati e il marito, il senatore Filippo Cerretani,
nel 1736 donarono all'oratorio un parato da messa "di muer
bianco argentino, guarnito d'oro", composto da una pianeta,
due tonacelle, un piviale, due stole, tre manipoli e un velo
da calice.
Nel 1743 fu collocata nella cappella di Santa Cristina la pala
con l'effigie della santa dipinta da Giovanni di Simone Masoni,
entro la cornice realizzata dal legnaiolo Francesco Codacci.
Cinque anni più tardi gli Operai del Vannella portarono
avanti il progetto di costruire una nuova stanza attigua all'oratorio
da adibire a sagrestia.
Per finanziare la spesa di tali lavori venne utilizzato il ricavato
della vendita di sei cipressi antistanti l'oratorio, come apprendiamo
da una memoria del 20 aprile 1748.
I lavori vennero eseguiti dal maestro di pietra Giovanni Maria
Giovannozzi e dal muratore Giovanni Montepilli. Nello stesso
anno la sagrestia fu arricchita da un lavabo composto da una
"piletta di marmo usata ed un nicchio di marmo" donati
da Iacopo Boninsegni.
Nel dicembre del 1748 Simone Masoni fece dorare la cornice del
quadro di Santa Cristina e tre anni dopo Francesco Codacci costruì
il nuovo banco della sagrestia e fornì altri manufatti
in legno. Il lavoro di costruzione e compimento della sagrestia
e della stanza superiore durarono vari anni dal 1748 e terminarono
soltanto nel 1758.
Nel 1767 furono realizzate due tavolette a forma di formelle
incorniciate, per affiggervi gli ex-voto e l'indulgenza. Quattro
anni più tardi l'intagliatore Lorenzo Mazzoni realizzò
una cassettina per la conservazione delle reliquie della Madonna,
dorata da Giuseppe Gianni.
Tra il 1782 ed il 1784 l'Oratorio del Vannella e la cappella
di Santa Cristina furono oggetto di nuovi lavori di ristrutturazione.
Le pareti vennero ristuccate, intonacate e dipinte e inoltre
si rese necessario lo scavo di un fosso dietro l'oratorio per
togliere l'umidità che proveniva dal poggio retro stante.
Venne anche deciso di erigere una loggia davanti alla facciata
dell'oratorio, il cui costo, ancora una volta, sarebbe stato
sostenuto in parte con il ricavato della vendita dei cipressi
antistanti l'edificio.
Altri lavori furono realizzati: "26 luglio 1784 ( ...) per
fare riattare tutto l'Oratorio cioè fatto tutto rintonacare,
ristuccare, imbiancare tutte le mura, la tettoia, la sagrestia
e palco della medesima, scala e camerina e tettoia, fatto rifare
i confessionari in altra forma e fatti venare e dare olio e così
anche al banco di sagrestia e inginocchiatoio di sagrestia e
tutte le panche de l'Oratorio e di S. Cristina, fatto ritingere
il grado dell'altare di S. Cristina (...)".
Nello stesso anno il priore Filippo Bandinelli commissionò
ad un artigiano le stazioni della Via Crucis da appendere alle
pareti dell'oratorio.
Le notizie d'archivio si fermano a questo punto e riprendono
soltanto dopo molti anni, alla metà dell'Ottocento.
Abbiamo notizie che nel 1842 l'edificio del Vannella fu oggetto
di nuovi lavori di ristrutturazione, a spese del parroco Giuseppe
Bartolini e di alcuni soci del Trentesimo.
Nel 1350 furono acquistati dodici vasi di legno filettati d'oro
e otto candelieri nella bottega di Vincenzo Grilli. L'anno successivo
alcuni pittori effettuarono i lavori di ornato e decorazione
alle pareti dell'oratorio.
Nel 1351 i benefattori donarono degli oggetti sacri all'oratorio
e cioè un crocifisso dorato con croce e piedistallo di
noce che venne collocato sopra il ciborio dell'altare ed un filo
di perle con anello d'oro e cuore d'argento che venivano appesi
accanto all'immagine della Madonna in tempo di festa.
Nella notte tra il 27 ed il 23 giugno 1364 dei ladri penetrarono
nei locali dell'oratorio attraverso una finestra, asportando
tra le altre cose i voti di argento, camici, tovaglie, calici,
candelieri e il diadema apposto all'immagine della Madonna. Venne
allora chiamato il pittore Ferdinando Folchi, perché restaurasse
la sacra immagine ed egli, intervenuto, precisò che secondo
il suo parere si trattava di un affresco di mano di fra' Filippo
Lippi e che era stato deturpato da un pessimo restauratore nel
1720.
Nel 1373 Luigi Bondi e Giovacchino Fortini ripararono ed ingrandirono
l'altare della cappella di Santa Cristina e gli stipiti della
porta dell'oratorio.
Dalla fine dell'Ottocento ai nostri giorni, le notizie d'archivio
si fanno molto sporadiche e non registrano ulteriori lavori all'edificio
del Vannella. Nei libri di ricordi di don Vittorio Rossi e di
don Baldassarre Brilli, i parroci di allora, si menziona l'oratorio
solo in occasione delle maggiori festività e delle processioni
che si svolgevano "fino all'Immagine della Vergine del Vannella."
Nel dicembre 1940 il professor Teodoro Stori donò all'oratorio
un simulacro del Gesù morto fatto restaurare a sue spese
e destinato alla venerazione dei fedeli. L'opera era stata trovata
nella soffitta di una casa colonica malridotta e spezzata in
più parti.
Nel 1944, nella cappella di Santa Cristina, l'Istituto Geografico
Militare depositò gran parte del materiale per salvarlo
dalla distruzione della guerra. Due anni più tardi l'edificio
del Vannella venne rinnovato: furono rimbiancate le pareti, pulite
le pietre, restaurate e riverniciate le porte, riparato l'impianto
elettrico. Parte dei lavori venne sostenuta con le offerte dei
reduci della guerra, grati alla Madonna per lo scampato pericolo.
Nel 1959 i confratelli del Trentesimo fecero richiesta alla Sovrintendenza
di Firenze per ottenere un restauro dell'oratorio, ma la domanda
non venne accolta nonostante un sopralluogo di Piero Bargellini
e Ugo Procacci.
Nel 1965 furono effettuati alcuni lavori di urgenza per riparare
ai danni di infiltrazioni d'acqua nelle fondamenta e nella parte
inferiore delle pareti dell'oratorio. Da allora l'edificio era
rimasto pressoché negletto ed aveva subito un progressivo
invecchiamento in tutte le sue parti nonostante il desiderio
dei confratelli della Congregazione del Trentesimo di curarne
un radicale restauro.
Renzo Giorgetti |
Nella sua monografia su Sandro
Botticelli, che, sebbene redatta nel 1958, resta ancora un importante
testo di riferimento per gli studi botticelliani, Roberto Salvini
includeva tra le opere non sicuramente autografe ma soltanto
attribuite anche l'affresco della Madonna in trono col Bambino
dell'Oratorio del Vannella vicino a Settignano. E dichiarava
che la riserva era dettata soprattutto dallo stato di conservazione
del dipinto che, gravato da restauri pittorici, non permetteva
una chiara lettura.
La pittura murale, citata dal Fantozzi come di Filippo Lippi,
fu resa nota nel 1901 dallo Horne, che l'aveva vista e attribuita
a Sandro insieme al Berenson; in seguito, con qualche sfumatura
dubitativa, dovuta alle pessime condizioni di lettura, è
stata discussa in relazione all'opera del Botticelli da molti
studiosi: Rode e Fabriczy, Yashiro, van Marle, Berenson, Gamba,
Mesnil, quindi Mandel e Lightbown e taciuta invece in altrettanti
studi importanti che non si proponevano, però, di affrontare
sistematicamente la messa a punto del catalogo delle opere del
Botticelli. Tra i sostenitori, sulla scia Horne-Berenson, unanime
è stato invece l'orientamento a porre l'affresco nella
fase giovanile del pittore: un Botticelli "philippisant
(1465-1468)" per lo Horne; intorno al 1468 per il Salvini,
e quindi proprio dall'affresco del Vannella legittimato nel suo
apprendistato lippesco, da meglio chiarire, come precisava e
metteva in guardia il Mesnil. Il restauro resosi indispensabile
soprattutto per motivi di conservazione, non ha portato a un
recupero dell'opera quale sarebbe stato auspicabile: sotto le
ridipinture ricordate come del 1719, allorquando il tabernacolo-sacello
venne ampliato nell'attuale redazione a oratorio, e del 1864,
l'affresco si è presentato nello stato larvale, sempre
paventato, specialmente nella zona inferiore dove sono andati
completamente perduti il manto della Vergine e la base del trono.
Eppure ulteriori dati ora emersi possono rendere più leggibile
e forse anche più problematica l'opera.
Prima di tutto merita sottolineare come la composizione architettonica
che inquadra e accoglie le figure, così come appariva
nella redazione ottocentesca, è soltanto una correzione
e una enfatizzazione del disegno originale che, riapparso, si
legge ancora oggi. L'insieme ha la struttura di un baldacchino
il cui tendaggio si apre per presentare la Vergine sullo sfondo
di un'edicola di cui s'intravede l'imbotte scorciata da sotto
in su.
Alle cortine del padiglione che ricadono in mossi drappeggi fanno
da sostegno due colonne forse in legno a imitazione del marmo
serpentino, culminanti in due capitelli a cesto compositi, la
cui tipologia è analoga a quella dei capitelli del ricco
repertorio classico che popola i trattati di architettura della
seconda metà del Quattrocento (Francesco di Giorgio, Giuliano
da Sangallo) e comunque non di derivazione brunelleschiana, bensì
albertiana (si vedano i capitelli del Tempio malatestiano a Rimini
o le architetture dipinte nelle cosiddette tavole Barberini nel
Metropolitan Museum di New York e nel Fine Arts Museum di Boston),
come parrebbe confermare anche il rispetto del rigoroso principio
secondo cui le colonne, esaltate nella forma ornamentale, vengono
impiegate a esclusivo inquadramento della cornice esterna dell'archivolto,
che qui ha soltanto il compito di fungere da occasionale supporto
al dilatarsi del tendaggio.
Il tema del baldacchino ha avuto molta fortuna nella pittura
fiorentina della seconda metà del Quattrocento e per limitarsi
ai rapporti in ambito botticelliano giovi citare la pala di San
Barnaba ora agli Uffizi, dove esso appare in una versione maggiormente
orchestrata che prevede due angeli reggicortina, così
come orchestrata si presenta nel tondo della Pinacoteca Ambrosiana
e nel parato del Poldi Pezzoli: esempi tutti in cui l'espediente
spaziale suggerito dal baldacchino è compositivamente
ben risolto, a differenza di quanto avviene nell'affresco del
Vannella dove risulta privilegiato, e oggi potenziato dalle condizioni
di conservazione, l'effetto di appiattimento e di allungamento,
dal Mesnil imputato all'uso di un contorno e di una linea essenziale
che nei risultati "rappelle l'art japonais"J.
Questo effetto, e data la conservazione i raffronti avverranno
più su un piano illustrativo che formale, si può
cogliere anche nel volto estenuato e malinconico della Vergine
cui fa da contraltare l'atteggiamento del Bambino ritratto rampante
verso la madre, carico nell'espressione di un'accesa tensione
sentimentale: espediente illustrativo e stilistico che troviamo
anche in opere giovanili del Botticelli quali ad esempio il dipinto
con la Vergine stante del Museo Fesch ad Ajaccio, anch'esso collocabile
nella protostoria di Sandro, avanti cioè gli anni Settanta,
o quali la Madonna del Roseto al Louvre, ripetuta, talvolta in
maniera stereotipa, in opere della bottega (Londra, National
Gallery, N. 782).
È da notare inoltre come questa parte, più leggibile
perché meglio conservata, sia da circoscrivere in corrispondenza
della zona di intonaco che si stacca dal resto della superficie
per una sporgenza ben individuata di qualche millimetro. Probabile
contorno di una giornata più evidenziata, non è
da escludere che possa invece configurarsi come un intervento
riparatore in corso d'opera con cui, distrutta la prima stesura,
si sia provveduto con un nuovo intonaco ad apportare una variante
alla disposizione del soggetto, che restava di per se obbligato,
della Vergine in trono con il Figlio, volta a destra anziché
a sinistra.
Alla supposizione, che tale resta, di questo eccezionale ma non
inconsueto procedimento nell'esecuzione, che può essere
stato imposto dal rispetto di un'angolazione privilegiata, forse
in dipendenza dell'asse viario, si è quindi aggiunto,
effettuato lo stacco dell'affresco, il ritrovamento di una sinopia
rappresentante anch'essa la Madonna con il Bambino, opera di
alta qualità ma non certo preparatoria, in senso stretto,
all'affresco attuale: questa, per non essere stata sinopia tout-court,
acquista dunque il valore di un' opera autonoma e diviene acquisizione
importante per un periodo, quale l'ultimo terzo del Quattrocento
a Firenze, ricco sì di opere, ma ancora denso di problemi
gravitanti attorno al nodo irrisolto della prima attività
del Verrocchio pittore e dell'influsso da lui esercitato nel
corso degli anni Sessanta. La protostoria del Botticelli, ovvero
l'insieme delle opere a lui attribuite ante 1470, anno della
Fortezza, è ad esso strettamente connessa, oltre a investire
il portato del magistero del Lippi tardo.
E in questa direzione mi sembra opportuno volgere nell' esame
stilistico della sinopia. In essa il tema obbligato della Madonna
con il Bambino è rappresentato secondo un modello e un
rapporto figura-architettura in linea con le soluzioni di primo
Quattrocento proposte anche da Filippo Lippi: entro una nicchia
appena accennata da una linea curva la Vergine siede su un trono
correttamente scorciato nella sua spalliera concava, solenne
e monumentale, limitato alle estremità anteriori da due
sfere, elemento decorativo con valenza di sottolineatura spaziale
che non è raro trovare nella pittura fiorentina e che
nell'affresco di analogo soggetto del Tabernacolo fiorentino
delle cinque lampade in via Ricasoli, attribuibile a Cosimo Rosselli
e databile nella seconda metà del settimo decennio, trova
un parallelo se non stilistico almeno illustrativo nella ricerca
di un' accentuata monumentalità.
Il fatto poi che la sinopia differisca quasi completamente dall'affresco
non deve indurre a conclusioni affrettate. E vero che il gruppo
è diversamente voltato, che altro è il rapporto
figura-architettura: plasticovolumetrico nella sinopia, decorativo-Iineare
nell' affresco, e che il Bambino, anziché mirare alla
madre in un accorato slancio, è qui proteso in avanti
a saggiare la profondità con uno sgambettare concitato
sottolineato da un disegno compendiario e febbrile allo stesso
tempo, carico di tensione dinamica. Ma non è infrequente
imbattersi in sinopie il cui progetto è stato nell'affresco
completamente disatteso, talvolta perdendo anche in qualità.
La spiegazione, già avanzata per casi analoghi, è
da ricercare nella corretta pratica del dipingere a fresco, così
come codifica il Cennini. Trovando sul muro la palestra privilegiata
in cui esercitarsi graficamente, soprattutto prima che si diffondesse
l'uso del disegno su carta, il pittore affidava alla sinopia
la sua ideazione come puro fatto creativo che poteva poi, in
fase di realizzazione a fresco, essere corretta sottostando alle
diverse intenzioni del committente, con risultati non sempre
pari a quelli del progetto originale, specialmente se l'esecuzione
veniva poi affidata a mano meno dotata facente parte della bottega.
È quanto può essere accaduto nel tabernacolo del
Vannella, dal momento che sembra difficile pensare che in un
tempo così stretto e per un affresco isolato sia avvenuto
un cambio di guardia. Ma se per il dipinto, sulla scorta dei
dati illustrativi (che quelli formali, gli unici a comprovare
l'autografia, sono ormai irrimediabilmente compromessi) si può
mantenere un'attribuzione al Botticelli e bottega, per la sinopia
si può azzardare una lettura più circostanziata.
In questo caso la prudenza e le obiezioni saranno dettate dal
"genere" particolare e dalla mancanza di raffronti
probanti reperibili nel campo peculiare della grafica botticelliana.
Questa, infatti, se si eccettua la Testa di giovane del British
Museum di Londra, messa in relazione con l'Adorazione dei Magi
a Londra, o con la Madonna del Roseto al Louvre, si connette
alle opere della piena maturità. Ne possono soccorrere
le sinopie degli affreschi botticelliani oggi staccati: la Natività
di Santa Maria Novella fu asportata dal luogo originario in tempi
in cui ai disegni murali non era ancora conferita la dovuta importanza,
e non sappiamo, perciò, se ne fosse dotata; sappiamo però
sicuramente che non lo era l' Annunciazione di San Martino alla
Scala, ora agli Uffizi. Del resto è noto quanto questa
pratica, a partire dall'ultimo trentennio del secolo, sia caduta
in disuso sostituita dallo spolvero e dal cartone e quanto per
l'innanzi, più ancora del disegno su carta, sia stata
espressione personalissima del pittore, fuori di ogni imposizione
e convenzione.
E vero, però, che il segno di Sandro, sempre mosso, sottile
e vibrante, indugiante e copioso nelle opere conosciute, non
si ritrova in quello sicuro, compendiario e costruttivo della
sinopia del Vannella: qui nessun arpeggio lineare - salvo per
il velo e il ricadere della veste - ma pochi tratti che nel rapido
stondare danno nel Bambino un senso di movimento plastico, quasi
scultoreo e nella Vergine una solida campitura spaziale. Ma questi
elementi, se mancano nella tarda grafica del Botticelli, non
ci sembrano estranei alle sue opere su tavola, quelle degli anni
giovanili che, imbevute di elementi illustrativi lippeschi e
di un senso già dinamico e volumetrico alla maniera del
Verrocchio, si possono plausibilmente ancorare alla protostoria
di Sandro.
Alludo in particolare alla Madonna dell'Umiltà e Angeli
del Louvre, variamente ritenuta di bottega per evidenti fiacchezze,
e specialmente alla Madonna dei Serafini agli Uffizi: in entrambe
è presente un senso plastico della forma che rende profonde
le pieghe della veste, dilatata nella sinopia dall'angolazione
laterale; ma soprattutto è quel carattere di dolce mestizia,
espresso con rapidi tratti nel volto della Madonna dallo sguardo
abbassato e dolente - che travalica il dato illustrativo - a
trovare nella Vergine del Roseto anch'essa agli Uffizi, un parallelo
significativo. E non sembra da escludere che il Bambino della
sinopia, nell'ammatassarsi del segno che rende l'irrequietezza
della forma in una sintesi dinamica di plasticismo e linearità,
possa essere l'equivalente grafico di quei putti delle tavole
degli Uffizi menzionate, resi da "una linea che avvolge,
che modella, che inventa", molto più vigorosa che
nel Lippi, più fluida che nel Verrocchio. Dall'esame delle
due opere del tabernacolo settignanese emergono pertanto varie
considerazioni su dati che, come ho accennato all'inizio, non
rendono meno problematica l'attribuzione della Madonna del Vannella.
Oggi, dopo il restauro, ci troviamo di fronte a un affresco che,
per la scarsa leggibilità, è opportuno mantenere
con attribuzione dubitativa al Botticelli; anzi, incertezze di
impaginazione farebbero propendere ad assegnarlo alla cerchia.
D'altronde sottostà ad esso una sinopia di notevole qualità
la quale, appartenendo stilisticamente al settimo decennio, non
è confrontabile - e non trova conforto - con la grafica
della maturità del Botticelli, ma che, per invenzione
e costruzione, può costeggiare le opere della sua attività
giovanile.
Allo stadio delle conoscenze si deve pertanto ammettere che un'
attribuzione dell'affresco a Sandro è frutto più
di induzione che di constatazione su base stilistica incontrovertibile.
Ma, qualora appaia accettabile il sostenerla, si potrà
argomentare che il Tabernacolo del Vannella è testimonianza
di una ricerca intensa sul piano illustrativo e formale da parte
del Botticelli e della sua cerchia. Egli, trovandosi forse per
motivi di committenza ad attuare mutamenti in corso d'opera,
ha sperimentato nell'affresco con il concorso di aiuti, rispetto
al più tradizionale ma più coerente e qualitativamente
più alto disegno murale, nuove urgenze espressive, rapidamente
maturate con l'aprirsi degli anni Settanta, così da travalicare
il nesso stretto tra disegno e opera compiuta.
Enrica Neri Lusanna
|