Non tutti i napoletani hanno
una percezione precisa del loro “essere napoletani”:
molti credono o pretendono di essere i napoletani per eccellenza. La questione
è antica ma irrisolta e sospesa: se chiedete a un napoletano cosa sia la
napoletanità, vi risponderà probabilmente alzando le spalle, sminuendo o
banalizzando la domanda, affossando così il dialogo. Poi magari ci ripenserà,
avrà tempo e modo per dilungarsi in storie, fatti e aneddoti ma la prima
reazione sarà sempre quella della cautela, quasi del riserbo.
Ma come? –
vi chiederete – Siete così solari, così fin troppo chiassosi e poi vi mostrate
guardinghi e diffidenti quando si vuole celebrare il vostro spirito allegro?!
Questa
specie di understatement sorprenderà molti di coloro
che scorgono e scoprono napolitudine dappertutto, ma basta girare per la città
– per i famosi vicoli – e rendersi conto che i napoletani non apprezzano più di
tanto le sviolinate che sul loro conto vengono ricamate. D’altra parte, nella
città delle sirene e delle sibille, vi aspettereste un popolo
di creduloni, di distratti?
Si sa che il napoletano tende ad esagerare: se è buono, potrebbe
essere il migliore e se non lo è, quasi certamente sarà il peggiore.
La mancanza di mezze
misure, di toni intermedi, lo ha fatto diventare cittadino e straniero per se
stesso e la sua città: c’è come un conflitto tra Napoli e i napoletani, un
rapporto sentimentale che spesso si esprime meglio nell’odio più che nell’amore
e c’è un contrasto tra napoletano e napoletano per il quartiere natìo, per le
strade o le piazze che abitualmente si frequentano, per le attività o le
attitudini che si esercitano.
Su questi
che possono sembrare vezzi o fisime di temperamento e carattere, incombe poi la
storia millenaria della città con le sue dinastie di regnanti stranieri, le sue
guerre, le sue miserie, i suoi splendori, le sue lingue. Se il dialetto
napoletano ha dignità letteraria lo si deve allo spirito di adeguamento e di
imitazione (manieristica per la maggior parte) che i napoletani misero al
servizio della propria sopravvivenza economica e culturale. Non c’è genere
nella storia letteraria e artistica di Napoli che non sia stato preso e
sviluppato, perfezionato ed arricchito: dalle villanelle agli strambotti, dagli
gliòmmeri alle farse, dalle canzoni alle elegie, dal teatro alla musica,
dalla letteratura alla poesia, dalla pittura all’architettura. Per ogni opera
d’autore, nobile e originale, è sempre stata realizzata una copia verosimile e
volgare (cioè per il popolo); ogni oggetto d’arte o di decoro ha trovato sempre
un suo surrogato, un fac-simile che
ripeteva minutamente la complessità e la bellezza del bene originario.
A Napoli niente è facile: né per i filosofi (Vico, Croce) né per
i politici (Bordiga, De Martino), né per gli scrittori (La Capria, Ortese) né
per gli artisti (Caruso, Petito), né per gli scienziati (Caccioppoli) né per
gli avvocati (De Nicola, Marotta) eppure tutto viene ricomposto e
riconfezionato, ferito e curato, sanato e salvato.
Saranno
sempre i napoletani a dirvi che questa città è invivibile ma poi saranno sempre
loro a trovare, reperire, inventare motivi e ragioni di riscatto, di orgoglio.
È una fatica che non lascia segni: tutto si risolve in
un’auto-contemplazione placida e spietata. La recita, l’istrionismo, il
mimetismo socio-culturale sono doti e ricchezze giornaliere, quotidiane,
antiche come il colore della pietra di tufo, necessariamente sane e profane. I
napoletani amano il momento non la storia, la giornata non le stagioni, ma
cantano e scrivono sulla storia e le stagioni della propria vita.
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