Alberto Moravia sosteneva che il romanzo deve essere
necessariamente lungo, mentre una poesia deve necessariamente essere “corta”,
cioè breve.
Sul
racconto le teorie sono più complesse e articolate ma, in realtà, non si
teorizza né la lunghezza né l’artificio, non si istruiscono procedure generali
o particolari sui temi e le formule che un racconto debba avere, per cui tutto
viene lasciato al caso oppure al genio e al gusto degli scrittori di racconto.
Una
volta si diceva che se il racconto superava le venti-venticinque cartelle, era di fatto una novella; se fosse stato ancora più
lungo – sulle cento pagine – sarebbe stato un romanzo breve, che di solito era il romanzo di esordio di uno
scrittore.
Solo da
pochi anni gli editori hanno ripreso a pubblicare, e talora con successo,
raccolte di racconti, forse perché solo da poco il grande romanzo dimagrisce a vista d’occhio
fino a diventare una novella più o meno corposa che gira intorno a un solo
tema, un solo personaggio, una sola intuizione letteraria. E gli scrittori si
riscoprono scrittori di racconti improvvisando un genere che non avevano mai curato
abbastanza, mai studiato con profitto, dimenticando e facendoci dimenticare le
qualità precipue del racconto e della raccolta di racconti.
Da
Čechov a Twain, da Maupassant a Hemingway, da Moravia a Celati il lettore
odierno non è in condizione di percepire la struttura composita e unitaria che
regge racconti tanto diversi nell’ambito di uno stesso volume. L’industria
culturale ha assegnato un rilievo speciale ai racconti di genere (fantascientifico,
fantastico, rosa, etc. etc.), delegando al racconto psicologico-esistenziale
(dalla Metamorfosi di Kafka ai “racconti surreali” di Tommaso Landolfi)
uno spazio doveroso e decoroso nella biblioteca di casa, tra una vetrina di cristalli e monili di
pregio.
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