Parola magica, che evoca
emozioni talvolta indescrivibili: il teatro è innanzi tutto evento (recarsi a
teatro, entrare in sala, accomodarsi in platea, attendere l’inizio dello
spettacolo, godersi la recita, attardarsi infine con i saluti e i commenti).
Poi è anche una manifestazione culturale,
un’occasione mondana, una convenzione da bon ton.
Provate
un’esperienza nuova, togliete tutto: il pubblico, le mascherine, le luci, gli
addobbi, i fiori, i programmi, i critici, gli immancabili presenzialisti, gli
attori, i registi, i tecnici… cosa vi resta? Cosa c’è da guardare? Una platea
vuota con le sue belle poltrone di velluto rosso, un sipario frusciante e sinuoso,
un boccascena che sembra invalicabile e la sensazione di trovarsi in un guscio
d’uovo, protettivo e rassicurante, ma privo però del nucleo, della sua parte
essenziale.
Provate
a salire sul palcoscenico – dalla platea se è possibile, su quelle scalette
strette e insidiose; provate a scostare un po’ il sipario e guardate la scena
che vi si para innanzi. È vuota, non ha apparati o apparecchi, è disadorna:
come uno stanzone, un magazzino, un deposito. Ai lati scorgerete sicuramente
funi, tiranti, matasse di corda; dall’alto incombe sospesa l’americana,
il ponte-luci, e disseminati un po’ dovunque i riflettori; sul pavimento
troverete tavole di betulla che degradano verso la ribalta e sarete circondati
da pannelli fissi o mobili, le quinte, paraventi scenici che nella
recita spezzano il continuum della fabula.
Ora
rigiratevi verso la platea: se qualcuno vi darà una mano ad aprire il sipario,
restate per un momento in muta contemplazione di quello che percepite davanti
ai vostri occhi. È lo stesso luogo dove, una settimana fa o un anno fa, avete
assistito alla recita dell’Amleto, dei Sei personaggi, Le voci di dentro, Tradimenti, Aspettando Godot, Il Tartufo, La locandiera… ma non è rimasto nulla, né
delle scene né dei decori che avevate apprezzato. Dovete essere voi a ricordare
e ripetere le battute famose, i movimenti degli attori, gli effetti delle luci:
forse vi torneranno alla mente tante altre cose, altre immagini, altre parole.
Forse vi ricorderete della vostra prima recita scolastica (chi non l’ha fatta o
chi non vi ha assistito?), poi ricorderete di avere abbandonato il teatro e di
esserci ritornati dopo quindici-vent’anni, di averlo eletto a strumento nobile
ed esclusivo delle vostre preferenze culturali, delle vostre scelte estetiche,
delle vostre serate alternative. E magari, dopo vent’anni o più, vi
sorprenderete a scoprire che il teatro, oggi, può essere anche un microcosmo
imperfetto, ossessivo, noioso, lontano dai tempi e dalla storia che ci
riguardano.
Guardatelo
così, vuoto e muto: non vi darà nessuna emozione esaltante ma, con una disarmante schiettezza, vi farà
credere che tutto è illusione – recita, applausi, spettacolo – e tutto verrà di
nuovo annunciato per la prossima stagione teatrale come l’evento dell’anno e
sarete combattuti: se approfittare di un’altra serata memorabile o lasciar
perdere l’ennesima delusione. Non sarete aiutati dall’organizzazione teatrale
né dai grandi nomi di attori, attrici e registi: vi verrà chiesto di partecipare,
di esserci, di affollare la sala ma non di crederci.
Se non
dobbiamo credere a niente, allora crederemo in ogni cosa, le migliori e le
peggiori. La nostra buona educazione civica non ci consentirà di manifestare
disapprovazione, ma applaudiremo tutti, stancamente, perché una seconda o una
terza opportunità non la si nega a nessuno.
Alla
fine della recita, il teatro tornerà vuoto come l’avete visto da soli in quella
specie di visita guidata: nella sua nudità scenica ed espressiva non vi
promette nulla ma neanche nulla vi toglie. Forse dovremmo realizzarle meglio le
cose peggiori che ancora ci ostiniamo a fare, dal varietà al dramma, dalla
farsa alla tragedia.
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