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Edmondo De Amicis - Amore e Ginnastica

Edmondo De Amicis download

EDMONDO DE AMICIS


AMORE E GINNASTICA



Al canto di via  dei  Mercanti  il  segretario  fece  una  profonda  scappellata
all'ingegner Ginoni, che gli rispose col suo solito: - Buon  giorno,  segretario
amato!- poi infilò via San Francesco d'Assisi per rientrare in  casa.  Mancavano
venti minuti alle nove: era quasi certo d'incontrar per le scale chi desiderava.
A dieci passi  dal  portone  intoppò  sul  marciapiedi  il  baffuto  maestro  di
ginnastica Fassi, che leggeva delle prove  di  stampa:  questi  si  soffermò,  e
mostrandogli i fogli, disse che stava scorrendo le  bozze  d'un  articolo  sulla
sbarra fissa della maestra Pedani, scritto per il  «Nuovo  Agone»,  giornale  di
ginnastica, del quale egli era uno dei  principali  redattori.  -  È  giusto,  -
soggiunse, - quello che dice. Non ci ho da dare che qualche ritocco, qua  e  là.
Ah! È veramente una maestra di ginnastica. Non dico per scrivere: ciascuno ha le
sue facoltà. E poi, nella ginnastica, come scienza, il cervello d'una donna  non
sfonda, si sa. Ma come esecutrice, non ce n'è un'altra. Già, madre  natura  l'ha
fabbricata per quello: le ha dato le proporzioni schelettoniche più perfette che
io abbia mai viste, una cassa toracica che è una maraviglia. L'osservavo  giusto
ieri nella rotazione del busto, che faceva per esperimento. Ha  la  flessibilità
d'una bambina di dieci anni. E mi vengano a  dire  i  signori  estetici  che  la
ginnastica sforma il bel sesso! Quella maneggia i manubri come un uomo, e ha  il
più bel braccio di donna, se lo vedesse nudo, che si  sia  mai  visto  sotto  il
sole. La riverisco. Cosí egli troncava bruscamente ogni discorso per imitare  il
celebre Baumann, il grande ginnasiarca, com'egli lo chiamava;  che  era  il  suo
Dio. Il segretario rimase pensieroso. Quel feroce maestro Fassi, senza  saperlo,
lo andava tormentando da un pezzo con tutti  quei  ragguagli  descrittivi  delle
forze e delle bellezze della maestra, a cui egli già troppo pensava. Ora  quelle
due immagini del busto roteante e del braccio nudo gli crebbero l'agitazione con
la quale s'avviava sempre verso la scala, quando sperava  d'incontrarvi  la  sua
vicina. Salí i primi scalini a passi lenti e leggeri,  con  l'orecchio  teso,  e
quando fu sul primo pianerottolo, udendo sopra uno stropiccio di piedi, si sentí
salire il sangue alle guance. Erano la maestra Pedani e la maestra  Zibelli  che
scendevano insieme, come di solito, per andare alla scuola.  Egli  riconobbe  la
voce di contralto della prima. Quando  si  trovaron  di  fronte,  a  metà  della
seconda branca di scala, il segretario si fermò, levandosi il cappello, e invece
di guardar la Pedani, vinto dalla timidezza, guardò, come faceva sempre, la  sua
compagna; la quale, anche questa volta, credette d'esser lei la cagione del  suo
turbamento, e lo incoraggiò con un sorriso amorevole. E tennero uno  dei  soliti
dialoghetti stupidi di quelle occasioni. - Cosí  presto  vanno  alla  scuola?  -
balbettò lui. - Non è tanto presto, - rispose con voce dolce la maestra Zibelli;
- sono a momenti le otto e tre quarti. - Credevo... le otto e mezzo, - I  nostri
orologi vanno meglio del suo. - Può darsi. C'è una nebbia questa mattina!  -  La
nebbia precede il buon tempo. - Qualche volta... Speriamo. E...  al  piacere  di
rivederle! - A rivederla., - A  rivederla.  Arrivato  a  capo  della  scala,  il
segretario si voltò rapidamente e fece ancora in tempo  a  lanciare  un'occhiata
ladra alla bella spalla e al braccio poderoso della Pedani, nel momento  che  la
Zibelli, senza che la sua amica se ne avvedesse, si voltava a lanciare a lui uno
sguardo sorridente. Allora egli prese una risoluzione. No, non poteva continuare
in quella maniera; quella nuova sciocca figura, ch'egli aveva fatto in  presenza
di lei, gli dava l'ultima spinta. Non gli era possibile  regger  più  oltre  con
quel tormento di desiderio in corpo, inasprito ogni  giorno  da  quegl'incontri,
nei quali non gli riuscíva neppure di procurarsi  il  gusto  di  guardarla.  Era
deciso: avrebbe mandato la lettera che teneva da  una  settimana  sul  tavolino:
voleva una sentenza di vita o di morte, Arrivato al secondo piano, aprí  l'uscío
con un movimento risoluto, e andò difilato  verso  la  camera  di  suo  zio,  il
commendatore Celzani, padrone di casa, per rimettergli le pigioni dell'altra sua
casa di Vanchiglia, e andar subito dopo a rilegger l'ultima volta la lettera che
doveva decidere del suo destino. Ma a un passo dall'uscio, udendo due voci nella
camera, s'arrestò, e messo l'occhio al buco della serratura, vide  in  compagnia
del padrone un uomo bassotto e grasso, con un largo viso  imberbe  e  rugoso  di
ragazzo invecchiato e enfiato ad un tratto, e una piccola  parrucca  nera  messa
per traverso, ch'egli conosceva da un pezzo. Era  il  direttore  generale  delle
scuole municipali che, passando ogni mattina per via San  Francesco  per  andare
all'uffizio, saliva ogni tanto a  salutare  il  commendatore,  col  quale  aveva
stretto amicizia intima, otto anni prima, quando quegli era assessore  supplente
dell'istruzione pubblica. Non di meno, essendo diventato  diffidente  di  tutti,
dopo che aveva il segreto di quella passione nel cuore, il segretario si mise  a
origliare all'uscío, col sospetto che parlassero di lui. Si tranquillò  un  poco
udendo che il direttore discorreva, secondo la sua consuetudine, delle grandi  e
delicate difficoltà della propria carica, per ciò che riguardava le  maestre.  -
Lei capisce, - diceva con voce asmatica e  lenta,  -  vanno  a  dar  lezioni  in
famiglie nobili, hanno conoscenze fra i deputati e i senatori, alcune sono anche
in relazione con alti funzionari del Ministero. Bisogna andare  adagio.  Qualche
volta son perfino appoggiate dalla casa di Sua Maestà. Si fa presto a  sollevare
un vespaio. È una carica, lei lo sa, che richiede un tatto,  una  delicatezza...
che pochi hanno. Si tratta di mandare avanti una famiglia da duecento  cinquanta
a trecento fra signorine giovani e mature, maritate  e  vedove,  provenienti  da
tutte le classi sociali, e con loro, un corpo di direttrici che...  sarebbe  più
comodo aver da fare con le trenta principesse di casa Hohenzollern. S'immagini i
pensieri che mi dànno fra amori, malattie,  matrimoni,  lune  di  miele,  esami,
puerperi, rivalità, contrasti con superiori e parenti... Creda che, alle  volte,
io darei del capo nel muro. E andava avanti cosí, sulle generali. Il segretario,
rassicurato del tutto, si trasse in disparte  ad  aspettare.  Uscíto  appena  il
direttore, entrò dallo zio, ch'era ancora seduto sulla poltrona, ravvolto  nella
veste da camera, coi suoi gravi e dolci occhi azzurri  fissi  alla  vôlta,  come
assorto in contemplazioni celesti, e resogli conto del suo operato, gli mise sul
tavolino i biglietti di banca. Quegli fece un cenno d'approvazione  con  la  sua
bella testa bianca, senza parlare, com'era suo uso, e volti di nuovo  gli  occhi
per aria, si rimise a pensare. Allora il segretario se n'andò in punta di piedi,
entrò nella sua camera, cavò da  un  cassetto  chiuso  una  lettera  di  quattro
facciate scritte con perfetta calligrafia, la rilesse con  profonda  attenzione,
la rimise nella busta con gran riguardo, vi attaccò  un  francobollo  con  molta
cura, uscí di casa senza farsi sentire, e arrivato al canto della  strada,  dopo
esser rimasto un po' incerto con la mano alzata davanti alla buca delle lettere,
vi lasciò cadere la sua. Poi tirò un lungo respiro.  Il  dado  era  tratto.  Non
c'era più che a rimettersi a Dio.

Il segretario Celzani passava di pochi anni la trentina; ma aveva la compostezza
d'aspetto e di modi d'un uomo di cinquanta, una figura di notaio da  commedia  o
di precettore di casa patrizia clericale. Rimasto orfano da ragazzo,  era  stato
raccolto da uno zio materno, parroco di villaggio,  che  l'aveva  tirato  su  in
sagrestia e poi messo in seminario  per  farlo  prete;  ma,  morto  il  parroco,
lasciandogli un po' di peculio, l'aveva levato di seminario e preso in casa  sua
lo zio Celzani, vedovo senza figliuoli, per  fargli  fare  da  segretario  e  da
fattore di campagna: ufficio  in  cui  egli  metteva  una  probità  e  uno  zelo
veramente esemplari. Andava in chiesa, frequentava dei preti,  e  di  prete  gli
eran rimaste certe mosse e certi atteggiamenti, come quello di tener spesso  una
mano nell'altra serrate  sul  petto,  l'avversione  ai  baffi  e  alla  barba  e
l'abitudine di vestir tutto di scuro, ma non era bigotto,  e  si  vantava  senza
mentire d'essere patriotta e liberale. Ciò non  ostante,  a  cagione  della  sua
apparenza, tutti gl'inquilini della casa lo chiamavano da anni, per  celia,  don
Celzani. E pure trovando in lui un'ombra leggiera di ridicolo,  lo  stimavano  e
gli volevano bene, poiché era cortese e servizievole, timidamente rispettoso con
tutti, e sempre eguale; non avendo, quando la sua pazienza era  messa  alla  più
dura prova, altra esclamazione più risentita di quella di: «Dio grande!» ch'egli
metteva fuori alzando gli occhi al  cielo  e  allargando  le  braccia,  in  atto
d'invocazione. Ma v'era un lato della sua natura che  nessuno  conosceva.  Sotto
quell'aspetto composto di prete travestito  si  celava  un  temperamento  fisico
vivacissimo, una forte sensualità contenuta, non per ipocrisia, ma in parte  per
timidezza, in parte per sentimento di  decoro,  e  dissimulata  per  lo  più  da
un'aria di profonda meditazione. A veder per la  strada  quell'uomo  vestito  di
nero, un po'curvo, coi capelli scuri spioventi, col viso liscio, con  due  occhi
cosí piccoli che quando sorrideva non si  vedevan  più,  con  un  naso  lungo  e
sottile di asceta, con un'andatura come s'egli studiasse  di  farsi  piccolo,  e
sempre con lo sguardo rivolto a terra, a  dieci  passi  davanti  a  sé,  nessuno
avrebbe mai pensato che non sfuggisse alla sua vista né un piedino scoperto  sul
montatoio d'una carrozza, né una fotografia libera in una vetrina, né una coppia
tortoreggiante sotto un portone, né alcuna cosa od immagine che potesse eccitare
i sensi. Un osservatore non avrebbe potuto riconoscere il suo  temperamento  che
dalla grande bocca mobile, che pareva formata di due serpentelli vermigli, e  da
certe ondate di sangue che, al passar di certi pensieri, gli coloravano  per  un
momento il collo e la faccia. Certo, la buon'anima dello zio prete  non  avrebbe
potuto seguirlo in ogni suo passo; ma la sua condotta  era  cosí  dignitosamente
prudente, che anche chi conosceva meglio le sue abitudini  non  iscopriva  nulla
che gli potesse far sospettare ch'egli non fosse, anche per quel riguardo,  quel
che pareva. Del resto, egli era una di quelle nature nella loro  sensualità  non
volgari, le quali non si abbandonano al vizio perché non vi si appagano,  e  son
fatte per non trovare appagamento che in un possesso unico,  sicuro  ed  onesto,
non scompagnato dall'affetto: nature, più che semplicemente  sensuali,  amorose,
che aspettano e cercano, frenandosi senza grande sforzo,  fin  che  non  trovino
incarnato un certo ideale fisico e morale, che covano in mente; nel  quale  sono
forse più difficili a contentarsi d'altri uomini più freddi e più  raffinati,  a
cui non fa velo il fumo della passione.

Ora egli avea trovato quest'ideale nella maestra Pedani,  lombarda,  venuta  tre
mesi prima, sul cominciar di dicembre, ad abitare con la sua collega Zibelli  in
un quartierino al terzo piano di quella casa, di fronte  all'uscio  del  maestro
Fassi, il quale l'aveva tirata là per assicurarsi  meglio  la  sua  cooperazione
preziosa al «Nuovo Agone». Quell'alta  e  robusta  giovane  di  ventisette  anni
«larga di spalle e stretta di cintura» modellata come una statua, che spirava da
tutto il corpo la salute e la forza, e  che  sarebbe  stata  bellissima  se  non
avesse avuto un nasino non finito e un'espressione di viso e un'andatura un  po'
troppo virili, gli aveva fatto, fin dal  suo  primo  apparire,  l'effetto  d'una
persona lungamente desiderata e aspettata. Era il tipo che aveva accarezzato nei
suoi sogni ardenti di seminarista, la figura che aveva vagheggiato  confusamente
per tutto il corso della sua calda gioventù castigata. La prima  volta  che  era
salito in casa sua a prender da lei la pigione anticipata del trimestre, non gli
era riuscito di contare i biglietti da cinque ch'essa gli aveva  messo  in  fila
sul cassettone. Da quel giorno la sua passione era andata crescendo a vampate. E
appena egli ebbe compreso, dal contegno di lei,  il  suo  carattere  vigoroso  e
calmo, repugnante a  ogni  civetteria,  che  quasi  non  le  lasciava  avvertire
l'impressione prodotta dalla propria persona, e non dava speranza alcuna  né  di
leggerezze né di capricci, il  pensiero  di  lui  andò  diritto  e  risoluto  al
matrimonio, come all'unico modo possibile di  conseguire  la  soddisfazione  dei
suoi desideri.  Non  ostante  il  suo  ardore,  per  altro,  egli  prevedeva  le
difficoltà che avrebbe ragionevolmente opposto lo zio al suo matrimonio con  una
maestra sola e senza fortuna; ma a sperare che il no non sarebbe stato  assoluto
lo confortava in parte il fatto d'una passione singolare di cui pareva acceso il
commendatore,  la  sola  ch'ei  gli  conoscesse:  uno  spirito  attivissimo   di
propaganda in favore della ginnastica educativa, ch'egli aveva promosso in tutti
i modi  durante  il  suo  breve  vice-assessorato  dell'istruzione;  dalla  qual
propaganda s'era poi sdato, ma serbando una viva e costante simpatia  per  tutti
gli spettacoli ginnastici di scuole, collegi, istituti, accademie ed  esami,  di
cui non perdeva uno solo, essendo invitato a tutti come  uno  dei  primi  e  più
benemeriti fondatori della Palestra di Torino. Era appunto questa  simpatia  per
la ginnastica che gli aveva fatto ridurre  d'un  terzo  la  pigione  al  maestro
Fassi, conosciuto da lui alla Palestra molti anni prima, e  accordar  lo  stesso
favore alla signorina Pedani, maestra di ginnastica in vari istituti,  nota  per
la sua valentía d'insegnante e  per  i  suoi  articoletti  vivaci  nei  giornali
tecnici. Il segretario pensava che lo stesso  sentimento  che  gli  aveva  fatto
calar la pigione all'inquilina  gli  avrebbe  fatto  scemar  l'opposizione  alla
sposa. Da questa parte, dunque, non era la  difficoltà  più  terribile.  La  più
terribile era quella di arrischiarsi a dichiarare aperto a lei la sua  passione;
al che s'era formidabilmente opposta per tre mesi la sua  invincibile  timidità,
cagionata sopra tutto dalla  considerazione  della  grande  inferiorità  ch'egli
riconosceva in sé, rispetto alla maestra, dal lato  dei  pregi  esteriori  della
persona. Da tre mesi, conoscendo appuntino l'orario di  tutte  le  sue  lezioni,
egli s'ingegnava ogni giorno e più volte al giorno, d'uscire o di  rientrare  in
casa in quei dati momenti, per incontrarla per le scale ed aprirle il suo cuore;
e cento volte l'aveva incontrata; ma non una gli era  venuto  fatto  di  cacciar
dalla bocca altro che le  più  usuali  e  scipite  parole.  E  non  gli  serviva
prepararsi prima la frase, inghiottire in furia due  bicchierini  di  Caluso,  o
cercare il coraggio nel sentimento della onestà dei suoi fini: quando si trovava
di fronte a quell'alta e forte ragazza, che o stesse sullo scalino di sopra o su
quel disotto, gli pareva sempre che lo  dominasse  come  una  figura  colossale,
tutto il suo ardimento fittizio cadeva senza che il più delle volte egli  osasse
nemmeno di staccare lo sguardo di torno alla sua bella vita o dalle  sue  spalle
stupende per sollevarlo fino al suo viso. Non era forse neppur riuscito a  farle
indovinare la  propria  passione,  tanto  era  tranquilla  e  sempre  uguale  la
disinvoltura di giovanotto con la quale essa lo salutava e gli parlava.  E  cosí
egli viveva ruminando il suo amore, aggiungendo ogni giorno l'eccitamento  d'una
nuova immagine a una interminabile collezione di atteggiamenti, di  suoni  della
voce, di mosse, di guizzi della persona, ch'egli aveva in capo e che  passava  a
rassegna di continuo, meditandoli ad uno ad uno e assaporandoli con una  voluttà
e con un tormento crescenti, che non gli davan  più  pace.  Finalmente,  non  ci
potendo più reggere, aveva scritto la lettera. La casa si prestava ai maneggi  e
ai segreti d'una passione amorosa. Era una delle più vecchie case di Torino,  un
antico convento, dicevano: senza soffitte, senza terrazzini sul cortile, con due
sole scale mal rischiarate: su ciascuna delle quali non eran che sei  quartieri,
la più parte assai piccoli, e abitati tutti da gente tranquilla. Sulla scala del
padron di casa, al primo piano, abitava l'ingegner Ginoni, con la sua  famiglia,
con la quale la Pedani era in relazione  per  essere  stata  maestra  elementare
d'una delle figliuole, che allora era alunna della  scuola  Margherita.  Stavano
sullo stesso piano due vecchie sorelle agiate, tutte  di  chiesa,  scrupolose  a
segno che non alzavan mai gli occhi in viso ad un uomo, e buonissime  in  fondo;
le quali avevan da prima  salutato  la  Pedani  cortesemente  e  poi  smesso  di
salutarla, dopo che per via delle persone di servizio  avevan  saputo  che  essa
frequentava un corso di anatomia e fisiologia applicate alla  ginnastica,  fatto
dal dottor Gamba. Al secondo  piano,  in  faccia  al  commendatore,  abitava  un
vecchio professor di lettere, certo cavalier Padalocchi, vedovo e pensionato, un
linguista  terribile,  dicevano,  ma   di   maniere   compitissime;   il   quale
s'accompagnava qualche volta con la Pedani su per la scala, parlandole dei  suoi
malanni. Il terzo piano era tutto scolastico e ginnastico, e  i  due  quartieri,
per la vita che vi si menava, eran senza  dubbio  i  più  bizzarri  della  casa:
quello delle maestre principalmente,  a  cagione  delle  differenze  grandi  che
correvano fra di loro, nell'indole e nella vita, le quali facevan parere  strano
che si fossero decise a mettersi insieme. La Zibelli aveva trentasei anni ed era
anche nel fisico l'opposto della sua amica. Alta essa pure; ma magra, e  stretta
di spalle; un viso bellino, ma troppo piccolo, e già appassito: non aveva che  i
contorni apparenti d'un corpo ben fatto, grazie al gusto con cui si  vestiva,  e
dal suo modo di buttare i piedi si capiva  che  i  suoi  ginocchi  erano  troppo
intrinseci amici. Doveva esser stata una giovinetta assai simpatica: aveva avuto
dei capelli castagni bellissimi: la  sua  gloria  era  d'aver  innamorato,  alla
scuola Domenico Berti, un giovane  professore  di  fisica,  il  quale  arrossiva
interrogandola; ma la gloria  era  antica,  e  i  capelli  s'eran  diradati.  Le
amarezze della lunga vita di ragazza, per cui non era nata, le avevan messe  due
pieghe aspre agli angoli della bocca, e  un  che  di  torbido  negli  occhi  che
rivelava un'anima malcontenta. Il  fondo  era  rimasto  buono,  con  questo;  ma
l'umore irritabile e mutevole lo guastava. Essa  aveva  fatto  amicizia  con  la
Pedani fin da quando questa era entrata  nella  sua  sezione  municipale,  presa
subito da una simpatia di sorella maggiore per quella bella ragazzona  incurante
di sé e delle cose domestiche, con la quale aveva  comune  l'entusiasmo  per  la
ginnastica; e le si era stretta anche meglio  per  soffocare  con  l'affetto  un
principio di gelosia e d'invidia che sentiva per la sua opulenta  bellezza.  Per
questo, anzi, le aveva proposto di far casa fra due, e vivevano insieme  da  due
anni. Ma col crescere della familiarità s'era presto turbata la  buona  armonia.
La prima discordia era nata l'anno avanti, nell'occasione del  grande  congresso
ginnastico di Torino, nel quale, determinandosi la divisione fra le  due  scuole
obermannista e baumannista, la Pedani s'era gittata risolutamente nella seconda,
ch'era la più ardita, e l'altra  era  rimasta,  come  voleva  l'indole  sua  più
femminea, nella prima. Poi erano sorti altri dissensi da  cause  più  gravi.  La
Zibelli s'innamorava ogni momento,  con  una  incredibile  facilità  a  credersi
corrisposta, per uno sguardo, per una frase gentile  od  equivoca,  per  il  più
piccolo atto di cortesia d'un maestro, d'un superiore, d'un  parente  d'una  sua
alunna; e sempre, in queste accensioni subitanee della fantasia,  trovava  o  le
pareva di veder sorgere tra sé e il supposto amante  la  sua  bella  amica,  che
sviasse l'attenzione di lui dalla sua persona, attirandola sulla propria,  forse
involontariamente, ma per questo appunto con suo più  vivo  dispetto.  E  allora
seguivano dei brutti periodi, durante i quali essa non  la  poteva  soffrire,  e
attaccava questioni interminabili per un  lume  messo  fuori  di  posto,  perché
quella si levava troppo presto, perché si faceva aspettare a tavola, per tutti i
più futili pretesti; irritata anche più del non trovare alcuna  presa  alla  sua
stizza in quell'animo sano in corpo sano, in cui  circolava  la  vita  rapida  e
calda e pareva che l'operosità continua ed allegra soffocasse ogni senso  per  i
piccoli screzi della vita domestica. Poi la Zibelli s'incapricciva d'un altro, e
fin  che  l'illusione  durava,  tornava  con  essa  all'amicizia   espansiva   e
protettrice dei primi  giorni,  aiutandola  a  vestirsi,  divertendosi  del  suo
disordine, compiacendosi quasi dell'ammirazione  con  cui  la  vedeva  guardata.
Senonché, via via che le delusioni si succedevano, com'ella credeva, per  cagion
di lei, le manifestazioni della sua acrimonia s'andavan  facendo  più  forti,  e
duravan più a lungo. Ora, quando era  in  uno  di  questi  periodi,  non  le  si
accompagnava più per andar a scuola, sparlava di lei  coi  vicini,  stava  delle
intere giornate senza aprir bocca o la contradiceva  ferocemente  dalla  mattina
alla sera. Ma sempre senza riuscire a metterla in  collera.  Nelle  discussioni,
l'amica  le  dava  ragione  quando  l'aveva,  ragionava  pacatamente  nel   caso
contrario, non dando importanza altro che al  fondo  della  cosa,  e  quando  la
Zibelli le teneva il broncio, si contentava di guardarla ogni tanto, in atto  di
curiosità, seguitando a fare gli  affari  suoi,  naturalissimamente,  immutabile
nella sua amicizia virile, senza tenerezze e senza grilli,  la  quale  non  dava
molto, ma pretendeva poco. L'ultima rottura era seguita a  cagione  del  maestro
Fassi, che aveva ispirato alla Zibelli una calda simpatia, e di cui le  continue
conferenze  con  la  Pedani  a  proposito  della  ginnastica  la  indispettivano
acerbamente; ed essa avrebbe compito allora il proponimento, fatto molte  volte,
di piantar la casa, se la forza dell'abitudine, un resto di bontà e il non avere
alcun pretesto confessabile, non l'avessero rattenuta. Ma più di tutto aveva poi
giovato a ritenerla la persuasione che il segretario si fosse innamorato di lei.
E non soltanto era rimasta, ma era tornata con l'amica alle tenerezze di  prima.
Ma neppure a questo la Pedani aveva badato. Essa viveva d'un solo  pensiero:  la
ginnastica; non per ambizione o per spasso, ma per profonda persuasione  che  la
ginnastica educativa,  diffusa  ed  attuata  com'essa  ed  altri  l'intendevano,
sarebbe   stata   la   rigenerazione   del   mondo.   Alla    predilezione    di
quell'insegnamento l'aveva sempre portata  il  suo  carattere  maschio,  avverso
tanto ad ogni mollezza e  sdolcinatura  dell'educazione,  che  nei  componimenti
delle alunne essa  cancellava  inesorabilmente  tutti  i  vezzeggiativi,  e  non
tollerava nemmeno i più usuali dei nomi di battesimo, consacrati dal  calendario
dei Santi. Ma dopo il  nuovo  impulso  dato  alla  ginnastica  dal  ministro  De
Sanctis, e la propaganda potente del Baumann, la  sua  era  diventata  una  vera
passione, che le aveva procacciato una  certa  notorietà  nel  mondo  scolastico
torinese. Oltre ad insegnar ginnastica nella sezione femminile Monviso,  dov'era
anche maestra ordinaria, essa insegnava  alla  scuola  Margherita,  all'Istituto
delle Figlie dei militari, all'Istituto del Soccorso,  e  alle  bimbe  dei  soci
della Palestra, dando da  per  tutto  all'Insegnamento  la  mossa  vigorosa  del
proprio entusiasmo. Pareva  veramente  nata  fatta  per  quell'unica  cosa.  Non
riusciva soltanto ad eseguire, per suo piacere, i più difficili esercizi  virili
alla sbarra fissa e alle parallele: era  anche  riuscita,  con  lo  studio,  una
insuperabile maestra di teoria, ammirata da  tutti  gl'intendenti  per  la  rara
prontezza nel variar  gli  esercizi,  dei  quali  si  era  fatta  di  suo  capo,
razionalmente, innumerevoli combinazioni, per la singolare vigoria del  comando,
che rendeva i movimenti pronti, facili  e  simultanei,  per  il  colpo  d'occhio
acutissimo, a cui non sfuggiva la più piccola irregolarità di atteggiamento o di
mossa anche nelle schiere di  alunne  più  numerose.  Seguiva  allora  un  corso
d'anatomia alla Palestra; ma n'aveva seguito già un altro  con  gran  diligenza,
due anni avanti, aiutandosi con molte letture; di  modo  che  poteva  fondare  e
regolare  il  suo  insegnamento  sopra   una   cognizione   più   che   mediocre
dell'organismo umano e dell'igiene.  Alla  prima  occhiata  riconosceva  se  una
ragazza avesse attitudine o no alla ginnastica, esaminava i corpi  mal  formati,
cercava le spalle asimmetriche, i  petti  gibbosi,  gli  addomi  prolassati,  le
ginocchia torte,  e  studiava  di  correggere  ciascun  difetto  con  un  ordine
particolare d'esercizi. A questo si dedicava con zelo materno:  si  sforzava  di
persuader le madri dell'efficacia del suo metodo, quando riluttavano; faceva una
guerra implacabile ai busti troppo stretti e ai vestiti troppo stringati; teneva
un quadro della statura e del peso di certe alunne per accertarsi degli  effetti
della sua cura; s'era comperato a sue spese un dinamometro per misurare la  loro
forza; andava facendo dei piccoli  risparmi  per  comprarsi  un  apparecchio  da
misurar la capacità polmonare; avrebbe voluto che  s'inventassero  dei  congegni
per misurar la bellezza del portamento, la destrezza, la  facoltà  d'equilibrio,
ogni cosa. E oltre alle sue lezioni, s'occupava di  problemi  tecnici  speciali,
teneva  dietro  ai  vari  congressi  regionali  dei   maestri   di   ginnastica,
registrandone le deliberazioni, leggeva quante opere straniere sulla materia  le
capitassero alle mani tradotte, e non  perdeva  un  numero  dei  dieci  giornali
ginnastici d'Italia, di parecchi dei quali  era  corrispondente.  Uno  dei  suoi
articoli sull'utilità pratica del salto, scritto con garbo e  con  forza,  aveva
destato l'ammirazione del maestro Fassi, e dato occasione alla loro amicizia; la
quale, peraltro, era da parte del maestro un po'interessata,  poiché,  pieno  di
idee e di cognizioni nella sua scienza, egli mancava affatto di stile,  come  il
Marechal di Emilio Augier, e anche un po' di grammatica; e la Pedani  provvedeva
mirabilmente alla sua deficienza, convertendo i suoi  appunti  in  articoli,  ai
quali egli metteva con mano franca la propria  firma.  Ma  la  Pedani,  che  non
scriveva per la gloria, non se ne curava. Tutta dedicata  alle  sue  scuole,  in
giro tutti i giorni ai quattro angoli di Torino, a tavolino  a  studiare  quando
non era in giro, occupata da  sé  sola  in  esperimenti  ginnastici  quando  non
studiava sui libri, essa esercitava infaticabilmente il suo  apostolato  per  la
rigenerazione fisica della razza senza avvedersi né dei  mille  sguardi  che  si
avvolgevano da ogni parte intorno al suo bellissimo corpo, né  delle  invidie  e
delle gelosie che suscitava. Tanto che chi la conosceva da vicino la considerava
come una natura di donna,  misteriosa,  refrattaria  all'amore,  e  quasi  priva
d'istinto sessuale, e l'ingegner Ginoni, a cui piaceva di scherzar con  lei,  la
chiamava  «la  vulneratrice  invulnerabile».  E  pareva  ch'ella   giustificasse
quest'idea con la nessuna o pochissima cura che prendeva del suo  abbigliamento,
se non per la pulitezza,  che  serbava  irreprensibile.  Usciva  un  giorno  col
cappellino messo  di  sbieco,  un  altro  col  cappotto  sbottonato  o  con  gli
stivaletti da casa, camminava a passi troppo lunghi, si lasciava  sfuggir  delle
note di voce maschile che  facevano  voltar  la  gente  stupita,  e  pronunciava
un'erre quadruplicata che dava lo stridore d'una  raganella.  Ma  invano.  Tutti
questi difetti e anche il nasino non finito scomparivano nella bellezza poderosa
e trionfante del suo corpo giovanile di guerriera. Avevano, lei  e  la  Zibelli,
una donna di servizio fra tutt'e due,  e  una  stanza  che  serviva  di  salotto
comune. Da una parte del salotto c'era la camera della Pedani, dall'altra quella
della sua amica, diversissime fra loro, come le indoli delle due persone. Quella
della Zibelli era tenuta con molt'ordine, ornata di quadretti a pastello dipinti
da lei in altri tempi, e d'una profusione di lavori d'uncinetto e di traforo, di
fiori finti di carta e di cuoio, di paralumi, di guernizioni e di ninnoli, fatti
pure dalla sua mano; fra cui vari scaffalini coperti di  tendine  ricamate,  nei
quali eran mescolati ai libri scolastici molti romanzi francesi; poiché, secondo
le lune, essa si chiudeva rigidamente nella scuola e nella pedagogia, come in un
chiostro intellettuale, per dimenticare il mondo  e  le  sue  tentazioni,  o  si
buttava con tutta l'anima alle letture di fantasia. Nella camera  della  Pedani,
all'opposto, c'era sempre  l'arruffio  d'un  magazzino  di  rigattiere:  vestiti
gettati qua e là; delle bluse da ginnastica, di rigatino oscuro,  appese  a  dei
chiodi; in un canto un bastone Iäger, due paia di manubri sotto il letto,  degli
zoccoli da esercizio a piè dell'armadio, e sparpagliati  un  po'  da  per  tutto
numeri del «Nuovo Agone», del «Campo di Marte», della «Palestra di Padova»,  del
«Gymnaste Belge» e d'altri giornali della stessa famiglia.  A  capo  del  letto,
accanto a un calendario scolastico stracciato,  pendeva  dal  muro,  dentro  una
cornice dorata, una iscrizione calligrafica, regalatale dalle sue alunne, di due
versi del Parini:

Che non può un'alma ardita Se in forti membra ha vita?

La libreria era un monte di volumi  scuciti  sopra  un  tavolo  coperto  da  una
gazzetta, una collezione tutta ginnastica di prontuari, di  manuali,  d'atlanti,
di  letteratura  meloginnica,  di   opuscoli   sull'igiene,   sul   nuoto,   sul
velocipedismo, e di pubblicazioni del Club alpino; poiché la sua passione per la
ginnastica abbracciava tutte le discipline fisiche del genere umano.  Ma  quello
che dava alla sua camera un aspetto curiosissimo era un gran numero di ritratti,
tolti i più da giornali illustrati  e  appiccicati  alle  pareti,  come  in  una
bottega di venditor di stampe. Oltre al  Baumann,  che  campeggiava,  c'erano  i
ginnasti italiani più benemeriti: il Gallo di Venezia, il Pizzarri di  Chioggia,
il Ravano di Genova;  sopra  questi,  il  Ravestein,  il  Nestore  dei  ginnasti
tedeschi; Firmino Lampière, l'«uomo vapore»; una  fotografia  del  Bargossi;  un
ritratto in oleografia di Ida Lewis, decorata della medaglia d'oro dal Congresso
degli Stati Uniti per aver salvato dei naufraghi;  ed  altri  a  decine.  Questo
strano bazar le serviva da camera da letto e da scrittoio, e perfino da palestra
e da scuola, poiché lí faceva ogni giorno i suoi esercizi appena levata  e  dava
le sue lezioni particolari. Ed era anche un  secondo  salotto  per  tutt'e  due,
perché, quando erano in  buon  accordo,  ci  veniva  ogni  momento  la  Zibelli,
attirata dalla bizzarria di quel disordine, a far quattro chiacchiere con la sua
amica. Erano lí appunto tutt'e due, alle sette della sera, dopo  aver  desinato,
sedute a un piccolo tavolino rischiarato da un lume  di  benzina,  e  la  Pedani
sfogliava sotto gli occhi dell'amica, che le teneva un braccio intorno al collo,
la Ginnastica degli anelli del dottor Orsolato,  quando  venne  la  portinaia  a
portar la lettera del segretario. La Pedani la fece entrare nella sua camera per
ripeterle ancora una volta quello che le andava  dicendo  da  un  mese,  di  non
torturare più la sua bambina. Aveva una figliuola che ingobbiva, diceva  lei,  e
s'era lasciata persuadere da un bottegaio ortopedico del vicinato a metterle  un
busto di lastrine metalliche, il quale, premendola troppo al costato, la  faceva
soffrire e strillare come un'indemoniata. La Pedani voleva che la mamma buttasse
via quello strumento, cagione  possibile  d'una  consunzione  polmonare,  e  che
affidasse la bimba a lei per la cura ginnastica. Ma quella  non  ci  credeva.  E
anche questa volta le diede la risposta solita: - Ah! ci vuol altro che  la  sua
ginnastica, signora maestra! - Mi fate pietà, -  le  rispose  la  Pedani..  Poi,
uscita  la  portinaia,  guardò  la  soprascritta  della  lettera,  di  cui   non
riconosceva i caratteri. La Zibelli si alzò come per uscire, ma l'incertezza del
suo passo mostrava cosí poca voglia  d'andarsene  che  la  Pedani  le  disse  di
rimanere. D'altra parte, essa non faceva segreti né con lei né con altri. Aperta
la busta, guardò la firma, e cominciò  a  leggere  senza  dare  alcun  segno  di
maraviglia. Solo quando ebbe finito, sorrise, tentennando il capo, con gli occhi
fissi sul foglio, come se per la prima volta le si chiarissero alla mente i vari
indizi che le avrebbero dovuto far prevedere quel caso. La Zibelli, punta  dalla
curiosità, ma trattenuta da quel silenzio, non osò far  domande;  ma  seguí  con
l'occhio tutti i suoi movimenti. L'altra s'alzò, buttò sbadatamente  la  lettera
nel cassetto del tavolino dei libri, e avvicinatasi all'armadio,  prese  il  suo
cappello. La Zibelli si ricordò che la sua amica doveva andare al Club alpino  a
sentire una conferenza della contessa Palazzi-Lavaggi  sulle  ascensioni  alpine
delle donne. Un'idea le balenò; ma per stornare ogni sospetto, disse sorridendo:
- Ah! tu fai dei  misteri.  -  Non  è  un  mistero,  -  rispose  la  Pedani  con
indifferenza; - te lo dirò poi -. E si  mise  il  cappellino  alla  carlona.  La
Zibelli, scherzando, l'accompagnò fino all'uscio, s'andò  ad  accertare  che  la
serva era in cucina, rientrò lesta nella camera dell'amica,  pigliò  la  lettera
nel cassetto, guardò la firma, e impallidí. Poi lesse la lettera  intera,  e  fu
presa da una tal fiammata di rabbia che si guardò intorno con la  tentazione  di
rompere e di calpestare ogni cosa. Anche quello le portava via!  Oh  la  nefasta
creatura! Essa l'avrebbe in quel momento crivellata a colpi di spillo. E ciò che
l'arrabbiava di più era che, sebbene nella lettera non fosse nessun  accenno  al
matrimonio, si capiva però dalla gravità quasi comica d'ogni frase che  non  era
una dichiarazione d'amore  fatta  alla  leggiera,  con  uno  scopo  di  semplice
galanteria; ma una lettera ruminata e  ponzata,  lo  sfogo  d'una  passione  che
durava da un pezzo, e con un proposito serio. E lei  s'era  potuta  illudere  in
quel modo, e aveva fatto da comodino  a  tutti  e  due!  Sbatté  il  foglio  nel
cassetto, fece due o tre giri per la camera, come se quell'aria la soffocasse  e
avendo bisogno subito d'una vendetta, datasi in fretta una ravviata ai  capelli,
uscí di casa, attraversò il pianerottolo, e picchiò all'uscio del maestro Fassi,
accomodando alla meglio un viso ridente. Le aperse la signora Fassi con un  viso
arcigno che aveva  preparato  per  ricevere  la  Pedani;  ma,  vedendo  lei,  si
rasserenò, e la fece entrare in una piccola stanza con le pareti bianche e nude,
nella quale quattro ragazzetti facevano  un  baccano  d'inferno  intorno  a  una
tavola mezzo apparecchiata. La Zibelli sapeva di  trovare  nella  signora  Fassi
un'alleata sicura contro la  Pedani,  la  cui  familiarità  con  suo  marito  le
spiaceva anche più che non dicesse. Era una donna  sui  quaranta,  con  un  seno
enorme che le impicciava le braccia e con una gran bocca che perdeva le  labbra,
vestita sempre in casa come una bracina; la quale metteva  tre  quarti  d'ora  a
scendere e a salir le scale, soffermandosi a parlare con voce  piagnucolosa  con
quanti incontrava, e in particolar modo col segretario, che risapeva i fatti  di
tutti dalla bocca sua. Era molto  gelosa  dei  robusti  trentotto  anni  di  suo
marito, e pareva che avesse un concetto maraviglioso della sua rozza bellezza di
caporalone,  la  quale  non  consisteva  in  altro  che  nella  fierezza   delle
impostature e in due folti baffi che gli andavano dalla bocca alle orecchie.  Ma
lo temeva pure, e non osava per questo di far degli sgarbi aperti  alla  rivale.
La Zibelli disse d'esser  venuta  per  isvagarsi  un  pochino,  fece  l'allegra,
accarezzò i bimbi, girò per la stanza, aspettando il momento opportuno. Il quale
le parve giunto quando la signora Fassi le domandò se quella sera  era  sola  in
casa. - Sola, - rispose. - Maria è uscita. Del resto.. ora non bada più a me. Ci
ha ben altro. E vista la curiosità della Fassi, non potendosi più contenere, con
un tuono forzato di scherzo, senza parlar della lettera, le accennò l'amore  del
segretario. Quella rimase con la bocca aperta: la cosa  le  pareva  incredibile.
Poi disse: - Come lo sa? - Lo so, - rispose la maestra. - Ma... per sposarla? La
maestra fece un segno, come per dire che non c'era dubbio.  -  Il  segretario  è
matto, - disse la Fassi, con dispetto mal celato.  -  Ma...  e  lei?  -  Lei,  -
rispose la Zibelli, - per ora, fa l'indifferente, Ma dirà dieci sí, l'un  dietro
l'altro. - Bah! - esclamò la signora, dopo  un  momento  di  riflessione.  -  Il
signor Celzani ci penserà prima un par di volte. - Ma cosa vuol  che  pensi  don
Celzani! - ribatté la Zibelli; e certa di deporre il seme in buon terreno, buttò
là come alla sbadata alcune parole, che  quella  raccolse  e  registrò  nel  più
profondo della memoria. - Don Celzani è un  ingenuo;  per  lui  una  ragazza  di
trent'anni e una di quindici son tutt'uno. Non conoscendo lui  il  mondo,  crede
che non lo conosca nessuno. Scommetto che non sa neppure che prima di  venire  a
Torino, Maria è stata maestra in mezza dozzina di comuni. - E si mise a  ridere.
- Si sa le avventure delle maestre nei villaggi;  di  lei,  poi,  n'han  parlato
anche i giornali. C'è  perfino  la  storia  di  una  compagnia  di  bersaglieri,
nientemeno. Ah! ci son dei belli originali a questo mondo!  E  trascinata  dalla
rabbia stava per dire di peggio, quando s'udí una forte scampanellata, i ragazzi
ammutolirono a un tratto, la signora corse ad aprire, e il maestro Fassi  entrò,
molto eccitato, con la «Gazzetta  di  Torino»  nella  mano.  Tornava  allora  da
Chieri, dove andava due volte la settimana a dar lezione di ginnastica al  liceo
e alla scuola tecnica. Salutata appena la Zibelli, si voltò  verso  sua  moglie,
mostrando il giornale stretto nel pugno: - Ne vuoi sapere una  nuova,  un  asino
d'un maestro di ballo che salta su con un articolo nella «Gazzetta  di  Torino»,
offeso con me perché nell'«Agone» della settimana passata ho detto che il  ballo
è una diramazione della ginnastica? Ma sai che ci vuol tutta! Ma le ho fatto  un
onore che non merita all'arte delle pirulette. Te lo  concerò  io  in  un  altro
articolo, hai da vedere in che maniera,  quello  sgambettino  presuntuoso  -.  E
seguitò a declamare, abbozzando l'articolo, mentre  faceva  dei  nastri  per  la
stanza. - È tempo una volta di cantarla chiara  a  questi  ignoranti.  Loro  non
fanno una differenza al mondo tra un maestro di  ginnastica  e  un  acrobata  di
circo. Ma il maestro di ginnastica è un uomo di scienza, o  signori!  Egli  deve
conoscere la ginnastica teorica, l'anatomia applicata, la  pedagogia,  l'igiene,
la storia della  ginnastica,  la  costruzione  di  attrezzi  e  palestre,  e  la
tecnologia; e dev'essere artista! Pezzi d'asini, non sanno che ci vuol  la  vita
d'un uomo soltanto per imparare e tenere a mente  tutti  gli  esercizi?  Che  si
potrebbero scrivere cento volumi solamente sull'installazione degli attrezzi?  E
poi, vedete a che cosa deve ricorrere un maestro di ginnastica! E cavò di  tasca
un foglio, sul quale da un  professore  di  matematica  di  Chieri  s'era  fatto
cercare per mezzo di formole algebriche il numero dei cambiamenti  di  posizione
nell'esercizio delle bacchette. Questa era la sua grande smania,  di  render  la
ginnastica quanto più possibile complessa e difficile,  non  solo  nel  concetto
altrui, ma nel proprio. Non  aveva,  come  la  Pedani,  alcun  ideale  del  bene
dell'umanità: adorava la sua scienza per le soddisfazioni che vi  trovava  e  vi
sperava il suo orgoglio. Oltre che a Chieri, insegnava al liceo  e  alla  scuola
tecnica di Carmagnola, a un ginnasio e a un liceo di Torino, agli Artigianelli e
alla Società di ginnastica, e da per tutto s'adoperava a inculcare la sua  idea,
La prima nazione del mondo, aveva detto un grande uomo, sarà quella che avrà più
salute, ossia, quella  che  farà  più  ginnastica.  A  questa  scienza,  dunque,
soggiungeva lui, dovevano convergere tutti gli sforzi dei  grandi  ingegni,  dei
governi, della società intera; questa doveva esser messa  in  cima  a  tutte  le
scienze, e la classe dei maestri di  ginnastica  diventar  l'aristocrazia  della
nazione, E intanto cercava la celebrità  per  tutte  le  vie,  covando  molte  e
diverse  ambizioni;  delle  quali  era  principalissima  quella  d'inventare  un
attrezzo  e  di  dargli  il  proprio  nome.  E  ricascò  addosso  al  ballerino,
rimproverandosi di aver profanato, a proposito del ballo, il nome di ginnastica,
come lo profanavano le compagnie acrobatiche che s'appropriavano l'aggettivo;  e
si scagliò contro il governo che, non ostante le istanze del  secondo  congresso
della federazione, s'ostinava a non voler proibire ai saltimbanchi di vituperare
la scienza, Già, a tutto si sarebbe riparato adottando, com'egli aveva proposto,
la denominazione più nobile e più logica di  «istruzione  fisica».  Poi  domandò
bruscamente, alla Baumann: - Che novità? La moglie gli sciorinò la  novità:  don
Celzani che voleva sposare la maestra Pedani. Ma, dicendo questo, non vide punto
sul viso del marito l'espressione di gelosia che s'aspettava. Infatti  egli  non
sentiva per la Pedani che l'ammirazione d'un meccanico per una bella macchina, e
non aveva mai avuto altro pensiero su di lei che quello  di  servirsene  pe'suoi
fini ambiziosi. Gli spiacque nondimeno quella notizia, prevedendo che, maritata,
essa gli sarebbe sfuggita di mano, ed egli sarebbe rimasto senza stile.  Ma  non
espresse questo pensiero. - Pazzie! -  disse  invece,  -  Una  vera  maestra  di
ginnastica non deve prender marito, deve conservarsi  come  un  soldato,  libera
dell'anima e del corpo. La  maestra  Pedani  deve  consacrarsi  tutta  alla  sua
missione. E la sua missione non è di far dei figliuoli, è di raddrizzare  quelli
degli altri. Non farà questa asineria. Io la persuaderò. Poi domandò di  scatto:
- Ma come mai quel santificetur ha avuto  la  faccia  d'innamorarsi  d'una  cosí
bella ragazza? La signora Fassi arrischiò qualche osservazione  sulla  bellezza;
trovava, per esempio, che don Celzani aveva l'aria più distinta di lei. E poi la
Pedani era una ragazza senza sentimento, si vedeva. Anche la Zibelli fece i suoi
appunti. Aveva una bella  vita,  ecco  tutto.  Del  resto,  nessuna  finezza  di
fattezze: era troppo grossa; mancava di grazia; in casa, urtava tutto; aveva  il
passo d'un'elefantessa. Il maestro scrollò le spalle, - Tutto questo  non  conta
un'acca, - disse. - La Pedani non è pane per i suoi denti; lasciando  stare  che
lui è un ciuchino, e lei una ragazza di talento. - Talento! - esclamò la moglie,
voltandosi verso la Zibelli. - Mio marito le corregge gli articoli.  La  Zibelli
sapeva la verità su questa faccenda; ma mostrò di credere, sorridendo.  E  disse
con gravità: - Non ha sintassi. Scrive a salti. - Questo è vero,  -  osservò  il
maestro. - Anzi, per quel che riguarda il giornalismo,  sarebbe  meglio  che  si
contentasse d'una parte più modesta, che la mettesse meno in  vista.  C'è  delle
questioni, nel campo della  ginnastica,  che  una  donna  non  può  e  non  deve
affrontare. Ma, insomma... don Celzani non la sposerà, voi vedrete. Gli  metterò
io una pulce in un orecchio. So io  come  si  fa  abbassare  la  coda  a  questi
chiericotti... Lo interruppe una scampanellata. Era la Pedani che,  tornata  dal
Club alpino, dove non c'era stata conferenza, veniva a  prender  l'amica.  Entrò
nella stanza e non si volle sedere. Era colorita  di  rosa  dall'aria  frizzante
della sera, ansava un poco, dilatando le narici e sollevando il largo  petto,  e
tutta la sua persona spiccava in nero sulla parete bianca con tale  arditezza  e
vigoria di contorni, che la signora Fassi dovette volger la  parola  ai  ragazzi
per rompere il silenzio ammirativo cagionato da  quella  vista.  -  Ti  vengo  a
prendere, - diss'ella alla Zibelli, mettendo quattro erre nell'ultima parola;  e
chi l'avesse sentita senza vederla, l'avrebbe creduta piuttosto un  marito,  che
un'amica. La Zibelli si mosse, e scambiate altre poche  parole  coi  padroni  di
casa, uscirono tutte e due, la Pedani per l'ultima, riempiendo  per  un  momento
con le sue belle spalle tutto il vano dell'uscio mezzo aperto. - Tutto  sommato,
- disse il maestro, fissando ancora l'uscio dopo che era uscita, -  non  si  può
dire che don Celzani abbia gli occhi nel sedere. E sua moglie soggiunse  con  un
sorriso astuto: - Non l'ha ancora sposata.

Il segretario stette penosamente incerto tutto quel giorno e la mattina dopo, se
dovesse aspettare una risposta per iscritto, oppure farsi coraggio e chiederla a
voce. Finí col farsi coraggio, e al tocco e tre quarti, ora in cui sapeva che di
domenica la maestra usciva sola per  andare  alla  Palestra,  si  piantò  dietro
all'uscio di casa sua, spiando pel buco della chiave quando ella fosse  comparsa
sul pianerottolo. A vederlo in quell'atteggiamento si sarebbe preso per un  uomo
appostato per commettere un assassinio, tanto tutta la sua persona era agitata e
la respirazione affannosa. Un rumore lo scosse, egli cacciò fuori il capo, ma lo
ritrasse subito; non era che il vecchio professor  Padalocchi,  chiuso  nel  suo
gran cappotto impellicciato, e tutto curvo, che usciva,  tossendo,  per  la  sua
solita passeggiata igienica. Ma un  momento  dopo  egli  sentí  il  passo  della
Pedani,  Dio  grande!  L'occasione  era  perduta.  La  maestra,  raggiunto   sul
pianerottolo il vecchio, che le fece un grande saluto,  si  soffermò  e  attaccò
discorso con lui. Ogni parola della loro conversazione cadde come un peso enorme
sul cuore del povero innamorato. Il signor  Padalocchi  si  lamentò  d'un  nuovo
incomodo: aveva la respirazione incompleta. - Perché, - gli domandò la Pedani, -
non fa un po' di ginnastica polmonare? Quegli sorrise, ella  insiste.  -  Glielo
dico sul serio. Non c'è di meglio per dilatare il petto. Provi a  fare  tutti  i
giorni, appena levato, delle inspirazioni ed espirazioni lunghe e ripetute... in
questa maniera. E le fece, e il segretario ebbe un'ondata di sangue alla  testa.
- Ne faccia dieci o venti dapprima, - continuò la maestra, - e n'aggiunga  tutti
i giorni, se può, una decina. Le assicuro che a capo di due settimane si sentirà
molto meglio. È un esercizio di effetto immancabile. Io ne faccio  ogni  mattina
cento e trenta. Il professore parve persuaso e la ringraziò. - Faccia la  prova,
- ripete la Pedani, - e me ne riparlerà. E poi... le impresterò io un libro, che
contiene tutti i precetti.  A  rivederla.  Ciò  detto,  affrettò  il  passo.  Il
segretario sperò d'indovinare un barlume dell'animo di lei dal modo come avrebbe
guardato l'uscio di casa sua, passandovi davanti; ma essa  passò  senza  guardar
l'uscio. E questo lo sgomentò. Era nondimeno  ancora  in  tempo  a  raggiungerla
sotto il portone,  non  foss'altro  che  per  interrogarla  con  gli  occhi;  ma
nell'atto  di  slanciarsi  fuori,  si  sentí  gridare  in  viso:  -   Oh   dolce
segretario!... - Dio grande! Era 1'Ingegner Ginoni, il quale veniva, come  tutti
gli anni, a pregare il padron di casa, suo vecchio  amico,  di  scendere  quella
sera da lui per un piccolo trattamento di famiglia che soleva  fare  nel  giorno
natalizio dei suoi gemelli. Anche il secondo colpo era fallito. Non gli  restava
più che aspettar la sentenza dalla posta.

C'era poca gente, quella sera, in casa Ginoni. Il professor Padalocchi non aveva
potuto venire, la Zibelli non aveva voluto, il padron  di  casa  non  compariva:
nella sala da pranzo, intorno a una gran  tavola  ovale,  coperta  di  fruttiere
piene di dolci e di bottiglie di vini  sardi  e  siciliani,  non  c'era  che  la
famiglia, la maestra Pedani, e tre piccole amiche della figliuola, con  la  loro
nonna,  che  stavan  di  casa  sull'altra  scala.  Ma  la  gioventù,  ch'era  la
maggioranza della riunione, le dava grazia e allegrezza,  formandovi  una  bella
corona di teste bionde sotto alla luce calda d'una  ricca  lampada  a  gas,  che
indorava ogni cosa. La bimba, di cui la Pedani era ancora maestra di  ginnastica
alla scuola Margherita, aveva tredici anni, e pareva il ritratto  del  figliuolo
più piccolo, suo gemello, alunno di terza ginnasiale.  Il  figliuol  maggiore  -
Alfredo - di ventun'anno, studente di matematica all'Università e  velocipedista
chiarissimo, era un biondino ardito, con due begli occhi maligni, già disinvolto
come un uomo rotto al mondo; e s'era messo a sedere cosí  vicino  alla  maestra,
che questa aveva dovuto farsi un po'indietro per non strisciarlo con la spalla e
col fianco. Egli era l'idolo di sua madre, che non  aveva  ancora  quarant'anni:
una acciuga elegante e indolente, con  un  gran  naso  aristocratico,  benevola,
quando non l'urtavano nell'amor cieco che  aveva  per  quel  figliuolo.  Il  più
simpatico della famiglia era l'Ingegnere, bell'uomo sulla  cinquantina,  grigio,
ridente, lavoratore, gran parlatore, gran celione, amante della vita  larga,  ma
senza fumo. Marito e moglie avevano una simpatia  cordiale  per  la  Pedani,  in
parte per l'originalità rispettabile del suo carattere  e  più  perché  la  loro
bimba l'adorava; e non dissentivano da lei che per un'avversione dichiarata alla
ginnastica, nata da che un loro nipote, alunno d'un collegio convitto di Milano,
anni prima, s'era rotto un braccio cadendo dalle pertiche d'ascensione. - Amici,
- le soleva dire il Ginoni incontrandola su per le scale; - ma fino alla  soglia
della palestra. Oppure: - Abbasso la ginnastica! - e ogni volta che si trovavano
insieme, la stuzzicava facetamente su quell'argomento. E la conversazione  cadde
lí, anche  quella  sera.  Fra  l'altre  cose,  per  criticare  il  nuovo  metodo
d'insegnamento, l'ingegnere raccontava di aver visto  l'anno  prima  eseguire  i
passi ritmici alle Figlie dei militari dell'istituto di  San  Domenico,  dov'era
andato per visitare i locali. Sí, lo spettacolo gli era piaciuto. Quelle cento e
cinquanta ragazze grandi, con quei bei  vestiti  neri  e  azzurri,  e  con  quei
piccoli grembiali bianchi, schierate in un vasto cortile, che si  movevan  tutte
insieme al comando d'una maestra, con dei movimenti  graziosi  di  contraddanza,
facendo un fruscio cadenzato che pareva una musica  di  bisbigli;  tutte  quelle
belle braccia e quelle piccole mani per aria, quelle grosse  trecce  saltellanti
sulle nuche rosee e sui torsi snelli, quei trecento piedi arcati e sottili, e la
grazia indefinibile di quelle mosse cosí tra il ballo e  il  salto,  con  quelle
vesti lunghe, che davan loro l'aspetto di un corpo di ballo pudibondo, era nuovo
e seducente senza dubbio. Ma,  Dio  mio!  Quante  parole  metteva  fuori  quella
maestra per farle muovere! Chiacchierava più lei di quello che  esse  movessero,
eran dei  comandi  interminabili  da  generale  di  brigata,  una  complicazione
faticosa di coreografia. E poi, un movimento rattenuto e misurato a  centimetri,
insufficiente per quei corpi fatti e pieni di vita, una combinazione  d'esercizi
compassati, cercati con la penna, per servir di spettacolo  a  commissioni  e  a
invitati. A lui sarebbe venuto voglia di troncar la rappresentazione a  metà,  e
di sguinzagliarle tutte in un prato fiorito, come una mandra di puledre.  Ma  la
Pedani, su questo, era d'accordo con lui. Essa era baumannista appunto perché il
Baumann faceva guerra alla ginnastica coreografica e voleva per le  ragazze  una
scuola più virile. - Allora, - disse l'ingegnere, - per farla arrabbiare le dirò
male del Baumann. - Io lo difenderò, - rispose la maestra. - Si provi. -  No,  -
disse lui, sorridendo, - non lo farò, non sono abbastanza  enciclopedico  perché
ora la ginnastica abbraccia tutte le scienze -. E citò  un  conferenziere  della
Filotecnica che, sere innanzi, dovendo trattar  della  ginnastica,  aveva  fatto
prima  una  corsa  sterminata  a   traverso   alla   filosofia,   all'etnologia,
all'antropologia, e messo sottosopra tutto lo scibile umano;  poi  aveva  finito
coi manubri. -  La  ginnastica,  -  rispose  tranquillamente  la  Pedani,  -  ha
relazione con tutte le scienze. - E come no? - ribatte l'ingegnere. - Anzi, è la
chiave di tutte. Ora dicono che un ragazzo che trova difficoltà a  risolvere  un
problema, non ha che a fare un quarto d'ora d'esercizio alle parallele,  poi  si
rimette a tavolino, e tutto è fatto, - Il signor ingegnere scherza, -  disse  la
Pedani, alzando una spalla, - io non rispondo più. - Non scherzo, -  rispose  il
Ginoni, continuando a scherzare, - Non s'è anche detto che la ginnastica darà il
gambetto alla medicina? Mi par che sia il maestro Fassi che ha  scritto  che  ci
son certi esercizi che equivalgono a certe ricette. Bel tipo quel maestro Fassi!
È  anche  lui,  credo,  che  trova  delle  trasformazioni   maravigliose   nella
musculatura dei suoi alunni dalla mattina del lunedí alla sera del  sabato.  Per
esempio, egli ha un'ideale di società originalissimo: la gente  saltellante  per
le strade, capre e parallele in tutte le piazze, la lotta obbligatoria in  tutti
gli uffizi, esercizi degli arti superiori nei salotti...  -  Non  dica  di  più,
ingegnere, - disse la Pedani,- perchè mi rincresce davvero di  sentire  un  uomo
come lei mettere in ridicolo una cosa tanto seria. Come si fa a scherzare  sulla
ginnastica mentre abbiamo,  su  trecentomila  iscritti  alla  leva,  ottantamila
riformati per inattitudine fisica! Mentre abbiamo i ginnasi pieni di  giovanetti
scoloriti, che hanno petti e braccia  di  bambini,  e  su  dieci  ragazze  della
miglior società non se ne trovan due senza qualche difetto  di  costituzione!...
Oh! è un triste scherzo! - Domando perdono,  -  rispose  1'ingegnere  -  Io  non
combatto la ginnastica...  ginnastica.  Io  l'ho  con  questa  nuova  ginnastica
scientifico-letterario-apostolico-teatrale, che hanno inventata  per  dar  delle
feste e degli spettacoli, per fabbricare dei  grandi  uomini  e  moltiplicare  i
congressi, e per menare la lingua e la penna mille volte più che non le  braccia
e le gambe. Non è mica questa, credo, la ginnastica che difende la signorina.  -
Non la difendo, - rispose questa, - perchè non esiste, perchè non  è  altro  che
un'invenzione  di  loro  signori.  Io  non  conosco  altro  che  una  ginnastica
ragionata,  fondata  sulla  conoscenza   dell'anatomia,   della   fisiologia   e
dell'igiene, che dà all'infanzia la forza, l'agilità, la grazia, la  salute,  il
buon umore, e rialza tutte le facoltà morali e intellettuali. Io credo a  questi
effetti perchè sono provati e li vedo; credo quindi che la ginnastica sia la più
utile, la più santa delle istituzioni educative della gioventù, e quelli che  la
combattono, mi  scusi...  mi  fanno  pena,  mi  paiono  gente  accecata,  nemici
incoscienti dell'umanità. L'ingegnere rise un poco del leggero tono declamatorio
delle ultime parole: - No, signorina, - disse poi - non sono nemico di chi senza
consultare il medico come si dovrebbe far sempre e non si fa mai,  mette  a  far
ginnastica dei ragazzi che hanno delle infermità e dei difetti, e che  si  fanno
del male; mi comprende? Sono anche nemico di chi fa nascere fra i  robusti  e  i
deboli delle gare d'amor proprio, che ai deboli costano delle rotture di  collo;
nemico di chi  riduce  la  ginnastica,  che  dovrebb'essere  un  sollievo  dello
spirito, a un artificio teorico che occupa e affatica la  mente  come  un  altro
studio qualunque. E questo è  quel  che  succede.  E  sono  anche  nemico  delle
esagerazioni. Credo che i buoni effetti, che sono innegabili,  della  ginnastica
si esagerino iperbolicamente, ingannando il mondo. Mi permetta  di  assicurarle,
per esempio, che nessun esercizio e nessun attrezzo avrebbe mai dato  a  lei  la
fiorente salute e la conformazione,  che  ella  si  può  vedere  nell'armadio  a
specchio. Il figliuolo maggiore approvò, facendo l'atto di batter le mani. Negli
occhi alla Pedani passò il lampo d'un sorriso. Ma  si  rifece  subito  seria.  -
Sempre cosí, - rispose; - io dico delle ragioni, lei degli scherzi. Non le  dico
più che una cosa. La Germania e l'Inghilterra, che sono  le  due  prime  nazioni
d'Europa, sono quelle che fanno più ginnastica. Il popolo greco, che fu il primo
dell'antichità, era il popolo più ginnastico del mondo -.  E  soggiunse  con  un
sorriso: - Lei lo sa: Aristodemo, perchè gli abitanti  di  Cuma,  ch'egli  aveva
assoggettati, non potessero più ribellarsi alla sua tirannia, proibí loro di far
la ginnastica. - L'avrà fatto per amicarseli, - rispose l'ingegnere. La  maestra
tacque un momento. Poi disse con vivacità: - Per fortuna, non  la  pensan  tutti
come lei. Lei non conosce il nostro mondo. L'idea si fa strada  da  ogni  parte,
anche in Italia. Lo sa lei che abbiamo delle centinaia di società di ginnastica?
Che ci sono dei signori appassionati  che  profondono  il  loro  patrimonio  per
fondar palestre, che c'è un gran numero di medici giovani  che  consacrano  alla
ginnastica tutti i loro studi, e delle centinaia di maestri che imparano apposta
le lingue straniere per studiare la letteratura ginnastica universale, la  quale
conta migliaia di volumi, scritti da scienziati eminenti?  L'ingegnere  fece  un
gesto vago, senza rispondere, perché era occupato da qualche momento a  far  dei
cenni col capo al suo figliuolo maggiore, il  quale  si  avvicinava  tanto  alla
maestra e la bruciava con gli occhi in un modo, che era una  vera  indecenza.  -
Abbasso Baumamn! - disse infine, per dir qualche cosa, Ma quando le toccavano il
Baumann, la Pedani non ammetteva celie. Saltò su. Il Baumann era benemerito  del
paese, era il fondatore d'una nuova ginnastica che avrebbe dato immensi  frutti,
un grande ingegno, un  gran  dotto,  un  creatore  di  caratteri.  Essa  l'aveva
conosciuto al Congresso: era una figura di  uomo  predestinato  a  grandi  cose:
vicino alla sessantina, pareva un giovane; aveva una fronte  superba,  il  gesto
fulmineo, la parola scultoria, un'eloquenza dominatrice di soldato e d'apostolo.
Il Baumann, datigli i mezzi, avrebbe rifatto una nazione. Non foss'altro che per
la riforma che voleva fare della ginnastica femminile,  le  donne  d'Italia  gli
avrebbero dovuto innalzare una statua. L'ingegnere fece insieme una piruletta  e
un frullo con una mano. La signora Ginoni prese allora la  parola,  con  la  sua
voce indolente: - Eppure, cara maestra, la ginnastica, per le ragazze, ha  anche
i suoi inconvenienti. I maestri di ballo osservano che toglie la grazia e abitua
a movimenti scomposti. Cosí i maestri di pianoforte dicono  che,  quando  tornan
dalla palestra, le signorine non san più sonare. Anche i professori  di  disegno
si lamentano. - È gelosia di  mestiere,  -  rispose  la  maestra;  -  lo  creda,
signora. È impossibile che faccia danno al ballo o a qualunque arte  l'esercizio
ginnastico, poiché per effetto appunto di quest'esercizio la  sinovia  si  versa
più abbondante nelle articolazioni mobili delle ossa e rende tutti  i  movimenti
più facili e più liberi... Vede?  Anche  il  suo  figliuolo  mi  dà  ragione.  A
proposito, - soggiunse, voltandosi verso lo studente, - debbo  ringraziarla  del
suo bel regalo. Il giovane diede un guizzo; ma  non  arrossí  punto:  ci  voleva
altro. Però, avrebbe preferito il silenzio. E con molta disinvoltura disse a sua
madre che aveva mandato alla maestra, supponendo  che  le  dovesse  piacere,  il
piano d'un ginnasio greco, copiato da lui in biblioteca, La  signora  sorrise  a
fior di labbra. E disse alla Pedani: - Domenica  scorsa,  Alfredo  ha  vinto  il
premio d'una bandiera alle corse dei velocipedi. La Pedani si  fece  raccontare:
essa si occupava con curiosità di quelle gare, conosceva i  nomi  dei  vincitori
soliti, andava qualche volta alla pista, e benché non fosse mai montata sopra un
velocipede, discorreva di  bicicli,  di  tricicli  e  di  biciclette  con  piena
cognizione della materia. Ma questa volta, raccontandole le  vicende  della  sua
corsa, nella quale egli aveva cavallerescamente aspettato che  si  rialzasse  il
suo competitore caduto, il giovane le si strinse addosso  per  modo,  civettando
col capo e con gli occhi, che suo padre non poté  a  meno  di  fargli  un  cenno
severo, che egli non vide. - Vede dunque,  -  disse  la  maestra  all'ingegnere,
facendosi un po'in dietro con la seggiola, - anche il suo studente  è  con  noi.
Siamo dunque in maggioranza per la ginnastica, in questa casa. Il Fassi, io e la
mia amica, il signor Padalocchi che fa  ginnastica  polmonare,  suo  figlio,  il
commendator Celzani... Al nome di Celzani l'ingegnere diede una  risata,  -  Ah!
Quanto al commendator Celzani, - disse, - lo lasci stare. - Come? -  domandò  la
Pedani. - Non va forse a tutti i saggi di ginnastica che  si  dànno,  dal  primo
all'ultimo, alla Palestra, a scuole, a istituti?... La sua approvazione vuol dir
molto. Non mi potrà negare la serietà del commendator Celzani. - Io non la nego;
tutt'altro! - rispose il Ginoni con brio; - tanto più  che  è  mio  buon  amico.
Anzi, dico che è una delle più venerande canizie di Torino. Soltanto... - e  qui
guardò furtivamente le bimbe grattandosi il mento, come se cercasse un  modo  di
spiegarsi senza farsi capire da loro.  Ma  le  bimbe,  occupate  a  spartirsi  i
confetti, non gli badavano. -  Soltanto...  -  riprese,  il  suo  culto  per  la
ginnastica è troppo parziale. Veda un po' s'egli si cura  più  che  tanto  della
ginnastica maschile. E poi, dà troppo più importanza alla seconda età  che  alla
prima. Però, è ammirabile la  puntualità  con  cui  va  a  quegli  spettacoli  e
l'attenzione che vi presta.  Egli  ci  trova  proprio  degli  alti  godimenti...
intellettuali. E n'esce tutto grave, coi suoi  dolci  occhi  azzurri  socchiusi,
immerso in profondi pensieri. Ah! se si potessero scrivere! Io lo conosco. E non
è il solo. Egli è  un  tipo.  La  ginnastica  femminile  è  stata  un  ritrovato
impareggiabile per questi signori, una vera consolazione della  loro  vecchiaia,
una sorgente di delicatissime delizie cerebrali, di  cui  noi  profani  possiamo
farci appena una lontanissima idea. Il commendator Celzani non ha che vedere con
la ginnastica scientifica, lo creda a me. Citi delle altre autorità,  signorina.
- Un giorno citerò lei, - rispose la maestra,  per  tagliare  quel  discorso,  -
perché io la persuaderò e lei si farà iscrivere alla Palestra. Tutti  risero,  -
Jamais de la vie!- esclamò l'ingegnere.- O se andrò alla Palestra, non sarà  che
per veder lei alle parallele. - E n'avrà da vedere, - rispose la ragazza;  -  sa
che solamente alle parallele ci son cinquecento movimenti? L'ingegnere stava per
rispondere con uno scherzo un po' fuor di luogo, quando suonò il campanello e un
momento dopo entrò il segretario. Fu un colpo di scena. Veniva a portar le scuse
dello zio, che non poteva uscir di casa, a causa d'un raffreddore. Entrato senza
pensare che potesse esser lì la maestra, al vederla, ebbe come  il  senso  d'una
forte scossa elettrica; e per quanto grande fosse il timore di  farsi  scorgere,
egli non poté vincere sul primo momento il violento bisogno di cercar  sul  viso
di lei l'impressione della sua lettera; e la fissò  dilatando  smisuratamente  i
suoi piccoli occhi, e facendo  una  faccia  stranissima,  tremante  in  tutti  i
muscoli, e accesa  d'un  vivo  rossore,  a  cui  succedette  una  pallidezza  di
coleroso. Quella faccia rivelò in un lampo ogni cosa al signor Ginoni; il  quale
guardò subito la maestra, che si lasciò sfuggire un  sorriso  indefinibile,  non
espresso dalla bocca né dagli occhi, ma quasi diffuso sul viso immobile, come il
riflesso esteriore d'una immagine comica. Il segretario fece la sua  imbasciata,
movendo a stento le grosse labbra, come se fossero  appiccicate  con  la  colla.
«To', to', to'», disse intanto fra sé l'ingegnere, assaporando la sua  scoperta,
e porta al segretario una seggiola su cui egli sedette come sopra un mucchio  di
spine, gli offerse un bicchiere di Malvasia, ch'egli prese e si tenne sul  petto
con un atteggiamento pretesco. E sul momento il signor Ginoni concepí e cominciò
a porre in atto un disegno di faceta persecuzione. - Giusto, segretario amato, -
gli disse, - lei è caduto nel bel mezzo  d'una  discussione  di  ginnastica.  Si
discuteva con la signora maestra. Ci deve dire anche lei che scuola  appartiene.
È della scuola del Baumann? È della scuola... che altra  scuola  c'è,  signorina
Pedani?.... Obermann! È della scuola  dell'Obermann?  Quali  sono  le  sue  idee
intorno agli effetti della ginnastica sulle funzioni del cuore? La maestra  alzò
gli occhi al soffitto. Il segretario, atterrito, si levò in fretta il  bicchiere
dalla bocca e guardò l'ingegnere. Poi trangugiò il vino d'un sorso,  e  rispose,
alzandosi, confuso: - Il signor ingegnere vuole scherzare. Mi rincresce  di  non
potermi trattenere, debbo risalir subito dal commendatore... - Oh no, signore! -
disse il Ginoni, - Non le  permetto  di  scappare  in  questa  maniera.  D'altra
parte...non può andarsene ora perché, il portone di casa rimanendo  aperto  fino
alle undici, non si sa mai chi si possa incontrare per le scale, e lei, da  buon
cavaliere e da cortese segretario, è in dovere di accompagnar fino all'uscio  la
signorina Pedani. Il segretario risedette subito; ma lo studente fece un atto di
dispetto, poiché sperava d'esser lui l'accompagnatore. -  Io  non  ho  paura  di
nessuno, - disse con voce virile la maestra. - Non basta, - rispose il Ginoni, -
non aver paura; bisogna farla agli altri, e lei... non è nel caso.  Lo  studente
sviò la conversazione interrogando la Pedani sulle grandi feste che erano  state
annunziate per il Congresso ginnastico di Francoforte, ed  essa  gli  diede  dei
ragguagli. Dovevano essere le più belle feste che si fossero  mai  celebrate  in
Germania: vi sarebbero intervenuti rappresentanti di tutti i paesi d'Europa  fra
i quali molti dell'Italia. Essa  invidiava  quei  fortunati  suoi  colleghi  che
avrebbero visto quello spettacolo unico al mondo  e  fatto  conoscenza  dei  più
illustri  «ginnasiarchi»  degli  Stati  tedeschi,  il  Kloss,  il  Niggeler,  il
Danneberg, il famoso padre della ginnastica, Jahn  Tum  Vater,  e  tanti  altri;
mentre lei, pur troppo, non avrebbe nemmeno potuto procurarsi i  loro  ritratti.
Mentre essa parlava, il segretario la dardeggiava con occhiate di fianco, geloso
a morte  dell'apparente  familiarità  con  cui  s'intratteneva  col  giovane,  e
sconsolato ad un tempo di veder tutti i suoi pensieri e  sentimenti  volti  alla
ginnastica con tanto ardore, da non lasciar  luogo  a  sperare  che  le  potesse
capire un'altra passione nel cuore. Luccicava ciò non ostante nei  suoi  piccoli
occhi un barlume di speranza, l'aspettazione trepidante e impaziente insieme del
momento d'andarsene, per accompagnarla. Balzò  dalla  seggiola  quando  vide  la
Pedani alzarsi per uscire. Ma l'ingegnere fu feroce.  -  Ora  che  ci  penso,  -
disse, mentre tutti s'alzavano, - il signor segretario  è  cosí  timido  con  le
signore che è capace di lasciar la maestra al  secondo  piano.  La  accompagnerò
anch'io. Dio grande! Quella fu per don Celzani come una ceffata  d'una  mano  di
ghiaccio; ma non osò rifiatare. E mentre tutti  si  salutavano,  e  lo  studente
stringeva la mano alla maestra, egli osservò un moto sfuggevole sul viso di lei,
come se quegli le avesse dato una stretta troppo forte; e fu per il  pover  uomo
una seconda ceffata. Uscirono tutti e tre, e saliron lentamente le  scale  quasi
oscure. L'ingegnere seguitò a dir barzellette, e il  segretario,  con  suo  gran
dolore, non trovò una parola da dire. Andò su a fatica, soffermandosi quando  il
Ginoni e la maestra si soffermavano, e restando un po'indietro  ogni  tanto  per
divorare con gli occhi quella bella persona, e quasi  per  cavare  una  risposta
dalle sue forme, o per pugnalar con lo sguardo  la  schiena  del  suo  aguzzino.
Quando furono davanti all'uscio, dove non arrivava la luce del gas,  l'ingegnere
accese un fiammifero, la maestra tirò il campanello. Il segretario stette pronto
per cogliere e interpretare lo sguardo del saluto; e infatti,  rientrando,  essa
lo guardò. Ma, ohimè! lo sguardo non disse nulla. E  nel  punto  stesso  che  si
spegneva il fiammifero, si spense la sua speranza. L'ingegnere indovinò dal  suo
silenzio la tristezza di una delusione e, fatto più  libero  dall'oscurità,  gli
disse a bruciapelo: - Segretario  caro,  lei  è  innamorato  della  maestra.  Il
segretario scattò, negò, si stizzí, si mostrò maravigliato e  offeso  di  quello
scherzo. - E perché mai? - domandò il Ginoni,  tra  il  serio  e  il  faceto.  -
Sarebbe forse un disonore, quando  fosse?  È  una  bella  e  onesta  ragazza,  e
originalissima, non della solita stampa. Perché non mi dice la verità? Sono  suo
buon amico, e le potrei dare dei buoni consigli. Sono un gentiluomo  e  rispetto
gli affetti. Don Celzani stette un po'in silenzio, nel  buio;  poi  rispose  con
voce commossa: - Ebbene..., è vero. - Alla buon'ora, - disse  l'ingegnere,  -  e
viva la sincerità. Intanto lei ha avuto una delusione, si  capisce.  Ma  non  si
scoraggi. Io conosco le donne. Conosco il carattere  della  maestra.  È  una  di
quelle mine che hanno la miccia lunga e nascosta, che brucia per un pezzo  senza
darne segno; ma poi scoppiano tutt'a un tratto, quando meno  uno  se  l'aspetta.
Abbia una costanza di ferro e una pazienza da santo, e un giorno...  Perché  lei
le fa la corte pour le bon motif non è vero?,  -  Mi  stupisco,  -  rispose  don
Celzani, - io ho delle intenzioni oneste, - Ma è quello che voglio dire, - disse
l'ingegnere, rimesso al faceto da quel malinteso, - Ebbene, senta un  consiglio.
Le donne come quella non vanno prese d'assalto diretto, bisogna girarvi attorno.
Essa ha una passione: la ginnastica. Ebbene: convien  pigliarla  pel  manico  di
quella passione. Lei deve farsi socio alla  Palestra,  esercitarsi,  studiar  la
materia nei libri, parlargliene, entrarle in grazia in questa maniera. Questo  è
il primo consiglio che le do;  poi  ne  verranno  degli  altri.  Per  ora,  agli
attrezzi! E coraggio. Don Celzani, incerto se quegli parlasse  da  senno  o  per
burla, non rispose. Intanto erano arrivati all'uscio del commendatore.  -  Buona
notte, - disse l'ingegnere. - Sono galantuomo e terrò il segreto. Il  segretario
gli rispose un «buona notte» fioco e diffidente, e rientrò, pentitissimo di aver
parlato. Pentito e scorato. Gli balenò ancora una speranza, quando  entrò  nella
sua camera, nell'atto che accendeva la candela sul comodino. Chi sa! Forse  essa
gli aveva scritto quel giorno, e la lettera sarebbe arrivata  la  mattina  dopo.
Poteva ben presagire che lettera, pur troppo; ma, qualunque fosse,  gli  sarebbe
parsa meno dura di quella indifferenza  muta  che  lo  schiacciava.  Con  questo
pensiero si svestí, tendendo l'orecchio; poiché la sua camera era sotto a quella
della Pedani, e non c'essendo che un solaio leggiero, egli sentiva tutti  i  più
piccoli rumori. Ma subito non sentì nulla: essa  doveva  essere  al  tavolino  a
studiare. Gli venne un sospetto allora, e con questo una nuova  speranza:  aveva
forse fatto male a non esprimere nettamente nella sua dichiarazione il proposito
del  matrimonio:  lei  aveva  forse  creduto  egli  non  le  chiedesse  che  una
corrispondenza d'amore. Quale errore  aveva  commesso!  Eppure  la  lettera  gli
pareva cosí chiara!... Dio grande, quanto era bella! Non l'aveva mai vista  bene
come quella sera, seduta col busto eretto, come un'imperatrice  sul  trono,  con
quell'ampio petto fremente di vita, sul quale egli avrebbe rotolato  il  capo  a
costo di bruciarselo come in un braciere. La luce della grande lampada dava alla
sua carnagione un tale splendore di gioventù, da  far  pensare  che  si  dovesse
ringiovanir d'un anno a ogni bacio che vi si  stampasse.  Egli  aveva  osservato
sulla tavola la sua mano un po' ingrossata dagli esercizi ginnastici, ma lunga e
bella, piena di forza e di grazia, e vi si sarebbe gettato su come un  avvoltoio
sopra una tortora. Ah no, certo, egli non le  piaceva;  doveva  essere  una  ben
altra forma d'uomo l'ideale di lei! Eppure si  sentiva  dentro  la  piena  della
passione che colma tutti i vuoti, che eguaglia tutte le differenze, e sfida ogni
paragone. Il cervello gli bruciava come una girandola accesa.  Al  primo  rumore
che sentí di sopra, balzò a sedere sul letto e fissò  gli  occhi  infiammati  al
soffitto, trattenendo il respiro. Mai quei rumori gli avevano agitato il  sangue
come quella sera. Egli  li  conosceva  tutti,  e  seguitava  con  essi  tutti  i
movimenti di lei. Rimuove la seggiola, gira per la camera buttando i panni qua e
là, apre e chiude l'armadio, mette il candeliere sul tavolino da  notte,  lascia
cadere uno stivaletto, un altro... Ah! miseria della vita! Era proprio quello il
momento in cui il povero don Celzani sentiva più  forte  il  rancore  contro  la
natura, che pareva lo avesse scolpito apposta per il ministero ecclesiastico,  e
avrebbe dato venti anni di vita per cambiar viso.  Ma  poi,  poco  a  poco,  col
prolungarsi  della  veglia,  l'esasperazione  dei  desideri  si  stancava  e  si
raddolciva in un sentimento di tristezza affettuosa ed umile, durante il  quale,
abbandonando la persona adorata,  egli  si  contentava  con  la  fantasia  degli
oggetti di lei, che aveva sentiti cadere a uno a  uno;  e  gli  pareva  che  gli
sarebbe bastato di aver quelli,  di  palparli,  baciarli,  addentarli,  per  uno
sfogo, E non dormí quasi  quella  notte,  e  si  svegliò  prima  dell'alba,  per
aspettare il rumore solito, che gli  soleva  ridestare  tutta  la  violenza  dei
desideri acquietati dalla stanchezza. E  infatti,  all'ora  precisa  in  cui  la
Pedani soleva saltar giù, egli sentí il tonfo dei  piedi  nudi  sull'impiantito,
che lo scosse tutto; sentí il fruscio usato ch'ella faceva per vestirsi, poi  il
rumor sordo dei manubri tirati di sotto al letto;  poiché  ogni  giorno,  appena
levata, faceva un po' d'esercizio. E quell'ultima  immagine  di  quelle  braccia
gagliarde che scattavan nell'aria  sopra  il  suo  capo,  gli  diede  finalmente
l'impulso  a   una   risoluzione   ardita.   Voleva   abbreviare   il   martirio
dell'incertezza, aspettarla all'uscita delle otto  e  mezzo,  e  domandarle  una
risposta. L'aspettò, infatti, e, per sua fortuna, essa scese sola. Egli le  andò
incontro, la salutò e le domandò con voce tremante: - Non ha nulla da dirmi?  La
maestra rispose, tranquilla: - Sí, una cosa sola. Ho da  ringraziarla  dei  suoi
buoni sentimenti. - Null'altro? - No, signor  segretario,  -  rispose  essa  con
garbo, - null'altro. E discese. Allora incominciò per lui una sequela di  giorni
tristissimi; perché aveva bensí deciso di ritentare la  prova  con  una  domanda
formale di matrimonio; ma capiva che il farlo subito dopo quello  smacco,  senza
prepararsi il  terreno,  sarebbe  stata  una  follia.  E  intanto  gli  piovvero
dispiaceri su dispiaceri. Il primo fu  che  la  maestra  Zibelli,  di  punto  in
bianco, gli tolse il saluto. Se  ne  sarebbe  afflitto  meno  se  avesse  saputo
ch'essa era entrata allora in una delle sue fasi, in cui, delusa dal  mondo,  si
chiudeva tutta in una specie d'entusiasmo forzato pel suo  ufficio  di  maestra,
leggendo libri di scuola anche per la strada,  per  non  vedere  la  gioventù  e
l'amore che le passavan d'accanto, pedantemente zelante dei suoi doveri,  rigida
con le alunne, coi parenti, con le colleghe, col mondo intero, Ma  don  Celzani,
che non sapeva questo, e ignorava la vera cagione dello sgarbo, buono e  gentile
com'era con tutti, non supponendo in lei che un moto improvviso di antipatia, ne
fu punto nel più vivo del cuore. Poi trovò strana la condotta del maestro Fassi.
Costui, incontratolo per la scala, gli mostrò le bozze d'un articolo  intitolato
Berlino spende mezzo milione all'anno per la ginnastica,  nel  quale  faceva  un
confronto con l'Italia intera, che spendeva la metà; e poi, voltando bruscamente
il discorso sulla Pedani: - Gran bel pezzo di donna! - esclamò, - Quella sarebbe
degna di sposare il più bell'uomo d'Italia. Scommetto che lei non regge  con  le
braccia tese i due manubri che quella tiene con  una  mano  sola.  Chi  avrà  da
sposarla, farà bene a far prima i suoi conti. Che discorsi eran quelli? Egli non
si sentiva offeso dal  paragone  delle  forze:  il  suo  solo  pensiero  era  la
disparità della bellezza: pel  resto,  aveva  la  coscienza  tranquilla.  Ma  lo
inquietava il sospetto che il maestro conoscesse le  sue  intenzioni.  Un  altro
giorno gli ritoccò quel medesimo tasto - Ho  lasciato  su  la  Pedani,  che  sta
studiando una nuova combinazione col bastone Jager, per le ragazze. È tutta allo
studio, lei; non ha distrazioni amorose. Anche perché non trova chi le convenga,
forse. Già, anche nell'amore, similia cum similibus, lei che sa  il  latino.  Ma
dove pescare chi le faccia il paio? Essa disprezza gli uomini di mezza tacca.  E
se avrà la sbadataggine di legarsi a un di questi... povero lui! E guardò  fisso
il segretario. Ma anche questa volta egli si turbò pel timore che il maestro gli
leggesse nell'animo, non per le parole che gli disse; le  quali,  al  contrario,
acuivano tutti i suoi desideri, e le rimasticava poi,  quasi  con  un  senso  di
voluttà. Ci fu di peggio, però. Due o tre volte, mentre seguitava la Pedani  giù
per le scale, egli vide uscir sul pianerottolo lo studente Ginoni, con  un  viso
su cui si leggeva il proposito d'un assalto; e ogni volta, al veder lui,  quegli
fece un atto di stizza e rientrò in casa. Una mattina lo vide che pedinava  alla
lontana la maestra, in via San Francesco d'Assisi. E n'ebbe un vero  dolore.  La
gioventù, la grazia e la  sfacciataggine  di  quel  biondino  gli  mettevano  lo
sgomento nell'anima. E prese a invigilarlo ogni giorno.  Ma  il  dispiacere  più
grave l'ebbe dalla moglie del maestro Fassi. Costei lo cercava da  vari  giorni:
lo incontrò una sera sotto il portone, e lo fermò. - Come va il signor Fassi?  -
domandò lui. Con la sua voce piagnucolosa, come uscente da un petto oppresso dal
peso delle appendici, essa rispose glorificando, secondo il  solito,  le  grandi
occupazioni di suo marito. - È su che  lavora,  che  fa  un  confronto  fra  gli
stipendi dei maestri di ginnastica della Svezia e quelli dell'Italia.  Perché  è
una vergogna che deve finire. Dire che con gli studi che ci vogliono, i  maestri
di ginnastica son pagati come impiegatucci, e nemmeno il titolo  di  professori,
che hanno tutti quei che insegnano a scarabocchiare. Quando ci  penso,  col  suo
ingegno e con la sua presenza, che altra carriera avrebbe  potuto  fare!  Perché
lei non ha un'idea degli studi di quell'uomo. E  ancora,  che  è  disturbato  in
tutte le maniere, da faccende, da visite. C'è quella  maestra  Pedani  che  ogni
momento è li, a domandar aiuti e consigli. Mi dica lei, una ragazza giovane, con
un uomo ancor nel fiore, se è decente quella libertà; e notando che ci  son  io:
si figuri se non ci fossi! Vada a giudicar le ragazze dall'aria  che  si  dànno.
Quella parrebbe la dignità in persona. Già, una signorina che in  piena  scuola,
come fece l'anno passato al corso d'anatomia, col pretesto di non  aver  inteso,
s'alza per domandare al professore: «Signor professore,  dov'è  il  nervo  della
simpatia?...» è giudicata. E visto con un rapido sguardo l'effetto che produceva
in  don  Celzani,  tirò  avanti  con  l'aria  di  dir  delle  cose  che  non  lo
riguardassero: - Del resto, ci sarebbe ben altro da dire. Queste maestre giovani
che prima di venire a Torino hanno girato per mezza dozzina di comuni...  Si  sa
le avventure delle maestre nei villaggi. C'è una certa storia di  una  compagnia
di bersaglieri, che ha fatto del chiasso. Quello che mi stupisce è che l'abbiano
accettata a Torino. Ma certo è che in città la conoscono, e che è  iscritta  sul
libro nero. Basta, il mio parere è che non andrà molto tempo che ne  vedremo,  o
ne sapremo, delle belle. Dopo di  questo,  disse  male  d'altri  vicini;  ma  il
segretario non udí altro, e benché diffidasse della sua lingua, quando quella lo
lasciò, rimase tutto sconvolto. L'idea d'un brutto passato di quella ragazza gli
dava un'amarezza indicibile, una gelosia feroce, una tortura che  lo  straziava.
Quella compagnia di bersaglieri, soprattutto, lo incalzò  con  le  baionette  ai
fianchi per una settimana. E soffriva di più  perché  da  vari  giorni  non  gli
riusciva di vederla, e, smanioso  di  sapere,  di  liberarsi  da  quell'orribile
dubbio, non vedeva a chi si potesse rivolgere, non sapeva da che  parte  battere
il capo. Una mattina, finalmente,  la  incontrò,  e  una  gran  parte  dei  suoi
sospetti svaní al primo vederla. No, Dio grande, non era possibile: tutta quanta
la sua persona, dalla fronte ai piedi, smentiva  la  calunnia;  tutto  quel  bel
corpo spirava l'alterezza d'una verginità vigorosa, uscita intatta e  trionfante
da  ogni  battaglia,  come  un'armatura  fatata.  Ma  un'ora  dopo  i   sospetti
rinacquero, e lo riprese l'affanno di prima. Ma intervenne  un  fatto,  in  quei
giorni, che lo spinse a una risoluzione improvvisa. Incontrato  una  mattina  il
maestro Fassi, questi  gli  disse  ex  abrupto,  come  continuando  un  discorso
avviato: - Quella Pedani, che spartana! Ho visto dal mio camerino: ci ha là  una
povera diavola che va a imparare i passi ritmici, e lei le fa lezione con  tanto
di finestra spalancata, con questa grazia di temperatura! È una sua idea  fissa,
che bisogna far la ginnastica all'aria  viva.  Il  segretario  fece  tra  sé  un
ragionamento rapidissimo: se dal camerino del maestro  si  vedeva  nella  camera
della Pedani, tanto meglio vi si doveva vedere dall'abbaino del soppalco,  posto
sopra la finestra del camerino. Appena fu solo, rientrò in fretta in casa, prese
la chiave del soppalco, salí a lunghi passi le scale, aperse  l'uscio,  s'avanzò
curvo sotto alle travi basse del tetto, in  mezzo  alle  legna,  ai  rottami  di
mobili, ai mucchi di formelle, andò fino all'abbaino, s'arrampicò e  si  distese
quant'era lungo sopra una catasta di fascinotti, sporse il  viso  nel  vuoto,  e
mise  un'esclamazione  di  piacere.  La  finestra  della  camera,  che   restava
nell'altro muro della casa, era spalancata; la Pedani stava col fianco verso  la
finestra, volta di fronte all'alunna; che non si vedeva. La sua voce  sonora  di
contralto arrivava distintissima fin sul tetto. - Ma no, - diceva, -  in  questo
modo lei non mi fa il mezzo passo semplice saltellando; mi  fa  un  lungo  passo
saltellato. Non c'intendiamo. Rifaccia. Il segretario sentí il passo dell'alunna
invisibile. - No, - ripete la maestra, - è ancora troppo esagerato, Oh la  bella
voce profonda, calda, vibrante, che avrebbe fatto immaginare un corpo ammirabile
anche a chi l'avesse intesa a occhi chiusi!  La  Pedani  parve  scontenta  anche
della  seconda  prova,  perché  scrollò  il  capo  con   vigore.   E   afferrata
impazientemente con le due mani la gonnella nera, per scoprire il movimento  dei
piedi: - Stia attenta! - disse, ed eseguí. - Dio grande! - gemé  il  segretario.
Egli vide balenare sopra i suoi stivaletti una bianchezza che l'abbarbagliò come
un raggio di sole gittatogli negli occhi da uno specchio, e il sangue gli  diede
un giro come se l'avessero capovolto. Fu un momento solo;  ma  bastò.  Egli  non
sentí più gli altri comandi, saltò giù dai fascinotti, si scosse di dosso con le
mani tremanti le foglie secche  e  i  fuscelli,  e  sempre  con  quella  visione
biancheggiante negli occhi, riattraversò quasi correndo il  soppalco,  scese  le
scale a passi risoluti, e, rientrato in casa e sedutosi a tavolino, si prese  il
capo fra le mani e raccolse i suoi pensieri. Aveva  irrevocabilmente  deciso  di
tentare il colpo supremo con una aperta ed esplicita domanda di matrimonio.

Senonché egli aveva un dovere, a cui sentiva di non  poter  mancare:  quello  di
rivolgersi prima allo zio, per chiedere la sua approvazione e i  suoi  consigli;
anche per questa ragione, che la domanda fatta col suo consenso, e forse da  lui
stesso in persona, avrebbe avuto tutt'altra efficacia. La passione lo accecava a
tal segno in quel momento, che il consenso di lui non gli si  presentava  nemmen
più come dubbioso. Alla peggio, egli non avrebbe detto un no  risoluto,  avrebbe
titubato, ci avrebbe pensato, gli avrebbe, insomma, dato una speranza,  che  poi
non gli sarebbe più bastato il  cuore  di  togliergli.  Preparò  dunque  il  suo
discorso, e quando n'ebbe bene in mente il primo periodo e l'orditura  generale,
in aspetto grave, con una mano nell'altra  strette  sul  petto,  si  recò  nella
stanza del commendatore, gli sedette davanti, e, chiesto il permesso di parlare,
lentamente, con la voce tremolante, fissando gli occhi sulle ginocchia  di  lui,
gli spiattellò il suo segreto. Il commendator Celzani era un  uomo  che  non  si
stupiva di nulla perché dava pochissima importanza alle cose di questo mondo. Ma
quando sentí di che si trattava, non poté a meno di  alzare  dalla  poltrona  la
maestosa testa bianca, per guardar negli occhi il  nipote:  poi  si  riabbandonò
sulla spalliera, rinvoltandosi nella veste da camera,  e  stette  a  sentire  il
resto, con lo sguardo errante sulle pitture a fresco della volta. Il  segretario
aveva avuto la fortuna di coglierlo in un momento di ottima disposizione d'animo
perché doveva andare quel giorno con un ispettore di Milano a vedere  un  saggio
di ginnastica femminile all'Istituto del Soccorso. D'altra  parte,  rapito  come
era quasi sempre nelle delizie d'un mondo fantastico, nel quale  era  impaziente
di rientrare ogni volta ch'era forzato ad uscirne,  egli  non  contradiceva  mai
nessuno, e riserbandosi a non far nulla poi o tutto il contrario di ciò che  gli
altri aspettavano, non rifiutava mai né un consenso né una promessa. Quando  suo
nipote ebbe finito, si guardò prima le unghie nitidissime  e  poi  le  pantofole
ricamate, e mormorò qualche parola vaga che non era un consentimento  esplicito,
ma nemmeno una disapprovazione. Voleva dire soltanto che si doveva procedere con
cautela. Senza dubbio, la signorina ispirava simpatia e aveva tutto l'aspetto  e
il contegno d'una persona degna di stima. Ma (e questa era la meta del suo  giro
di frasi) prima di fare un passo, egli credeva  conveniente  di  procedere  alla
ricerca  d'altre  informazioni.  E  mentre  il  nipote  lo  guardava   in   aria
interrogativa ed inquieta, egli, masticando le  parole  e  guardando  per  aria,
buttò là il consiglio di ricorrere  al  suo  amico  cavalier  Pruzzi,  direttore
generale delle scuole municipali, il quale, certo, doveva essere al caso di dare
dei ragguagli minuti e sicuri  intorno  a  qualunque  «soggetto»  del  personale
insegnante. E il consiglio parve eccellente a don Celzani. Il commendatore contò
sulle dita, e gli fissò il sabato successivo come il giorno più  opportuno:  gli
sarebbe bastato per presentarsi un suo biglietto di visita. Il  cavalier  Pruzzi
era un uomo, del quale si poteva esser certi che, qualunque resultamento  avesse
avuto l'affare, avrebbe mantenuto il segreto con la delicatezza più  scrupolosa.
Detto questo, come se si fosse trattato d'una  cosa  di  secondaria  importanza,
passò a un altro discorso. La grande contentezza che ebbe don  Celzani  di  quel
mezzo consenso fu profondamente amareggiata nei giorni seguenti  dal  ridestarsi
dei tristi sospetti che gli aveva messo in  cuore  la  signora  Fassi;  i  quali
ingrandirono man mano e si fecero cosí terribili nella sua  immaginazione,  che,
il giorno fissato, egli salí le scale interminabili del  Palazzo  di  Città  con
l'animo di un malato che va dal medico a udire la sua sentenza di  morte.  Oltre
che, sebbene conoscesse il cavalier Pruzzi  come  un  bonissimo  uomo,  e  fosse
conosciuto da lui, gli ripugnava di dovergli confessare la sua passione e i suoi
propositi; poiché non avrebbe potuto, senza confessarli, rivolgergli le  domande
delicate  ch'eran  necessarie.  Entrò  timidamente  nel  modesto   ufficio   del
direttore, che era una piccola stanza, rischiarata da  una  finestra  sola,  con
degli scaffali in giro, su cui si vedevano scritti in grandi caratteri i nomi di
tutte le scuole di Torino. Il direttore stava coi gomiti sul tavolino e le  mani
nella parrucca, curvo sopra un mucchio di  carte.  Al  vederlo  cosí  piccolo  e
grasso,  con  quella  buona  faccia  imberbe  e  floscia,  sulla  quale   errava
perpetuamente  il  pensiero  inquieto  della  sua  «enorme  responsabilità»,  il
segretario riprese un po' d'animo, Quegli lo ricevette con un viso pien di rughe
sorridenti, somigliante a una maschera di terra cotta che si screpolasse.  E  lo
fece sedere davanti a sé, prese il biglietto dello zio, e lo invitò  a  parlare.
Il segretario fu un po' stupito, esponendogli a  parole  tentate  e  confuse  lo
scopo della sua visita, di non vedergli dare il più piccolo segno di maraviglia.
Egli non fece che dondolare il capo e atteggiare il viso  a  quella  espressione
particolare di serietà, che vuol dire: «Signore,  in  questo  momento  entro  in
carica». Quando don Celzani ebbe finito, si passò una mano sul  ciuffetto  della
parrucca, e disse gravemente: - La cosa è delicata. - Poi domandò nome e cognome
della maestra, e a quale sezione appartenesse. Inteso tutto, si mise le due mani
sugli occhi, e stette un po' raccolto in quel modo, come ricercando i  connotati
fisici e morali della signorina in  mezzo  a  quel  piccolo  esercito  femminile
ch'egli portava quasi effigiato viso per viso nella sua memoria  lucidissima.  -
Eh diamine! - esclamò a un tratto,  scoprendo  il  viso,  stupito  di  non  aver
ritrovato subito una figura cosí originale; e squadrò con uno sguardo  lento  il
segretario, come per raffrontare la sua persona con quella di lei. Poi si grattò
leggermente la punta del naso con la punta dell'indice. E disse,  inchinando  un
po'il capo: - Mi rallegro... - Ma troppo tardi:  don  Celzani  aveva  capito  il
risultato del raffronto. Non ne fu punto, per altro,  e  stette  aspettando  con
ansietà. - Dunque, - cominciò a dire, col fiato corto, il  direttore,  prendendo
sul tavolino un foglietto di carta, che si mise poi a  piegare  e  a  ripiegare,
senza  guardare  il  segretario,  -  lei  vorrebbe  delle  informazioni,   com'è
naturale.... di ordine, come suol dirsi, privato. Ma... non  è  cosí  facile  di
dargliene, come lei suppone. Pensi un po', con cinquecento  insegnanti...,  come
si fa a sapere... E poi, un monte di cose per la testa, di sopraccapi, di  noie.
Giusto, abbiamo un inverno dei più disgraziati, un visibilio d'assenze in  tutte
le sezioni... Si direbbe che tutte le maestre maritate si son date la parola per
accrescere  la  popolazione  in   questo   mese.   Queste   benedette   famiglie
d'insegnanti... quando è malata la maestra, manca anche  il  maestro,  quando  è
malato il marito, manca la moglie, quando è malato il  bimbo,  mancano  tutti  e
due. Non parliamo delle signorine, che si raffreddano per un  filo  d'aria...  E
poi ci sono gli impedimenti a data fissa. Guardi qui  la  sezione  Savoia,  -  e
mostrò uno stato delle assenze: - è un ospedale. Come vuol fare?  Mandar  sempre
il medico di città ad accertarsi a domicilio... Apriti cielo! Oltre  che  non  è
sempre conveniente. Ci dovrebb'essere l'ammenda per  ogni  assenza  abusiva.  Ma
come si fa? O ci son dei dubbi, o si ascolta il cuore, o si... Le assicuro, caro
signor Celzani, che è un affare serio, serio, serio assai. E qui mise  fuori  un
anelito, come dopo  una  corsa.  Il  segretario  fece  un  atto  rispettoso  per
richiamare il direttore all'argomento. - Ah! - disse questi, - lei è qui per  le
informazioni. Appunto, come le dicevo, si figuri il da fare che c'è a invigilare
delle centinaia di signorine, la più parte delle  quali  son  giovani,  molte...
anche troppe... belline, vivaci, moltissime indipendenti, sparpagliate  per  una
grande città, nei sobborghi, a due, a tre miglia fuor  della  cinta.  Si  fa  il
possibile, certo, come vuole il decoro. Ma, in  somma,  non  possiamo  avere  un
corpo di polizia per i corteggiatori delle maestre. E neppure si possono violare
i confini... d'una libertà ragionevole. È una  cosa  delicatissima.  E  non  può
immaginare le denunzie, le vendette coperte, gl'intrighi... Riceviamo dei mucchi
di lettere cieche. - E qui gli mancò il fiato un momento  -  ...  Ci  son  delle
personcine che ci fanno disperare, anche senza loro colpa, per  colpa  di  madre
natura, che le ha fatte come sono, che attirano gli occhi. E non dico del resto,
dei lamenti senza  fine  che  ci  piovono  dalle  famiglie,  per  una  votazione
ingiusta, per un rimprovero non meritato, per la scuola troppo fredda  o  troppo
calda, per le tossi, per gli orecchioni, per le malattie d'occhi. E poi, signore
offese per una parola, maestre che si credon perseguitate, direttrici...  queste
benedette direttrici, che son come  le  madri  badesse  dei  tempi  andati...  E
aggiunga un ginepraio  di  questioni  per  ogni  esame  di  concorso,  per  ogni
trasferimento, per ogni distinzione, per ogni castigo... Immagini le difficoltà,
mio caro signore, immagini la delicatezza, immagini il tatto  che  ci  vuole.  E
fece punto con un sospirone.  -  Signor  cavaliere,  -  osservò  timidamente  il
segretario, - le  informazioni...  -  Vengo  alle  informazioni,  -  riprese  il
direttore. - Certo, sarebbe molto più facile dare informazioni d'un maestro.  In
questo caso non si tratta che di dire: è un galantuomo o no, è  monarchico  o  è
repubblicano, ha o non ha debiti, beve o non beve. Io  li  ho  tutti  in  mente,
domandi pure... Ma come si fa per le maestre? Come si fa? È una cosa  complessa,
è un argomento... spinoso. Oltreché, anche sapendo, bisogna  andare  guardinghi.
Hanno dei padri, hanno dei fratelli, hanno delle relazioni. Alle  volte  uno  ha
compiuto un atto di giustizia, e due giorni  dopo  trova  a  una  cantonata  uno
sconosciuto con tanto  di  barba,  che  gli  pianta  due  occhiacci  in  viso...
mulinando un randello. C'è anche il risico di qualche brutto tiro. Noti pure che
per nulla ricorrono ai giornali. E i giornali, veda, per me, i giornali sono una
calamità in queste quistioni, tanto è il male che fanno;  i  giornali  mi  fanno
paura:  io  glielo  dico  francamente,  non   per   me,   ma   per   l'interesse
dell'amministrazione e della disciplina, mi fanno  paura.  Veda  che  ufficio  è
questo, caro signore, veda che responsabilità ho sulle spalle, veda che razza di
conti ho da rendere al pubblico e alla mia  coscienza.  Detto  questo,  ansando,
abbandonò un momento  la  nuca  sulla  spalliera  del  seggiolone.  Un  sinistro
sospetto passò per l'animo del segretario: che il direttore non volesse  parlare
per non esser costretto a dirgli delle cose gravissime, di  quelle  che  non  si
possono né scusare né attenuare. E levandosi in piedi per obbligarlo a dargli il
colpo di grazia: - Insomma, - gli disse con voce commossa,  ma  risoluta,  -  mi
dica, se sa qualche cosa, qualunque cosa sia. Quali informazioni può darmi della
maestra Pedani? Gliele domando schiette e precise, anche in nome di mio  zio.  -
Ma io... - rispose il direttore, - non so nulla. Una ottima  insegnante.  Questo
glielo posso accertare. Quanto al resto... Don Celzani  fece  di  tutta  la  sua
persona un punto interrogativo.  -  Non  c'è  nulla  da  dire,  -  soggiunse  il
direttore.... che io sappia. Ci sarebbe... Ma non c'è. Mi spiego: ci sarebbe  da
dire quello che si  può  dire  d'ogni  bella  ragazza....  che  ha  della  gente
attorno... forse; dei vagheggiatori. Lei m'intende. Don Celzani gli  domandò  se
sapesse qualche cosa di positivo, s'ella avesse mai  dato  argomento  a  censure
sulla sua vita privata, se non constasse nulla all'Autorità  riguardo  alla  sua
condotta nei comuni rurali dov'era stata. - Ma se le dico che non so, che non ci
consta, - rispose il cavaliere. - Se  mi  constasse..  rispose  il  cavaliere  -
trattandosi, come è il caso, d'un affare grave, e d'un amico, parlerei.  Ma  non
ho tanto  in  mano...  Piuttosto?  -  Piuttosto?  -  domandò  il  segretario.  -
Piuttosto, - continuò il direttore, - io direi, se mi permettesse  un  consiglio
da amico: le informazioni negative dell'autorità contan  poco  in  queste  cose,
vada per altre vie: cerchi notizie della famiglia, che è lombarda,  di  Brescia,
se non erro; proceda cauto; in questi affari non si va  mai  troppo  a  rilento.
Anzi... - Anzi...? - ripete don Celzani, - Anzi, - disse il direttore, quasi con
un movimento brusco di sincerità, - se ho da dirle  aperto  l'animo  mio...  che
cosa vuole?  una  maestra...  Le  maestre,  secondo  il  mio  modo  di  pensare,
dovrebbero esser lasciate a far le maestre. Hanno una  missione:  si  dovrebbero
lasciare a quella, come le monache. Ciascuno per la sua via, E poi... non si  sa
mai certo... Perdoni se le esprimo liberamente il mio pensiero...  Ma  questo  è
fuor del discorso. Ripeto: nulla  consta,  ossia...  Ripeto  anche...  s'informi
altrove... e vada con prudenza. Glielo consiglio per il bene che voglio  a  casa
Celzani. E... non ho altro da dire. Un nuovo sospetto balenò a don Celzani:  una
manovra segreta dello zio che, per levarsi il fastidio di un rifiuto o  la  noia
di persuaderlo a indugiare, avesse indotto il direttore a  tenerlo  sulle  corde
con parole vaghe.  Tentò  nondimeno  un'ultima  prova,  -  Lei  conosce  la  mia
situazione, - disse, - può immaginare lo stato... del mio cuore: mi  dà  la  sua
parola d'onore che m'ha detto tutto quello  che  sa?  In  quel  punto  entrò  un
usciere con un pacco di lettere e di stampe. - Ma che vuol che  le  dia  la  mia
parola, - rispose il direttore, rifiatando forte, -  con  questa  farraggine  di
affari, lei vede, che non ho un minuto  di  respiro,  e  non  so  da  che  parte
rifarmi, Dio buono! Tutto quello che potevo dire... ho cercato di dirglielo... e
lei sa che sono affezionato allo zio. A rivederla, dunque,  e...  segua  il  mio
consiglio. Poi, per compensarlo, gli disse piano. - Una bella  signorina,  però!
Oh, per questo, una gran bella signorina! -  E  lo  spinse  con  bel  garbo  nel
corridoio. In conclusione, al povero don Celzani rimasero coi  nuovi  dubbi  gli
antichi timori, e tornò a casa cosí scontento, afflitto ed ansioso, che  non  si
curò neppure d'andare a render conto della visita al commendatore.  E  il  fatto
che questi non gliene chiedesse conto,  quella  sera  stessa,  lo  confermò  nel
sospetto ch'egli avesse lavorato sott'acqua a suo danno. E ne rimase sdegnato  e
angosciato. Ma  quella  divina  bianchezza  che  aveva  visto  dall'abbaino  gli
brillava sempre davanti agli occhi come un  focolare  di  luce  elettrica  e,  a
dispetto di tutto e di tutti, il  suo  amore  divampava  a  quella  visione  più
ostinato e più ardente. Eppure, con quelle  informazioni  vacue  del  direttore,
egli capiva bene che lo zio aveva un pretesto più che ragionevole  per  negargli
il consenso che gli bisognava. Egli ne  dovette  convenire,  benché  non  avesse
perso ogni sospetto d'una macchinazione, quando ne parlarono insieme  il  giorno
dopo. E allora, non sapendo a che altro filo attaccarsi, ebbe l'idea arrischiata
di confidarsi all'ingegnere Ginoni: l'andò a trovare e gli espose il  caso  suo,
chiedendo consigli. L'ingegnere si maravigliò. Che bisogno c'era d'informazioni?
Non si vedevano scritte, e le migliori, sul viso di lei?  Per  parte  sua,  egli
avrebbe messo la mano sul fuoco. Del resto, sapeva qualche cosa: era  bresciana,
orfana, figliuola d'un medico militare, morto da molti anni; aveva un  fratello,
onesto negoziante, stabilito nella Nuova Granata. Queste notizie fecero  piacere
a don Celzani, - E che altre informazioni vuol chiedere? continuò il  Ginoni.  -
Vuol mandare una circolare a tutti i sindaci dei  comuni  dov'è  stata  maestra?
Cose da ridere. Una ragazza è sempre un mistero; non c'è che fidarsi al suo viso
e all'ispirazione del proprio cuore. Piuttosto... mi dica  un  po'..  segretario
amato, a che punto siamo quanto a corrispondenza? Don Celzani fece un viso  cosí
sconfortato, abbassando gli occhi a  modo  del  prete  davanti  all'altare,  che
l'ingegnere ne dovette ridere, e n'ebbe pietà  ad  un  tempo.  E  gli  disse:  -
Senta... e se io mettessi una parolina in suo favore!... Eh?.. Che  ne  dice?...
Si può dare una miglior prova d'amicizia? Se io scrutassi un poco  il  cuore  di
lei? - Scruti... - rispose mestamente  il  segretario.  -  Scruteremo,  -  disse
l'ingegnere, - Chi sa mai!  Nel  cuore  delle  donne  non  ci  vede  chiaro  che
l'esaminatore disinteressato. Lasci fare a me e viva allegro. E  si  propose  di
far  davvero  quel  che  aveva  promesso,  non  solo  per  curiosità  del   caso
psicologico, cosí singolare per la singolarità delle due persone, ma  perché  da
alcuni giorni sospettava che il  suo  figliuolo,  con  quella  faccia  che  egli
sapeva, fermasse per le scale la maestra; la quale  si  doveva  essere  astenuta
fino allora dal farne lagnanza a lui, non  per  altro  che  per  non  dargli  un
dispiacere: gli pareva  atto  di  buona  politica  paterna  il  mettere  tra  il
figliuolo e lei un impedimento. La mattina seguente,  uscendo  casa,  trovò  sul
pianerottolo la Pedani, ferma con la sua cameriera, alla quale  suggeriva  certi
esercizi ginnastici per curare i geloni. Il Baumann era stato il primo a trovare
che la ginnastica fra i banchi poteva prevenire questo malanno. Essa  la  sapeva
lunga sull'argomento. Alla vista del padrone, la  cameriera  rientrò,  e  quegli
fece alla maestra il solito saluto scherzoso:  -  Abbasso  la  ginnastica!  Essa
rispose con lo stesso  tuono:  -  Abbasso  i  fautori  del  linfatismo  e  della
rachitide! L'ingegnere rise, e s'avviò con lei giù per le scale. Poi le  domandò
a bassa voce, soffermandosi: - Ma come mai lei può esser cosí tranquilla  mentre
c'è dei disgraziati che soffrono morte e passione per causa sua? Essa lo  guardò
fisso, e gli domandò: - Chi gliel'ha detto? - Colui che gliel'ha scritto.  -  In
tal caso, - disse con indifferenza la maestra, - discorriamo  d'altro,  -  Come!
Nemmeno ne può sentir parlare? - domandò l'ingegnere.  -  Neppure  un  senso  di
pietà? A tal segno indurisce i cuori la ginnastica? No, essa rispose, non  aveva
il cuor duro: l'aveva occupato. Era dominata da una sola passione e aveva deciso
di consacrarvi tutta la sua gioventù. In ogni caso, non avrebbe  legato  la  sua
vita se non ad un uomo che volesse dedicar la propria allo stesso scopo. E disse
con semplicità: - Quello che sposerà me, farà della gran ginnastica. L'ingegnere
rise sotto i baffi, e, squadrando la maestra con un'occhiata, disse: - Lo credo.
- Poi domandò: - Dunque, il destino dello sventurato è irrevocabilmente  deciso?
- Da me, - riprese quella, - non dipende il destino di nessuno. E basta cosí.  -
Amen! - mormorò il Ginoni. Scesero in silenzio gli ultimi scalini, -  Eppure,  -
disse l'ingegnere, sotto il portone, - lei ci  pensa  ancora.  -  Oh  giusto!  -
rispose la Pedani, - pensavo a tutt'altra cosa. Pensavo che  alle  bambine  sono
concessi troppo pochi movimenti degli arti inferiori. Guardi! L'ingegnere  diede
in una risata, e, lasciandola, esclamò: - Abbasso Sparta! E quella,  voltandosi:
- Abbasso Sibari! - e infilò il marciapiedi  a  grandi  passi.  Don  Celzani  fu
ferito all'anima  dalla  risposta,  pure  un  po'  raddolcita,  che  gli  riferí
l'ingegnere; e non lo confortò punto l'esortazione che questi  gli  fece  a  non
desistere, ripetendogli il paragone della mina con la miccia lunga, che  sarebbe
scoppiata più tardi, indubitabilmente. Ricadde allora in uno stato tormentoso  e
compassionevole. Continuò a spiar la maestra quando scendeva  o  rientrava,  per
incontrarla o seguirla, e la disperazione  dandogli  ora  maggior  coraggio,  le
lanciava ogni volta un lungo sguardo indagatore e supplichevole accompagnato  da
una scappellata di mendicante, che chiedeva un sorriso per amor di Dio. Ella  si
manteneva sempre la stessa con lui,  salutando  con  garbo,  indifferente  senza
ostentazione, non mostrando  d'avvedersi  ch'egli  s'appostava  dietro  l'uscio,
dietro i pilastri, agli angoli dei muri, in portieria,  e  che  stava  fermo  un
pezzo a contemplarla, dopo ch'era passata. Capiva, peraltro, che la passione del
pover'uomo si veniva infiammando ogni giorno di  più.  Ma  v'era  a  questo  una
cagione nuova, ch'ella non sospettava. La riputazione di lei  andava  crescendo.
Un suo articolo su Pier Enrico Ling,  il  fondatore  della  ginnastica  svedese,
pubblicato nel «Nuovo Agone», curioso per l'argomento e per una  certa  vivacità
evidente e brusca di stile, specie nella descrizione degli esercizi sulla  scala
a ondulazione e sulla spalliera, era stato riprodotto da un giornale politico di
Torino e aveva fatto un certo rumore. Una sera essa tenne  una  conferenza  alla
Filotecnica sulla istituzione  d'una  speciale  ginnastica  curativa  per  certe
deformità dei ragazzi, spiegando, senza presunzione pedantesca, una  assai  rara
conoscenza dell'anatomia; e i giornali ne parlarono, accennando  con  parole  di
simpatia alla sua persona, alla sua voce bella e strana, e al suo modo singolare
di porgere, con dei gesti  vigorosi  e  composti  insieme,  che  strappavan  gli
applausi. Tutto questo la faceva molto  ricercare  per  lezioni  private,  e  le
venivano a casa delle maestre aspiranti a  far  dei  corsi  di  ginnastica,  non
c'essendo corsi aperti alla Palestra in quei mesi, delle ragazze che, avendo dei
difetti, non volevano  far  gli  esercizi  con  l'altre,  delle  insegnanti  già
patentate che cercavano spiegazioni ed aiuti. E don Celzani ne  incontrava  ogni
momento per le scale, e sentiva ripetere quel nome con ammirazione da loro e  da
altri, dentro e fuori di casa. Ora questa celebrità nascente di lei dava un'esca
nuova al suo amore, un nuovo stimolo mordente e squisito ai suoi desideri.  Egli
sentiva una più raffinata voluttà a immaginarsi possessore sicuro di  una  donna
conosciuta  e  ammirata,  pensava   che   sarebbe   stato   doppiamente   felice
nell'oscurità sua, d'averla quando tornava  da  una  conferenza  applaudita,  di
impadronirsi di quelle forme che tanti altri avrebbero carezzate con gli occhi e
desiderate; gli pareva anzi che quella felicità  gli  sarebbe  stata  tanto  più
dolce e profonda quanto più egli fosse rimasto piccolo e nullo  accanto  a  lei,
nient'altro che marito, a cert'ore, anche dimenticato per tutto il  resto  della
giornata, tenuto come un servitore, uno strumento, un sollazzo, un buon bestione
di casa. Ah! Dio grande. E questo gl'infocava il  cuore  anche  più  forte:  che
colla sua zucca soda d'uomo meditativo, non privo di certa finezza pretina, egli
aveva letto a fondo nell'indole di lei, e capiva che, quando ella  avesse  fatto
il passo, era donna da rimanergli rigidamente fedele,  non  foss'altro  che  pel
sentimento della dignità propria e per forza di  ragione,  per  quanto  l'avesse
tenuto al di sotto di sé in ogni cosa. Ch'egli ci fosse  arrivato,  soltanto;  e
poi, che gli sarebbe importato delle canzonature e delle insidie! Sarebbe  stato
sicuro del fatto suo, avrebbe ben saputo custodire il suo tesoro alla barba  del
mondo intiero. Se ne rideva delle  satire  del  maestro  Fassi!  Giusto,  costui
continuava a dargli delle  bottate  ogni  volta  che  l'incontrava,  ma  con  un
sentimento nuovo di acrimonia contro la Pedani,  la  quale,  diventando  chiara,
lasciava lui nell'ombra; oltrediché, occupata in altro, gli  restringeva  sempre
più la collaborazione, di cui aveva bisogno. Egli s'era in  quei  giorni  tirato
addosso con gli articoli provocanti dell'«Agone» un nuvolo di nemici.  Assalendo
tutti  gli  avversari  della  ginnastica,  aveva  detto  che  i  ballerini,  non
esercitando che gli arti inferiori, avevan delle gambe atletiche ma dei petti di
pollo; aveva accusato i maestri di scherma di far ingrossare l'anca e la  spalla
destra a scapito delle giuste proporzioni di tutto il corpo; se l'era presa  coi
maestri di pianoforte, dicendoli causa principale della vita  troppo  sedentaria
delle  ragazze,  e  coi  bendaggisti,  che  osteggiavan  la  ginnastica   perché
screditava i loro istrumenti di tortura; aveva perfino stuzzicato gli speziali e
i droghieri scrivendo che calunniavano «la nuova  scienza»  perché  aveva  fatto
scemar la vendita dell'olio di merluzzo; e da tutte le  parti  gli  eran  venute
acerbe risposte, a cui, da sé solo,  si  trovava  imbarazzato  a  rispondere,  e
appunto in quella congiuntura difficile la Pedani quasi l'abbandonava. Il  Fassi
sfogava il suo dispetto col segretario, senza dirne il vero perché, tacciando la
maestra d'ambiziosa e d'ingrata, quantunque, per interesse, serbasse ancora  con
lei le migliori relazioni, e il segretario difendendola, egli diceva peggio.  Un
giorno, finalmente, vennero a parole secche. Spingendo il maestro la  maldicenza
più in là del solito, don Celzani gli rispose risentito: - La signorina Pedani è
un'onesta ragazza. - Poh! - disse il Fassi, - se avessi  voluto!  -  Ah!  non  è
vero! - esclamò don Celzani indignato. Quegli stette per rispondere  una  grossa
insolenza; ma il pensiero della pigione  ridotta  gliene  ritenne  mezza  fra  i
denti. - Le auguro, - si contentò di dirgli, - di non farne l'esperimento a  sue
spese. Il segretario ribatté, si separarono di mal garbo, e d'allora in poi  non
si salutarono più che freddamente.

Ma anche quella disputa crebbe fuoco al suo amore. Eran dunque  tutti  d'accordo
per calunniarla e per contrastargliela; lo  zio,  il  maestro,  sua  moglie,  il
direttore, la Zibelli, mentivano tutti; ebbene, e lui l'avrebbe amata a dispetto
di tutti.  E  l'amava  più  che  mai,  di  fatti,  trovando  anzi  nella  severa
eguaglianza della sua condotta verso di lui e perfino in ogni suo  atteggiamento
o movenza nuova ch'egli scoprisse, una riprova dell'onestà della  sua  vita.  Un
altro  eccitamento  gli  si  aggiunse.  Avendo  dei  muratori,   che   rifacevan
l'ammattonato del pianerottolo, disteso un'asse sulla parte smossa per servir di
ponte agl'inquilini, era per lui una vera voluttà,  uscendo  di  casa  a  tempo,
veder passare su quell'asse la Pedani, e misurar l'incurvatura del  legno  sotto
il suo passo, la quale gli dava, in certo modo, la sensazione indiretta  e  pure
dolcissima del suo peso. E una mattina gli toccò una gran  fortuna.  L'asse  era
stata buttata da parte: egli uscí in tempo dall'uscio per  rimetterla  al  posto
mentre la maestra stava per passare, e lo fece con  un  atto  violento  per  far
vedere la sua forza. Ella non ne approfittò, superando il passo d'un salto,  ma,
nel saltare, strisciò col vestito la sua faccia china,  producendogli  l'effetto
d'una sferzata voluttuosa, e lo ringraziò con un sorriso, che lo rese felice per
più giorni. Fu una realtà o un'illusione? Dopo quel  giorno,  egli  credette  di
veder nei suoi occhi qualche cosa di nuovo, un barlume di benevolenza,  che  gli
parve il principio di un mutamento durevole; e cominciò a scrutar quel viso  con
ardore insolito, come un astronomo la faccia del  sole,  ora  accertandosi,  ora
dubitando, tanto il mutamento era leggero. Poteva  arrischiarsi  a  far  la  sua
domanda? Era troppo presto? Ma che altro incoraggiamento c'era da  sperare?  Gli
venne allora in aiuto l'ingegner Ginoni con una idea luminosa. Incontrandolo una
sera in Via San Francesco: - Segretario amato, - gli disse, - se lei è  un  uomo
fino, deve fare una cosa. C'è nelle vetrine del Berry una fotografia del  barone
Maignolt, quello che vinse a piedi, da Parigi  a  Versailles,  un  velocipedista
famoso. La signora Pedani è grande ammiratrice del barone. Lei dovrebbe andar  a
prendere il ritratto e portarglielo. Che ne dice? Vedrà che farà colpo. Ma badi:
non basta regalar le fotografie; bisogna emulare i fotografati. Faccia una corsa
di resistenza da Torino a Moncalieri, e che ne parli la «Gazzetta  del  Popolo»:
avrà fatto di più che con dieci anni di sospiri. Don Celzani non disse né sí  né
no; ma la sera aveva già comprato e rimesso la fotografia alla donna di servizio
delle maestre. Egli sperava ben poca cosa da quell'atto. Nondimeno,  aspettò  la
mattina  dopo  la  Pedani,  non  foss'altro   che   per   ricevere   un   freddo
ringraziamento. Essa discendeva con la Zibelli. Questa, vedendo lui, tirò dritto
senza salutare.  La  Pedani  si  fermò,  e  gli  disse  con  vivacità  insolita,
facendogli il  più  bel  sorriso  ch'ei  le  avesse  mai  visto:  -  Ah!  Signor
segretario, com'è stato gentile! Come ha fatto a indovinare il  mio  desiderio?.
Don Celzani gongolò. E la maestra gli disse ancora allegramente, andandosene:  -
Non so come sdebitarmi. Mi comandi, se la posso servire  in  qualche  cosa.  Ah!
barbara! Ma don Celzani andò al terzo cielo, e,  beato,  allucinato,  parendogli
d'aver fatto un passo gigantesco, giudicò venuto il buon momento. Zio o non zio,
informazioni o non informazioni, egli non ci poteva più reggere, doveva  far  la
sua domanda formale al più presto, fin che il ferro era caldo. Solamente era  in
dubbio se la dovesse fare  a  voce  o  per  iscritto,  e  tenne  in  sospeso  la
decisione. Frattanto, si mise a elaborare con profonda cura la formola,  di  cui
si sarebbe servito nei due casi... Ma mentre la stava elaborando, fu  prevenuto.
Da vari giorni la Zibelli aveva rifatto la pace  con  l'amica,  ed  era  seguito
nella sua vita un mutamento nuovo. Aveva trovato un giorno sotto il  portone  un
giovane maestro di ginnastica, ex sergente del Genio biondo e elegante,  ch'essa
aveva sentito parlare una volta con molto  garbo  a  un'adunanza  della  Società
della Cassa degl'insegnanti. Egli andava dal maestro Fassi, di cui era amico. Le
aveva fatto una grande scappellata e le si era accompagnato  su  per  la  scala,
parlandole con una particolare espressione di rispetto e di simpatia. S'eran poi
ritrovati due giorni dopo in casa del Fassi assente, dove la moglie,  visto  che
si conoscevano, non aveva fatto presentazioni; e come  il  giovane  era  maestro
all'ergastolo La Generala, la loro conversazione aveva  preso  un  certo  colore
sentimentale, spiegando egli in che maniera fossero cessate in  quella  casa  le
risse sanguinose, le ribellioni e altre violenze, per  virtù  della  istituzione
della  ginnastica,  la  quale  serviva  di  sfogo  all'esuberanza  di  vita   ed
all'orgoglio dei forti, diventati sdegnosi,  dopo  la  vittoria  pubblica  degli
esercizi, di opprimere i deboli riconosciuti.  E  continuando  il  discorso,  le
aveva chiesto spiegazioni e consigli,  e  l'aveva  ascoltata  con  cosí  viva  e
gentile attenzione, ch'essa n'era  rimasta  commossa.  Da  questo,  con  l'usata
prontezza, le era rinata l'illusione d'un  amore,  e  insieme  l'allegrezza,  la
cordialità, l'amicizia; s'era  rappattumata  con  la  Pedani,  soffocando  anche
l'invidia, che la incominciava a mordere, delle sue  glorie  ginnastiche;  s'era
rifatta buona alla scuola, aveva buttato la cappa nera  della  pedagogia,  nella
quale stava rinchiusa da un pezzo, e ricominciato a leggere libri di letteratura
e a scrivere perfino dei versi di nascosto, trascurando l'amministrazione  della
casa, di cui soleva addossarsi  tutte  le  cure.  A  questa  nuova  disposizione
d'animo dovette la Pedani di esser incaricata, il  primo  giorno  del  mese,  di
portare essa medesima i denari della pigione  al  segretario;  ciò  che  entrava
nelle incombenze della sua amica. Essa ne rimase un po' stupita, appunto  perché
si trattava d'andare da don Celzani. Ma la Zibelli, benché l'avesse sempre amara
con lui, non n'era più gelosa, - Va', - le disse anzi  scherzando,  dopo  averle
dato i denari nella busta, - lo farai felice. La Pedani prese nello scaffale  la
Ginnastica medica dello Schreber, che aveva promesso al cavalier Padalocchi,  ed
usci. Sonò all'uscio di questo: il quale la ricevette con molti complimenti,  e,
preso il libro, le disse di risentire qualche miglioramento dopo che  faceva  le
inspirazioni e le espirazioni, e allora la maestra gli consigliò di  provare  la
rotazione  delle  braccia,   spiegandogli   anatomicamente   l'azione   speciale
dell'esercizio ginnastico delle estremità superiori sulle funzioni degli  organi
del petto. Mentre ella dava queste spiegazioni, il  segretario,  solo  in  casa,
seduto a tavolino nello scrittoio del commendatore, stava cercando da un  pezzo,
con la penna in mano, le frasi più importanti della sua domanda solenne, parlata
o scritta che dovesse essere. E dava del capo in  difficoltà  serie,  poiché  si
trattava di armonizzare bellamente una dichiarazione d'amore appassionato con la
gravità d'una richiesta  di  matrimonio,  la  quale  dimostrasse  d'esser  stata
preceduta da una lunga meditazione e decisa con intera e tranquilla coscienza; e
occorreva pure di farci entrare, con  molta  delicatezza,  un  cenno  delle  sue
condizioni di fortuna, non dispregevoli, e  balenar  la  speranza  d'una  futura
eredità dello zio, benché questi avesse a Genova  e  a  Milano  una  falange  di
nipotini. Egli cercava, scriveva, cancellava, non mai soddisfatto, turbato anche
un poco dal pensiero che, essendo il primo del trimestre, sarebbe venuta da  lui
la Zibelli, ch'era la factotum, a portar la pigione: visita che lo avrebbe messo
nell'impiccio, dopo che quella gli aveva levato il saluto. Nondimeno,  la  prima
frase era assicurata oramai, ed immutabile. Cominciava: «Signorina, vengo a fare
un  passo  decisivo  nella  vita  d'un  uomo...»,  ed  egli  finiva  appunto  di
arrotondare il primo periodo, quando il  campanello  sonò.  «Ecco  la  Zibelli»,
disse tra sé, con dispetto, e preparò un viso contegnoso per riceverla. In  quel
momento s'affacciò all'uscio la vecchia serva, e disse: - Signor segretario, c'e
la maestra Pedani per la pigione. Don Celzani saltò in piedi, con le  fiamme  al
viso. Non gli riuscí di dire: «Fate entrare»; non poté fare  che  un  gesto.  La
Pedani entrò, e la serva  richiuse  l'uscio.  L'apparizione  della  maestra  gli
produsse l'effetto come d'un mutamento improvviso d'ogni cosa intorno a  sé:  la
stanza cambiò luce,  i  mobili  si  spostarono,  i  contorni  degli  oggetti  si
confusero, tutto s'alterò ai suoi occhi, come segue ai paurosi nei duelli. Corse
qua e là in cerca d'una seggiola, balbettando: -  S'accomodi,  s'accomodi,  -  e
andò a pigliare la più lontana: la mise accanto  al  tavolo,  gli  parve  troppo
vicina, la scostò, gli parve messa di sbieco, la voltò, accennò a lei di sedersi
senza guardarla, sedette lui di traverso, e, presa la busta dalla sua mano,  non
trovò altro di meglio, per avere il tempo di ricomporsi, che prendere a  contare
i biglietti con grandissima attenzione, come se  sospettasse  d'esser  truffato.
Poi disse con le labbra tremanti: - Va bene,  -  e  prese  un  foglio  di  carta
bollata per scrivere la ricevuta. Ma nel cominciare a  scrivere,  gli  cozzarono
con una tal tempesta nel capo la tentazione di coglier quel momento per  far  la
domanda, e il timore che il momento fosse inopportuno e pericoloso,  che  invece
di scriver sul foglio le parole solite, scrisse: «Signorina,  vengo  a  fare  un
passo decisivo...» Se n'accorse, arrossí, stracciò il foglio, ne prese un altro,
ricominciò a scrivere, sempre con quella tempesta nel  capo;  la  vista  gli  si
velava, la mano gli ballava, le parole gli sfuggivano, la fronte gli si  bagnava
di sudore. La maestra lo guardava, tranquilla e seria. Essa non rideva di nulla;
non aveva senso comico. S'egli l'avesse osservata in quel punto, non le  avrebbe
visto negli occhi che una leggera espressione di curiosità compassionevole, come
quella con cui si guarda un  malato  d'alienazione  mentale.  Quando  alla  fine
riuscí a metter la firma, la sua risoluzione era già presa. Piegò il  foglio,  e
ritenendolo in mano per trattener lei, s'alzò in  piedi,  e  di  rosso  si  fece
pallido. Poi cominciò: - Signorina!... Che cosa seguí allora  nella  sua  mente?
Forse una sincope improvvisa del coraggio,  forse  il  pensiero  improvviso  che
sarebbe stato meglio avviar prima il dialogo sopra un altro argomento, perché la
dichiarazione non paresse troppo repentina ed ardita. Fatto sta  che  invece  di
dire quello che aveva preparato, mutato tuono tutt'a un tratto, mandando giù  la
saliva per la gola secca, mormorò umilmente:  -  Signorina...se  ha  bisogno  di
qualche riparazione... Questa volta alla ragazza sfuggí un sorriso.  Rispose  di
no, tutto era in ordine nel suo quartierino; lo  ringraziò  della  cortesia.  E,
alzandosi, tese la mano per prendere la  ricevuta.  Il  momento  era  giunto:  o
subito o non più. Il segretario tirò indietro il foglio, e rinunziando a dir  le
parole preparate perché la confusione non gliele lasciava ritrovare, si  slanciò
con disperato coraggio contro al  pericolo.  -  Signorina!  -  ripeté...  Accade
qualche volta  anche  ai  non  timidi,  quando  parlan  dominati  da  una  forte
commozione, e tanto più se in una lingua che non hanno familiare,  che  il  loro
linguaggio, il tuono, il gesto, tutto devia involontariamente dal sentimento che
vogliono esprimere, in modo  che  mentre  questo  è  sincero,  semplice,  umile,
l'espressione esce enfatica, tormentata, predicatoria, stonata, falsa,  come  se
un altro parlasse in luogo loro, senza comprenderli, e quasi  col  proposito  di
farli fallire al loro scopo. Questo avvenne al povero  don  Celzani.  Battendosi
una mano sul petto, gonfiando troppo la voce, facendo la ruota  con  lo  sguardo
intorno alla maestra come per  seguire  il  volo  circolare  d'una  farfalla,  e
movendo in cento modi strani le grosse labbra come se le avesse intorpidite  dal
freddo: - Signorina! - declamò. - Io ho una  cosa  da  dirle.  Mi  permetta.  Mi
perdoni. So che questo non è il luogo. Ma vi  sono  dei  momenti,  vi  sono  dei
sentimenti, nei quali l'uomo onesto,  quando  è  un  affetto  onesto,  sia  pure
davanti a Dio, è impossibile, tutto si deve dire, tutto si  può  scusare,  è  un
dovere lasciar dire. Io già mi sono spiegato. Lei  conosce  il  mio  sentimento.
Mai, mai fu leggerezza, fin dal primo giorno.  Mai.  Sempre  ho  coltivato  quel
pensiero. Giammai nella mia coscienza, se ho ardito, Dio m'é testimonio, la  più
pura intenzione, il più sacrosanto scopo, l'affezione di tutta la vita, se anche
non l'ho scritto, eccomi a dirlo, signorina. La sua  mano!...  Forse  non  è  il
modo; ma parlo a un'anima bella. Il frutto è maturo. Meditai.  È  un  galantuomo
che parla. Concorde è lo zio. Creda a questo cuore. Non è più vita la  mia.  Non
domando  che  la  sua  mano.  Una  sola  parola!  Pronuncia  la  mia   sentenza.
(«Pronuncia» fu un lapsus linguae). Detto  questo,  ansando,  piantò  gli  occhi
dilatati in viso alla maestra, con un'espressione quasi di terrore. La  maestra,
che aveva sorriso alle prime parole e ascoltato con serietà le  ultime,  corrugò
la fronte quando egli ebbe finito, suffusa  d'un  leggero  rossore,  che  sparve
subito. Poi, fissando lo sguardo sopra un almanacco appeso alla parete, con  una
intonazione  naturalissima  che  faceva  un  curioso  contrasto  a  quella   del
segretario, e con una voce che,  abbassandosi,  diventava  baritonale:  -  Veda,
signor segretario, - rispose, - Io non so trovar giri di parole  per  dir  certe
cose... come si dovrebbero dire. Dico franco il mio pensiero. Lei perdonerà. Non
ho che a ringraziarla delle  sue  buone  intenzioni.  Anzi,  mi  tengo  onorata.
Ma...se avessi avuto un'idea, l'avrei manifestata subito, dopo la  sua  lettera,
perché avevo capito quel che c'era sottinteso. Le dico  che  mi  tengo  onorata,
sinceramente. Però, ecco la cosa: davvero io non ho  vocazione  pel  matrimonio.
Per le mie occupazioni ho bisogno d'esser libera; ho deciso  d'esser  libera.  E
poi.... ho ventisette  anni:  se  avessi  avuto  altre  inclinazioni,  le  avrei
secondate da un pezzo. Cosícché... Insomma, io non so  trovar  delle  frasi.  Mi
rincresce, la ringrazio: ecco tutto. Favorisca  la  ricevuta.  A  quelle  parole
l'amore trafitto urlò, e la naturalezza gli venne. - Ah  no,  signorina,  no!  -
esclamò don Celzani agitandosi. - Lei dice cosí perché non sa. Non sono come gli
altri, io; cosa crede? Io le voglio bene sul serio, è un  pezzo  che  peno,  non
vedo altro, io: come si fa? Dice: voglio esser libera. Che m'importa, a me?  Non
sarei mica un padrone. Ah, lei non mi capisce: io sarei il  suo  servitore,  non
pretenderei nulla, non son niente, starei  sotto  i  suoi  piedi,  sarei  troppo
felice, matto! Lei non mi conosce, come sono, che mi fa perder la testa, che  le
darei il mio sangue e la salute dell'anima... Dio grande! Non  mi  dica  di  no!
Abbia misericordia d'un galantuomo! E ciò dicendo allargò le braccia e si  chinò
davanti a lei, sollevando  il  viso  supplichevole,  come  il  Sant'Antonio  del
Murillo davanti al Bambino. La maestra, maravigliata di tanto calore di passione
in quell'uomo, lo guardò un momento, diede un'occhiata all'uscio, e lo  tornò  a
guardare, con una vaga espressione di rammarico. Pareva che  pensasse:  «Peccato
ch'egli non sia un altro!» - Ma capí subito che il suo  silenzio  poteva  essere
male interpretato, e s'affrettò a dire, col  tuono  più  amichevole  che  le  fu
possibile: - Basta cosí, signor Celzani. Io le ho già detto il  mio  sentimento.
Lei ha buon cuore. Troverà un'altra  che  corrisponderà  al  suo  affetto,  come
merita. Lei s'inganna sul conto mio: io non sono come forse s'immagina.  Io  non
son tenera. Ho il cuore d'un uomo, io. Non sarei una buona moglie. Veda che  son
sincera. Si faccia una ragione... e mi dia il foglio. Non è conveniente  che  mi
fermi un momento di più. Don Celzani restò lí come pietrificato. Ma  il  terrore
di rimaner solo in casa, con la disperazione  di  quel  rifiuto  nel  cuore,  lo
riscosse subito, e gli fece fare un ultimo tentativo sconsolato di preghiera:  -
Pigli tempo a rispondere, almeno! Ci pensi ancora! Non mi dica di no per sempre!
La Pedani fu presa da un principio d'impazienza,  e  facendo  un  passo  avanti,
allungò la mano per pigliar la ricevuta. Per istinto il segretario le afferrò la
mano, e fu come  una  vertigine:  cadde  ginocchioni  d'un  colpo  e,  accecato,
supplicando, s'avviticchiò furiosamente alle ginocchia di  lei,  strofinando  il
viso convulso contro la sua  veste.  Fu  un  baleno  però:  due  mani  gagliarde
sciolsero le sue dita incrocicchiate, e con una spinta virilmente  impetuosa  lo
misero in piedi d'un balzo, sbalordito. - Signor Celzani, - disse severamente la
maestra, ma con accento più di fastidio, che di sdegno, - queste cose con me non
si fanno -. E soggiunse dopo una pausa: - Sia detto una volta per sempre. Ma  il
segretario quasi non sentí. Il dolore  immenso  del  rifiuto,  la  vergogna,  il
terrore dell'avvenire erano per un momento soffocati  in  lui  dalla  sensazione
profonda e violenta di quell'abbraccio,  rivelatore  misterioso  di  tesori  che
superavano le sue fantasie, e che gli lasciavano come lo stupore  d'un  contatto
sovrumano. Si  risentí  vedendo  la  Pedani  avvicinarsi  all'uscio  e  a  passi
vacillanti e impetuosi la raggiunse; ma si fermò a un passo da lei.  Essa  aveva
già la mano sulla maniglia dell'uscio: la ritirò guardando lui  con  un  sorriso
d'indulgenza, e poi gliela porse con un atto rigoroso di camerata, per  togliere
a quella concessione ogni senso di tenerezza. Il segretario capí, e le diede  la
sua, morta. Essa si rifece seria, e disse: - Siamo intesi,  dunque...  Mai  più.
Egli ripeté macchinalmente, come uno stupido. - Mai  più.  E  non  l'accompagnò.
Attraversando l'anticamera, la maestra sentí un lamento lungo e sordo,  come  un
gemito soffocato tra i pugni, e uno strepito precipitoso di piedi,  simile  allo
scalpitio d'un giumento imbizzarrito; e uscí scrollando il  capo,  pietosamente.
Dopo quel giorno don Celzani fu un altro. Non aspettò  più  la  maestra  per  le
scale, si mise a fumare  dei  sigari  Virginia,  bazzicò  il  vicino  caffè  del
Monviso, frequentò il teatro Alfieri, prese un'andatura più disinvolta, si diede
alla sua opera di segretario con una  operosità  non  mai  veduta,  come  se  le
proprietà del commendatore si fossero triplicate tutt'a un tratto, e  spinse  la
bizzarria fino a cambiare il suo eterno cravattino di seta nera con una cravatta
di color turchino, che  gli  dava  un'aria  addirittura  baldanzosa.  Tutti  gli
inquilini notarono quella trasformazione. Lo sentivano qualche volta solfeggiare
per le scale, lo vedevan salire o scender a piccoli salti, lo  incontravano  per
la strada in compagnia di giovani della sua età, coi  quali  non  l'avevano  mai
visto, gesticolante, con una faccia nuova, con  mosse  e  impostature  di  prete
spretato, che volesse dissimulare il suo  carattere  antico.  Il  solo  ingegner
Ginoni conobbe il perché di quel mutamento, e se  ne  prese  spasso:  diceva  al
segretario, incontrandolo: Cadde l'incanto, e a terra sparso è il giogo; oppure:
Alfin respiro, o Nice, Bravo segretario! E questi gli rispondeva  con  un  gesto
comico, come per dire: «Tutto è passato». E cosí  durò  per  tutto  il  mese  di
marzo. Dopo di che... ricadde più perdutamente innamorato di prima. Ma  come  si
fa, Dio grande! Ai primi giorni della nuova stagione la Pedani aveva messo su un
vestito di lanetta color marrone, guernito con una straliciatura di  seta  nera,
semplicissimo, una miseria che poteva costar trenta lire con la fattura,  e  che
aveva fors'anche dei difetti di taglio; ma la sarta vera e maravigliosa  era  la
persona che lo riempiva e lo tirava, informandolo ai più seducenti contorni  che
avesse mai trovato uno scultore di Dee. V'erano adesso  delle  giornate,  quando
essa tornava dalla ginnastica, delle ore in cui  l'aria,  il  sole,  l'esercizio
fatto mettevano nella sua carne come uno splendore caldo di  giovinezza  matura,
la freschezza d'un corpo di nuotatrice uscita allora  dall'acqua,  qualche  cosa
che si effondeva intorno come la fragranza inebriante d'un albero  in  fiore.  E
passando accanto a don Celzani a passi svelti gli diceva: - Buon  giorno  -  con
una nota d'oboe, spiccata e  profonda,  che  pareva  un  grido  involontario  di
voluttà, troncato a mezzo. Il povero don Celzani resistette a tre o  quattro  di
questi incontri, poi perdette la testa: lasciò il caffè Monviso, il teatro,  gli
amici, i sigari Virginia, le corse per Torino, e i baldi atteggiamenti; e  della
sua audace ribellione d'un mese non gli  rimase  altro  segno  che  la  cravatta
turchina. Ma durante quel mese aveva meditato, e frutto delle sue meditazioni fu
che, entrando nel nuovo periodo, cambiò di tattica amorosa, si  sforzò  di  dare
alla sua passione l'apparenza d'una tranquilla amicizia. Non  più  appostamenti,
non più sguardi supplichevoli, né saluti  trepidanti,  né  silenzi  d'adoratore.
Egli fermava la maestra su  per  le  scale  e  le  si  accompagnava,  attaccando
discorso a qualunque proposito, ragionando del tempo,  degli  orari  scolastici,
d'una riparazione da farsi, d'un inquilino, d'una bazzecola, pur  di  parlare  e
d'intrattenerla, di abituarla alla sua compagnia, di  persuaderla  bene  ch'essa
poteva star con lui d'ora innanzi senza che egli ricadesse  nelle  dichiarazioni
passate. E vi riuscí. Essa sospettava bensí confusamente  che  sotto  quel  novo
contegno si nascondesse un pensiero, un proponimento lontano; ma, insomma, s'era
quetato, e gli si poteva discorrere, tanto più che, levato  da  quel  suo  matto
amore, era una persona educata e un buon diavolo, che non le  spiaceva.  In  tal
modo s'incominciò a stabilir fra loro una certa familiarità.

E questo avvenne più agevolmente per effetto d'una nuova dichiarazione di guerra
della maestra Zibelli, che lasciava da capo uscir sola la sua amica. Era seguito
questo lepido caso: che le due amiche essendosi incontrate, per la  prima  volta
tutt'e due insieme, in Piazza Solferino, col maestro biondo della  Generala,  il
quale le aveva fermate, s'era dopo poche parole chiarito l'equivoco, che  quegli
aveva fino allora scambiato la Zibelli con la Pedani, conosciuta da lui soltanto
di fama e ammirata per i suoi articoli;  e  la  Zibelli  aveva  visto  rivolgere
immediatamente all'altra, ma raddoppiati, gli ossequi e l'ammirazione di cui era
stata essa prima l'oggetto. Messa  sottosopra  da  questa  scoperta,  dopo  aver
passato dei giorni orribili, astiando l'amica dalla  mattina  alla  sera,  s'era
data con grande ardore alla religione, andava  in  chiesa  ogni  mattina,  aveva
stretto amicizia con le signore divote del primo piano, messo un velo  nero  sul
viso, voluto far di magro il venerdí e  il  sabato,  e  dedicato  tutti  i  suoi
ritagli di tempo a libri ascetici, che leggeva forte anche di notte. Con  questo
si rincrudí pure in quei giorni, a cagione d'un  avvenimento  straordinario,  la
gelosia  ch'essa  cominciava  a  sentire  da  un  po'  di  tempo   dei   trionfi
ginnastico-letterari  della  sua  nemica.  Era  allora  a  Torino  il   ministro
dell'istruzione pubblica, Guido Baccelli. Egli capitò una  mattina  inaspettato,
col sindaco  e  con  l'assessore,  seguito  da  un  folto  corteo,  alla  scuola
Margherita, mentre la Pedani faceva la lezione di ginnastica.  Un'altra  avrebbe
perso la bussola. Essa non si turbò e, schierate  tutte  le  sue  allieve,  fece
eseguire i passi ritmici con una tal varietà, precisione e vigoria  di  comandi,
che, un po' per questo e un po' per effetto della sua bella persona, il ministro
le prodigò i più caldi elogi, intavolando con lei una  conversazione  su  metodi
ginnastici inglesi, della quale uscí anche più ammirato che degli  esercizi.  Il
fatto fu riferito dai giornali, che stamparono il suo nome, e fu una  gloria.  E
non ne ingelosí soltanto la Zibelli: il maestro Fassi andò in  bestia.  In  quei
giorni appunto la Pedani era anche stata nominata maestra  di  ginnastica  delle
monache Vincenzine del Cottolengo. Una  successione  cosí  inaudita  di  fortune
cominciava a non esser più comportabile, né si poteva spiegare che  con  qualche
protezione segreta. Ora il maestro si ficcò in capo che chi le faceva aver tutti
quei favori fosse il commendator Celzani, per sollecitazione del nipote.  E  non
poté trattenersi dal fare uno sfogo con costui. - È una vergogna, - gli disse un
giorno senza preamboli, - che mentre ci sono dei professori  di  ginnastica  che
sudano da vent'anni agli studi senza aver  mai  potuto  ottenere  un  favore,  e
neppure il compenso della notorietà, ci sia chi si fa largo e ottiene tutti  gli
onori per la sola virtù della gonnella. È un mercimonio schifoso, che denunzierò
per le stampe. Il segretario finse di non capire. Ma quella  finzione  non  fece
che riaffermare il maestro nella  sua  idea,  tanto  che,  pur  conservando  per
interesse un'apparenza d'amicizia con la Pedani, egli tolse a lui il  saluto,  e
sua moglie fece lo stesso, E cosí eran già tre, che, per  causa  della  maestra,
gli  avevan  dichiarato  la  guerra.  Ma  don  Celzani,  ostinato  e  intrepido,
continuava a colorire il suo disegno, cercando di guadagnarsi la buona  amicizia
di lei. Le fece un giorno un vero piacere portandole  un  numero  del  «Ginnasta
triestino», venutogli a mano per caso, che conteneva  un  articolo  sulla  danza
pirrica. Le portò un'altra volta un numero della «Tribuna», che riceveva lo zio,
nella quale era riferita la risposta negativa  data  dall'ufficio  d'igiene  del
municipio di Roma a tutte le direzioni delle scuole, che  l'avevano  interrogato
intorno alla maggiore o minor convenienza di tener gli alunni nella posizione di
braccia conserte. La maestra  gradí  molto  l'offerta,  dicendo  che  aveva  già
trattato l'argomento in un articolo. Ma il segretario  le  preparava  ben  altre
sorprese. Era tentato da un po' di tempo d'intavolare con lei certi discorsi, ai
quali s'andava apparecchiando; ma non osava. Un giorno osò. Avendogli essa detto
che  frequentava  un  corso  d'anatomia,  egli   le   rispose   timidamente:   -
L'anatomia... Lei fa bene, perché, senza quello studio, non si può conoscere  il
valore... fisiologico dei singoli esercizi, e, senza di questo, gli esercizi non
si possono classificare...  fisiologicamente,  che  è  l'ordine  più  utile.  La
maestra lo guardò con stupore, e approvò. Era un primo passo. Un altro giorno si
fece anche più animo e le  domandò  che  cosa  pensasse  sulla  quistione  degli
attrezzi. Anche questa domanda la stupí gradevolmente. E gli rispose: non  stava
con coloro che ne volevano abusare, mirando a convertire le palestre  in  circhi
acrobatici, ciò che spaventava le famiglie, ed era  veramente  un  pericolo;  ma
dava  torto  anche  agli  esageratori  della  parte  opposta,  che  li  volevano
addirittura abolire. Dove si sarebbe andati per quella  via?  A  una  ginnastica
bambinesca, con cui non sarebbe stata punto educata nei fanciulli quella facoltà
speciale, che è il coraggio fisico, a tutti necessaria; senza la  quale  non  si
riesce più tardi in nessun esercizio civile e arrischiato, se non  a  prezzo  di
sforzi penosi e di figure ridicole. Don Celzani approvò con ripetuti  cenni  del
capo. - Sono persuaso anch'io -  disse,  cercando  le  parole,  -  che  l'intero
sviluppo di tutte le membra non  si  può  ottenere  se  non  con  l'aiuto  degli
attrezzi. Si posson lasciare da parte quelli di cui si può contestare l'utilità;
ma quelli che hanno un'utilità... antropologica  dimostrata,  secondo  me,  sono
indispensabili.  -  Alla  buon'ora!  -  esclamò  la  maestra,  guardandolo   con
curiosità. - E non è di parere che riguardo al numero e al modo  degli  attrezzi
sarebbe bene di lasciar libero ogni insegnante di seguire il proprio genio e  la
propria persuasione? - Non ci può esser  dubbio,  -  rispose  don  Celzani,  con
gravità. - Se non si fa questo, si toglie all'insegnante ogni incoraggiamento  a
studiare  per  farsi  delle  combinazioni   da   sé   in   ordine   alle   varie
classificazioni;  -  e  le  contò  sulla  punta  delle  dita,  -...   anatomica,
pedagogica, collettiva, individuale, e via dicendo; e  allora  chi  farebbe  più
esperienze e ricerche?.... La maestra tornò a guardarlo  con  maraviglia  e  con
piacere ad un tempo. E punta da maggior curiosità, soffermandosi per la scala: -
Quali  sarebbero,  -  gli  domandò,  -  gli  attrezzi  che   lei   giudicherebbe
indispensabili? - Gli attrezzi che io giudicherei indispensabili, - rispose  don
Celzani col tono d'un ragazzo catechizzato, rimettendosi a contar sulle dita,  -
sarebbero... le pertiche  d'ascensione...  la  trave  d'equilibrio,  non  troppo
elevata da terra, che è inutile... la sbarra fissa... s'intende le  parallele  e
il piano inclinato...  Tutt'al  più,  lascerei  da  parte  qualche  esercizio...
l'altalena di salvataggio, per esempio.  -  Come?  -  domandò  con  vivacità  la
maestra,  -  anche  lei  è  di  quelli  che  trovan  pericolosa  l'altalena   di
salvataggio? - No, ho sbagliato,  -  rispose  il  segretario,  -  l'altalena  di
salvataggio, veramente, si dovrebbe  lasciare.  Infatti,  che  pericolo  c'è?...
Qualche piccolo storcimento, alla peggio. Siamo d'accordo  anche  su  questo.  -
Siamo dunque d'accordo su tutto! - esclamò la maestra, soddisfatta. - Dico bene,
che non si può aver buon senso e  pensarla  altrimenti  -.  Poi,  ripresa  dalla
curiosità, mentre eran  già  sotto  il  portone,  gli  domandò  con  un  sorriso
singolare: - È un pezzo che s'è dedicato a questi studi? Il segretario arrossí e
fece un gesto indeterminato, senza  dir  nulla.  Ma  dopo  quel  giorno  ritornò
sull'argomento  ad  ogni  incontro,  Il  commendatore  possedeva  dei  libri  di
ginnastica,  avuti  in  dono  dagli  autori,  durante  il  suo  vice-assessorato
dell'istruzione pubblica, dei pacchi di numeri del «Ginnasta aretino»,  che  gli
aveva mandato anni addietro un amico toscano: don Celzani leggeva ogni cosa, per
prepararsi  certe  domande  e  certe  risposte,  e  cosí  poteva   sostener   la
conversazione. Aveva finalmente trovato il  gancio  e  ammirava  la  perspicacia
dell'ingegnere. Ora, quand'eran su quei discorsi, la maestra si soffermava  ogni
quattro scalini, ed egli aveva cosí un agio delizioso  di  ammirarla,  come  non
l'aveva mai avuto, e imparava a memoria tutte le pieghe, tutti i bottoni,  tutte
le fettucce di quel  terribile  vestito  color  marrone;  scopriva  dei  piccoli
movimenti abituali di lei, che non aveva mai osservati, studiava  i  suoi  denti
bianchi uno per uno, faceva con l'occhio dei veri viaggi d'esplorazione  intorno
alle sue forme,  cosí  profondamente  assorto  alle  volte  in  quelle  indagini
amorose, che dimenticava di rispondere, o rispondeva a  casaccio.  Senonchè,  in
questo gioco, egli  perdette  ben  presto  quella  padronanza  di  sè,  che  era
necessaria ai suoi fini. A poco a poco, cominciò a pensare che fosse  rivolta  a
lui la simpatia che essa mostrava per l'argomento delle loro conversazioni;  gli
pareva d'esser salutato, guardato, ascoltato in tutt'altro  modo  da  quello  di
prima; risentiva dei fremiti sotto lo sguardo ch'ella gli fissava  negli  occhi,
nell'esporgli le sue ragioni; fu due o tre  volte  sul  punto  di  tradirsi,  di
afferrare il suo bel braccio per aria, quando accennava un movimento alla  trave
di sospensione. Si contenne, però. Ma prese tanto coraggio da  decidersi  a  una
nuova prova, più accortamente preparata dell'altra, da tentare il  primo  giorno
di maggio, quando ella fosse tornata in casa sua a portar  la  pigione.  Credeva
che questa volta non gli avrebbe più potuto dare una ripulsa assoluta. Un legame
c'era fra loro. L'idea che, sposando lui,  ella  avrebbe  avuto  un  conlocutore
intelligente per  le  sue  conversazioni  predilette,  uno  specchio  riflettore
perpetuo della sua passione dominante, una specie di  segretario  intellettuale,
gli pareva che dovesse avere un gran peso  sulla  sua  determinazione.  Ed  egli
aveva in serbo, per darle l'ultima spinta, la rivelazione d'un piccolo  secreto,
che, per certa vergogna, teneva gelosamente nascosto, da  un  po'  di  tempo,  a
tutta la casa. Ma, ahimè! non era più un segreto per tutti. Il giorno  prima  di
quello fissato da lui per far la sua terza dichiarazione,  lo  studente  Ginoni,
entrando in casa all'ora di desinare, diede  una  notizia  che  fece  prorompere
tutti in una risata. - Papà, - disse, incrociando le braccia  sul  petto,  -  ne
vuoi sapere una incredibile?.. Don Celzani va  alla  Palestra!  Ma  alla  risata
succedettero esclamazioni d'incredulità. Eppure, egli l'aveva visto entrare alla
Palestra, sul corso Umberto, all'ora dell'entrata degli altri  soci.  Non  c'era
ombra di dubbio.

Le speranze fondate da don Celzani sul primo di maggio furono mandate a monte da
un avvenimento imprevisto. Il commendatore, che, per scansar le visite dei  suoi
pigionali, soleva ogni primo del mese passar la giornata  di  fuori,  stette  in
casa  quel  giorno,  ribadito  come  sempre  sulla  sua  poltrona,  come  se  li
aspettasse. Don Celzani, che aveva fatto tutti  gli  apparecchi  per  l'assalto,
n'ebbe una stizza da addentarsi le mani.  Sperò  fino  alle  undici  ch'egli  si
decidesse ad andarsene; poi perdette ogni speranza,  e  prese  a  girar  per  le
camere col diavolo in corpo. Ma un pensiero consolante gli  balenò  a  un  certo
punto: che lo zio avesse curiosità di veder un po' da vicino  la  Pedani,  e  di
discorrer con lei, poiché non eran corsi fra loro che dei saluti di scala; e che
questo fosse un indizio di buone intenzioni, Dopo la visita al direttore, lo zio
non gli aveva più parlato dell'affare;  ma  don  Celzani  capiva  che  egli  non
ignorava la persistenza risoluta della sua passione. Chi sa!  Forse  egli  aveva
davvero quel disegno. E allora il suo dispetto si cangiò in impazienza.  Sarebbe
venuta come l'altra volta al tocco e mezzo. Al tocco, il commendatore era seduto
nello scrittoio, con la maestosa testa bianca abbandonata sulla spalliera  della
poltrona, e gli occhi azzurri al soffitto. Fosse politica  o  altro,  quando  la
serva annunziò la Pedani, egli fece l'atto di andarsene e di cedere il posto  al
nipote: poi cambiò idea. La maestra entrò, e  parve  che  non  le  spiacesse  di
trovar là il padrone di casa, forse perché questi rendeva impossibile una  nuova
dichiarazione ch'essa temeva. Il commendatore era coi suoi pigionali d'una  rara
compitezza, e usava col bel sesso delle forme  straordinariamente  rispettose  e
dignitose. S'alzò, s'inchinò con gli  occhi  chiusi  davanti  alla  ragazza,  e,
rimettendosi a sedere, insistè perché sedesse lei pure. Il  segretario  prese  i
denari e scrisse la ricevuta con le mani malferme, lanciando continui sguardi di
sotto in su a tutti e due. Era preso da una commozione di ragazzo,  come  se  la
Pedani avesse fatto la sua prima entrata nella famiglia, e si dovesse concludere
il matrimonio in quella seduta. - Ebbene, signorina, - domandò  il  commendatore
con dignità, temperata da un sorriso  cerimonioso,  quando  il  segretario  ebbe
rimesso il foglio alla maestra, - come va la ginnastica? Era evidente che voleva
farla parlar lungamente. La maestra rispose che  era  sempre  alle  stesse:  una
quantità di pregiudizi da vincere  nei  parenti  delle  alunne,  e  anche  nelle
autorità; per il che gl'insegnanti  dovevan  sostenere  una  lotta  continua,  a
scapito, s'intende, dell'insegnamento, - Nella ginnastica femminile sopra tutto,
- disse il commendatore, gravemente, - Nella femminile sopra tutto, - ripete  la
Pedani, animandosi, - per un mondo di riguardi... non fondati. Ella lo saprà. Io
non dico che si possa subito, con le idee di adesso,  attuare  il  concetto  dei
baumannisti avanzati, di non fare alcuna differenza fra la ginnastica maschile e
la femminile. Ma al punto a cui si vuol ridurre questa... è veramente troppo. Il
commendatore fece un cenno d'assenso con le palpebre. Il male, secondo lui,  era
che s'insegnava la ginnastica per dar saggi negli spettacoli e  nelle  occasioni
di visite ufficiali: per questo si andava all'eccesso nella compassatura e nella
riservatezza dei movimenti. - Non è vero? - domandò la maestra con vivacità. - È
quello che io dico sempre. - E, infervorandosi nel discorso, dimentica affatto o
incredula di quello che  l'ingegnere  le  aveva  detto,  con  l'ingenuità  d'una
monomane, premette il tasto prediletto dell'ex assessore. - Dicono:  le  ragazze
non debbono fare i movimenti  che  fanno  i  maschi.  Ma  io  rispondo:  o  quei
movimenti sono igienici o non lo sono. Se lo sono, come si possono omettere  per
dei riguardi che non si appoggiano sopra alcuna ragione seria? Perché il punto è
questo. Le ragazze non hanno da far ginnastica che davanti alle loro  maestre  o
alle loro madri. Dunque, soppressi gli spettacoli che guastan tutto,  è  rimossa
ogni difficoltà. Il commendatore approvò. Veramente, secondo la  sua  idea,  gli
spettacoli andavan lasciati  stare;  ma  non  lo  disse.  Si  restrinse  a  fare
un'osservazione generale sul grande  bisogno  che  v'era,  specialmente  per  le
ragazze, d'una ginnastica più energica, più conforme a quella ch'era in voga  in
Germania. La generazione nuova, a suo giudizio,  lasciava  molto  a  desiderare.
Aveva toccato la corda più viva della maestra.  -  Se  lascia  a  desiderare!  -
esclamò questa. - E ancora che lei,  signor  commendatore,  non  è  al  caso  di
farsene un'idea precisa. Ma noi che le  vediamo  bene  le  nostre  ragazze,  che
abbiamo il dovere di esaminarle, di tastarle, noi tocchiamo con mano  l'assoluta
necessità che lei dice. Se lei potesse vedere... Il commendatore  socchiuse  gli
occhi e prestò una profonda attenzione. - Se lei vedesse, - continuò la maestra,
- che povero sangue! Non dico di quelle che hanno dei veri difetti  d'organismo.
Ma ce n'è un gran numero che hanno  una  costituzione  abbastanza  buona,  senza
alcun vizio organico, nè alcuna infermità spiegata; eppure  metton  pietà.  Sono
cresciute in  fretta,  ma  s'è  soltanto  allungato  lo  scheletro:  il  sistema
muscolare non si è svolto in proporzione.  Non  hanno  spalle,  nè  braccia,  nè
petto. Non è il caso davvero di temer le pressioni... sul davanti, come temon le
mamme. Per il più piccolo sforzo sono anelanti, sudano;  ce  n'è  che  svengono.
Paion bambine uscite di malattia. Fa dispetto vedersi metter  delle  restrizioni
monacali all'insegnamento per ragazze simili, che non dovrebbero far  altro  che
ginnastica  dalla  mattina  alla  sera!  -  Quali  restrizioni  le  son   poste,
generalmente? - domandò il commendatore, guardandosi le unghie. - Ma!...  d'ogni
specie, - rispose la Pedani. - Vogliono ristrettissimo l'esercizio d'abduzione e
sollevazione delle gambe e... che so io. Poi, alle parallele e al  volteggio,  e
anche alla sbarra fissa, nessuno degli esercizi in cui sia necessario  sollevare
gli arti inferiori... Per  le  grandicelle,  non  salita  alla  corda,  nè  alla
pertica. Domando io! - E tirò avanti. Il commendatore ascoltava, con  gli  occhi
azzurri fissi alla vôlta, come immerso in una  contemplazione  celeste,  movendo
lentamente il capo in segno d'assenso. - E con questo, - continuò la maestra,  -
ciò che ci appassiona sempre più per le nostre idee, è il vedere  che  progressi
si ottengono anche con quel poco che ci è  permesso.  Lei  non  può  credere  il
mutamento che si nota dopo un mese di ginnastica nelle ragazze dai  dodici  anni
in su, e tanto più in quelle che son magre  e  anemiche  per  malattie  sofferte
nell'infanzia o per linfatismo acquisito. In un  mese,  si  allarga  il  rossore
delle guance, che era soltanto un cerchietto, le braccia s'arrotondano, il dorso
si raddrizza, i muscoli si rilevano... Alle volte, a guardarle di dietro, non si
riconoscono più, paiono  donnine  fatte,  hanno  acquistato  quella  eleganza  e
sveltezza dei movimenti, che formano la  vera  bellezza  estetica;  specialmente
negli arti inferiori... uno sviluppo da far rimanere sbalorditi. È veramente una
cosa consolante. Sí, era consolante anche per il commendatore, che seguitava  il
corso dei suoi pensieri. E fece una domanda che parve scaturire da una  profonda
meditazione. - Oltre a questo, - disse, -  ella  avrà  anche  delle  particolari
soddisfazioni da quelle poche che hanno per la ginnastica  un'attitudine  fisica
eccezionale e un ardore eguale al suo; perché, sopra un gran numero, ce n'ha  da
essere, sicuramente. - E, socchiusi gli occhi, tornò a fissarli  in  alto,  come
per assaporar la risposta. - Ah, questo si! - rispose la maestra eccitandosi. Ce
ne sono! Ed io, oramai, le conosco alla prima occhiata, la prima  volta  che  si
presentano, che non è poi tanto facile. Perché non son mica  sempre  quelle  più
asciutte e d'apparenza più svelte, che  hanno  le  migliori  attitudini.  Queste
derivano dalla struttura più o meno armonica delle membra. Ci sono delle grasse,
per esempio, che si crederebbero  pesanti  e  impacciate,  e  hanno  invece  una
agilità, un'elasticità da fare stupire. Bisognerebbe che il signor  commendatore
potesse vedere, nelle  ore  di  ricreazione,  alle  Figlie  dei  militari...  Il
commendatore chiuse gli occhi. - Perchè, - seguitò la maestra, - il  regolamento
della ginnastica può restringere i movimenti fin che vuole; ma poi,  fuor  della
lezione, le più brave fanno quello che vogliono. Ce  n'ho  una  dozzina,  a  San
Domenico, tra i quattordici e i diciotto anni, che potrebbero dar spettacolo  in
un teatro, delle vere acrobate, che fanno dei giri sulla sbarra fissa, da dar le
vertigini, dei salti con la pedana d'un metro e mezzo d'altezza dei  volteggi...
- E soggiunse con un sorriso: - Fortuna che non c'è spettatori. Ma le dico delle
braccia e delle gambe  d'acciaio,  dei  vitini  che  scattano  come  molle:  una
bellezza, le assicuro. E dire che si potrebbero ridurre tutte  cosí!...  Sarebbe
una benedizione! Sí,  sarebbe  stata  una  benedizione;  il  commendatore  n'era
persuaso più di chi che sia. E dopo una breve meditazione,  riscotendosi  tutt'a
un tratto, disse il suo pensiero: - Speriamo, signora maestra, che a poco a poco
ci si verrà. Le buone idee finiscono sempre con vincere. Intanto, le  resistenze
cedono da tutte le parti. E lei prosegua con costanza il suo apostolato, che  fa
un'opera santa per il bene delle nostre povere bambine:  gliene  dobbiamo  tutti
esser grati. La maestra s'alzò, ringraziando; s'alzò egli pure, e, prevenendo il
nipote, l'accompagnò garbatamente  fino  all'uscio,  dove  le  fece  un  inchino
profondo. Il segretario, che per tutto  quel  tempo  era  rimasto  in  piedi  in
disparte, immobile, non perdendo una sillaba della conversazione,  e  spiando  a
vicenda i due visi, gongolava al pensiero che la maestra doveva aver fatto  allo
zio un'eccellente impressione. Questi, ritornato indietro,  si  fermò  in  mezzo
alla stanza, e passandosi una mano sulla canizie  maestosa,  disse  con  accento
paterno, quasi parlando tra sè: - Una simpatica signorina! E rimase come assorto
nel suo pensiero. - Dunque, - domandò trepidando don Celzani, - lei non  avrebbe
più da fare alcuna obiezione? Lo zio parve che non  capisse  subito  quello  che
voleva dire. Poi, quando capí, rispose trascuratamente:  -  Per  me...  nessuna.
Solamente, - soggiunse, guardando il nipote da  capo  a  piedi,  -  hai  il  suo
consenso?  Questi  prese  il  suo  atteggiamento  di  chierico,  con  una   mano
nell'altra, e abbassando gli occhi sfavillanti, rispose con voluta umiltà: -  Lo
spero. - Vedremo, - disse lo zio, squadrandolo ancora una  volta,  e  risedutosi
sulla poltrona, colla nuca alla spalliera e gli occhi socchiusi, si sprofondò da
capo nei suoi pensieri, Don Celzani fu felice. La via, dunque,  era  interamente
libera, e dopo quella visita la maestra doveva essere anche meglio  disposta  di
prima. Egli contava di far avanti una domanda di prova, con le debite cautele, e
poi la mossa suprema, quando la prima fosse stata bene accolta. Questa la poteva
far dove si fosse. Cercò dunque l'occasione per le scale. Ma fu  sfortunato.  La
Zibelli aveva rifatto con l'amica la sua centesima riconciliazione, provocata da
una delle cause solite. Lo  studente  Ginoni,  visto  respinti  i  suoi  assalti
successivi dalla Pedani, in parte per  far  rappresaglia,  in  parte  per  certa
grossa malizia di ragazzone,  con  la  quale  credeva  di  spremer  l'amore  dal
dispetto, s'era messo a far delle piccole cortesie alla Zibelli: non  una  corte
spiegata, ma una specie  di  «asineggiamento»,  semiserio,  delle  conversazioni
amichevoli, qualche mazzetto,  delle  strette  di  mano  espressive,  quando  la
incontrava sola. E pur senza dar gran peso a quelle dimostrazioni,  la  Zibelli,
non sospettandone il perchè, le gradiva come una carezza al  suo  amor  proprio,
una ricreazione, un pascolo  piacevole  dato  alla  sua  fantasia.  Per  questo,
ritornata in buona con la Pedani, ogni volta che sapeva  di  non  incontrare  il
giovane, le si riaccompagnava uscendo e rientrando,  come  per  l'addietro.  Don
Celzani fallí dunque per cagion sua varie appostature. Una  volta,  mentre  egli
stava per cogliere la bella tutta sola, uscí di casa il professor  Padalocchi  e
la fermò, per lagnarsi della solita  difficoltà  di  respiro,  e  dirle  che  la
rotazione delle braccia suggeritagli da lei lo affaticava troppo. Dopo  aver  un
po' pensato, la maestra gli consigliò la lettura ad alta  voce,  dicendogli  che
l'acceleramento della respirazione in questo esercizio era  calcolato  in  1,26:
badasse però di  leggere  con  una  cravatta  larga:  ne  avrebbe  risentito  un
vantaggio. Il segretario sperò che fosse finita; ma il terribile vecchio  chiese
degli schiarimenti sui movimenti  di  flessione  della  ginnastica  Schreber,  e
allora egli rinunciò al suo proposito. L'aveva un'altra volta  quasi  raggiunta,
sola, a piè della scala, rientrando  in  casa,  quand'eccoti  dietro  l'ingegner
Ginoni, che rientrava pure.  Dopo  che  don  Celzani  era  ricascato  nella  sua
passione, quegli aveva ripreso a far con lui la sua  parte  di  protettore,  tra
benevolo e canzonatorio. Ma questa volta gli diede un  dispiacere.  -  Signorina
Pedani, - disse con la maggior  serietà,  mettendo  una  mano  sulla  spalla  al
segretario, - le faccio  la  presentazione  d'uno  dei  più  assidui  e  valenti
acrobatici della Palestra di Torino. Don Celzani fremè, negò, arrossendo, acceso
di dispetto; si sarebbe voluto nascondere, e  augurò  il  malanno  in  cuor  suo
all'impertinente. Ma  la  maestra  fece  un'esclamazione  di  lieta  maraviglia,
guardandolo, come per cercare i cambiamenti che  la  ginnastica  aveva  prodotti
nella sua persona. In quel momento, appunto, egli stava nel solito atteggiamento
pretesco; ma a lei parve di vedergli un che di più vivo negli occhi.  Nondimeno,
dubitò d'uno scherzo.  -  Vede  che  non  lo  può  negare  due  volte,  -  disse
l'ingegnere, - Creda, signora maestra, che il fatto d'aver mandato  don  Celzani
alla Palestra sarà la  più  maravigliosa  delle  sue  prodezze!  Quel  don  ferí
un'altra volta nel vivo il Celzani. Ma  egli  vide  in  viso  della  ragazza  un
sorriso  cosí  sincero  di  compiacenza,  senz'ombra  di  canzonatura,  che   si
racconsolò. Sí, il momento era giunto, egli avrebbe fatto  bene  a  non  tardare
nemmen più d'un giorno. E la sera stessa, infatti, prima di  notte,  all'ora  in
cui sapeva che la Zibelli era fuori, preso il pretesto d'andar a vedere se s'era
fatto un certo guasto nel tubo dell'acqua potabile, salí in casa  della  Pedani.
Sperava d'esser ricevuto nella sua camera. Essa lo ricevette invece nel salotto,
in piedi. Vestiva la  «blusa»  da  ginnastica,  di  rigatino  turchino,  che  le
disegnava mirabilmente le spalle, e una  gonnella  bianca,  con  una  macchietta
d'inchiostro  sopra  il  ginocchio.  Aveva  per  la  prima  volta  l'aspetto  un
po'imbarazzato, ciò che stupí don Celzani; ma  l'imbarazzo  non  derivava  tanto
dalla visita di lui, della quale indovinava  lo  scopo,  quanto  dalla  certezza
assoluta ch'ella aveva, come se la vedesse, che la donna di servizio,  appostata
dietro all'uscio, non avrebbe perduto una sillaba dei loro discorsi.  Fu  quindi
costretta a esser breve e quasi dura nelle parole, cercando di temperare  quella
durezza coll'espressione del viso. -  Signorina,  -  disse  piano  don  Celzani,
tremando, dopo aver parlato ad alta voce  del  tubo,  -...  vengo  per  volta  a
domandarle... se è sempre della stessa idea. Essa lo guardò con  aria  benevola,
diede un'occhiata all'uscio, e ripete, con leggero accento di rammarico, le  sue
stesse parole: - Sempre della stessa idea... Don Celzani  impallidí.  E  domandò
più piano: - Ir...removibile? La  maestra  tornò  a  guardar  verso  l'uscio,  e
chinando un poco il viso in atto di pietà, rispose: - Sí. Il segretario si passò
una mano sulla fronte e sbarrò gli occhi. Quella risposta  l'aveva  paralizzato:
non trovava parole. Il silenzio si prolungava. Non si  poteva  restar  cosí.  La
maestra, che neppure sapeva che cosa dire, fece un atto d'inquietudine, che egli
notò. -... Allora, - disse, - me ne vado... Essa non rispose. Egli si  mosse,  e
quando fu vicino all'uscio, voltando indietro il viso stravolto, con un  accento
disperato che avrebbe fatto scoppiar dal ridere uno spettatore  indifferente:  -
Dunque, - disse, - nel tubo dell'acqua potabile non c'è  niente  da  fare!  Quel
contrasto ridicolo tra la voce e la parola toccò nel cuore  la  ragazza  più  di
qualunque supplicazione: ella fu tentata di dirgli qualche cosa per  consolarlo.
Ma la  coscienza  le  vietò  d'illuderlo,  E  disse  soltanto,  con  un  sorriso
affettuoso e pietoso ch'egli non vide: - No, signor Celzani... non c'è nulla  da
fare. Quegli rispose con un singhiozzo nella gola: - Tanti rispetti! - ed uscí.

E allora si disperò, perché allora l'amava con tutta l'anima, con  un  misto  di
sensualità ardente e di tenerezza infantile, avvivate continuamente dal pensiero
di  quell'abbraccio  che  l'aveva  inebriato,  dal  ricordo  dei  loro  colloqui
familiari, di tante trepidazioni, di tante speranze, di  tanti  disinganni,  che
gli parevan la storia di metà della sua vita. E non sognò nemmeno di  ribellarsi
alla propria passione, come l'altra  volta,  perché  sentiva  che  non  era  più
possibile. No, a prezzo di qualunque tormento, doveva continuare  a  vederla,  a
parlarle, a strisciarle intorno come un cane, a mettersele tra i  piedi  a  ogni
passo, a sentire il suo profumo di gioventù e la sua  voce  profonda,  a  godere
almeno della sua pietà, a torturarsi l'immaginazione, il cuore e la carne  sotto
i suoi occhi. E i tormenti s'inasprirono, ed egli se li cercò.  Coll'avvicinarsi
dell'estate, ella alleggerí ancora il suo abbigliamento, mettendo le  sue  forme
in  una  evidenza  che  lo  facea  delirare.  Egli  risalí   sul   soppalco,   a
inginocchiarsi tra la polvere e le foglie secche, col  viso  all'abbaino,  e  la
vista di lei, che dava allora le sue lezioni col busto scoperto, mostrando  nude
le larghe spalle e le braccia stupende, lo martoriava; e  anche  quando  non  la
potea vedere, stava alle volte un'ora a sentir la  sua  voce,  e  quei  comandi:
«Prona, supina, palme  in  avanti,  palme  indietro,  slancio  simultaneo  delle
braccia» gli risonavan nell'anima come esclamazioni d'amore.  Egli  non  dormiva
più, la notte, per raccogliere tutti i rumori di sopra, al più lieve  dei  quali
sussultava come se si fosse sentito i suoi piedini sul corpo. E s'affaticava  il
cervello, in  quel  dormiveglia  febbrile,  a  immaginare  astuzie  e  industrie
temerarie per poterla vedere: dei buchi nel solaio, dei  traforamenti  di  muri,
delle combinazioni  di  specchi,  dei  nascondimenti  impossibili.  E  al  punto
d'eccitamento a cui era arrivato, non si guardava più dai vicini per appostarla:
usciva, entrava, risaliva a tutte l'ore, la seguitava per la strada, l'aspettava
nel cortile, pigliava tutti i più futili pretesti per parlarle, le offriva  ogni
specie di strani servizi, in presenza di chi che sia, non più  con  l'aria  d'un
pretendente, ma d'uno schiavo, faticandola con  uno  sguardo  fiammeggiante,  ma
umile, che non chiedeva amore, ma compassione, ripetendo  come  l'eco  ogni  sua
parola, abbracciando in un solo  sentimento  di  smisurata  ammirazione  la  sua
persona, il suo ingegno, la sua fama crescente, la più comune e più vuota  delle
sue frasi. E si frenava ancora in sua presenza; ma non più quand'era passata: si
metteva allora una mano sulla bocca, guardandola di dietro, e soffocava  a  quel
modo il grido dell'amore e del desiderio, che usciva in un sospiro lamentevole e
sordo. E non osava quasi più, come altre  volte,  fermar  1'immaginazione  sulla
felicità d'un possedimento intero, poiché, tolto appena  l'ultimo  velo  al  suo
idolo vivo, gli si apriva alla mente un tale abisso luminoso di  voluttà,  ch'ei
ne rifuggiva di  volo  per  terrore  della  pazzia.  E  allora,  per  quietarsi,
ricorreva ai pensieri dell'affetto, immaginava la casa nuova di sposo, disponeva
i mobili, si rappresentava delle scene affettuose, vedeva una culla bianca... Ma
la passione lo assaliva subito anche  in  quel  rifugio:  egli  vedeva  un'altra
culla, dieci, venti, un popolo uscito  dal  suo  amplesso,  e  non  gli  bastava
ancora, e si tormentava ancora la fantasia su quella persona  che  gli  rimaneva
sempre davanti, fresca e potente, come l'immagine della giovinezza  immortale  e
della voluttà eterna. E  questo  ardore  cresceva  di  giorno  in  giorno  nella
familiarità amichevole ch'ella gli veniva rendendo, credendolo rassegnato al suo
rifiuto. La giornata intera non gli bastava più a  quella  varia  e  vertiginosa
successione di fantasticherie, di corse all'abbaino, di conversazioni di  cinque
minuti guadagnate con mezz'ora  d'attesa,  d'impeti  improvvisi  e  solitari  di
tenerezza e d'angoscia, nei quali soffriva e godeva quasi di  soffrire.  La  sua
mente rifuggiva dal lavoro, la sua memoria s'offuscava per tutti i suoi  affari,
la sua vita si disordinava, la sua salute stessa s'andava alterando, il suo viso
pigliava una espressione nuova, bizzarra, fanciullesca, spaurita, unita a quella
d'una grande bontà ingenua ed attonita, come d'un  uomo  rapito  nell'adorazione
perpetua d'un fantasma fuggente nell'aria. L'ingegner Ginoni, che seguitava  con
occhio curioso ed accorto  questo  crescit  eundo,  incontrata  una  mattina  la
maestra Pedani nel cortile, si fermò a cinque passi davanti a  lei,  e  le  fece
scherzosamente un atto minaccioso con  la  canna.  Poi  s'avvicinò,  e  tradusse
l'atto in parole: - Ah! spietata signorina! Ma non sa  lei  che  il  povero  don
Celzani si va perdendo per cagion sua? La maestra non capí. - Ma  positivamente,
- continuò l'ingegnere, - egli va perdendo la cuccuma - E disse quello che aveva
inteso dal commendatore. Da un po' di tempo la  segreteria  non  camminava  più,
l'amministrazione andava a rotta  di  collo,  gl'inquilini  dell'altra  casa  di
Vanchiglia eran venuti a far il diavolo col padrone  perchè  non  ricevevan  più
risposta ai loro richiami, il bravo segretario s'era fatto multare due volte per
aver tardato a pagar le tasse di registro. - Ecco, - soggiunse,  -  a  che  cosa
conduce la  ginnastica!  Ecco  i  funesti  effetti  dell'esercizio  del  sistema
muscolare sulle funzioni del cervello! - Ancora tre giorni  addietro  il  povero
don Celzani s'era lasciato infinocchiare miseramente nella vendita di  ottocento
miriagrammi di fascine e di legna dei poderi  dello  zio,  facendo  uno  sbaglio
d'addizione che  costava  al  commendatore  centododici  lire  e  settantacinque
centesimi. Il commendatore  gli  aveva  fatto  un  partaccione,  era  fuori  dei
gangheri. Se  don  Celzani  gliene  faceva  ancor  una,  egli  aveva  deciso  di
dispensarlo ipso fatto dai suoi servizi, e di mandarlo a spasimare in casa  d'un
altro. E lei, «fredda di cor vulneratrice», aveva il  coraggio  di  rovinare  in
quella maniera  un  povero  galantuomo!  La  Pedani  non  sorrise:  la  cosa  le
rincresceva davvero. E lo disse, fissando gli occhi a terra, come assorta in  un
pensiero. - Mi rincresce, - Poi soggiunse: - Io non ci ho nessuna colpa, però. -
Questo è il male! - rispose l'ingegnere, ridendo. - Perchè, se ci avesse  colpa,
sarebbe obbligata  a  riparare.  E  allora...  veda  un  po',  quanti  beni!  Il
segretario  non  perderebbe  la  testa,  il  commendatore  non   perderebbe   il
segretario. Povero segretario! Un cuor d'oro,  in  fondo,  un  uomo  onesto,  la
miglior pasta di abatino fuorviato che Dio abbia messo in terra. Solamente ha la
disgrazia di aspirare... alla perfezione delle linee, e la  perfezione,  si  sa,
non la raggiungono che i privilegiati. - Qui diede in  una  risata.  -  Ah!  Che
prodigio! Dire che lei  ha  mandato  don  Celzani  alla  cavallina!  La  maestra
pensava. - Basta, - soggiunse il Ginoni, - purché dal salto della cavallina  non
passi a quello del ponte di Po! - Oh, signor ingegnere! - disse la Pedani con un
sorriso; ma non senza inquietudine. - Il signor Celzani non è uomo da far queste
cose. - Eh, signorina, - rispose il Ginoni,  -  l'uomo  anche  più  mite  e  più
ragionevole del mondo, per sé stesso, è come dell'acqua  in  un  bicchiere:  che
trabocchi o no, dipende dal grado di forza della polvere  effervescente  che  ci
mette dentro la passione. Detto questo, la  salutò,  e  quella  s'avviò  per  le
scale, pensierosa. Ma uscí ben presto da quel pensiero, poiché la  sua  passione
sovrana riceveva in quei giorni  un  alimento  potentissimo  dalle  notizie  che
giungevano  d'ora  in  ora  delle  grandi  feste  del  Congresso  ginnastico  di
Francoforte. Ogni giornale che gliene recava nuovi particolari,  rinfiammava  il
suo entusiasmo. Essa vedeva l'arrivo delle rappresentanze alla  città,  ricevute
dal borgomastro e da una folla immensa di cittadini; vedeva la gran  processione
trionfale di quattordicimila ginnasti d'ogni paese del mondo, giovanetti, uomini
canuti, uomini  sul  fiore  degli  anni,  sventolanti  centinaia  di  stendardi,
accompagnati da duemila cantanti delle società corali, che s'avanzavano  per  le
vie coperte di bandiere, sotto gli archi trionfali,  fra  le  case  decorate  di
corone e di ghirlande, sotto una pioggia di fiori; vedeva la palestra smisurata,
con la statua colossale della Germania, e gli attrezzi innumerevoli, e ventimila
spettatori,  plaudenti  a  miracoli  di  forza,  di  destrezza  e  d'ardire;  si
rappresentava la maschia figura del Meller, il vincitore del primo  premio,  che
agitava la sua corona  di  quercia  fra  gli  urrà  frenetici  d'un  popolo;  si
raffigurava quell'esercito  di  gagliardi  sparsi  per  la  città  antica,  dove
appariva ad ogni passo il ritratto di Jahn Turn Vater,  mescolati  fraternamente
alla cittadinanza, affollati intorno ai ginnasiarchi più celebri, a scrittori, a
dotti, a medici, a riformatori, ragionanti in venti lingue diverse di tutto  ciò
che essa amava e ammirava, inebriati tutti dall'idea rigeneratrice  della  razza
umana, dal soffio di gioventù e di grandezza che spirava  nell'aria  come  a  un
grande spettacolo antico di Corinto e di Delfo. Oh! Come tutto questo era  bello
e grande! Il pensiero di poter concorrere anche per poco, nel suo angusto campo,
a preparare al proprio paese delle giornate simili  diffondendo  la  fede  negli
effetti maravigliosi dell'educazione fisica ed  eccitando  altri  a  diffonderla
come il verbo d'un'età nuova, le  accendeva  l'anima,  le  illuminava  tutte  le
facoltà, le triplicava  le  forze  al  lavoro.  In  quei  giorni  appunto  stava
preparando un discorso a quel proposito da  pronunciare  al  prossimo  congresso
nazionale degli insegnanti primari, che si doveva inaugurare a Torino, e  avendo
avuto ottimo successo una raccolta di vari articoli, pubblicata  dal  «Campo  di
Marte», nei quali essa aveva caldeggiato l'istituzione in ogni grande città d'un
corpo di pompiere volontarie,  si  apparecchiava  a  tenere  una  conferenza  su
quell'argomento nella sala della scuola Archimede. E intanto riceveva  da  molte
parti  incoraggiamenti,  lettere  di  congratulazione,  proposte  e  quesiti  di
filoginnici appassionati; e a tutti rispondeva. Certo, il più  forte  impulso  a
tutto questo lavoro glielo dava la ferma e calda persuasione di  far  del  bene,
che era viva in lei fin dalla prima giovinezza; ma col crescere della  notorietà
e del plauso pubblico, vi si cominciava a mescolare una  compiacenza  prima  non
conosciuta, un'idea d'ambizione ch'ella non voleva confessare a sè stessa, e con
questa un altro senso nuovo, il turbamento  che  dà  la  prima  coscienza  della
rinomanza, una certa amarezza di non saper in chi versare il soverchio della sua
vitalità intellettuale e morale, il quale l'agitava,  vinceva  la  forza  nativa
della sua tempra, e faceva che si sentisse più donna  di  quello  che  si  fosse
sentita mai. Per lei, che non aveva  mai  sognato  d'uscire  dalla  più  modesta
oscurità, quel po' di rumore che si faceva in un angolo del mondo intorno al suo
nome, era la  gloria,  e  la  gloria  è  solitudine.  E  quando  sentiva  questa
solitudine, durante le interruzioni del suo lavoro, nei giorni  in  cui  l'amica
non le parlava, il suo pensiero andava qualche volta al povero don Celzani,  non
come a un amante, ma come a un amico, e allora ella stava  per  un  momento  con
l'asticciuola della penna appoggiata al  labbro  di  sotto,  e  con  un  leggero
sorriso di benevolenza, rivolto alla sua immagine. Quegli l'amava, senza dubbio,
ed essa capiva che la sua era una di quelle passioni che han materia  da  ardere
per  tutta  la  vita.  Soltanto...  Tenne  la  sua  conferenza  sulle   pompiere
volontarie. Aveva scelto male la serata; c'era poca gente, fra cui una  trentina
di signore e  un  gruppo  di  studenti;  ma  riportò  fra  quei  pochi,  per  la
singolarità del  soggetto  e  per  la  vivezza  originale  dell'esposizione,  un
caloroso successo. Uno dei primi che le corsero a stringer la mano fu il giovane
Ginoni, con tanto di faccia fresca, come se nulla fosse accaduto fra loro; anzi,
con un sorriso scintillante in cui ella lesse con rammarico la risurrezione  del
suo capriccio. Infatti, al veder lei per la prima volta in pubblico, ammirata  e
applaudita, la sua passioncella aveva ripreso fuoco per la miccia della  vanità.
L'idea degli squisiti godimenti d'amor  proprio  che  egli  avrebbe  assaporati,
quando fosse riuscito a vincerla, ogni volta che l'avesse vista e udita  a  quel
modo, gli diede come un solletico irresistibile. E, non conoscendola a fondo, si
decise  a  una  nuova  mossa  da  giovanotto  impetuoso  e  leggero,  che  crede
nell'onnipotenza dell'assalto alla baionetta. Il giorno  dopo,  all'ora  in  cui
soleva uscir sola, egli l'aspettava sul pianerottolo del primo  piano.  Pioveva,
la scala era buia; quindi propizia. Per aver un  modo  d'entratura,  egli  aveva
comperato dal Berry un ritratto del Meller, il vincitore  del  primo  premio  di
Francoforte, del quale, in pochi giorni, s'eran diffuse migliaia  di  fotografie
in tutta l'Europa. Quando la sentí discendere,  salí  verso  di  lei.  Essa  era
veramente bella quel giorno, ancora un po'eccitata  dal  piccolo  trionfo  della
sera innanzi, tutta vestita di scuro, con un grande cappello nero che incoronava
mirabilmente la sua forte e snella persona. Il giovane si levò  il  cappello,  e
con allegra disinvoltura, mettendole davanti la fotografia: -  Signorina,  -  le
disse, - mi permette di offrirle un ritratto che forse è curiosa di vedere? Essa
avvicinò il viso con diffidenza; ma, appena letto il nome, mise  un'esclamazione
di piacere: - Meller! E, preso il ritratto,  si  accostò  al  muro  per  vederlo
meglio, sotto quel po' di luce che veniva dal finestrino della scala. Il giovane
le si strinse al fianco, come per guardare egli pure, e sporgendo il mento sopra
la spalla di lei, cominciò a dar delle spiegazioni a bassa  voce,  segnando  con
l'indice della mano destra: - Questo è un vero tipo tedesco. Guardi la struttura
del cranio, guardi che bocca. Eppure, se non si sapesse, non si direbbe che è il
primo ginnastico della Germania. Non pare piuttosto un  pacifico  professore  di
letteratura? Non mi vorrà mai dire  una  parola  consolante?  Sarà  sempre  cosí
indifferente con me? Avrà  sempre  un  cuore...  Il  passaggio  da  una  domanda
all'altra era stato cosí naturale, che  la  maestra  non  v'aveva  subito  posto
mente; ma lo avvertí bene e meglio sentendosi la guancia di lui contro la sua, e
un braccio intorno alla vita. Si  svincolò  con  una  brusca  mossa,  indignata,
dicendo: - Signor Ginoni, questo è un  agguato  ignobile!  Il  giovane  si  tirò
indietro, per farle una risposta comica, ma la rattenne  e  si  rabbuiò  vedendo
apparire in capo alla scala la faccia stravolta del segretario, il quale  veniva
giù lestamente, con un ritratto del Meller, lui pure!  Nondimeno,  egli  non  fu
scontento di trovare una scappatoia alla sua brutta figura. - Che  cosa  fa  lei
qui? - domandò al segretario, che s'era fermato e lo fulminava con gli occhi.  -
Non vien mica a riscuotere la pigione? Il segretario non seppe far di meglio che
ripetere fremendo le parole della maestra: - È un ignobile agguato! - Caspita! -
riprese il giovane, mentre  la  maestra  se  n'andava  lentamente,  -  È  un'eco
perfetta, salvo la trasposizione dell'aggettivo. Soltanto, badi, le parole dette
da lei io le piglio in tutt'altro  senso.  -  E  osa  ancora?...  -  esclamò  il
segretario, quasi fuor di sè. - Se non fosse il  rispetto  che  ho  per  il  suo
signor padre.., - Oh per carità! - interruppe lo studente. - In queste cose  non
c'entra nè il signor padre nè la signora madre. Son vent'anni che sono slattato.
Qui non ci sono che due uomini... Ma... per non sciupare il fiato, mi dica:  lei
è uno di quei segretari che si battono?... - Si! -  rispose  ad  alta  voce  don
Celzani, pigliando un'impostatura troppo tragica per l'occasione. - Sono uno  di
quelli che si battono. - E allora basta cosí, - disse  il  giovane  risoluto,  -
avrà l'onore di rivedermi. - E voltate le spalle, rientrò in  casa  sua.  Un'ora
dopo l'ingegnere  Ginoni,  informato  d'ogni  cosa  dalla  Pedani,  prendeva  il
cappello, seccato, e saliva le scale per  andar  dal  segretario,  col  fine  di
prevenire  ogni  passo  del  suo  figliuolo.  In  fondo,  benché  spiacentissimo
dell'offesa fatta alla signorina, considerava la provocazione del  giovane  come
una ragazzata; ma da uomo di mondo, che conosceva  i  riguardi  dovuti  all'amor
proprio d'un giovanotto vivo, capace d'intestarsi a voler condurre  a  fondo  la
cosa, la voleva accomodare all'amichevole, non già ritrattando  la  provocazione
in nome di lui, ma proponendo una conciliazione, per  la  quale  si  facesse  un
passo avanti dalle due parti. Si presentò dunque al segretario, che trovò  solo,
coi modi cordiali  d'un  amico.  Ma  quegli,  eccitato  sempre  dalla  passione,
eccitatissimo allora dalla  gelosia,  lo  ricevette  con  un  sussiego,  di  cui
l'ingegnere durò fatica a non ridere. Affabilmente, questi  gli  disse  che  era
stato informato dalla maestra, e che era venuto per comporre la contesa da buoni
amici. Deplorava l'atto del figliuolo, ma il duello sarebbe  stato  una  pazzia,
un'assurdità ridicola, di cui non c'era neppur da discorrere.  Bisognava  sopire
la cosa immediatamente. - Andiamo, caro segretario, - disse, - la maestra Pedani
è fuor di quistione; io posso fare, in nome di mio figlio, per quel che riguarda
la signorina, le più ampie scuse, com'è di  dovere.  Ma  per  ciò  che  riguarda
lei... non ci fu che un po' di vivacità dalle  due  parti.  Lei  non  ha  che  a
mostrare un po' di buon volere, e la cosa non avrà seguito alcuno,  ne  rispondo
io. Ma don Celzani non era più il don Celzani d'una volta. Stette su. - Io  sono
stato offeso, - disse. - Andiamo, - rispose l'ingegnere, - le parole  più  gravi
che si sian pronunciate sono «ignobile agguato», e le ha dette lei. Chi  ha  più
giudizio più ne metta. Lei ha quindici anni di più. Non è il caso di  stare  sui
puntigli, che diavolo! Ma il segretario l'aveva a morte per quel  certo  braccio
intorno alla vita. Questo era il punto, non la provocazione; per questo  era  di
difficile accomodamento, - Pretende forse che io m'umilii?- domandò, rizzando la
cresta. - Ma di che umiliazioni mi va parlando! - esclamò l'ingegnere. - Non  si
tratta di questo. Si tratta di salvar l'amor proprio  d'un  giovanotto,  che  ha
lanciato una provocazione: non la vuol capire! Si tratta di fare in maniera  che
non sia costretto a darci seguito. Non ha che da dire che  le  rincresce  d'aver
pronunciate quelle due parole, e le rispondo io che tutto  è  finito.  Oh  santo
Iddio! Ma è per punto d'onore o per  gelosia  che  è  tanto  duro?  Don  Celzani
rispose solennemente: - Per l'uno e per  l'altro.  L'ingegnere  lo  guardò...  e
perdette la pazienza. - Non credevo, -  disse,  contenendosi  a  stento,  -  che
l'amore le avesse vuotato il cervello a questo segno. Ma  dunque  lei  cerca  un
duello? Quegli alzò il capo, e rispose con tuono  veramente  eroico:  -  Non  lo
cerco, ma non lo temo. - E allora le dirò che è matto nel mezzo della  testa,  -
gridò l'ingegnere esasperato, -  e  che  se  le  piglierà,  saran  sue!  E  uscí
sbattendo l'uscio con violenza.

Un'altra scena tragicomica seguiva poche ore dopo al piano di  sopra,  cagionata
dal medesimo fatto. La Pedani essendo rientrata in casa, all'ora di  mettersi  a
tavola, col viso un po' turbato, la sua amica, che era allora  in  buon  accordo
con lei, gliene domandò il perchè, amorevolmente. Poco tempo addietro, ella  non
avrebbe rifiatato; ma ora che cominciava a sentire il bisogno di aprir  l'animo,
raccontò per filo e per segno, senza  un  sospetto  al  mondo,  quello  che  era
accaduto, esprimendo la sua inquietudine per ciò che  ne  poteva  seguire.  Alle
prime parole, la Zibelli ebbe un colpo al cuore: dissimulò non di meno, e stette
a sentir fino all'ultimo. Ma non potè rispondere una parola, tanto la rabbia  la
soffocava. Anche  lo  studente!  Ma  era  nata  per  la  sua  dannazione  quella
malaugurata creatura! E chi sa da quanti  mesi  durava  quell'amore,  a  cui  da
qualche settimana ella serviva di divagazione, e forse di stimolo!  Non  terminò
di mangiare, disse che non si sentiva bene. Ma se non si sfogava, schiattava.  E
non si potendo sfogare, per dignità, su quell'argomento, ne cercò un altro,  con
impazienza febbrile. Finita in fretta la sua cena, la Pedani aperse sulla tavola
ancora apparecchiata un atlante del Baumann, e prese ad esaminar le  figure.  La
Zibelli passeggiava per la stanza, mordendosi le labbra. A un tratto,  si  fermò
dietro alle spalle dell'amica, e dando un'occhiata ai disegni, esclamò: - -  Che
atteggiamenti da pagliacci, Dio mio! Stuzzicata da quella parte,  la  Pedani  si
risentiva subito e sempre. Rispose: - Ma trovate una volta una critica nuova, se
potete! Non fate che ripetere da anni e anni le stesse dieci parole! - È  perchè
son sempre giuste, - ribatte la Zibelli. - E poi,  fin  che  farete  i  sordi  e
starete sempre in adorazione del gran capo acrobata,  come  gli  artisti  pagati
d'una compagnia! Era un'impertinenza; ma la Pedani non pigliava  mai  nulla  per
sè, non vedeva che l'argomento contrario. - Gran capo acrobata! -  esclamò,  con
un sorriso ironico. - Ha più buon senso e talento il Baumann in un dito  mignolo
di quel che n'abbian nel cervello tutti gli  obermannisti  passati,  presenti  e
futuri. La quistione è giudicata. - Ah non ancora! - rispose la Zibelli, facendo
una spallata. - Il Baumann è un grande sconclusionato, che fa, disfà, senza aver
nemmeno un'idea chiara e fissa del proprio metodo, e mette il mondo sossopra per
far rumore. Non è altro! - Il Baumann, - disse pacatamente la Pedani, - ha  dato
una ginnastica all'Italia, che non l'aveva. - Come si può dir questo, -  rispose
la Zibelli, - mentre non ha fatto che esagerare tutto quello che c'era e voltare
il modello in caricatura, che è la cosa più facile di  questo  mondo?  -  Oh!  è
un'indegnità! - esclamò la Pedani. - E chi, fra l'altre cose, ha  insegnato  pel
primo al vostro Obermann la ginnastica fra i banchi? E come potete  parlare  voi
in nome dell'Obermann, che era progressista, che  sarebbe  baumannista  ora,  se
vivesse, senza un dubbio al mondo, perchè aveva talento, mentre  voi  non  siete
nemmeno conservatori, e degenerate ancora da lui? La Zibelli diventò  livida,  e
smise di ragionare. - Ebbene, - rispose, - se anche fosse, tutto  è  preferibile
all'andare avanti con voialtri, con la vostra ginnastica da  Alcidi  di  piazza,
pericolosa pei fanciulli, indecente per le ragazze, brutale e ciarlatanesca  per
tutti. Quando l'amica dava in escandescenze, la Pedani ritornava padrona di  sé,
- Ebbene, - rispose con trascuranza, - lasciate che ci rompiamo la testa noi,  e
tenetevi la vostra ginnastica da marmocchi. Non vi farete la bua e salverete  il
pudore, Questo fece uscir la Zibelli dalla grazia di Dio.  -  Non  voglio  esser
derisa... per giunta! - gridò. - Sono stanca d'essere ingiuriata! È un  pezzo...
Oh! non ne posso più! non ne posso più! E uscí sbatacchiando l'uscio  con  tutta
la sua forza, e lasciando la Pedani col suo atlante  davanti,  più  stupita  che
offesa. Ma anche più stanca che mai di tutti quei  mutamenti,  di  tutte  quelle
sfuriate, di cui non sospettava che vagamente la  cagione,  ma  che,  diventando
sempre più frequenti, le rendevano oramai insopportabile quella convivenza.

Tutto andò sempre più a traverso, in quei giorni, anche per  don  Celzani.  Egli
non vide i  padrini  dello  studente,  perchè  l'ingegnere  aveva  rigorosamente
proibito al figliuolo di dar corso alla cosa; ma, incontrando due giorni dopo la
signora Ginoni, ch'era sempre stata  gentile  con  lui,  fino  a  fargli  portar
qualche volta a braccetto su per le scale la sua  magrezza  indolente,  ebbe  il
dolore di non vedersi restituito il saluto. E sarebbe stato offeso anche di  più
dell'affronto se avesse saputo che quella  brava  signora  non  l'aveva  diretto
all'offensore del figliuolo, ma all'innamorato della maestra,  come  quello  che
intralciava al suo adorato Alfredo  una  conquista  galante,  sulla  quale  ella
sarebbe stata lieta di chiudere i suoi occhi  materni!  Ebbe  poi  il  colpo  di
grazia quello stesso  giorno,  ricevendo  il  medesimo  affronto  dall'ingegnere
Ginoni, che gli passò accanto in via San  Francesco,  senza  neppur  voltarsi  a
guardarlo. Era dunque rotta ogni relazione  con  tutta  la  famiglia,  e  questo
crebbe ancora lo stato d'eccitamento morboso  della  sua  passione.  Ebbe  altri
dispiaceri il giorno di poi. Fra l'altre ragazze che salivano a prender  lezioni
private di ginnastica al terzo piano, v'era una specie di zingarella coi capelli
corti, figliuola d'una venditrice  di  pomate  e  di  saponette,  e  maestra  di
ginnastica  essa  pure,  la  quale  andava  dalla  Pedani  a  farsi  fare  delle
«combinazioni» di passi  ritmici,  che  poi  dava  per  sue;  ed  essendo  molto
appassionata per l'arte, e un po' stramba, faceva continui esperimenti, dovunque
fosse, con le gonnelle alla mano, come se avesse il ballo di San  Vito.  Ora  le
signorine divote del primo piano, avendola sorpresa due volte sul  pianerottolo,
mentre dava dei  saggi  a  calze  scoperte  a  un'altra  allieva  della  Pedani,
scandalizzate e furiose, mandarono a chiamare  il  segretario  perchè  impedisse
quelle indecenze, e gli dissero che «non si sapeva più che cosa, per causa della
Pedani, fosse diventata la casa», Il segretario, punto nel suo amore, e già  mal
disposto, rispose con male parole, quelle lo rimpolpettarono, egli alzò la voce,
e  allora  lo  misero  all'uscio,  minacciando  di  ricorrere  al   padrone,   e
ordinandogli di non salutarle mai più. Gli seguí  anche  di  peggio  nei  giorni
seguenti. Il professor Padalocchi lo incaricò di andar a pregare in nome suo  il
maestro Fassi, che a una cert'ora cessasse di far saltare e giocar  coi  manubri
la sua figliuolanza, perché  lo  disturbavano  nei  suoi  studi  di  lingua.  Il
segretario, già irritato, non fece 1'ambasciata coi riguardi dovuti, e si lasciò
sfuggire la parola baccano. Il maestro andò su tutte le furie.  Chiamar  baccano
degli esperimenti scientifici, le  preparazioni  pratiche  e  ragionate  ch'egli
faceva delle proprie lezioni, torturandosi il cervello per il bene dell'umanità,
gli pareva il  non  plus  ultra  dell'audacia,  e,  spalleggiato  dalla  moglie,
rimbeccò il segretario in tutte  le  regole,  alludendo  con  impertinenza  alla
Pedani; poi lo mise all'uscio, minacciandolo, e s'andò a lagnare col professore;
il quale, accusando don Celzani d'aver adempito male l'incarico e compromesso un
professore con un marrano, lo redarguí, si offese delle sue risposte  e  non  lo
guardò più in faccia. Era dunque in rotta con tutti, oramai, su quella scala. Ma
c'era di più. Delle sue distrazioni e della sua irritabilità avevano  motivo  di
lagnarsi da un pezzo anche gl'inquilini dell'altra parte della casa; e poiché la
notizia del suo innamoramento, causa di quella gran  mutazione,  s'era  diffusa,
tutti parlavano alto e basso di lui, senza riguardi. Insomma,  l'ostinatezza  di
quel pretucolo fallito a voler  una  ragazza  che  non  lo  voleva,  pareva  una
petulante  pretensione,  un  indizio  d'orgoglio  ridicolo,  o  d'imbecillimento
addirittura. E non gli facevan neppur l'onore di chiamarlo amore il suo:  doveva
essere una brutta passionaccia di seminarista  invecchiato,  e  gli  si  leggeva
negli occhi; raccontavano anzi di tentativi brutali ch'egli aveva fatto  con  la
signorina su per le scale, gli davan del porco, lo guardavan per  traverso;  poi
cominciarono a fargli dei piccoli sgarbi, a cui egli rispose con  altri  sgarbi;
lo inasprirono fino al punto che diventò egli stesso  provocatore.  Allora  vari
inquilini si lagnarono per lettera al commendatore, alcuni  di  essi  accennando
all'amore scandaloso, alla persecuzione sfacciata che  faceva  alla  maestra,  a
scene che seguivan per le scale e sotto  il  portone,  tali,  che  le  madri  di
famiglia non potevan più uscire con le loro ragazze,  senza  correr  rischio  di
doversi coprire il viso col ventaglio. Fecero tanto, fra tutti, che un giorno il
commendatore perdette finalmente la pazienza, e decise di far al nipote l'ultima
intimazione, quando fosse rientrato pel desinare. Non avrebbe non di meno  usato
le parole più gravi perchè era disposto al buon umore  da  una  letterina  della
Pedani, che lo invitava per due giorni dopo a un saggio ginnastico delle  Figlie
dei militari, nel quale si riprometteva di far delle osservazioni  profonde.  Ma
s'indispettí al veder comparire il segretario colla fronte fasciata,  pallido  e
impolverato. Gli domandò che cosa aveva. Egli  lo  disse.  Alla  Palestra  (dove
continuava a andare, anche dopo persa ogni speranza, per domare  i  suoi  nervi)
essendosi lanciato (per disperazione) a un esercizio troppo ardito  sulla  trave
d'equilibrio, gli era fallito un piede, ed era caduto giù, picchiando  del  capo
in una delle travi di sostegno. Il commendatore s'irritò anche  di  quello,  che
chiamò una pagliacciata. Poi gli disse fuor dei denti, con una severità che  non
aveva mai mostrata con lui, che era stanco della sua negligenza, della sua  vita
disordinata e indecorosa, e delle lagnanze che gliene venivan da ogni  parte,  e
che lo scandalo doveva avere una fine, e che se nello spazio d'una settimana non
avesse visto radicalmente mutata la sua condotta, egli l'avrebbe cacciato  fuori
di casa. Aveva già messo gli occhi sopra un altro. Detto  questo,  e  avvisatolo
che voleva desinar solo, lo piantò.

E allora egli cadde nell'ultima disperazione, la quale non  lasciò  più  che  un
dubbio nella sua mente sconvolta: se dovesse partir per Genova e imbarcarsi  per
l'America, o rimanere a Torino e profondere il suo piccolo patrimonio in bagordi
e pazzie, per istupidirsi e dimenticare. In ogni modo, se ne doveva andar subito
da quella casa, dove la vita non era più tollerabile. In  silenzio,  apparecchiò
le sue robe fino a notte inoltrata. Poi si buttò vestito sul letto. Ma non  potè
dormire. Acceso dalla febbre, tese  l'orecchio  per  l'ultima  volta  ai  rumori
usati. E quella notte i rumori furon continui. Il tanto aspettato Congresso  dei
maestri s'era aperto da una settimana: il giorno dopo era appunto quello fissato
per la discussione del quesito della ginnastica,  sul  quale  la  Pedani  doveva
pronunciare il suo discorso: essa era agitata, scendeva da letto a ogni poco, vi
risaliva, tornava a scendere, girava per la camera. Egli sentiva  i  suoi  piedi
nudi. E fu quella per lui una tortura dei sensi atrocissima; ma  sopraffatta  da
un grande sentimento di tenerezza, da un rammarico profondo di dover  abbandonar
per sempre quella camera, di non aver a udir mai più quei  rumori  familiari  al
suo orecchio, che egli amava oramai, perché gli ricordavano tante notti insonni,
tanti desideri, tante fantasie, tante tristezze,  e  che  non  avrebbe  mai  più
dimenticato, n'era certo. Riandò nella mente il passato, si levò ritto sul letto
per sentir meglio i suoi passi e i suoi sospiri, la invocò, le parlò, pianse, si
morse i pugni, passò una notte di condannato a morte. All'alba si levò stanco  e
sbattuto: la ferita al capo gli doleva.  Stette  incerto  tutta  la  mattina  se
dovesse accomiatarsi da lei con una lettera o andare in persona. Decise d'andare
in persona. E al tocco e mezzo salí le scale. La maestra era sola in casa, e  un
po' triste. Dopo la scenata che aveva fatto  per  lo  studente,  la  Zibelli  le
rendeva la vita amara con una nuova stranezza: pareva che volesse sfogare la sua
passione sulla tavola: voleva spendere e spandere in  ghiottonerie,  metteva  le
spese di cucina per una via, sulla quale non si poteva  andare  avanti;  e  pure
mangiando con l'avidità d'uno struzzo, si lagnava d'ogni  cosa,  attaccava  liti
indiavolate per una salsa andata a male, per il pane troppo cotto, per la  carne
troppo dura, per l'aceto senza gusto. La Pedani non  ne  poteva  veramente  più.
Quel serpente le aveva avvelenato anche quella mattinata,  nella  quale  avrebbe
avuto tanto bisogno di serenità di spirito,  per  prepararsi  al  suo  discorso.
Morsa, oltre che dall'altra, anche dalla gelosia del suo  prossimo  trionfo,  la
Zibelli non aveva potuto resistere  al  supplizio  di  vederla  fino  all'ultimo
momento, e dopo averle fatto una delle scene solite, sferzando la sua  ambizione
e presagendole un fiasco, se n'era andata senza desinare. La  Pedani  stava  nel
salottino, dando l'ultima passata al suo  manoscritto,  già  abbigliata  per  il
Congresso, che cominciava  alle  due  e  mezzo,  Aveva  un  vestito  nero  senza
guarnizioni, che la stringeva come una maglia, e la faceva parer più  bianca  di
carne e più alta di statura; e l'agitazione dell'animo  dava  al  suo  viso  una
espressione di sensitività, che non aveva mostrata mai. Era sola, e non  ostante
l'aspettazione dell'ora desiderata e il bel sole che le empiva d'oro la  stanza,
era malinconica. Alcune amiche che la dovevan venire a prendere per farle animo,
non eran  venute.  Quella  solitudine  le  pesava:  ella  non  aveva  mai  tanto
desiderato la compagnia. Fece dunque un atto quasi  d'allegrezza  quando  le  fu
annunziato il segretario. Questi entrò col cappello in  mano,  notò  il  vestito
nero e mise un sospiro. Con quella fronte  bendata,  pallido,  avvilito,  triste
come una cassa da morto, era veramente una figura da  far  compassione.  Non  si
volle sedere. La maestra gli domandò subito che cos'avesse al capo - Caduto alla
Palestra, - rispose. E soggiunse che veniva a salutarla per l'ultima  volta.  La
Pedani credette che partisse, come ogni anno, per la campagna. E gli domandò:  -
Non viene neppure al Congresso? Il segretario,  che  aveva  visto  il  biglietto
d'invito dallo zio, se n'era dimenticato. Ebbene, sí, sarebbe  andato  prima  al
Congresso, l'avrebbe vista ancora una volta nella piena luce della sua  bellezza
e del suo trionfo, e sarebbe partito poi, con quell'ultima immagine davanti agli
occhi. Ma non disse questo; la ringraziò  soltanto  del  biglietto  ch'essa  gli
porse. - Parto...- disse poi, con voce commossa, - Son  venuto  a  salutarla....
per sempre. La maestra lo guardò, e capí ogni  cosa.  Ma  non  trovò  parola  da
dirgli. Infatti, che gli poteva dire?  Ella  sentiva  che  qualunque  più  lieve
esortazione a rimanere sarebbe stata una lusinga, quasi una promessa, e  la  sua
schietta natura non le consentiva di farla, perché non l'avrebbe potuta fare che
con la determinata intenzione di mantenerla. Scansò i suoi occhi,  guardò  verso
la finestra, imbarazzata. Poi, vedendo che teneva  lo  sguardo  basso,  tornò  a
guardar lui, meditando. Essa sapeva tutto e tutto le tornò alla  mente  in  quel
punto. L'aveva trovato in quella casa  assestato,  operoso,  tranquillo,  buono,
benvoluto da tutti. Egli aveva cominciato a perder la pace per lei. E tutto  era
derivato di lí. La maestra Zibelli s'era inimicata per  la  prima  con  lui,  il
maestro Fassi l'aveva preso in odio, i Ginoni gli avevan voltate le  spalle,  lo
studente lo voleva sfidare, il professor Padalocchi  non  lo  salutava  più,  le
signorine del primo piano l'avevan messo  alla  porta,  tutti  gl'inquilini  gli
avevan dichiarato guerra, il commendatore lo voleva  cacciar  di  casa,  l'aveva
cacciato forse, ed egli se  n'andava  solo  e  ramingo.  E  quanto  doveva  aver
sospirato prima ch'ella se ne avvedesse, e poi sofferto dei disinganni  e  delle
umiliazioni, e quanto la doveva amare per ostinarsi  a  quel  modo,  dopo  tanti
rifiuti di lei, e a dispetto di tutti, e con tanto danno proprio! E infine,  per
lei, s'era rotto la testa. E guardò la sua fasciatura. E, come avviene  sovente,
fu ciò che v'era di comico in quel povero capo fasciato, e nell'immagine che  le
si presentò di lui ruzzolante giù dalle travi  d'equilibrio,  quello  che  diede
l'ultima mossa alla sua pietà, e  la  spinse  per  la  prima  volta  fino  a  un
sentimento  di  tenerezza.  Ma  il  povero  don  Celzani,  che  non  le  leggeva
nell'animo, non vide  che  il  sorriso  che  esprimeva  il  penultimo  dei  suoi
pensieri, e lo credette una canzonatura. E quello fu il suo colpo  di  morte.  -
Ah! - esclamò con accento d'angoscia disperata, alzando gli occhi  e  allargando
le braccia, - questo poi non  dovrebbe...  Lei  mi  fa  troppa  pena  in  questo
momento! - Oh, signor Celzani, che cosa crede? - domandò con slancio la maestra,
balzando verso di lui. Ma una musica  di  voci  allegre  risonò  in  quel  punto
nell'anticamera, e un drappello di maestre vestite in gala e  ridenti  irruppero
nel salotto, e dato appena uno sguardo al segretario, s'affollarono intorno alla
Pedani, facendo un coro di  saluti  e  d'esclamazioni.  Erano  le  compagne  che
venivano a prenderla per condurla al Congresso, erano la sua passione, il mondo,
la gloria, che  gliela  strappavano  che  gli  rapivano  anche  la  consolazione
dell'ultimo addio. Don Celzani diede ancora un ultimo sguardo d'adorazione, pura
in quel momento, a quella bella creatura a cui non avrebbe parlato  mai  più,  e
ribevendosi le lacrime, uscí,  non  veduto.  Il  Congresso  sedeva  nel  Palazzo
Carignano, nell'aula ancora intatta dell'antico  Parlamento  subalpino.  V'erano
forse quel giorno più di trecento congressisti, tra maestre  e  maestri,  sparsi
senz'ordine sugli scanni rivestiti di velluto, pochi dei quali eran  vuoti.  Uno
spettacolo nuovo offriva quel salone illustre dove era risonata la voce dei  più
grandi campioni della rivoluzione d'Italia  nei  momenti  più  terribili  e  più
gloriosi della nostra storia, occupato ora da una folla d'insegnanti elementari,
che rappresentavano anche nell'aspetto e nei panni tutti i ceti sociali.  Eppure
non si prestava  allo  scherzo  il  raffronto,  poiché  faceva  pensare  che  il
Parlamento italiano si trovava allora molto lontano, in  una  città  dove  pochi
anni prima sarebbe parso un sogno a chi sedeva  là,  ch'ei  si  potesse  trovare
pochi anni dopo. Sopra quegli scanni dove i torinesi avevan  visto  biancheggiar
delle canizie venerande e dei crani spelati  di  legislatori,  si  rizzavano  da
tutte le parti penne e fiori di cappellini di maestre, disposte  in  file  o  in
gruppi, da cui s'alzava un cinguettio di nidi di passere. Al posto di  Garibaldi
sedeva un vecchio maestro di campagna col gozzo. Sullo scanno del  conte  Cavour
si dondolava un giovanotto imberbe, con un garofano all'occhiello. La presidenza
era tenuta da un grosso  maestro  prete,  napoletano.  Si  riconosceva  a  primo
aspetto, dalla varietà dei visi, che quello non era un congresso  regionale,  ma
formato di maestri d'ogni  provincia  d'Italia;  fra  i  quali  predominavan  le
capigliature e le carnagioni brune delle  terre  meridionali.  Sui  banchi  alti
c'era un gran numero di signorine  variamente  vestite:  maestre  patentate,  ma
senza impiego, intervenute come spettatrici, per curiosità, molte con dei  fogli
davanti e con la penna in mano per pigliar degli appunti, e in mezzo a loro  dei
ragazzi e delle ragazzine,  loro  fratelli  e  sorelle.  Due  alti  uscieri  col
panciotto giallo e le calze  bianche  giravano  per  l'aula.  Le  tribune  erano
affollate d'altri insegnanti e di parenti dei congressisti, e si vedevano  nelle
prime file alcune  delle  più  illustri  autorità  ginnastiche  di  Torino,  dei
professori, dei medici, dei rappresentanti di giornali. Non c'era  ancora  stata
una adunanza cosí piena, né un'agitazione cosí viva. Quando  don  Celzani  entrò
nell'antica tribuna pubblica la seduta era già aperta da  quasi  un'ora.  Appena
seduto, egli cercò la Pedani. Non la trovò subito. Vide invece la Zibelli in uno
dei banchi più bassi, di faccia alla presidenza, in mezzo ad altre due  maestre,
ch'egli non conosceva, e risalendo con lo sguardo su pei banchi di dietro, trovò
il profilo caporalesco del maestro Fassi, che aveva intorno un grosso  drappello
di maestri di ginnastica di Torino; quasi tutti visi d'antichi militari,  fra  i
quali riconobbe la testa bionda del maestro della  Generala.  Ma,  dov'era  lei?
Dopo aver cercato un altro po'alla ventura, la ritrovò finalmente,  riscotendosi
tutto, in uno dei banchi più alti di destra dove  avevan  seduto  i  Massari,  i
Boggio, i Lanza, la più fedele pattuglia del grande ministro. Era  in  un  posto
vicino al finestrone, in mezzo allo stuolo vivace delle maestre ch'eran venute a
prenderla a casa, e che le facevano intorno come una scorta d'onore. La luce del
sole che entrava pel finestrone accendeva tutta la parte destra  del  suo  corpo
serrato nel vestito nero. Aveva delle carte davanti, discorreva con  le  vicine,
pareva un po'agitata. Il segretario pose un pugno sull'altro sopra il parapetto,
appoggiò il mento sui pugni, e rimase immobile cosí, guardandola, confortato  da
un'ultima speranza: che una volta sola, alzando gli occhi  verso  quella  parte,
ella avesse incontrato il suo sguardo. Sarebbe stato l'ultimo addio.  Poi  tutto
sarebbe finito. Di nessun'altra cosa si curava. Come, entrando, non aveva nemmen
guardato quell'aula storica che non aveva mai vista, cosí non sentí neppure  una
parola dei discorsi che allora vi risonavano. La discussione  s'aggirava  ancora
intorno al tema che era già stato trattato il  giorno  avanti:  sull'opportunità
d'introdurre nelle scuole gli esercizi di lavoro manuale. Aveva  parlato  prima,
con grande dolcezza, una maestrina veneta, facendo vedere un modo trovato da lei
d'insegnare a far dei canestrini con nastri di carta, e un saggio dell'opera sua
andava girando di mano in mano per i banchi, dove  le  maestre  si  provavano  a
rifare il lavoro. Poi aveva parlato un maestro calabrese, con una voce  cantante
e lamentosa, mostrando una grossa cesta piena di lavori fatti nella sua  scuola,
fra i quali c'era anche un paio di scarpe. Dopo di lui,  avendo  parlato  alcuni
oratori dissenzienti, la discussione s'era accalorata  e  inasprita.  Una  bella
maestra, che faceva da segretario,  dovette  rileggere  una  parte  del  verbale
dell'altra seduta. V'era in  un  banco  dell'estrema  sinistra  una  schiera  di
giovani maestri lombardi arditi e battaglieri, che il presidente, con  tutta  la
sua pazienza sacerdotale, non riusciva a racquetare. Due  maestri,  dalle  parti
opposte dell'aula, si scambiarono delle parole acri. In somma,  una  gran  parte
del tempo se n'andava in  quistioni  di  prammatica  parlamentare,  gli  oratori
sentivano l'influsso dell'aura politica della sala, parlavano con troppa enfasi,
mostravan un amor proprio eccitabile. Don Celzani fu un momento distratto da una
grossa voce che gridò solennemente: - I rappresentanti di Milano non hanno alcun
mandato imperativo -. Poi lo riscosse di nuovo una  salva  d'applausi  fatta  in
onore d'una maestra, la quale, con voce di soprano, aveva detto che se si  fosse
adottato il lavoro  manuale  nelle  scuole,  sarebbe  stato  giusto  un  aumento
proporzionato di stipendio. Poi seguí  un  nuovo  arruffio.  Infine  un  maestro
piccolo e grasso, con poche parole lucide e piene di buon senso, rimise la pace,
e il presidente potè porre ai voti un ordine del giorno,  per  alzata  di  mano.
Duecento braccia s'alzarono, fra cui  si  videro  moltissimi  guanti  di  donna,
abbottonati fino al gomito; un applauso seguí la votazione, e si passò all'altro
tema che eran le Modificazioni da proporsi nell'insegnamento  della  ginnastica.
L'annunzio del tema fece dare uno scossone a don Celzani,  che  credeva  che  la
Pedani parlasse subito. E nel volger  gli  occhi  da  quella  parte,  egli  vide
comparir nella tribuna in faccia alla sua, proprio sul capo  della  maestra,  il
viso ridente dell'ingegner Ginoni. Ma  la  sua  aspettazione  fu  delusa.  Altri
parlarono prima, maestri e maestre. La discussione, da principio,  s'aggirò  con
molto disordine sul lato tecnico dell'argomento, al qual  proposito  si  sfoggiò
una fraseologia tecnologica, di cui i profani non capirono nulla, e si sentí  il
cozzo delle due scuole, e i nomi del Baumann e dell'Obermann proferiti in  mezzo
a un grande tumulto, dominato per un momento da una voce cavernosa che gridò:  -
Torino che fu la culla della ginnastica, ne sarà la tomba! - Un maestro richiamò
l'attenzione del Congresso sulla opportunità  di  riformare  il  linguaggio  non
abbastanza italiano del regolamento di ginnastica, esponendo il  parere  che  si
proponessero certi quesiti all'Accademia della Crusca. Don Celzani  credeva  che
il maestro  Fassi  avrebbe  parlato;  e  infatti  egli  s'agitava,  approvava  e
disapprovava violentemente, gridando: - No! - Mai! - Questa è grossa! -  Un  po'
di buon senso! - ma non domandò la parola. Un maestro di ginnastica dimostrò  la
necessità di migliorare le condizioni dei suoi  colleghi,  ch'erano  pagati  dal
Governo, ma senz'aver alcuno dei diritti degli altri impiegati, che si trovavano
in uno stato precario,  sottoposti  all'arbitrio  dei  presidi  di  liceo  e  di
ginnasio, i quali aprivano il corso in ritardo, non li ammettevano, come sarebbe
stato giusto, nelle Commissioni  per  le  esenzioni,  concesse  quasi  sempre  a
capriccio, e non li  spalleggiavano  nella  disciplina.  Quindi  la  discussione
s'imbrogliò e s'infiammò da capo in una controversia di metodo, nella  quale  si
udirono accenti di tutte le parti d'Italia. Il segretario  cominciava  a  temere
che la Pedani non avrebbe più parlato, e si  preparava  con  grande  amarezza  a
rinunciare a quell'ultima voluttà di sentir la sua voce, di vedere applaudito  e
onorato il suo idolo, di portar via la propria  disperazione  quasi  dorata  dal
raggio di quella gloria.  Ogni  nuovo  maestro  che  parlava,  gli  premeva  che
finisse, gli pareva che prolungasse apposta il suo supplizio, ed egli ne contava
le parole fremendo. Finalmente, dopo un breve discorso d'una maestra toscana che
si fece applaudire citando a nostra vergogna il piccolo Belgio, dove si offrivan
venticinquemila lire di premio all'autore d'un buon libro sulla  ginnastica,  il
presidente disse ad alta voce: - La parola è  alla  signora  Maria  Pedani.  Don
Celzani scattò, come se lo avesse avvolto  una  fiamma.  Corse  prima  un  sordo
mormorio, poi si fece un grande silenzio, il quale significava  che  la  maestra
era conosciuta per fama, e il discorso, aspettato: tutti  i  visi  si  voltarono
verso di lei. Al primo vederla in piedi, eretta con  tutto  il  busto  sopra  il
banco, alta e possente, col bel viso ovale pallido,  ma  risoluto,  s'intese  un
nuovo mormorio, come un commento favorevole alla sua persona,  il  quale  subito
cessò. Un secondo senso di stupore destarono le prime note della sua voce  bella
e strana, quasi virile, ma armoniosa, che corrispondeva perfettamente  al  corpo
poderoso e svelto. Essa cominciò col dire che nessun  miglioramento  si  sarebbe
conseguito  sia  nell'attuazione   della   ginnastica   che   nella   condizione
degl'insegnanti, se al Governo, ai municipi, a tutte le autorità  non  si  fosse
fatta sentire, come in altri paesi, la forza imperiosa della voce della nazione,
profondamente persuasa dei benefizi di quell'insegnamento e fermamente  risoluta
a volerli. Il primo debito di tutti, e in particolar modo degli insegnanti,  era
dunque di far  propaganda  di  quell'idea,  d'inculcarla  nella  ragione,  nella
coscienza, nel cuore del popolo di tutte le classi. Essa parlava  lentamente  da
prima, corrugando la fronte in  segno  d'impazienza  quando  la  parola  non  le
veniva, e facendo un atto dispettoso quando s'imbrogliava in  un  periodo,  come
per lacerare la rete che l'avvolgeva, ed esprimere il suo pensiero a ogni costo.
- Anche per la ginnastica, - proseguí dicendo, - l'Italia aveva fatto  come  per
tant'altre cose, come, per esempio, per l'istruzione militare delle scolaresche:
c'era stato da principio un grande entusiasmo, dal quale, a poco a  poco,  s'era
caduti nella più vergognosa trascuranza, fino a gettare il ridicolo sull'idea  e
sui suoi devoti. Ma alla ginnastica accadeva di  peggio.  Era  sorto  contro  di
questa e s'andava ingrossando un esercito  di  nemici,  dei  quali  le  autorità
scolastiche subivan la forza, per modo che l'insegnamento  tendeva  a  diventare
una  vana  mostra,  una  miserabile   impostura,   anzi   un'aperta   irrisione.
L'ignoranza, una vile paura di pericoli immaginari, l'infingardaggine nazionale,
la  perfidia  di  certe  genti  interessate,   che   giungevano   con   inaudita
sfacciataggine fino a addebitare  alla  ginnastica  le  infermità  e  i  difetti
organici della gioventù che essa aveva per istituto di correggere,  congiuravano
insieme. E sarebbe stata una cosa  incredibile  se  non  si  fosse  veduta  ogni
giorno. - Nemici della  ginnastica,  -  disse,  -  sono  dei  colti  professori,
acciaccosi a quarant'anni come ottuagenari, appunto per aver  troppo  affaticato
il sistema cerebrale a danno dei muscoli. Nemiche  della  ginnastica  son  delle
madri di fanciulle senza carne e senza sangue, future  madri  anche  esse  d'una
prole infelice, per non aver mai esercitato le forze  del  corpo.  Nemici  della
ginnastica, dei padri di giovinetti  che,  per  l'eccesso  delle  fatiche  della
mente, cadono in  consunzione,  contraggono  malattie  cerebrali  terribili,  si
abbandonano all'ipocondria e meditano  il  suicidio!  Nemici  e  derisori  della
ginnastica a mille a mille, mentre la crescente facilità della locomozione  e  i
raddoppiati comodi della vita già tendono a renderci inerti e fiacchi; mentre la
rincrudita lotta per  l'esistenza  richiede  a  tutti  ogni  giorno  un  maggior
dispendio di forza e  di  salute;  nemici  della  ginnastica  mentre  siamo  una
generazione misera, sfibrata e guasta, che fa  rigurgitar  gli  ospedali  e  gli
ospizi di deformità  e  di  dolori!  Quale  cecità!  Quale  insensatezza!  Quale
vergogna! Le ultime parole furono accolte da uno scoppio di applausi. La  Pedani
prese animo, e incominciò a fare un confronto del discredito e della  frivolezza
della ginnastica in Italia con l'onore in cui era tenuta presso  altre  nazioni.
Qui commise l'errore di diffondersi un po' troppo in  citazioni  statistiche,  e
qua e là si manifestò un principio di opposizione. Due o tre gruppi  di  maestre
si misero a bisbigliare tra loro per distrarre l'uditorio. Don Celzani sentí  il
maestro Fassi, che non guardava mai l'oratrice, esclamar due  o  tre  volte  con
dispetto: - È fuori dell'argomento! - Son cose che si sanno! - Una volta esclamò
forte: - Bella novità! - tanto che molti si voltarono.  Ma  la  Pedani  uscí  in
tempo dal mal passo, accennando alle recenti feste di Francoforte con un periodo
veramente felice, in cui l'uditorio vide per un momento davanti a sé  la  grande
palestra riboccante del fiore della gioventù germanica, e sentí come la vampa di
quel gagliardo entusiasmo passar sopra il suo capo. La maestra  s'accendeva  nel
viso, spiegava la voce con una sonorità  potente,  tagliava  l'aria  col  gesto,
senza smodare, col vigore  d'una  sacerdotessa  ispirata.  E  si  sentiva  tutta
l'anima sua  in  quella  sincera  eloquenza,  s'indovinava  tutta  la  sua  vita
consacrata a un'idea, una gioventù che era come una  lunga  adolescenza  severa,
affrancata dai sensi, repugnante a ogni specie di  affettazione  sentimentale  o
scolastica, semplice di costumi e  di  modi,  purificata  e  fortificata  da  un
esercizio continuo delle forze fisiche, del quale erano effetto manifesto la sua
salute fiorente, la mente limpida e  l'anima  retta  ed  ardita.  E  quando  con
l'ultimo tratto ella fece  passare  nell'aula  la  figura  del  vecchio  Augusto
Ravenstein, fondatore della prima palestra del suo popolo,  seguito  dal  corteo
dei  grandi  ginnasiarchi  tedeschi,  benefattori  di  milioni  di  fanciulli  e
benemeriti della  potenza  e  della  gloria  della  Germania,  scoppiò  un'altra
acclamazione fragorosa, che scosse lei e tutta l'assemblea, e la interruppe  per
un po' di tempo; durante il quale  le  sue  compagne  le  si  strinsero  intorno
afferrandole i panni e le mani, e affollandola di rallegramenti. E  allora  essa
corse  fino  alla  fine,  con  crescente  fortuna.   Ritornando   sull'argomento
fondamentale  del  suo  discorso,   insistette   sulla   necessità   che   tutti
gl'insegnanti  s'adoprassero  a  persuadere  le  famiglie  altrettanto  che   ad
ammaestrare gli alunni. Alle maestre più che ad  altri  spettava  quell'ufficio,
perché, esercitata dalle donne, avrebbe avuto maggior efficacia la propaganda in
favore d'una disciplina in cui esse non potevano eccellere, e  che  rimoveva  il
sospetto dell'ambizione. - Rivolgiamoci alle madri, -  disse,  -  facciamo  loro
vedere, toccar con mano gli effetti meravigliosi della  educazione  fisica,  che
sono evidenti e infallibili come i resultati d'una scienza  esatta;  persuadiamo
loro che la ginnastica è la forza e  la  salute,  e  che  salute  e  forza  sono
serenità, bontà, coraggio e grandezza d'animo! E se non bastano il  ragionamento
e l'esempio,  preghiamole,  leviamo  loro  di  mano,  con  amorosa  violenza,  i
fanciulli e le fanciulle deboli ed esangui, supplichiamole perché ce li  lascino
salvare  dalle  malattie,  dalla  infelicità,  dalla  morte.  Oh!  se  potessimo
trasfondere in tutte l'indomabile ardore che è in  noi!  E  prima  d'ogni  cosa,
abbiamo fede in noi stessi, una fede ardente e invincibile che  la  nostra  idea
sarà un giorno l'idea di tutti, e che un nuovo sistema  d'educazione  rifarà  il
mondo, Sí, io lo credo come credo nell'esistenza del sole che ci  illumina.  Una
nuova educazione, fondata sopra un esercizio perfezionato  delle  forze  fisiche
dell'infanzia e  della  gioventù,  preverrà  innumerevoli  miserie,  risparmierà
all'umanità innumerevoli dolori, falcerà mille vizi alla radice, agevolerà  alle
generazioni che saranno più buone perché più forti,  e  più  giuste  perché  più
buone, la soluzione dei grandi problemi attorno a  cui  s'affannano  inutilmente
ora le nostre menti malate e le nostre forze esaurite. Io credo, o colleghi,  in
questa umanità nuova, che innalzerà ai grandi apostoli  della  ginnastica  delle
colonne di bronzo; ci credo, la vedo, la saluto, l'adoro,  e  vorrei  che  tutti
considerassero come la più santa gloria umana quella di vivere e di  morire  per
essa! A quella chiusa  si  scatenò  una  tempesta;  tutti  balzarono  in  piedi,
battendo le mani e gridando; la Pedani, pallida e trafelata,  si  dovette  alzar
tre volte per ringraziare. Le ultime parole  erano  state  dette  veramente  con
vigore d'entusiasmo apostolico e  avevano  scosso  le  fibre  di  tutti.  Quando
l'acclamazione pareva finita, ricominciò; tutti i filoginnici  dell'assemblea  e
delle tribune erano in visibilio. Due o tre oratori che sorsero dopo di lei  non
furono quasi più intesi. Quando la seduta fu chiusa, scoppiò un nuovo  applauso,
e la Pedani discese dal suo banco fra due ali di visi sorridenti e di mani tese,
in mezzo a un gridio assordante di congratulazioni e di evviva. L'immagine d'una
creatura umana che godesse l'ultima ora d'ebbrezza  sulla  soglia  d'un  palazzo
incantato, prima d'esser precipitata per  un  trabocchetto  in  carcere  eterna,
basta a mala pena a dare un'idea dello stato d'animo in cui il povero segretario
aveva udito quel discorso e quegli applausi, e visto accendersi a poco a poco  e
quasi grandeggiare la figura della maestra. Quando ella  ebbe  finito,  egli  si
guardò intorno, come se si riavesse da un sogno, e sentí tutto a un  tratto  una
cosí violenta stretta di tristezza e di pietà per se stesso,  che  dovette  fare
uno sforzo per trattenere il pianto. In quel punto si sentí chiamare da una voce
conosciuta: - Signor Celzani! - e voltatosi, vide le mille rughe sorridenti  del
cavalier Pruzzi, ancora tutto vibrante d'entusiasmo, sotto la sua parrucca messa
di sbieco. - Ha sentito, eh, - gli disse questi,  sporgendo  innanzi  la  pancia
tonda, - che maestre abbiamo a Torino? Non si può dire che il  Municipio  spenda
male i suoi denari! - E fosse per puro effetto d'entusiasmo, o c'entrasse  anche
il pentimento  delle  reticenze  meditate,  con  le  quali,  in  quell'occasione
memorabile, aveva tenuto sulle corde il segretario e gettato un velo  misterioso
sulla ragazza, fatto è che vuotò il sacco delle lodi, trattenendo per il  bavero
don Celzani, che voleva uscire. Non era informato che da poco tempo, - diceva, -
del passato della maestra Pedani. Essa aveva un  lungo  ordine  di  benemerenze.
Aveva reso  un  servigio  al  provveditor  degli  studi  di  Milano,  resistendo
intrepidamente  alla  popolazione  d'un  villaggio  che  non  la  voleva  perchè
gliel'avevan mandata d'ufficio, e, costretta ad andarsene, v'era  ritornata  con
la scorta di una compagnia di bersaglieri, e v'era rimasta, partita questa,  con
fermezza ammirabile. S'era fatta onore nell'estizione di un incendio, nel comune
di Camina. Aveva, nello stesso  comune,  salvato  un  ragazzo  da  un  torrente,
guadagnandosi la menzione onorevole del valor civile. - Che gliene pare? - disse
in fine, dopo ripreso il fiato, - Ora ha fatto  onore  a  Torino,  perdiana,  in
faccia a tutta l'Italia. Abbiamo dei  fastidi,  è  vero,  abbiamo  delle  grandi
responsabilità; ma, qualche volta almeno, si  è  ricompensati!  -  E  soggiunse,
rivolto verso l'aula già quasi vuota: - Ma brava, ma  brava,  ma  brava.  Ma  il
segretario non gli badò quasi, e  lo  lasciò  subito.  Discese  le  scale  mezzo
rintontito. Nell'atrio trovò una folla in cerchio, e indovinando che  c'era  nel
mezzo la Pedani, s'avvicinò. Era lei, in fatti, circondata e  festeggiata;  egli
riconobbe le penne verdi del suo cappellino. Mentre s'alzava in punta  di  piedi
per vedere il suo viso, sentí dietro alle spalle la voce del maestro  Fassi,  e,
voltandosi, lo vide che declamava in un crocchio, col  viso  livido,  torcendosi
rabbiosamente i lunghi baffi. - In conclusione, - diceva, - non ha  fatto  altro
che battere la campagna. Grandi citazioni, grande rettorica; ma  in  materia  di
scienza? - E l'accusava di plagio. - Vada per le idee, - gridava; - ma le frasi,
ma le parole m'ha portato via, senza degnarsi di pronunciare il mio nome; ma  vi
dico le parole una per una, come  se  le  avesse  stenografate.  Accidenti,  che
disinvoltura! Fidatevi un po'delle conversazioni familiari, Ora si  farà  strada
di sicuro. Sentirete che chiasso quei cretini di giornalisti! Oh che  bel  mondo
di ciarlatani! La Pedani, intanto, stentava ad aprirsi il passo. Quando la folla
degli ammiratori si fu un po' diradata, l'ingegnere Ginoni si  fece  avanti  con
impeto, e le disse, stringendole le mani: - Sublime! M'ha quasi convertito,  non
le dico altro! - Poi s'avanzò  per  complimentarla,  strascicando  i  piedi,  il
professor Padalocchi. Poi venne il direttore. Non finivan più. Finalmente non le
rimasero intorno che una ventina di maestre, mentre molti altri la guardavano di
lontano; e allora, non visto, il segretario la poté vedere. Non  gli  era  parsa
mai cosí bella, cosí, risplendente, cosí superba! Pareva che tutto il suo  corpo
vibrasse dentro a quel semplice e succinto vestito nero, come se le corresse  un
fremito continuo da capo a piedi; il rossore le era tornato,  quel  bel  rossore
delicato  e  diffuso  che  succede  alla  pallidezza  delle  grandi   commozioni
gradevoli, e che è come il pudore  gioioso  della  gloria;  il  suo  viso  aveva
un'espressione di gentile bontà femminea,  che  il  Celzani  non  le  aveva  mai
veduta, e che dava ai suoi occhi e alla sua bocca e a tutta la sua  persona  una
nuova forza di seduzione. Ed egli la guardò, estatico, preso  da  un  sentimento
strano e doloroso, come se fosse già lontanissima da lui, di là  da  un  immenso
fiume, sul culmine d'una collina, dietro alla quale dovesse sparire per  sempre.
Quando ella si mosse col suo drappello di  maestre,  il  segretario  si  nascose
dietro un pilastro. E di lí vide una scena inaspettata. Mentre la  Pedani  stava
per metter piede fuor del portone, le comparve davanti la maestra Zibelli  e  le
gittò le braccia al collo piangendo, e  la  baciò  più  volte  con  ardore.  Don
Celzani non udì le sue parole, ma comprese cosí per nebbia che era stata  vinta,
e che veniva, mossa da un impulso del cuore, a  render  le  armi,  e  a  chieder
perdono di qualche cosa. La Pedani  l'abbracciò  e  quella  s'allontanò  subito,
voltandosi a mandarle un saluto appassionato con la mano. La Pedani  uscí  sulla
strada, ed egli  la  seguitò,  a  molta  distanza.  Andava  innanzi  lentamente,
preceduta, fiancheggiata, seguita da uno stuolo di maestre giovani, i  satelliti
consueti dei  trionfatori,  che  le  facevano  intorno  un  cicaleccio  festoso,
avvertendola di scansar le carrozze e lanciando occhiate  qua  e  là,  come  per
attirar su  di  lei  l'attenzione  dei  passanti.  Tratto  tratto  una  di  esse
s'accomiatava, un'altra sopraggiungeva e s'univa al gruppo.  Svoltarono  in  via
Santa Teresa, e tirarono avanti, a destra; il povero Celzani sempre dietro.  Sí,
la voleva vedere fin che avesse potuto: poi sarebbe andato a prender la sua roba
e partito da Torino. Per dove? Non sapeva. Per Genova,  forse,  per  imbarcarsi.
Dio l'avrebbe guidato. Purché andasse lontano, a soffocare la  sua  passione  in
una dura vita di lavoro, a dimenticare, se fosse  stato  possibile,  o,  se  non
altro, a soffrir meno. Poiché, veramente, alla disperata vita  cui  era  ridotto
non gli bastavan più le forze dell'anima. E dopo quel trionfo, egli  si  sentiva
più miseramente, e per cosí dire, più bassamente infelice che  non  fosse  stato
mai, poiché non aveva sentito per l'addietro che la differenza esteriore  ch'era
fra lei e lui; ma la riconosceva ora troppo superiore a sè anche per lo spirito:
ella non aveva soltanto innalzato sé stessa alla gloria, aveva  precipitato  lui
nella polvere. La vedeva tra  pochi  anni  celebre,  cercata  da  tutti,  amata,
sposata  forse  da  un  uomo  bello,  illustre  e  potente.  Gli  pareva  allora
un'insensatezza  ridicola  quella  di  aver  osato   di   chiederle   la   mano,
d'importunarla, d'inginocchiarsi davanti a lei e d'abbracciarle  i  ginocchi.  E
questo ricordo appunto, la sensazione che gli si  ridestava  di  quell'abbraccio
gli bruciava il sangue e il cervello. E intanto la divorava con  gli  occhi,  di
lontano. Ora una carrozza, ora un gruppo di gente gliela nascondeva, e poi  essa
riappariva, e gli riappariva ogni volta più grande, più formosa, più trionfante,
per fargli entrar più addentro nel cuore lacerato la punta  della  disperazione.
Le amiche l'accompagnarono fino al portone. Egli si arrestò  all'angolo  di  via
San Francesco. Di là aspettava di vederla sparire per sempre, come in un abisso.
Ma quando vide le amiche lasciarla  e  lei  entrare  in  casa,  una  risoluzione
improvvisa lo spinse, un bisogno irrefrenabile di dirle addio ancora una  volta.
Fece la strada di corsa, entrò nel cortile, si mise dietro a un pilastro,  e  la
vide avviarsi verso la porta interna e salire a  passi  lenti,  voltandosi  ogni
tanto a guardare indietro, come se le paresse d'avere smarrito  qualche  cosa  o
rimpiangesse la compagnia che l'aveva lasciata, e sentisse ripugnanza, dopo quel
trionfo clamoroso fra tanta gente, a ritornare in  casa  cosí  sola  per  quella
scala nera e solitaria. Le andò dietro in punta di piedi, adagio adagio.  Quando
fu al secondo pianerottolo, non poté più reggere, si slanciò su,  la  raggiunse.
Essa si voltò, si trovaron di fronte l'una all'altro nel  buio,  lei  sopra  uno
scalino più alto. - Il signor Celzani? - domandò la maestra. Egli  ruppe  in  un
singhiozzo, e mormorò: - Son venuto a dirle addio! Ma non aveva finito di dirlo,
che si sentí una mano vigorosa sulla nuca e due labbra infocate sulla  bocca,  e
nella gioia delirante che lo invase in quell'immenso  paradiso  oscuro  dove  si
sentí sollevato come da  un  turbine,  non  poté  cacciar  fuori  che  un  grido
strozzato: -       Oh!... Dio grande!

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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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