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CATTANEO Carlo - Contro i Moderatiindietro vai a Cattaneo L’errore più grave, assai vulgare però in Italia, e generale in Europa, si è che la causa italiana sia questione principalmente, anzi unicamente, militare. Giova ripetere: l’Italia non è serva delli stranieri, ma de suoi. L’Austriaco venne in Italia, e vi può rimanere solamente come mercenario d’una minoranza retrograda, la quale si conosce impotente a dominare da sé la nazione. E l’Austriaco si è perduto per l’arroganza sua di far da padrone, ove i suoi patti erano solo d’essere il servo armato, e l’aguzzino d’un popolo che monsignori e ciambellani volevano tenere in catena. Come mai ottantamila stranieri, che vengono da una regione povera, semibarbara e discorde, potrebbero opprimere colla nuda forza 25 milioni d’un popolo, cui la natura privilegiò di sì alto animo e di sì vario intelletto? [ ... ]. Né si dica che l’Italia non abbia quel numero di soldati. Il Piemonte ha il doppio forse della parte sua, che sarebbe incirca di 48 mila. Venezia ha certo i suoi 22 mila; i suoi 28 mila la Lombardia, anche senza noverare quelli che una prima vittoria riscatterebbe dalle verghe nemiche. Il Trentino ne avrebbe a dare 3 mila; Istria e Dalmazia 8 mila; 5 mila Modena; 5 mila Parma; 18 mila la Toscana; 29 mila Roma; 64 mila Napoli, che senza dubbio li ha, e 20 mila la Sicilia. E se ciascuna di queste regioni ne desse solo la metà, sarebbe ancora un numero assai maggiore di quello dei nemici. Se vi sono i soldati, non manca in Italia la gioventù studiosa, e degna di capitanarli; e l’arte della milizia è semplice; soprattutto ove si tratti di saperne solamente quanto un povero Croato. E si vide a Curtatone e Vicenza, quali soldati si facciano in pochi giorni li scolari e i maestri delle nostre università [ ... ]. Certo, dovrebb’essere il magistrato dittatorio creato dalla Costituente Italica, per governare la guerra, per attivare le finanze, e le banche, e le vendite dei beni nazionali, per assegnare le quote dell’esercito ai singoli Stati, per eleggere i comandanti, per infliggere l’infamia ai vili, la morte ai traditori. Ma tra il magistrato nazionale e li eserciti stanno le corti dei prìncipi. E i soldati obbediranno alle corti, e terranno fisso lo sguardo nel volto del principe [ ... ]. Necessita dunque che i decreti della costituente trovino eserciti pronti a obbedirla fedelmente; ossia che trovino in ogni Stato un esercito cittadino e non un satellizio di corte; al quale torni lo stesso combattere i nemici, o trucidare i cittadini. Perché dunque l’efficacia della Costituente sul campo di battaglia si faccia sentire, vuolsi che abbiano vigor popolare i parlamenti d’ogni Stato [ ... I. La Costituente sarà all’Italia un’insegna gloriosamente e irrevocabilmente spiegata, una meta finale e infallibile, un faro. Ma l’efficacia dipende dalla potenza e popolarità dei singoli parlamenti, dall’uniformità e genialità della loro origine elettorale, insomma dal progresso effettivo della libertà nei singoli Stati. Col che vorrei avere adombrato che siasi per me inteso, quando più volte dissi che non si perviene all’indipendenza, cioè alla vittoria nazionale, se non per la, via della libertà. Gioberti e li altri piaggiatori della corte gridano al contrario che la libertà è già soverchia; e che prima vuolsi pensare alla vittoria. Ed è per questa via servile che ci condussero alla sconfitta, alla fuga,, al tradimento. Il tradimento cominciò fin da quando [ ... ] s’impose a tutti li esuli il sacrificio della libertà per l’indipendenza, cioè, per la guerra regia: cioè, per la conquista della Lombardia: cioè, per la ripetizione di Campoformio: infine, per la consegna di Porta Romana. Perocché tutti questi furono anelli d’una catena, che sarebbe loro proposito percorrere tutta da capo. Vorrebbero che si smarrisse, una terza volta per noi, l’occasione di vendicarci a libertà verace e intera. Sotto la loro scorta, l’Italia vincitrice sarebbe rimasta con tutte le più cancherose sue piaghe prelatizie, fratesche e cortigianesche. L’Italia vinta non ritenti l’impresa se non per la via della libertà. Prima di vincere a Verona, era d’uopo aver vinto in Roma, in Napoli, in Torino [ ... ]. Non così facile è la vittoria della libertà nei cauti e freddi animi dei Piemontesi. Sono costoro che vogliono operare l’unione d’Italia, non col rapido e spontaneo moto dei popoli dietro il lampo dell’idea e per l’impeto del sentimento, ma colli artificiosi lacci e le ferree stringhe di Luigi XI e di Richelieu, come se li Italiani dovessero viver paghi di seguire, a due o tre secoli di distanza, le altre nazioni. Sono costoro, che dicono oggidì voler essi, al loro ritorno in Milano, sopprimere immantinenti ogni respiro di libera stampa; poiché non li lascierebbe inchiodar saldamente le tavole del fortissimo regno. Infelici! si facciano indietro; e lascino operare il popolo, il quale sa più di loro, e più di loro intende se medesimo e il secolo e il decreto della natura di Dio. Sì, l’ultimo dei Trasteverini [si riferisce ai popolani romani impegnati nella difesa della repubblica] mostra oggidì più sagacia politica, e più intendimento dell’Italia e dei tempi, che non l’ Azelio e il Gioberti e le altre stelle del cielo subalpino. Molte acerbe parole sono in questo libro scagliate contro Carlo Alberto , ma non come a uomo, bensì come a simbolo e specchio di tutti i cortigiani suoi [ ... ]. E grande e fatale è pure la similitudine ch’è tra quei reprobi, artefici della nostra ruina, e li Azelio , i Balbo , i Gioberti . Sono tutti impedimenti all’unità d’Italia, impedimenti alla libertà, impedimenti alla guerra passionata, veemente, vittoriosa. Insomma, sono tutti appigli e amminicoli alla potenza straniera. No, all’indipendenza non si perviene, se non per la via della libertà [ ... ]. Il nostro sincero vessillo è in Venezia; e di là minaccia a tergo e sulle due rive dell’Adriatico i nostri nemici. Caduta Venezia la guerra italica sarebbe estinta; e l’unanime nostra rivoluzione verrebbe a chiamarsi non altro più che una sedizione repressa. Lasciamo il Piemonte nella rete della sua politica; volgiamo l’animo a Venezia; non lasciamola languire; quivi è il palladio dell’indipendenza; in Roma è il santuario della libertà [ ... ]. Ma pur troppo una guerra appassionata è necessaria a ritemprare all’antico vigore i popoli e rinnovare tutte le nostre istituzioni. Io non desidero una facile e molle vittoria, che ci lasci servi ancora delli interni padroni, e servi ben tosto dei padroni stranieri. E quando penso che le guerre intestine dell’Austria ci assicurano l’occasione d’una lunga guerra: e che una lunga guerra rifarà la milizia italiana; e che, SENZA IL PIEMONTE, L’ITALIA TIENE ANCORA VENTI MILIONI DI POPOLO: io dico, lo dico con dolore, ma con ferma fiducia: IL PIEMONTE NON E’ NECESSARIO! |
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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 | Etichettato con ICRA | |
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