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Edmondo De Amicis - Costantinopoli

Edmondo De Amicis download

COSTANTINOPOLI DI EDMONDO DE AMICIS


Quarta Edizione

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI. 1877


AI MIEI CARI AMICI DI PERA

ENRICO SANTORO

GIOVANNI ROSSASCO E FAUSTO ALBERI



Amigos, es este mi último libro de viaje; desde adelante no  escucharé  mas  que
las inspiraciones del corazón.

Luis de Guevara, Viaje en Egypto.

INDICE

L'arrivo 
Cinque ore dopo 
Il ponte 
Stambul 
Lungo il Corno d'oro 
Il Gran Bazar  
La vita a Costantinopoli 
Santa Sofia 
Dolma 
Bagcè 
Le  Turche  
Ianghen  
Var  
Le  mura
L'antico Serraglio 
Gli ultimi giorni 
I Turchi 
Il Bosforo


L'ARRIVO

L'emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto
quello che vidi  in  dieci  giorni  di  navigazione  dallo  stretto  di  Messina
all'imboccatura del Bosforo. Il mar Jonio azzurro e immobile  come  un  lago,  i
monti lontani della Morea tinti di rosa dai primi raggi del  sole,  l'Arcipelago
dorato dal tramonto, le rovine d'Atene, il golfo di Salonico, Lemno,  Tenedo,  i
Dardanelli, e molti personaggi e casi che mi divertirono durante il viaggio,  si
sbiadirono per modo nella mente, dopo visto  il  Corno  d'oro,  che  se  ora  li
volessi descrivere, dovrei lavorare più d'immaginazione che di  memoria.  Perchè
la prima pagina del mio libro m'esca viva e calda dall'anima,  debbo  cominciare
dall'ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara,  nel  punto  che  il
capitano del bastimento s'avvicinò a me e al mio amico  Yunk,  e  mettendoci  le
mani sulle spalle, disse  col  suo  schietto  accento  palermitano:  -  Signori!
Domattina all'alba vedremo i primi minareti di Stambul. Ah!  ella  sorride,  mio
buon lettore, pieno di quattrini e di noia; ella che, anni sono, quando le saltò
il ticchio d'andare a Costantinopoli, in ventiquattr'ore rifornì la borsa e fece
le valigie, e partì tranquillamente come per una gita in campagna, incerto  fino
all'ultimo momento se non fosse meglio prendere invece la via di Baden-Baden! Se
il capitano del bastimento ha detto  anche  a  lei:  -  Domani  mattina  vedremo
Stambul - lei avrà risposto flemmaticamente: - Ne ho piacere. - Ma bisogna  aver
covato quel  desiderio  per  dieci  anni,  aver  passato  molte  sere  d'inverno
guardando   melanconicamente   la   carta   d'Oriente,    essersi    rinfocolata
l'immaginazione colla lettura  di  cento  volumi,  aver  girato  mezza  l'Europa
soltanto per consolarsi di non poter  vedere  quell'altra  mezza,  essere  stati
inchiodati un anno a tavolino con quell'unico scopo, aver  fatto  mille  piccoli
sacrifizi, e conti su conti, e castelli su  castelli,  e  battagliole  in  casa;
bisogna infine aver passato nove notti  insonni  sul  mare,  con  quell'immagine
immensa e  luminosa  davanti  agli  occhi,  felici  tanto  da  provar  quasi  un
sentimento di rimorso pensando alle persone care che si sono lasciate a casa;  e
allora si capisce che cosa voglion dire quelle parole: - Domani all'alba vedremo
i primi minareti di Stambul; - e invece di rispondere flemmaticamente: -  ne  ho
piacere - si picchia un pugno formidabile sul parapetto del bastimento. Un  gran
piacere per me e per il mio amico era la profonda certezza che la nostra immensa
aspettazione non sarebbe stata delusa. Su  Costantinopoli  infatti  non  ci  son
dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto  suo;  nessuno
ci ha mai provato un disinganno. E non c'entra il fascino delle grandi memorie e
la consuetudine dell'ammirazione. È una bellezza universale e  sovrana,  dinanzi
alla  quale  il  poeta  e  l'archeologo,  l'ambasciatore  e  il  negoziante,  la
principessa  e  il  marinaio,  il  figlio  del  settentrione  e  il  figlio  del
mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di maraviglia. È il più bel luogo  della
terra a giudizio di tutta la  terra.  Gli  scrittori  di  viaggi,  arrivati  là,
perdono il capo. Il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua  umana
è impotente, il Pouqueville crede d'esser rapito in un altro mondo, il La  Croix
è innebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il  Lamartine  ringrazia
Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che  vede;  e  tutti  accumulano
immagini sopra immagini, fanno scintillare lo stile e si tormentano  invano  per
trovare un'espressione  che  non  riesca  miseramente  al  disotto  del  proprio
pensiero. Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata  in  Costantinopoli  con
un'apparenza di tranquillità d'animo che reca stupore; ma non tralascia di  dire
che è il più bello spettacolo dell'universo; e  se  la  celebre  Lady  Montague,
pronunziando la stessa sentenza, ci premette un forse, è da credersi che l'abbia
fatto per lasciare tacitamente il primo posto alla propria bellezza, della quale
si dava molto pensiero. C'è persino un freddo tedesco il quale dice che  le  più
belle illusioni della gioventù e i sogni stessi del  primo  amore  sono  pallide
immagini in confronto del senso di dolcezza che invade  l'anima  alla  vista  di
quei luoghi fatati; e un dotto francese afferma che la prima impressione che  fa
Costantinopoli è lo spavento. Immagini chi legge il  ribollimento  che  dovevano
produrre tutte queste parole di foco, cento volte ripetute,  nel  cervello  d'un
bravo pittore di ventiquattr'anni, e in quello d'un cattivo poeta di  vent'otto!
Ma nemmeno queste lodi illustri di Costantinopoli ci bastavano, e  cercavamo  le
testimonianze dei marinai. E anch'essi, povera gente rozza, per dare un'idea  di
quella bellezza, sentivano il bisogno d'esprimersi con  qualche  similitudine  o
parola straordinaria, e la cercavano volgendo gli occhi qua e là e stropicciando
le dita, e facevano dei tentativi di descrizione con quel suono di voce che  par
che venga di lontano e quei gesti larghi e lenti con cui  la  gente  del  popolo
esprime la meraviglia quando non le bastano le parole. - Entrare con  una  bella
mattinata in Costantinopoli -, ci disse il capo dei timonieri -, credete  a  me,
signori: è un bel momento nella vita d'un uomo. Anche il tempo ci sorrideva; era
una notte serena e tepida; il mare accarezzava con un  mormorìo  leggerissimo  i
fianchi del bastimento; gli alberi e i più minuti cordami si  disegnavano  netti
ed immobili sul cielo coperto di stelle; non pareva nemmeno che si navigasse.  A
prora v'era una folla  di  turchi  sdraiati  che  fumavano  beatamente  il  loro
narghilè col viso rivolto alla luna, la quale faceva un  contorno  d'argento  ai
loro turbanti bianchi; a poppa un visibilio di gente d'ogni paese, fra  cui  una
compagnia famelica di commedianti greci che s'erano  imbarcati  al  Pireo.  Vedo
ancora, in mezzo a una nidiata di bambine russe che vanno a Odessa colla  madre,
il visetto della piccola Olga, tutta  meravigliata  ch'io  non  capisca  la  sua
lingua e indispettita  d'avermi  fatto  tre  volte  la  medesima  domanda  senza
ottenere una risposta intelligibile. Ho da una parte un grosso  e  sucido  prete
greco, col cappello a staio rovesciato, che cerca col  canocchiale  l'arcipelago
di Marmara; dall'altra un ministro evangelico inglese, rigido e freddo come  una
statua, che in tre giorni non ha ancora detto una parola nè guardato  in  faccia
anima viva; davanti, due belle signorine ateniesi colla berrettina  rossa  e  le
treccie giù per le spalle, che appena  uno  le  guarda,  si  voltano  tutte  due
insieme verso il mare per  farsi  vedere  di  profilo;  un  po'  più  in  là  un
negoziante armeno che fa scorrere  tra  le  dita  le  pallottoline  del  rosario
orientale, un gruppo d'ebrei vestiti del costume antico,  degli  albanesi  colle
sottanine bianche, un'istitutrice francese che fa la  malinconica,  qualcuno  di
quei soliti viaggiatori di nessuna tinta, che non si capisce di che paese  siano
nè che mestiere facciano; e in mezzo a questa gente, una piccola famiglia  turca
composta d'un babbo in fez, d'una mamma velata e di due bambine coi  calzoncini,
tutti e quattro accovacciati sotto una tenda, a traverso un mucchio di materasse
e di cuscinetti variopinti, in mezzo a una corona di carabattole d'ogni forma  e
d'ogni colore. Come  si  sentiva  la  vicinanza  di  Costantinopoli!  C'era  una
vivacità insolita. Quasi  tutti  i  visi  che  s'intravvedevano  al  lume  delle
lanterne, erano visi allegri. Le bambine russe saltellavano intorno  alla  madre
gridando l'antico nome russo di Stambul:  -  Zavegorod!  Zavegorod!  -  Passando
accanto ai crocchi, si udivano qua e là i nomi di Galata, di Pera,  di  Scutari,
di Bujukderé, di Terapia, che  luccicavano  alla  mia  fantasia  come  le  prime
scintille d'un grande foco d'artifizio sul punto d'accendersi. Anche  i  marinai
erano  contenti  d'avvicinarsi  a  quel  luogo  dove,  com'essi   dicevano,   si
dimenticano almeno per un'ora tutte le noie della  vita.  Persino  a  prora,  in
mezzo a quel biancume di turbanti, c'era un movimento straordinario: anche  quei
mussulmani pigri e impassibili vedevano  già  cogli  occhi  della  immaginazione
ondulare all'orizzonte i fantastici contorni di Ummelunià, la madre  del  mondo,
"la città", come dice il Corano, "di cui un lato guarda la terra e due  guardano
il mare." Pareva che il bastimento, anche senza la  forza  motrice  del  vapore,
avrebbe dovuto andare innanzi da sè, spinto dall'impeto dei  desiderii  e  delle
impazienze che fremevano sulle sue tavole. Di tratto in tratto mi appoggiavo  al
parapetto per guardare in mare, e mi pareva che cento voci confuse mi parlassero
col mormorìo delle acque. Erano tutte le persone che mi amano, che dicevano: Va,
va, figliuolo, fratello, amico, va; va a goderti la tua  Costantinopoli;  te  la
sei guadagnata, sii felice, e Dio t'accompagni. Soltanto verso la  mezzanotte  i
viaggiatori cominciarono a scendere sotto coperta. Il mio amico ed io  scendemmo
gli ultimi e a passo di formica, perchè ci ripugnava  d'andare  a  chiudere  fra
quattro pareti un'allegrezza a cui pareva angusto il circuito della  Propontide.
Quando fummo a metà della scaletta sentimmo la voce del capitano che  c'invitava
a salire la mattina seguente sul ponte riserbato al comando. -  Siano  su  prima
del levar del sole, - gridò affacciandosi alla botola -; faccio buttare in  mare
chi ritarda. Una minaccia più superflua non è mai stata fatta dopo che  mondo  è
mondo. Io non chiusi occhio. Credo che il giovane Maometto II, in quella  famosa
notte di Adrianopoli, in  cui  disfece  il  letto  a  furia  di  voltarsi  e  di
rivoltarsi, agitato dalla visione della città di  Costantino,  non  abbia  fatto
tanti rivoltoloni quanti ne feci io nella  mia  cuccetta  in  quelle  quattr'ore
d'aspettazione. Per dominare i miei nervi, provai a  contare  fino  a  mille,  a
tener l'occhio fisso sulle ghirlande bianche che l'acqua  rotta  dal  bastimento
sollevava intorno all'occhio del mio  camerino,  a  canterellare  delle  ariette
cadenzate sul rumore monotono della macchina a vapore; ma era inutile. Avevo  la
febbre, mi sentivo mancare il respiro e la notte mi pareva eterna.  Appena  vidi
un barlume di giorno, saltai giù; Yunk era già in piedi; ci vestimmo in furia, e
salimmo in tre salti sopra coperta. Maledizione! C'era  la  nebbia.  Una  nebbia
fitta copriva l'orizzonte da tutte le parti; pareva  imminente  la  pioggia;  il
grande spettacolo dell'entrata in Costantinopoli  era  perduto;  il  nostro  più
ardente desiderio, deluso;  il  viaggio  in  una  parola,  sciupato!  Io  rimasi
annichilito. In quel punto comparve il capitano col suo solito sorrisetto  sulle
labbra. Non ci fu bisogno di parlare; appena ci vide,  capì,  e  battendoci  una
mano sulla spalla, disse in tuono di consolazione:  -  Niente,  niente.  Non  si
sgomentino, signori. Benedicano anzi questa nebbia. In grazia della nebbia  loro
faranno  la  più  bella  entrata  in  Costantinopoli  che  abbiano  mai   potuto
desiderare. Fra due ore  avremo  un  sereno  meraviglioso.  Riposino  sulla  mia
parola. Mi sentii tornare la vita. Salimmo sul ponte del Comando. A prora  tutti
i turchi erano già seduti a gambe incrociate sui loro tappeti, col viso  rivolto
verso Costantinopoli. In pochi minuti tutti gli altri viaggiatori usciron fuori,
armati di canocchiali d'ogni forma, e si appoggiarono, stesi in una lunga  fila,
al parapetto di sinistra, come alla balaustrata d'una galleria di teatro. Tirava
un'arietta fresca; nessuno parlava. Tutti gli occhi e  tutti  i  canocchiali  si
rivolsero a poco a poco verso la riva settentrionale del mare di Marmara. Ma non
si vedeva ancor nulla. La nebbia però non  formava  che  una  fascia  biancastra
all'orizzonte, sopra la quale  splendeva  il  cielo  sereno  e  dorato.  Diritto
dinanzi a noi, nella direzione della prora,  appariva  confusamente  il  piccolo
arcipelago delle nove Isole dei Principi, le Demonesi degli  antichi,  luogo  di
piaceri della Corte al tempo del Basso Impero, ed ora  luogo  di  ritrovo  e  di
festa degli abitanti di Costantinopoli. Le due rive del  mar  di  Marmara  erano
ancora completamente nascoste. Soltanto dopo  un'ora  che  s'era  sul  ponte  si
vide...  Ma  è  impossibile  intender  bene  la  descrizione   dell'entrata   in
Costantinopoli, se non si ha chiara nella mente la configurazione  della  città.
Supponga il lettore d'aver davanti a sè l'imboccatura del Bosforo, il braccio di
mare che separa l'Asia dall'Europa e congiunge il mar di Marmara col  mar  Nero.
Stando così s'ha la riva asiatica a destra e la riva europea a sinistra; di  qui
l'antica Tracia, di là l'antica Anatolia. Andando  innanzi,  infilando  cioè  il
braccio di mare, si trova a  sinistra,  appena  oltrepassata  l'imboccatura,  un
golfo, una rada strettissima, la quale forma col Bosforo un angolo quasi  retto,
e si sprofonda per parecchie miglia nella terra europea, incurvandosi a modo  di
un corno di bue; donde il nome di  Corno  d'oro,  ossia  corno  dell'abbondanza,
perchè  v'affluivano,  quand'era  porto  di  Bisanzio,  le  ricchezze   di   tre
continenti. Nell'angolo di terra europea, che da una parte è bagnato dal mar  di
Marmara e dall'altra dal Corno  d'oro,  dov'era  l'antica  Bisanzio,  s'innalza,
sopra sette colline, Stambul, la città turca.  Nell'altro  angolo,  bagnato  dal
Corno d'oro e dal Bosforo, s'innalzano Galata  e  Pera,  le  città  franche.  In
faccia all'apertura del Corno d'oro, sopra le colline della riva asiatica, sorge
la città di Scutari. Quella dunque, che si chiama Costantinopoli, è  formata  da
tre grandi città divise dal mare, ma poste l'una in faccia all'altra, e la terza
in faccia alle due prime, e tanto vicine tra loro, che  da  ciascuna  delle  tre
rive si vedono distintamente gli edifizii delle altre due, presso a poco come da
una parte all'altra della Senna e del Tamigi nei punti dove sono  più  larghi  a
Parigi e a Londra. La punta del triangolo  su  cui  s'innalza  Stambul,  ritorta
verso il Corno d'oro, è quel famoso Capo del Serraglio, il quale  nasconde  fino
all'ultimo momento, agli occhi di chi viene dal mar di Marmara, la  vista  delle
due rive del Corno, ossia la parte più grande e più bella di Costantinopoli.  Fu
il Capitano del bastimento, che col suo occhio di marinaio scoperse per il primo
il primo barlume di Stambul. Le due signore  ateniesi,  la  famiglia  russa,  il
ministro inglese, Yunk, io ed altri, che andavamo tutti a Costantinopoli per  la
prima volta, stavamo intorno a lui stretti in un gruppo, silenziosi, stancandoci
gli occhi inutilmente sopra la nebbia, quand'egli stese il braccio  a  sinistra,
verso la riva europea, e gridò: - Signori, ecco il primo spiraglio. Era un punto
bianco, la sommità d'un minareto altissimo, di cui la parte  di  sotto  rimaneva
ancora nascosta. Tutti vi appuntarono su i canocchiali e  si  misero  a  frugare
cogli occhi in quel piccolo squarcio della nebbia come per farlo più  largo.  Il
bastimento filava rapidamente. Dopo pochi minuti si vide accanto al minareto una
macchia incerta, poi due, poi tre, poi molte che a poco  a  poco  prendevano  il
contorno di case, e la fila s'allungava, s'allungava.  Dinanzi  a  noi  e  sulla
nostra destra, tutto era  ancora  coperto  dalla  nebbia.  Quella  che  s'andava
scoprendo allora, era la parte di Stambul che s'allunga,  formando  un  arco  di
circa quattro miglia italiane, sulla riva settentrionale del mar di Marmara, fra
il Capo del Serraglio e il Castello delle Sette Torri. Ma tutta la  collina  del
Serraglio era ancora velata. Dietro le  case  spuntavano  l'un  dopo  l'altro  i
minareti, altissimi e bianchi, e le loro sommità,  illuminate  dal  sole,  erano
color di rosa. Sotto le case cominciavano a scoprirsi le vecchie  mura  merlate,
di color fosco, rafforzate, a distanze eguali,  da  grosse  torri,  che  formano
intorno a tutta la città una cintura non interrotta, contro la quale si  rompono
le onde del mare. In poco tempo rimase scoperto un tratto  di  città  lungo  due
miglia; ma, dico il vero, lo spettacolo non corrispondeva alla mia aspettazione.
Eravamo nel punto  in  cui  il  Lamartine  domandò  a  sè  stesso:  -  È  questa
Costantinopoli? - e gridò: - Che delusione! - Le colline erano ancora  nascoste,
non si vedeva che la riva, le case formavano una sola fila lunghissima, la città
pareva tutta piana. - Capitano! - esclamai anch'io -; è questa Costantinopoli? -
Il capitano m'afferrò per un braccio, e accennando colla mano dinanzi  a  sè:  -
Uomo  di  poca  fede!  -  gridò  -;  guardi  lassù.  -  Guardai!  e   mi   fuggì
un'esclamazione di stupore. Un'ombra enorme,  una  mole  altissima  e  leggiera,
ancora coperta da  un  velo  vaporoso,  si  sollevava  al  cielo  dalla  sommità
d'un'altura,  e  rotondeggiava  gloriosamente  nell'aria,  in  mezzo  a  quattro
minareti smisurati e snelli, di cui le punte inargentate scintillavano ai  primi
raggi del sole. - Santa Sofia! - gridò un marinaio;  e  una  delle  due  signore
ateniesi disse a bassa voce: - Hagia Sofia! (La  santa  sapienza).  I  turchi  a
prora s'alzarono in piedi. Ma già dinanzi e accanto  alla  grande  basilica,  si
sbozzavano a traverso la nebbia altre cupole enormi, e minareti fitti e  confusi
come una foresta di gigantesche palme senza rami - La moschea del Sultano Ahmed!
- gridava il capitano, accennando -; la moschea di Bajazet, la moschea  d'Osman,
la moschea di Laleli, la moschea di Solimano. Ma nessuno lo sentiva più. Il velo
si squarciava rapidamente, e da ogni parte balzavan fuori moschee, torri, mucchi
di verzura, case su case; e più  andavamo  innanzi,  più  la  città  s'alzava  e
mostrava più distinti i suoi grandi contorni rotti, capricciosi, bianchi, verdi,
rosati, scintillanti; e la collina del serraglio disegnava  già  intera  la  sua
forma gentile sopra il fondo grigio della  nebbia  lontana.  Quattro  miglia  di
città, tutta la parte di Stambul che guarda il  mare  di  Marmara,  si  stendeva
dinanzi a noi, e  le  sue  mura  fosche  e  le  sue  case  di  mille  colori  si
riflettevano nell'acqua terse e nitide come in uno  specchio.  A  un  tratto  il
bastimento si fermò. Tutti s'affollarono intorno al capitano domandando  perchè.
Egli ci spiegò che per  andare  innanzi  bisognava  aspettare  che  svanisse  la
nebbia. La nebbia infatti nascondeva ancora l'imboccatura del Bosforo  come  una
fitta cortina. Ma dopo meno  d'un  minuto,  si  poté  proseguire,  andando  però
cautissimamente. Ci avvicinavamo alla  collina  dell'antico  serraglio.  Qui  la
curiosità mia e di tutti diventò febbrile. - Si volti  in  là  -,  mi  disse  il
capitano - e aspetti a guardare quando tutta  la  collina  ci  sia  davanti.  Mi
voltai e fissai gli occhi sopra uno sgabello  che  mi  pareva  che  ballasse.  -
Eccoci! - esclamò il Capitano dopo qualche momento.  Mi  voltai.  Il  bastimento
s'era fermato. Eravamo in faccia alla collina, vicinissimi. È una grande collina
tutta vestita di cipressi, di terebinti, d'abeti e di platani  giganteschi,  che
spingono i rami fuori delle mura merlate fino a far ombra sul mare; e in mezzo a
questo mucchio di verzura s'alzano disordinatamente, separati e a  gruppi,  come
sparsi a caso, cime di chioschi, padiglioncini coronati di  gallerie,  cupolette
inargentate,  piccoli  edifizii  di  forme  gentili  e  strane,  colle  finestre
ingraticolate e le porte a rabeschi; tutto bianco, piccino, mezzo nascosto,  che
lascia indovinare un labirinto di giardini, di corridoi, di cortili, di recessi;
un'intera città chiusa in un bosco; separata dal mondo, piena di  mistero  e  di
tristezza. In quel momento vi batteva su il sole, ma la ricopriva ancora un velo
leggerissimo. Non vi si vedeva nessuno,  non  vi  si  sentiva  il  più  leggiero
rumore. Tutti i viaggiatori stavano là cogli occhi fissi su quel colle  coronato
dalle memorie di quattro secoli di gloria, di piaceri, d'amori, di congiure e di
sangue; reggia, cittadella e tomba della grande monarchia  ottomana;  e  nessuno
parlava, nessuno si moveva. Quando a un tratto il secondo del bastimento  gridò:
- Signori, si vede Scutari! Ci voltammo tutti verso la riva  asiatica.  Scutari,
la Città d'oro, era là sparsa a perdita d'occhi sulle sommità e  per  i  fianchi
delle sue grandi colline, velata  dai  vapori  luminosi  del  mattino,  ridente,
fresca come una città  sorta  allora  al  tocco  d'una  verga  fatata.  Chi  può
descrivere quello spettacolo? Il linguaggio con cui descriviamo le città  nostre
non serve a dare una idea di quella immensa varietà di colori e di prospetti, di
quella meravigliosa confusione di città e di paesaggio,  di  gaio  e  d'austero,
d'europeo, d'orientale, di bizzarro, di gentile, di grande! S'immagini una città
composta di diecimila villette  gialle  e  purpuree,  e  di  diecimila  giardini
lussureggianti di verde, in mezzo a cui s'alzano cento moschee candide  come  la
neve; di  sopra,  una  foresta  di  cipressi  enormi:  il  più  grande  cimitero
dell'Oriente; alle estremità, smisurate caserme bianche, gruppi  di  case  e  di
cipressi, villaggetti raccolti sui poggi, dietro  ai  quali  ne  spuntano  altri
mezzo nascosti fra la verzura; e per tutto cime di minareti e sommità di  cupole
biancheggianti fino a mezzo il dorso d'una montagna che  chiude  come  una  gran
cortina l'orizzonte; una grande città sparpagliata in un immenso giardino, sopra
una riva qui rotta da burroni a picco, vestiti di  sicomori,  là  digradante  in
piani verdi, aperta in piccoli seni pieni d'ombra e  di  fiori;  e  lo  specchio
azzurro del Bosforo che riflette tutta questa bellezza. Mentre  stavo  guardando
Scutari, il mio amico mi toccò col gomito per  annunziarmi  che  aveva  scoperto
un'altra città. E vidi infatti, voltandomi verso il mar di Marmara, sulla stessa
riva asiatica, al di là di Scutari, una lunghissima fila di case, di  moschee  e
di giardini dinanzi a cui era passato il bastimento,  e  che  fino  allora  eran
rimasti nascosti dalla nebbia.  Col  canocchiale  si  discernevano  benissimo  i
caffè, i bazar, le case all'europea, gli scali, i muri di cinta degli  orti,  le
barchette sparse lungo la riva. Era Kadi-Kioi, il villaggio dei  giudici,  posto
sulle rovine dell'antica Calcedonia, già rivale di Bisanzio;  quella  Calcedonia
fondata seicento ottantacinque anni prima di Cristo dai Megaresi,  ai  quali  fu
dato dall'oracolo di Delfo il soprannome di ciechi per avere  scelto  quel  sito
invece della riva opposta dove sorge Stambul. -  E  tre  città  -  ci  disse  il
Capitano -; le contino sulle dita perchè a momenti  ne  salteranno  fuori  delle
altre. Il bastimento era sempre immobile fra Scutari e la collina del Serraglio.
La nebbia nascondeva affatto il Bosforo da Scutari in là, e tutta Galata e tutta
Pera che stavano dinanzi a noi. Ci passavano accanto dei barconi, dei  vaporini,
dei caicchi, dei piccoli legni a vela; ma nessuno li guardava. Tutti  gli  occhi
erano fissi sulla cortina  grigia  che  copriva  la  città  franca.  Io  fremevo
d'impazienza e di piacere. Ancora pochi momenti, e lo  spettacolo  meraviglioso,
che strappa un grido  dall'anima!  Appena  potevo  tener  fermo  agli  occhi  il
canocchiale, tanto mi tremava la mano. Il capitano mi  guardava,  pover'uomo,  e
godeva della mia emozione, e fregandosi le mani esclamava: - Ci siamo! ci siamo!
Finalmente incominciarono  ad  apparire  dietro  al  velo  prima  delle  macchie
bianchiccie, poi il  contorno  vago  d'una  grande  altura,  poi  uno  sparso  e
vivissimo luccichio di vetrate percosse dal sole, e  infine  Galata  e  Pera  in
piena luce, un monte, una miriade di casette di tutti i  colori,  le  une  sulle
altre; una città altissima coronata di minareti, di cupole e di cipressi;  sulla
sommità i palazzi monumentali delle Ambasciate, e la gran torre  di  Galata;  ai
piedi il vasto arsenale di Tophanè e una  foresta  di  bastimenti;  e  diradando
sempre la nebbia, la città s'allungava rapidamente dalla parte  del  Bosforo,  e
balzavano fuori borghi dietro borghi, distesi dall'alto dei colli fino al  mare,
vasti, fitti, picchiettati di bianco dalle moschee; file di bastimenti,  piccoli
porti, palazzi a fior d'acqua,  padiglioni,  giardini,  chioschi,  boschetti;  e
confusi nella nebbia lontana, altri  borghi  di  cui  si  vedevano  soltanto  le
sommità dorate dal sole; uno sbarbaglio di colori, un  rigoglio  di  verde,  una
fuga di vedute, una grandezza, una delizia, una  grazia  da  far  prorompere  in
esclamazioni insensate. Sul bastimento tutti erano a bocca aperta:  viaggiatori,
marinai, turchi, europei, bambini. Non si sentiva uno zitto. Non si  sapeva  più
da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi;  dall'altra  la
collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa,
bisognava girare sopra sè stessi; e giravano, lanciando da tutte le parti  degli
sguardi fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare,  con  un  piacere
che ci soffocava. Che bei momenti, Dio eterno! Eppure il più  grande  e  il  più
bello rimaneva da vedere. Noi eravamo ancora immobili al di qua della punta  del
Serraglio; senza oltrepassare la quale non si può vedere il Corno  d'oro,  e  la
più meravigliosa veduta di Costantinopoli è sul Corno d'oro. -  Signori,  stiano
attenti - esclamò il capitano prima di dar l'ordine d'andare avanti; - ora viene
il momento critico. In tre minuti siamo in faccia a  Costantinopoli!  Provai  un
senso di freddo. Si aspettò qualche altro momento. Ah! come mi saltava il cuore!
Con che febbre nell'anima aspettavo quella benedetta parola: - Avanti! - Avanti!
- gridò il capitano. Il bastimento  si  mosse.  Andiamo!  Re,  principi,  Cresi,
potenti e fortunati della terra, in quel momento io ebbi compassione di voi;  il
mio posto sul bastimento valeva tutti i vostri tesori, e non  avrei  venduto  un
mio sguardo per un impero. Un minuto - un altro minuto - si passa la  punta  del
Serraglio - intravvedo un enorme spazio pieno di luce e un'immensità di  cose  e
di  colori  -  la  punta  è  passata...  Ecco   Costantinopoli!   Costantinopoli
sterminata, superba, sublime! Gloria alla creazione ed all'uomo!  Io  non  avevo
sognato questa bellezza! Ed ora descrivi, miserabile! profana colla  tua  parola
questa  visione  divina!  Chi  osa  descrivere  Costantinopoli?   Chateaubriand,
Lamartine, Gautier, che cosa avete balbettato? Eppure le immagini  e  le  parole
s'affollano alla mente e fuggono dalla penna. Vedo, parlo, scrivo, tutto  ad  un
tempo, senza speranza, ma con una voluttà che  m'innebria.  Vediamo  dunque.  Il
Corno d'oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume; e sulle due  rive,  due
catene d'alture su cui s'innalzano e s'allungano due catene parallele di  città,
che abbracciano otto miglia di colli, di  vallette,  di  seni,  di  promontorii;
cento anfiteatri di monumenti e di giardini; una  doppia  immensa  gradinata  di
case, di moschee, di bazar, di serragli, di  bagni,  di  chioschi,  svariati  di
colori infiniti; in mezzo ai quali migliaia  di  minareti  dalla  punta  lucente
s'alzano al cielo come smisurate colonne d'avorio; e sporgono boschi di cipressi
che discendono in striscie cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e
forti; e una possente vegetazione sparsa si  rizza  e  ribocca  da  ogni  parte,
impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde.  A  destra,
Galata con dinanzi una selva di antenne e di bandiere; sopra  Galata,  Pera  che
disegna sul cielo i possenti contorni dei  suoi  palazzi  europei;  dinanzi,  un
ponte che unisce le due rive, corso da due opposte folle variopinte; a sinistra,
Stambul, distesa sulle sue larghe  colline,  ognuna  delle  quali  sorregge  una
moschea gigantesca dalla cupola di piombo e dalle  guglie  d'oro:  Santa  Sofia,
bianca e rosata; Sultano Ahmed,  fiancheggiata  da  sei  minareti;  Solimano  il
Grande, coronata di dieci cupole; Sultana Validè, che si specchia  nelle  acque;
sulla quarta collina, la moschea di Maometto II; sulla  quinta,  la  moschea  di
Selim; sulla sesta, il serraglio di Tekyr; e al disopra di tutte le altezze,  la
torre bianca  del  Seraschiere  che  domina  le  rive  dei  due  continenti  dai
Dardanelli al mar Nero. Di là dalla sesta collina di Stambul e di là  da  Galata
non si vedono più che profili vaghi, punte di città e di  sobborghi,  scorci  di
porti, di flotte e di boschi, quasi svaniti in una atmosfera azzurrina, che  non
paiono più cose reali, ma inganni dell'aria  e  della  luce.  Come  afferrare  i
particolari di questo quadro prodigioso? Lo sguardo si fissa per qualche momento
sulle rive vicine, sopra una casetta turca o sopra un minareto dorato; ma subito
si rilancia in quella profondità luminosa e spazia a caso fra quelle  due  fughe
di città fantastiche, seguito  a  stento  dalla  mente  sbalordita.  Una  maestà
infinitamente serena è diffusa su tutta  quella  bellezza:  un  non  so  che  di
giovanile e d'amoroso, che risveglia mille rimembranze di racconti di fate e  di
sogni primaverili; un che d'aereo, d'arcano e di grande, che rapisce la fantasia
fuori del vero. Il  cielo,  sfumato  a  finissime  tinte  opaline  ed  argentee,
contorna con una nettezza meravigliosa tutte le cose; il mare, color di zaffiro,
tutto picchiettato di  gavitelli  porporini,  fa  tremolare  i  lunghi  riflessi
bianchi dei minareti; le cupole scintillano; tutta  quella  immensa  vegetazione
s'agita e freme all'aria della mattina; nuvoli  di  colombi  svolazzano  intorno
alle moschee; migliaia di caicchi dipinti e  dorati  guizzano  sulle  acque;  il
venticello del Mar Nero porta i profumi di dieci miglia di  giardini;  e  quando
inebriati da questo paradiso, e già dimentichi d'ogni altra cosa,  ci  si  volta
indietro, si vede con un sentimento nuovo di meraviglia la  riva  dell'Asia  che
chiude il panorama colla  bellezza  pomposa  di  Scutari  e  colle  cime  nevose
dell'Olimpo di Bitinia; il mar di Marmara sparso d'isolette e biancheggiante  di
vele; e il Bosforo coperto di navi, che serpeggia fra due file interminabili  di
chioschi, di palazzi e di ville, e si perde misteriosamente in  mezzo  alle  più
ridenti colline dell'Oriente. Ah sì! Questo è  il  più  bello  spettacolo  della
terra; chi lo nega è ingrato a Dio e  ingiuria  la  creazione;  una  più  grande
bellezza soverchierebbe i sensi dell'uomo! Passata la prima emozione, guardai  i
viaggiatori: tutte le faccie erano mutate. Le due signore ateniesi  avevano  gli
occhi inumiditi; la signora russa, nel momento solenne, s'era stretta sul  cuore
la piccola Olga; persino il freddo prete inglese faceva  sentire  per  la  prima
volta la sua voce, esclamando di tratto in tratto:  -  wonderful!  wonderful!  -
(stupendo stupendo!). Il bastimento s'era fermato poco  lontano  dal  ponte;  in
pochi minuti vi si radunò intorno un visibilio  di  barchette  e  irruppe  sopra
coperta una folla di facchini turchi, greci, armeni ed ebrei,  che  bestemmiando
un italiano dell'altro mondo, s'impadronirono delle nostre robe e  delle  nostre
persone. Dopo  un  tentativo  inutile  di  resistenza,  diedi  un  abbraccio  al
capitano, un bacio a Olga, un addio a tutti e scesi col mio amico in un caicco a
quattro remi, che ci condusse alla  dogana,  di  dove  ci  arrampicammo  per  un
labirinto di stradicciuole fino all'albergo di  Bisanzio,  sulla  sommità  della
collina di Pera.



CINQUE ORE DOPO

La visione di stamattina è svanita. Quella Costantinopoli  tutta  luce  e  tutta
bellezza è una città mostruosa,  sparpagliata  per  un  saliscendi  infinito  di
colline e di valli; è un labirinto di formicai umani, di cimiteri, di rovine, di
solitudini; una confusione non mai veduta di civiltà e di barbarie, che presenta
un'immagine di tutte le città della terra e raccoglie in sè  tutti  gli  aspetti
della vita umana. Non ha veramente di una grande città che lo scheletro,  che  è
la piccola parte in muratura; il resto è un enorme agglomeramento  di  baracche,
uno sterminato accampamento asiatico, in cui brulica una popolazione che non  fu
mai numerata, di gente d'ogni razza e d'ogni religione. È una  grande  città  in
trasformazione, composta di città vecchie che si sfasciano, di città nuove sorte
ieri, d'altre città che stanno sorgendo. Tutto v'è sossopra; da  ogni  parte  si
vedono le traccie d'un gigantesco  lavoro:  monti  traforati,  colli  sfiancati,
borghi rasi al suolo, grandi strade disegnate;  un  immenso  sparpagliamento  di
macerie e d'avanzi d'incendi sopra un  terreno  perpetuamente  tormentato  dalla
mano  dell'uomo.  È  un  disordine,  una  confusione  d'aspetti  disparati,   un
succedersi continuo di vedute imprevedibili e strane, che dà il capogiro. Andate
in fondo a una strada signorile, è chiusa da un burrone; uscite dal  teatro,  vi
trovate in mezzo alle tombe; giungete sulla sommità d'una collina, vi vedete  un
bosco sotto i piedi, e un'altra città sulla collina  in  faccia;  il  borgo  che
avete attraversato poc'anzi, lo vedete, voltandovi improvvisamente, in  fondo  a
una valle profonda, mezzo nascosto dagli alberi; svoltate intorno  a  una  casa,
ecco un porto; scendete per una strada, addio città! siete in una gola  deserta,
da cui non si vede altro che cielo; le città  spuntano,  si  nascondono,  balzan
fuori continuamente sul vostro capo, ai vostri piedi, alle vostre spalle, vicine
e lontane, al sole, nell'ombra, fra i boschi, sul mare; fate  un  passo  avanti,
vedete un panorama immenso; fate un passo indietro, non vedete più nulla; alzate
il capo, mille punte di minareti; scendete d'un palmo, spariscon tutti e  mille.
Le strade,  infinitamente  reticolate,  serpeggiano  fra  i  poggi,  corrono  su
terrapieni, rasentano precipizi, passano sotto gli  acquedotti,  si  rompono  in
vicoli, discendono in gradinate, in mezzo ai cespugli, alle roccie, alle rovine,
alle sabbie. Di tratto in tratto, la gran città piglia  come  un  respiro  nella
solitudine della campagna,  e  poi  ricomincia  più  fitta,  più  colorita,  più
allegra; qui pianeggia, là s'arrampica, più in là precipita, si disperde  e  poi
si riaffolla; in un luogo fuma e strepita, in  un  altro  dorme;  in  una  parte
rosseggia tutta, in un'altra parte è tutta bianca, in una  terza  vi  domina  il
color d'oro, una quarta  presenta  l'aspetto  d'un  monte  di  fiori.  La  città
elegante, il villaggio, la campagna, il  giardino,  il  porto,  il  deserto,  il
mercato, la necropoli, si alternano senza fine innalzandosi l'uno sull'altro,  a
scaglioni, in modo che da certe alture si  abbracciano  con  uno  sguardo  solo,
sopra una sola china, tutte le varietà d'una provincia. Un'infinità di  contorni
bizzarri si disegna da ogni parte sul cielo e  sulle  acque,  così  fitti,  così
pazzamente  spezzettati  e   dentellati   dalla   meravigliosa   varietà   delle
architetture, che si confondono agli occhi come se tremolassero e s'intricassero
gli uni cogli altri. In mezzo alle casette turche si alza  il  palazzo  europeo;
dietro il minareto, il campanile;  sopra  la  terrazza,  la  cupola;  dietro  la
cupola, il muro merlato; i tetti alla chinese dei chioschi sopra i frontoni  dei
teatri, i balconi ingraticolati degli arem di rimpetto ai finestroni a  vetrate,
le finestrine moresche in faccia ai  terrazzi  a  balaustri,  le  nicchie  delle
madonne sotto gli archetti arabi,  i  sepolcri  nei  cortili,  le  torri  fra  i
tugurii; le moschee, le sinagoghe, le chiese greche, le cattoliche,  le  armene,
le une sulle altre, come se  facessero  a  soverchiarsi,  e  in  tutti  i  vani,
cipressi, pini a ombrello, fichi e platani che stendono i rami  sopra  i  tetti.
Una indescrivibile architettura di ripiego asseconda gli infiniti  capricci  del
terreno  con  un  tritume  di  case  tagliate  a  spicchi,  in  forma  di  torri
triangolari, di piramidi diritte e rovesciate, circondate di ponti, di  puntelli
e di fossi, ammucchiate alla rinfusa, come massi franati da una montagna. A ogni
cento passi tutto muta. Qui siete in una  strada  d'un  sobborgo  di  Marsiglia;
svoltate: è un villaggio asiatico; tornate a svoltare:  è  un  quartiere  greco;
svoltate ancora: è un sobborgo di Trebisonda. Alla lingua, ai visi,  all'aspetto
delle case riconoscete di aver cangiato  di  stato;  sono  spicchi  di  Francia,
striscie d'Italia, screziature d'Inghilterra, innesti di Russia.  Sulla  immensa
faccia della città si vede rappresentata ad architetture e a  colori  la  grande
lotta che si combatte fra la famiglia cristiana che riconquista  e  la  famiglia
islamitica che difende colle ultime sue forze la terra sacra. Stambul, una volta
tutta turca, è assalita da ogni parte da  quartieri  cristiani,  che  la  rodono
lentamente lungo la sponda del Corno d'oro e  del  Mar  di  Marmara;  dall'altra
parte la conquista procede in furia: le  chiese,  i  palazzi,  gli  ospedali,  i
giardini pubblici, gli opifici, le  scuole  squarciano  i  quartieri  musulmani,
soverchiano i cimiteri, si avanzano di  collina  in  collina,  e  già  disegnano
vagamente sul terreno sconvolto la  forma  d'una  grande  città  che  un  giorno
coprirà la riva europea del Bosforo come quella d'ora copre le  rive  del  Corno
d'oro. Ma da queste osservazioni generali distraggono ad ogni passo  mille  cose
nuove: in una via il convento dei  dervis,  in  un'altra  la  caserma  di  stile
moresco, il caffè turco, il bazar, la fontana, l'acquedotto. In un quarto  d'ora
bisogna cangiar dieci volte d'andatura: scendere,  arrampicarsi,  saltellar  giù
per una china, salire per una  scalinata  di  macigni,  affondar  nella  mota  e
scansar mille ostacoli, aprendosi la via ora tra la folla, ora tra gli  arbusti,
ora tra i cenci appesi, ora turandosi  il  naso,  ora  aspirando  ondate  d'aria
odorosa. Dalla gran luce d'un sito aperto, donde si vede il Bosforo, l'Asia e un
cielo infinito, si cala con pochi  passi  nell'oscurità  triste  d'una  rete  di
vicoli fiancheggiati da case cadenti ed irti di sassi come letti di ruscelli; da
un verde fresco e ombroso, in un polverio  soffocante,  saettato  dal  sole;  da
crocicchi pieni di rumore e di colori, in recessi sepolcrali,  dove  non  è  mai
sonata una voce umana; dal divino Oriente dei nostri sogni, in un altro  Oriente
lugubre, immondo, decrepito che supera ogni più nera immaginazione. Dopo un giro
di poche ore non  si  sa  più  dove  s'abbia  la  testa.  A  chi  ci  domandasse
improvvisamente  che  cos'è  Costantinopoli,  non  si  saprebbe  rispondere  che
mettendosi  una  mano  sulla  fronte  per  quetare  la  tempesta  dei  pensieri.
Costantinopoli è una Babilonia, un  mondo,  un  caos.  È  bella?  Prodigiosa.  È
brutta? Orrenda. Vi piace? Ubbriaca. Ci stareste? Chi lo sa! Chi  può  dire  che
starebbe in  un  altro  astro?  Si  ritorna  a  casa  pieni  d'entusiasmo  e  di
disinganni, rapiti, stomacati, abbarbagliati, storditi, con un  disordine  nella
mente che somiglia al principio d'una congestione cerebrale, e che si queta  poi
a poco a poco in una prostrazione profonda e in un tedio mortale. Si son vissuti
parecchi anni in fretta, e ci si sente invecchiati.

E la popolazione di questa città mostruosa?



IL PONTE

Per  vedere  la  popolazione  di  Costantinopoli  bisogna   andare   sul   ponte
galleggiante, lungo circa un quarto di miglio, che si  stende  dalla  punta  più
avanzata di Galata fino alla riva opposta del Corno d'oro, in faccia alla grande
moschea della sultana Validè. L'una e l'altra riva sono terra europea; ma si può
dire che il ponte unisce l'Europa all'Asia, perchè in Stambul non v'è  d'europeo
che la terra, ed hanno colore e  carattere  asiatico  anche  i  pochi  sobborghi
cristiani che le fanno corona. Il Corno d'Oro,  che  ha  l'aspetto  d'un  fiume,
separa, come un oceano, due mondi. Le notizie degli  avvenimenti  d'Europa,  che
circolano per Galata e per Pera, vive, chiare, minute, commentate, non  giungono
all'altra riva che monche e confuse come un eco lontano; la fama degli uomini  e
delle cose più grandi dell'Occidente, s'arresta dinanzi a quella poc'acqua, come
dinanzi a un baluardo insuperabile; e  su  quel  ponte  dove  passano  centomila
persone al giorno, non passa ogni dieci anni un'idea. Stando là, si vede sfilare
in un'ora tutta  Costantinopoli.  Sono  due  correnti  umane  inesauribili,  che
s'incontrano e si  confondono  senza  posa  dal  levar  del  sole  al  tramonto,
presentando uno spettacolo  del  quale  non  sono  certamente  che  una  pallida
immagine i mercati delle Indie, le fiere di Niinj-Norgorod e le feste di Pekino.
Per veder qualche cosa bisogna fissarsi  un  piccolo  tratto  del  ponte  e  non
guardare che lì; se si vaga cogli occhi, la vista s'abbarbaglia e  la  testa  si
confonde. La folla passa a grandi ondate, ognuna delle quali offre mille colori,
ed ogni gruppo di persone rappresenta  un  gruppo  di  popoli.  S'immagini  pure
qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi e di classi  sociali;  non
si giungerà mai ad avere un'idea della favolosa confusione che si vede là  nello
spazio di venti passi e nel giro di dieci minuti. Dietro una frotta di  facchini
turchi, che passano correndo, curvi sotto pesi enormi, s'avanza  una  portantina
intarsiata di madreperla e d'avorio, a cui fa capolino una signora armena; e  ai
due lati un beduino ravvolto in un  mantello  bianco  e  un  vecchio  turco  col
turbante di mussolina e il caffettano color celeste, accanto al quale cavalca un
giovane greco seguito dal suo dracomanno colla zuavina ricamata, e un dervis col
gran cappello conico e la tonaca di pelo di cammello, che si scansa per  lasciar
passare la carrozza d'un  ambasciatore  europeo,  preceduta  da  un  battistrada
gallonato. Tutto questo non si vede, s'intravvede. Prima che  vi  siate  voltati
indietro, vi  trovate  in  mezzo  a  una  brigata  di  Persiani  col  berrettone
piramidale d'astrakan, passati i quali vi vedete dinanzi un ebreo  insaccato  in
un lungo vestito giallo aperto sui fianchi; una zingara scapigliata,  che  porta
un bambino in un sacco appeso alla schiena; un prete cattolico,  con  bastone  e
breviario; mentre in mezzo a una folla confusa di greci, di turchi  e  d'armeni,
s'avanza gridando: - Largo! -  un  grosso  eunuco  a  cavallo  che  precede  una
carrozza turca, dipinta a fiori e ad uccelli, con dentro  le  donne  d'un  arem,
vestite di violetto e di verde, e ravvolte in grandi veli bianchi; e dietro, una
suora di carità d'uno spedale di Pera, seguita da uno schiavo africano che porta
una scimmia, e da un raccontatore di storie in  abito  di  negromante.  E,  cosa
naturale, ma che par strana al nuovo venuto, tutta  questa  gente  così  diversa
s'incontra e passa oltre senza guardarsi, come la folla di  Londra;  nessuno  si
ferma; tutti vanno a passo affrettato, e su cento visi, non se ne vede  uno  che
sorrida. L'albanese colle sottanine bianche e i pistoloni  alla  cintura,  passa
accanto al tartaro vestito di pelle di montone; il turco a cavallo  a  un  asino
bardato con gran pompa, guizza fra due file di cammelli; dietro all'aiutante  di
campo dodicenne d'un principino imperiale, piantato  sopra  un  corsiero  arabo,
barcolla un  carro  carico  delle  masserizie  bizzarre  d'una  casa  turca;  la
mussulmana a piedi, la schiava velata, la greca  colla  berrettina  rossa  e  le
treccie giù per le spalle, la maltese incapucciata nella faldetta nera,  l'ebrea
vestita dell'antichissimo costume della Giudea, la negra ravvolta in uno scialle
variopinto  del  Cairo,  l'armena  di  Trebisonda  tutta  nera  e  velata   come
un'apparizione funebre, si trovano qualche volta in una sola fila, come se vi si
fossero messe apposta, per  prender  risalto  l'una  dall'altra.  È  un  musaico
cangiante di razze e di religioni che si compone e si scompone continuamente con
una rapidità che si può appena seguire collo sguardo. È bello  tener  gli  occhi
fissi sul tavolato del ponte, non guardando altro che i piedi: passano tutte  le
calzature della terra, da quella d'Adamo  agli  stivaletti  all'ultima  moda  di
Parigi: babbuccie gialle di turchi, rosse di armeni,  turchine  di  greci,  nere
d'israeliti;  sandali,  stivaloni  del  Turkestan,  ghette  albanesi,  scarpette
scollate, gambass di mille colori  dei  cavallari  dell'Asia  minore,  pantofole
ricamate d'oro, alpargatas alla spagnuola,  calzature  di  raso,  di  corda,  di
cenci, di  legno,  fitte  in  maniera  che  mentre  se  ne  guarda  una,  se  ne
intravvedono cento. A non badarci bene, c'è da essere rovesciati a  ogni  passo.
Ora è un portatore d'acqua con un otre colossale  sul  dorso,  ora  una  signora
russa a cavallo, ora un drappello di soldati imperiali, vestiti alla zuava,  che
par che vadano all'assalto, ora una  squadra  di  facchini  armeni  che  passano
reggendo sulle spalle, a due a due, delle lunghissime sbarre, a cui sono sospese
delle balle smisurate di mercanzia; ora delle frotte di turchi che si lanciano a
destra e a sinistra del ponte per imbarcarsi sui piroscafi. È uno scalpiccio, un
fruscio,  un  sonare  di  voci  esotiche,  di  note  gutturali,   d'aspirazioni,
d'interjezioni incomprensibili, in mezzo  a  cui  le  poche  parole  francesi  o
italiane che arrivano agli orecchi di tratto in tratto, fanno l'effetto di punti
luminosi in una tenebra fitta. Le figure  che  dan  più  nell'occhio  in  quella
folla, sono i Circassi, che vanno per lo più a tre, a cinque  insieme,  a  passo
lento; pezzi d'uomini barbuti, dalla faccia terribile,  che  portano  un  grosso
berrettone di  pelo  alla  foggia  dell'antica  guardia  napoleonica,  un  lungo
caffettano nero, un pugnale alla cintura e un cartucciere d'argento  sul  petto;
vere figure di briganti, ognuno dei quali pare che sia venuto  a  Costantinopoli
per vendere una figliuola o una sorella, e debba avere le mani intrise di sangue
russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di dalmatica bizantina e il  capo
ravvolto in un fazzoletto rigato d'oro; i bulgari, vestiti d'un saio grossolano,
con un berretto incoronato di pelliccia; i giorgiani con un caschetto  di  cuoio
verniciato e la tunica stretta alla  vita  da  un  cerchio  metallico;  i  greci
dell'arcipelago coperti da capo a piedi di ricami, di nappine  e  di  bottoncini
luccicanti. La folla di tanto in tanto radeggia un poco;  ma  subito  s'avanzano
altre frotte serrate, ondate di papaline rosse e di turbanti bianchi,  in  mezzo
ai quali spuntano cappelli cilindrici,  ombrelle  e  pettinature  piramidali  di
signore europee, che par che galleggino portate via da quel torrente  musulmano.
C'è da stupire soltanto a notare  la  varietà  della  gente  di  religione.  Qui
luccica il cucuzzolo d'un  padre  cappuccino,  là  torreggia  il  turbante  alla
giannizzera d'un ulema, più in là ondeggia  il  velo  nero  d'un  prete  armeno.
Passano degli iman colla tunica bianca, delle monache stimmatine, dei cappellani
dell'esercito turco, vestiti di verde,  colla  sciabola  al  fianco,  dei  frati
domenicani, dei pellegrini reduci dalla Mecca con un talismano appeso al  collo,
dei gesuiti, dei dervis, - e questo è strano davvero  -  dei  dervis  che  nelle
moschee si straziano le carni in espiazione dei peccati, e passando il ponte  si
riparano dal sole coll'ombrellino. A starci  bene  attenti,  seguono  in  quella
confusione mille piccoli accidenti amenissimi. È un eunuco che mostra il  bianco
dell'occhio a un zerbinotto cristiano, il quale ha guardato troppo  curiosamente
dentro alla  carrozza  della  sua  padrona;  è  una  cocotte  francese,  vestita
coll'ultimo figurino,  che  pedina  il  figliuolo  d'un  pascià  ingioiellato  e
inguantato; è una signora di Stambul  che  finge  di  aggiustarsi  il  velo  per
sbirciar lo strascico d'una signora di Pera; è  un  sergente  di  cavalleria  in
uniforme di gala, che si ferma nel bel mezzo del ponte, si stringe il  naso  con
due dita e slancia nello spazio un guai a chi tocca, da mettere i brividi; è  un
ciurmadore che, preso un soldo da un povero diavolo, gli fa sul  viso  un  gesto
cabalistico, che lo deve guarire del mal d'occhi; è una famiglia di  viaggiatori
grandi e piccini, arrivata quel giorno stesso, che s'è smarrita in mezzo  a  una
turba di canaglia asiatica, e la madre cerca i bimbi che strillano, e gli uomini
si fanno largo a spintoni. I cammelli, i cavalli, le portantine, le carrozze,  i
buoi,  le  carrette,  le  botti  rotolate,  gli  asini  sanguinolenti,  i   cani
spelacchiati, formano delle lunghe  file,  che  dividono  per  mezzo  la  folla.
Qualche volta passa un grosso pascià di  tre  code,  sdraiato  in  una  carrozza
splendida, seguito a piedi dal suo portapipa, dalla sua guardia e da un nero,  e
allora tutti i turchi salutano toccandosi la fronte e il petto, e le  mendicanti
musulmane, orribili megere, col volto imbaccucato e il seno nudo,  si  slanciano
agli sportelli chiedendo l'elemosina. Gli eunuchi fuor di  servizio,  passano  a
due, a tre, a cinque insieme, colla sigaretta in bocca; e  si  riconoscono  alla
molle corpulenza, alle lunghe braccia, ai grandi abiti neri.  Le  belle  bambine
turche, vestite da maschietti, con  calzoncini  verdi  e  panciottini  rosati  o
gialli, corrono e  saltellano  con  un'agilità  felina,  facendosi  largo  colle
piccole mani tinte di color di porpora. I lustrascarpe colla cassetta dorata,  i
barbieri ambulanti colla seggiola e la catinella in mano, i venditori d'acqua  e
di dolci, fendono la calca in tutte le direzioni, urlando in greco ed in  turco.
A ogni passo si vede luccicare una divisa militare: uffiziali in fez  e  calzoni
scarlatti, col petto costellato di decorazioni; palafrenieri del serraglio,  che
paiono generali d'armata; gendarmi con  un  arsenale  alla  cintura;  zeibek,  o
soldati liberi, con quegli enormi calzoni a borsa deretana, che  danno  loro  il
profilo della venere ottentotta; guardie  imperiali,  con  un  lungo  pennacchio
bianco sul casco e il petto coperto di galloni;  guardie  di  città  che  girano
colle manette fra le mani;  guardie  di  città  a  Costantinopoli!  È  come  chi
dicesse: gente incaricata di tener a segno l'oceano  Atlantico.  È  bizzarro  il
contrasto di tutto quell'oro e di tutti quei cenci, della gente sovraccarica  di
roba, che paion bazar ambulanti, e della gente quasi nuda.  Il  solo  spettacolo
della nudità è una meraviglia. Si vedono tutte le sfumature della  pelle  umana,
dal bianco latteo dell'Albania al nero corvino dell'Africa centrale  e  al  nero
azzurrognolo del Darfur; dei petti che, a picchiarli, par che  debbano  risonare
come vasi di bronzo, o sgretolarsi come forme di terra  secca;  schiene  oleose,
petrose, lignee, irsute come dorsi di cinghiale; braccia rabescate di rosso e di
blù, con disegni di rami  e  di  fiori,  e  iscrizioni  del  Corano  e  immagini
grossolane di battelli, e di cuori attraversati da  freccie.  Ma  in  una  prima
passeggiata, per il ponte, non c'è nè tempo nè  modo  d'osservare  tutti  questi
particolari. Mentre guardate i rabeschi d'un  braccio,  il  vostro  cicerone  vi
avverte che è  passato  un  serbo,  un  montenegrino,  un  valacco,  un  cosacco
dell'Ukrania, un  cosacco  del  Don,  un  egiziano,  un  tunisino,  un  principe
d'Imerezia.  C'è  appena  tempo  a  tener  d'occhio   le   nazioni.   Pare   che
Costantinopoli sia sempre quella che fu: la capitale  di  tre  continenti  e  la
regina di venti vicereami. Ma nemmeno  quest'idea  risponde  alla  grandezza  di
quello spettacolo, e si fantastica un incrociamento d'emigrazioni,  prodotto  da
qualche enorme cataclisma che abbia sconvolto  l'antico  continente.  Un  occhio
esperto discerne ancora in quel mare magno i volti e i costumi della Caramania e
dell'Anatolia, quei di Cipro e di Candia, quei di Damasco e di  Gerusalemme,  il
druso, il curdo, il maronita, il talemano,  il  pumacco,  il  croato,  ed  altre
innumerevoli varietà dell'innumerevole confederazione d'anarchie che  si  stende
dal Nilo al Danubio e dall'Eufrate all'Adriatico. Chi cerca il bello e chi cerca
l'orrido, trovano qui egualmente superati i loro più audaci desiderii: Raffaello
rimarrebbe estatico e il Rembrandt si caccierebbe le mani nei  capelli.  La  più
pura bellezza della Grecia e delle razze caucasee, è mescolata coi nasi camusi e
colle teste schiacciate; vi passano accanto figure di regine e faccie di  furie;
visi imbellettati e visi sformati dai morbi e dalle ferite, piedoni colossali  e
piedini circassi lunghi come la mano, facchini giganteschi, enormi pinguedini di
turchi, e neri stecchiti come scheletri, larve  d'uomini  che  mettono  pietà  e
raccapriccio; tutti gli aspetti più strani in cui si possano presentare al mondo
la vita ascetica, l'abuso della voluttà,  le  fatiche  estreme,  l'opulenza  che
impera e la miseria che muore. E nondimeno la  varietà  di  vestimenti  è  senza
confronto più meravigliosa della varietà delle persone. Chi sente i  colori,  ci
ha  da  ammattire.  Non  ci  son  due  persone  vestite  eguali.  Sono   scialli
attorcigliati intorno al capo, bendature di selvaggi, corone di cenci, camicie e
sottovesti rigate e quadrettate come il vestito d'arlecchino,  cinture  irte  di
coltellacci che salgono dai fianchi alle ascelle, calzoni alla mammalucca, mezze
mutande, gonnellini, toghe, lenzuoli che strascicano, abiti ornati  d'ermellino,
panciotti che sembrano corazze d'oro, maniche a gozzo e  a  sgonfietti,  vestiti
monacali e spudorati, uomini abbigliati da  donna,  donne  che  sembran  uomini,
pezzenti che sembran principi, un'eleganza di stracci, una follìa di colori, una
profusione di frangie, di gale, di frappe, di svolazzi, d'ornamenti  teatrali  e
bambineschi, che dà l'immagine d'un veglione dentro a un immenso  manicomio,  in
cui abbiano vuotate le loro casse tutti i  rigattieri  dell'universo.  Sopra  il
mormorìo sordo, che esce da questa moltitudine, si sentono gli strilli acuti dei
ragazzi greci, carichi  di  giornali  d'ogni  lingua;  le  grida  stentoree  dei
facchini, le risa sgangherate  delle  donne  turche,  le  voci  infantili  degli
eunuchi, i trilli in falsetto dei ciechi che cantano  versetti  del  Corano,  il
rumor cupo del ponte che ondeggia, i fischi e le campanelle di cento  piroscafi,
di cui il vento abbatte tratto tratto il fumo denso sopra la folla, in modo  che
per qualche minuto non si vede più nulla. Questa mascherata di popoli scende nei
vaporini che partono ogni momento per Scutari, per il villaggio  del  Bosforo  e
per i sobborghi del Corno  d'oro;  si  spande  per  Stambul,  nei  bazar,  nelle
moschee, nei borghi di Fanar e di Balata, fino ai quartieri più lontani del  mar
di Marmara; irrompe sulla riva franca, a destra verso i palazzi del  Sultano,  a
sinistra verso gli alti quartieri di Pera, di dove poi ricasca sul ponte per  le
innumerevoli stradicciuole che serpeggiano lungo  i  fianchi  delle  colline;  e
allaccia così l'Asia e l'Europa, dieci città e cento sobborghi, in una  rete  di
faccende, d'intrighi e di misteri, dinanzi a cui  l'immaginazione  si  sgomenta.
Pare che questo spettacolo debba mettere allegrezza. E non è  vero.  Passata  la
prima meraviglia, i  colori  festosi  si  sbiadiscono:  non  è  più  una  grande
processione carnevalesca che ci passa dinanzi; è l'umanità intera che sfila  con
tutte le sue miserie, con tutte le sue follìe, coll'infinita discordia delle sue
credenze e delle sue leggi; è un pellegrinaggio di popoli decaduti  e  di  razze
avvilite; una immensità di sventure da soccorrere, di  vergogne  da  lavare,  di
catene da rompere; un cumulo di tremendi problemi scritti a caratteri di sangue,
e che non si  scioglieranno  che  con  torrenti  di  sangue;  e  questo  immenso
disordine rattrista. E poi il senso  della  curiosità  è  prima  rintuzzato  che
soddisfatto  da  questa  sterminata  varietà  di  cose  strane.  Che  misteriosi
rivolgimenti accadono nell'anima umana! Non era passato un quarto d'ora dal  mio
arrivo sul ponte, che stavo appoggiato alle spallette,  rabescando  sbadatamente
un pezzo di trave colla matita, e dicendo a  me  stesso,  tra  uno  sbadiglio  e
l'altro, che c'è qualchecosa di vero in quella famosa sentenza della Stael,  che
il viaggiare è il più triste dei piaceri.



STAMBUL

Per riaversi da questo sbalordimento, non  c'è  che  infilare  una  delle  mille
stradicciuole che serpeggiano su per i fianchi delle  colline  di  Stambul.  Qui
regna una pace profonda, e si può contemplare tranquillamente in  tutti  i  suoi
aspetti quell'Oriente misterioso e geloso, che sull'altra riva del  Corno  d'oro
non si vede che a tratti fuggitivi in mezzo alla confusione rumorosa della  vita
europea. Qui tutto è schiettamente orientale. Dopo un quarto  d'ora  di  cammino
non si vede più nessuno e non si sente più alcun rumore. Di  qua  e  di  là  son
tutte casette di legno, dipinte di mille colori,  nelle  quali  il  primo  piano
sporge sopra il piano terreno, e il secondo  sul  primo;  e  le  finestre  hanno
dinanzi una specie di tribune, invetriate da ogni parte, e chiuse  da  grate  di
legno a piccolissimi fori, che  paiono  altrettante  casette  appese  alle  case
principali, e danno alle strade un aspetto  singolarissimo  di  tristezza  e  di
mistero. In alcuni luoghi le strade sono così strette, che  le  parti  sporgenti
delle case opposte quasi si  toccano,  e  così  si  cammina  per  lunghi  tratti
all'ombra di quelle gabbie umane, proprio sotto i piedi delle donne  turche  che
vi passano  una  gran  parte  della  giornata,  non  vedendo  che  una  striscia
sottilissima di cielo. Le porte son tutte chiuse; le finestre del pian  terreno,
ingraticolate; tutto spira diffidenza e gelosia; par di attraversare  una  città
di monasteri. Tratto tratto sentite uno scoppio di  risa,  e  alzando  il  capo,
vedete per qualche spiraglio un nodo di treccie o un occhietto scintillante  che
subito sparisce. In alcuni punti sorprendete una conversazione vivace e sommessa
da una parte all'altra della strada; ma  cessa  improvvisamente  al  rumore  del
vostro passo.  Passando,  scompigliate  per  un  momento  chi  sa  che  rete  di
pettegolezzi e d'intrighi. Non vedete nessuno e mille  occhi  vi  vedono;  siete
soli, e vi sentite come in mezzo a  una  folla;  vorreste  passare  inosservati,
aleggerite il passo, camminate composti, misurate  lo  sguardo.  Una  porta  che
s'apra o una finestra che si chiuda, vi  riscuote  bruscamente  come  un  grande
rumore. Pare che queste strade debbano riuscire uggiose. Ma  è  tutt'altro.  Una
macchia verde in fondo da cui esce un minareto bianco; un turco vestito di rosso
che scende verso di voi; una serva nera ferma dinanzi a una  porta,  un  tappeto
persiano appeso a una finestra, bastano a formare un  quadretto  così  pieno  di
vita e d'armonia, che stareste un'ora a contemplarlo. Della poca  gente  che  vi
passa accanto, nessuno vi guarda. Soltanto qualche volta  sentite  gridare  alle
vostre spalle: - Giaur!  (Infedele);  -  e  voltandovi,  vedete  sparire  dietro
un'imposta la testa d'un ragazzo. Altre  volte  s'apre  la  porticina  d'una  di
quelle casette: vi soffermate aspettando l'apparizione della bella d'un arem,  e
n'esce invece una signora europea, con cappellotto e strascico, che  mormora  un
adieu o un au revoir, e s'allontana rapidamente, lasciandovi colla bocca aperta.
In un'altra strada, tutta turca e tutta silenziosa,  sentite  a  un  tratto  uno
squillo di corno e uno scalpitio di  cavalli:  vi  voltate,  che  cos'è?  Appena
credete ai vostri occhi. È un grande omnibus, che viene innanzi  su  due  rotaie
che non avevate vedute, pieno di  turchi  e  di  franchi,  col  suo  usciere  in
uniforme e coi suoi cartelli delle tariffe, come  un  tramway  di  Vienna  o  di
Parigi. La stonatura che fa quest'apparizione in una di queste  strade,  non  si
può esprimere con parole: vi pare una burla o uno sbaglio, e vi vien da  ridere,
e guardate quel veicolo stupiti  come  se  non  ne  aveste  mai  visti.  Passato
l'omnibus, par che sia passata l'immagine viva dell'Europa, e  vi  ritrovate  in
Asia come al cangiar di scena in un teatro. Da queste strade solitarie  riuscite
in piazzette aperte, quasi interamente ombreggiate da un platano gigantesco.  Da
una parte c'è una fontana, dove bevono dei cammelli; dall'altra  un  caffè,  con
una fila di materasse distese dinanzi alla porta, e qualche turco sdraiato,  che
fuma; e accanto alla porta un gran fico, abbracciato da una vite, i cui  pampini
spenzolano fino a terra, lasciando vedere tra foglia e foglia l'azzurro  lontano
del mar di Marmara, e  qualche  veletta  bianca.  Una  luce  bianchissima  e  un
silenzio mortale danno a tutti questi luoghi un carattere  così  tra  solenne  e
melanconico, che li rende indimenticabili, anche a vederli una volta sola. Si va
innanzi, innanzi, quasi attirati da quella quiete arcana, che  entra  a  poco  a
poco nell'anima come una leggera sonnolenza, e dopo breve tempo  si  perde  ogni
sentimento della distanza e dell'ora. Si trovano dei vasti spazi  colle  traccie
d'un grande incendio recente; chine dove non sono che poche  case  sparpagliate,
fra le quali cresce l'erba, e serpeggiano dei sentieri da capre; punti  elevati,
da cui si abbracciano collo sguardo strade, vicoletti,  giardini,  centinaia  di
case, e non si vede da nessuna parte nè una creatura  umana,  nè  un  nuvolo  di
fumo, nè una porta aperta, nè il menomo indizio d'abitazione e  di  vita;  tanto
che si potrebbe credere d'essere soli in quell'immensa città, e  a  pensarci  un
momento, s'è quasi presi dalla paura. Ma scendete la china, arrivate in fondo  a
una di quelle stradette: tutto è cangiato. Siete in  una  delle  grandi  vie  di
Stambul,  fiancheggiata  da  monumenti,  dove  non   bastano   più   gli   occhi
all'ammirazione. Camminate in mezzo alle moschee, ai chioschi, ai minareti, alle
gallerie arcate, alle fontane di  marmo  e  di  lapislazzuli,  ai  mausolei  dei
sultani splendenti di rabeschi e d'iscrizioni d'oro, ai muri coperti di musaici,
sotto le tettoie di cedro intarsiato, all'ombra d'una  vegetazione  pomposa  che
supera i muri di cinta e i cancelli dorati dei giardini, e  riempie  la  via  di
profumi. Per queste vie s'incontrano a ogni passo carrozze di pascià, ufficiali,
impiegati, aiutanti di  campo,  eunuchi  di  grandi  case,  una  processione  di
servitori e di parassiti, che vanno e vengono fra i ministeri. Qui si  riconosce
la metropoli del grande impero, e s'ammira in tutta la sua magnificenza.  È  per
tutto una bianchezza, una  grazia  d'architetture,  un  gorgoglio  d'acque,  una
freschezza d'ombre, che accarezza i sensi come una musica sommessa, e riempie la
mente d'immagini ridenti. Per  queste  vie  s'arriva  alle  grandi  piazze  dove
s'innalzano le moschee imperiali, e dinanzi a queste moli  si  rimane  sgomenti.
Ognuna di esse forma come il nodo d'una piccola città di collegi, di spedali, di
scuole, di biblioteche, di magazzini, di bagni,  che  quasi  non  si  avvertono,
schiacciati come sono dalla cupola enorme a cui  fanno  corona.  L'architettura,
che s'immaginava semplicissima, presenta invece una varietà di particolari,  che
tira gli sguardi da mille parti. Sono cupolette rivestite di  piombo,  tetti  di
forme bizzarre che s'alzano l'uno sull'altro, gallerie  aeree,  grandi  portici,
finestre  a  colonnine,  archi  a  festoni,  minareti  accannellati,  cinti   di
terrazzini lavorati a giorno,  con  capitelli  a  stalattiti;  porte  e  fontane
monumentali, che sembrano rivestite di trina; muri picchiettati d'oro e di mille
colori; tutto ricamato, cesellato, leggero, ardito, ombreggiato da  quercie,  da
cipressi e da salici, da cui escono nuvoli d'uccelli che  vagano  a  lenti  giri
intorno alle cupole e riempiono d'armonia tutti i recessi dell'immenso edifizio.
Qui si comincia a provar  qualchecosa  che  è  più  profondo  e  più  forte  del
sentimento  della  bellezza.  Quei  monumenti  che  sono  come   una   colossale
affermazione marmorea d'un ordine d'idee e di sentimenti diverso  da  quello  in
cui siamo nati e cresciuti, che sono quasi l'ossatura d'una razza e  d'una  fede
ostile, che ci raccontano con un linguaggio muto di linee superbe e  di  altezze
temerarie le glorie d'un Dio che non è nostro e d'un popolo che ha fatto tremare
i nostri padri, incutono un rispetto misto di diffidenza e di timore, che  sulle
prime vince la curiosità, e ce  ne  trattiene  lontani.  Si  vedono,  dentro  ai
cortili  ombrosi,  turchi  che  fanno  le  abluzioni  alle   fontane,   pezzenti
accovacciati ai piedi dei pilastri,  donne  velate  che  passeggiano  lentamente
sotto le arcate; tutto quieto, e come adombrato d'una tinta  di  mestizia  e  di
voluttà, che non si capisce bene d'onde derivi, e su cui la  mente  si  ferma  e
lavora come sopra un enimma. Galata, Pera, quanto sono lontane! Voi  vi  sentite
soli in un altro mondo e in un altro tempo, nella Stambul di Solimano il  Grande
e di Baiazet secondo, e provate un vivo sentimento di stupore quando, usciti  da
quella piazza, e perduto d'occhio quel monumento smisurato della  potenza  degli
Osmanli, vi ritrovate in mezzo alla Costantinopoli di legno, meschina,  cadente,
piena di sudiciume e  di  miseria.  Via  via  che  andate  innanzi  le  case  si
scoloriscono, i pergolati si sfasciano, le vasche delle fontane  si  coprono  di
muschio; trovate delle moschee nane, coi muri screpolati e i minareti di  legno,
circondate di rovi e d'ortiche; dei mausolei in rovina,  delle  scale  infrante,
dei  passaggi  coperti  ingombri  di  macerie,  dei  quartieri  decrepiti  d'una
tristezza infinita, dove non si sente altro rumore che il frullo dell'ali  degli
sparvieri e delle cicogne, o la voce gutturale d'un muezzin solitario, che grida
la parola di Dio dall'alto d'un minareto  nascosto.  Nessuna  città  rappresenta
meglio di Stambul la natura e la filosofia del suo popolo. Tutto ciò che v'è  di
grande e di bello è di Dio o del sultano, immagine di Dio sulla terra; tutto  il
rimanente è passeggiero e porta l'impronta d'una profonda trascuranza delle cose
mondane. La tribù dei pastori è diventata nazione; ma  il  suo  amore  istintivo
della natura campestre, della contemplazione e  dell'ozio,  ha  conservato  alla
metropoli l'aspetto dell'accampamento. Stambul non è una città, non lavora,  non
pensa, non crea; la civiltà sfonda le sue porte  e  assalta  le  sue  vie;  essa
sonnecchia e fantastica all'ombra delle moschee, e  lascia  fare.  È  una  città
slegata, dispersa, deforme, che rappresenta  piuttosto,  la  sosta  d'una  razza
pellegrinante, che la potenza  d'uno  Stato  immobile;  un  immenso  abbozzo  di
metropoli; un grande spettacolo piuttosto che una grande città. E non se ne  può
avere una giusta immagine, se non si  percorre  intera.  Bisogna  partire  dalla
prima collina, quella che forma la punta del triangolo, ed è bagnata dal mar  di
Marmora. Qui è per così dire la testa  di  Stambul;  un  quartiere  monumentale,
pieno di memorie, di maestà e di luce.  Qui  l'antico  serraglio,  dove  sorgeva
prima Bisanzio colla sua acropoli e  il  tempio  di  Giove,  e  poi  il  palazzo
dell'imperatrice Placidia e le terme d'Arcadio; qui la moschea di Santa Sofia  e
la moschea d'Ahmed, e l'At-meidan che occupa lo  spazio  dell'Ippodromo  antico,
dove in mezzo a un Olimpo di bronzo e di marmo, tra le grida d'una folla vestita
di seta e di porpora, volavano le quadrighe d'oro  al  cospetto  degl'imperatori
sfolgoranti di perle. Da questa collina si scende in una  valle  poco  profonda,
dove si stendono le mura occidentali del serraglio, che segnano il confine della
Bisanzio antica, e s'alza la Sublime Porta, per la quale s'entra nel palazzo del
gran vizir e nel Ministero degli esteri: quartiere austero e silenzioso, in  cui
sembra raccolta tutta la tristezza delle sorti dell'impero. Da questa  valle  si
sale sulla seconda collina, dove sorge la moschea marmorea di Nuri-Osmanié, luce
d'Osmano, e la colonna bruciata di Costantino, che sosteneva un Apollo di bronzo
colla testa del grande Imperatore,  ed  era  nel  bel  mezzo  dell'antico  foro,
circondato di portici, d'archi di trionfo e  di  statue.  Al  di  là  di  questa
collina si apre la valle dei bazar, che dalla  moschea  di  Bajazet  va  fino  a
quella della sultana  Validè,  ed  abbraccia  un  labirinto  immenso  di  strade
coperte, piene di gente e di rumore, da cui  s'esce  colla  vista  annebbiata  e
colle orecchie stordite. Sulla terza collina, che domina ad un tempo il  mar  di
Marmara e il Corno d'oro, giganteggia la moschea di Solimano,  rivale  di  Santa
Sofia, gioia e splendore di Stambul, come dicono i  poeti  turchi,  e  la  torre
meravigliosa del Ministero della guerra, il  quale  s'alza  sulle  rovine  degli
antichi palazzi dei Costantini, abitati un tempo da Maometto  il  conquistatore,
poi convertiti in serraglio delle vecchie sultane. Fra  la  terza  e  la  quarta
altura si  stende  come  un  ponte  aereo  l'enorme  acquedotto  dell'imperatore
Valente, formato da due ordini d'archi leggerissimi,  vestiti  di  verzura,  che
spenzola  a  ghirlande  sopra  la  valle  popolata  di  case.  Si  passa   sotto
l'acquedotto, si sale sulla quarta  collina.  Qui,  sulle  rovine  della  chiesa
famosa dei Santi Apostoli, fondata  dall'imperatrice  Elena  e  rifabbricata  da
Teodora, s'eleva la moschea di Maometto II, circondata di scuole,  d'ospedali  e
d'alberghi da carovane; accanto alla moschea, il bazar degli schiavi, i bagni di
Maometto e la colonna granitica di Marciano, che porta ancora il  suo  cippo  di
marmo ornato delle aquile imperiali; e vicino alla colonna il luogo dove era  la
piazza dell'Et-Meidan, in cui fu consumata la  strage  famosa  dei  Giannizzeri.
S'attraversa un'altra valle, coperta da un'altra città, e si  sale  alla  quinta
collina, sulla quale è posta la moschea di Selim, presso all'antica cisterna  di
San Pietro, convertita in giardino. Sotto, lungo il Corno d'oro,  si  stende  il
Fanar, quartiere greco, sede  del  patriarca,  in  cui  s'è  rifugiata  l'antica
Bisanzio, coi discendenti dei Paleologhi e dei  Comneni,  e  dove  seguirono  le
orrende carnificine del 1821. Si scende in una quinta valle, si  sale  sopra  la
sesta collina. Qui s'è già  sul  terreno  che  occupavano  le  otto  coorti  dei
quarantamila Goti di Costantino, fuori della cerchia delle prime mura, le  quali
non abbracciavano che la quarta collina; e appunto nello spazio  occupato  dalla
coorte settima, che ha lasciato al  luogo  il  nome  di  Hebdomon.  Sulla  sesta
collina, rimangono le mura del palazzo  di  Costantino  Porfirogenete,  dove  si
coronavano gl'imperatori, chiamato  ora  dai  turchi  Tekir-Serai,  palazzo  dei
principi. Ai piedi della collina, Balata, il ghetto di Costantinopoli, quartiere
immondo, che s'allunga sulla riva del Corno fino alle mura della città, e al  di
qua di Balata, il sobborgo antico delle Blacherne, una volta ornato  di  palazzi
dai tetti dorati, soggiorno  prediletto  degl'imperatori,  famoso  per  la  gran
chiesa dell'imperatrice Pulcheria e per il santuario delle reliquie;  ora  pieno
di rovine e tristezza. Alle Blacherne cominciano le mura merlate che  dal  Corno
d'oro corrono fino al mar di Marmara, abbracciando la settima  collina,  dov'era
il foro boario, e c'è ancora il piedestallo della colonna d'Arcadio: la  collina
più orientale e più grande di Stambul, fra la quale e le  altre  sei  scorre  il
piccolo fiume Lykus, che entra nella città presso la porta di Carisio e si va  a
gettar nel mare vicino all'antico porto di Teodosio. Dalle mura delle Blacherne,
si vede ancora il sobborgo d'Ortaksiler, che scende dolcemente  verso  la  rada,
incoronato di giardini; al di là d'Ortaksiler il sobborgo  d'Eyub,  terra  santa
degli Osmanli, colla sua moschea gentile, e il suo vasto cimitero ombreggiato da
un bosco di cipressi e biancheggiante di  mausolei  e  di  tombe;  dietro  Eyub,
l'altopiano dell'antico campo militare, dove le legioni levavan  sugli  scudi  i
nuovi imperatori; e di là dall'altopiano,  altri  villaggi  i  cui  vivi  colori
ridono vagamente in mezzo al verde dei boschetti bagnati dalle ultime acque  del
Corno d'oro. Ecco Stambul. È divina. Ma il  cuore  si  sgomenta  a  pensare  che
questo sterminato villaggio asiatico si stende sulle rovine  di  quella  seconda
Roma,  di  quell'immenso  museo  di  tesori  rapiti  all'Italia,  alla   Grecia,
all'Egitto, all'Asia minore, di cui il solo ricordo abbaglia la  mente  come  un
sogno divino. Dove sono i grandi portici che attraversavano la  città  dal  mare
alle mura, le cupole dorate, i colossi equestri che s'innalzavano  sui  pilastri
titanici dinanzi agli anfiteatri e alle terme, le sfingi di  bronzo  sedute  sui
piedestalli di porfido, i templi e i  palazzi  che  innalzavano  i  frontoni  di
granito in mezzo a un popolo aereo di numi di marmo  e  d'imperatori  d'argento?
Tutto è sparito o trasformato. Le statue equestri di bronzo son  state  fuse  in
cannoni; le rivestiture di rame degli obelischi, ridotte in monete; i  sarcofagi
delle imperatrici, cangiati in fontane; la chiesa di Santa Irene è un  arsenale,
la cisterna di Costantino un'officina, il piedestallo  della  colonna  d'Arcadio
una bottega di maniscalco, l'Ippodromo un  mercato  di  cavalli;  l'edera  e  le
macerie coprono le fondamenta delle reggie, sul suolo  degli  anfiteatri  cresce
l'erba dei cimiteri, e poche iscrizioni calcinate dagli incendi o mutilate dalle
scimitarre degl'invasori rammentano  che  su  quei  colli  vi  fu  la  metropoli
meravigliosa dell'impero d'Oriente. Su questa immane rovina siede Stambul,  come
un'odalisca sopra un sepolcro, aspettando la sua ora.



ALL'ALBERGO

Ed ora i lettori vengano con me all'albergo a prendere un po'  di  respiro.  Una
gran parte di quello che ho descritto fin qui, il mio amico ed io lo vedemmo  il
giorno stesso dell'arrivo: immagini chi  legge  come  dovessimo  aver  la  testa
ritornando all'albergo sul far della notte. Per strada non si disse una  parola,
e appena entrati nella camera, ci lasciammo cadere sul sofà guardandoci in  viso
e domandandoci tutt'e due insieme: - Che te ne pare? - Che cosa  ne  dici?  -  E
pensare ch'io son venuto qui per dipingere! - Ed io per scrivere! E  ci  ridemmo
sul viso in atto di fraterno compatimento. Quella sera, in fatti, ed  anche  per
varii giorni dopo, sua maestà Abdul-Aziz m'avrebbe potuto offrire in premio  una
provincia dell'Asia Minore, che non sarei riuscito a metter insieme dieci  righe
intorno alla capitale dei suoi Stati, tanto è vero che per descrivere le  grandi
cose  bisogna  farsi  di  lontano,  e  per  ricordarsene  bene,  averle  un  po'
dimenticate. E poi come avrei potuto scrivere in una camera da cui si vedeva  il
Bosforo, Scutari e la cima dell'Olimpo? L'albergo stesso era uno  spettacolo.  A
tutte le ore del giorno, per le scale e pei  corridoi,  andava  e  veniva  gente
d'ogni paese. Alla tavola rotonda sedevano ogni giorno venti nazioni. Desinando,
non mi potevo levar dalla testa d'essere un delegato del governo italiano, e  di
dover prendere la parola alle frutta su qualche grande questione internazionale.
C'erano visi rosei di lady, teste scapigliate d'artisti,  grinte  d'avventurieri
da batterci moneta sopra, testine di vergini bizantine a cui non mancava che  il
nimbo d'oro, faccie bizzarre e sinistre; e ogni giorno cangiavano. Alle  frutta,
quando tutti parlavano, pareva d'essere nella torre di Babele.  Vi  conobbi  fin
dal primo giorno parecchi  russi  infatuati  di  Costantinopoli.  Ogni  sera  ci
ritrovavamo là, di ritorno dai punti estremi della  città,  e  ognuno  aveva  un
viaggio da raccontare. Chi era salito in cima alla torre  del  Seraschiere,  chi
aveva visitato i cimiteri di Eyub, chi veniva da Scutari, chi  aveva  fatto  una
corsa sul Bosforo; la conversazione era tutta ordita  di  descrizioni  piene  di
colori e di luce;  e  quando  mancava  la  parola,  i  vini  dolci  e  profumati
dell'Arcipelago facevano da suggeritori. C'erano pure alcuni miei  concittadini,
bellimbusti danarosi, che mi fecero divorar molta stizza, perchè dalla  minestra
alle frutta non facevano che dire ira  d'Iddio  di  Costantinopoli:  e  che  non
c'eran marciapiedi, e che i teatri erano oscuri, e che non si sapeva come passar
la sera. Erano venuti a Costantinopoli per passar la sera. Uno di costoro  aveva
fatto il viaggio sul Danubio. Gli domandai se gli era piaciuto il gran fiume. Mi
rispose che in nessuna  parte  del  mondo  si  cucinava  lo  storione  come  sui
piroscafi della reale e imperiale Compagnia austriaca.  Un  altro  era  un  tipo
amenissimo di viaggiatore amoroso; uno di coloro che viaggiano per sedurre,  col
taccuino delle conquiste. Era un  contino  lungo  e  biondo,  largamente  dotato
dell'ottavo dono dello Spirito Santo, che quando il discorso cadeva sulle  donne
turche, chinava la testa con un sorriso misterioso, e non  pigliava  parte  alla
conversazione se non con mezze parole troncate  sempre  artificialmente  da  una
sorsata di vino. Arrivava tutti i giorni a  desinare  un  po'  più  tardi  degli
altri, tutto ansante, coll'aria d'averla fatta al Sultano un quarto d'ora prima,
e tra un piatto e l'altro faceva passare di tasca in tasca, con  molta  cautela,
dei bigliettini piegati, che  dovevano  parere  lettere  d'odalische,  ed  erano
sicurissimamente note d'albergo.  Ma  i  soggetti  che  s'inciampano  in  questi
alberghi di città cosmopolite! Bisogna esserci  stati  per  crederci.  V'era  un
giovane ungherese, sulla trentina, alto, nervoso, con due occhi diabolici e  una
parlantina febbrile, il quale, dopo aver fatto il segretario d'un ricco  signore
a Parigi, era andato ad arruolarsi fra gli zuavi francesi in Algeria, era  stato
ferito e preso prigioniero dagli Arabi, poi scappato nel Marocco, poi  ritornato
in Europa e  corso  all'Aja  a  chiedere  il  grado  d'ufficiale  per  andare  a
combattere contro gli  Accinesi;  respinto  all'Aja,  aveva  deciso  d'arrolarsi
nell'esercito turco; ma passando a Vienna per  venire  a  Costantinopoli,  s'era
preso una palla di pistola nel collo, in un  duello  per  una  donna,  e  faceva
vedere la cicatrice; respinto anche a Costantinopoli, - cos'ho da fare? - diceva
- je suis enfant de l'aventure; bisogna bene ch'io mi batta; ho già trovato  chi
mi conduce alle Indie, - e mostrava il biglietto d'imbarco -;  mi  farò  soldato
inglese; nell'interno c'è sempre qualcosa da fare; io non cerco che di battermi;
che cosa m'importa  di  morire?  Tanto  ho  un  polmone  rovinato.  -  Un  altro
bell'originale era un francese, la cui vita  pareva  non  fosse  altro  che  una
perpetua  guerra  colla  posta:  aveva  una  quistione  pendente  con  la  posta
austriaca, colla francese, coll'inglese; mandava articoli di protesta alla  Neue
Freie Presse; lanciava impertinenze telegrafiche a tutte le stazioni postali del
continente, aveva ogni giorno un diverbio a qualche  finestrino  di  posta,  non
riceveva una lettera a tempo, non ne scriveva una che arrivasse dov'era mandata,
e raccontava a tavola tutte le sue disgrazie e tutte le sue baruffe, concludendo
sempre coll'assicurarci che la Posta gli avrebbe accorciata la vita. Mi  ricordo
pure d'una signora greca, un viso di spiritata, vestita bizzarramente, e  sempre
sola, che ogni sera si alzava da tavola a metà del desinare, e se n'andava  dopo
aver fatto sul piatto un segno cabalistico di cui nessuno riuscì mai a capire il
significato. Non ho più dimenticata nemmeno una coppia valacca, un  bel  giovane
sui venticinque anni e una giovanetta sul primo sboccio, comparsi una sera sola,
che erano indubitatamente due fuggiaschi; lui  rapitore,  lei  complice;  perchè
bastava fissarli un momento per farli arrossire, e ogni volta  che  s'apriva  la
porta, scattavano come due molle. Di chi altri mi ricordo? di cento altri, se ci
pensassi. Era una lanterna magica. Ci divertivamo, il mio amico ed io, i  giorni
dell'arrivo d'un piroscafo, a veder entrare la gente per  la  porta  di  strada:
tutti stanchi, sbalorditi, qualcuno ancora commosso dallo spettacolo della prima
entrata; faccie che dicevano: - Che mondo è questo? Dove siamo venuti a cascare?
- Un giorno entrò  un  giovinetto,  arrivato  allora,  che  pareva  matto  dalla
contentezza di essere finalmente a Costantinopoli, sogno della sua  infanzia,  e
stringeva con tutt'e due le mani la mano di suo padre; e suo  padre  gli  diceva
con voce commossa: - Je suis heureux de te voir heureux, mon cher enfant. -  Poi
passavamo le ore calde alla finestra a guardare la Torre  della  fanciulla,  che
s'alza, bianca come la neve, sopra uno scoglio solitario del Bosforo, in  faccia
a Scutari; e mentre fantasticavamo sulla leggenda del principe di Persia che  va
a succhiare il veleno dal braccio della bella sultana, morsicata dall'aspide, da
una finestra della casa in faccia, ogni giorno alla  stess'ora,  un  ragazzo  di
cinque anni ci faceva le corna. Tutto era curioso in quell'albergo. Fra le altre
cose, dinanzi alla porta, trovavamo ogni sera  uno  o  due  soggetti  di  faccia
equivoca, che dovevano essere provveditori di  modelle  per  i  pittori,  e  che
pigliando tutti per pittori, a tutti domandavano a bassa voce: - Una turca?  una
greca? un'armena? un'ebrea? una nera?

COSTANTINOPOLI

Ma torniamo a Costantinopoli, e spaziamovi come gli uccelli nel cielo. Qui ci si
può levare tutti i capricci. Si può accendere il sigaro in  Europa  e  andare  a
buttar la cenere in Asia. La mattina,  levandoci,  possiamo  domandarci:  -  Che
parte del mondo vedrò quest'oggi? - Si può scegliere fra due  continenti  e  due
mari. S'ha a nostra disposizione dei cavalli sellati in  ogni  piazzetta,  delle
barchette a vela in ogni seno, dei  piroscafi  a  cento  scali;  il  caicco  che
guizza, la talika che vola, e un esercito  di  ciceroni  che  parlano  tutte  le
lingue d'Europa. Volete sentir la commedia italiana?  veder  ballare  i  dervis?
sentir le buffonate di Caragheuz,  il  pulcinella  turco?  udire  le  canzonette
licenziose dei teatrini di Parigi? assistere alle  rappresentazioni  ginnastiche
degli zingari? farvi raccontare una leggenda araba  da  un  rapsodo?  andare  al
teatro greco? sentir predicare un iman? veder passare  il  Sultano?  Chiedete  e
domandate. Tutte le nazioni sono al  vostro  servizio:  l'armeno  per  farvi  la
barba, l'ebreo per lustrarvi le scarpe, il turco per condurvi in barca, il  nero
per strofinarvi nel bagno, il greco per porgervi il caffè, e  tutti  quanti  per
truffarvi. Per dissetarvi, passeggiando, trovate dei  gelati  fatti  colla  neve
dell'Olimpo; se siete golosi, potete bere dell'acqua del Nilo, come il  Sultano;
se siete deboli di stomaco, acqua dell'Eufrate;  se  siete  nervosi,  acqua  del
Danubio. Potete desinare come l'arabo nel deserto o come l'epulone  alla  Maison
dorée. Per far la siesta, avete  i  cimiteri;  per  stordirvi,  il  ponte  della
Sultana Validè; per sognare, il Bosforo; per passar  la  domenica,  l'Arcipelago
dei Principi; per veder l'Asia Minore, il monte di Bulgurlù; per vedere il Corno
d'Oro, la torre di Galata; per veder ogni cosa, la torre del Seraschiere.  Ma  è
una città ancora più strana che bella. Le  cose  che  non  si  presentarono  mai
insieme alla nostra mente, là  si  presentano  insieme  al  nostro  sguardo.  Da
Scutari parte la carovana per la Mecca e parte  il  treno  diretto  per  Brussa,
l'antica metropoli; fra le mura  misteriose  del  vecchio  serraglio,  passa  la
strada ferrata che va a Sofia; i soldati turchi scortano il prete cattolico  che
porta il Santo Sacramento; il popolo fa festa nei cimiteri; la vita, la morte, i
piaceri, tutto s'allaccia e si  confonde.  V'è  il  movimento  di  Londra  e  la
letargia dell'ozio  orientale,  un'immensa  vita  pubblica  e  un  impenetrabile
mistero nella vita privata; un governo assoluto e una libertà senza confini. Per
i primi giorni non si raccapezza nulla; pare che d'ora in ora  o  debba  cessare
quel disordine o seguire una rivoluzione; ogni sera, tornando a casa, ci  sembra
di tornare da un viaggio; ogni mattina uno si domanda: - Ma è proprio qui vicina
Stambul? - Non si sa dove andare a  battere  il  capo,  un'impressione  cancella
l'altra, i desiderii s'affollano, il tempo fugge; si vorrebbe restar là tutta la
vita, si vorrebbe partire il giorno dopo.  E  quando  poi  s'ha  da  descriverlo
questo caos? A momenti vi vien la tentazione di fare un fascio di tutti i  libri
e di tutti i fogli che ho sul tavolino, e di buttare ogni cosa dalla finestra.

GALATA

Il mio amico ed io non mettemmo testa  a  partito  che  il  quarto  giorno  dopo
l'arrivo. Eravamo sul ponte, di buon  mattino,  ancora  incerti  di  quello  che
avremmo fatto nella giornata, quando Yunk mi propose di fare  una  prima  grande
passeggiata, con una meta determinata, coll'animo tranquillo,  per  osservare  e
studiare. - Percorriamo, - mi disse, - tutta la riva  settentrionale  del  Corno
d'Oro, anche a costo di camminare fino a notte. Faremo colezione in una  taverna
turca, faremo la siesta all'ombra  d'un  platano  e  ritorneremo  in  caicco.  -
Accettai  la  proposta;  ci  provvedemmo  di  sigari  e  di  spiccioli,  e  data
un'occhiata alla carta della città, ci avviammo verso  Galata.  Il  lettore  che
vuol conoscer bene Costantinopoli faccia il sacrifizio d'accompagnarci.
 Arriviamo a Galata. Di qui deve cominciare la nostra escursione. Galata è posta
sopra una collina che forma promontorio  tra  il  Corno  d'Oro  ed  il  Bosforo,
dov'era il grande cimitero dei Bizantini antichi. È la city  di  Costantinopoli.
Son quasi tutte vie strette e tortuose, fiancheggiate da taverne, da botteghe di
pasticcieri, di barbieri e di macellai, da caffè greci ed armeni, da ufficii  di
negozianti, da officine, da baracche; tutto fosco, umido, fangoso, viscoso, come
nei bassi quartieri di Londra. Una folla fitta e affaccendata va e viene per  le
vie, aprendosi continuamente per dar passo  ai  facchini,  alle  carrozze,  agli
asini, agli omnibus. Quasi tutto il commercio di Costantinopoli passa per questo
borgo. Qui la Borsa, la Dogana, gli uffici del  Lloyd  austriaco,  quelli  delle
Messaggerie francesi; chiese, conventi, ospedali, magazzeni. Una strada  ferrata
sotterranea unisce Galata a Pera. Se non si vedessero per le strade dei turbanti
e dei fez, non parrebbe d'essere in Oriente. Da tutte le parti si  sente  parlar
francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria,  e  si
danno ancora un po' d'aria di padroni, come quando chiudevano il  porto  a  loro
piacimento, e rispondevano col cannone alle minaccie degl'Imperatori.  Ma  della
loro potenza non rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute
da grossi pilastri e da arcate pesanti, e l'antico edifizio  dove  risiedeva  il
Podestà. La Galata antica è quasi interamente sparita. Migliaia di casupole sono
state rase al suolo per far luogo a due lunghe strade: una delle  quali  rimonta
la collina verso  Pera,  e  l'altra  corre  parallela  alla  riva  del  mare  da
un'estremità all'altra di Galata. Per questa c'innoltrammo il mio amico  ed  io,
rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per lasciar passare dei grandi omnibus,
preceduti da turchi scamiciati che sgombravano la strada a  colpi  di  verga.  A
ogni passo ci suonava nell'orecchio un grido. Il facchino turco urlava: -  Sacun
ha! - (Largo!); il saccà armeno, portatore d'acqua: - Varme  su!  -  l'acquaiolo
greco: - Crio nero! - l'asinaio turco: - Burada! -  il  venditore  di  dolci:  -
Scerbet! - il venditore di  giornali:  -  Neologos!  -  il  carrozziere  franco:
Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino,  eravamo  assordati.  A  un  certo
punto,  con  nostra  meraviglia,  ci  accorgemmo  che  la  strada  non  era  più
lastricata, e pareva che il lastrico fosse stato levato di fresco. Ci fermammo a
guardare, cercando d'indovinar la cagione. Un  bottegaio  italiano  ci  levò  la
curiosità. Quella strada conduce ai palazzi del Sultano.



[Torre di Galata] Pochi mesi prima  passando  di  là  il  corteo  imperiale,  il
cavallo di sua maestà Abdul-Aziz era scivolato e  caduto,  e  il  buon  Sultano,
irritato, aveva ordinato che fosse tolto immediatamente il  lastrico  dal  luogo
della caduta fino al suo palazzo. In questo punto memorabile fissammo il termine
orientale del  nostro  pellegrinaggio,  e  voltate  le  spalle  al  Bosforo,  ci
dirigemmo, per una serie di vicoli tetri e sudici, verso la torre di Galata.  La
città di Galata ha la forma d'un ventaglio  spiegato,  e  la  torre,  posta  sul
culmine della collina, rappresenta il suo perno. È una torre rotonda, altissima,
di color fosco, che termina in una punta conica, formata da un  tetto  di  rame,
sotto il quale ricorre un  giro  di  larghe  finestre  vetrate,  una  specie  di
terrazza coperta e trasparente, dove giorno  e  notte  vigila  una  guardia  per
segnalare il primo indizio d'incendio che apparisca nell'immensa città.  Fino  a
questa torre giungeva la Galata dei Genovesi, e la torre s'innalza appunto sulla
linea delle mura che separavano Galata da Pera;  mura  di  cui  non  rimane  più
traccia. E neanche la torre non è più l'antica torre di Cristo, eretta in  onore
dei Genovesi caduti combattendo; poichè la rifabbricò il sultano Mahmut  II,  ed
era già stata prima restaurata da Selim  III;  ma  è  pur  sempre  un  monumento
incoronato della gloria di Genova, e un Italiano  non  può  contemplarlo,  senza
pensare con un sentimento d'alterezza a quel pugno di mercanti, di marinai e  di
soldati, orgogliosamente audaci ed  eroicamente  cocciuti,  che  vi  tennero  su
inalberata per secoli la bandiera della madre repubblica, trattando  da  pari  a
pari cogl'Imperatori d'Oriente. Appena oltrepassata la torre, ci trovammo in  un
cimitero musulmano.


[Cimitero di Galata] Era quello che si chiama il cimitero di Galata:  un  grande
bosco di cipressi, che dalla sommità della collina di  Pera  scende  ripidamente
fino al Corno d'Oro, ombreggiando una miriade  di  colonnette  di  pietra  o  di
marmo, inclinate in tutte le direzioni, e sparse in disordine giù per la  china.
Alcune di queste colonnette son  terminate  in  forma  di  turbante  rotondo,  e
serbano traccie di colori e d'iscrizioni; altre son terminate  in  punta;  molte
rovesciate; alcune monche, col turbante portato via di netto,  e  si  crede  che
sian quelle dei giannizzeri, che il Sultano Mahmut volle sfregiare anche dopo la
morte. La maggior parte delle fosse sono indicate da un rialzamento di terra  in
forma di prisma, e da due sassi confitti alle due estremità, sui  quali,  giusta
la superstizione musulmana, devono sedere  i  due  angeli  Nekir  e  Munkir  per
giudicare l'anima del defunto.  Qua  e  là  si  vedono  dei  piccoli  terrapieni
circondati da un muricciolo o da una ringhiera, in mezzo  ai  quali  s'alza  una
colonnetta sormontata da un grosso turbante, e intorno altre colonnette  minori:
è un pascià o un gran signore, sepolto  in  mezzo  alle  sue  donne  e  ai  suoi
figliuoli. Dei piccoli sentieri serpeggiano e s'incrociano  in  mille  punti  da
un'estremità all'altra del bosco; qualche turco fuma la pipa  seduto  all'ombra;
alcuni ragazzi corrono e saltellano in mezzo ai sepolcri; qualche vacca pascola;
centinaia di tortore grugano fra i rami dei cipressi; passano  gruppi  di  donne
velate; e fra cipresso e cipresso, luccica giù  in  fondo  l'azzurro  del  Corno
d'Oro rigato di bianco dai minareti di Stambul.


[Pera] Usciamo dal cimitero,  ripassiamo  ai  piedi  della  torre  di  Galata  e
infiliamo la strada principale di Pera. Pera è alta cento metri sopra il mare, è
ariosa ed allegra, e guarda il Corno d'Oro ed il Bosforo.  È  la  Westend  della
colonia europea; la città dell'eleganza e dei piaceri. La strada che percorriamo
è fiancheggiata da alberghi inglesi e francesi, da caffè signorili, da  botteghe
luccicanti, da teatri, da Consolati, da club, da palazzi d'ambasciatori;  tra  i
quali giganteggia il palazzo di pietra dell'ambasciata russa,  che  domina  come
una fortezza Pera Galata e  il  sobborgo  di  Funduclù,  posto  sulla  riva  del
Bosforo. Qui brulica una folla affatto diversa da quella di Galata.  Sono  quasi
tutti cappelli a staio e  cappelletti  piumati  o  infiorati  di  signore.  Sono
zerbinotti greci, italiani e francesi, negozianti d'alto bordo, impiegati  delle
legazioni, ufficiali di navi  straniere,  carrozze  d'ambasciatori,  e  figurine
equivoche d'ogni nazione. I turchi si fermano ad ammirare le teste di cera delle
botteghe dei barbieri, le turche si piantano colla  bocca  aperta  davanti  alle
vetrine delle modiste; l'europeo parla ad alta voce,  sghignazza  e  scherza  in
mezzo alla strada; il musulmano, si sente in casa d'altri, e passa  colla  testa
meno alta che a Stambul. Tutt'a un tratto il mio amico mi fece voltare  indietro
perchè guardassi Stambul: da quel punto, infatti, si vedeva lontano,  dietro  un
velo azzurrino, la collina del Serraglio, Santa Sofia e i minareti  del  Sultano
Ahmed; un altro mondo da quello in cui eravamo; e poi mi disse:  -  Guarda  qui,
adesso. - Abbassai gli occhi e lessi in una vetrina: -  La  dame  aux  camelias,
Madame Bovary, Mademoiselle Giraud ma femme. E anche a me quel rapido  passaggio
fece un senso vivissimo, e dovetti star là un momento a pensarci sopra. Un'altra
volta fermai io il mio compagno e fu per mostrargli un  caffè  meraviglioso:  un
lungo e largo corridoio oscuro, in fondo  al  quale,  per  una  grande  finestra
spalancata, si vedeva a una lontananza che pareva  immensa,  Scutari  illuminata
dal sole.

Andiamo innanzi per la gran strada di Pera, e siamo  quasi  arrivati  in  fondo,
quando sentiamo gridare da una voce tonante: - T'amo,  Adele!  t'amo  più  della
vita! T'amo  quanto  si  può  amare  sulla  terra!  -  Ci  guardiamo  in  faccia
trasecolati. Di dove viene quella voce? Voltandoci, vediamo per le fessure  d'un
assito un giardino pieno di sedili, un palco scenico e dei commedianti che fanno
le prove. Una signora turca, poco  lontano  da  noi,  guarda  anch'essa  per  le
fessure, e ride dai precordi. Un vecchio turco che passa  scrolla  la  testa  in
segno di compassione. All'improvviso la turca getta  un  grido  e  fugge;  altre
donne là intorno mettono uno strillo e voltan le spalle. Che è  accaduto?  È  un
turco, un uomo sulla cinquantina, conosciuto da tutta Costantinopoli,  il  quale
passeggia per le vie nello stato in cui voleva  ridurre  tutti  i  musulmani  il
famoso monaco Turk sotto il regno di Maometto IV: ignudo dalla testa  ai  piedi.
Il disgraziato saltella sui ciottoli urlando e sghignazzando,  e  un  branco  di
monelli lo insegue facendo  un  baccano  d'inferno.  -  È  da  sperarsi  che  lo
arresteranno, - dico al portinaio del teatro. - Nemmen per sogno, - mi risponde;
- son mesi che gira per la città liberamente. - Intanto vedo giù per la  via  di
Pera gente che vien fuori dalle botteghe, donne che  scappano,  ragazze  che  si
coprono il viso, porte che si chiudono, teste che si ritirano dalle finestre.  E
questo segue tutti i giorni e nessuno se ne dà pensiero!

Uscendo dalla via di Pera, ci troviamo dinanzi a un  altro  cimitero  musulmano,
ombreggiato da un boschetto di cipressi e chiuso tutt'intorno da un  alto  muro.
Se non ce l'avessero detto poi, non avremmo mai indovinato  il  perchè  di  quel
muro, che fu innalzato di fresco: ed è che il bosco sacro al  riposo  dei  morti
era diventato un nido d'amori  soldateschi!  Andando  oltre,  infatti,  trovammo
l'immensa caserma d'artiglieria innalzata da Scialil-Pascià: un solido  edificio
di forma rettangolare, dello stile moresco del rinascimento turco, con una porta
fiancheggiata da colonne leggere e sormontata dalla  mezzaluna  e  dalla  stella
d'oro di Mahmut, con gallerie sporgenti e  finestrine  ornate  di  stemmi  e  di
arabeschi.  Dinanzi  alla  caserma  passa  la  strada  di  Dgiedessy  che  è  un
prolungamento di quella di Pera, di là dalla strada si stende una  vasta  piazza
d'armi, e di là dalla piazza d'armi altri borghi. Qui, dove nei  giorni  feriali
regna ordinariamente un profondo silenzio,  la  sera  della  domenica  passa  un
torrente di gente e una processione di carrozze, tutta la  società  elegante  di
Pera, che va a spandersi nei giardini nelle birrerie e nei  caffè  di  là  dalla
Caserma. In uno di questi caffè si fece la nostra prima sosta; nel  caffè  della
Bella vista, luogo di ritrovo del fiore della società perota, e degno  veramente
del suo nome; perchè dal suo vasto giardino, che sporge come una terrazza  sulla
sommità dell'altura, si vede sotto il grande sobborgo musulmano di Funduclù,  il
Bosforo coperto di  bastimenti,  la  riva  asiatica  sparsa  di  giardini  e  di
villaggi, Scutari colle sue bianche moschee, una bellezza di verde, d'azzurro, e
di luce, che sembra un sogno. Ci levammo di là  con  rammarico,  e  ci  parve  a
tutt'e due d'esser pitocchi a buttar sul vassoio otto miserabili soldi  per  due
tazze di caffè, dopo aver goduto quella visione di paradiso terrestre.



[Gran Campo dei Morti] Uscendo dalla Bella vista ci trovammo in  mezzo  al  Gran
Campo dei morti dove è sepolta in cimiteri distinti  gente  di  tutti  i  culti,
eccettuato l'ebraico. È un bosco fitto di cipressi, d'acacie e di sicomori,  nel
quale biancheggiano migliaia di pietre sepolcrali,  che  da  lontano  paiono  le
rovine d'un immenso edifizio. Tra albero e albero si vede il Bosforo e  la  riva
asiatica. Fra le tombe serpeggiano dei larghi viali in cui passeggiano dei greci
e  degli  armeni.  Su  alcune  pietre  stanno  seduti  dei  turchi  colle  gambe
incrociate, guardando il Bosforo. V'è un'ombra, un fresco e  una  pace  che,  al
primo entrarvi, si prova una sensazione deliziosa, come entrando d'estate in una
grande cattedrale semioscura. Ci  arrestammo  nel  cimitero  armeno.  Le  pietre
sepolcrali son tutte grandi e piane, coperte d'iscrizioni nel carattere regolare
ed elegante della lingua armena, e su quasi tutte  è  scolpita  un'immagine  che
rappresenta il mestiere o la professione del morto. Sono martelli, seghe, penne,
scrigni, collane; il banchiere è rappresentato da una bilancia, il prete da  una
mitra, il barbiere da una catinella, il chirurgo  da  una  lancetta.  Sopra  una
pietra vedemmo una testa spiccata dal busto, e il busto grondante di sangue: era
il sepolcro d'un assassinato o d'un giustiziato. Un armeno vi  dormiva  accanto,
sdraiato sull'erba, colla faccia in aria. Entrammo nel cimitero musulmano. Anche
qui una infinità di colonnette a file e a gruppi disordinati; alcune colla testa
dipinta e dorata; quelle delle donne  terminate  da  un  gruppo  d'ornamenti  in
rilievo che rappresentano dei fiori; molte circondate d'arbusti e di pianticelle
fiorite. Mentre stavamo  osservando  una  di  queste  colonne,  due  turchi  che
tenevano per mano un bambino,  ci  passarono  accanto,  andarono  innanzi  altri
cinquanta passi, si fermarono dinanzi a un tumulo, vi sedettero sopra, e  aperto
un involto che portavano sotto il braccio, si misero a mangiare.  Io  stetti  ad
osservarli. Quand'ebbero finito, il più avanzato in età raccolse qualchecosa  in
un foglio di carta, - mi parve un pesce e del pane, - e con un atto  rispettoso,
mise il piccolo pacco in un buco accanto al sepolcro. Dopo questo accesero tutti
e due la pipa e  fumarono  tranquillamente:  il  bambino  s'alzò  e  si  mise  a
scorrazzare per il cimitero. Quel pesce e quel pane, ci fu spiegato  poi,  erano
la parte di cibo che i turchi lasciavano in segno  d'affetto  al  loro  parente,
sepolto probabilmente da poco; e quel buco era l'apertura che  si  lascia  nella
terra vicino al capo di tutti  i  sepolti  musulmani,  perchè  possano  udire  i
lamenti e i pianti dei loro cari e ricevere qualche goccia  d'acqua  di  rosa  o
sentir il profumo di qualche fiore. Finita  la  loro  fumatina  funebre,  i  due
turchi pietosi si alzarono, e ripreso per mano il bambino, disparvero  in  mezzo
ai cipressi.


[Pancaldi] Usciamo dal cimitero, ci troviamo in un  altro  quartiere  cristiano,
Pancaldi, attraversato da  strade  spaziose,  fiancheggiate  da  edifizi  nuovi;
circondato di villette, di  giardini,  di  ospedali  e  di  grandi  caserme;  il
sobborgo di Costantinopoli più lontano dal mare;  visitato  il  quale,  torniamo
indietro per ridiscendere verso  il  Corno  d'Oro.  Ma  nell'ultima  strada  del
sobborgo, assistiamo a  uno  spettacolo  nuovo  e  solenne:  il  passaggio  d'un
convoglio funebre greco. Una folla silenziosa si schiera dalle due  parti  della
strada:  viene  innanzi  un  gruppo  di  preti  greci,  colle  toghe   ricamate;
l'archimandrita con una corona sul capo e un lungo abito luccicante  d'oro;  dei
giovani ecclesiastici vestiti di colori vivi; uno stuolo di  parenti  e  d'amici
coi loro vestimenti più ricchi, e in mezzo a  loro  una  bara  inghirlandata  di
fiori, sulla quale è distesa una giovanetta di quindici anni, vestita di raso  e
tutta splendente di gioielli, col viso scoperto, - un piccolo viso  bianco  come
la neve, colla bocca leggermente contratta in una espressione di  spasimo,  -  e
due bellissime treccie nere distese sulle spalle e sul seno. La bara  passa,  la
folla si chiude, il convoglio s'allontana, e noi rimaniamo soli e pensierosi  in
una strada deserta.


[San Dimitri] Scendiamo  dalla  collina  di  Pancaldi,  attraversiamo  il  letto
asciutto d'un torrentello, saliamo su per un altro  colle,  ci  troviamo  in  un
altro sobborgo: San Dimitri. Qui la popolazione è quasi tutta greca.  Si  vedono
da  ogni  parte  occhi  neri  e  nasi  aquilini  e  affilati;  vecchi  d'aspetto
patriarcale; giovani svelti e arditi; donnine colle trecce sulle spalle; ragazzi
dai visetti astuti che sgallettano in mezzo alla via fra le galline e i  maiali,
riempiendo l'aria di grida argentine e di parole armoniose. Ci avvicinammo a  un
gruppo di quei ragazzi che si baloccavano coi sassi, chiacchierando tutti ad una
voce. Uno di essi, sugli otto anni,  il  più  indiavolato  di  tutti,  che  ogni
momento buttava in aria il suo piccolo fez gridando:  -  Zito!  Zito!  -  (Viva!
Viva!) - si voltò improvvisamente verso un altro monello seduto  dinanzi  a  una
porta e gridò: - Checchino! Buttami la palla! - Io lo afferrai  per  il  braccio
con un movimento da zingaro  rapitore  di  fanciulli  e  gli  dissi:  -  Tu  sei
italiano! - No signore, - rispose, -  sono  di  Costantinopoli.  -  E  chi  t'ha
insegnato a parlare italiano? - domandai. - Oh bella! - rispose, - la mamma. - E
dov'è la mamma? In quel punto mi s'avvicinò una donna con  un  bimbo  in  collo,
tutta sorridente, e mi disse ch'era pisana, moglie d'uno scalpellino  livornese,
che si trovava a Costantinopoli da ott'anni, e che quel ragazzo era suo  figlio.
Se quella buona donna avesse avuto un bel viso di matrona,  una  corona  turrita
sulla testa e un manto sulle spalle, non  avrebbe  rappresentato  più  vivamente
l'Italia ai miei occhi e al mio cuore. - Come vi ritrovate qui?- le domandai;  -
che ne  dite  di  Costantinopoli?  -  Che  n'ho  da  dire?-  rispose  sorridendo
ingenuamente. - L'è una città che... a dirle il vero, mi ci par sempre  l'ultimo
giorno di carnovale. - E qui, dando la stura alla  sua  parlantina  toscana,  ci
fece sapere che pe' musulmani il loro Gesù è Maometto, che un turco può  sposare
quattro donne, che la lingua turca è bravo chi ne intende una  parola,  e  altre
novità dello stesso conio; ma che dette  in  quella  lingua,  in  mezzo  a  quel
quartiere greco, ci riuscirono più care  di  qualunque  notizia  più  peregrina,
tanto che prima di andarcene lasciammo un piccolo ricordo d'argento nella manina
del monello, e andandocene esclamammo tutti e due insieme:  -  Ah!  una  boccata
d'Italia, di tanto in tanto, come fa bene!


[Tataola] Attraversammo una seconda volta la piccola valle, e ci trovammo in  un
altro quartiere greco, Tataola, dove lo stomaco suonando a  soccorso,  cogliemmo
l'occasione per visitare l'interno  d'una  di  quelle  taverne  innumerevoli  di
Costantinopoli, che hanno un aspetto singolarissimo, e son  tutte  fatte  ad  un
modo. È uno stanzone grandissimo,  di  cui  si  potrebbe  fare  un  teatro,  non
rischiarato per lo più che dalla porta di strada, e ricorso tutt'intorno  da  un
alta galleria di legno a balaustri. Da una parte v'è un enorme fornello dove  un
brigante in maniche di camicia  frigge  dei  pesci,  fa  girare  degli  arrosti,
rimesta degl'intingoli, e s'adopera in altri modi ad accorciare la  vita  umana;
dall'altra un banco dove un'altra faccia minacciosa distribuisce vino  bianco  e
vino nero in bicchieri a manico; in mezzo e sul  davanti,  seggiole  nane  senza
spalliera e tavolette poco più alte delle seggiole che  rammentano  i  bischetti
dei calzolai. Entrammo un po' vergognosi perchè  v'era  un  gruppo  di  greci  e
d'armeni  di  bassa  lega,  e  temevamo  che  ci   guardassero   con   curiosità
canzonatoria;  ma  nessuno  invece  ci  degnò  d'un'occhiata.  Gli  abitanti  di
Costantinopoli sono, io credo, la gente meno curiosa di  questo  mondo;  bisogna
almeno essere Sultani o passeggiar nudi per le strade come  il  pazzo  di  Pera,
perchè qualcuno s'accorga che siete al mondo. Ci sedemmo in un angolo  e  stemmo
ad  aspettare.  Ma  nessuno   veniva.   Allora   capimmo   che   nelle   taverne
costantinopolitane c'è l'uso di servirsi da sè.  Andammo  prima  al  fornello  a
farci dare un arrosto, Dio sa di che quadrupede, poi  al  banco  a  prendere  un
bicchier di vino resinoso di Tenedo, e portato ogni cosa sopra la tavola che  ci
arrivava al ginocchio, mostrandoci  l'un  l'altro  il  bianco  degli  occhi,  si
consumò il sacrificio. Pagammo con rassegnazione, e usciti in silenzio per paura
che ci uscisse dalla bocca un raglio o un latrato, ripigliammo il nostro viaggio
verso il Corno d'Oro.


[Kassim-pascià] Dopo dieci minuti di  cammino,  ci  trovammo  daccapo  in  piena
Turchia, nel grande sobborgo musulmano  di  Kassim-pascià,  in  una  vera  città
popolata di moschee e di conventi di dervis, piena d'orti  e  di  giardini,  che
occupa una collina e una valle, e si distende fino al Corno d'Oro,  abbracciando
tutta l'antica baia di Mandracchio, dal cimitero di Galata fino  al  promontorio
che prospetta il sobborgo di Balata sull'altra riva. Dall'alto di  Kassim-pascià
si gode uno  spettacolo  incantevole.  Si  vede  sotto,  sulla  riva,  l'immenso
arsenale Ters-Kané: un labirinto di bacini, d'opifici, di piazze, di magazzini e
di caserme, che si stende per la lunghezza d'un miglio lungo tutta la parte  del
Corno d'Oro che serve di Porto di guerra; il palazzo del Ministro della  Marina,
elegante e leggero, che par che galleggi sull'acqua,  e  disegna  le  sue  forme
bianche sul verde cupo del cimitero di Galata; il porto percorso da  vaporini  e
caicchi pieni di gente, che guizzano in mezzo alle  corazzate  immobili  e  alle
vecchie fregate della  Guerra  di  Crimea;  e  sulla  sponda  opposta,  Stambul,
l'acquedotto di Valente che slancia i  suoi  archi  altissimi  nell'azzurro  del
cielo, le grandi moschee di Maometto e di Solimano, e una miriade di case  e  di
minareti. Per godere meglio questo spettacolo ci  sedemmo  dinanzi  a  un  caffè
turco, e sorbimmo la quarta o la quinta delle dodici tazze  che,  volere  o  non
volere, stando a Costantinopoli, bisogna tracannare ogni giorno.  Era  un  caffè
meschino, ma come tutti i  caffè  turchi,  originalissimo:  non  molto  diverso,
forse, dai primissimi caffè dei tempi di Solimano il Grande, o da quelli in  cui
irrompeva colla scimitarra nel pugno il quarto Amurat, quando  faceva  la  ronda
notturna per castigar di sua mano  gli  spacciatori  del  liquore  proibito.  Di
quanti editti imperiali, di quante dispute di teologi e lotte sanguinose è stato
cagione questo "nemico del sonno e della  fecondità,"  come  lo  chiamavano  gli
ulema austeri; questo "genio dei sogni e sorgente dell'immaginazione",  come  lo
chiamavano gli ulema di manica larga, ch'è ora, dopo l'amore e  il  tabacco,  il
conforto più dolce d'ogni più povero Osmano! Ora si beve  il  caffè  sulla  cima
della torre di Galata e della  torre  del  Seraschiere,  il  caffè  in  tutti  i
vaporini, il caffè nei cimiteri, nelle botteghe dei  barbieri,  nei  bagni,  nei
bazar. In qualunque parte di Costantinopoli uno si trovi non ha che  a  gridare,
senza voltarsi : - Caffè-gì! (Caffettiere!) e dopo tre minuti gli  fuma  dinanzi
una tazza.

[Il Caffè] Il nostro caffè era una stanza tutta bianca, rivestita di legno  fino
all'altezza d'un uomo, con un divano bassissimo lungo le quattro pareti.  In  un
angolo c'era un fornello su cui un turco dal naso forcuto stava facendo il caffè
in piccole caffettiere di rame, che vuotava  man  mano  in  piccolissime  tazze,
mettendovi egli stesso lo zucchero; poichè da per tutto, a Costantinopoli, si fa
il caffè apposta per ogni avventore, e gli si porta  bell'inzuccherato,  con  un
bicchiere d'acqua che i Turchi bevono sempre prima di avvicinare la  tazza  alle
labbra. Ad una parete era appeso un piccolo specchio, e  accanto  allo  specchio
una specie di rastrelliera piena di rasoi a  manico  fisso;  poichè  la  maggior
parte dei caffè turchi sono ad un tempo botteghe di barbieri, e non di  rado  il
caffettiere è anche cavadenti e salassatore, e  macella  le  sue  vittime  nella
stanza medesima dove gli altri avventori pigliano il caffè. Alla parete  opposta
era appesa un'altra rastrelliera piena di narghilè di cristallo coi lunghi  tubi
flessibili, attorcigliati come  serpenti,  e  di  cibuk  di  terra  cotta  colle
cannette di legno di ciliegio.  Cinque  turchi  pensierosi  stavano  seduti  sul
divano, fumando il narghilè; altri tre erano  dinanzi  alla  porta,  accoccolati
sopra bassissime seggiole di paglia senza spalliera,  l'uno  accanto  all'altro,
colle spalle appoggiate al muro e colla  pipa  alle  labbra;  un  giovane  della
bottega radeva il capo, davanti allo specchio, a un grosso dervis  insaccato  in
una tonaca di pelo di  cammello.  Nessuno  ci  guardò  quando  sedemmo,  nessuno
parlava, e fuorchè il caffettiere e il suo giovane,  nessuno  faceva  il  menomo
movimento. Non si sentiva altro rumore che il gorgoglio dell'acqua dei narghilè,
che somiglia alla voce dei gatti quando fanno le fusa. Tutti guardavano  diritto
dinanzi a sè, cogli occhi fissi, e con un viso che non  esprimeva  assolutamente
nulla. Pareva un piccolo museo di statue di cera. Quante di queste scene mi  son
rimaste impresse nella  memoria!  Una  casa  di  legno,  un  turco  seduto,  una
bellissima veduta lontana, una gran luce e un gran silenzio:  ecco  la  Turchia.
Ogni volta che questo nome mi passa per la mente, ci passano nello stesse  punto
quelle immagini, come un mulino a vento e un canale all'udir nominare Olanda.

[Pialì-Pascià]  Di  là,  fiancheggiando  un  grande  cimitero  mussulmano,   che
dall'alto della collina di Kassim-pascià scende  fino  a  Ters-Kanè,  rimontammo
verso settentrione, scendemmo nella valletta di Pialì-Pascià,  piccolo  sobborgo
mezzo nascosto in mezzo alla verzura dei giardini e degli orti;  e  ci  fermammo
dinanzi alla moschea che gli dà il nome. È una moschea bianca, sormontata da sei
cupole graziose, con un cortile circondato d'archi e di  colonnine  gentili,  un
minareto leggerissimo e una corona di  cipressi  giganteschi.  In  quel  momento
tutte le casette circostanti erano chiuse, le strade deserte, il cortile  stesso
della moschea, solitario; la luce e l'uggia  del  mezzogiorno  avvolgevano  ogni
cosa; e non si sentiva che il ronzìo dei tafani. Guardammo l'orologio: mancavano
tre minuti alle dodici: una delle cinque ore canoniche dei musulmani, in  cui  i
muezzin s'affacciano al terrazzo dei  minareti  per  gridare  ai  quattro  punti
dell'orizzonte le formole sacramentali dell'Islam. Sapevamo  bene  che  non  c'è
minareto in tutta Costantinopoli sul quale, a quell'ora fissa,  non  comparisca,
puntuale come l'automa d'un orologio,  l'annunziatore  del  profeta.  Eppure  ci
pareva strano che anche in quella  estremità  della  città  immensa,  su  quella
moschea solitaria, a quell'ora, in quel  silenzio  profondo,  dovesse  comparire
quella figura e suonare quella voce.  Tenni  l'orologio  in  mano,  e  guardando
attentamente la lancetta dei minuti e la porticina del  terrazzo  del  minareto,
alta quasi come un terzo piano d'una casa ordinaria, stetti aspettando con  viva
curiosità. La lancetta toccò il sessantesimo trattino nero, e nessuno  comparve.
- Non viene ! - dissi. -

[Pialì-Pascià] Eccolo! - rispose Yunk. Era comparso. Il parapetto  del  terrazzo
lo nascondeva tutto, fuorchè  il  viso,  di  cui,  per  la  lontananza,  non  si
distingueva la fisonomia. Stette per qualche secondo immobile; poi si  tappò  le
orecchie colle dita, e alzando il volto al cielo,  gridò  con  una  voce  lenta,
tremula e acutissima, con un accento solenne e lamentevole, le sacre parole, che
risuonano, nello stesso punto su tutti  i  minareti  dell'Affrica,  dell'Asia  e
dell'Europa: - Dio è grande! Non v'è che un Dio! Maometto è il profeta  di  Dio!
Venite alla preghiera! Venite alla salute! Dio è grande! Dio è un  solo!  Venite
alla preghiera! - Poi fece un mezzo giro sul terrazzo e ripetè le stesse  parole
rivolto a settentrione; poi a levante, poi a occidente, e poi disparve. In  quel
punto ci arrivarono all'orecchio fioche fioche le ultime  note  d'un'altra  voce
lontana, che pareva il grido d'uno che chiedesse soccorso, e poi tutto tacque, e
rimanemmo anche noi per qualche minuto silenziosi, con  un  sentimento  vago  di
tristezza come se quelle due voci avessero consigliato la preghiera  soltanto  a
noi, e sparendo quel  fantasma,  fossimo  rimasti  soli  nella  valle  come  due
abbandonati da Dio. Nessun suono di campana mi ha  mai  toccato  il  cuore  così
intimamente; e soltanto quel giorno compresi il perchè Maometto, per chiamare  i
fedeli  alla  preghiera,  abbia  preferito  all'antica  tromba   israelitica   e
all'antica tabella cristiana, il grido dell'uomo. E su quella  scelta  fu  lungo
tempo incerto; onde poco mancò che tutto  l'Oriente  non  pigliasse  un  aspetto
assai diverso da quello che ha ora; poichè s'era scelta la tabella, che  poi  si
cangiò in campana, si sarebbe certo trasformato il minareto, e  uno  dei  tratti
più originali e più graziosi della  città  e  del  paesaggio  orientale  sarebbe
andato perduto.

[Ok-Meidan]  Risalendo  da  Pialì-Pascià  sulla  collina,  verso  occidente,  ci
trovammo in un vastissimo spazio di terreno brullo, da cui si  vedeva  tutto  il
Corno d'Oro e tutta Stambul,  dal  borgo  d'Eyub  alla  collina  del  serraglio;
quattro miglia di giardini e di moschee, una  grandezza  e  una  leggiadria,  da
contemplarsi in ginocchio come una  apparizione  celeste.  Era  l'Ok-meïdan,  la
piazza delle freccie, dove andavano i Sultani a tirar  dell'arco  secondo  l'uso
dei re Persiani. Vi sono ancora sparse, a distanze ineguali, alcune colonnine di
marmo, segnate d'iscrizioni, che  indicano  i  punti  dove  caddero  le  freccie
imperiali. V'è ancora il chiosco elegante, con una tribuna,  da  cui  i  sultani
tendevano l'arco. A destra, nei campi, si stendeva una lunga fila di pascià e di
bey, punti viventi d'ammirazione, coi quali il  padiscià  rendeva  omaggio  alla
propria destrezza; a  sinistra,  dodici  paggi  della  famiglia  imperiale,  che
correvano a raccogliere gli strali e a segnare il punto della  caduta;  intorno,
dietro gli alberi e i cespugli, qualche turco temerario venuto  per  contemplare
di nascosto le sembianze sublimi del Gran Signore; e sulla  tribuna  campeggiava
nell'atteggiamento  d'un  atleta  superbo,  Mahmut,  il  più  vigoroso   arciere
dell'impero,  di  cui  l'occhio  scintillante  faceva  curvar  la  fronte   agli
spettatori, e la barba famosa, nera come il corvo del Monte Tauro,  spiccava  di
lontano sul grande mantello candido, spruzzato del sangue dei  Giannizzeri.  Ora
tutto è cangiato e diventato prosaico: il  Sultano  tira  colla  rivoltella  nei
cortili del suo palazzo e sull'Ok-meïdan s'esercita al bersaglio la fanteria. Da
una parte v'è un convento di dervis, dall'altra un caffè solitario; e  tutta  la
campagna è desolata e malinconica come una steppa.


[Piri-Pascià] Scendendo dall'Ok-meïdan verso il Corno d'Oro, ci trovammo  in  un
altro piccolo sobborgo musulmano, chiamato Piri-Pascià,  forse  da  quel  famoso
gran vizir del primo Selim, che educò Solimano il Grande. Piri-Pascià  prospetta
il sobborgo  israelitico  di  Balata,  posto  sull'altra  riva  del  Corno.  Non
v'incontrammo che qualche cane e qualche vecchia  turca  mendicante.  Ma  questa
solitudine ci permise di considerare a nostro bell'agio la struttura del  borgo.
È una  cosa  singolare.  In  quel  borgo,  come  in  qualunque  altra  parte  di
Costantinopoli uno s'addentri, dopo averla vista  o  dal  mare  o  dalle  alture
vicine, si prova la medesima impressione che  a  guardare  un  bello  spettacolo
coreografico dal palco scenico dopo averlo visto dalla platea; ci si  meraviglia
che quell'insieme di cose brutte  e  meschine  possa  produrre  una  così  bella
illusione. Non v'è nessuna città al mondo, io credo, nella quale la bellezza sia
così pura apparenza come a Costantinopoli. Veduta da Balata, Piri-Pascià  è  una
cittadina gentile, tutta  colori  ridenti,  inghirlandata  di  verzura,  che  si
specchia nelle acque del Corno d'Oro come una  ninfa,  e  desta  mille  immagini
d'amore e di delizia. Entrateci, tutto svanisce. Non sono  che  casupole  rozze,
tinte di coloracci da baracche di fiera; cortiletti angusti e sucidi, che paiono
ricettacoli di streghe; gruppi  di  fichi  e  di  cipressi  polverosi,  giardini
ingombri di calcinacci,  vicoli  deserti,  miseria,  immondizie,  tristezza.  Ma
scendete una china, saltate in un caicco, e  dopo  cinque  remate,  rivedete  la
cittadina fantastica, in tutta la pompa della sua bellezza e della sua grazia.


[Hasskioi] Andando innanzi, sempre lungo la riva del Corno d'Oro,  scendiamo  in
un altro sobborgo, vasto, popoloso, d'aspetto strano, dove, fin dai primi passi,
ci accorgiamo di non essere più in mezzo ai musulmani. Da ogni parte  si  vedono
bambini coperti di gore e di scaglie che  si  ravvoltolano  per  terra;  vecchie
sformate e cenciose che lavorano colle mani scheletrite sugli  usci  delle  case
ingombre di ciarpame e ferravecchi; uomini ravvolti in  lunghi  vestiti  sudici,
con un fazzoletto in brandelli attorcigliato intorno  alla  testa,  che  passano
lungo i muri in aspetto furtivo; visi macilenti alle finestre; cenci appesi  fra
casa e  casa;  strame  e  belletta  in  ogni  parte.  È  Hasskioi,  il  sobborgo
israelitico, il ghetto della riva settentrionale del Corno d'Oro, che fa  fronte
a quello dell'altra riva, al quale lo congiungeva durante la guerra di Crimea un
ponte di legno di cui non rimane più traccia. Di  qui  comincia  un'altra  lunga
catena di arsenali, di scuole militari, di caserme e di piazze  d'armi,  che  si
stende fin quasi in fondo al Corno d'oro. Ma di questo non vedemmo nulla  perchè
ormai non ce lo consentivano nè le gambe, nè la testa. Già tutte le cose  vedute
ci si confondevano nella mente; ci pareva di essere in viaggio da una settimana;
pensavamo a Pera lontanissima con un leggiero sentimento di nostalgia, e saremmo
tornati indietro, se non ci avesse trattenuto il  proposito  fatto  solennemente
sul vecchio ponte, e se Yunk non m'avesse  rianimato,  secondo  il  suo  solito,
intonando la gran marcia dell'Aida.


[Halidgi-Oghli]  Avanti  dunque.  Attraversiamo  un  altro  cimitero  musulmano,
saliamo sopra un'altra collina, entriamo in un altro sobborgo, nel  sobborgo  di
Halidgi-Oghli, abitato da una popolazione mista; una piccola città dove ad  ogni
svolto di vicolo, si trova una nuova razza e una nuova religione.  Si  sale,  si
scende, si rampica, si passa in mezzo alle tombe,  alle  moschee,  alle  chiese,
alle sinagoghe; si gira intorno a cimiteri  e  a  giardini;  s'incontrano  delle
belle armene di forme matronali e delle turche leggiere che sbirciano a traverso
il velo; si sente parlar greco, armeno e spagnuolo, - lo spagnuolo  degli  ebrei
-; e si  cammina,  si  cammina.  Si  dovrà  pure  arrivare  in  fondo  a  questa
Costantinopoli! - diciamo fra noi. - Tutto ha un confine su questa terra! Già le
case di Halidgi-Oghli diradano, cominciano a verdeggiare li orti,  non  c'è  più
che un gruppo di abituri, vi passiamo in mezzo, siamo finalmente arrivati...


[Sudludgé] Ahimè! non siamo arrivati che a un  altro  sobborgo.  È  il  sobborgo
cristiano di Sudludgé, che s'innalza sopra una collina, circondato di orti e  di
cimiteri; sulla collina ai piedi della quale metteva  capo  il  solo  ponte  che
unisse anticamente le due rive del Corno d'oro. Ma  questo  sobborgo,  come  Dio
vuole, è l'ultimo, e la nostra escursione è finita. Usciamo di fra le  case  per
cercare un luogo di riposo; saliamo su per una altura ripida e nuda  che  s'alza
alle  spalle  di  Sudludgé,  e  ci  troviamo  dinanzi  al  più  grande  cimitero
israelitico di Costantinopoli: un vasto piano coperto d'una  miriade  di  pietre
abbattute, le quali presentano  l'aspetto  sinistro  d'una  città  rovinata  dal
terremoto, senza un albero, senza un fiore, senza  un  filo  d'erba,  senza  una
traccia di sentiero: una solitudine desolata  che  stringe  il  cuore,  come  lo
spettacolo d'una grande sventura. Sediamo sopra  una  tomba,  rivolti  verso  il
Corno d'oro, ed ammiriamo, riposando, il panorama immenso e gentile  che  ci  si
stende dintorno. Si vede, sotto, Sudludgé, Halidgi-Oghli, Hasskioj, Piri-Pascià,
una fuga di sobborghi chiusi fra l'azzurro del mare e il verde  dei  cimiteri  e
dei  giardini;  a  sinistra  l'Okmeïdan  solitario,  e  i  cento   minareti   di
Kassim-Pascià; più lontano, Stambul, sterminata e confusa; di là da Stambul,  le
somme linee delle montagne dell'Asia, quasi svanite nel cielo; dinanzi,  proprio
in faccia a Sudludgé, dall'altra parte del  Corno  d'oro,  il  borgo  misterioso
d'Eyub, di cui si distinguono uno per uno  i  ricchi  mausolei,  le  moschee  di
marmo, le chine ombrose sparse di tombe, i viali solitari, e i recessi pieni  di
tristezza di grazia; e a destra d'Eyub altri villaggi che si guardan nell'acqua,
e poi l'ultima svolta del Corno d'oro, che si perde fra due alte rive  rivestite
d'alberi e di fiori. Spaziando collo sguardo su quel panorama, stanchi, quasi in
uno stato di dormiveglia, senz'accorgercene, mettiamo in musica quella bellezza,
canterellando non so che cosa; ci domandiamo chi sarà  il  morto  su  cui  siamo
seduti; frughiamo con  un  fuscello  dentro  un  formicaio;  parliamo  di  mille
sciocchezze;  ci  diciamo  di  tratto  in  tratto:  -   Ma   siamo   proprio   a
Costantinopoli? -; poi pensiamo che la vita è breve e che tutto è vanità; e  poi
ci piglian dei fremiti d'allegrezza; ma in fondo sentiamo che  nessuna  bellezza
della terra dà una gioia veramente intera, se contemplandola, non si sente nella
propria mano la manina della donna che si ama.


[In caicco] Verso il tramonto scendiamo al Corno d'oro, entriamo in un caicco  a
quattro remi, e non abbiamo ancora pronunziato la parola: -  Galata!  -  che  la
barchetta gentile è già lontana dalla riva. E il caicco è veramente la barchetta
più gentile che abbia mai solcato le acque. È più lungo della  gondola,  ma  più
stretto e più sottile; è scolpito, dipinto  e  dorato;  non  ha  nè  timone,  nè
sedili; vi si siede sopra in cuscino o un tappeto, in modo che non  riman  fuori
che la testa e le spalle; è terminato alle due estremità  in  maniera  da  poter
andare nelle due direzioni; si squilibra al menomo movimento,  si  spicca  dalla
riva come una freccia dall'arco, par che voli a fior d'acqua come  una  rondine,
passa da per tutto, scivola e fugge specchiando nell'onde i  suoi  mille  colori
come un delfino inseguito. I nostri rematori erano due bei  giovani  turchi  col
fez  rosso,  con  una  camicia  cilestrina,  con  un  paio  di  grandi   calzoni
bianchissimi, colle braccia e colle gambe nude; due atleti  ventenni,  color  di
bronzo, puliti, allegri e baldanzosi, che ad ogni remata  mandavano  innanzi  la
barca di tutta la sua lunghezza; altri caicchi ci passavano accanto di volo, che
appena si vedevano; ci passavano vicino degli stormi d'anitre, ci roteavano  sul
capo degli uccelli, ci rasentavano delle grandi barche coperte, piene di  turche
velate, e le alghe di tratto in tratto ci nascondevano  ogni  cosa.  Vista  d'in
fondo al Corno d'Oro, a quell'ora, la città presentava  un  aspetto  nuovissimo.
Non si vedeva la riva asiatica, a cagione della curvatura della rada; la collina
del Serraglio chiudeva il Corno d'oro come un lunghissimo lago; le colline delle
due rive sembravano ingigantite; e, Stambul, lontana lontana,  sfumata  con  una
gradazione dolcissima di tinte cineree e azzurrine, enorme e  leggera  come  una
città fatata, pareva che galleggiasse sul mare  e  si  perdesse  nel  cielo.  Il
caicco volava, le due rive fuggivano, i seni succedevano ai seni, i boschetti ai
boschetti, i sobborghi ai sobborghi; e via via che s'andava  innanzi,  tutto  ci
s'allargava e ci s'innalzava dintorno,  i  colori  della  città  illanguidivano,
l'orizzonte s'infocava, le acque mandavano dei riflessi d'oro e di porpora, e un
profondo stupore ci entrava a poco a  poco  nell'anima,  misto  a  una  dolcezza
indefinibile, che ci faceva sorridere e  non  ci  lasciava  parlare.  Quando  il
caicco si fermò allo scalo di Galata, uno dei barcaioli ci dovette gridare negli
orecchi: Monsù! Arrivar! - e ci destammo come da un sogno.



IL GRAN BAZAR

Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del  Corno
d'oro, è tempo di entrare nel cuore di Stambul, d'andar a  vedere  quella  fiera
universale e perpetua, quella  città  nascosta,  oscura,  piena  di  meraviglie,
tesori e di memorie, che si distende fra la collina di Nuri-Osmanié e quella del
Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar. Partiamo dalla  piazza  della  moschea
Sultana-Validè. Qui forse si vorrebbe fermare più d'un lettore goloso  per  dare
un'occhiata al Balik-Bazar, mercato dei pesci, famoso  fin  dai  tempi  di  quel
vecchio Andronico Paleologo, il quale, com'è noto, dal solo prodotto della pesca
lungo le mura della città ricavava di che far fronte  alle  spese  culinarie  di
tutta  la  sua  corte.  La  pesca,   infatti,   è   ancora   abbondantissima   a
Costantinopoli,  e  il  Balik-Bazar,  nei  suoi  bei  giorni,  potrebbe  offrire
all'autore  del  Ventre  de  Paris  il  soggetto  d'una  descrizione  pomposa  e
appetitosa come le grandi mense dei vecchi  quadri  olandesi.  I  venditori  son
quasi  tutti  turchi,  e  stanno  schierati  intorno  alla  piazza,  coi   pesci
ammucchiati sopra stuoie distese in terra, o sopra lunghe tavole, intorno a  cui
si disputano lo spazio una folla di compratori e un  esercito  di  cani.  Là  si
ritrovano le triglie squisite del Bosforo, quattro volte più  grosse  di  quelle
dei nostri mari; le ostriche dell'isola di Marmara, che i  Greci  e  gli  Armeni
soli sanno cuocere a punto sulla brace; le palamite e i  tonni  che  son  salati
quasi esclusivamente dagli Ebrei; le alici che i Turchi impararono a salare  dai
Marsigliesi; le  sardelle  di  cui  Costantinopoli  provvede  l'Arcipelago;  gli
ulufer, i pesci più saporiti del Bosforo, che si pigliano al  lume  della  luna;
gli scombri del Mar Nero, che fanno sette invasioni successive nelle acque della
città, levando uno strepito che si sente dalle ville delle  due  rive;  isdaurid
colossali, pesci spada enormi, rombi, o come li chiamano i Turchi, Kalkan-baluk,
pesci scudo, e altri mille pesci minori, che guizzano fra i due mari,  inseguiti
dai delfini e dai falianos, e cacciati da innumerevoli alcioni, a cui  strappano
la preda dal becco i piombini. Cuochi di pascià,  vecchi  buongustai  musulmani,
schiave e giovani di taverna, s'avvicinano alle tavole, guardano i pesci in atto
meditabondo, contrattano a monosillabi, e se ne vanno colla loro compra appesa a
uno spago, tutti gravi e taciturni, come se portassero la testa d'un  nemico;  a
mezzogiorno la piazza è sgombra, e i rivenditori son  già  sparsi  per  i  caffè
vicini, dove stanno fino al cader del sole,  sognando  ad  occhi  aperti,  colle
spalle al muro, e il bocchino del narghilè tra le labbra.  Per  andare  al  Gran
Bazar, s'infila una strada che sbocca nel mercato dei pesci, tanto  stretta  che
le sporgenze delle case opposte quasi si toccano, e si va innanzi  per  un  buon
tratto in mezzo a due file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco
"la quarta colonna della tenda della voluttà" dopo il caffè, l'oppio ed il vino,
o "il quarto sofà dei godimenti", anch'esso, come il caffè, fulminato  un  tempo
da editti di sultani e da sentenze di muftì, e cagione di torbidi e di supplizi,
che lo resero più saporito. Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il  tabacco
è messo in mostra sopra assicciuole, a  piramidi  e  a  mucchi  rotondi,  ognuno
sormontato da un limone. Sono piramidi di latakié d'Antiochia,  di  tabacco  del
Serraglio biondo e sottilissimo che par seta  della  più  fina,  di  tabacco  da
sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da  quel  che
fuma il facchino gigantesco di Galata  a  quello  che  concilia  il  sonno  alle
odalische annoiate nei chioschi dei  giardini  imperiali.  Il  tombeki,  tabacco
fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio  fumatore,  se  il  fumo  non
giungesse alla bocca purificato dall'acqua del narghilè, è chiuso in  boccie  di
vetro  come  un  medicinale.  I  tabaccai  son  quasi  tutti  greci  od   armeni
cerimoniosi, che affettano  un  certo  fare  signorile;  gli  avventori  tengono
crocchio; vi si fermano  degli  impiegati  del  ministero  degli  esteri  e  del
Seraschierato; alle volte vi  dà  una  capatina  qualche  pezzo  grosso;  vi  si
spolitica, si va a raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello;  è  un
piccolo bazar appartato e aristocratico, che invita al  riposo,  e  fa  sentire,
anche a passarvi soltanto, la voluttà  della  chiacchera  e  del  fumo.  Andando
innanzi, si passa sotto una vecchia porta ad arco, inghirlandata di  pampini,  e
si riesce in faccia ad un vasto edifizio di pietra, attraversato  da  una  lunga
strada diritta e coperta, fiancheggiata da botteghe oscure, e ingombra di gente,
di casse, di sacchi, di mucchi di mercanzie. Entrando, si sente un odore d'aromi
acutissimo, che quasi ributta indietro. È il bazar egiziano dove  sono  raccolte
tutte le derrate  dell'India,  della  Siria,  dell'Egitto  e  dell'Arrabia,  che
ridotte poi in essenze, in pastiglie, in polveri, in unguenti, vanno  a  colorar
visetti e manine d'odalische, a profumar stanze e  bagni  e  bocche  e  barbe  e
pietanze,  a  rinvigorire  Pascià  sfibrati,  ad  assopire  spose  infelici,   a
istupidire fumatori, a spander sogni, ebbrezza ed obblìo nella città sterminata.
Fatti pochi passi in questo bazar, si comincia a sentir la testa pesante,  e  si
fugge; ma la  sensazione  di  quell'aria  calda  e  grave,  e  di  quei  profumi
inebbrianti, ci accompagna ancora per un buon tratto all'aria libera,  e  rimane
poi viva nella memoria come una delle più intime e più significanti  impressioni
dell'Oriente. Uscendo dal bazar egiziano, si passa in mezzo a officine  rumorose
di calderai, a taverne turche, che riempiono la strada di puzzi  nauseabondi,  a
mille botteguccie e nicchiette e buchi oscuri, dove si fabbrica e si  vende  una
minutaglia infinita d'oggetti senza nome,  e  si  arriva  finalmente  al  Grande
Bazar. Ma assai prima d'arrivarci, s'è assaliti e bisogna  difendersi.  A  cento
passi dalla gran porta d'entrata, sono appostati,  come  bravi,  i  sensali  dei
mercanti, e i sensali dei sensali, che alla prima occhiata v'hanno  riconosciuto
per forestiero, hanno  capito  che  andate  al  bazar  per  la  prima  volta,  e
indovinato presso a poco di che paese siete, tanto che assai di  rado  sbagliano
lingua nel dirigervi la parola. S'avvicinano col fez in mano e col sorriso sulle
labbra e v'offrono i loro servizi. Allora segue quasi  sempre  un  dialogo  come
questo. - Non compro nulla - rispondete. - Che importa, signore? Io  non  voglio
che farle vedere il bazar. - Non voglio vedere il bazar. -  Ma  io  l'accompagno
gratis. - Non voglio essere accompagnato gratis. -  Ebbene,  non  l'accompagnerò
che fino in fondo alla strada, per darle qualche informazione che le sarà  utile
un altro giorno, quando verrà per comprare. - Ma se  non  voglio  neppur  sentir
discorrere di comprare! - Parleremo d'altro,  signore.  È  a  Costantinopoli  da
molto tempo? È soddisfatto del suo albergo? Ha ottenuto il permesso di  visitare
le moschee? - Ma se vi dico che non voglio parlare, che  voglio  esser  solo!  -
Ebbene, la lascierò solo; la seguiterò alla distanza di dieci passi. - Ma perchè
mi volete seguitare? - Per impedire che la truffino nelle botteghe. - Ma se  non
entro nelle botteghe! - Allora... per impedire che le diano noia per la  strada.
Insomma, o bisogna rimetterci il fiato,  o  lasciarsi  accompagnare.  Il  grande
bazar non ha nulla all'esterno che attiri l'occhio e  faccia  indovinare  il  di
dentro.  È  un  immenso  edifizio  di  pietra,  di  stile  bizantino,  di  forma
irregolare,  circondato  d'alte  mura  grigie,  e  sormontato  da  centinaia  di
cupolette rivestite di piombo e traforate, che danno luce all'interno: l'entrata
principale è una  porta  arcata,  senza  carattere  architettonico;  dai  vicoli
intorno non si sente nessun rumore; a quattro passi dalla porta si  può  credere
ancora che dietro quei muri di fortezza  non  ci  sia  altro  che  solitudine  e
silenzio. Ma appena entrati,  si  rimane  sbalorditi.  Non  si  è  dentro  a  un
edifizio, ma in un labirinto di strade coperte da volte arcate  e  fiancheggiate
da pilastri scolpiti e da colonne; in una vera città, colle sue  moschee,  colle
sue fontane, coi suoi crocicchi, colle sue piazzette, rischiarata  da  una  luce
vaga come quella d'una foresta fitta in cui non penetri un  raggio  di  sole;  e
percorsa da una folla immensa. Ogni strada è un bazar, e quasi tutte metton capo
in una strada principale, coperta da una volta ad  archi  di  pietre  bianche  e
nere, e decorata d'arabeschi, come una  navata  di  moschea.  In  queste  strade
semioscure, in mezzo  alla  folla  ondeggiante,  passano  carrozze,  cammelli  e
cavalieri, che fanno uno strepito assordante. In ogni parte si è  apostrofati  a
parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta  voce  e  gesticola  in  atto
quasi  imperioso;  l'armeno,  altrettanto  furbo,  ma  d'apparenza  più  modesta
sollecita con maniere ossequiose; l'ebreo susurra le sue offerte  nell'orecchio;
il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega, non
invita che cogli occhi e si rimette al destino. Dieci voci insieme vi  chiamano:
Monsieur! Captan! Caballero! Signore!  Eccellenza!  Kyrie!  Milord!  -  Ad  ogni
svolta, per le porte laterali, si vedono fughe d'arcate e  di  pilastri,  lunghi
corridoi, scorci di stradette, prospetti lontani e confusi di bazar, e per tutto
botteghe, merci appese ai muri e alle  volte,  mercanti  affaccendati,  facchini
carichi, gruppi di donne velate, un fermarsi e un disfarsi continuo  di  crocchi
rumorosi, un rimescolìo di gente e di cose, da dare il capogiro. La  confusione,
però, non è che apparente. Questo immenso bazar è ordinato come una  caserma,  e
bastano poche ore per mettersi in grado di trovarci qualunque cosa vi si cerchi,
senza bisogno di guida. Ogni genere di mercanzia ha il suo piccolo quartiere, la
sua stradetta, il suo corridoio, la sua piazzuola. Sono cento piccoli bazar  che
mettono l'uno nell'altro, come le sale di un vastissimo  appartamento;  ed  ogni
bazar è nello stesso tempo un museo, un passeggio, un mercato e un  teatro,  nel
quale si può veder tutto senza comprar  nulla,  prendere  il  caffè,  godere  il
fresco, chiacchierare in dieci lingue e fare agli occhi colle più belle  donnine
dell'Oriente. Si può prendere un bazar a caso  e  passarci  una  mezza  giornata
senz'accorgersene: per esempio il bazar delle stoffe e dei vestiti. È un emporio
di bellezze e di ricchezze da perderci gli occhi, il  cervello  e  la  borsa;  e
bisogna star in guardia, perchè il menomo capriccio può aver per conseguenza  di
farci chiedere soccorso a casa per telegrafo. Si passeggia in mezzo a mucchi e a
torri di broccati di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele
dell'Indostan, di mussoline del  Bengala,  di  scialli  di  Madras,  di  casimir
dell'India e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo, di cuscini rabescati
d'oro, di veli di seta rigati d'argento, di sciarpe di tocca a righe  azzurre  e
incarnate, leggiere e trasparenti che paiono vaporose, di stoffe d'ogni forma  e
d'ogni disegno, in cui il chermisino, il blu, il verde, il giallo, i colori  più
ribelli alle combinazioni simpatiche,  si  avvicinano  e  s'intrecciano  con  un
ardimento e un'armonia da far rimanere a bocca  aperta;  di  tappeti  da  tavola
d'ogni grandezza, a fondo rosso o bianco, ricamati  d'arabeschi,  di  fiori,  di
versetti  del  Corano,  di  cifre  imperiali,  che  si  starebbe  un  giorno   a
contemplarli come le pareti dell'Alhambra. Qui si possono ammirare ad una ad una
tutte le parti del vestiario turco signorile, come nelle alcove d'un arem, dalle
cappe verdi, ranciate e color di giacinto, che  coprono  ogni  cosa,  fino  alle
camicie di seta, ai fazzoletti ricamati d'oro e alle cinture di raso a  cui  non
può giungere altro sguardo d'uomo che quel del  signore  e  dell'eunuco.  Qui  i
caffettani di velluto rosso, contornati  d'ermellino  e  coperti  di  stelle;  i
bustini di raso giallo, i calzoncini di seta color di  rosa,  le  sottovesti  di
damasco bianco tempestate di fiori  d'oro,  i  veli  di  sposa  scintillanti  di
pagliuole d'argento, i casacchini di  terzopelo  verde,  orlati  di  piumino  di
cigno;  le  vesti  greche,  armene  e  circasse,  di  mille  tagli  capricciosi,
sovraccariche d'ornamenti, dure e splendenti come corazze; e in  mezzo  a  tutti
questi tesori, le stoffe  prosaiche  di  Francia  e  d'Inghilterra,  dai  colori
sinistri, che ci fanno la figura della nota d'un sarto in mezzo alle pagine d'un
poema. Nessuno che ami una donna, può passare in quel  bazar  senza  considerare
come una grande sventura di non essere millionario,  e  senza  sentirsi  per  un
momento divampare nell'anima il furore del saccheggio. Per liberarsi  da  queste
idee, non c'è che a  svoltare  nel  bazar  delle  pipe.  Qui  l'immaginazione  è
ricondotta a desiderii più tranquilli. Sono fasci  di  cibuk  di  gelsomino,  di
ciliegio, d'acero e di rosaio; bocchini d'ambra gialla del mar Baltico, levigati
e luccicanti come  il  cristallo,  d'innumerevoli  gradazioni  di  colore  e  di
trasparenza, ornati di rubini e di diamanti; pipe  di  Cesarea,  colla  cannetta
fasciata di fili d'oro e di seta; borse da tabacco del  Libano,  a  losanghe  di
varii colori, rabescati di ricami splendenti; narghilè di cristallo  di  Boemia,
d'acciaio  e  d'argento,  di  belle  forme  antiche,   damaschinati,   niellati,
tempestati di pietre preziose, con tubi di marocchino scintillanti di dorature e
d'anelli, fasciati nella bambagia, e perpetuamente custoditi da due occhi fissi,
che all'avvicinarsi d'ogni curioso si dilatano come occhi di  civetta,  e  fanno
morir sulle labbra la richiesta del prezzo a chiunque non  sia  almeno  vizir  o
pascià e non abbia dissanguato per qualche anno una provincia dell'Asia  Minore.
Qui non viene a comprare che il messo della Sultana che vuol dare  un  pegno  di
gratitudine al gran  vizir  arrendevole,  o  l'alto  dignitario  di  Corte  che,
prendendo possesso della nuova carica, è costretto, per suo decoro,  a  spendere
cinquanta mila lire in una rastrelliera di pipe; o  l'ambasciatore  del  Sultano
che vuol portare al Monarca europeo un ricordo splendido di  Stambul.  Il  turco
modesto dà uno sguardo malinconico e passa oltre, parafrasando, per  consolarsi,
la sentenza del Profeta: - il fuoco dell'inferno tuonerà  come  il  muggito  del
cammello nel ventre di colui che fuma in una pipa d'oro o d'argento. Di  qui  si
ricasca fra le tentazioni entrando nel bazar dei profumieri, che è uno  dei  più
schiettamente orientali e dei più cari al Profeta, il  quale  diceva:  -  Donne,
bambini e profumi -, per dire i suoi tre più dolci piaceri. Qui  si  trovano  le
famose pastiglie del Serraglio che profumano i baci, le cassule di gomma odorosa
che staccano dal mastico le forti fanciulle di Chio, per mandarla a rafforzar le
gengive delle molli musulmane; le essenze squisite di bergamotto e di gelsomino,
e quelle potentissime di rosa, chiuse in astucci di velluto ricamato d'oro, d'un
prezzo  da  far  rizzare  i  capelli;  qui  il  collirio  per  le  sopracciglia,
l'antimonio per gli occhi, l'henné per le unghie, i saponi che ammorbidiscono la
cute delle belle siriane, le pillole che fanno cadere i  peli  dal  volto  delle
maschie circasse, le acque di cedro e d'arancio, i sacchetti di muschio,  l'olio
di sandalo, l'ambra grigia, l'aloè per profumare le chicchere  e  le  pipe,  una
miriade di polveri,  d'acque  e  di  pomate,  distinte  con  nomi  fantastici  e
destinate ad usi indicibili, che rappresentano ciascuna un capriccio amoroso, un
proposito di seduzione, un raffinamento di voluttà, e spandono tutte insieme una
fragranza acuta e sensuale, che fa veder come in sogno dei grandi occhi languidi
e delle manine carezzevoli, e sentire un suono sommesso di respiri  e  di  baci.
Tutte queste fantasie svaniscono entrando nel bazar dei gioiellieri, che  è  una
stradetta oscura e deserta, fiancheggiata da botteguccie d'aspetto meschino,  in
cui nessuno direbbe mai che sian nascosti, come ci sono, dei tesori favolosi. Le
gioie sono chiuse in cofani di legno di quercia, cerchiati e corazzati di ferro,
e posti sul davanti delle botteghe, sotto gli occhi dei mercanti: vecchi  turchi
o vecchi ebrei, dalle lunghe barbe e dallo sguardo acuto, che  par  che  penetri
nelle tasche e trapassi i portamonete. Qualcuno sta ritto dinanzi alla sua tana,
e quando gli passate accanto, prima vi ficca gli occhi negli occhi, poi  con  un
rapido movimento vi mette sotto il viso un diamante di Golconda  o  uno  zaffiro
d'Ormus o un rubino di Giamscid, che al menomo  vostro  cenno  negativo,  ritira
colla medesima rapidità con cui l'ha porto.  Altri  girano  a  passi  lenti,  vi
fermano  in  mezzo  alla  strada  e,  dopo  aver  rivolto  intorno  uno  sguardo
sospettoso, tirano fuor del seno un cencio sucido, e lo  spiegano,  e  vi  fanno
vedere un bel topazio del Brasile o una bella turchina di Macedonia, guardandovi
coll'occhio  di  demoni  tentatori.  Altri  non  fanno  che  darvi   un'occhiata
scrutatrice, e non giudicandovi una faccia da pietre preziose, non si degnano di
offrirvi nulla. Nessuno poi fa l'atto d'aprire il cofanetto, se anche aveste  la
faccia d'un santo o l'aria d'un Creso. Le collane d'opale, i fiori e  le  stelle
di smeraldo, le mezzelune e i diademi contornati di perle d'Ofir,  i  mucchietti
abbarbaglianti di acque-di-mare, di crisoberilli, d'avventurine,  di  agate,  di
granate, di lapislazzuli, rimangono  inesorabilmente  nascosti  agli  occhi  dei
curiosi senza quattrini, e  specialmente  a  quelli  d'uno  scrittore  italiano.
Tutt'al più egli può arrischiarsi a domandare il  prezzo  di  qualche  tespí,  o
coroncina d'ambra, di sandalo o di corallo, da far scorrere tra le dita, come  i
turchi, per ingannare il tempo negli intervalli dei  suoi  lavori  forzati.  Per
divertirsi bisogna entrare nelle botteghe dei franchi, mercanti di stoffe,  dove
c'è merce per tutte le borse. Appena entrati, si ha intorno un cerchio di  gente
che non si capisce di dove sia sbucata. Non è mai possibile l'aver che fare  con
un solo. Tra il mercante, i soci del mercante, i  sensali,  i  manutengoli  e  i
tirapiedi, son sempre  una  mezza  dozzina.  Se  non  v'accoppa  uno,  v'impicca
l'altro: non c'è modo di scansare una brutta fine. E non si  può  dire  con  che
arte, con che pazienza, con che ostinazione, con  che  diabolici  raggiri  fanno
comprare quello che vogliono. Domandano  d'ogni  cosa  un  subisso:  offrite  il
terzo: lasciano cader le braccia in  segno  di  profondo  scoraggiamento,  o  si
battono la fronte in atto disperato, e non rispondono; oppure si espandono in un
torrente di parole appassionate per toccarvi il cuore. Siete  un  uomo  crudele,
volete costringerli a chiuder bottega, volete ridurli alla  miseria,  non  avete
compassione dei loro figliuoli, non capiscono che cosa possano avervi  fatto  di
male per trattarli in quella maniera. Mentre vi dicono il prezzo  d'un  oggetto,
un sensale d'una bottega vicina vi susurra nell'orecchio:  -  Non  comprate,  vi
truffano. - Voi credete che sia sincero, e invece è d'accordo col  mercante;  vi
dice che vi truffano collo scialle, per guadagnare la vostra  fiducia,  e  farvi
rompere il collo un minuto dopo, consigliandovi di comprare il  tappeto.  Mentre
esaminate la stoffa, essi si parlano a gesti, a occhiate, a colpi di  gomito,  a
mezze parole. Se sapete il greco, parlano turco; se  sapete  il  turco,  parlano
armeno; se sapete l'armeno, parlano spagnuolo; ma in qualche modo s'intendono  e
ve l'accoccano. Se poi tenete duro, v'insaponano; vi dicono che parlate bene  la
loro lingua, che avete un fare da gentiluomo e che non dimenticheranno  mai  più
la vostra bella figura; vi discorrono del vostro paese,  nel  quale  sono  stati
molto tempo, perchè sono stati da per tutto;  vi  fanno  il  caffè,  vi  offrono
d'accompagnarvi alla dogana quando partirete, per impedire che vi  facciano  dei
soprusi, ossia per truffar voi, la dogana e i vostri compagni di viaggio, se  ne
avete; mettono sottosopra tutta la bottega, e non vi fanno punto il viso arcigno
se ve n'andate senza comprare: se non è quel giorno, sarà un altro; al bazar  ci
dovete tornare, i loro cani da caccia vi riconosceranno; se  non  cadrete  nelle
loro mani, cadrete in quelle d'un loro socio; se non vi peleranno come mercanti,
vi  scorticheranno  come  sensali;  se  non  vi  aggiusteranno  in  bottega,  vi
serviranno la messa alla  dogana;  il  colpo  non  può  fallire.  A  che  popolo
appartengono costoro? Non si capisce. A furia  di  parlar  lingue  diverse,  han
perduto il loro accento primitivo; a forza di far la commedia, hanno alterati  i
tratti fisionomici della loro razza;  son  di  che  paese  si  vuole,  fanno  il
mestiere che si desidera, sono interpreti, guide, mercanti, usurai; e sopra ogni
cosa,  artisti  insuperabili  nell'arte  di  scroccare  l'universo.  I  mercanti
musulmani offrono un campo d'osservazioni affatto diverso. Fra loro si ritrovano
ancora quei vecchi turchi, ormai rari per le vie  di  Costantinopoli,  che  sono
come la personificazione del tempo dei Maometti e dei Bajazet, i  resti  viventi
del vecchio edifizio ottomano, ch'ebbe il primo crollo dalle riforme di  Mahmut,
e che di giorno in giorno, pietra per pietra, rovina  e  si  trasforma.  Bisogna
venire nel gran bazar e ficcare lo sguardo in fondo alle botteguccie più  oscure
delle stradette più appartate, per ritrovare i vecchi turbanti enormi dei  tempi
di Solimano, dalla forma di cupole di moschee; le faccie impassibili, gli  occhi
di vetro, i nasi adunchi,  le  lunghe  barbe  bianche,  gli  antichi  caffettani
aranciati e purpurei, i grandi calzoni a mille pieghe stretti intorno alla  vita
dalle sciarpe smisurate, gli atteggiamenti alteri e  tristi  dell'antico  popolo
dominatore, i visi istupiditi dall'oppio o illuminati dal sentimento d'una  fede
ardente. Essi son là in fondo alle loro nicchie, colle  braccia  e  colle  gambe
incrociate, immobili e gravi  come  idoli,  e  aspettano,  senz'aprir  bocca,  i
compratori predestinati. Se le cose vanno bene, mormorano: - Mach  Allà!  -  Sia
lodato Iddio! -; se vanno male: - Olsun! -  Così  sia  -,  e  chinano  la  testa
rassegnati. Alcuni leggono il Corano,  altri  fanno  scorrere  fra  le  dita  le
pallettine del tespì, mormorando sbadatamente i cento epiteti d'Allà; altri  che
han fatto buoni affari, bevono il  loro  narghilè,  per  dirla  coll'espressione
turca, girando intorno lentamente uno sguardo voluttuoso e pieno di sonno; altri
stanno curvi, cogli occhi socchiusi e colla fronte corrugata come occupati da un
profondo pensiero. A che cosa pensano? Forse ai loro figliuoli  morti  sotto  le
mura di Sebastopoli o alle loro carovane disperse o alle loro voluttà perdute  o
ai giardini eterni, promessi dal Profeta,  dove  all'ombra  delle  palme  e  dei
granati, sposeranno le vergini dagli occhi neri, che nè uomo nè genio non ha mai
profanate. Tutti hanno qualchecosa di bizzarro,  tutti  sono  pittoreschi;  ogni
bottega è la cornice d'un quadro pieno di colori e di pensiero, che fa  balenare
alla mente la storia intera d'una  vita  avventurosa  e  fantastica.  Quest'uomo
secco e abbronzato, dai lineamenti arditi, è un arabo che ha guidato egli stesso
dal fondo  della  sua  patria  lontana  i  suoi  cammelli  carichi  di  gemme  e
d'alabastro, e s'è sentito più volte fischiare agli orecchi le palle dei ladroni
del deserto. Quest'altro  dal  turbante  giallo  e  dall'aspetto  signorile,  ha
attraversato a cavallo le solitudini della Siria, portando le sete di Tiro e  di
Sidone. Questo nero col capo ravvolto in un vecchio  scialle  di  Persia,  colla
fronte rigata di cicatrici che gli fecero i negromanti per salvarlo dalla morte,
che tiene il viso alto, come se guardasse ancora le teste dei colossi di Tebe  e
le cime delle Piramidi, è venuto dalla  Nubia.  Questo  bel  moro  dalla  faccia
pallida e dagli occhi neri, ravvolto in una cappa  bianchissima,  ha  portato  i
suoi caic  e  i  suoi  tappeti  dalle  ultime  falde  occidentali  della  catena
dell'Atlante. Questo turco dal turbante verde e dal  volto  estenuato  ha  fatto
quest'anno stesso il grande pellegrinaggio, ha visto parenti ed amici  morir  di
sete in mezzo alle pianure interminabili dell'Asia Minore, è arrivato alla Mecca
in fin di vita, ha fatto sette volte strascinandosi il giro della  Kaaba,  ed  è
caduto in deliquio coprendo di baci furiosi la Pietra nera. Questo  colosso  dal
viso bianco, dalle sopracciglia arcate, dagli occhi fulminei,  che  par  più  un
guerriero che un mercante, e spira da tutta la persona l'ambizione e l'orgoglio,
ha portato le sue pelliccie dalle regioni settentrionali del Caucaso, dove,  nei
suoi begli anni, fece cader la testa dalle spalle a più d'un Cosacco.  E  questo
povero mercante di lane, dal viso schiacciato e dagli occhi piccoli  e  obliqui,
tarchiato e rude come un atleta, non è gran tempo che  disse  le  sue  preghiere
all'ombra dell'immensa cupola che protegge il sepolcro di Timur: egli è  partito
da Samarkanda, ha valicato i deserti della grande Bukaria, è  passato  in  mezzo
alle orde dei turcomanni, ha attraversato il Mar Morto, è  sfuggito  alle  palle
dei Circassi, ha ringraziato Allà nelle moschee di Trebisonda,  ed  è  venuto  a
cercar fortuna a  Stambul,  di  dove  ritornerà,  vecchio,  in  fondo  alla  sua
Tartaria, che gli sta sempre nel cuore. Uno dei bazar più splendidi è  il  bazar
delle calzature, ed è forse anche quello che mette più grilli nel capo. Sono due
file di botteghe smaglianti che  danno  alla  strada  l'aspetto  d'una  sala  di
reggia, o d'uno di quei giardini delle leggende arabe in cui gli alberi hanno le
foglie d'oro e fiori di perle. C'è da calzare tutti i piedini di tutte le  corti
dell'Asia e dell'Europa. Le pareti son  coperte  di  pantofole  di  velluto,  di
pelle, di broccato, di  raso,  dei  colori  più  petulanti  e  delle  forme  più
capricciose, ornate di filigrana, contornate di lustrini, abbellite  di  nappine
di seta e di piuma di cigno, stelleggiate e infiorate d'argento e d'oro, coperte
d'arabeschi intricati che non lasciano più vedere il tessuto, e lampeggianti  di
zaffiri e di smeraldi. Ce n'è per le spose dei barcaiuoli e  per  le  belle  del
Sultano, da cinque e da mille lire il paio; ci sono le scarpette  di  marocchino
che premeranno i ciottoli di Pera, le babbuccie che  striscieranno  sui  tappeti
degli arem, gli zoccoletti che faranno risonare i marmi dei bagni imperiali,  le
pianelline di raso bianco su cui s'inchioderanno le labbra ardenti dei Pascià, e
forse qualche paio di pantofole  imperlate  che  aspetteranno  ogni  mattina  lo
svegliarsi d'una bella Georgiana accanto al letto del Gran Signore. Ma che piedi
possono entrare in quelle babbuccie? Ve ne sono  che  paion  tagliate  ai  piedi
delle urì e delle fate; lunghe come una foglia di giglio, larghe come una foglia
di rosa, d'una piccolezza da far disperare tutta l'Andalusia,  d'una  grazia  da
farsi sognare; non babbuccie, ma gioielli da tenersi sul tavolino; scatolini  da
metterci dei dolci o dei bigliettini amorosi; da non poter immaginare che ci sia
un piedino che v'entri, senza desiderare di rivoltarselo un  mese  fra  le  mani
affollandolo di domande e di vezzi. Questo bazar è uno dei più frequentati dagli
stranieri. Vi si vedono spesso dei giovani europei, che hanno in un pezzetto  di
carta la misura d'un piedino italiano o francese, di cui forse  sono  alteri,  e
che fanno un atto di stupore o di dispetto, riconoscendo che passa di  molto  la
lunghezza d'una certa babbuccina su cui han  posto  gli  occhi;  ed  altri  che,
domandato il prezzo, e sentita una schiopettata, scappano senza ribatter parola.
Qui pure spesseggiano le signore mussulmane, le hanum dai grandi veli bianchi, e
occorre sovente di cogliere passando qualche frammento dei loro lunghi  dialoghi
coi venditori, qualche parola armoniosa della loro bella lingua, pronunziata  da
una voce chiara e dolce che accarezza l'orecchio come il suono d'una mandòla.  -
Buni catscia verersin? - Quanto vale questo? - Pahalli dir. - È troppo  caro.  -
Ziadè veremèm. - Non pagherò di più. E poi una risata fanciullesca e sonora, che
mette voglia di pigliarle un pizzico di guancia e darle una presa di monella. Il
bazar più ricco e più pittoresco è quello delle armi.  Non  è  un  bazar,  è  un
museo, riboccante di tesori, pieno di memorie e d'immagini  che  trasportano  il
pensiero nelle regioni della storia e della leggenda, e  destano  un  sentimento
indescrivibile di meraviglia e di  sgomento.  Tutte  le  armi  più  strane,  più
spaventose e più feroci che sono state brandite dalla Mecca al Danubio in difesa
dell'Islam, sono là schierate e forbite, come se ce l'avessero appese poco prima
le mani dei soldati fanatici di Maometto e di Selim; e par di veder  scintillare
fra le loro lame gli occhi iniettati di sangue di quei sultani  formidabili,  di
quei giannizzeri forsennati, di quegli spahì, di quegli azab,  di  quei  silidar
senza pietà e senza paura che seminarono  l'Asia  Minore  e  l'Europa  di  teste
recise e di corpi dilaniati. Là si ritrovano le scimitarre famose che tagliavano
le penne in aria e spiccavan le orecchie agli ambasciatori insolenti; i cangiari
pesanti che d'un colpo fendevano il cranio  e  scoprivano  il  cuore;  le  mazze
d'armi che stritolavano i caschi serbi  e  ungheresi;  gli  yatagan  dal  manico
intarsiato d'avorio e tempestato d'amatiste e  di  rubini,  che  serbano  ancora
segnato a intagli nella lama il numero  delle  teste  troncate;  i  pugnali  dai
foderi d'argento, di velluto e di raso, coi manichi di agata e d'avorio,  ornati
di granate, di corallo e di  turchine,  istoriati  di  versetti  del  Corano  in
lettere d'oro, colle lame incurvate e ritorte che par che cerchino un cuore. Chi
sa che in questa armeria confusa e terribile non ci sia la scimitarra  d'Orcano,
o la sciabola di legno con cui il braccio  poderoso  d'Abd-el-Murad,  il  dervis
guerriero, spiccava d'un colpo le teste;  o  il  famoso  jatagan  col  quale  il
Sultano Musa spaccò Hassan dalla spalla al  cuore;  o  la  sciabola  enorme  del
gigantesco bulgaro che appoggiò la prima scala alle mura di Costantinopoli; o la
mazza con cui Maometto II freddò il soldato  rapace  sotto  le  vôlte  di  Santa
Sofia; o  la  gran  sciabola  damascata  di  Scanderberg  che  fendette  in  due
Firuz-Pascià sotto le mura di Stetigrad? I più formidabili  fendenti  e  le  più
orrende morti della storia ottomana s'affacciano alla mente, e par  che  proprio
su quelle lame debba esser rappreso quel sangue, e che i vecchi turchi rintanati
in quelle botteghe, abbiano raccolto armi e cadaveri sul terreno della strage, e
custodiscano ancora gli scheletri sfracellati in qualche angolo oscuro. In mezzo
alle armi si vedono pure  le  grandi  selle  di  velluto  scarlatto  e  celeste,
ricamate a stelle e a mezzelune d'oro e di perle, i frontali  impennacchiati,  i
morsi d'argento niellato e le gualdrappe splendide come manti  reali:  bardature
da cavalli delle Mille e una notte, fatte per l'entrata trionfale  d'un  re  dei
genii in una città dorata del mondo dei sogni. Al di  sopra  di  questi  tesori,
sono sospesi alle pareti vecchi moschetti a ruota e  a  miccia,  grosse  pistole
albanesi, lunghissimi fucili arabi lavorati  come  gioielli,  scudi  antichi  di
scorza di tartaruga e di pelle d'ippopotamo, maglie  circasse,  scudi  cosacchi,
celate mongoliche, archi turcassi, coltellacci da carnefici, lamaccie  di  forme
sinistre, ognuna delle quali pare la rivelazione d'un delitto, e fa pensare agli
spasimi di un'agonia. In mezzo a quest'apparato minaccioso e magnifico,  siedono
a gambe incrociate i mercanti più schiettamente turchi del Grande Bazar, la  più
parte vecchi, d'aspetto tetro, smunti come anacoreti  e  superbi  come  Sultani,
figure d'altri secoli, vestiti alla  foggia  delle  prime  egire,  che  sembrano
risuscitati dal sepolcro per richiamare i  nipoti  imbastarditi  alla  austerità
dell'antica razza. Un altro bazar da vedersi è quello degli abiti vecchi. Qui il
Rembrant ci avrebbe preso domicilio e il Goya speso la sua  ultima  peceta.  Chi
non ha mai visto una bottega di rigattiere  orientale  non  può  immaginare  che
stravaganza di stracci, che pompa  di  colori,  che  ironia  di  contrasti,  che
spettacolo ad un tempo carnevalesco, lugubre e schifoso, presenti questo  bazar,
questa cloaca di cenci, in cui tutti i rifiuti degli arem, delle caserme,  della
corte, dei teatri, vengono ad aspettare che  il  capriccio  d'un  pittore  o  il
bisogno d'un pezzente li riporti alla luce del sole. Da lunghe pertiche confitte
nei muri, pendono vecchie uniformi turche, giubbe a coda di rondine,  dolman  di
gran signori, tuniche di dervis, cappe di beduini,  tutte  untume,  brindelli  e
buchi, che paiono state crivellate a colpi di pugnale e  rammentano  le  spoglie
sinistre degli assassinati che si vedono sulle tavole delle Corte d'Assisie.  In
mezzo a questi cenci luccica ancora qua e là qualche rabesco  d'oro;  spenzolano
vecchie cinture di seta, turbanti sciolti, ricchi scialli lacerati,  bustini  di
velluto a cui pare che la mano furiosa d'un ladro  abbia  strappato  insieme  il
pelo e le perle, calzoncini e veli che sono forse appartenuti  a  qualche  bella
infedele, la quale dorme cucita in un sacco in fondo alle acque del Bosforo,  ed
altre vesti ed ornamenti di donna, di mille colori gentili, imprigionati  fra  i
grossi caffettani circassi, dai cartuccieri irruginiti, fra le lunghe toghe nere
degli ebrei, fra le rozze casacche e i pesanti mantelli, che hanno nascosto  chi
sa quante volte il fucile del bandito o lo stile del sicario. Verso  sera,  alla
luce misteriosa che scende dai fori  della  volta,  tutti  quei  vestiti  appesi
prendono una vaga apparenza di corpi  d'impiccati;  e  quando  in  fondo  a  una
bottega si vedono scintillare gli occhi astuti d'un vecchio ebreo, che si gratta
la fronte con una mano adunca, si direbbe che è quella la mano che ha stretto  i
lacci, e si dà uno sguardo alla porta del bazar, per paura che sia  chiusa.  Non
basterebbe una giornata di giri e di rigiri  se  si  volessero  veder  tutte  le
stradette di questa strana città. V'è il bazar dei fez, dove si trovano  fez  di
tutti i paesi, da quelli del Marocco a quelli di Vienna, ornati d'iscrizioni del
Corano che preservano dagli spiriti maligni; i fez che le belle greche di Smirne
portano sulla sommità della testa, sopra il nodo delle treccie nere scintillanti
di monete; le berrettine rosse delle turche; fez da  soldati,  da  generali,  di
sultani, da zerbinotti, di tutte le sfumature di rosso e di tutte le  forme,  da
quelli primitivi dei tempi d'Orcano  fino  al  gran  fez  elegante  del  Sultano
Mahmut, emblema delle riforme e abbominazione  dei  vecchi  mussulmani.  V'è  il
bazar delle pelliccie dove si trova la sacra pelle di volpe nera, che una  volta
poteva portare il solo Sultano o il gran vizir; la martora con cui si foderavano
i caffettani di gala; l'orso bianco, l'orso nero, la volpe azzurra,  l'astrakan,
l'ermellino, lo zibellino,  in  cui  altre  volte  i  sultani  profusero  tesori
favolosi. È pure da vedersi il bazar dei coltellinai, non fosse che per pigliare
in mano una di quelle enormi forbici  turche,  colle  lame  bronzate  e  dorate,
adorne di disegni fantastici d'uccelli e di fiori, che s'incrociano  ferocemente
lasciando in mezzo un vano  in  cui  potrebbe  entrare  la  testa  d'un  critico
maligno. V'è ancora il bazar dei filatori d'oro, quello dei  ricamatori,  quello
dei chincaglieri, quello dei sarti, quello dei  vasellami,  tutti  diversi  l'un
dall'altro di forma e di gradazione di luce; ma tutti eguali in questo: che  non
vi si vede nè vendere, nè lavorare una  donna.  Tutt'al  più  può  accadere  che
qualche greca seduta per un momento davanti a una sartoria vi offra  timidamente
un fazzoletto finito allora di  ricamare.  La  gelosia  orientale  interdice  la
bottega al bel sesso come una scuola di civetteria e un nascondiglio d'intrighi.
Ma ci sono ancora altre parti del gran  bazar  in  cui  uno  straniero  non  può
avventurarsi se non lo accompagna un mercante o un  sensale;  e  sono  le  parti
interne dei piccoli quartieri in cui è divisa  questa  città  singolare,  il  di
dentro dei piccoli isolati intorno a cui  girano  le  stradette  percorse  dalla
folla. Se nelle stradette c'è pericolo di smarrirsi, là dentro è impossibile non
perdersi. Da corridoi poco più larghi d'un uomo, in cui bisogna chinarsi per non
urtar nella volta, si riesce in cortiletti grandi come celle, ingombri di  casse
e di balle, e appena rischiarati da un barlume; si scende a tentoni per scalette
di legno, si ripassa per altri cortili rischiarati da  lanterne,  si  ridiscende
sotto terra, si risale alla luce del giorno, si cammina a capo basso per  lunghi
anditi serpeggianti, sotto volte umide,  in  mezzo  a  muri  neri  e  ad  assiti
muscosi,  che  conducono  a  porticine   segrete,   dalle   quali   si   ritorna
inaspettatamente nel luogo di dove s'è partiti; e da per tutto ombre che vanno e
che vengono, spettri immobili negli angoli, gente che rimesta  mercanzie  o  che
conta denari; lumicini che appaiono e dispaiono, voci  e  passi  frettolosi  che
risuonano non si sa dove; e incontri inaspettati di ostacoli  neri  che  non  si
capisce che cosa siano, e giuochi di luce non mai veduti, e contatti sospetti, e
odori strani, che par di girare per i meandri d'una caverna di  fattucchieri,  e
non si vede l'ora d'esserne fuori. Per solito i sensali fanno passare in  questi
luoghi gli stranieri per condurli a quelle botteghe, per lo più appartate, nelle
quali si vende un po' di tutto: specie di Gran-bazar in miniatura,  botteghe  da
rigattieri signorili,  curiosissime  a  vedersi,  ma  molto  pericolose,  perchè
contengono tante e così strane e così rare cose da far vuotare  la  borsa  anche
all'avarizia incarnata. Questi  mercanti  d'un  po'  d'ogni  cosa,  furbacchioni
matricolati, si sottintende, e poliglotti come i loro fratelli di  banda,  usano
nel tentare la gente un certo procedimento drammatico che diverte assai,  e  che
di rado fallisce allo scopo  dell'attore.  Le  loro  botteghe  son  quasi  tutte
stanzuccie oscure piene di casse e d'armadi, dove bisogna accendere  il  lume  e
c'è appena posto da rigirarsi. Dopo avervi fatto vedere qualche vecchio stipetto
intarsiato d'avorio e di madreperla, qualche porcellana  chinese,  qualche  vaso
del Giappone, il mercante vi dice che ha qualche cosa di speciale per voi,  tira
fuori un cassetto e vi rovescia sulla tavola un mucchio di ninnoli: un ventaglio
di penne di pavone, per esempio, un braccialetto di vecchie  monete  turche,  un
cuscinetto di pelo di cammello colla cifra del  Sultano  ricamata  in  oro,  uno
specchietto persiano dipinto d'una scena del libro di paradiso, una  spatola  di
tartaruga con cui i turchi mangiano la composta di  ciliegie,  un  vecchio  gran
cordone dell'ordine dell'Osmaniè. Non c'è nulla  che  vi  piaccia?  Rovescia  un
altro cassetto e questo è proprio un cassetto che  aspettava  voi  solo.  È  una
zanna rotta d'elefante, un braccialetto di Trebisonda che pare  una  treccia  di
capelli d'argento, un idoletto giapponese, un pettine di sandalo della Mecca, un
gran cucchiaio turco lavorato  a  rabeschi  e  a  trafori,  un  antico  narghilè
d'argento dorato e istoriato, delle pietruzze dei musaici di  Santa  Sofia,  una
penna d'airone che ha ornato il  turbante  di  Selim  III,  il  mercante  ve  lo
assicura da uomo d'onore. Non trovate nulla di vostro genio? E lui  rovescia  un
altro cassetto, da cui casca  un  ovo  di  struzzo  del  Sennahar,  un  calamaio
persiano, un anello damaschinato, un arco di Mingrelia col suo turcasso di pelle
d'alce, un caschetto circasso a due punte, un tespì di diaspro,  una  profumiera
d'oro smaltato, un talismano turco, un coltello da cammelliere,  una  boccettina
d'atar-gull. Non c'è nulla che vi tenti, per Dio? Non avete regali da fare?  Non
pensate ai vostri parenti? Non avete cuore per i  vostri  amici?  Ma  forse  voi
avete la passione delle stoffe e  dei  tappeti,  e  anche  in  questo  egli  può
servirvi da amico. - Ecco un mantello rigato del  Kurdistan,  milord;  ecco  una
pelle di leone, ecco un tappeto d'Aleppo coi chiodini d'acciaio, ecco un tappeto
di Casa-blanca spesso tre dita che dura  per  quattro  generazioni,  guarentito;
ecco, eccellenza, i vecchi cuscini, le vecchie cinture di broccato  e  i  vecchi
copripiedi di seta, un po' sbiaditi e un po' tarlati, ma ricamati come  ora  non
si ricamano più, nemmeno a pagarli un tesoro. A lei, caballero, ch'è venuto  qui
condotto da un amico, a lei dò questa vecchia cintura per cinque napoleoni, e mi
rassegno a mangiar pane e aglio per una settimana. - Se  nemmeno  da  questo  vi
lasciate tentare, vi dirà nell'orecchio che può vendervi  la  corda  con  cui  i
terribili muti del Serraglio hanno strangolato Nassuh Pascià, il gran  vizir  di
Maometto III; e se voi gli ridete sul viso dicendogli  che  non  la  bevete,  la
lascia cascare da uomo di spirito, e fa l'ultimo  tentativo  buttandovi  davanti
una coda da cavallo di quelle che si portavano davanti e dietro ai  pascià;  una
marmitta di Giannizzero portata via da suo padre, ancora spruzzata di sangue, il
giorno stesso della strage  famosa;  un  pezzo  di  bandiera  di  Crimea,  colla
mezzaluna e le stelline d'argento; un vaso da lavarsi  le  mani,  tempestato  di
agate;  un  bracierino  di  rame  cesellato;  un  collare  di  dromedario  colle
conchiglie e le campanelle, un frustino da  eunuco  di  cuoio  d'ippopotamo,  un
corano legato in oro, una sciarpa del Korassan, un paio di babbuccie da  Cadina,
un candelliere fatto con un artiglio d'aquila,  tanto  che  infine  la  fantasia
s'accende, i capricci saltellano, e vi assale una  matta  voglia  di  buttar  là
portamonete, orologio, pastrano, e gridare: - Caricatemi! -; e  bisogna  proprio
esser figliuoli assestati o padri di giudizio  per  resistere  alla  tentazione.
Quanti artisti sono usciti di là scannati come Giobbe e quanti ricconi ci  hanno
bucato il patrimonio! Ma prima che il gran bazar si chiuda bisogna  ancora  fare
un giro per vedere il suo aspetto dell'ultima ora. Il movimento della  folla  si
fa più affrettato, i mercanti chiamano con gesti più imperiosi, greci ed  armeni
corrono gridando per le strade con uno scialle o  un  tappeto  sul  braccio,  si
formano dei gruppi, si contratta alla  spiccia,  i  gruppi  si  sciolgono  e  si
rifanno più lontano; i cavalli, le carrozze, le bestie da soma passano in lunghe
file diretti verso l'uscita.  In  quell'ora  tutti  i  bottegai  con  cui  avete
litigato  senza  cadere  d'accordo,  vi  vaneggiano  intorno,  in  quella  mezza
oscurità, come pipistrelli;  li  vedete  far  capolino  dietro  le  colonne,  li
incontrate alle svolte, vi  attraversano  la  strada  e  vi  passano  sui  piedi
guardando in aria, per rammentarvi colla loro presenza quel  tal  tessuto,  quel
certo gingillo, e farvene  rinascere  il  desiderio.  Alle  volte  ne  avete  un
drappello alle spalle: se vi fermate, si fermano, se scantonate, scantonano,  se
vi voltate indietro incontrate dieci occhioni dilatati e fissi  che  vi  mangian
vivo. Ma già la luce manca, la folla si dirada. Sotto  le  lunghe  volte  arcate
risuona la voce di qualche mezzuin invisibile che annunzia  il  tramonto  da  un
minareto di legno; qualche turco  stende  il  tappeto  dinanzi  alla  bottega  e
mormora la preghiera della sera; altri fanno le abluzioni alle  fontane.  Già  i
vecchi centenarii del bazar delle armi hanno chiuso le grandi porte di ferro;  i
piccoli bazar sono deserti, i corridoi si perdono nelle tenebre, le  imboccature
delle strade  paiono  aperture  di  caverne,  i  cammelli  vi  giungono  addosso
all'impensata, la voce dei venditori d'acqua muore sotto le arcate  lontane,  le
turche affrettano il passo,  gli  eunuchi  aguzzano  gli  occhi,  gli  stranieri
scappano, le imposte si chiudono, la giornata è finita.

* *   *

Ed ora io mi sento domandare  da  ogni  parte:  -  E  Santa  Sofia?  E  l'antico
Serraglio? E i  palazzi  del  Sultano?  E  il  castello  delle  Sette  torri?  E
Abdul-Aziz? E il Bosforo? Descriverò tutto e con  tutta  l'anima;  ma  prima  ho
ancora bisogno di spaziare un  po'  liberamente  per  Costantinopoli,  cambiando
d'argomento a ogni pagina, come là cangiavo di pensieri a ogni passo.

* *   *

[La luce]

E prima d'ogni cosa, la luce! Uno dei miei piaceri più vivi,  a  Costantinopoli,
era di veder levare e tramontare il sole, stando sul ponte della Sultana Validè.
All'alba, in autunno, il Corno d'oro  è  quasi  sempre  coperto  da  una  nebbia
leggiera, dietro alla quale si vede la città confusamente, come a traverso  que'
veli bianchi che si calano sul palco scenico per nascondere gli apparecchi d'una
scena spettacolosa. Scutari è tutta coperta: non si vedono che i contorni  scuri
ed incerti delle sue colline. Il ponte e le rive  sono  deserte,  Costantinopoli
dorme: la solitudine e il silenzio rendono lo spettacolo più solenne.  Il  cielo
comincia a dorarsi dietro le colline di Scutari. Su quella striscia luminosa  si
disegnano ad una ad  una,  precise  e  nerissime,  le  punte  dei  cipressi  del
vastissimo cimitero, come un esercito di giganti schierati sopra le alture; e da
un capo all'altro del Corno d'oro corre un lucicchio leggerissimo che è come  il
primo fremito della grande città che risente la vita.  Poi  dietro  ai  cipressi
della riva asiatica, spunta un occhio di foco, e subito le sommità  bianche  dei
quattro minareti di Santa Sofia si  colorano  di  rosa.  In  pochi  momenti,  di
collina in collina, di moschea in moschea, fino in fondo al Corno d'oro, tutti i
minareti, l'un dopo l'altro, arrossiscono, tutte le cupole,  una  dopo  l'altra,
s'inargentano, il  rossore  discende  di  terrazzo  in  terrazzo,  il  lucicchio
s'allarga, il gran velo cade, e tutta  Stambul  appare,  rosata  e  risplendente
sulle alture, azzurrina e violacea lungo le  rive,  tersa  e  fresca,  che  pare
uscita dalle acque. A misura che il sole  s'alza,  la  delicatezza  delle  prime
tinte svanisce in  un  immenso  chiarore,  e  tutto  rimane  come  velato  dalla
bianchezza della luce fin verso sera. Allora lo  spettacolo  divino  ricomincia.
L'aria è limpida tanto che da Galata si vedono nettamente uno per uno gli alberi
lontanissimi dell'ultima punta di Kadi-Kioi. Tutto l'immenso profilo di  Stambul
si stacca dal cielo con una nitidezza di linee e un vigore  di  colori,  che  si
potrebbero contare, punta per punta, tutti i minareti, tutte le guglie, tutti  i
cipressi che coronano le alture dal capo del Serraglio al  cimitero  d'Eyub.  Il
Corno d'oro e il Bosforo pigliano un meraviglioso colore oltramarino: il  cielo,
color d'amatista a  oriente,  s'infuoca  dietro  Stambul,  tingendo  l'orizzonte
d'infiniti lumeggiamenti di rosa e di carbonchio  che  fanno  pensare  al  primo
giorno della creazione; Stambul s'oscura, Galata s'indora, e  Scutari,  percossa
dal sole cadente, tutta scintillante di vetri, pare  una  città  in  preda  alle
fiamme. È questo il più bel momento per contemplare Costantinopoli. È una rapida
successione di tinte  soavissime,  d'oro  pallido,  di  rosa  e  di  lilla,  che
tremolano e fuggono su per i fianchi dei colli e sulle acque, dando e  togliendo
ora all'una ora  all'altra  parte  della  città  il  primato  della  bellezza  e
rivelando mille piccole grazie pudiche di paesaggio che  non  osavano  mostrarsi
alla gran luce. Si vedono dei grandi sobborghi malinconici,  perduti  nell'ombra
delle valli; delle piccole città purpuree, che ridono sulle alture;  villaggi  e
città che languono, come se mancasse loro la vita; altre che muoiono  tutt'a  un
tratto come  incendi  soffocati;  altre  che,  credute  già  morte,  risuscitano
improvvisamente, tutte in foco, e tripudiano ancora per  qualche  momento  sotto
l'ultimo raggio del sole. Poi non rimangono più che due cime risplendenti  sulla
riva dell'Asia: la sommità del monte Bulgurlù e la punta  del  capo  che  guarda
l'entrata della Propontide; son prima due corone d'oro, poi  due  berrettine  di
porpora, poi due rubini; poi tutta Costantinopoli è  nell'ombra,  e  dieci  mila
voci annunziano il tramonto dall'alto di dieci mila minareti.

* *  *

[Gli uccelli]

Costantinopoli ha una gaiezza  e  una  grazia  sua  propria,  che  le  viene  da
un'infinità d'uccelli d'ogni specie, per  i  quali  i  Turchi  nutrono  un  vivo
sentimento di simpatia e di rispetto. Moschee, boschi, vecchie  mura,  giardini,
palazzi, tutto canta, tutto gruga, tutto chiocchiola, tutto pigola; per tutto si
sente frullo d'ali, per tutto c'è vita e armonia. I passeri entrano  arditamente
nelle case e beccano nella mano dei bimbi e delle donne;  le  rondini  fanno  il
nido sulle porte dei caffè e sotto le vôlte dei  bazar;  i  piccioni,  a  sciami
innumerevoli, mantenuti con làsciti di  Sultani  e  di  privati,  formano  delle
ghirlande bianche e nere lungo i cornicioni delle cupole e intorno  ai  terrazzi
dei minareti; i gabbiani volteggiano festosamente intorno ai  caicchi,  migliaia
di tortorelle amoreggiano fra cipressi dei cimiteri; intorno al  castello  delle
Sette torri crocitano i corvi e rotano gli avvoltoi; gli alcioni vanno e vengono
in lunghe file fra il mar Nero e il mar di Marmara; e le cicogne gloterano sulle
cupolette dei mausolei solitari. Per il Turco ognuno di  questi  uccelli  ha  un
senso gentile o una virtù benigna: le tortore proteggono gli amori,  le  rondini
scongiurano gl'incendi dalle case dove appendono il nido, le cicogne fanno  ogni
inverno un pellegrinaggio alla Mecca, gli alcioni portano in paradiso  le  anime
dei fedeli. Così egli li protegge e li alimenta per gratitudine e per religione,
ed essi gli fanno festa intorno alla casa, sul mare e tra i  sepolcri.  In  ogni
parte di Stambul si è sorvolati, circuiti, rasentati dai loro stormi sonori, che
spandono per la città l'allegrezza della campagna  e  rinfrescano  continuamente
nell'anima il sentimento della natura.

* *   * [Le memorie]

In nessun'altra città d'Europa i luoghi e  i  monumenti  leggendarii  o  storici
muovono così vivamente la fantasia come a Stambul, poichè in nessun'altra  città
essi ricordano avvenimenti così recenti ad un tempo e così fantastici.  Altrove,
per ritrovar la poesia delle memorie, bisogna tornar indietro  col  pensiero  di
parecchi secoli; a Stambul, basta retrocedere di pochi anni. La leggenda, o  ciò
che ha natura ed efficacia di leggenda, è di ieri. Sono  pochi  anni  che  nella
piazza dell'At-meidan fu consumata l'ecatombe favolosa  dei  Giannizzeri;  pochi
anni che il mar di Marmara rigettò sulla riva dei  giardini  imperiali  i  venti
sacchi che racchiudevano le belle di Mustafà; che nel castello delle Sette torri
fu scannata la famiglia di Brancovano; che due capigì-basci trattenevano per  le
braccia gli ambasciatori europei al cospetto del Gran  Signore,  del  quale  non
appariva che mezzo il viso, rischiarato da una luce misteriosa;  e  che  fra  le
mura dell'antico  serraglio  cessò  quella  vita  così  stranamente  intrecciata
d'amori, d'orrori e di follie, che  ci  pare  già  tanto  lontana.  Girando  per
Stambul con questi pensieri, si prova quasi un sentimento di stupore al veder la
città così quieta, così ridente di vegetazione e di colori.  Ah  perfida!  -  si
direbbe, - che cos'hai fatto di que' monti di teste e di quei laghi  di  sangue?
Possibile che tutto sia già così ben nascosto, spazzato, lavato, che non  se  ne
ritrovi più traccia? Sul Bosforo, in faccia alla  torre  di  Leandro  che  sorge
dalle acque come un monumento d'amore, sotto le mura dei giardini del Serraglio,
si vede ancora il piano inclinato per cui  si  facevano  rotolare  nel  mare  le
odalische infedeli; in mezzo all'At-meidan la colonna serpentina porta ancora la
traccia della sciabolata famosa di  Maometto  il  Conquistatore;  sul  ponte  di
Mahmut si segna ancora il luogo dove il sultano focoso freddò con un fendente il
dervis temerario che gli scagliò in volto l'anatema; nella cisterna  dell'antica
chiesa di Balukli, guizzano ancora i pesci miracolosi che vaticinarono la caduta
della città dei Paleologhi;  sotto  gli  alberi  delle  Acque  dolci  d'Asia  si
accennano ancora i recessi dove una Sultana dissoluta imponeva ai favoriti  d'un
istante un amore che finiva colla morte. Ogni porta, ogni torre,  ogni  moschea,
ogni piazza, rammenta un  prodigio,  una  strage,  un  amore,  un  mistero,  una
prodezza di Padiscià o un capriccio di Sultana; tutto  ha  la  sua  leggenda,  e
quasi per tutto gli oggetti vicini, le vedute lontane, l'odore  dell'aria  e  il
silenzio, concorrono a portar l'immaginazione dello straniero, che s'immerge  in
quei ricordi, fuori del suo secolo e della città dell'oggi e di sè stesso; tanto
che accade sovente, a Stambul, di riscotersi improvvisamente alla strana idea di
dover tornare all'albergo. Come? - si pensa, - c'è un albergo?

* *   *

[Le rassomiglianze]

Nei primi giorni, fresco com'ero di letture orientali, vedevo da  ogni  parte  i
personaggi famosi delle  storie  e  delle  leggende,  e  le  figure  che  me  li
rammentavano, somigliavano qualche volta così  fedelmente  a  quelle  che  m'ero
foggiate coll'immaginazione,  ch'ero  costretto  a  fermarmi  per  contemplarle.
Quante volte ho afferrato per un braccio  il  mio  amico,  e  accennandogli  una
persona che passava, gli dissi: - Ma è lui, cospetto! non lo riconosci? -  Nella
piazzetta della Sultana-Validè ho visto molte volte il turco gigante  che  dalle
mura di Nicea rovesciava i macigni sulle teste  dei  soldati  del  Buglione;  ho
visto dinanzi a una moschea Umm Dgiemil, la  vecchia  megera  della  Mecca,  che
spargeva i rovi e le ortiche dinanzi alla casa di Maometto; ho trovato nei bazar
dei librai, con un volume sotto il braccio, Digiemal-eddin,  il  gran  dotto  di
Brussa, che sapeva a memoria tutto il dizionario arabo; son passato  accanto  ad
Aiscié, la sposa prediletta del Profeta, che mi fissò  in  volto  i  suoi  occhi
lucenti e umidi come la stella nel  pozzo;  ho  riconosciuto  nell'At-meidan  la
bellezza famosa della povera greca uccisa ai piedi della colonna  serpentina  da
una palla dei cannoni d'Orban; mi son trovato faccia a faccia, allo svolto d'una
stradetta del Fanar, con Kara-Abderrahman, il più bel giovane  turco  dei  tempi
d'Orkano;  ho  riconosciuto  Coswa,  la  cammella  di  Maometto;  ho   ritrovato
Karabulut, il cavallo nero di Selim; ho visto il povero poeta Fighani condannato
a girare per Stambul legato a un asino, per aver ferito con un distico insolente
il gran vizir d'Ibrahim; ho trovato in un caffè Solimano il grosso, l'ammiraglio
mostruoso, che quattro schiavi robusti riuscivano appena a sollevar dal  divano;
Alì, il gran vizir, che non trovò in tutta l'Arabia un cavallo che lo  reggesse;
Mahmut Pascià, l'ercole feroce che strozzò il figlio di Solimano; e  lo  stupido
Ahmet II  che  ripeteva  continuamente:  Kosc!  Kosc!  -  va  bene,  va  bene  -
accovacciato dinanzi alla porta del bazar dei copisti,  vicino  alla  piazza  di
Bajazet. Tutti i personaggi delle Mille e una notte, gli Aladini, le Zobeidi,  i
Sindbad, le Gulnare, i vecchi mercanti ebrei possessori di tappeti fatati  e  di
lampade meravigliose, mi sfilarono dinanzi, come una processione di fantasmi.

* *   *

[Il vestire]

Questo è veramente il  periodo  di  tempo  migliore  per  veder  la  popolazione
musulmana di Costantinopoli, perchè nel secolo scorso era troppo uniforme e sarà
probabilmente troppo uniforme nel secolo venturo.  Ora  si  coglie  quel  popolo
nell'atto della sua trasformazione, e perciò presenta una varietà  meravigliosa.
Il progresso dei riformatori, la resistenza dei vecchi turchi, e le incertezze e
le transazioni della grande massa che ondeggia fra quei due  estremi,  tutte  le
fasi, insomma, della lotta fra la nuova e la vecchia  Turchia,  sono  fedelmente
rappresentate dalla varietà dei vestimenti. Il vecchio turco inflessibile  porta
ancora il turbante, il caffettano e le scarpe tradizionali di marocchino giallo;
e i più ostinati fra i vecchi un turbante più  voluminoso.  Il  turco  riformato
porta un lungo soprabito nero abbottonato fin sotto il mento e i  calzoni  scuri
colle staffe, non conservando altro di turco che il fez.  Fra  questi,  però,  i
giovani più arditi hanno già  buttato  via  il  lungo  soprabito  nero,  portano
panciotti aperti, calzoni chiari, cravattine eleganti, gingilli, mazza  e  fiori
all'occhiello. Fra quelli e  questi,  fra  chi  porta  caffettano  e  chi  porta
soprabito, v'è un abisso; non v'è più altro di comune  che  il  nome;  sono  due
popoli affatto diversi. Il turco del turbante crede ancora fermamente  al  ponte
Sirath, che passa sopra all'inferno, più sottile d'un  capello  e  più  affilato
d'una scimitarra; fa le sue abluzioni alle ore debite, e si rincasa al calar del
sole. Il turco del soprabito si ride  del  Profeta,  si  fa  fotografare,  parla
francese e passa la sera al teatro. Fra l'uno e l'altro vi son poi i  titubanti,
dei quali alcuni hanno ancora il turbante, ma piccolissimo, in modo che potranno
inaugurare il fez senza scandalo; altri portano ancora il caffettano,  ma  hanno
già inaugurato il fez; altri vestono  ancora  all'antica,  ma  non  han  più  nè
cintura nè babbuccie, nè colori vistosi; e a poco a poco butteranno via tutto il
resto. Le donne soltanto conservano  tutte  l'antico  velo  e  il  mantello  che
nasconde le forme; ma il velo è diventato trasparente e lascia  intravvedere  un
cappelletto piumato, e il mantello copre spesso una veste tagliata sul  figurino
di Parigi. Ogni anno  cadono  migliaia  di  caffettani  e  sorgono  migliaia  di
soprabiti; ogni giorno muore un vecchio turco e nasce  un  turco  riformato.  Il
giornale succede al tespì, il sigaro al cibuk,  il  vino  all'acqua  concia,  la
carrozza all'arabà, la grammatica francese alla grammatica araba, il  pianoforte
al timbur, la casa di pietra alla casa di  legno.  Tutto  si  altera,  tutto  si
trasforma. Forse tra meno d'un secolo bisognerà andar a cercare  i  resti  della
vecchia Turchia in fondo alle più lontane provincie dell'Asia Minore, come si va
a cercare quelli della vecchia Spagna nei villaggi più remoti dell'Andalusia.

* *   *

[Costantinopoli futura]

Questo pensiero m'assaliva sovente, contemplando Costantinopoli dal ponte  della
Sultana-Validè. Che cosa sarà questa città fra uno o  due  secoli,  anche  se  i
Turchi non siano cacciati d'Europa? Ahimè! Il grande  olocausto  della  bellezza
alla civiltà sarà già consumato. Io la vedo quella Costantinopoli futura, quella
Londra dell'Oriente che innalzerà la sua maestà minacciosa e triste sulle rovine
della più ridente città della terra. I colli saranno spianati, i boschetti  rasi
al suolo, le casette multicolori atterrate; l'orizzonte sarà  tagliato  da  ogni
parte dalle lunghe linee rigide dei palazzi, delle case operaie e degli opifici,
in mezzo a cui si drizzerà una miriade di  camini  altissimi  d'officine,  e  di
tetti piramidali di campanili; lunghe  strade  diritte  e  uniformi  divideranno
Stambul  in   diecimila   parallelepipedi   enormi;   i   fili   del   telegrafo
s'incrocieranno come  un'immensa  tela  di  ragno  sopra  i  tetti  della  città
rumorosa; sul ponte della Sultana-Validè non si vedrà più che un  torrente  nero
di cappelli cilindrici e di berrette; la collina misteriosa del  Serraglio  sarà
un giardino zoologico, il Castello delle Sette torri un penitenziario, l'Ebdomon
un museo di storia naturale;  tutto  sarà  solido,  geometrico,  utile,  grigio,
uggioso, e una immensa nuvola oscura velerà perpetuamente  il  bel  cielo  della
Tracia, a cui non s'alzeranno più nè preghiere ardenti nè  occhi  innamorati  nè
canti di poeti. Quando quest'immagine mi  si  presentava,  sentivo  proprio  una
stretta al cuore; ma poi mi consolavo pensando:  -  Chi  sa  che  qualche  sposa
italiana del secolo ventunesimo, venendo qui a fare il suo viaggio di nozze, non
esclami qualche volta: - Peccato! Peccato che Costantinopoli non sia più come la
descrive quel vecchio libro tarlato dell'ottocento  che  ritrovai  per  caso  in
fondo all'armadio della nonna!

* *   *

[I cani]

E allora sarà anche sparita  da  Costantinopoli  una  delle  sue  curiosità  più
curiose, che sono i cani. Qui proprio voglio lasciar correre  un  po'  la  penna
perchè  l'argomento  lo  merita.  Costantinopoli  è  un  immenso  canile:  tutti
l'osservano appena arrivati. I cani costituiscono una seconda popolazione  della
città, meno numerosa, ma non meno strana  della  prima.  Tutti  sanno  quanto  i
Turchi li amino e li proteggano. Non ho potuto sapere  se  lo  facciano  per  il
sentimento di carità che raccomanda il Corano anche verso le bestie; o perchè li
credano, come certi uccelli, apportatori  di  fortuna,  o  perchè  li  amava  il
Profeta, o perchè ne  parlano  le  loro  sacre  storie,  o  perchè,  come  altri
pretende, Maometto il Conquistatore si conduceva dietro un folto stato  maggiore
canino che entrò trionfante con lui per la breccia di porta San Romano. Il fatto
è che li hanno a cuore, che molti Turchi lasciano  per  testamento  delle  somme
cospicue per la loro alimentazione, e che quando il sultano Abdul-Mejid li  fece
portar tutti nell'isola di Marmara, il popolo ne mormorò, e quando  ritornarono,
li ricevette a festa, e il Governo, per non provocar malumori, li lasciò in pace
per sempre. Però, siccome il cane, secondo il Corano, è un  animale  immondo,  e
ogni turco, ospitandolo, crederebbe di contaminare la casa, così  nessuno  degli
innumerevoli cani di Costantinopoli ha padrone. Formano tutti insieme una grande
repubblica di vagabondi liberissimi, senza collare, senza  nome,  senza  uffici,
senza casa, senza leggi. Fanno tutto nella strada; vi si scavano  delle  piccole
tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini, e vi muoiono;
e nessuno, almeno a Stambul, li disturba menomamente dalle  loro  occupazioni  e
dai loro riposi. Essi sono i padroni della via. Nelle nostre città è il cane che
si scansa per lasciar passare i cavalli e la  gente.  Là  è  la  gente,  sono  i
cavalli, i cammelli, gli asini che fanno anche un lungo giro per non  pestare  i
cani. Nei luoghi più frequentati di Stambul, quattro o cinque cani raggomitolati
e addormentati proprio nel bel mezzo della strada, si fanno girare  intorno  per
una mezza giornata tutta la popolazione d'un quartiere. E  lo  stesso  accade  a
Pera e a Galata, benchè qui siano lasciati in pace  non  già  per  rispetto,  ma
perchè sono tanti, che a volerseli cacciare di fra i piedi, bisognerebbe non far
altro che tirar calci e legnate dal momento che s'esce di casa al momento che si
ritorna. A mala pena si scomodano quando, nelle strade piane, si  vedono  venire
addosso una carrozza a tiro a quattro, che va come il vento, e non ha più  tempo
di deviare. Allora si alzano, ma non prima dell'ultimo momento, quando hanno  le
zampe dei cavalli a un filo dalla testa, e  trasportano  stentatamente  la  loro
pigrizia quattro dita più lontano: lo strettissimo  necessario  per  salvare  la
vita. La pigrizia  è  il  tratto  distintivo  dei  cani  di  Costantinopoli.  Si
accucciano in mezzo alle strade, cinque, sei,  dieci  in  fila  od  in  cerchio,
arrotondati in maniera che non paion più bestie,  ma  mucchi  di  sterco,  e  lì
dormono delle giornate intere, fra un viavai e uno strepito  assordante,  e  non
c'è nè acqua, nè sole, nè freddo che li riscuota. Quando nevica, rimangon  sotto
la neve; quando piove, restano immersi nella mota fin sopra la testa, tanto  che
poi, alzandosi, paiono cani sbozzati nella creta, e non ci si vede più nè occhi,
nè orecchie, nè muso. A Pera e a Galata, però, son meno indolenti che a Stambul,
perchè ci trovano meno facilmente da mangiare. A Stambul  sono  in  pensione,  a
Pera e a Galata mangiano alla carta. Sono le scope viventi delle strade.  Quello
che rifiutano i maiali, per loro è  ghiottoneria.  Fuor  che  i  sassi  mangiano
tutto, e appena hanno tanto in corpo da non morire, tornano a raggomitolarsi  in
terra e ridormono fin che non li sveglia la fame.  Dormono  quasi  sempre  nello
stesso luogo. La popolazione canina di Costantinopoli  è  divisa  per  quartieri
come la popolazione umana. Ogni quartiere, ogni strada è  abitata,  o  piuttosto
posseduta da un  certo  numero  di  cani,  parenti  ed  amici,  che  non  se  ne
allontanano mai, e non vi lasciano penetrare stranieri. Esercitano una specie di
servizio di polizia. Hanno i loro corpi di guardia, i loro  posti  avanzati,  le
loro sentinelle fanno la ronda e le esplorazioni. Guai se  un  cane  d'un  altro
quartiere, spinto dalla fame, s'arrischia nei possedimenti dei suoi vicini!  Una
frotta di cagnacci insatanassati gli piomba addosso, e se lo coglie, lo finisce;
se non può coglierlo, lo insegue rabbiosamente fino ai  confini  del  quartiere.
Sino ai confini, non più in là; il paese nemico  è  quasi  sempre  rispettato  e
temuto. Non si può dare un'idea delle battaglie, dei sottosopra che seguono  per
un osso, per una bella, o per una violazione di territorio. Ogni momento si vede
una frotta di cani stringersi furiosamente in un gruppo intricato e  confuso,  e
sparire in un nuvolo di polvere, e lì urli e latrati e  guaiti  da  lacerare  le
orecchie ad un sordo; poi la frotta si sparpaglia,  e  a  traverso  il  polverìo
diradato si vedono distese sul terreno le vittime della mischia. Amori, gelosie,
duelli, sangue, gambe rotte e orecchie lacerate, son  l'affare  d'ogni  momento.
Alle volte se ne radunan tanti e fanno tali baldorie davanti a una bottega,  che
il bottegaio e i garzoni son costretti ad armarsi di stanghe e di seggiole  e  a
fare una sortita militare in tutte le regole per sgombrare la strada;  e  allora
si sentono risonar teste e schiene e pancie,  e  ululati  che  fanno  venir  giù
l'aria. A Pera e a Galata in specie, quelle povere bestie sono tanto  malmenate,
tanto abituate a toccare una percossa ogni volta che vedono un bastone,  che  al
solo sentir battere sul ciottolato un ombrello o una mazzina, o  scappano  o  si
preparano a scappare; ed anche quando sembra che dormano, tengono  quasi  sempre
un occhio socchiuso, un puntino  impercettibile  di  pupilla,  con  cui  seguono
attentissimamente, anche per un quarto d'ora filato,  e  a  qualunque  distanza,
tutti i più leggieri movimenti di qualsiasi oggetto  che  abbia  apparenza  d'un
bastone. E son così poco assuefatti a trattamenti umani,  che  basta,  passando,
accarezzarne uno, che dieci altri accorrono saltellando, mugolando, dimenando la
coda, e accompagnano il protettore generoso fino in  fondo  alla  strada,  cogli
occhi luccicanti di gioia e di gratitudine. La condizione d'un cane a Pera  e  a
Galata è peggiore, ed è tutto dire, di  quella  d'un  ragno  in  Olanda,  che  è
l'essere più perseguitato di tutto il regno animale. Non si può, vedendoli,  non
credere che ci sia anche per loro un compenso dopo morte. Anch'essi,  come  ogni
altra cosa a Costantinopoli, mi  destavano  una  reminiscenza  storica;  ma  era
un'amara ironia; erano i cani delle caccie famose di Baiazet, che correvano  per
le foreste imperiali dell'Olimpo colle gualdrappine di  porpora  e  coi  collari
imperlati. Quale diversità di condizione sociale! La loro sorte infelice dipende
anche in parte dalla loro bruttezza. Sono  quasi  tutti  cani  della  razza  dei
mastini o dei can lupi, e ritraggono un po' del lupo e della volpe; o  piuttosto
non ritraggono  di  nulla;  sono  orribili  prodotti  d'incrociamenti  fortuiti,
screziati di colori bizzarri, della grandezza dei così detti cani da  macellaio,
e magri che se ne possono contar le costole a venti passi. La maggior parte poi,
oltre alla magrezza, son ridotti dalle  risse  in  uno  stato  che,  se  non  si
vedessero camminare, si piglierebbero per  carcami  di  cani  macellati.  Se  ne
vedono colla coda mozza, colle orecchie monche, col  dorso  spelato,  col  collo
scorticato, orbi d'un occhio, zoppi di  due  gambe,  coperti  di  guidaleschi  e
divorati dalle mosche; ridotti agli ultimi termini a cui si può ridurre un  cane
vivente; veri avanzi della fame, della guerra e della vaga venere. La  coda,  si
può dire che è un membro di lusso: è raro il cane di Costantinopoli che la serbi
intera per più di due mesi di vita pubblica. Povere bestie!  metterebbero  pietà
in un cuore di sasso; eppure si vedono qualche volta potati e rosicchiati in  un
modo così strano, si vedono camminare con certi dondolamenti così svenevoli, con
certi barcollii così grotteschi, che non si possono trattenere le  risa.  E  non
son nè la fame nè la guerra nè le legnate il loro peggiore flagello:  è  un  uso
crudele invalso da qualche tempo a  Galata  e  a  Pera.  Sovente,  di  notte,  i
pacifici peroti sono svegliati nei loro  letti  da  un  baccano  indiavolato;  e
affacciandosi alle finestre, vedon giù nella strada una  ridda  spaventevole  di
cani che spiccano salti altissimi, e fanno rivoltoloni furiosi e battono  capate
tremende nei muri; e la mattina all'alba la strada è coperta di cadaveri.  È  il
dottorino o lo speziale del quartiere, che avendo  l'abitudine  di  studiare  la
notte, e non volendo  esser  disturbati  dalla  canea,  si  sono  procurati  una
settimana di silenzio con una distribuzione di polpette. Queste ed altre cagioni
fanno sì che il numero dei cani diminuisca continuamente a Pera e a Galata; ma a
che pro? Intanto a Stambul crescono e si moltiplicano, sin che non trovando  più
alimento nella città turca, migrano a poco a poco all'altra  riva,  e  riempiono
nella famiglia sterminata tutti  i  vuoti  che  v'han  fatto  le  battaglie,  la
carestia e il veleno.

* *   *

[Gli eunuchi]

Ma vi sono altri esseri, a Costantinopoli, che fanno più compassione dei cani, e
son gli eunuchi, i quali, come s'introdussero fra i turchi malgrado  i  precetti
formali del Corano che  condannano  questa  infame  degradazione  della  natura,
sussistono ancora, malgrado la legge  recente  che  ne  proibisce  il  traffico,
poichè è più forte della legge la scellerata avidità dell'oro che fa  commettere
il delitto, e l'egoismo spietato che se ne vale. Questi disgraziati s'incontrano
ad ogni passo nelle strade, come s'incontrano, ad ogni passo  nella  storia.  In
fondo a ogni quadro della storia turca, campeggia una di queste figure sinistre,
colle fila d'una congiura nel pugno; coperto d'oro o intriso di sangue, vittima,
o favorito, o carnefice, palesemente od occultamente formidabile, ritto come uno
spettro all'ombra del trono, o affacciato allo spiraglio d'una porta misteriosa.
Così per Costantinopoli, in mezzo alla folla  affaccendata  dei  bazar,  tra  la
moltitudine allegra delle Acque dolci, fra le  colonne  delle  moschee,  accanto
alle carrozze, nei piroscafi, nei caicchi, in tutte le feste, in tutte le folle,
si vede questa larva d'uomo, questa figura dolorosa, che fa  colla  sua  persona
una macchia lugubre su tutti gli aspetti ridenti della vita  orientale.  Scemata
l'onnipotenza  della  corte,  è  scemata  la  loro  importanza  politica,   come
rilassandosi la gelosia orientale, è diminuita la  loro  importanza  nelle  case
private; i vantaggi del loro stato son quindi molto scaduti;  essi  non  trovano
più che assai difficilmente nella ricchezza e nella dominazione un compenso alla
loro  sventura;  non  si  trovano  più  i  Ghaznefer  Agà  che  consentono  alla
mutilazione per diventar capi degli eunuchi bianchi; tutti sono  ora  certamente
vittime, e vittime senza conforti; comprati o rubati bambini, in Abissinia od in
Siria, uno su tre sopravvissuti al coltello infame, e  rivenduti  in  onta  alla
legge, con una ipocrisia di segretezza, più odiosa d'un aperto mercato. Non  c'è
bisogno di farseli indicare, si riconoscono all'aspetto. Son quasi tutti  d'alta
statura,  grassi,  flosci,  col  viso  imberbe  e  avvizzito,  corti  di  busto,
lunghissimi di gambe e di braccia. Portano il fez, un lungo soprabito  scuro,  i
calzoni all'europea e uno staffile di cuoio d'ippopotamo, che  è  l'insegna  del
loro ufficio.  Camminano  a  lunghi  passi,  mollemente,  come  grandi  bambini.
Accompagnano le signore a piedi o a  cavallo,  davanti  e  dietro  le  carrozze,
quando uno, quando due insieme, e rivolgono sempre intorno un occhio  vigilante,
che al menomo sguardo o atto irriverente di chi passa, piglia un'espressione  di
rabbia ferina che mette paura e ribrezzo. Fuor di questi casi, il  loro  viso  o
non dice assolutamente nulla, o non esprime che un tedio infinito  d'ogni  cosa.
Non mi ricordo d'averne visto ridere alcuno. Ce ne sono  dei  giovanissimi,  che
par che abbiano cinquant'anni; dei vecchi, che sembrano adolescenti  invecchiati
in un giorno; dei molto pingui, tondi, molli, lucidi,  che  sembrano  enfiati  o
ingrassati apposta come bestie suine; tutti vestiti  di  panni  fini,  puliti  e
profumati come damerini vanitosi. Ci sono degli uomini senza cuore che  passando
accanto a quei disgraziati li guardano e  ridono.  Costoro  credono  forse  che,
essendo così come sono fin dall'infanzia, non comprendano la loro  sventura.  Si
sa invece che la comprendono e che la sentono; ma se anche non si sapesse,  come
si potrebbe dubitarne? Non appartenere ad alcun sesso, non essere che una mostra
d'uomo; vivere in mezzo agli uomini e vedersene separati da  un  abisso;  sentir
fremere la vita intorno a sè,  come  un  mare,  e  dovervi  rimanere  in  mezzo,
immobili e solitarii come uno scoglio; sentire tutti i propri pensieri e tutti i
sentimenti strozzati da un cerchio di ferro che nessuna virtù  umana  potrà  mai
spezzare; aver perpetuamente dinanzi un'immagine di felicità, a cui tutto tende,
intorno a cui tutto gira, di cui tutto si  colora  e  s'illumina,  e  sentirsene
smisuratamente lontani, nell'oscurità,  in  un  vuoto  immenso  e  freddo,  come
creature maledette da Dio; essere anzi i custodi di quella felicità, la barriera
che l'uomo geloso mette fra i suoi piaceri ed il  mondo,  il  puntello  con  cui
assicura la sua porta, il cencio con cui copre il suo tesoro; e dover vivere tra
i profumi, in mezzo alle seduzioni, alla gioventù, alla  bellezza,  ai  tripudi,
colla vergogna sulla fronte, colla rabbia  nell'anima,  disprezzati,  scherniti,
senza nome, senza famiglia, senza madre, senza un ricordo affettuoso,  segregati
dall'umanità e dalla natura, ah! dev'essere un tormento che la mente  umana  non
può comprendere, come quello di vivere con un  pugnale  confitto  nel  cuore.  E
questa infamia si sopporta ancora, questi sventurati passeggiano per le  vie  di
una città d'Europa, vivono in mezzo agli uomini, e non urlano, non mordono,  non
uccidono, non sputano in viso all'umanità codarda che li guarda senza  arrossire
e senza piangere, e fa delle associazioni internazionali per la  protezione  dei
gatti e dei cani! La loro vita non è che un supplizio continuo. Quando le  donne
non li trovano arrendevoli ai loro intrighi, li odiano come  carcerieri  e  come
spie, e li torturano con una civetteria crudele, sino a farli diventar furiosi o
insensati, come il povero eunuco nero delle Lettere persiane quando metteva  nel
bagno la sua signora. Tutto è sarcasmo per loro: portano dei nomi di  profumi  e
di fiori, per allusione alle donne di  cui  sono  custodi:  sono  possessori  di
giacinti, guardiani di gigli, custodi di rose e di viole. E qualche volta amano,
gli sciagurati! perchè in loro delle passioni sono spenti gli  effetti,  non  le
cause; e son gelosi, e si rodono e piangono lagrime di sangue; e qualche  volta,
quando uno sguardo procace si fissa in volto alla loro donna, e s'accorgono  che
è corrisposto, perdon la ragione e percuotono. Al tempo della guerra  di  Crimea
un eunuco diede una frustata in viso ad un  ufficiale  francese,  e  questi  gli
spaccò il cranio con una sciabolata. Chi può dire che  cosa  soffrano,  come  li
desoli la bellezza, come li strazii un vezzo, come li  trafigga  un  sorriso,  e
quante volte mentre al loro orecchio arriva il suono d'un bacio,  la  loro  mano
afferra il manico del pugnale! Non è meraviglia che nel vuoto immenso  del  loro
cuore non attecchiscano per lo più  che  le  passioni  fredde  dell'odio,  della
vendetta e dell'ambizione; che crescano acri, mordaci,  pettegoli,  pusillanimi,
feroci; che siano o bestialmente devoti  o  astutissimamente  traditori,  e  che
quando sono potenti, cerchino di vendicarsi sull'uomo dell'affronto che fu fatto
in loro alla natura. Ma per quanto siano intristiti, sentono sempre nel cuore il
bisogno prepotente della donna, e poichè non possono averla amante,  la  cercano
amica;  si  ammogliano;  sposano  delle  donne  incinte,   come   Sunbullù,   il
grand'eunuco di Ibraim I, per avere un bambino da amare; si  fanno  un  arem  di
vergini, come il grand'eunuco di Ahmed II, per avere almeno lo spettacolo  della
bellezza e della grazia, l'amplesso affettuoso, un'illusione  d'amore;  adottano
una figliuola per aver un seno di donna su  cui  chinare  la  testa  quando  son
vecchi, per non morire senza sapere che cos'è una carezza, per sentire nei  loro
ultimi anni una voce amorosa dopo  aver  sentito  per  tutta  la  vita  il  riso
dell'ironia e del disprezzo; e non son rari quelli che, arricchiti alla corte  o
nelle grandi case, dove esercitano insieme l'ufficio di  capi  degli  eunuchi  e
d'intendenti, si comprano, vecchi, una bella villetta sul Bosforo, e là  cercano
di dimenticare, di sopire il sentimento della propria  sventura  nell'allegrezza
delle feste e dei conviti. Fra le molte  cose  che  mi  furon  dette  di  questi
infelici, una mi è rimasta viva più di tutte nella  memoria;  ed  è  un  giovane
medico di Pera che me l'ha raccontata. Confutando gli argomenti di chi crede che
gli eunuchi non soffrano: - Una sera, - mi disse, - uscivo dalla casa d'un ricco
musulmano, dov'ero andato a visitare per la terza volta una  delle  sue  quattro
mogli malata di cuore.  All'uscire  come  all'entrare  m'aveva  accompagnato  un
eunuco gridando le solite parole: - donne, ritiratevi! - per avvertir signore  e
schiave che un uomo era nell'arem, e che non dovevano lasciarsi  vedere.  Quando
fui nel cortile, l'eunuco mi lasciò, ed io mi diressi solo verso la  porta.  Nel
punto che stavo per aprire, mi sentii toccare il braccio, e voltandomi, mi  vidi
dinanzi, così tra il chiaro e lo  scuro,  un  altro  eunuco,  un  giovanetto  di
diciotto o vent'anni, di aspetto simpatico, che mi guardava fisso con gli  occhi
umidi di lagrime. Gli domandai che cosa voleva. Titubò un momento a  rispondere,
poi m'afferrò una mano con tutt'e due le mani, e stringendomela  convulsivamente
mi disse con una voce tremante,  in  cui  si  sentiva  un  dolore  disperato:  -
Dottore! Tu che sai un rimedio per tutti i mali, non ne sapresti uno per il mio?
- Io non so dire quello che produssero  in  me  queste  semplici  parole;  volli
rispondere, mi mancò la voce, e non sapendo nè che  fare  nè  che  dire,  apersi
bruscamente la porta e fuggii. Ma per tutta quella sera e per molti giorni dopo,
mi parve di vedere quel giovane e di sentir quelle parole,  e  più  d'una  volta
dovetti far forza a me stesso  per  non  piangere  di  pietà.  -  O  filantropi,
pubblicisti, ministri, ambasciatori, e voi, signori deputati  al  Parlamento  di
Stambul e senatori della mezzaluna, levate un grido,  in  nome  di  Dio,  perchè
questa sanguinosa ignominia, questa orrenda macchia dell'onore  umano,  non  sia
più nel ventesimo secolo che una memoria  dolorosa  come  le  carneficine  della
Bulgaria.

* *  *

[L'esercito]

Benchè sapessi,  prima  d'arrivare  a  Costantinopoli,  che  non  ci  avrei  più
ritrovato traccia dello splendido esercito dei bei tempi antichi,  pure,  appena
arrivato, cercai con vivissima curiosità i soldati, mia perpetua  simpatia.  Ma,
pur troppo, trovai la realtà peggiore dell'aspettazione. In luogo delle  antiche
vestimenta ampie, pittoresche e guerriere, trovai le divise nere e attillate,  i
calzoni rossi, le giacchettine scarse, i galloni  da  usciere,  i  cinturini  da
collegiale, e su tutte le teste, da quella del Sultano  a  quella  del  soldato,
quel deplorabile fez, che oltre ad esser  meschino  e  puerile,  in  specie  sul
cocuzzolo dei musulmani corpulenti, è cagione d'infinite oftalmie ed  emicranie.
L'esercito turco non ha più la bellezza d'un esercito turco, non  ha  ancora  la
bellezza d'un esercito europeo; i soldati mi parvero tristi, svogliati e sudici;
saranno valorosi, ma non son simpatici. E quanto alla loro educazione, mi  basta
questo: che ho visto sergenti e ufficiali soffiarsi il naso colle dita in  mezzo
alla strada; che ho visto un soldato di guardia al ponte,  dove  è  proibito  di
fumare, strappar il sigaro di bocca a un viceconsole; e che  nella  moschea  dei
dervis giranti di via di Pera, un altro soldato, me presente, per far  capire  a
tre signori europei che bisognava levarsi il cappello, li scappellò tutti e  tre
con una manata. E ho saputo che, ad alzar la voce in simili casi,  il  meno  che
possa capitare è d'essere abbracciati come un sacco di cenci e portati  di  peso
nel corpo di guardia. Per  la  qual  cosa,  in  tutto  il  tempo  che  rimasi  a
Costantinopoli, ho sempre dimostrato un profondo rispetto ai soldati. E  d'altra
parte, cessai di meravigliarmi delle loro maniere,  dopo  aver  visto  coi  miei
occhi che cosa è quella gente prima di vestir l'uniforme. Vidi un giorno passare
per una strada di Scutari un centinaio di  reclute  che  venivano  probabilmente
dall'interno dell'Asia Minore. Mi fecero compassione e  ribrezzo.  Mi  parve  di
vedere  quegli  spaventosi  banditi  d'Hassan  il  pazzo,   che   attraversarono
Costantinopoli sulla fine del sedicesimo secolo, per andar  a  morire  sotto  la
mitraglia austriaca nella pianura di Pest. Vedo ancora quelle  faccie  sinistre,
quelle lunghe ciocche di capelli,  quei  corpi  seminudi  e  arabescati,  quegli
ornamenti selvaggi, e sento il tanfo di serraglio di belve che lasciarono  nella
via. Quando giunsero le prime notizie delle stragi di Bulgaria, pensai subito  a
loro. - Debbono essere i miei amici di Scutari, - dissi in cuor mio.  Essi  però
sono l'unica immagine pittoresca che mi sia rimasta de' soldati musulmani. Belli
eserciti di Bajazet, di Solimano e di Maometto, chi vi potesse rivedere  per  un
minuto, dall'alto delle mura di Stambul, schierati sulla pianura di Daud-Pascià!
Ogni volta che passavo dinanzi alla porta trionfale  d'Adrianopoli,  quei  belli
eserciti mi  si  affacciavano  alla  mente  come  una  visione  luminosa,  e  mi
soffermavo a contemplare la  porta,  come  se  di  momento  in  momento  dovesse
apparire il pascià quartier mastro, araldo delle schiere  imperiali.  Il  pascià
quartier mastro, in fatti, camminava alla testa dell'esercito, con due  code  di
cavallo, insegna della sua dignità. Dietro  a  lui,  si  vedeva  di  lontano  un
vivissimo luccichìo. Erano ottomila cucchiai di rame confitti  nei  turbanti  di
ottomila giannizzeri, in  mezzo  ai  quali  ondeggiavano  le  penne  d'airone  e
scintillavano le armature dei colonnelli, seguiti da uno sciame di servi carichi
di armi e di vivande. Dietro  ai  giannizzeri  veniva  un  piccolo  esercito  di
volontarii e di paggi, colle vesti di seta, colle maglie di  ferro,  coi  caschi
luccicanti, accompagnati da una banda di musici; dietro ai paggi, i  cannonieri,
coi cannoni uniti da catene di ferro; e poi un altro piccolo esercito di agà, di
paggi, di ciambellani, di soldati feudatarii, piantati sopra cavalli corazzati e
impennacchiati. E questa non era che l'avanguardia.  Sopra  le  schiere  serrate
sventolavano stendardi di mille colori, ondeggiavano code di cavallo, s'urtavano
lancie, spade, archi, turcassi, archibugi, in mezzo ai quali si vedevano  appena
le faccie annerite dal sole delle guerre di  Candia  e  di  Persia;  e  i  suoni
scordati dei tamburi, dei flauti, delle trombe e delle  timballe,  la  voce  dei
cantanti che accompagnavano i  giannizzeri,  il  tintinnio  delle  armature,  lo
strepito delle catene, le grida  di:  Allà,  si  confondevano  in  un  frastuono
festoso e terribile, che dal campo di Daud-Pascià  si  spandeva  fino  all'altra
riva del Corno d'oro. Oh! pittori e poeti che avete studiato  amorosamente  quel
bel mondo orientale, svanito per sempre, aiutatemi  a  far  uscir  intero  dalle
vecchie mura di Stambul l'esercito favoloso di  Maometto  III.  L'avanguardia  è
passata: un altro sfolgorìo s'avanza. È il Sultano? No,  il  Nume  non  è  forse
ancora uscito dal tempio. Non è che il corteo del vizir favorito. Sono  quaranta
agà vestiti di zibellino, su quaranta cavalli  dalle  gualdrappe  di  velluto  e
dalle redini d'argento, a cui tien dietro una folla di paggi e  di  palafrenieri
pomposi, che conducono a mano altri quaranta corsieri, bardati d'oro, carichi di
scudi, di mazze e di scimitarre. Viene innanzi un altro corteo. Non è ancora  il
Sultano. Sono i membri della  Cancelleria  di  Stato,  i  grandi  dignitari  del
Serraglio, il gran tesoriere, accompagnati da una banda di suonatori  e  da  uno
sciame di volontarii coi berretti purpurei ornati d'ale  d'uccelli,  vestiti  di
pelliccie, di taffettà incarnato, di pelli di leopardo, di kolpak  ungheresi,  e
armati di lunghe lancie fasciate di seta e inghirlandate di fiori. Un'altra onda
di cavalli sfolgoranti esce dalla porta d'Adrianopoli. Non è ancora il  Sultano.
È il corteo del gran vizir. Vien prima una folla d'archibugieri  a  cavallo,  di
furieri e d'agà benemeriti del gran Signore, e poi altri quaranta agà  del  gran
vizir in mezzo a una foresta di mille e duecento lancie di  bambù  impugnate  da
mille e duecento paggi, e altri quaranta paggi del gran vizir vestiti  di  color
ranciato e armati d'archi  e  di  turcassi  ricamati  d'oro,  e  altri  duecento
giovanetti divisi in sei schiere di sei colori,  in  mezzo  ai  quali  cavalcano
governatori e parenti del primo ministro, seguiti da una turba di  palafrenieri,
d'armigeri, d'impiegati, di servi, di paggi,  d'agà  dalle  vesti  dorate  e  di
vessilliferi dalle bandiere di seta; e ultimo il Kiaya,  ministro  dell'interno,
in mezzo a dodici sciaù, esecutori di giustizia, seguiti dalla  banda  del  gran
vizir. Un'altra folla sbocca fuori dalle mura. Non è ancora il  Sultano.  È  una
folla di sciaù, di furieri, d'impiegati, vestiti di assise splendide, che  fanno
corteo ai giureconsulti, ai mollà,  ai  muderrì,  a  cui  tien  dietro  il  gran
cacciatore per le caccie al falcone, all'avoltoio, allo sparviero ed al  nibbio,
seguito da una fila di cavalieri che portano in sella i gatti pardi  ammaestrati
alla caccia, e da una processione di falconieri, di scudieri, di squartatori, di
guardiani  di  furetti,  di  drappelli  di  trombettieri  e  di  mute  di   cani
ingualdrappati e ingioiellati. Un'altra folla compare. Gli spettatori  accalcati
si prostrano: è il Sultano! Non è ancora il Sultano; non è la testa, ma il cuore
dell'esercito; il focolare del coraggio  e  dell'ira  sacra,  l'arca  santa,  il
carroccio dei  musulmani,  intorno  a  cui  s'alzeranno  mucchi  di  cadaveri  e
scorreranno torrenti di sangue, la bandiera verde del Profeta,  l'insegna  delle
insegne, tolta alla moschea del Sultano Ahmed, che sventola in mezzo a una turba
feroce di dervis coperti di pelli d'orso e di leone, in mezzo a  una  corona  di
sceicchi predicatori dall'aspetto ispirato, ravvolti  in  mantelli  di  pelo  di
cammello; fra due schiere d'emiri, discendenti di Maometto, coronati di turbanti
verdi, che levano tutti insieme un clamore minaccioso e sinistro di  evviva,  di
ruggiti, di preghiere, di canti. Esce un'altra ondata d'uomini e di cavalli. Non
è ancora il Sultano. È uno stuolo  di  sciaù  che  brandiscono  i  loro  bastoni
inargentati per far largo al giudice di Costantinopoli e al gran giudice  d'Asia
e d'Europa, i cui turbanti enormi torreggiano al disopra della  folla;  sono  il
vizir favorito e il  vizir  caimacan,  coi  turbanti  stelleggiati  d'argento  e
gallonati d'oro; sono tutti i vizir del divano, dinanzi ai quali  ondeggiano  le
code di cavallo tinte di henné, appese in cima a  lancie  rosse  ed  azzurre;  e
infine i giudici dell'esercito e un codazzo sterminato di servi vestiti di pelli
di leopardo e armati di stocco, e  paggi  e  armigeri  e  vivandieri.  Un  altro
barbaglio di colori e di splendori  annunzia  un  altro  corteo:  è  il  Sultano
finalmente! Non è ancora il Sultano. È il gran vizir,  vestito  d'un  caffettano
purpureo foderato di zibellino; montato sopra un  cavallo  coperto  d'acciaio  e
d'oro, seguito da uno sciame di servi in abito di velluto rosso,  attorniato  da
una folla di alti dignitari e di luogotenenti generali dei  giannizzeri,  fra  i
quali biancheggia il muftì, come un cigno in mezzo a uno  stormo  di  pavoni;  e
dietro a costoro, fra due schiere di lancieri dai giustacuori  dorati,  fra  due
file d'arcieri dai pennacchi a mezzaluna, i palafrenieri sfarzosi del  serraglio
che conducono per mano  una  frotta  di  cavalli  arabi,  turcomanni,  persiani,
caramaniani, dalle selle di velluto, dalle nappine di canutiglia,  dalle  redini
dorate, dalle staffe damaschinate, carichi di scudi  e  d'armi  scintillanti  di
rubini e di smeraldi; e infine due cammelli consacrati, uno dei quali  porta  il
Corano e l'altro una reliquia della Kaaba. Passato il  corteo  del  gran  vizir,
scoppia una musica fragorosa di trombe e di tamburi, gli spettatori fuggono,  il
cannone tuona, uno stuolo di battistrada irrompe fuor della porta  mulinando  le
scimitarre, ed ecco in mezzo a una selva fitta di  lancie,  di  pennacchi  e  di
spade, tra uno sfolgorio abbagliante di  caschi  d'oro  e  d'argento,  sotto  un
nuvolo di stendardi di raso, ecco il Sultano dei  Sultani,  il  re  dei  re,  il
distributore delle corone ai principi del mondo, l'ombra  di  Dio  sulla  terra,
l'imperatore e signore sovrano del mar bianco e del mar nero,  della  Rumelia  e
dell'Anatolia,  della  provincia  di  Sulkadr,  del  Diarbekir,  del  Kurdistan,
dell'Aderbigian, dell'Agiem, dello Sciam, di Haleb, d'Egitto,  della  Mecca,  di
Medina, di Gerusalemme, di tutte le contrade dell'Arabia e dell'Yemen e di tutte
le altre  provincie  conquistate  dai  suoi  gloriosi  predecessori  ed  augusti
antenati o sottomesse alla sua gloriosa maestà dalla sua spada  fiammeggiante  e
trionfatrice. Il corteo solenne e tremendo passa lentamente, aprendo a quando  a
quando un piccolo spiraglio; e allora s'intravvedono i tre  pennacchi  imperlati
del turbante del Dio, il viso  pallido  e  grave  e  il  petto  lampeggiante  di
diamanti; poi il cerchio si richiude, la cavalcata  s'allontana,  le  scimitarre
minacciose s'abbassano, gli spettatori atterriti rialzano la fronte, la  visione
è svanita. Al corteo imperiale tien dietro una folla d'ufficiali  di  corte,  di
cui uno porta sul capo lo sgabello del Sultano, un altro la sciabola,  un  altro
il turbante, un altro il mantello, un quinto la caffettiera d'argento, un  sesto
la caffettiera d'oro; passano altre schiere di paggi; passa il  drappello  degli
eunuchi bianchi, passano trecento ciambellani a cavallo, vestiti  di  caffettani
candidi; passano le cento carrozze dell'arem dalle ruote inargentate, tratte  da
buoi inghirlandati di fiori o da cavalli bardati di velluto, e fiancheggiate  da
una legione d'eunuchi neri; passano trecento  schiere  di  mule  che  portano  i
bagagli e il tesoro della  corte,  passano  mille  cammelli  carichi  di  acqua,
passano mille dromedarii carichi di  viveri;  passa  un  esercito  di  minatori,
d'armaioli e d'operai  di  Stambul,  accompagnati  da  bande  di  buffoni  e  di
giocolieri; e in fine passa il grosso dell'esercito  combattente:  le  orte  dei
giannizzeri, i silidar gialli, gli  azab  porporini,  gli  spahí  dalle  insegne
rosse, i cavalieri stranieri dagli stendardi bianchi,  i  cannoni  che  vomitano
blocchi di marmo e di piombo,  le  milizie  feudatarie  dei  tre  continenti,  i
volontarii selvaggi delle estreme provincie  dell'impero;  nuvoli  di  bandiere,
selve di pennacchi, torrenti  di  turbanti,  valanghe  di  ferro,  che  vanno  a
rovesciarsi sull'Europa come una maledizione di Dio, lasciando dietro di  sè  un
deserto sparso di macerie fumanti e di piramidi di teschi.

* *   *

[L'ozio]

Benchè in qualche ora del giorno Costantinopoli paia molto operosa, in realtà  è
forse la città più pigra dell'Europa. Per questo, turchi e  franchi  si  possono
dare la mano. Si levano tutti il più tardi possibile. Anche d'estate, all'ora in
cui le nostre città son già in movimento da un  capo  all'altro,  Costantinopoli
dorme ancora. Prima che il sole sia alto, è difficile trovare una bottega aperta
e poter bere una tazza di caffè. Alberghi, uffici, bazar,  banche,  tutto  russa
allegramente, e non si scuoterebbe nemmeno col cannone. S'aggiungano  le  feste:
il venerdì dei turchi, il sabato degli ebrei, la domenica dei cristiani, i santi
innumerevoli del calendarii greci ed armeni,  osservati  scrupolosamente;  tutte
feste che, sebbene siano parziali, costringono all'ozio anche  una  parte  della
popolazione che v'è  straniera;  e  s'avrà  un'idea  del  lavoro  che  può  fare
Costantinopoli nel giro di sette giorni. Vi sono degli  uffici  che  non  stanno
aperti più di ventiquattr'ore per settimana. Ogni  giorno  v'è  uno  dei  cinque
popoli della grande città che va a  zonzo  per  le  strade,  in  abito  festivo,
senz'altro pensiero che d'ammazzare  il  tempo.  In  quest'arte  i  turchi  sono
maestri. Son capaci di far durare per una mezza giornata una tazza di  caffè  da
due soldi e di star cinque ore immobili a' piedi d'un cipresso d'un cimitero. Il
loro ozio è veramente l'ozio assoluto, fratello della morte come  il  sonno,  un
riposo profondo di tutte le facoltà, una sospensione di tutte le cure,  un  modo
di esistenza affatto sconosciuto agli europei.  Non  vogliono  nemmeno  aver  il
pensiero di passeggiare. A Stambul non ci sono passeggi fatti  espressamente,  e
se ci fossero, il turco non ci andrebbe, perchè l'andare  apposta  in  un  luogo
determinato per far del movimento, gli parrebbe una specie di lavoro. Egli entra
nel primo cimitero o infila la prima strada che gli  si  presenta,  e  va  senza
proposito dove lo portan le  gambe,  dove  lo  conducono  i  serpeggiamenti  del
sentiero, dove lo trascina la folla. Raramente egli va in un luogo per vedere il
luogo. Vi sono dei turchi di Stambul che non  sono  mai  andati  più  in  là  di
Kassim-pascià, dei signori musulmani che non si sono mai spinti oltre  le  isole
dei Principi dove hanno un amico, e oltre il Bosforo dove hanno una  villa.  Per
loro il colmo della beatitudine consiste nell'inerzia della mente e  del  corpo.
Perciò lasciano ai cristiani irrequieti le grandi industrie che richiedono cure,
passi e viaggi; e si ristringono al commercio minuto, che si  può  esercitar  da
seduti, e quasi più cogli occhi che col pensiero. Il lavoro che fra noi è quello
che  signoreggia  e  regola  tutte  le  altre  occupazioni  della  vita,  là   è
subordinato, come un'occupazione secondaria, a  tutti  i  comodi  e  a  tutti  i
piaceri. Qui, il riposo non è che un'interruzione del lavoro; là il lavoro non è
che una sospensione del riposo. Prima bisogna a  qualunque  costo  dormicchiare,
sognare, fumare, quelle tante ore; e poi, nei ritagli di tempo, far qualche cosa
per procacciarsi la vita. Il tempo, per i turchi, significa tutt'altra  cosa  da
quel che significa per noi. La moneta giorno, mese, anno, per loro non ha che la
centesima parte del valore che ha in Europa.  Il  minor  tempo  che  domandi  un
impiegato d'un ministero turco per dare una qualunque risposta  intorno  al  più
semplice affare, è un paio di settimane. La premura di finire una  cosa  per  il
piacere di finirla, non sanno che cosa sia. Dai  facchini  all'infuori,  non  si
vede mai per le vie di Stambul un turco  affaccendato  che  affretti  il  passo.
Tutti camminano colla stessa cadenza, come se misurassero  tutti  l'andatura  al
suono d'uno stesso tamburo. Per noi la vita è un  torrente  che  precipita;  per
loro è un'acqua che dorme.

* *   *

[La notte]

Costantinopoli è di giorno la città più  splendida  e  di  notte  la  città  più
tenebrosa d'Europa. Pochi fanali,  a  gran  distanza  l'un  dall'altro,  rompono
appena l'oscurità nelle vie principali; le altre son buie come spelonche, e  non
vi è chi ci s'arrischii senza un lume alla mano. Perciò, col cader della  notte,
la città si fa deserta; non si vedono più che guardie notturne, frotte di  cani,
peccatrici furtive, qualche brigata  di  giovanotti  che  sbuca  dalle  birrerie
sotterranee, e lanterne misteriose che appariscono  e  spariscono,  come  fuochi
fatui, qua e là per i vicoli e pei cimiteri. Allora bisogna contemplare  Stambul
dai luoghi alti di Pera e di Galata. Le innumerevoli  finestrine  illuminate,  i
fanali dei bastimenti, i riflessi del Corno d'oro e le stelle, formano sopra  un
orizzonte di quattro miglia un immenso tremolìo di punti  di  foco,  in  cui  si
confondono il porto, la città ed il cielo, e par tutto firmamento. E  quando  il
cielo è nuvoloso e in un piccolo spazio sereno splende la luna, si vedono  sopra
Stambul tutta scura, sopra le macchie  nerissime  dei  boschi  e  dei  giardini,
biancheggiare le moschee imperiali, come una fila di enormi tombe di marmo, e la
città presenta l'immagine della necropoli d'un popolo di giganti. Ma è anche più
bella e più solenne nelle notti senza stelle e senza luna, nell'ora in cui tutti
i lumi son spenti. Allora non si vede che un'immensa macchia nera dal  Capo  del
Serraglio al sobborgo d'Eyub, un profilo smisurato in  cui  le  colline  sembran
montagne, e le punte infinite che le coronano, pigliano apparenze fantastiche di
foreste, di eserciti, di rovine, di castelli, di roccie,  che  fanno  vagare  la
mente nelle regioni dei sogni. In queste notti oscure, è  bello  il  contemplare
Stambul da un'alta terrazza e abbandonarsi alla propria fantasia:  penetrar  col
pensiero in quella grande città tenebrosa, scoperchiare quella miriade  di  arem
rischiarati da una luce languente, veder le belle favorite  che  tripudiano,  le
abbandonate che piangono, gli  eunuchi  frementi  che  tendono  l'orecchio  alle
porticine; seguire gli amanti notturni per  i  labirinti  dei  vicoli  montuosi;
girare per le gallerie silenziose  del  gran  bazar,  passeggiare  per  i  vasti
cimiteri deserti, smarrirsi in mezzo  alle  innumerevoli  colonne  delle  grandi
cisterne sotterranee;  raffigurarsi  d'esser  rimasti  chiusi  nella  gigantesca
moschea di Solimano e di far risonare le navate oscure di grida  di  spavento  e
d'orrore strappandosi i capelli e invocando la misericordia di Dio; e poi tutt'a
un tratto esclamare: - Che baie! Sono sulla terrazza del mio  amico  Santoro,  e
nella sala di sotto m'aspetta una cena da sibarita in compagnia dei più  amabili
capi ameni di Pera.

* *   *

[La vita a Costantinopoli]

In casa del mio buon amico Santoro  si  radunavano  ogni  sera  molti  italiani:
avvocati, artisti, medici, negozianti, coi quali  passai  delle  ore  carissime.
Quella era una conversazione! Se fossi stato stenografo,  avrei  potuto  cavarne
ogni sera un libro amenissimo. Il medico che aveva visitato un arem, il  pittore
ch'era stato sul Bosforo a fare il ritratto a un pascià,  l'avvocato  che  aveva
difeso una causa dinanzi a un tribunale, il caposcarico  che  aveva  stretto  il
nodo d'un amoretto internazionale,  raccontavano  le  loro  avventure,  ed  ogni
racconto era un bozzetto graziosissimo di costumi orientali. Ogni momento se  ne
sentiva una nuova. Arrivava uno: - Sapete  quello  che  è  seguito  stamani?  Il
Sultano ha tirato un calamaio sulla testa al ministro delle finanze. -  Arrivava
un altro: - Avete inteso la notizia? Il governo, dopo tre  mesi,  ha  finalmente
pagato gli stipendi agli impiegati, e Galata è inondata da un torrente di monete
di rame. - Arrivava un terzo, e raccontava che un turco presidente di tribunale,
irritato  delle  cattive  ragioni  colle  quali  un  cattivo  avvocato  francese
difendeva una causa sballata, gli aveva fatto questo bel complimento in presenza
di tutto l'uditorio: - Caro avvocato, è inutile che tu ti affanni tanto per  far
parer buona la tua causa; la... - e aveva pronunziato in tutte lettere la parola
di Cambronne - per quanto la si volti e la si rivolti, è  sempre...  -  e  aveva
pronunziato  un'altra  volta  quella  parola.  La  conversazione,  naturalmente,
spaziava in un campo geografico affatto nuovo per me. Colla stessa frequenza con
cui si parla fra noi di persone e di cose di Parigi, di Vienna, di  Ginevra,  là
si parlava di persone e di  cose  di  Tiflis,  di  Trebisonda,  di  Teheran,  di
Damasco, dove uno aveva un amico, un altro  c'era  stato,  un  terzo  ci  voleva
andare; io mi sentivo nel centro d'un altro mondo, e tutt'intorno mi si aprivano
nuovi orizzonti. E qualche volta pensavo con rammarico al giorno  in  cui  avrei
dovuto rientrare nel cerchio angusto della mia vita ordinaria.  Come  potrò  più
adattarmi - dicevo tra me - a quei soliti discorsi  e  a  quei  soliti  casi?  E
questo è un sentimento che provano tutti gli Europei di Costantinopoli. A chi ha
vissuto quella vita, ogni altra pare che debba riuscire scolorita e uniforme.  È
una vita più leggiera, più facile, più giovanile di quella  d'ogni  altra  città
d'Europa. Quel viver là come accampati in un paese  straniero,  in  mezzo  a  un
succedersi continuo d'avvenimenti strani e imprevedibili, finisce coll'infondere
un certo sentimento della instabilità e della futilità delle cose  mondane,  che
somiglia molto alla fede fatalistica dei musulmani,  e  dà  una  certa  serenità
spensierata d'avventurieri. L'indole di quel popolo  che  vive,  come  disse  un
poeta, in una specie di famigliarità intima colla morte,  considerando  la  vita
come un pellegrinaggio, durante  il  quale  nè  c'è  tempo  nè  mette  conto  di
prefiggersi dei grandi scopi da conseguire con lunghe fatiche, si attacca a poco
a poco anche all'europeo, e lo riduce a  vivere  un  po'  alla  giornata,  senza
frugar troppo dentro sè stesso, e facendo nel mondo, per quanto gli è possibile,
la parte semplice e riposata di spettatore. L'aver che  fare  con  popoli  tanto
diversi, e il dover pensare e parlare un po' a modo di tutti,  dà  allo  spirito
una certa leggerezza che lo fa come sorvolare a molti sentimenti ed idee, a  cui
noi, nei nostri paesi, vorremmo che si conformasse il mondo, e per ottenerlo,  e
del non poterlo  ottenere,  ci  affanniamo.  Oltrechè  la  presenza  del  popolo
musulmano, oggetto continuo di curiosità e di osservazione, è uno spettacolo  di
tutti i giorni, che rallegra e svia la mente da molti pensieri e da molte  cure.
E a questo giova anche la forma della città assai più che non potrebbero fare le
città nostre, nelle  quali  lo  sguardo  e  il  pensiero  è  quasi  sempre  come
imprigionato in una strada o in un circuito angusto; mentre là, ad ogni  tratto,
occhio e mente trovano una scappatoia  per  la  quale  si  slanciano  a  immense
lontananze ridenti. E c'è infine una illimitata libertà di vita, concessa  dalla
grandissima varietà dei costumi: là  tutto  si  può  fare,  nulla  stupisce;  la
notizia della cosa più strana muore  appena  uscita  in  quell'immensa  anarchia
morale; gli europei vivono là come in una confederazione di repubbliche;  vi  si
gode la libertà che si godrebbe in qualunque  città  europea  nel  momento  d'un
grande trambusto; è come un veglione interminabile o un perpetuo martedì grasso.
Per questo, più che per la bellezza, Costantinopoli è una città, che non si  può
abitare un certo  tempo,  senza  ricordarla  poi  con  un  sentimento  quasi  di
nostalgia; per questo gli europei  l'amano  ardentemente  e  vi  mettono  radici
profonde; ed è giusto in questo senso il chiamarla come i turchi  "la  fata  dai
mille amanti" o dire  col  loro  proverbio  che  chi  ha  bevuto  dell'acqua  di
Top-hané, - non c'è più rimedio, - è innamorato per la vita.

* *   *

[Gl'Italiani]

La colonia italiana è una delle più numerose di Costantinopoli; ma non delle più
prospere. Ha pochi ricchi, molti  miserabili,  specialmente  operai  dell'Italia
meridionale  che  non  trovan  lavoro,  ed  è  la  colonia   più   meschinamente
rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata, perchè i suoi
giornali  non  fanno  che  nascere  e  morire.  Quando  c'ero  io,   s'aspettava
l'apparizione del Levantino, ed era uscito intanto  un  numero  di  saggio,  che
annunziava i titoli accademici e i meriti speciali del direttore:  settantasette
in tutto, senza contare  la  modestia.  Bisogna  passeggiare  la  mattina  della
domenica in via di Pera, quando  le  famiglie  italiane  vanno  alla  messa.  Si
sentono parlare tutti i dialetti d'Italia. Io  mi  ci  godevo;  ma  non  sempre.
Qualche volta sentivo quasi  pietà  al  vedere  tanti  miei  concittadini  senza
patria, molti dei quali dovevano esser  stati  sbalestrati  là  chi  sa  da  che
avvenimenti dolorosi o strani; al veder quei vecchi, che forse non avrebbero mai
più riveduta l'Italia; quei bambini, a cui quel nome non doveva risvegliare  che
un'immagine confusa d'un paese caro e  lontano;  quelle  ragazze  di  cui  molte
dovevano forse sposare uomini d'un'altra nazione, e fondar famiglie in  cui  non
sarebbe rimasto altro d'italiano che il nome e le memorie  della  madre.  Vedevo
delle belle genovesine che parevano discese allora dai giardini  dell'Acquasola,
dei bei visetti napoletani, delle  testine  capricciose  che  mi  pareva  d'aver
incontrate cento volte sotto i portici di Po o  sotto  la  Galleria  di  Milano.
Avrei voluto legarle tutte a due a due con un nastrino color di  rosa,  metterle
in un bastimento e ricondurle in Italia  filando  quindici  nodi  all'ora.  Come
curiosità, avrei anche voluto portare in Italia un saggio della lingua  italiana
che si parla a Pera dagl'italiani nati nella colonia; e specialmente  da  quelli
della terza o della quarta  generazione.  Un  accademico  della  Crusca  che  li
sentisse, si metterebbe a  letto  colla  terzana.  La  lingua  che  formerebbero
mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e  un
facchino romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla  in
riva al Corno d'oro. È un italiano già bastardo,  screziato  d'altre  quattro  o
cinque lingue alla loro volta  imbastardite.  E  il  curioso  è  che,  in  mezzo
agl'infiniti barbarismi, si senton dire di tratto in tratto, da coloro che hanno
qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole  illustri,  come  dei  puote,
degli imperocchè, degli a ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di
letture d'Antologia, colle quali molti di quei nostri buoni compatrioti cercano,
nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste. Ma  appetto
agli altri, costoro posson pretendere, come diceva il Cesari, alla fama di buoni
dicitori. Ce n'è di quelli che  non  si  capiscono  quasi  più.  Un  giorno  fui
accompagnato non so dove da un giovanetto italiano di sedici o diciassette anni,
amico d'un mio amico, nato a Pera. Per strada, attaccai discorso. Mi  parve  che
non volesse parlare. Rispondeva a mezza voce, a parole  tronche,  abbassando  la
testa, e facendo il viso rosso: si vedeva che pativa.- Via  che  cos'ha?  -  gli
domandai. - Ho - rispose sospirando - che parlo  tanto  male!  -  Continuando  a
discorrere, in fatti, m'accorsi che balbettava un italiano  bizzarro,  pieno  di
parole contraffatte e incomprensibili, molto somigliante  a  quella  così  detta
lingua franca, la quale, come disse un bell'umore francese, consiste in un certo
numero di vocaboli e di  modi  italiani,  spagnuoli,  francesi,  greci,  che  si
buttano fuori l'un dopo l'altro rapidissimamente, finchè se ne imbrocca uno  che
sia capito dalla persona che ascolta. Questo lavoro, però, occorre raramente  di
farlo a Pera e a Galata, dove un po' d'italiano lo capiscono e lo parlano  quasi
tutti, compresi i  turchi.  Ma  è  lingua,  se  si  può  chiamar  lingua,  quasi
esclusivamente parlata, se si può dir parlata. La lingua più  comunemente  usata
scrivendo è la francese. Letteratura italiana non ce n'è.  Mi  ricordo  soltanto
d'aver trovato un giorno, in un caffè di  Galata  affollato  di  negozianti,  in
fondo a un giornaletto commerciale scritto metà in francese e metà in  italiano,
sotto le notizie della  Borsa,  otto  versetti  malinconici,  che  parlavano  di
zeffiri, di stelle e di sospiri. Oh povero poeta! Mi  parve  di  veder  lui,  in
persona, sepolto sotto un mucchio di mercanzie, che esalasse con quei  versi  il
suo ultimo fiato.

* *   *

[I teatri]

A Costantinopoli, chi è molto forte di stomaco, può passar la sera al teatro,  e
può scegliere tra una canaglia di teatruccoli d'ogni  specie,  molti  dei  quali
sono insieme giardini e birrerie, e in qualcuno si ritrova  sempre  la  commedia
italiana, o piuttosto  una  muta  di  attori  italiani,  i  quali  fanno  spesso
desiderare di veder convertita la platea in un vasto mercato di frutte verdi.  I
turchi,  però,  frequentano  di  preferenza  i  teatri  in  cui  certe  francesi
imbellettate,   scollacciate   e    sfrontate,    cantano    delle    canzonette
coll'accompagnamento d'un'orchestra da galera. Uno di questi teatri  era  allora
l'Alhambra, posto nella gran via di Pera: un lungo stanzone, sempre affollato, e
tutto rosso di fez dal  palco  scenico  alla  porta.  Che  cosa  fossero  quelle
canzonette e con che razza di gesti quelle intrepide signore  s'ingegnassero  di
farne capire ai turchi i significati  riposti,  non  si  può  nè  immaginare  nè
credere. Solo chi è stato al teatro los Capellanes di Madrid,  può  dire  d'aver
sentito e visto qualchecosa di simile. Agli scherzi più procaci,  ai  gesti  più
impudenti, tutti quei turconi, seduti in lunghe  file,  prorompevano  in  grasse
risa; e cadendo allora dalle loro faccie la maschera della dignità abituale,  vi
appariva tutto il fondo della loro natura e tutti  i  segreti  della  loro  vita
grossolanamente  sensuale.  Eppure  non  v'è  nulla  che   il   turco   nasconda
abitualmente così bene come la sensualità della sua natura e della sua vita. Per
le strade, l'uomo non s'accompagna mai alla  donna;  raramente  la  guarda;  più
raramente ne parla; ritiene quasi come un'offesa  che  gli  si  domandi  notizia
delle sue mogli; a giudicar dalle apparenze, si direbbe che quel popolo è il più
casto e il più austero della terra. Ma sono mere apparenze. Quello stesso  turco
che arrossisce fino alle orecchie se gli si domanda come sta la sua sposa, manda
i suoi bimbi e le sue bimbe a sentire le turpissime oscenità di  Caragheus,  che
corrompe la loro fantasia prima che si sian svegliati  i  loro  sensi;  ed  egli
stesso dimentica sovente le dolcezze dell'arem per le  voluttà  nefande  di  cui
diede il primo esempio famoso Baiazet la folgore, e non l'ultimo, probabilmente,
Mahmut il riformatore. E quando non ci fosse altro, basterebbe quel Caragheus  a
dare nello stesso tempo un'immagine e una prova della profonda corruzione che si
nasconde sotto il velo dell'austerità musulmana. È una  figurina  grottesca  che
rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d'ombra  chinese,
che muove le braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi
sempre da protagonista in certe commediole strampalatamente buffonesche, di  cui
il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egli è un quissimile, ma depravato,
di Pulcinella: sciocco, furbo e cinico, lussurioso come un satiro, sboccato come
una baldracca, e fa ridere, anzi urlare d'entusiasmo l'uditorio con  ogni  sorta
di lazzi, di bisticci e di gesticolamenti stravaganti,  che  sono  o  nascondono
ordinariamente un'oscenità. E di che natura  siano  queste  oscenità,  è  facile
immaginarlo  quando  si  sappia  che  se  Caragheus  nello  spirito  somiglia  a
Pulcinella, nel corpo somiglia a Priapo; della quale somiglianza, prima  che  la
censura restringesse d'alquanto la sua  libertà  sconfinata,  egli  dava  tratto
tratto la prova visibile alla platea, e spesso tutta la  commedia  girava  sopra
questo nobilissimo perno.

* *   *

[La cucina]

Volendo fare un po' di studio anche della cucina turca,  mi  feci  condurre  dai
miei buoni amici di Pera in una trattoria ad hoc, dove si trova qualunque piatto
orientale, dalle più squisite ghiottornie  del  Serraglio  fino  alla  carne  di
cammello acconciata all'araba e alla carne di cavallo condita  alla  turcomanna.
L'amico Santoro ordinò  un  desinare  rigorosamente  turco  dall'antipasto  alle
frutta, ed io, incoraggiandomi col pensiero dei molti uomini egregi morti per la
scienza, mandai giù un po' di tutto senza emettere un grido. Ci  furono  serviti
più d'una ventina di piatti. I Turchi, come gli altri popoli orientali, sono  un
po' in questo come i ragazzi: al  satollarsi  di  poche  cose,  preferiscono  il
beccare un tantino di moltissime; pastori d'ieri l'altro, poichè  son  diventati
cittadini, pare che disdegnino la semplicità del mangiare come  una  pitoccheria
da villani. Non potrei rendere un conto esatto di tutte le  pietanze  poichè  di
molte non m'è rimasta che una vaga reminiscenza sinistra. Ricordo il Rebab,  che
è composto di piccolissimi pezzetti di montone arrostiti a fuoco  vivo,  conditi
con molto pepe e molto garofano, e serviti  su  due  biscotti  molli  e  grassi:
piatto indicabile per i reati leggieri. Risento ancora qualche volta  il  sapore
del pilav, composto di riso e di montone, ch'è  il  sine  qua  non  di  tutti  i
desinari, e per così dire il piatto sacramentale dei turchi, come  i  maccheroni
per i napoletani, il cuscussù per gli arabi e  il  puchero  per  gli  Spagnuoli.
Ricordo, ed è la sola cosa che ricordi con desiderio, il Rosh'ab,  che  si  beve
col cucchiaio in fin di tavola:  fatto  d'uva  secca,  di  pomi,  di  prune,  di
ciliegie e d'altre frutta, cotte nell'acqua con molto zucchero, e aggraziate con
essenza di muschio o con acqua di rosa e  di  cedro.  C'erano  poi  molti  altri
piattini di carne d'agnello e di montone, ridotta in bricioli  e  bollita  tanto
che non aveva quasi più sapore; dei pesci natanti nell'olio, delle  pallottoline
di riso ravvolte in foglie di vite, della  zucca  giulebbata,  delle  insalatine
impastate, delle composte, delle conserve, degl'intingoli conditi con ogni sorta
di erbe aromatiche, da poterne notar uno in coda ad  ogni  articolo  del  codice
penale, per i delinquenti recidivi. Infine un gran piatto di  dolci,  capolavoro
di qualche pasticciere arabo, fra cui v'era un piccolo  piroscafo,  un  leoncino
chimerico e una casettina di zucchero colle sue finestrine ingraticolate.  Tutto
sommato, mi parve d'essermi vuotata in corpo una farmacia  portatile,  e  d'aver
veduto uno di quei desinaretti che preparano per spasso i ragazzi, coprendo  una
tavola di piattini pieni di mattone trito, d'erba pesta e di frutti spiaccicati,
che facciano un  bel  vedere  di  lontano.  Tutti  quei  piatti  vengon  serviti
rapidamente a quattro o cinque alla volta, e i turchi vi pescano colle dita, non
essendo in uso fra loro altro che il coltello e il cucchiaio; e serve per  tutti
una sola coppa, nella quale un servitore versa continuamente acqua concia.  Così
non facevano però i turchi che desinavano vicino a  noi  nella  trattoria.  Eran
turchi amanti dei proprii comodi, tanto è vero che tenevano le  babbuccie  sulla
tavola;  avevano  ciascuno  il  loro  piatto,  si  servivano  bravamente   della
forchetta, e trincavano liquore a tutto spiano, in barba a Maometto. Osservai di
più che non baciarono il  pane,  da  buoni  musulmani,  prima  di  cominciare  a
mangiare, e  che  non  si  peritavano  a  slanciare  tratto  tratto  un'occhiata
concupiscente alle nostre bottiglie, quantunque, giusta le sentenze  dei  muftì,
sia peccato anche il fissar gli occhi sopra una bottiglia  di  vino.  Del  resto
questo "padre delle abbominazioni", del quale basta una goccia a far cadere  sul
capo del musulmano "gli anatemi di tutti gli angioli del cielo e della terra" va
di giorno in giorno guadagnando devoti fra i turchi, e ormai si può dire  che  è
un resto di rispetto umano quello che li trattiene  dal  rendergli  un  pubblico
omaggio; e  io  credo  che  se  un  giorno  scendesse  tutt'a  un  tratto  sopra
Costantinopoli una tenebra fitta, e dopo un'ora tornasse  a  splendere  il  sole
improvvisamente, si sorprenderebbero cinquantamila turchi colla  bottiglia  alla
bocca. E anche in questo, come in molti altri traviamenti degli Osmanli,  furono
la pietra dello scandalo i Sultani; ed è curioso che  sia  appunto  la  dinastia
regnante sopra un popolo per il quale è un'offesa a Dio il  bever  vino,  quella
che forse, fra tutte le dinastie d'Europa, ha dato da registrare alla storia  un
maggior numero d'ubbriaconi: tanto è parso dolce il frutto proibito  anche  alle
ombre di Dio sulla terra. Fu, si dice, Baiazet I  quello  che  iniziò  la  serie
interminabile delle cotte imperiali, e come nel peccato originale, fu  anche  in
questo prima colpevole la donna: la moglie dello stesso Baiazet, figlia  del  re
dei Serbi, che offerse al marito il primo bicchiere di  Tokai.  Poi  Baiazet  II
s'ubbriacò di vin di Cipro e di vin di Schiraz. Poi quel  medesimo  Solimano  I,
che fece bruciare nel porto di Costantinopoli tutti i bastimenti carichi di vino
e versar piombo liquefatto in bocca ai  bevitori,  morì  brillo  per  mano  d'un
arciere. Poi venne Selim II, soprannominato  il  messth,  l'ubbriaco,  il  quale
pigliava delle  bertucce  che  duravan  tre  giorni,  e  durante  il  suo  regno
trincarono pubblicamente uomini di legge e uomini di religione. Invano  Maometto
III tuona contro "l'abbominazione suggerita dal  demonio";  invano  Ahmed  I  fa
distruggere tutte le taverne e sfondare tutti i tini di Stambul; invano Murad IV
gira per la città accompagnato dal carnefice, e fa cader la testa di chi  ha  il
fiato vinoso. Egli stesso, l'ipocrita feroce, barcolla per le sale del serraglio
come un bettolante plebeo; e  dopo  di  lui  la  bottiglia,  piccolo  e  festoso
folletto nero, irrompe nei serragli, si caccia  nelle  botteghe  dei  bazar,  si
nasconde sotto il capezzale dei  soldati,  ficca  la  sua  testa  inargentata  o
purpurea sotto il divano delle belle, e violata la soglia delle moschee, spruzza
le sue spume sacrileghe sulle pagine ingiallite del Corano.

* *   *

[Maometto]

A proposito di  religione,  io  non  potevo,  passeggiando  per  Costantinopoli,
levarmi dalla testa questo pensiero: se non si sentisse  la  voce  dei  muezzin,
come s'accorgerebbe un cristiano che la religione di questo popolo non è la sua?
L'architettura bizantina delle moschee può farle parere  chiese  cristiane;  del
rito islamitico non si vede alcun segno esteriore; i soldati turchi scortano  il
viatico; un  cristiano  ignorante  potrebbe  vivere  un  anno  a  Costantinopoli
senz'accorgersi che sulla maggior parte della popolazione regna Maometto  invece
di Cristo. E questo pensiero  mi  riconduceva  sempre  a  quello  delle  piccole
differenze sostanziali, del filo d'erba, come dicevano gli abissini cristiani ai
primi seguaci di Maometto, che divide le due religioni; e alla piccola causa per
la quale avvenne che  l'Arabia  si  convertisse  all'islamismo,  invece  che  al
cristianesimo, o se non al  cristianesimo  a  una  religione  così  strettamente
affine ad esso, che, o confondendosi con esso posteriormente od anche  rimanendo
tal quale, avrebbe mutate affatto le sorti del mondo orientale. E quella piccola
causa fu la natura voluttuosa d'un bel giovane arabo, alto, bianco, dagli  occhi
neri, dalla voce grave, dall'anima ardente, il quale, non  avendo  la  forza  di
dominare i propri sensi, invece di recidere alle radici il vizio  dominante  del
suo popolo, si contentò di potarlo; invece di proclamare l'unità coniugale  come
proclamò l'unità di Dio, non fece che  stringere  in  un  cerchio  più  angusto,
consacrato dalla religione, la dissolutezza e l'egoismo dell'uomo. Certo ch'egli
avrebbe avuto a vincere una resistenza più forte; ma non può parere  impossibile
che la vincesse, chi atterrò, per fondare il culto d'un Dio unico fra un  popolo
idolatra, un edifizio enorme di  tradizioni,  di  superstizioni,  di  privilegi,
d'interessi d'ogni natura, strettissimamente intrecciati da secoli, e  chi  fece
accettare fra i dogmi della sua religione,  per  cui  morirono  poi  milioni  di
credenti, un paradiso, il cui primo annunzio destò in tutto  il  suo  popolo  un
sentimento d'indignazione e di scherno. Ma il bel giovane  arabo  patteggiò  coi
suoi sensi e mezza la terra mutò faccia, poichè fu  veramente  la  poligamia  il
vizio capitale della sua legislazione, e la cagione  prima  della  decadenza  di
tutti i popoli che abbracciarono la sua fede. Senza questa degradazione  dell'un
sesso a favore dell'altro, senza la sanzione di questa enorme  ingiustizia,  che
turba tutto quanto l'ordine dei doveri umani, che  corrompe  la  ricchezza,  che
opprime la povertà, che fomenta l'ignavia, che snerva la famiglia, che generando
la confusione dei diritti di  nascita  nelle  dinastie  regnanti,  sconvolge  le
reggie e gli  Stati,  che  s'oppone,  infine,  come  una  barriera  insuperabile
all'unione della società musulmana  colle  società  d'altra  fede  che  popolano
l'oriente; se, per tornare alla prima cagione, il bel giovane arabo avesse avuto
la disgrazia di nascere un po' meno robusto o la forza  di  vivere  un  po'  più
casto, chi sa! forse ci sarebbe ora un Oriente ordinato e civile, e sarebbe  più
innanzi d'un secolo la civiltà universale.

* *   *

[Il Ramazan]

Trovandomi a Costantinopoli nel mese di Ramazan, che è il  nono  mese  dell'anno
turco, nel quale cade la quaresima musulmana, vidi ogni sera  una  scena  comica
che merita d'essere descritta. Durante tutta la quaresima è proibito  ai  turchi
di mangiare, di bere e di fumare dal levar del sole  al  tramonto.  Quasi  tutti
gozzovigliano poi tutta la notte; ma fin che c'è il sole, rispettano quasi tutti
il precetto religioso, e nessuno  ardisce  di  trasgredirlo  pubblicamente.  Una
mattina il mio amico ed io andammo a visitare un nostro conoscente, aiutante  di
campo del Sultano, un giovane ufficiale spregiudicato,  e  lo  trovammo  in  una
stanza a terreno del palazzo imperiale, con una tazza di caffè fra le mani. Come
mai - gli domandò Yunk - osate prendere il caffè  dopo  il  levar  del  sole?  -
L'ufficiale scrollò le spalle e rispose che se  ne  rideva  del  Ramazan  e  del
digiuno; ma proprio in quel punto s'aperse improvvisamente una  porta,  ed  egli
fece un movimento così rapido per nasconder la tazza, che se la versò mezza  sui
piedi. Si capisce da questo che rigorosa astinenza debbano serbare tutti  coloro
che stanno tutto il giorno  sotto  gli  occhi  della  gente:  i  barcaiuoli  per
esempio. Per godersela, bisogna andarli a vedere dal ponte della Sultana Validè,
qualche minuto prima che si nasconda il sole. Tra quei che stan fermi e quei che
vogano, tra vicini e lontani, se ne vede  intorno  a  un  migliaio.  Sono  tutti
digiuni dall'alba, arrabbiano dalla fame, han già la  loro  cenetta  pronta  nel
caicco, girano continuamente gli occhi dal sole alla cena e dalla cena al  sole,
s'agitano  e  sbuffano  come  le  fiere  d'un  serraglio   nel   momento   della
distribuzione delle carni. Il nascondersi del sole è annunziato da un  colpo  di
cannone. Non c'è caso che prima di quel momento sospirato nessuno  si  metta  in
bocca nè un briciolo di pane nè una goccia d'acqua. Qualche volta, in un  angolo
del Corno d'oro, abbiamo stimolato a mangiare i barcaiuoli che  ci  conducevano;
ma ci hanno sempre risposto: - Jok! Jok! Jok! - No, no, no -, accennando il sole
con un atto timoroso. Quando il sole è nascosto per  più  della  metà  dietro  i
monti, cominciano a prendere in mano i loro pani, e  a  palparli  e  a  fiutarli
voluttuosamente. Quando non si vede più che un  sottile  arco  luminoso,  allora
tutti quei che son fermi e tutti quei che remano,  quelli  che  attraversano  il
Corno d'oro, quelli che guizzano sul Bosforo,  quelli  che  vogano  nel  Mar  di
Marmara, quelli che riposano nei seni più solitarii della riva  asiatica,  tutti
si voltano verso occidente, e stanno immobili  collo  sguardo  nel  sole,  colla
bocca aperta, col pane in aria, colla gioia negli occhi. Quando non si vede  più
che un punto di foco, già i mille pani toccano le mille  bocche.  Finalmente  il
punto di foco si spegne, il cannone tuona, e nello stesso momento  trentaduemila
denti staccano dai mille pani mille enormi bocconi; ma che dico mille! in  tutte
le case, in tutti i caffè, in tutte le taverne, accade  nel  medesimo  punto  la
medesima cosa; e per qualche minuto, la città turca non è più che un  mostro  di
centomila bocche che tracanna e divora.

* *   *

[Costantinopoli antica]

Ma che cosa doveva essere quella città nei bei tempi della gloria  ottomana!  Io
non potevo levarmi dalla testa questo pensiero. Allora, dal Bosforo tutto bianco
di vele, non s'alzava un nuvolo di fumo nero a macchiar l'azzurro  del  cielo  e
delle acque. Nel porto e nei seni del Mar di Marmara, fra  le  vecchie  navi  da
guerra, dalle alte poppe scolpite, dalle mezzelune d'argento, dagli stendardi di
porpora, dai fanali d'oro, galleggiavano carcasse fracassate e  insanguinate  di
galere genovesi, veneziane e spagnuole. Sul Corno d'oro non  v'erano  ponti:  da
una sponda all'altra guizzava perpetuamente una miriade di barchette pompose, in
mezzo alle quali spiccavano di lontano le  lancie  bianchissime  del  serraglio,
coperte di baldacchini scarlatti dalle frangie dorate, e  condotte  da  rematori
vestiti di seta. Scutari era ancora  un  villaggio;  di  là  da  Galata  non  si
vedevano che case sparpagliate per la campagna;  nessun  grande  palazzo  alzava
ancora la testa sopra la  collina  di  Pera;  l'aspetto  della  città  era  meno
grandioso che non è ora; ma  era  più  schiettamente  orientale.  La  legge  che
prescriveva i colori  essendo  ancora  in  vigore,  dai  colori  delle  case  si
riconosceva la religione degli abitanti:  Stambul  era  tutta  gialla  e  rossa,
fuorchè gli edifizi pubblici e sacri ch'erano bianchi come la neve; i  quartieri
armeni erano cinerini chiari, i quartieri greci cinerini  carichi,  i  quartieri
ebrei pavonazzi. Era universale, come in Olanda, la  passione  dei  fiori,  e  i
giardini parevan grandi mazzi di giacinti, di tulipani e di rose. La vegetazione
rigogliosa delle colline non  essendo  ancora  atterrata  dai  nuovi  sobborghi,
Costantinopoli presentava l'immagine d'una città nascosta in una foresta. Dentro
non c'eran che viuzze; ma le abbelliva una folla  meravigliosamente  pittoresca.
Non si vedevano che turbanti  enormi,  che  davano  alla  popolazione  mascolina
un'apparenza colossale e magnifica. Tutte  le  donne,  fuor  che  la  madre  del
sultano, essendo rigorosamente velate, e in modo da non lasciar vedere  che  gli
occhi, formavano una popolazione a parte, anonima ed  enimmatica,  che  spandeva
per tutta la città un'aura di mistero gentile. Una legge severa determinando  il
vestiario di tutti, si distinguevano dalle forme dei turbanti e dai  colori  dei
caffettani i ceti, i gradi, gli uffici, le età,  come  se  Costantinopoli  fosse
un'immensa corte. Il cavallo essendo ancora quasi "il solo  cocchio  dell'uomo",
giravano per le vie migliaia di cavalieri, e le lunghe file dei cammelli  e  dei
dromedarii dell'esercito che attraversavano la città in tutte  le  direzioni  le
davano l'aspetto selvaggio e grandioso d'un'antica metropoli asiatica. Le  arabà
dorate, tratte dai buoi, s'incrociavano colle carrozze rivestite di panno  verde
degli ulemi, con quelle rivestite di panno rosso dei Kadì-aschieri, colle talike
leggerissime dalle tendine di raso, colle bussole ornate di pitture fantastiche.
Schiavi di tutti i paesi, dalla Polonia all'Etiopia, passavano a frotte, facendo
risuonare le loro catene ribadite sui campi di battaglia. Sui  crocicchi,  nelle
piazze, nei cortili delle moschee, si vedevano  gruppi  di  soldati  vestiti  di
cenci gloriosi, che mostravano le braccia monche e le  cicatrici  ancor  fresche
delle ferite toccate a Vienna, a Belgrado,  a  Rodi,  a  Damasco.  Centinaia  di
rapsodi dalla voce tonante e dal gesto ispirato raccontavano, in mezzo a crocchi
di musulmani superbi, le gesta degli eserciti che combattevano  a  tre  mesi  di
marcia da Stambul. I  pascià,  i  bey,  gli  agà,  i  musselim,  un'infinità  di
dignitari e di gran signori, vestiti con uno sfarzo  teatrale,  accompagnati  da
frotte di servi, fendevano la folla che si curvava al loro  passaggio  come  una
messe sotto  il  soffio  del  vento;  passavano,  con  un  corteo  da  principi,
ambasciatori di tutti gli Stati d'Europa, venuti  a  chieder  pace  o  alleanza;
sfilavano carovane cariche di doni  di  re  affricani  ed  asiatici;  sciami  di
silidar e di spahì fastosi e insolenti, trascinavano per  le  vie  i  sciaboloni
macchiati del sangue di venti popoli, e i  bei  paggi  greci  ed  ungheresi  del
serraglio, vestiti come piccoli re, passeggiavano alteramente fra la moltitudine
ossequiosa, che rispettava in loro i capricci snaturati del suo Signore.  Qua  e
là, dinanzi alle porte, si vedeva un trofeo di bastoni nodosi: era un  corpo  di
guardia di Giannizzeri, che allora esercitavano la  polizia  nell'interno  della
città. S'incontravano degli  ebrei  che  portavano  nel  Bosforo  il  corpo  dei
giustiziati; si trovava ogni mattina nel Balik-bazar qualche cadavere disteso in
terra, con la testa sotto l'ascella destra, la sentenza sul petto e  una  pietra
sulla sentenza; si vedevano per le vie nobili impiccati al primo gancio  o  alla
prima trave che avevan trovata i carnefici frettolosi; s'inciampava di notte  in
qualche disgraziato buttato in mezzo alla strada da una stanza di  tortura  dove
gli avevano spezzato i piedi e le mani con una mazza; si vedevano sotto il  sole
di mezzogiorno dei mercanti colti in frode inchiodati per un orecchio  all'uscio
della loro bottega. E non c'essendo ancora la legge che restrinse poi la libertà
sconfinata delle sepolture, si vedevano scavar fosse e sotterrar morti, ad  ogni
ora del giorno, nei giardini, nei vicoli, nelle piazze, dinanzi alle porte delle
case. Si sentivano nei cortili gli urli dei montoni e degli agnelli scannati  in
olocausto ad Allà per le nascite e per  le  circoncisioni.  A  quando  a  quando
passava di galoppo un drappello d'eunuchi gridando  e  minacciando,  le  vie  si
facevano deserte, le porte si chiudevano, le finestre si coprivano,  un  intiero
quartiere pareva morto: e allora passavano in una fila di carrozze luccicanti le
belle del Gran Signore, che empievano l'aria di profumi e di risa. Qualche volta
un personaggio della corte,  attraversando  una  strada  affollata,  impallidiva
improvvisamente alla vista di sei popolani di meschina apparenza  che  entravano
in una bottega: quei sei popolani erano  il  sultano,  quattro  ufficiali  e  un
carnefice, che giravano di bottega in bottega per verificare i pesi e le misure.
In tutto quanto il corpo enorme di Costantinopoli ribolliva una vita pletorica e
febbrile. Il tesoro riboccava di gemme, gli arsenali,  d'armi,  le  caserme,  di
soldati, i caravanserai, di viaggiatori; il mercato di schiavi era un  formicaio
di belle, di mercantesse e di gran signori; i  dotti  s'affollavano  nei  grandi
archivii delle moschee; i vizir dalla lunga lena  preparavano  alle  generazioni
future gli annali sterminati dell'impero; i poeti, pensionati dal serraglio,  si
raccoglievano nei bagni a  cantare  le  guerre  e  gli  amori  imperiali;  turbe
d'operai bulgari ed armeni lavoravano ad innalzar moschee con blocchi di granito
d'Egitto e di marmo di Paros, mentre per mare arrivavano le colonne  dei  tempii
dell'Arcipelago e per terra le spoglie delle chiese di Pest e di Ofen; nel porto
si allestivano le flotte di trecento vele che dovevano  portare  il  terrore  su
tutte le  rive  del  Mediterraneo;  fra  Stambul  e  Adrianopoli  si  spandevano
cavalcate di settemila falconieri e di settemila guardacaccia, e negl'intervalli
delle rivolte soldatesche, delle guerre lontane, degli incendi che riducevano in
cenere ventimila case in una  notte,  si  celebravano  feste  di  trenta  giorni
dinanzi ai  plenipotenziarii  di  tutti  gli  stati  dell'Affrica,  dell'Asia  e
dell'Europa. Allora l'entusiasmo musulmano diventava  follia.  Al  cospetto  del
Sultano e della corte, in mezzo a  quelle  smisurate  palme  di  nozze,  cariche
d'uccelli, di frutti e di specchi, per dar passo alle quali  si  atterravano  le
case e le mura; in mezzo a file di leoni e di sirene  di  zucchero,  portati  da
cavalli ingualdrappati di damasco argentato; in mezzo  a  monti  di  doni  reali
recati da tutte le  parti  dell'Impero  e  da  tutte  le  corti  del  mondo,  si
alternavano le finte battaglie dei giannizzeri, i balli furiosi dei  dervis,  le
mischie sanguinose dei prigionieri cristiani, i banchetti popolari di  diecimila
piatti di cuscussù; nell'Ippodromo danzavano  gli  elefanti  e  le  giraffe;  si
sguinzagliavano tra la folla gli orsi e le  volpi  coi  razzi  alla  coda;  alle
pantomime allegoriche succedevano le danze lascive, le mascherate grottesche, le
processioni fantastiche, le corse, i carri simbolici, i giochi, le commedie,  le
ridde; la festa degenerava a poco a poco, col calar della notte, in  un  tumulto
forsennato, e cinquecento moschee scintillanti di lumi formavano sopra la  città
un'immensa aureola di foco che annunziava ai pastori delle montagne dell'Asia  e
ai naviganti della Propontide, le orgie della nuova Babilonia. Così era Stambul,
la sultana formidabile, voluttuosa e  sfrenata;  appetto  alla  quale  la  città
d'oggi non è più che una vecchia regina malata d'ipocondria.

* *   *

[Gli Armeni]

Occupato quasi sempre dei turchi, non ebbi il tempo, come ognuno può capire,  di
studiare  molto  le  tre  nazioni,  armena,  greca  ed  ebrea,  che  formano  la
popolazione dei rajà; studio, d'altra parte, assai lungo, poichè  se  ognuno  di
quei popoli ha conservato dal più al meno la natura propria, la  vita  esteriore
di tutti e tre ha preso come una velatura di colore musulmano, la quale  va  ora
perdendosi alla sua volta sotto la tinta della civiltà europea: onde  presentano
tutti e tre la difficoltà d'osservazione che presenterebbe un  quadro  mobile  e
cangiante. Gli armeni, in special modo, "cristiani  di  spirito  e  di  fede,  e
musulmani asiatici di nascita  e  di  carne",  non  sono  soltanto  difficili  a
studiare intimamente, ma anche a distinguere a occhio dai turchi, poichè  quella
parte di loro che non ha ancora preso  il  vestiario  europeo,  è  vestita  alla
turca, salvo piccolissime differenze; e  non  usa  quasi  più  affatto  l'antico
berrettone di feltro, che era, con certi colori speciali,  il  segno  distintivo
della nazione. E non differiscono molto dai turchi anche nell'aspetto. Sono  per
lo più alti di statura, robusti, corpulenti, di carnagione chiara, d'andatura  e
di modi gravi, e mostrano nel viso le due qualità proprie della loro natura:  lo
spirito aperto, alacre, industrioso, pertinace, per cui  sono  meravigliosamente
atti al commercio, e quella placidità, che  altri  vuol  chiamare  pieghevolezza
servile, con cui riuscirono a farsi un covo per tutto, dall'Ungheria alla China,
e a rendersi accetti particolarmente ai turchi,  dei  quali  si  cattivarono  la
fiducia, sudditi docili e amici ossequenti. Non hanno nè fuori nè  dentro  nulla
di bellicoso e d'eroico.  Tali,  forse,  non  erano  anticamente  nella  regione
asiatica da cui vennero, e si dice infatti che siano  tuttora  assai  diversi  i
loro fratelli che l'abitano; ma quei che furon trapiantati di qua  dal  Bosforo,
sono veramente un popolo mansueto e prudente, modesto nella vita, non inteso  ad
altro che ai suoi traffici, e più sinceramente religioso, si dice, d'ogni  altro
popolo di Costantinopoli. I turchi  li  chiamano  i  cammelli  dell'impero  e  i
franchi dicono che ogni armeno nasce calcolatore; questi due motti sono in  gran
parte giustificati dal fatto, poichè in grazia appunto della loro forza fisica e
della loro intelligenza agile ed acuta, oltre a  un  buon  numero  d'architetti,
d'ingegneri, di medici, d'artefici  ingegnosi  e  pazienti,  essi  forniscono  a
Costantinopoli la maggior parte dei  facchini  e  dei  banchieri:  facchini  che
portan pesi e banchieri che ammassano tesori favolosi. A  primo  aspetto,  però,
nessuno s'accorgerebbe che v'è un  popolo  armeno  a  Costantinopoli,  tanto  la
pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio.  Le  donne  stesse,  per
cagione delle quali la casa armena è chiusa  allo  straniero  quasi  altrettanto
severamente che la musulmana, vestono alla turca, e non c'è che un occhio  molto
esperto che le possa riconoscere in mezzo  alle  loro  concittadine  maomettane.
Sono anch'esse per lo più bianche e grassotte, ed hanno la  linea  aquilina  del
profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d'alta statura e di forme
matronali, che coronate d'un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi;  e  quasi
tutte d'aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è
la luce dell'anima che brilla sul volto della donna greca.

* *   *

[I Greci]

Quanto  è  difficile  riconoscere  a  occhio  l'armeno,  altrettanto  è   facile
riconoscere il greco, anche non badando al vestire;  tanto  egli  è  diverso  di
natura e d'aspetto dagli altri sudditi dell'Impero, e principalmente dal  turco.
Per rendersi ragione di questa diversità, o piuttosto di questo contrasto, basta
osservare un turco ed un greco, che si trovino seduti l'uno accanto all'altro in
un caffè o in un piroscafo. Hanno un bell'essere press'a poco della stessa età e
dello stesso ceto, e vestiti tutt'e due all'europea,  ed  anche  somiglianti  di
viso; non è possibile sbagliare. Il turco è immobile, e tutti i suoi  lineamenti
riposano in una specie di quiete senza pensiero,  che  somiglia  a  quella  d'un
animale satollo; o se il suo viso rivela un pensiero, pare che debba  essere  un
pensiero  immobile  come  il  suo  corpo.  Non  guarda  nessuno,  non  dà  segno
d'accorgersi  d'esser  guardato;  il  suo  atteggiamento  mostra  una   profonda
noncuranza di tutti coloro e di tutto quello che ha intorno; il suo viso esprime
qualcosa della tristezza rassegnata d'uno schiavo e  dell'orgoglio  freddo  d'un
despota; un che di duro, di chiuso, di cocciuto, da far disperare alla prima chi
si proponesse di persuaderlo di qualche cosa o di rimoverlo di una  risoluzione.
Ha, insomma, l'aspetto d'uno di quegli uomini tutti d'un pezzo, coi  quali  pare
che non si possa vivere altrimenti che obbedendoli o  comandandoli;  e  che  per
quanto tempo ci  si  viva  insieme,  non  si  debba  mai  poterci  prendere  una
famigliarità  intera.  Il  greco  invece  è  mobilissimo,  e  rivela  con  mille
sfuggevoli guizzi dello sguardo e  delle  labbra  tutto  quello  che  gli  passa
nell'anima; scuote la testa con movimenti di  cavallo  indomito;  il  suo  volto
esprime un'alterezza giovanile, e qualche volta quasi fanciullesca; se  si  vede
guardato, s'atteggia; se non è guardato, si mette  in  mostra;  par  sempre  che
desideri  o  che  fantastichi  qualche  cosa;  spira   da   tutta   la   persona
l'accorgimento e l'ambizione; e inspira simpatia, anche se  ha  la  faccia  d'un
cattivo soggetto, e gli  si  darebbe  la  mano  anche  quando  non  si  vorrebbe
affidargli la borsa. Basta veder vicini questi due uomini, per capire che  l'uno
deve parere all'altro un barbaro, un orgoglioso, un prepotente, un brutale;  che
questi deve giudicar quello un uomo leggiero, falso, maligno, turbolento; e  che
debbono disprezzarsi e detestarsi reciprocamente con tutte le forze  dell'anima;
e non trovar la via di vivere d'accordo. La stessa differenza si osserva tra  le
donne greche e le altre donne levantine. In mezzo  alle  turche  e  alle  armene
belle e floride, ma  che  toccan  quasi  più  i  sensi  di  quello  che  parlino
all'anima, si riconoscono alla prima, con un sentimento di grata  meraviglia,  i
visi eleganti e puri delle greche, illuminati da due occhi  pieni  di  pensiero,
dei quali ogni sguardo fa venir sulle labbra il verso d'un ode; e  i  bei  corpi
maestosi insieme e leggeri, che ispirano  il  desiderio  di  stringerli  fra  le
braccia,  piuttosto  per  metterli  sopra  un  piedestallo,  che  per   portarli
nell'arem. Se ne  vedono  di  quelle  che  portano  ancora  i  capelli  cadenti,
all'antica, in lunghe ciocche ondulate, e una grossa  treccia  ravvolta  intorno
alla testa in forma di diadema; così belle, così nobili, così classiche, che  si
piglierebbero per statue di Prassitele e di Lisippo, o per giovanette  immortali
ritrovate dopo venti secoli in qualche valle ignorata della Laconia o in qualche
isoletta dimenticata dell'Egeo. Sono  però  rarissime  queste  bellezze  sovrane
anche tra le greche, e oramai non se ne trova più esempio  che  fra  la  vecchia
aristocrazia dell'impero, nel quartiere silenzioso e triste del Fanar, dove  s'è
rifugiata l'anima dell'antica Bisanzio. Là si vede ancora qualche volta  una  di
quelle donne superbe affacciata a un balcone a balaustri, o all'inferriata d'una
finestra altissima, cogli occhi fissi nella strada solitaria, nell'atteggiamento
d'una regina prigioniera; e quando il servidorame dei discendenti dei Paleologhi
e dei Comneni, non sta oziando dinanzi alle porte,  si  può,  contemplandola  di
nascosto, credere per un momento di veder per lo squarcio d'una nuvola  il  viso
d'una dea dell'Olimpo.

* *   *

[Gli Ebrei]

Riguardo alle ebree, posso affermare, dopo esser stato nel Marocco,  che  quelle
di Costantinopoli non hanno che  fare  con  quelle  della  costa  settentrionale
dell'Affrica, nelle quali i dotti osservatori credono di vedere ancora in  tutta
la sua purezza il primo tipo orientale della bellezza ebraica. Colla speranza di
trovare questa bellezza, mi armai di coraggio, e feci molti giri  per  il  vasto
ghetto di Balata, che s'allunga, come un serpente immondo, sulla riva del  Corno
d'oro. Mi spinsi fin nei vicoli più miserabili, in mezzo a casupole "grommate di
muffa" come le ripe della bolgia dantesca, per crocicchi dove non ripasserei più
che sui trampoli e colle narici turate; guardando per le finestre tappezzate  di
cenci nauseabondi, nelle stanze nere e viscose; soffermandomi dinanzi alle porte
dei cortili umidi da cui usciva un tanfo da mozzare il fiato, facendomi largo in
mezzo a gruppi di ragazzi scrofolosi e tignosi, toccando col gomito  dei  vecchi
orrendi, che parevano morti di peste risuscitati; scansando a  ogni  passo  cani
coperti di piaghe e laghi di mota nera e panni schifosi appesi a corde  bisunte,
e mucchi di putridumi da far cadere in deliquio;  ma  il  mio  coraggio  non  fu
ricompensato. Fra le molte donne  che  incontrai  imbacuccate  nel  loro  calpak
nazionale, che sembra un turbante allungato e copre i  capelli  e  le  orecchie,
vidi  bensì  qualche  viso  in  cui  riconobbi  quella  regolarità  delicata  di
lineamenti e quell'aria soave di rassegnazione, che si considera come il  tratto
distintivo delle ebree di Costantinopoli; vidi qualche vago profilo di Rebecca e
di Rachele, dagli occhi a mandorla, pieni di dolcezza e  di  grazia;  e  qualche
figura elegante, ritta in  un  atteggiamento  raffaellesco  sulla  soglia  d'una
porta, con una mano sottile appoggiata sul capo ricciuto d'un  bimbo.  Ma  nella
maggior parte  non  vidi  che  i  segni  della  degradazione  della  razza.  Che
differenza tra quelle figure stentite, e gli occhi di fuoco, i colori pomposi  e
le forme opulente che ammirai un anno dopo nei mellà di Tangeri e di Fez!  Ed  è
lo stesso degli uomini, spersoniti, giallognoli, molli, di cui tutta la vitalità
pare che si sia raccolta negli occhi scintillanti d'astuzia e di cupidigia,  che
essi girano continuamente intorno a  sè  stessi,  come  se  da  tutte  le  parti
sentissero saltellare delle monete. Ed ora m'aspetto che i  miei  buoni  critici
israeliti, che già mi diedero sulle dita a proposito  dei  loro  correligionarii
del  Marocco,  ricantino  la  stessa  canzone,  scrivendo  a  colpa  dei  turchi
oppressori la decadenza e l'avvilimento degli ebrei di Costantinopoli. Ma badino
che nelle medesime condizioni politiche e civili degli ebrei si trovarono  tutti
gli altri sudditi non musulmani della Porta; e che se anche  questo  non  fosse,
sarebbe assai difficile il provare che la vergognosa  immondizia,  la  precocità
dei matrimonii e l'astensione da tutti i  mestieri  faticosi,  considerate  come
cause efficacissime di quella decadenza,  siano  una  conseguenza  logica  della
mancanza di libertà e d'indipendenza. E se mi  vorranno  dire  invece,  che  non
l'oppressione politica dei turchi, ma le piccole persecuzioni e il disprezzo  di
tutti, sono stati la cagione di quell'avvilimento, domandino prima a  sè  stessi
se per caso non fosse vero il contrario; se la prima cagione non  sia  piuttosto
da ricercarsi nei loro costumi e nella loro vita; e se invece  di  nasconder  la
piaga, non sarebbe utile che essi medesimi la toccassero col ferro rovente.

* *   *

[Il bagno]

Dopo aver fatto un giro per Balata, non è delle peggio, come si dice a  Firenze,
l'andare a fare un bagno turco. Le case dei bagni si riconoscono di fuori:  sono
edifizi senza finestre, della forma di piccole moschee, sormontati da una cupola
e da alti camini conici, che fumano perpetuamente. Ma prima  d'entrare,  bisogna
pensarci due volte, e domandarsi quid valeant humeri, perchè non  tutti  possono
resistere all'aspro governo che si fa d'un uomo fra  quelle  mura  salutari.  Io
confesso che dopo quello che ne avevo  inteso  dire,  c'entrai  con  un  po'  di
trepidazione; e i lettori vedranno che ero da compatire. Ripensandoci, mi  sento
uscire dalle tempie due goccioline di sudore che aspettano ch'io  sia  nel  vivo
della descrizione per filarmi giù per le guancie.  Ecco  dunque  quello  che  fu
fatto della mia povera persona. Entro timidamente e mi trovo in  una  gran  sala
che mi lascia un momento incerto, se sia un teatro  o  un  ospedale.  Nel  mezzo
zampilla una fontana, coronata di fiori; e lungo le pareti gira una galleria  di
legno, dove dormono profondamente o fumano sonnecchiando alcuni turchi  sdraiati
su materasse e ravvolti dalla testa ai piedi in pannolini  bianchissimi.  Mentre
guardo intorno in cerca del bagnaiuolo, due tarchiati mulatti seminudi,  sbucati
non so di dove, mi si rizzano dinanzi come due spettri, e mi domandano  tutti  e
due insieme con voce cavernosa: Hammamun? (bagno?) - Evvet (sì) rispondo con  un
filo di voce. Mi accennano di seguirli e mi rimorchiano su per una  scaletta  di
legno in una stanza piena di stuoie e di cuscini, dove mi fanno  capire  che  mi
debbo spogliare. Mi stringono una stoffa azzurra e bianca intorno alle reni,  mi
raspano la testa con un pezzo  di  mussolina,  mi  fanno  infilare  due  zoccoli
colossali, mi pigliano sotto le braccia come  un  ubbriaco  e  mi  conducono,  o
piuttosto mi traducono in un'altra sala calda e semi-oscura, dove mi  distendono
sopra un tappeto e stanno  ad  aspettare  colle  mani  sui  fianchi  che  mi  si
ammorbidisca la pelle. Tutti questi apparecchi, che somigliano  molto  a  quelli
d'un supplizio, mi mettono addosso una inquietudine, la quale si  cangia  in  un
sentimento anche meno onorevole, quando i due aguzzini mi toccano la fronte,  si
scambiano uno sguardo che significa: - può resistere - e par che vogliano  dire:
- alla ruota - e ripigliandomi per le braccia mi accompagnano in una terza sala.
Qui provo una sensazione stranissima. Mi par d'essere in un tempio  sottomarino.
Vedo vagamente, a traverso un velo bianco di vapori, delle alte pareti marmoree,
delle colonne, degli archi, la vôlta d'una cupola finestrata,  da  cui  scendono
dei raggi di luce rossa, azzurra e verde,  dei  fantasmi  bianchi  che  vanno  e
vengono rasente le pareti, e nel mezzo della sala, uomini seminudi  distesi  sul
pavimento  come  cadaveri,  sui  quali  altri  uomini  seminudi  stanno  chinati
nell'atteggiamento di medici che facciano un'autopsia. La temperatura della sala
è tale che, appena entrato, mi sento tutto in sudore, e mi pare  che  non  potrò
più uscir di là che sotto la forme d'un fiumicello, come l'amante  d'Aretusa.  I
due mulatti trasportano il mio corpo in mezzo alla sala e lo adagiano sopra  una
specie di tavola anatomica, che è una grande lastra di  marmo  bianco,  rilevata
dal pavimento, sotto la quale ardono le stufe. La lastra scotta ed  io  vedo  le
stelle; ma oramai ci sono e bisogna  striderci.  I  due  mulatti  cominciano  la
vivisezione, canterellando una canzonetta funebre. Mi pizzicano le braccia e  le
gambe, mi premono  i  muscoli,  mi  fanno  scricchiolare  le  articolazioni,  mi
fregano, mi strizzano, mi stropicciano; mi fanno voltar bocconi, e ricominciano;
mi rimettono supino, e tornan da capo; mi  stirano  e  mi  schiacciano  come  un
fantoccio di pasta, a cui vogliano dare una forma che hanno in mente, e  non  ci
riescano, e ci s'arrabbino; poi  pigliano  un  po'  di  respiro;  poi  di  nuovo
pizzicotti e strizzatine e schiacciature da farmi temere che sia quello  il  mio
ultimo quarto d'ora. Finalmente, quando tutto il mio corpo  schizza  acqua  come
una spugna spremuta, quando mi vedono circolare il sangue sotto la pelle, quando
s'accorgono che proprio non ci posso più reggere, tiran su i miei resti da  quel
letto di tortura, e li portano in un angolo, dinanzi a una piccola nicchia, dove
sono due cannelle di rame, che  gettano  acqua  calda  e  acqua  fresca  in  una
vaschetta di marmo. Ma, ahimè! qui comincia un altro martirio.  E  veramente  la
cosa piglia un certo andare, che, senza celia, io mi domando se non è il caso di
appoggiare un cappiotto a destra e uno scopaccione a sinistra, e  di  battermela
come mi trovo. Uno dei due tormentatori si mette un guanto di pelo di cammello e
comincia a fregarmi la schiena, il petto, le braccia e le  gambe,  colla  grazia
con cui striglierebbe un cavallo, e la strigliatura si prolunga per la  bellezza
di cinque minuti. Finita la strigliatura,  mi  rovesciano  addosso  un  torrente
d'acqua tepida, e ripigliano fiato. E lo ripiglio anch'io, ringraziando il cielo
che sia finita. Ma non  è  finita!  Il  mulatto  feroce  si  leva  il  guanto  e
ricomincia l'operazione colla mano nuda, ed io m'indispettisco e gli fo cenno di
smettere, e lui, mostrandomi la mano, mi prova, con mia grande  meraviglia,  che
deve fregare ancora. Finito  di  fregare,  un  altro  rovescio  d'acqua,  e  poi
un'altra operazione. Prendono tutti e due uno strofinaccio di stoppa imbevuto di
sapone di Candia, e m'insaponano dalla testa ai piedi. Finita  l'insaponata,  un
altro diluvio d'acqua profumata, e poi da capo lo strofinamento colla stoppa. Ma
questa volta, come dio vuole, la stoppa è asciutta e strofinano  per  asciugare.
Asciugato che sono, mi rifasciano  la  testa,  mi  rimettono  il  grembiale,  mi
ravvolgono in un lenzuolo, mi riconducono nella seconda sala, e dopo  una  sosta
di qualche minuto, mi fanno rientrar nella prima. Qui trovo una materassa tepida
sulla quale mi distendo mollemente e i due esecutori di giustizia mi  danno  gli
ultimi pizzicotti per rendere uguale in tutte  le  membra  la  circolazione  del
sangue. Ciò fatto, mi mettono un cuscino ricamato sotto la  testa,  una  coperta
bianca addosso, una pipa in bocca, una limonata accanto, e mi lascian lì fresco,
leggiero, odoroso, colla mente serena, col cuore contento,  con  un  senso  così
puro e così giovanile della vita, che mi par d'esser nato allora,  come  Venere,
dalla spuma del mare, e di  sentirmi  frullare  sopra  la  testa  le  ali  degli
amorini.

* *   *

[La Torre del Seraschiere]

Sentendosi così puri e disposti a riveder  le  stelle  non  c'è  di  meglio  che
arrampicarsi sopra la testa di quel titano di pietra che si chiama la torre  del
Seraschiere. Io credo che Satana, se volesse  tentare  un'altra  volta  qualcuno
coll'offerta del regno della terra, sarebbe sicuro del fatto  suo,  trasportando
la sua vittima su quella cima. La torre, fabbricata sotto il regno di Mahmud II,
è piantata sulla collina più alta di Stambul, nel mezzo del  cortile  vastissimo
del ministero della guerra, nel punto che i  turchi  chiamano  l'ombelico  della
città. È costrutta in gran parte con marmo bianco di  Marmara,  sul  piano  d'un
poligono regolare di sedici lati, e si slancia in alto, ardita e svelta come una
colonna, sorpassando d'un  buon  tratto  i  minareti  giganteschi  della  vicina
moschea di Solimano. Si va su per una scala a chiocciola, rischiarata  da  poche
finestre quadrate, per le quali s'intravvede, passando, ora Galata, ora Stambul,
ora i sobborghi del Corno d'oro; e non s'è ancora  a  mezza  altezza,  che  già,
lanciando uno sguardo fuori, pare di essere nella regione delle nuvole.  Qualche
volta salendo, si sente un leggero rumore sul proprio capo, e quasi nello stesso
punto si vede passare e sparire una larva, che sembra  una  cosa  che  precipita
piuttosto che un uomo che discende; ed è uno dei guardiani che stanno  giorno  e
notte alla vedetta sulla sommità della torre, il quale ha visto probabilmente in
qualche punto lontano dell'orizzonte un nuvolo di  fumo  sospetto,  e  ne  porta
avviso al Seraschierato. La scala ha circa duecento scalini,  e  conduce  a  una
specie di terrazza rotonda, coperta di sopra e vetrata tutt'intorno, nella quale
gira perpetuamente un guardiano, che serve il  caffè  ai  visitatori.  Al  primo
entrare in quella gabbia trasparente, che par sospesa tra il cielo e  la  terra,
al vedere tutt'intorno quell'immenso vuoto azzurro,  al  sentire  il  vento  che
strepita e fa sonare i vetri e scricchiolare gli assiti, s'è quasi  presi  dalle
vertigini e tentati di rinunziare al panorama.  Ma  alla  vista  della  scaletta
appoggiata al finestrino del tetto, il  coraggio  ritorna,  si  sale  col  cuore
palpitante, e si getta un grido di meraviglia. È un momento sublime.  Si  rimane
come sfolgorati. Tutta Costantinopoli è là e s'abbraccia tutta con un giro dello
sguardo; tutte le colline e tutte le valli di Stambul, dal castello delle  Sette
Torri ai cimiteri d'Eyub; tutta Galata e tutta  Pera,  come  se  lo  sguardo  vi
cadesse a fil di piombo; tutta Scutari, come se fosse  lì  sotto;  tre  file  di
città, di boschi, di flotte, che  fuggono  a  perdita  d'occhi  lungo  tre  rive
incantevoli, e altre striscie interminabili di villaggi e  di  giardini  che  si
perdono serpeggiando nell'interno delle terre; tutto il Corno  d'oro,  immobile,
cristallino  e  picchiettato  d'innumerevoli  caicchi,  che  sembrano  moscerini
natanti; tutto il Bosforo, che par chiuso qua e là dalle  colline  più  avanzate
delle due rive, e presenta l'immagine d'una successione di laghi,  e  ogni  lago
par circondato da una città, e ogni città è inghirladata di giardini; di là  dal
Bosforo, il mar Nero azzurrino che si confonde col cielo; dalla  parte  opposta,
il mar di Marmara, il golfo di Nicomedia, le isole dei Principi, la riva europea
e la riva asiatica biancheggianti di villaggi; di là  dal  mar  di  Marmara,  lo
stretto dei Dardanelli, che luccica come un sottile nastro  d'argento;  oltre  i
Dardanelli un vago bagliore bianco, ch'è il mare Egeo e una curva oscura  che  è
la riva della Troade; di là da Scutari, la Bitinia e l'Olimpo; di là da Stambul,
le solitudini ondulate e giallognole della Tracia; due golfi, due  stretti,  due
continenti, tre mari, venti città, una miriade di cupole inargentate e di guglie
d'oro, una gloria di colori e di luce, da far dubitare se quella sia una  veduta
del nostro pianeta o di un altro astro più favorito da Dio.

* *   *

[Costantinopoli]

E sulla torre del Seraschiere, come su quella di Galata, come sul vecchio ponte,
come a Scutari, io mi domandai cento volte: -  Ma  in  che  maniera  hai  potuto
innamorarti dell'Olanda? - E non solo quel  paese,  ma  Parigi,  ma  Madrid,  ma
Siviglia, mi parevano città oscure e malinconiche, in cui non avrei  più  potuto
vivere un mese. Poi ripensavo alle  mie  povere  descrizioni  e  mi  dicevo  con
rammarico: - Ah!  disgraziato!  Quante  volte  hai  sciupato  le  parole  bello,
splendido, immenso! Ed ora che cosa dirai di questo  spettacolo?  -  Ma  già  mi
pareva che da Costantinopoli non  avrei  cavato  una  pagina.  E  il  mio  amico
Rossasco mi diceva: - Ma perchè non ti ci provi? - Ed io gli rispondevo: - Ma se
non ho nulla da dire! - E alle volte, chi lo crederebbe? quello spettacolo,  per
qualche minuto secondo, a certe ore, a una certa luce, mi  pareva  meschino,  ed
esclamavo quasi con sgomento: - O dov'è la mia Costantinopoli? - Altre volte  mi
pigliava un sentimento di tristezza pensando che mentre  io  ero  là  dinanzi  a
quella immensità e a quella bellezza, mia madre era in una  piccola  stanza,  da
cui non si vedeva che un cortile uggioso e una piccola striscia di cielo;  e  mi
pareva una colpa mia, e avrei dato un occhio per aver la  mia  buona  vecchia  a
bracetto e condurla a Santa Sofia. La giornata però correva quasi sempre allegra
e leggera come un'ora d'ebbrezza. E le rare volte  che  faceva  capolino  l'umor
nero, il mio amico ed io avevamo un mezzo sicuro di  liberarcene.  Scendevamo  a
Galata in due caicchi a due remi, i più variopinti e i più dorati dello scalo, e
gridavamo: - Eyub! - ed eravamo già in mezzo al Corno d'oro. I  nostri  rematori
si chiamavano Mahmut, Baiazet, Ibraim, Murat, avevano vent'anni per  uno  e  due
braccia di ferro, e vogavano  a  gara  incitandosi  con  grida  e  ridendo  come
bambini; il cielo era sereno e il mare trasparente;  noi  rovesciavamo  il  capo
indietro per bere a sorsate più lunghe l'aria piena  di  profumi,  e  lasciavamo
spenzolare una mano nell'acqua; i due caicchi  volavano,  di  qua  e  di  là  ci
fuggivano allo sguardo i chioschi, i palazzi, i giardini, le moschee; ci  pareva
d'esser portati dal vento a traverso  un  mondo  fatato,  sentivamo  un  piacere
inesprimibile d'esser giovani e d'essere a Stambul, Yunk  cantava,  io  recitavo
delle ballate orientali di Vittor Hugo, e vedevo ora a destra, ora  a  sinistra,
ora vicino, ora lontano, balenare per aria un viso amoroso, coronato di  capelli
bianchi e illuminato da  un  sorriso  dolcissimo,  che  diceva:  -  Sii  felice,
figliuolo! Io ti benedico e ti seguo.

SANTA SOFIA


Ed ora, se anche un povero scrittore di viaggi può  invocare  una  musa,  io  la
invoco a mani giunte perchè la mia mente  si  smarrisce  "in  faccia  al  nobile
subbietto" e le grandi linee della basilica bizantina mi  tremano  dinanzi  come
un'immagine  riflessa  da  un'acqua  agitata.  La  musa  m'ispiri,  Santa  Sofia
m'illumini e l'imperatore Giustiniano mi perdoni. Una bella  mattina  d'ottobre,
accompagnati da un cavas turco del Consolato d'Italia e da un dracomanno  greco,
andammo finalmente a visitare il "paradiso terrestre, il secondo firmamento,  il
carro dei cherubini, il trono della gloria di Dio, la meraviglia della terra, il
maggior tempio del mondo dopo San  Pietro".  La  quale  ultima  sentenza,  -  lo
sappiano i miei amici di Burgos, di Colonia, di Milano, di Firenze, - non è mia,
e non oserei farla mia; ma l'ho citata, colle altre, perchè è  una  delle  molte
espressioni consacrate dall'entusiasmo dei Greci, che il  nostro  dracomanno  ci
andava ripetendo per via. E avevamo scelto pensatamente, insieme  a  un  vecchio
cavas turco, un vecchio dracomanno greco, colla speranza, che non fu delusa,  di
sentire nelle loro spiegazioni e nelle loro leggende cozzare le  due  religioni,
le due storie, i due popoli; e che l'uno ci avrebbe esaltato la  chiesa  l'altro
magnificato la moschea, in modo da  farci  vedere  Santa  Sofia  come  dev'esser
veduta: con un occhio di cristiano e un occhio di turco. La mia aspettazione era
grande e la curiosità vivissima; eppure,  strada  facendo,  pensavo  come  penso
ancora, che non c'è monumento famoso, e sia pure degno della sua fama, dal quale
venga all'anima una commozione così vivamente e  schiettamente  piacevole  com'è
quella che si prova nell'andarlo a vedere. Se dovessi rivivere un'ora di tutti i
giorni in cui vidi qualche grande cosa,  sceglierei  quella  che  passò  fra  il
momento in cui dissi: - Andiamo -; e il momento in  cui  intesi  dire:  -  Siamo
giunti. Le più belle ore  dei  viaggi  son  quelle.  Andando,  par  di  sentirsi
ingrandir l'anima come per contenere il sentimento di ammirazione che vi sorgerà
tra poco; si rammentano i desiderii della prima giovinezza, che  parevan  sogni;
si  rivede  un  vecchio  professore  di  geografia  che,   dopo   aver   segnato
Costantinopoli sulla carta d'Europa, traccia per aria, con una presa di  tabacco
tra le dita, le linee  della  grande  basilica;  si  vede  quella  stanza,  quel
caminetto, dinanzi al quale, nel prossimo inverno, si descriverà il monumento in
mezzo a un cerchio di visi meravigliati ed immobili; si sente sonar quel nome di
Santa Sofia nella testa, nel cuore, nelle orecchie, come  il  nome  d'un  essere
vivo che ci aspetti e ci chiami per rivelarci qualche grande segreto; si  vedono
apparire sul nostro capo archi e pilastri prodigiosi d'edifizii che  si  perdono
nel cielo; e quando si è a pochi passi dalla meta, si prova  ancora  un  piacere
inesprimibile a soffermarsi per guardare un  ciottolo,  per  veder  fuggire  una
lucertola, per raccontare una barzelletta, per perdere  un  po'  di  tempo,  per
ritardare di qualche minuto quel momento che s'è desiderato per vent'anni e  che
si ricorderà per tutta la vita. Per modo che rimane assai poca  cosa  di  questi
celebrati piaceri dell'ammirazione, se si toglie il sentimento che li precede  e
quello che li segue.  È  quasi  sempre  un'illusione,  seguita  da  un  leggiero
disinganno, dal quale noi, ostinati,  facciamo  pullulare  altre  illusioni.  La
moschea di Santa Sofia è posta  in  faccia  all'entrata  principale  dell'antico
Serraglio. Arrivando, però, nella piazza che si stende dinanzi al Serraglio,  la
prima cosa che attira gli occhi, non è la moschea,  ma  la  fontana  famosa  del
Sultano Ahmed III. È uno dei più originali  e  più  ricchi  monumenti  dell'arte
turca. Ma più che un monumento, è un vezzo di marmo, che un galante sultano mise
in fronte alla sua Stambul in un momento d'amore. Io  credo  che  non  lo  possa
descriver bene che una donna. La mia penna non è abbastanza  fina  per  ritrarne
l'immagine. A prima vista,  non  si  direbbe  una  fontana.  Ha  la  forma  d'un
tempietto quadrato, ed è coperto da un tetto alla chinese,  che  spinge  le  sue
falde ondulate molto al di fuori dei muri,  e  gli  dà  una  vaga  apparenza  di
pagoda. Ai quattro angoli  vi  sono  quattro  torricciuole  rotonde,  munite  di
finestrine ingraticolate, o piuttosto quattro chioschetti di forma gentilissima,
ai quali corrispondono, sopra il tetto, altrettante cupolette svelte, sormontate
ciascuna da una guglia graziosa; le quali  fanno  corona  a  una  cupoletta  più
grande, posta nel mezzo. In ciascuno  dei  quattro  muri  ci  sono  due  nicchie
eleganti; fra le nicchie un arco a sesto acuto; sotto l'arco, una  cannella  che
versa l'acqua in una piccola vasca. Intorno all'edifizio gira una iscrizione che
dice: - Questa fontana ti parla della sua età nei  seguenti  versi  del  sultano
Ahmed: volgi la chiave di questa sorgente pura e tranquilla e invoca il nome  di
Dio; bevi di quest'acqua inesauribile e limpida e prega per  il  Sultano.  -  Il
piccolo edifizio è tutto di marmo bianco, che appena apparisce sotto gl'infiniti
ornamenti che coprono i muri;  sono  archetti,  nicchiette,  colonnine,  rosoni,
poligoni, nastri, ricami di marmo, dorature su fondo  azzurro,  frangie  intorno
alle cupole, intarsiature sotto il tetto, musaici di cento colori, arabeschi  di
mille forme, che par che s'intrichino a fissarvi lo sguardo, ed  irritano  quasi
il senso dell'ammirazione. Non c'è lo spazio d'una mano che  non  sia  scolpito,
miniato, tormentato. È un prodigio di grazia, di ricchezza  e  di  pazienza,  da
tenersi sotto una campana di cristallo; una cosa che pare non sia fatta soltanto
per gli occhi, ma che debba avere un sapore, e  se  ne  vorrebbe  succhiare  una
scheggia; uno scrigno, che si vorrebbe aprire, per vedere che cosa  c'è  dentro:
se una dea bambina o una perla enorme o un anello fatato. Il tempo n'ha in parte
sbiadito le dorature, confusi i colori e  anneriti  i  marmi.  Che  cosa  doveva
essere questo gioiello colossale quando fu scoperto la prima volta, tutto  nuovo
e sfolgorante, agli occhi del Salomone del  Bosforo,  cento  e  sessant'anni  or
sono? Ma così vecchio e nero come si ritrova, tiene ancora il primato  su  tutte
le piccole meraviglie di Costantinopoli; ed oltre a ciò,  è  un  monumento  così
schiettamente turco, che visto una volta, si fissa per sempre nella  memoria  in
mezzo a quel certo numero d'immagini, che balenano poi tutte insieme alla  mente
ogni volta che ci suoni all'orecchio il nome di Stambul, e formano come il fondo
del quadro orientale, su cui si moverà perpetuamente il nostro  pensiero.  Dalla
fontana si vede la moschea di Santa Sofia, che  chiude  un  lato  della  piazza.
L'aspetto esterno non ha nulla di notevole. La sola cosa che arresti lo  sguardo
sono i quattro  altissimi  minareti  bianchi,  che  sorgono  ai  quattro  angoli
dell'edifizio su piedestalli grandi come case. La cupola famosa sembra  piccina.
Non pare che possa essere quella  medesima  cupola  che  si  vede  rotondeggiare
nell'azzurro, come la testa d'un titano,  da  Pera,  dal  Bosforo,  dal  mar  di
Marmara e dalle colline dell'Asia. È una cupola  schiacciata,  fiancheggiata  da
due mezze cupole, rivestita di piombo, coronata di finestre, che  s'appoggia  su
quattro muri dipinti a larghe striscie bianche e  rosate,  sostenuti  alla  loro
volta da enormi  contrafforti,  intorno  ai  quali  sorgono  confusamente  molti
piccoli edifizii d'aspetto meschino, - bagni, scuole, mausolei,  ospizi,  cucine
pei poveri. - che nascondono l'antica forma architettonica della  basilica.  Non
si vede che una mole pesante,  irregolare,  di  color  scialbo,  nuda  come  una
fortezza, e non tanto grande all'apparenza, da far supporre a chi non lo  sappia
che vi sia dentro il vano immenso della navata di Santa  Sofia.  Della  basilica
antica non apparisce propriamente che la cupola, la quale  pure  ha  perduto  lo
splendore argentino che si vedeva, a detta dei Greci, dalla sommità dell'Olimpo.
Tutto il rimanente  è  musulmano.  Un  minareto  fu  innalzato  da  Maometto  il
Conquistatore, un altro da Selim II, gli  altri  due  dal  terzo  Amurat.  Dello
stesso Amurat sono i contrafforti innalzati sulla fine del sedicesimo secolo per
sostenere i muri stati scossi da un  terremoto,  e  la  smisurata  mezzaluna  di
bronzo, piantata sulla sommità della cupola,  di  cui  la  sola  doratura  costò
cinquantamila ducati. L'antico atrio è sparito;  il  battisterio  convertito  in
mausoleo di Mustafà e d'Ibraim I quasi tutti gli altri piccoli edifizii  annessi
alla chiesa greca, o distrutti, o nascosti  da  nuovi  muri,  o  trasformati  in
maniera che non si riconoscono. Da tutte le parti la moschea stringe, opprime  e
maschera la chiesa, che non ha più libero che il capo, sul quale però  vigilano,
come quattro sentinelle gigantesche i quattro minareti  imperiali.  Dalla  parte
d'Oriente v'è una porta  ornata  di  sei  colonne  di  porfido  e  di  marmo;  a
mezzogiorno un'altra porta per cui s'entra in un cortile,  circondato  d'edifìci
bassi e disuguali, in mezzo al quale zampilla  una  fontana  per  le  abluzioni,
coperta da un tempietto arcato, sostenuto da  otto  colonnine.  A  guardarla  di
fuori, non si distinguerebbe Santa Sofia dalle altre grandi moschee di  Stambul,
se non perchè è meno bianca e meno leggiera; e molto meno  passerebbe  pel  capo
che sia quello "il maggior tempio del mondo dopo San Pietro". Le nostre guide ci
condussero,  per  una  stradicciuola  che  fiancheggia  il  lato  settentrionale
dell'edifizio, a una porta  di  bronzo  che  girò  lentamente  sui  cardini,  ed
entrammo nel vestibolo. Questo vestibolo, che è  una  lunghissima  ed  altissima
sala, rivestita di marmo e ancora luccicante qua e là degli antichi mosaici,  dà
accesso alla navata dal lato orientale  per  nove  porte,  e  dal  lato  opposto
metteva anticamente, per altre cinque porte, in  un  altro  vestibolo,  che  per
altre tredici  porte  comunicava  coll'atrio.  Appena  oltrepassata  la  soglia,
mostrammo il nostro firmano d'entrata a un sacrestano in turbante, infilammo  le
pantofole, e a un cenno delle guide, ci avvicinammo, trepidando, alla  porta  di
mezzo del lato orientale, che ci aspettava spalancata.  Messo  appena  il  piede
nella  navata,  rimanemmo  tutti  e  due  come  inchiodati.  Il  primo  effetto,
veramente, è grande e nuovo. Si abbraccia  con  uno  sguardo  un  vuoto  enorme,
un'architettura ardita di mezze cupole che paion sospese nell'aria, di  pilastri
smisurati, di archi giganteschi, di colonne colossali, di gallerie, di  tribune,
di portici, su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce;  un  non
so che di teatrale e di principesco, più  che  di  sacro;  una  ostentazione  di
grandezza e di forza, un'aria d'eleganza mondana, una confusione di classico, di
barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; una  grande  armonia,  in
cui, alle note tonanti e formidabili dei pilastri e degli archi  ciclopici,  che
rammentano le cattedrali nordiche,  si  mescono  gentili  e  sommesse  cantilene
orientali, musiche clamorose dei conviti di Giustiniano  e  d'Eraclio,  echi  di
canti pagani, voci fioche d'un popolo effeminato e stanco, e  grida  lontane  di
Vandali, d'Avari e di Goti; una grande maestà sfregiata,  una  nudità  sinistra,
una  pace  profonda;  un'idea  della  basilica  di  San  Pietro  raccorciata   e
intonacata, e della basilica di San Marco ingigantita e deserta;  un  misto  non
mai veduto di tempio, di chiesa e di moschea,  d'aspetti  severi  e  d'ornamenti
puerili, di cose antiche e di cose nove, e di colori disparati,  e  d'accessorii
sconosciuti e bizzarri; uno spettacolo, insomma,  che  desta  un  sentimento  di
stupore insieme e di rammarico, e fa stare per qualche tempo coll'animo incerto,
come cercando una parola che esprima ed affermi il proprio pensiero.  L'edifizio
è fabbricato sopra un rettangolo quasi equilatero, nel mezzo del quale s'innalza
la cupola maggiore, sorretta da quattro grandi archi, i quali posano su  quattro
pilastri altissimi, che sono come l'ossatura di tutta la basilica. Ai due  archi
che si presentano in faccia a chi entra, si appoggiano due grandi semicupole, le
quali coprono tutta la navata, e ciascuna d'esse s'apre in altre due  semicupole
minori, che formano come quattro tempietti rotondi nel grande tempio. Fra i  due
tempietti della parte opposta all'entrata, s'apre l'abside, pure coperta da  una
vôlta a quarto di sfera. Sono dunque sette mezze cupole che  fanno  corona  alla
cupola maggiore, due sotto questa,  e  cinque  sotto  quelle  due,  senza  punto
d'appoggio apparente, in  modo  che  presentano  tutte  insieme  un  aspetto  di
leggerezza meravigliosa, e sembrano davvero, come disse un poeta  greco,  appese
per sette fili alla volta del cielo. Tutte queste  cupole  sono  rischiarate  da
grandi finestre arcate e simmetriche. Fra i quattro pilastri enormi che  formano
un quadrato nel mezzo della basilica, s'alzano, a destra e  a  sinistra  di  chi
entra, otto meravigliose colonne di breccia  verde,  su  cui  s'incurvano  degli
archi graziosi scolpiti a fogliami, che formano un  porticato  elegantissimo  ai
due lati della navata, e sorreggono a una grande altezza due vaste gallerie,  le
quali presentano due altri ordini di  colonne  e  d'archi  scolpiti.  Una  terza
galleria, che comunica colle due prime, corre lungo tutto il lato  dell'entrata,
e s'apre sulla navata con tre grandi archi, sostenuti da colonne gemelle.  Altre
gallerie minori, sostenute da colonne di porfido, tramezzano i quattro tempietti
posti alle estremità della navata,  e  sorreggono  altre  colonne,  sulle  quali
s'appoggiano delle tribune. Questa è la basilica. La moschea è come sparpagliata
nel suo seno e appiccicata alle sue mura. Il Mirab, - la nicchia che  indica  la
direzione della Mecca, - è scavato in un pilastro dell'abside. Alla sua  destra,
in alto, è appeso uno dei  quattro  tappeti,  su  cui  Maometto  faceva  le  sue
preghiere. Sull'angolo dell'abside più vicino al Mirab, in cima a  una  scaletta
ripidissima,  fiancheggiata  da  due  balaustrate  di  marmo  scolpite  con  una
delicatezza magistrale, sotto un bizzarro tetto conico, in mezzo a due  bandiere
trionfali di Maometto II, sporge il pulpito dove sale  il  Ratib  a  leggere  il
Corano, con una scimitarra sguainata nel pugno, per significare che Santa  Sofia
è moschea conquistata. In faccia al pulpito v'è la tribuna del Sultano,  coperta
da una graticola  dorata.  Altri  pulpiti,  o  specie  di  terrazze,  munite  di
balaustrate scolpite a giorno, e sorrette da  colonnine  di  marmo  e  da  archi
arabescati, si stendono qua e là lungo i muri o s'avanzano verso il mezzo  della
navata. A destra e a sinistra dell'entrata, ci sono due enormi urne d'alabastro,
rinvenute fra le rovine di Pergamo, e  fatte  trasportare  a  Costantinopoli  da
Amurat III. Dai pilastri,  a  una  grande  altezza,  pendono  dei  dischi  verdi
smisurati, con iscrizioni del Corano a caratteri d'oro. Di sotto sono  attaccate
ai muri delle grandi cartelle di porfido, che portano scritti i nomi d'Allà,  di
Maometto e dei quattro primi Califfi. Negli angoli formati dai quattro archi che
sostengono la cupola si vedono ancora le ali gigantesche di quattro cherubini di
musaico, ai quali è stato coperto il viso con  un  rosone  dorato.  Dalle  volte
delle cupole pendono innumerevoli cordoni di  seta,  che  misurano  quasi  tutta
l'altezza della basilica,  e  sostengono  ova  di  struzzo,  lampade  di  bronzo
cesellato e globi di cristallo. Qua e là si vedono dei leggii di legno a ìccase,
intarsiati di madreperla e di rame, con su dei Corani manoscritti. Il  pavimento
è coperto di tappeti e di stuoie. I  muri  son  nudi,  biancastri,  giallognoli,
grigi oscuri, ornati ancora in qualche punto  di  musaici  scoloriti.  L'aspetto
generale, triste.  La  prima  meraviglia  della  moschea  è  la  grande  cupola.
Guardandola dal mezzo della navata, par davvero di vedere, come  dice  la  Stael
della cupola di San Pietro, un abisso sospeso sul nostro capo. È  altissima,  ha
una circonferenza enorme e la  sua  profondità  non  è  che  un  sesto  del  suo
diametro; il che la fa  apparire  anche  più  grande.  Alla  sua  base  gira  un
terrazzino; sopra il terrazzino una corona di quaranta finestre ad  arco.  Sulla
sommità c'è scritta la sentenza che pronunciò  Maometto  II  arrestando  il  suo
cavallo dinanzi all'altar maggiore della basilica,  il  giorno  della  presa  di
Costantinopoli: - Allà è la luce del cielo e  della  terra  -;  e  alcune  delle
lettere, bianche su fondo oscuro, hanno la lunghezza di nove metri.  Come  tutti
sanno, questo prodigio aereo  non  si  sarebbe  potuto  compiere  coi  materiali
ordinarii; le volte furon costrutte con pietra pomice che galleggia sull'acqua e
con mattoni dell'isola di Rodi, cinque dei quali pesano appena quanto un mattone
comune. In ogni mattone era iscritta la sentenza di Davide: - Deus in medio eius
non commovebitur. Adiuvabit eam Deus vultu suo. - Ogni dodici giri  di  mattoni,
si muravano nella volta delle reliquie di santi. Mentre gli operai lavoravano, i
sacerdoti cantavano; Giustiniano, vestito d'una tunica di lino,  assisteva;  una
folla immensa ammirava. E non c'è da stupire quando si pensi che la  costruzione
di questo "secondo firmamento" ancora meraviglioso  ai  giorni  nostri,  era  un
ardimento senza esempio nel sesto secolo. Il volgo credeva  che  stesse  su  per
incanto, e i turchi, per molto tempo  dopo  la  conquista,  dovettero,  pregando
nella moschea di Santa Sofia, far forza a sè stessi per volgere  lo  sguardo  ad
Oriente invece d'innalzarlo a quel "cielo di pietra". La cupola, infatti,  copre
circa la metà della navata in modo che signoreggia e rischiara tutto  l'edifizio
e da tutte le parti se ne vede un segmento; e vai  vai  si  finisce  sempre  per
trovarvisi sotto, e tornare per la centesima volta  a  farci  rotear  dentro  il
proprio sguardo e i propri pensieri,  con  un  brivido  di  piacere  acuto,  che
somiglia alla sensazione del volo. Vista la navata e  la  cupola,  non  s'è  che
cominciato a veder Santa Sofia. Chi appena ha un'ombra di curiosità storica, per
esempio, può dedicare un'ora all'esame delle colonne. Qui ci sono le spoglie  di
tutti i templi del mondo. Le colonne di breccia  verde  che  sostengono  le  due
grandi  gallerie,  furon  regalate  a  Giustiniano  dai  magistrati  d'Efeso,  e
appartenevano al tempio di Diana, messo in fiamme da Erostrato. Le otto  colonne
di porfido che s'alzano a due a due fra i pilastri, appartenevano al tempio  del
Sole innalzato da Aureliano a Balbek. Altre colonne sono del tempio di Giove  di
Cizico, del tempio d'Helios di Palmira, dei templi di Tebe,  d'Atene,  di  Roma,
della Troade, delle Cicladi, d'Alessandria; e presentano una varietà infinita di
grandezze e di colori. Tra le colonne,  le  balaustrate,  i  piedestalli,  e  le
lastre che rimangono dell'antico rivestimento dei muri, si vedon marmi di  tutte
le cave dell'Arcipelago, dell'Asia Minore, dell'Affrica e della Gallia. Il marmo
del Bosforo, bianco, picchiettato di  nero,  fa  contrapposto  al  celtico  nero
venato di bianco; il marmo verde di Laconia si riflette  nel  marmo  azzurro  di
Libia; il porfido punteggiato d'Egitto, il granito  stellato  di  Tessaglia,  il
cario del monte Iassi strisciato di bianco  e  di  rosso,  il  caristio  pallido
screziato di ferro, mescolano i loro colori alla porpora del marmo frigio,  alla
rosa del marmo di Synada, all'oro del marmo di Mauritania, alla neve  del  marmo
di Paros. A questa varietà di colori, s'aggiunge la varietà indescrivibile delle
forme dei fregi, dei cornicioni, dei rosoni, dei balaustri, dei  capitelli  d'un
bizzarro stile corinzio, in cui s'intrecciano animali, fogliami, croci, chimere,
e di altri che non  appartengono  a  nessun  ordine,  fantastici  di  disegno  e
disuguali di grandezza, accoppiati a casaccio; e dei  fusti  di  colonne  e  dei
piedestalli ornati di sculture capricciose, logorati  dai  secoli  e  scheggiati
dalle  scimitarre;  che  presentano  tutt'insieme   un   aspetto   bizzarro   di
magnificenza disordinata e barbaresca, e sono il vilipendio del  buon  gusto,  e
non se ne può staccare lo  sguardo.  Stando  nella  navata,  però,  non  si  può
comprendere tutta la vastità della moschea. La navata, infatti, non ne è che una
piccola parte. I due porticati che sorreggono le gallerie laterali sono  per  sè
soli due grandi edifizii, di cui si potrebbero fare due tempii. Ciascuno  d'essi
è  diviso  in  tre  parti,  separate  da  archi  altissimi.  Qui  pure  colonne,
architravi, pilastri, volte, tutto è enorme. Passeggiando sotto  quelle  arcate,
s'intravvede appena, per gl'interstizii delle colonne  del  tempio  d'Efeso,  la
grande navata, e par quasi di essere in un'altra basilica. Lo stesso effetto  si
prova dalle gallerie a  cui  si  va  per  una  scala  a  spirale  d'inclinazione
leggerissima, o piuttosto per una strada in salita, poichè non ci sono  gradini,
e potrebbe salirvi comodamente un uomo a cavallo. Le gallerie erano il "gineceo"
ossia la parte della chiesa  riserbata  alle  donne;  i  penitenti  stavano  nel
vestibolo, il  comune  dei  fedeli  nella  navata.  Ciascuna  galleria  potrebbe
contenere la popolazione d'un sobborgo di Costantinopoli. Non par più di  essere
in una chiesa; par di passeggiare per la loggia d'un teatro titanico, dove debba
scoppiare da un momento all'altro un canto  di  centomila  voci.  Per  veder  la
moschea bisogna affacciarsi alla balaustrata e allora tutta la grandezza appare.
Gli archi, le volte, i pilastri,  tutto  è  ingigantito.  I  dischi  verdi,  che
parevano da misurarsi colle braccia, coprirebbero una  casa.  Le  finestre  sono
portoni di palazzi; le ali dei cherubini sono vele di bastimento; le tribune son
piazze; la cupola dà il  capogiro.  Abbassando  lo  sguardo  si  prova  un'altra
meraviglia. Non si credeva d'essere saliti tant'alto. Il piano  della  navata  è
giù in fondo a un abisso, e i  pulpiti,  le  urne  di  Pergamo,  le  stuoie,  le
lampade, sembrano straordinariamente rimpicciolite. Di là si vede meglio che  di
sotto una particolarità curiosa della moschea di Santa Sofia, ed è che la navata
non avendo  la  direzione  precisa  della  Mecca,  a  cui  i  musulmani  debbono
rivolgersi  pregando,  tutte  le  stuoie  e  tutti  i  tappeti   sono   disposti
obliquamente alle linee dell'edifizio, e offendono gli occhi come  un  madornale
errore di prospettiva. Di lassù si abbraccia bene collo sguardo e  col  pensiero
tutta la vita della moschea. Si vedono dei  turchi  inginocchiati  sulle  stuoie
colla fronte a terra; altri ritti come statue colle mani dinanzi al  viso,  come
se interrogassero le rughe delle palme; alcuni  seduti  a  gambe  incrociate  ai
piedi d'un pilastro, come se riposassero all'ombra d'un  albero;  qualche  donna
velata, in ginocchio in un  angolo  solitario;  dei  vecchi  seduti  dinanzi  ai
leggii, che leggono il Corano; un iman che fa recitare dei versetti sacri  a  un
gruppo di ragazzi; e qua e là, sotto le arcate lontane e per le gallerie,  iman,
ratib, muezzin, servitori della moschea, in abiti strani, che  vanno  e  vengono
tacitamente come se non toccassero il pavimento. La melodia vaga  formata  dalle
voci sommesse e monotone di chi legge e  di  chi  prega,  quelle  mille  lampade
bizzarre, quella luce chiara  ed  eguale,  quell'abside  deserta,  quelle  vaste
gallerie silenziose, quella immensità,  quelle  memorie,  quella  pace  lasciano
nell'animo un'impressione di grandezza e  di  mistero,  che  nè  la  parola  può
esprimere  nè  il  tempo  può  cancellare.  Ma  in  fondo,  come  già  dissi,  è
un'impression triste, e non diede nel falso il  grande  poeta  che  paragonò  la
moschea di Santa Sofia a un" colossale sepolcro", perchè da tutte le parti vi si
vedono le traccie d'una devastazione  orrenda,  e  si  prova  maggior  rammarico
pensando a ciò che fu, di quello che si  goda  nell'ammirazione  di  ciò  che  è
ancora. Quietato il sentimento della prima meraviglia, il  pensiero  si  slancia
irresistibilmente nel passato. E oggi ancora, dopo tre anni, non mi si  affaccia
mai alla mente la grande moschea, ch'io non mi sforzi di  rappresentarmi  invece
la chiesa. Atterro i pulpiti musulmani, levo le lampade  e  le  urne,  stacco  i
dischi, e le cartelle di porfido, riapro le porte e le finestre murate,  raschio
l'intonaco che copre le pareti  e  le  vôlte,  ed  ecco  la  basilica  intera  e
novissima, come tredici secoli or sono, quando Giustiniano esclamò: -  Gloria  a
Dio che m'ha giudicato degno di compiere quest'opera! Salomone, io t'ho vinto! -
Da qualunque parte si giri lo sguardo, tutto luccica, scintilla e lampeggia come
nelle reggie fatate  delle  leggende.  Le  grandi  pareti,  rivestite  di  marmi
preziosi, mandano dei riflessi d'oro,  di  avorio,  d'acciaio,  di  corallo,  di
madreperla; le innumerevoli macchiette dei marmi, offrono l'aspetto di corone  e
di ghirlande di fiori; gli infiniti mosaici di cristallo danno ai muri,  su  cui
batte un raggio di sole, l'apparenza di muri d'argento tempestati di diamanti. I
capitelli, i cornicioni, le porte, i fregi degli archi sono di bronzo dorato. Le
vôlte dei  porticati  e  delle  gallerie,  dipinte  a  fuoco,  offrono  immagini
colossali d'angeli e di  santi  in  campo  d'oro.  Dinanzi  ai  pilastri,  nelle
cappelle, accanto alle porte, in mezzo alle colonne, si drizzano statue di marmo
e di bronzo, candelabri enormi d'oro massiccio, vangeli  giganteschi  appoggiati
sopra  leggii  risplendenti  come  sedie  reali,  alte  croci   d'avorio,   vasi
scintillanti di perle. In fondo alla navata non si vede che un bagliore  confuso
come di molte cose che ardano. È la balaustrata del coro, di bronzo dorato; è il
pulpito, incrostato di quarantamila libbre d'argento, che costò il tributo  d'un
anno dell'Egitto; sono le sedie dei sette preti,  il  trono  del  patriarca,  il
trono dell'imperatore, dorati, scolpiti, intarsiati, imperlati, su  cui,  quando
scende diritta la luce, non si può fissare  lo  sguardo.  Al  di  là  di  questi
splendori, nell'abside, si vede uno sfolgorio più vivo. È l'altare,  di  cui  la
mensa, sostenuta da quattro colonne d'oro,  è  fatta  d'una  fusione  d'argento,
d'oro, di stagno e di perle, e il ciborio formato da quattro  colonne  d'argento
puro, sulle quali s'innalza una cupola d'oro massiccio, sormontata da un globo e
da una croce d'oro del peso di  ducento  sessanta  libbre.  Di  là  dall'altare,
s'alza una figura gigantesca della divina Sapienza che tocca  il  pavimento  coi
piedi e la vôlta dell'abside col capo. Su tutti questi tesori splendono in  alto
le sette mezzecupole coperte di mosaici  di  cristallo  e  d'oro,  e  la  grande
cupola,  su  cui  s'allungano  le  immagini  smisurate  degli  apostoli,   degli
evangelisti, della Vergine e della Croce, tutta dorata, colorita e scintillante,
come una vôlta di gioielli e di fiori. E cupole e colonne e statue e  candelabri
si specchiano sull'immenso pavimento di marmo proconnesio  ondulato,  che  visto
dalle quattro porte principali, presenta l'immagine di quattro  fiumi  maestosi,
increspati  dal  vento.  Così  era  l'interno   della   basilica.   Ma   bisogna
rappresentarsi ancora il grande atrio, circondato di colonne e di muri rivestiti
di mosaico, e ornato di fontane di marmo e di statuette equestri;  la  torre  da
cui trentadue campane facevano sentire i loro rintocchi formidabili  alle  sette
colline; le cento porte  di  bronzo  decorate  di  bassorilievi  e  d'iscrizioni
d'argento; le sale dei  sinodi,  le  stanze  dell'Imperatore,  le  prigioni  dei
sacerdoti, il battisterio,  le  vaste  sacristie  riboccanti  di  tesori,  e  un
labirinto di vestiboli,  di  triclinii,  di  corridoi,  di  scale  nascoste  che
giravano nei fianchi dell'edifizio e conducevano alle  tribune  o  gli  oratorii
segreti. Ora si può immaginare che spettacolo offerisse una tale basilica  nelle
grandi solennità di nozze imperiali, di concilii,  d'incoronazioni;  quando  dal
palazzo enorme dei Cesari, per una strada fiancheggiata da mille colonne, sparsa
di mirto e di fiori, profumata d'incenso e di mirra, fra le case ornate di  vasi
preziosi e di parati di seta, fra due schiere d'azzurri e di verdi, fra i  canti
dei poeti e i clamori degli araldi che  gridavano  evviva  in  tutte  le  lingue
dell'impero, veniva innanzi l'Imperatore, colla tiara sormontata da  una  croce,
imperlato come un idolo, seduto sopra un carro d'oro  dalle  tende  di  porpora,
tirato da due mule bianche, e circondato da un corteo di monarca persiano; e gli
andava incontro il clero pomposo nell'atrio della basilica; e tutta quella turba
di cortigiani, di scudieri, di  logoteti,  di  protospatari,  di  drongarii,  di
conestabili, di generali eunuchi, di governatori ladri, di  magistrati  venduti,
di patrizie spudorate, di senatori codardi, di schiavi, di buffoni, di  casisti,
di mercenarii d'ogni paese, tutta quella canaglia fastosa, tutto quel  putridume
dorato irrompeva per ventisette  porte  nella  navata  illuminata  da  sei  mila
candelabri; e si vedeva lungo la balaustrata del coro, sotto i portici  e  nelle
tribune un via vai, un  rimescolìo  concitato  di  teste  chiomate  e  di  cappe
purpuree, uno sfolgorìo di  berretti  gemmati,  di  collane  d'oro,  di  corazze
d'argento, un ricambiarsi di atti cerimoniosi, un  incrociarsi  d'inchini  e  di
sorrisi, uno strascicare affettato di zimarre di seta e di spade di gala;  e  un
molle profumo riempiva l'aria; e una immensa folla vigliacca faceva risonare  le
vôlte di grida di gioia e  d'applausi  profani.  Dopo  aver  fatto  in  silenzio
parecchi  giri  per  la  moschea,  lasciammo  parlare  le  nostre   guide,   che
cominciarono col farci vedere le cappelle poste sotto le  gallerie  e  spogliate
d'ogni cosa, come ogni altra parte della basilica. Alcune servono di  tesorerie,
come l'opistodomo del Partenone, nelle quali i turchi che partono per  un  lungo
viaggio o che temono i  ladri,  depositano  i  loro  denari  e  i  loro  oggetti
preziosi, e ce li lasciano anche per anni sotto la guardia di Dio; altre, chiuse
da un muro, son convertite in infermerie, in cui  aspetta  la  guarigione  o  la
morte qualche malato incurabile  o  qualche  idiota,  che  fanno  tratto  tratto
risonare la moschea di grida lamentevoli  o  di  risate  infantili.  Di  qui  ci
ricondussero in mezzo alla navata, e cominciò il dracomanno greco a raccontar le
maraviglie della basilica. Il disegno fu tracciato,  è  vero,  dagli  architetti
Antemio di Tralles e da Isidoro di Mileto; ma è un angelo  che  ne  ha  ispirato
loro il primo concetto. È un angelo pure che ha suggerito a Giustiniano  di  far
aprire tre finestre nell'abside,  che  rappresentassero  le  tre  persone  della
Trinità. Così le cento e sette colonne della chiesa  rappresentano  le  cento  e
sette colonne che sostengono la casa della Sapienza. Per  radunare  i  materiali
necessarii alla costruzione dell'edifizio, furono impiegati  sette  anni.  Cento
capi mastri sopraintendevano al lavoro,  e  diecimila  operai  lavoravano  nello
stesso tempo, cinque mila da una parte e cinque  mila  dall'altra.  I  muri  non
erano ancora alti da terra che pochi palmi, e già s'era speso per più di quattro
cento cinquanta quintali d'oro. La spesa totale per il solo edifizio  ammontò  a
venticinque milioni di lire. La chiesa fu consacrata dal Patriarca cinque  anni,
undici mesi e dieci giorni dopo  che  n'era  stata  messa  la  prima  pietra,  e
Giustiniano  ordinò  in  quell'occasione  dei  sacrifizi,  delle  feste,   delle
distribuzioni di danaro e di viveri, che durarono due settimane.  Qui  prese  la
parola il cavas turco, e fu  per  accennarci  il  pilastro  su  cui  il  sultano
Maometto II, entrando vincitore in Santa  Sofia,  lasciò  l'impronta  sanguinosa
della mano destra come per suggellare la sua conquista. Poi ci mostrò, vicino al
Mirab, la così detta finestra fredda, dalla quale  spira  continuamente  un'aria
freschissima,  che  ispirò  le  più  belle  prediche  ai  più   grandi   dottori
dell'Islamismo.  Ci  fece  vedere,  a  un'altra  finestra,  la   famosa   pietra
risplendente, che è una lastra di marmo diafano,  la  quale  risplende  come  un
pezzo di cristallo quando vi batte il raggio del sole. A sinistra di  chi  entra
per la porta dal lato settentrionale, ci fece toccare la colonna che  suda:  una
colonna rivestita di bronzo, della quale si vede il marmo sempre umido  per  una
piccola screpolatura del rivestimento. E infine ci indicò  un  blocco  di  marmo
cavo, portato da Betlemme, nel quale si dice che fu  messo,  appena  nato,  Sidi
Yssa "il figlio di Maria, l'apostolo di Dio, lo spirito che da  lui  procede,  e
che merita onore in questo mondo e nell'altro". Ma mi parve che nè il  turco  nè
il greco ci credessero molto. Prese ancora una volta la  parola  il  dracomanno,
passando dinanzi a una porta murata delle gallerie, per raccontare  la  leggenda
celebre del vescovo, e questa volta parlò con un accento di persuasione, che  se
non era schietto, era ben simulato. Nel momento che  i  turchi  irruppero  nella
chiesa di Santa Sofia,  un  vescovo  greco  stava  dicendo  la  messa  all'altar
maggiore. Alla vista degl'invasori abbandonò l'altare, salì  sulla  galleria  e,
inseguito  dai  soldati,  scomparve  per  quella  piccola  porta,   che   rimase
istantaneamente chiusa da un muro di pietra. I soldati si misero a percuotere il
muro furiosamente; ma non riuscirono che a lasciarvi le traccie delle loro armi;
furono chiamati dei muratori; ma dopo aver lavorato un giorno intero coi picconi
e le stanghe, dovettero rinunziare all'impresa; ci si provarono in seguito tutti
i muratori di Costantinopoli, e tutti caddero inutilmente  spossati  dinanzi  al
muro miracoloso. Ma quel muro si aprirà; s'aprirà il giorno in cui  la  basilica
profanata sarà restituita al culto di Cristo, e  allora  ne  uscirà  il  vescovo
greco, vestito dei suoi  abiti  pontificali,  col  calice  in  mano,  col  volto
radiante, e risaliti i gradini dell'altare, ripiglierà la messa nel punto a  cui
l'aveva lasciata; e quel giorno splenderà l'aurora di nuovi secoli per la  città
di Costantino. Al momento d'uscire, il sacrestano turco, che  ci  aveva  seguiti
sino allora ciondolando e sbadigliando, ci  diede  una  manata  di  pezzetti  di
mosaico che aveva staccati poco prima da un muro, e  il  dracomanno,  fermandoci
sulla  porta,  incominciò  il  racconto,  che  gli  tagliammo  in  bocca,  della
profanazione di Santa Sofia. Ma non vorrei che altri lo tagliasse in bocca a  me
ora che la descrizione della basilica mi ha ravvivato nella mente i  particolari
di quella scena. Appena sparsa la notizia, verso le sette della mattina,  che  i
turchi avevano superate le mura, una folla  immensa  s'era  rifugiata  in  Santa
Sofia. Erano intorno a centomila persone: soldati fuggiaschi, monaci, sacerdoti,
senatori, migliaia di vergini fuggite dai monasteri, famiglie patrizie coi  loro
tesori, grandi dignitari dello  Stato  e  principi  del  sangue  imperiale,  che
correvano per le gallerie e per la navata, e si pigiavano per  tutti  i  recessi
dell'edifizio, alla  rinfusa  con  la  feccia  del  volgo,  cogli  schiavi,  coi
malfattori vomitati dalle carceri e dalle galere, e tutta la  basilica  risonava
di grida di terrore come un teatro affollato al divampare d'un incendio.  Quando
la navata, tutte le gallerie  e  tutti  i  vestiboli  furon  pieni  stipati,  si
sbarrarono e si asserragliarono le porte,  e  al  frastuono  dei  primi  momenti
succedette una quiete spaventosa. Molti credevano ancora  che  i  vincitori  non
avrebbero osato profanare la chiesa di Santa Sofia; altri  aspettavano  con  una
stupida sicurezza l'apparizione dell'Angelo, annunziato dai  profeti,  il  quale
avrebbe sterminato l'esercito musulmano prima  che  le  avanguardie  arrivassero
alla colonna di Costantino; altri, saliti  sul  terrazzo  interno  della  grande
cupola, spiavano dalle finestre l'avanzarsi del pericolo, e  ne  davano  notizia
coi cenni ai centomila volti smorti che guardavano in su dalle gallerie e  dalla
navata. Di lassù si vedeva un'immensa nuvola bianca che copriva  le  mura  dalle
Blacherne fino alla  Porta  dorata;  e  di  qua  dalle  mura,  quattro  striscie
lampeggianti, che s'avanzavano fra  le  case  come  quattro  torrenti  di  lava,
allargandosi e rumoreggiando, in mezzo al fumo e alle fiamme. Erano  le  quattro
colonne assalitrici dell'esercito turco, che cacciavano dinanzi a sè gli  avanzi
disordinati dell'esercito greco, e convergevano,  saccheggiando  e  incendiando,
verso Santa Sofia, l'Ippodromo e il palazzo  imperiale.  Quando  le  avanguardie
delle colonne  arrivarono  sulla  seconda  collina,  gli  squilli  delle  trombe
risonarono improvvisamente nella chiesa, e la  moltitudine  atterrita  cadde  in
ginocchio. Ma anche in quei momenti, molti confidavano  ancora  nell'apparizione
dell'Angelo ed altri speravano che  un  sentimento  di  rispetto  e  di  terrore
avrebbe arrestato gl'invasori  dinanzi  alla  maestà  di  quell'enorme  edificio
consacrato a Dio. Ma anche quest'ultima illusione non tardò  a  dileguarsi.  Gli
squilli delle trombe s'avvicinarono, un rumore  confuso  di  armi  e  di  grida,
irrompendo  dalle  mille  finestre,  riempì  la  basilica,  e  un  minuto   dopo
rimbombarono i primi colpi delle  ascie  ottomane  sulle  porte  di  bronzo  dei
vestiboli. Allora quella immensa folla sentì il freddo della morte, e  tutti  si
raccomandarono a Dio. Le porte sfracellate o sgangherate rovinarono,  e  un'orda
selvaggia di giannizzeri, di spahì, di timmarioti, di dervis, di sciaù, lordi di
polvere e di sangue, trasfigurati dal furore della  battaglia,  della  rapina  e
dello stupro, apparve  sulle  soglie.  Al  primo  aspetto  della  grande  navata
sfolgorante di tesori, gettarono un grido altissimo di meraviglia  e  di  gioia;
poi irruppero dentro come un torrente furioso.  Una  parte  si  precipitò  sulle
vergini, sulle  dame,  sui  patrizii,  schiavi  preziosi,  che,  istupiditi  dal
terrore, porsero spontaneamente le braccia alle corde e alle catene;  gli  altri
piombarono sulle ricchezze della chiesa. I tabernacoli furono predati, le statue
stramazzate,  i  crocifissi  d'avorio  frantumati;  i  musaici,  creduti  gemme,
disfatti a colpi di scimitarra, caddero in pioggie scintillanti nei caffettani e
nelle cappe aperte; le perle dei  vasi,  scastonate  dalle  punte  dei  pugnali,
saltellarono sul pavimento inseguite come cose vive, e disputate  a  morsi  e  a
sciabolate; l'altar maggiore andò disperso in mille rottami d'oro  e  d'argento;
le seggiole, i troni, il pulpito,  la  balaustrata  del  coro  scomparvero  come
stritolati da una valanga di pietra. E intanto continuavano  a  irrompere  nella
chiesa, a ondate sanguinose, le orde asiatiche; e in breve non si vide  più  che
un turbinìo vertiginoso di predoni  briachi,  camuffati  di  tiare  e  di  abiti
sacerdotali, che agitavano nell'aria calici e ostensorii,  trascinando  file  di
schiavi legati colle cinture dorate dei pontefici, in mezzo  ai  cammelli  e  ai
cavalli carichi di bottino, scalpitanti sul pavimento ingombro  di  scheggie  di
statue, di vangeli lacerati e  di  reliquie  di  santi;  un'orgia  forsennata  e
sacrilega, accompagnata da un frastuono orrendo di urli di trionfo, di minaccie,
di nitriti, di risa, di grida di fanciulle e di squilli di trombe; fin che tutto
tacque improvvisamente, e sulla soglia della porta maggiore  apparve  a  cavallo
Maometto II, circondato da una folla  di  principi,  di  vizir  e  di  generali,
superbo  e  impassibile  come  l'immagine  vivente  della  vendetta  di  Dio,  e
rizzandosi sulle staffe, lanciò con voce tonante  nella  basilica  devastata  la
prima formula della nuova religione: - Allà è la luce del cielo e della terra!

DOLMA BAGCÉ

Ogni  venerdì  il  Sultano  va  a  far  le  sue  preghiere  in  una  moschea  di
Costantinopoli. Noi lo vedemmo un giorno che andò  alla  moschea  d'Abdul-Megid,
posta sulla riva europea del Bosforo,  vicino  al  palazzo  imperiale  di  Dolma
Bagcé. Per andare a Dolma Bagcé, da Galata, si passa per il  quartiere  popoloso
di Top-hané, fra una grande fonderia di cannoni e un vasto arsenale; si percorre
tutto il sobborgo  musulmano  di  Funduclù,  che  occupa  il  luogo  dell'antico
Aïanteion, e si riesce in una piazza spaziosa, aperta verso il mare, di là dalla
quale, lungo la riva del Bosforo, s'innalza il palazzo famoso dove  risiedono  i
Sultani. È la più grande mole di marmo che riflettano  le  acque  dello  stretto
dalla collina del Serraglio alle bocche del Mar Nero, e non si  abbraccia  tutta
con uno sguardo che passandovi davanti in caicco. La facciata, che si stende per
la lunghezza di circa un mezzo miglio italiano, è rivolta  verso  l'Asia,  e  si
vede biancheggiare a una grande distanza fra l'azzurro del mare e il verde  cupo
delle colline della riva. Non è propriamente un palazzo perchè non c'è un  unico
concetto architettonico; le varie parti sono slegate e vi si  mescolano  in  una
confusione non mai veduta lo stile arabo, il greco,  il  gotico,  il  turco,  il
romano, quello del nascimento; e colla maestà dei  palazzi  reali  d'Europa,  la
grazia quasi femminea delle moresche di Siviglia e di Granata. Piuttosto che  il
"palazzo" si potrebbe chiamare "la città imperiale" come quella  dell'Imperatore
della China; e più che per la vastità, per  la  forma,  pare  che  debba  essere
abitato, non da un solo monarca, ma da  dieci  re  fratelli  od  amici,  che  vi
passino il tempo fra gli ozi e i piaceri. Dalla parte del Bosforo  presenta  una
serie di facciate di  teatri  o  di  templi,  sulle  quali  v'è  una  profusione
indescrivibile d'ornamenti, buttati via, come dice un poeta  turco,  dalle  mani
d'un pazzo; che rammentano quelle favolose pagode indiane, su  cui  l'occhio  si
stanca al primo sguardo, e sembrano l'immagine degli infiniti capricci amorosi e
fastosi dei principi sfrenati che vivono tra quelle mura. Sono file  di  colonne
doriche e ioniche, leggiere come aste di lancia; finestre inquadrate in  cornici
a festoni e in colonnine accannellate; archi pieni di fogliami e  di  fiori  che
s'incurvano su porte coperte di ricami; terrazze gentili coi parapetti  scolpiti
a giorno; trofei, rosoni, viticci; ghirlande  che  s'annodano  e  s'intrecciano,
vezzi di marmo che s'affollano sui cornicioni,  lungo  le  finestre,  intorno  a
tutti i rilievi; una rete d'arabeschi che si stende dalle porte ai frontoni, una
fioritura, uno sfarzo e una finezza di fregi  e  di  gale  architettoniche,  che
danno ad ognuno dei piccoli  palazzi  di  cui  è  composto  il  grande  edifizio
multiforme, l'apparenza d'un prodigioso lavoro  di  cesellatura.  Pare  che  non
debba essere  un  tranquillo  architetto  armeno  quello  che  n'ebbe  il  primo
concetto; ma un sultano innamorato il quale l'abbia visto in sogno, dormendo tra
le braccia della più ambiziosa delle sue amanti. Dinanzi si stende una  fila  di
pilastri  monumentali  di  marmo  bianco,  uniti  da  cancellate   dorate,   che
rappresentano un intreccio delicatissimo di rami e di  fiori,  e  che  viste  di
lontano sembrano cortine di  trina,  che  il  vento  debba  portar  via.  Lunghe
gradinate marmoree discendono dalle porte alla sponda e si nascondono nel  mare.
Tutto è bianco, fresco, nitido come se il palazzo fosse fatto  d'ieri.  L'occhio
d'un artista ci potrà vedere mille errori d'armonia e di gusto; ma l'insieme  di
quella mole smisurata e ricchissima, il  primo  aspetto  di  quella  schiera  di
reggie bianche come la neve, niellate come gioielli,  coronate  da  quel  verde,
riflesse da quelle  acque,  lascia  un'impressione  di  potenza,  di  mistero  e
d'amore, che fa quasi dimenticare la collina dell'antico Serraglio.  Quelli  che
ebbero la fortuna di  penetrare  fra  quelle  mura,  dicono  che  il  di  dentro
corrisponde alla facciata: che son lunghe sfilate di sale dipinte  a  fresco  di
soggetti fantastici e di colori ridenti, con porte di cedro e d'acagiù  scolpite
e ornate d'oro, che s'aprono su interminabili corridoi rischiarati da  una  luce
dolcissima, dai quali si va in altre sale  colorate  di  foco  da  cupolette  di
cristallo porporino, e in stanze da bagno che sembrano scavate in un solo blocco
di marmo di Paros; e di qui  su  terrazze  aeree,  che  pendono  sopra  giardini
misteriosi e sopra boschetti di cipressi e di rose, dai quali, per lunghe  fughe
di portici moreschi, si vede l'azzurro del mare; e finestre,  terrazze,  loggie,
chioschetti, tutto ribocca di fiori, per tutto c'è acqua che schizza  e  ricasca
in piogge vaporose sulla verzura e sui marmi, e da ogni  parte  s'aprono  vedute
divine sul Bosforo, di cui l'aria viva spande in tutti i  recessi  della  reggia
enorme un delizioso fresco  marino.  Dalla  parte  di  Funduclù  v'è  una  porta
monumentale, sopraccarica d'ornamenti; il Sultano doveva uscire da quella  porta
e attraversare la piazza. Non c'è altro re sulla terra che abbia una così  bella
piazza per fare una uscita solenne dalla  sua  reggia.  Stando  ai  piedi  della
collina, si vede da un lato la porta del palazzo, che sembra un arco di  trionfo
d'una regina; dall'altro la moschea graziosa di  Abdul-Megid,  fiancheggiata  da
due minareti gentili, in faccia,  il  Bosforo;  di  là,  le  colline  dell'Asia,
verdissime, picchiettate d'infiniti colori  dai  chioschi,  dai  palazzi,  dalle
moschee, dalle ville, che presentano  l'aspetto  d'una  grande  città  parata  a
festa; più lontano, la maestà ridente di Scutari, colla sua  corona  funebre  di
cipressi; e fra le due rive, un incrociarsi continuo di legni a vela, di navi da
guerra imbandierate, di  vaporini  affollati  che  paiono  colmi  di  fiori,  di
bastimenti asiatici di forme antiche e bizzarre, di  lancie  del  Serraglio,  di
barchette signorili, di stormi d'uccelli che radono le acque: una bellezza piena
d'allegria e di vita, dinanzi alla quale lo straniero che aspetta  l'uscita  del
corteo imperiale, non può che immaginare un  Sultano  bello  come  un  angelo  e
sereno come un fanciullo. Mezz'ora prima, v'erano già nella piazza  due  schiere
di soldati vestiti alla zuava, che dovevano far ala al passaggio del Sultano,  e
un migliaio di curiosi. Non c'è nulla di più strano della raccolta di gente  che
si vede per il solito in quell'occasione.  C'erano  ferme  qua  e  là  parecchie
splendide carrozze chiuse, con dentro delle turche "dell'alta signoria" guardate
da giganteschi eunuchi a cavallo, immobili accanto gli sportelli; alcune signore
inglesi  in  carrozze  da  nolo  scoperte;  varii  crocchi  di  viaggiatori  col
cannocchiale a tracolla, fra i quali vidi il contino conquistatore  dell'albergo
di Bisanzio, venuto forse, il crudele! per fulminare d'uno sguardo di trionfo il
suo  rivale  potente  e  infelice.  Tra  la  folla  giravano  parecchie   figure
cappellute, con un album sotto il braccio, che mi parvero disegnatori venuti per
schizzare furtivamente le sembianze imperiali. Vicino alla banda musicale  c'era
una bellissima signora francese, vestita un  po'  stranamente,  d'aspetto  e  di
atteggiamenti  arditi,  che  stava  dinanzi   a   tutti,   che   doveva   essere
un'avventuriera cosmopolitica venuta là per dar  nell'occhio  al  Gran  Signore,
poichè le si leggeva sul viso "la trepida gioia d'un gran disegno".  C'erano  di
quei vecchi turchi, sudditi fanatici  e  sospettosi,  che  non  mancano  mai  al
passaggio del loro Sultano, perchè vogliono proprio assicurarsi coi  loro  occhi
che è vivo e sano per la gloria e la prosperità dell'universo; e il Sultano esce
appunto ogni venerdì per dare  al  suo  buon  popolo  una  prova  della  propria
esistenza, potendo accadere, come accadde più volte, che la sua morte naturale o
violenta sia tenuta segreta da una congiura di corte.  C'erano  dei  mendicanti,
dei bellimbusti musulmani, degli eunuchi sfaccendati,  dei  dervis.  Fra  questi
notai un vecchio alto e sparuto, dagli occhi terribili, immobile,  che  guardava
verso la porta del palazzo con un'espressione sinistra; e pensai che  aspettasse
il Sultano per piantarglisi davanti e gridargli in faccia come il  dervis  delle
Orientali al Pascià Alì di Tepeleni: - Tu non sei che un cane e un maledetto!  -
Ma di questi ardimenti sublimi non si dà più esempio dopo la  sciabolata  famosa
di Mahmud. C'erano poi varii gruppi di donnine turche, in disparte, che parevano
gruppi di maschere, e quella solita accozzaglia di comparse da palco scenico che
è la folla di Costantinopoli. Tutte le teste  si  profilavano  sull'azzurro  del
Bosforo,  e  probabilmente  tutte  le  bocche  dicevano  le  stesse  parole.  Si
cominciava a parlare appunto in quei giorni delle stravaganze d'Abdul Aziz.  Già
da un pezzo si parlava della  sua  insaziabile  avidità  di  denaro.  Il  popolo
diceva: - Mamhud avido di sangue, Abdul-Megid  di  donne,  Abdul-Aziz  d'oro.  -
Tutte le speranze che s'erano fondate su di  lui,  principe  imperiale,  quando,
ammazzando un bue con un pugno, diceva: - Così ammazzerò la  barbarie,  -  erano
già svanite d'un pezzo. Le tendenze a una vita semplice e severa, di  cui  aveva
dato prova nei primi anni del suo regno, amando, come si diceva, una donna sola,
e ristringendo inesorabilmente le spese enormi del Serraglio, non erano più  che
una memoria. Forse erano anche anni ed anni  che  aveva  smesso  affatto  quegli
studi di legislazione, d'arte militare e di letteratura europea,  di  cui  s'era
fatto tanto scalpore, come se  in  essi  riposassero  tutte  le  speranze  della
rigenerazione dell'Impero. Da molto tempo non pensava più che a sè stesso.  Ogni
momento correva la voce di qualche sua escandescenza contro  il  ministro  delle
finanze che non voleva o non poteva  dargli  tutto  il  denaro  ch'egli  avrebbe
voluto. Alla prima obbiezione scaraventava addosso alla  malcapitata  Eccellenza
il primo oggetto che gli cadeva nelle mani, recitando per filo e per segno,  con
quanta voce aveva in gola, la formola antica del giuramento  imperiale:  per  il
Dio creatore del cielo e della terra, per il  profeta  Maometto,  per  le  sette
varianti del Corano, per i centoventiquattromila profeti di Dio, per l'anima  di
mio nonno e per l'anima di mio padre, per i miei  figli  e  per  la  mia  spada,
portami del danaro o faccio piantare la tua  testa  sulla  punta  del  più  alto
minareto di Stambul. E per un verso o per un altro veniva a  capo  di  quel  che
voleva, e il danaro estorto in quella maniera, ora lo ammucchiava e se lo covava
gelosamente come un avaro volgare, ora lo profondeva a piene  mani  in  capricci
puerili. Oggi era  il  capriccio  dei  leoni,  domani  delle  tigri,  e  mandava
incettatori nelle Indie e nell'Affrica;  poi  per  un  mese  filato  cinquecento
pappagalli facevano risonare i giardini imperiali della stessa parola;  poi  gli
pigliava il furore delle  carrozze  e  dei  pianoforti  che  voleva  far  sonare
sorretti dalla schiena di quattro schiavi; poi la mania  dei  combattimenti  dei
galli, a cui assisteva con entusiasmo, e appendeva di sua mano una  medaglia  al
collo dei vincitori, e cacciava in esilio, di là dal Bosforo, i  vinti;  poi  la
passione del gioco, dei chioschi, dei quadri; la corte pareva tornata  ai  tempi
del primo Ibraim; ma il povero principe non trovava pace, non faceva che passare
da una noja mortale a un'inquietudine tormentosa; era torbido e  triste;  pareva
che presentisse la fine infelice che lo aspettava. A volte si ficcava  nel  capo
di dover morire avvelenato, e per un pezzo, diffidando di  tutti,  non  mangiava
più che ova sode; altre volte, preso dal terrore degl'incendi,  faceva  togliere
dalle sue stanze tutti gli oggetti di legno, persino le cornici  degli  specchi.
In quel tempo appunto si diceva che, per paura del fuoco, leggesse di  notte  al
lume d'una candela piantata in un secchio d'acqua. E malgrado queste follie,  di
cui si diceva che fosse la prima cagione una cagione  che  non  c'è  bisogno  di
dire, egli conservava tutta la forza imperiosa della volontà  antica,  e  sapeva
farsi obbedire e faceva tremare i  più  arditi.  La  sola  persona  che  potesse
sull'animo suo era sua madre, donna d'indole altera e vana, che nei  primi  anni
del suo regno faceva coprire di tappeti di broccato le strade dove  passava  suo
figlio per andare alla moschea, e il giorno dopo  regalava  tutti  quei  tappeti
agli schiavi che li andavano a levare. Però, anche nel disordine della sua  vita
affannosa, fra l'uno e l'altro dei suoi grandi capricci, Abdul Aziz  aveva  pure
dei capricci piccolissimi, come quello di volere sopra una data porta un dipinto
a fresco di natura morta, con quei certi frutti e quei certi fiori, combinati in
quella data maniera, e prescriveva accuratamente ogni cosa al pittore,  e  stava
là lungo tempo a contare le pennellate, come se non  avesse  altro  pensiero  al
mondo. Di tutte queste bizzarrie, frangiate chi sa come dalle mille  bocche  del
Serraglio, tutta la città parlava, e forse fin d'allora s'andavano  raccogliendo
le prime fila della congiura che lo rovesciò dal trono due  anni  dopo.  La  sua
caduta, come dicono i Musulmani, era già scritta, e con essa la sentenza che  fu
poi pronunziata sopra di lui e sopra il suo regno. La quale non è molto  diversa
da quella che si potrebbe dare su quasi tutti  i  Sultani  degli  ultimi  tempi.
Principi  imperiali,  spinti  verso  la   civiltà   europea   da   un'educazione
superficiale, ma varia e libera, e dal fervore della  giovinezza  desiderosa  di
novità e di gloria, vagheggiano, prima di salire sul trono,  grandi  disegni  di
riforme e di rinnovamenti, e fanno il proposito fermo e sincero  di  dedicare  a
quel fine tutta la loro vita, che dovrà essere una vita austera di lavoro  e  di
lotta. Ma dopo qualche anno di regno e di lotte  inutili,  circondati  da  mille
oracoli, inceppati da tradizioni e da  consuetudini  avversati  dagli  uomini  e
dalle cose, spaventati dalla grandezza non prima misurata  dell'impresa,  se  ne
sdanno sfiduciati, per domandare ai piaceri quello che non possono  avere  dalla
gloria, e perdono a poco a poco, in una vita tutta sensuale, perfino la  memoria
dei primi propositi e la coscienza del loro  avvilimento.  Così  accade  che  al
sorgere d'ogni nuovo Sultano si  faccia  sempre,  e  non  senza  fondamento,  un
pronostico felice a cui segue sempre  un  disinganno.  Abdul-Aziz  non  si  fece
aspettare. All'ora fissata, s'udì uno squillo di tromba,  la  banda  intonò  una
marcia di guerra, i soldati presentarono le armi, un drappello di lancieri  uscì
improvvisamente dalla porta del  palazzo,  e  si  vide  apparire  il  Sultano  a
cavallo, che venne innanzi lentamente, seguito dal suo corteo. Mi passò  dinanzi
a pochi passi, ed ebbi tutto il  tempo  di  considerarlo  attentamente.  La  mia
immaginazione fu stranamente delusa. Il re dei re,  il  sultano  scialacquatore,
violento, capriccioso, imperioso, - che era allora  sui  quarantaquattr'anni,  -
aveva l'aspetto di una buonissima pasta di turco, che  si  trovasse  a  fare  il
sultano senza saperlo. Era un uomo tarchiato e grasso, un bel faccione  con  due
grandi occhi sereni e una barba intera e corta, già un po' brizzolata di bianco;
aveva una fisonomia aperta e mansueta,  un  atteggiamento  naturalissimo,  quasi
trascurato; e uno  sguardo  quieto  e  lento  in  cui  non  appariva  la  minima
preoccupazione dei mille sguardi che  gli  erano  addosso.  Montava  un  cavallo
grigio bardato d'oro,  di  bellissime  forme,  tenuto  per  le  briglie  da  due
palafrenieri sfolgoranti. Il corteo lo seguiva a grande distanza,  e  da  questo
solo si poteva capire che era il Sultano. Il suo  vestimento  era  modestissimo.
Aveva un semplice fez, un lungo soprabito di color scuro abbottonato  fin  sotto
il mento, un paio di calzoni chiari e gli stivali di marocchino. Veniva  innanzi
lentissimamente, guardando intorno con un'espressione  tra  benevola  e  stanca,
come se volesse dire agli spettatori: - Ah!  se  sapeste  come  mi  secco!  -  I
musulmani s'inchinavano profondamente; molti europei si  levavano  il  cappello:
egli non restituì il saluto a nessuno. Passando dinanzi a noi, diede uno sguardo
a un ufficiale d'alta statura che lo salutava colla sciabola, un  altro  sguardo
al Bosforo, e poi uno sguardo più lungo a due giovani  signore  inglesi  che  lo
guardavano da una carrozza, e che si fecero rosse come due fragole. Osservai che
aveva la mano bianca e ben fatta, ed era appunto la mano  destra,  colla  quale,
due anni dopo, si aperse le vene nel bagno. Dietro di lui passò  uno  stuolo  di
pascià, di cortigiani, di pezzi grossi, a cavallo;  quasi  tutti  omaccioni  con
gran  barbe  nere,  vestiti  senza  pompa,  silenziosi,  gravi,  cupi,  come  se
accompagnassero un convoglio funebre; dopo, un  drappello  di  palafrenieri  che
conducevano a mano dei cavalli superbi; poi uno stuolo d'ufficiali a  piedi  col
petto coperto di cordoni d'oro; passati i quali, i soldati abbassarono le  armi,
la folla si sparpagliò per la piazza, ed io  rimasi  là  immobile,  cogli  occhi
fissi sulla cima del monte Bulgurlù, pensando alla singolarissima condizione  in
cui si trova un sultano di Stambul. È un monarca maomettano, pensavo,  e  ha  la
reggia ai piedi di una città cristiana, Pera, che  gli  torreggia  sul  capo.  È
sovrano assoluto d'uno dei più vasti imperi del  mondo,  e  ci  sono  nella  sua
metropoli, poco lontano da lui, dentro ai grandi palazzi che sovrastano  al  suo
Serraglio, quattro o cinque stranieri cerimoniosi che la  fanno  da  padroni  in
casa sua, e che trattando con lui, nascondono sotto un linguaggio reverente  una
minaccia perpetua che lo fa tremare. Ha nelle  mani  un  potere  smisurato,  gli
averi e la vita di milioni di sudditi, il mezzo di soddisfare i suoi  più  pazzi
desiderii, e non può cambiare la forma della sua copertura di capo. È circondato
da un esercito di cortigiani e di  guardie,  che  bacerebbero  l'orma  dei  suoi
piedi, e trema  continuamente  per  la  propria  vita  e  per  quella  dei  suoi
figliuoli. Possiede mille donne fra le più belle  donne  della  terra,  ed  egli
solo, tra tutti i musulmani del suo impero, non può dare la mano di sposo a  una
donna libera, non può aver che figli di schiave, ed è chiamato  egli  stesso:  -
Figlio di schiava, - da quello stesso popolo che lo chiama "ombra  di  Dio".  Il
suo nome suona riverito e terribile dagli ultimi  confini  della  Tartaria  agli
ultimi confini  del  Maghreb,  e  nella  sua  stessa  metropoli  v'è  un  popolo
innumerevole, e sempre crescente, su cui non ha ombra di potere e che si ride di
lui, della sua forza e della sua fede.  Su  tutta  la  faccia  del  suo  immenso
impero, fra le tribù più miserabili delle provincie più lontane, nelle moschee e
nei conventi più solitarii delle terre più selvaggie, si prega ardentemente  per
la sua vita e per la sua gloria; ed egli non può fare un passo nei  suoi  stati,
senza trovarsi in mezzo a nemici che lo esecrano e che invocano sul suo capo  la
vendetta di Dio. Per tutta la parte del mondo che si  stende  dinanzi  alla  sua
reggia, egli è uno dei più augusti e più formidabili monarchi dell'universo; per
quella che gli si stende alle spalle, è il più debole, il più  pusillo,  il  più
miserevole uomo che porti una corona sul capo. Una corrente  enorme  d'idee,  di
volontà, di forze contrarie alla natura e alle tradizioni della sua potenza,  lo
avvolge, lo soverchia, trasforma sotto di lui,  intorno  a  lui,  suo  malgrado,
senza che se n'avveda, consuetudini, leggi, usi, credenze, uomini, ogni cosa. Ed
egli è là, tra l'Europa e l'Asia, nel suo smisurato palazzo  bagnato  dal  mare,
come in una nave pronta a far vela, in mezzo a una confusione infinita d'idee  e
di cose, circondato d'un fasto favoloso e d'una miseria immensa, già non più  nè
due nè uno, non più vero musulmano, non ancora vero europeo, regnante  sopra  un
popolo già in parte mutato, barbaro di sangue, civile d'aspetto,  bifronte  come
Giano, servito come un nume, sorvegliato come uno schiavo,  adorato,  insidiato,
accecato, e intanto ogni giorno che passa spegne un raggio della sua  aureola  e
stacca una pietra dal suo piedestallo. A me pare che se fossi in lui, stanco  di
quella  condizione  così  singolare  nel  mondo,  sazio  di  piaceri,  stomacato
d'adulazioni, affranco dai sospetti, indignato di quella sovranità malsicura  ed
oziosa sopra quel disordine senza nome, qualche volta, nell'ora in cui  l'enorme
Serraglio è immerso nel sonno, mi butterei a nuoto nel Bosforo come un  galeotto
fuggitivo, e andrei a passar la notte in una taverna di Galata in  mezzo  a  una
brigata di marinai, con un bicchiere di birra in mano e una pipa di gesso fra  i
denti, urlando la marsigliese. Dopo una mezz'ora, il Sultano ripassò rapidamente
in carrozza chiusa, seguito da un drappello d'ufficiali a piedi, e lo spettacolo
fu finito. Di tutto, quello che  mi  fece  un  senso  più  vivo,  furono  quegli
ufficiali in grande uniforme, che correvano  saltellando,  come  una  frotta  di
lacchè, dietro la carrozza imperiale. Non  vidi  mai  una  prostituzione  simile
della divisa militare. Questo spettacolo del passaggio del Sultano, è ora,  come
si vede, una cosa assai meschina. I  sultani  d'altri  tempi  uscivano  in  gran
pompa, preceduti e seguiti da un nuvolo di cavalieri, di schiavi, di guardie dei
giardini,  d'eunuchi,  di  ciambellani,  che  visti  di  lontano,   presentavano
l'aspetto, come  dicevano  i  cronisti  entusiastici,  "d'una  vasta  aiuola  di
tulipani." I sultani d'oggi  invece  par  che  rifuggano  dalle  pompe  come  da
un'ostentazione teatrale della grandezza perduta. Io mi domando sovente che cosa
direbbe uno di quei primi  monarchi  se,  risorgendo  per  un  momento  dal  suo
sepolcro di Brussa o dal suo turbè di Stambul, vedesse  passare  uno  di  questi
suoi nepoti del secolo diciannovesimo, insaccato in  un  soprabito  nero,  senza
turbante, senza spada, senza gemme, in mezzo a una folla di stranieri insolenti.
Io credo che arrossirebbe di rabbia e di vergogna, e che  in  segno  di  supremo
disprezzo gli farebbe, come Solimano I ad Hassan, tagliare la barba a  colpi  di
scimitarra, che è la più crudele ingiuria che si  passa  fare  a  un  osmano.  E
veramente, fra i sultani d'ora e quei primi, i cui nomi risonarono in Europa tra
il secolo XII e il XVI come scoppi di folgore, corre la  stessa  differenza  che
tra l'impero ottomano dei nostri  giorni  e  quello  dei  primi  secoli.  Quelli
raccoglievano davvero in sè la gioventù, la bellezza  e  il  vigore  della  loro
razza; e non erano soltanto un'immagine vivente del proprio  popolo,  una  bella
insegna, una perla preziosa della spada dell'islamismo; ma ne  costituivano  per
sè soli una vera forza, e tale, che non c'è chi possa  disconoscere  nelle  loro
qualità personali una delle cagioni più  efficaci  del  meraviglioso  incremento
della potenza ottomana. Il più bel periodo è quello della prima giovinezza della
dinastia che abbraccia centonovantatrè anni da Osmano a Maometto II.  Quella  fu
davvero una catena di principi fortissimi, e fatta una sola eccezione, e  tenuto
conto dei tempi e delle condizioni della razza, austeri  e  saggi  e  amati  dai
propri sudditi; spesso feroci, ma di rado ingiusti, e sovente anche  generosi  e
benefici verso i nemici; e tutti poi quali si capisce che dovessero  essere  dei
principi di quella gente, belli e tremendi d'aspetto, leoni veri, come  le  loro
madri  li  chiamavano  "di  cui  il  ruggito  faceva  tremare  la  terra."   Gli
Abdul-Megid, gli Abdul-Aziz, i Murad, gli Hamid non sono che larve  di  padiscià
in confronto di quei giovani formidabili, figli di madri di quindici e di  padri
di diciott'anni, nati dal fiore del sangue tartaro e dal  fiore  della  bellezza
greca, persiana, caucasea. A quattordici anni comandavano eserciti e governavano
provincie, e ricevevano in premio dalle proprie madri  delle  schiave  belle  ed
ardenti come loro. A sedici anni erano già  padri,  a  settanta  lo  diventavano
ancora. Ma l'amore non infiacchiva in loro la tempra gagliardissima dell'animo e
delle membra. L'animo era di ferro, dicevano i poeti, e il corpo era  d'acciaio.
Avevano tutti certi tratti  comuni,  che  si  perdettero  poi  nei  loro  nepoti
degeneri: la fronte alta, le sopracciglia  arcate  e  riunite  come  quelle  dei
persiani, gli occhi azzurrini dei figli delle steppe, il  naso  che  si  curvava
sulla bocca purpurea "come il  becco  d'un  pappagallo  sopra  una  ciliegia"  e
foltissime barbe nere, per le quali i poeti del serraglio si stillavano a cercar
paragoni gentili o terribili. Avevano "lo sguardo dell'aquila di monte  Tauro  e
la forza del re del deserto; colli di toro, larghissime spalle, petti  sporgenti
che  poteva  contenere  tutta  l'ira  guerriera  dei   loro   popoli",   braccia
lunghissime, articolazioni colossali, gambe corte ed arcate, che facevano nitrir
di  dolore  i  più  vigorosi  cavalli  turcomanni,  e  grandi  mani  irsute  che
palleggiavano come canne le mazze e gli archi enormi dei loro soldati di bronzo.
E portavano dei soprannomi degni di loro: il lottatore, il campione, la folgore,
lo stritolatore d'ossa, lo spargitore di sangue. La  guerra  era  dopo  Allà  il
primo dei loro pensieri, e la morte era  l'ultimo.  Non  avevano  il  genio  dei
grandi capitani, ma erano dotati tutti di quella prontezza  di  risoluzione  che
quasi sempre vi supplisce, e di quella feroce ostinatezza che  consegue  non  di
rado i medesimi effetti. Trasvolavano, come furie alate, pei campi di battaglia,
mostrando di lontano le lunghe penne d'airone confitte nei turbanti  candidi,  e
gli ampi caffettani  tessuti  d'oro  e  di  porpora,  e  i  loro  urli  selvaggi
ricacciavano innanzi le schiere  macellate  dalla  mitraglia  serba  e  tedesca,
quando non bastavano più i nerbi di bue di mille sciaù furibondi.  Lanciavano  i
loro cavalli a nuoto nei fiumi mulinando al disopra delle  acque  le  scimitarre
stillanti di sangue; afferravano  per  la  strozza  e  stramazzavano  di  sella,
passando, i pascià infingardi o vigliacchi;  balzavano  giù  da  cavallo,  nelle
rotte, e piantavano i loro pugnali scintillanti di rubini nel dorso dei  soldati
fuggiaschi; e feriti a morte, salivano, comprimendo la ferita, sopra  un  rialto
del campo, per mostrare ai loro giannizzeri il volto smorto ma ancora minacciane
e imperioso, finchè cadevano ruggendo di rabbia ma non di dolore.  Quale  doveva
essere il sentimento di quelle loro giovanette circasse o persiane appena uscite
dalla puerizia, quando per la prima volta, la sera  d'un  giorno  di  battaglia,
sotto una tenda purpurea, al lume velato d'una lampada,  si  vedevano  comparire
davanti uno di quei sultani spaventosi e superbi, inebbriati  dalla  vittoria  e
dal sangue? Ma allora essi diventavano dolci e amorosi, e stringendo quelle mani
infantili nelle loro gigantesche mani ancora convulse dalla stretta della spada,
cercavano mille immagini dai fiori dei  loro  giardini,  dalle  perle  dei  loro
pugnali, dai più belli uccelli dei loro boschi, dai più bei colori delle  aurore
dell'Anatolia e della Mesopotamia per lodare  la  bellezza  delle  loro  schiave
tremanti, fin che esse prendevano animo,  e  rispondevano  nel  loro  linguaggio
appassionato e fantastico: - Corona del mio capo! Gloria  della  mia  vita!  Mio
dolce e tremendo Signore! Che il tuo volto sia sempre bianco e splendido nei due
mondi dell'Asia e dell'Europa! Che la vittoria ti segua da  per  tutto  dove  ti
porterà il tuo cavallo! Che la tua ombra si stenda  sopra  tutta  la  terra!  Io
vorrei essere una rosa per olezzare sulla cima del tuo turbante, o una  farfalla
per battere le ali sulla tua fronte! - E poi, colla voce velata, raccontavano  a
quei grandi amanti appagati, che s'assopivano sul  loro  seno,  le  loro  storie
fanciullesche di palazzi di smeraldo e di montagne d'oro,  mentre  intorno  alla
tenda, per la campagna insanguinata ed oscura,  l'esercito  feroce  dormiva.  Ma
essi lasciavano ogni mollezza sulla soglia dell'arem, e uscivano da quegli amori
più fieri e più ardenti. Erano dolci nell'arem, feroci sul  campo,  umili  nella
moschea, superbi sul trono. Di qui  parlavano  un  linguaggio  pieno  d'iperboli
sfolgoranti e di minacce fulminee,  ed  ogni  loro  sentenza  era  una  sentenza
irrevocabile che bandiva  una  guerra,  o  innalzava  un  uomo  all'apice  della
fortuna, o faceva rotolare una testa ai piedi del trono, o scatenava un  uragano
di ferro o di foco sopra una provincia ribelle. Così turbinando dalla Persia  al
Danubio e dall'Arabia alla Macedonia, fra le battaglie, i  trionfi,  le  caccie,
gli amori, passavano dal fiore degli anni a una  virilità  più  bollente  e  più
audace della giovinezza, e poi a una vecchiaia della quale non s'accorgeva nè il
seno delle loro belle nè il dorso dei loro cavalli nè l'elsa della loro spada. E
non solo nella vecchiaia, anche  nell'età  verde  avveniva  qualche  volta  che,
oppressi dal sentimento della  loro  mostruosa  potenza,  sgomentati  tutt'a  un
tratto,  nel  furore  delle  vittorie  e  dei  trionfi,  dalla  coscienza  d'una
responsabilità più che umana, e presi da una specie di terrore nella  solitudine
della propria altezza, si volgevano con tutta  l'anima  a  Dio,  e  passavano  i
giorni e le notti nei  recessi  oscuri  dei  loro  giardini  a  comporre  poesie
religiose, o andavano a meditare il Corano sulle rive del mare o  a  ballare  le
ridde frenetiche dei dervis o a  macerarsi  coi  digiuni  e  coi  cilicii  nella
caverna  d'un  vecchio  eremita.  E  come  nella  vita,  così  nella  morte   si
presentarono quasi tutti ai loro popoli in una figura o venerabile  o  tremenda,
sia che morissero colla serenità dei  santi  come  il  capo  della  dinastia,  o
carichi d'anni di gloria  e  di  tristezza  come  Orkano,  o  del  pugnale  d'un
traditore come Murad  I,  o  nella  disperazione  dell'esilio  come  Baiazet,  o
conversando placidamente fra una corona di  dotti  e  di  poeti  come  il  primo
Maometto, o del dolore d'una sconfitta come il secondo Murad; e si può  dir  con
sicurezza che i loro fantasmi minacciosi sono quanto rimarrà di più grande e  di
più poetico sugli orizzonti color di sangue della storia ottomana.

LE TURCHE

È una grande sorpresa per chi arriva a Costantinopoli, dopo aver  inteso  parlar
tanto della schiavitù delle donne turche, il veder donne da tutte le parti  e  a
tutte le ore del giorno, come in una qualunque città europea. Pare  che  appunto
in quel giorno a tutte quelle rondini prigioniere sia stato dato il volo per  la
prima volta e che sia cominciata un'èra  nuova  di  libertà  per  il  bel  sesso
musulmano. La prima impressione è curiosissima.  Lo  straniero  si  domanda,  al
vedere tutte le donne con quei veli bianchi e  quelle  lunghe  cappe  di  colori
ciarlataneschi, se son maschere o monache o pazze; e siccome non se ne vede  una
sola accompagnata da un uomo, pare che non debbano essere di nessuno, che  siano
tutte vedove o ragazze, o che appartengano tutte a un qualche grande  ritiro  di
"malmaritate". Nei primi giorni non ci si può persuadere che tutti quei turchi e
tutte quelle turche che s'incontrano  e  si  toccano  senza  guardarsi  e  senza
accompagnarsi mai, possano avere tra loro qualcosa di comune. E ogni momento s'è
costretti a fermarsi per osservare quelle strane figure e per meditare su quello
stranissimo  uso.  Son  queste  dunque,  si  dice,  son  proprio  queste  quelle
"avvincitrici di cuori", quelle "fonti di piacere", quelle  "piccole  foglie  di
rosa" e "uve primaticcie" e "rugiade del mattino" e "aurore" e "vivificatrici" e
"lune splendenti" di cui mille poeti ci hanno empita la testa? Queste le hanum e
le odalische misteriose, che a vent'anni, leggendo le  ballate  di  Victor  Hugo
all'ombra d'un giardino, abbiamo sognate tante volte, come creature  d'un  altro
mondo, di cui un solo amplesso avrebbe consunto  tutte  le  forze  della  nostra
giovinezza? Queste le belle  infelici,  nascoste  dalle  grate,  vigilate  dagli
eunuchi, separate dal mondo, che passano sulla terra, come  larve,  gettando  un
grido di voluttà e un grido di dolore? Vediamo che cosa c'è ancora  di  vero  in
tutta questa poesia.

-

Prima di tutto, il viso della donna turca non è più un  mistero,  e  perciò  una
gran parte della poesia che la circondava  è  svanita.  Quel  velo  geloso  che,
secondo il Corano, doveva essere "un  segno  della  sua  virtù  e  un  freno  ai
discorsi del mondo", non è più che un'apparenza. Tutti sanno  come  è  fatto  il
jasmac. Sono due grandi veli bianchi, di cui uno, stretto intorno al  capo  come
una benda, copre la fronte fino alle sopracciglia, s'annoda dietro, nei capelli,
al di sopra della nuca, e ricade sulla schiena, in due lembi, fino alla cintura;
l'altro copre tutta la parte inferiore del viso, e va ad annodarsi col primo, in
modo che par tutto un velo solo. Ma questi due veli, che  dovrebbero  essere  di
mussolina e stretti in maniera da non lasciar vedere che gli occhi e la  sommità
delle guancia, sono invece di tulle radissimo, e allentati tanto,  che  lasciano
vedere non solo il viso, ma gli orecchi, il collo, le treccie, e spesso anche  i
cappellini all'europea, ornati di penne e  di  fiori,  che  portano  le  signore
"riformate". E perciò accade appunto il contrario di quello che  si  vedeva  una
volta, quando alle donne attempate era lecito di andare  col  viso  un  po'  più
scoperto, e alle giovani era imposto di coprirsi più rigorosamente. Ora  son  le
giovani, e specialmente le belle, quelle  che  si  mostrano  meglio,  e  son  le
vecchie che per ingannare il mondo portano  il  velo  fitto  e  serrato.  Quindi
un'infinità di bei misteri e di belle sorprese, raccontate dai romanzieri e  dai
poeti, non sono più possibili; ed è una fiaba, fra le altre, quella che lo sposo
veda per la prima volta il viso della sua sposa nella notte nuziale. Ma  fuorchè
il viso, tutto è ancora nascosto; non si può intravvedere  nè  il  seno,  nè  la
vita, nè il braccio, nè il fianco; il feregé nasconde rigorosamente ogni cosa. È
una specie di tonaca, guernita d'una pellegrina, di maniche lunghissime,  larga,
senza garbo, cadente come un  mantellaccio  dalle  spalle  ai  piedi,  di  panno
l'inverno, di seta l'estate, e tutta d'un colore, quasi  sempre  vivissimo:  ora
rosso vivo, ora ranciato, ora verde; e l'uno o l'altro predomina d'anno in anno,
rimanendo inalterata la forma. Ma benchè insaccate in quel modo, tanta è  l'arte
con cui sanno aggiustarsi il jasmac, che le belle paiono bellissime, e le brutte
graziose. Non si può dire che cosa fanno con quei due veli, con che grazia se li
dispongono a corona e a turbante, con che ampiezza e con che nobiltà  di  pieghe
li ravvolgono e  li  sovrappongono,  con  che  leggerezza  e  con  che  elegante
trascuranza li allentano e li lasciano  cadere,  come  li  fanno  servire  nello
stesso  tempo  a  mostrare,  a  nascondere,  a  promettere,  a  proporre   degli
indovinelli e a rivelare inaspettatamente delle piccole meraviglie. Alcune  pare
che abbiano intorno al capo una nuvola bianca e diafana, che debba svanire ad un
soffio; altre sembrano inghirlandate di gigli e di gelsomini;  tutte  paiono  di
pelle bianchissima, e prendono da quei veli delle sfumature nivee e un'apparenza
di morbidezza e di freschezza  che  innamora.  È  un'acconciatura  ad  un  tempo
austera e ridente, che ha qualche cosa di sacerdotale e di  virgineo;  sotto  la
quale pare che non debbano nascere che pensieri gentili e capricci innocenti....
Ma vi nasce un po' d'ogni cosa.

-

È difficile definire la bellezza della donna turca. Posso  dire  che  quando  ci
penso  vedo  un  viso  bianchissimo,  due  occhi  neri,  una  bocca  purpurea  e
un'espressione di dolcezza. Quasi tutte però son dipinte. S'imbiancano  il  viso
con pasta di mandorle  e  di  gelsomino,  s'ingrandiscono  le  sopracciglia  con
inchiostro di china, si tingono le palpebre, s'infarinano il collo, si fanno  un
cerchio nero intorno agli occhi, si mettono  dei  nei  sulle  guance.  Ma  fanno
questo con garbo; non come le belle di Fez, che si  danno  delle  pennellate  da
imbianchini. La maggior parte hanno un bel contorno  ovale,  un  nasino  un  po'
arcato, le labbra grossette, il mento rotondo, colla fossetta;  molte  hanno  le
fossette anche nelle guance;  un  bel  collo  lunghetto  e  flessibile;  e  mani
piccine, quasi sempre coperte, peccato, dalle maniche della cappa.  Quasi  tutte
poi sono grassotte e  moltissime  di  statura  più  che  mezzana:  rarissime  le
acciughe e i crostini dei nostri paesi. Se hanno un difetto comune, è quello  di
camminar curve e un  po'  scomposte,  con  una  certa  cascaggine  di  bambolone
cresciute tutt'a un tratto; il che deriva, si dice, da una mollezza  di  membra,
di cui è cagione l'abuso del bagno, ed anche un po' dalla  calzatura  disadatta.
Si vedono, infatti, delle donnine elegantissime, che debbono avere un piedino di
nulla, calzate di babbuccie da uomo o di stivaletti lunghi, larghi e aggrinziti,
che una pezzente europea sdegnerebbe. Ma anche in quella brutta  andatura  hanno
un certo garbo fanciullesco che, quando ci si è fatto  l'occhio,  non  dispiace.
Non si vede nessuna di quelle figure impettite, di  quelle  mostre  da  modista,
così frequenti nelle città europee, che vanno a passetti di  marionetta,  e  che
par che saltellino sopra uno scacchiere. Non hanno ancora perduto la  pesantezza
e  la  trascuranza  naturale  dell'andatura  orientale,  e  se  la   perdessero,
riuscirebbero forse più maestose, ma meno simpatiche.  Si  vedono  delle  figure
bellissime e di bellezza  infinitamente  svariata,  poichè  c'entra  col  sangue
turco, il sangue circasso, l'arabo,  il  persiano.  Ci  sono  delle  matrone  di
trent'anni, di forme opulente, che il feregé non basta a nascondere,  altissime,
con grandi occhi scuri, colle labbra tumide, colle narici dilatate, -  pezzi  di
hanum da far tremare cento schiave con uno sguardo,  -  vedendo  le  quali,  par
davvero una ridicola e  temeraria  spacconata  quella  dei  signori  turchi  che
pretendono d'esser  quattro  volte  mariti.  Ce  n'è  dell'altre,  piccolette  e
paffutelle, che han tutto rotondo - volto, occhi, naso, bocca - ed un'aria  così
queta, così benevola, così bambina, un'apparenza di rassegnazione così docile al
loro destino, di non essere che un trastullo e una ricreazione, che  passandogli
accanto, vi verrebbe voglia di mettergli in bocca  una  caramella.  Ci  son  poi
anche le figurine svelte, sposine di sedici anni, ardite  e  vivacissime,  cogli
occhi pieni di capricci e d'astuzie, che fanno  pensare  con  un  sentimento  di
pietà al povero effendi che le ha da tenere in freno e al disgraziato eunuco che
le deve tener d'occhio. E la città si presta mirabilmente a inquadrare, per  dir
così, la loro bellezza e  il  loro  vestiario.  Bisogna  vedere  una  di  quelle
figurine col velo bianco e col feregé purpureo, seduta in un  caicco,  in  mezzo
all'azzurro del Bosforo; o adagiata sull'erba, in  mezzo  al  verde  bruno  d'un
cimitero; o anche meglio, vederla venir giù per una stradetta ripida e solitaria
di Stambul, chiusa in fondo da un grande platano, quando tira vento, e i veli  e
il feregé svolazzano, e scoprono collo, piedino e calzina; e v'assicuro  che  in
quel momento, se fosse sempre in vigore  l'indulgente  decreto  di  Solimano  il
Magnifico, che multa d'un aspro ogni bacio dato  alla  moglie  e  alla  figliola
altrui, allungherebbe un calcio all'avarizia anche Arpagone. E non c'è caso  che
quando tira vento, la donna turca s'affanni a tener basso il feregé,  perchè  il
pudore delle musulmane non va più in giù delle ginocchia,  e  s'arresta  qualche
volta assai prima.

-

Una cosa che stupisce, sulle prime, è la loro maniera di guardare e  di  ridere,
che scuserebbe qualunque giudizio  più  temerario.  Accade  spessissimo  che  un
giovane europeo, guardando fisso una donna  turca,  anche  di  alto  bordo,  sia
ricambiato con uno sguardo sorridente o  con  un  sorriso  aperto.  Non  è  raro
nemmeno che una bella hanum in carrozza,  faccia,  di  nascosto  all'eunuco,  un
saluto grazioso colla mano a un giovanotto  franco  a  cui  si  sia  accorta  di
piacere. Qualche volta, in un cimitero o in  una  strada  appartata,  una  turca
capricciosa s'arrischia perfino a gettare  un  fiore  passando,  o  a  lasciarlo
cadere in terra coll'intenzione manifesta che sia raccolto dal giaurro  elegante
che le vien dietro. Per questo un viaggiatore  fatuo  può  prendere  dei  grandi
abbagli, e ci sono infatti degli europei scimuniti, che, essendo stati un mese a
Costantinopoli, credono in buona fede d'aver rubata la pace a  un  centinaio  di
sventurate.  C'è  senza  dubbio,  in  quegli  atti,  un'espressione  ingenua  di
simpatia; ma c'entra in parte assai maggiore  uno  spirito  di  ribellione,  che
tutte le turche hanno in cuore, nato dall'uggia della  soggezione  in  cui  sono
tenute, e al quale danno sfogo, come e quando possono,  in  piccole  monellerie,
non fosse che per far dispetto, in segreto, ai loro padroni. Fanno in quel  modo
più per fanciullaggine che per civetteria. E la loro civetteria  è  d'un  genere
singolarissimo, che somiglia molto ai primi esperimenti delle  ragazzine  quando
cominciano ad accorgersi d'esser guardate. È un gran ridere, un guardare  in  su
colla bocca aperta in atto di stupore, un fingere d'aver male al capo  o  a  una
gamba, certi atti di dispetto il  feregé  che  le  imbarazza,  certi  scatti  da
scolarette, che sembran fatti più  per  far  ridere  che  per  sedurre.  Mai  un
atteggiamento da salotto o da fotografia.  Quella  po'  d'arte  che  mostrano  è
proprio un'arte rudimentale. Si vede, come direbbe il Tommaseo,  che  non  hanno
molti veli da gettar via; che non sono abituate  ai  lunghi  amoreggiamenti,  ad
"essere circuite alla muta" come le donne geroglifiche del Giusti; e che  quando
hanno una simpatia, invece di star lì tanto a sospirare e  a  girar  gli  occhi,
direbbero addirittura, se potessero esprimere il loro sentimento:  -  Cristiano,
tu mi piaci. - Non potendolo  dire  colla  voce,  glie  lo  dicono  francamente,
mostrando due belle file di perle luccicanti, ossia ridendogli  sul  viso.  Sono
belle tartare ingentilite.

-

E son libere: è una verità che lo straniero tocca con mano  appena  arrivato.  È
una esagerazione il dire come Lady Montague che son più libere delle europee; ma
chiunque è stato a Costantinopoli non può a meno di ridere quando sente  parlare
della loro "schiavitù".  Le  signore,  quando  vogliono  uscire,  ordinano  agli
eunuchi di preparar la carrozza, escono senza chiedere il permesso a nessuno,  e
tornano a casa quando vogliono,  purchè  sia  prima  di  notte.  Una  volta  non
potevano uscire senz'essere accompagnate da un eunuco, o da una  schiava,  o  da
un'amica, e le più ardite, se non volevano altri, dovevano almeno condur con  sè
un figlioletto, che fosse come un titolo al rispetto della gente. Se qualcheduna
si faceva veder sola in un luogo appartato, era facilissimo che una  guardia  di
città o un qualunque vecchio turco rigorista la fermasse e le domandasse: - Dove
vai? D'onde vieni? Perchè non hai nessuno con te? Così rispetti il tuo  effendi?
Torna a casa! - Ma ora escon sole a centinaia, e se ne vedono a tutte le ore per
le vie dei sobborghi musulmani e della città franca. Vanno  a  far  visita  alle
amiche da un capo all'altro di Stambul, vanno  a  passar  delle  mezze  giornate
nelle case di bagni, fanno delle gite in barchetta, il giovedì alle Acque  dolci
d'Europa, la domenica alle acque d'Asia, il venerdì al cimitero di Scutari,  gli
altri giorni alle isole dei Principi, a Terapia, a Bujukderé, a Kalender, a  far
merenda colle loro schiave, in brigatelle di otto o dieci; vanno a pregare  alle
tombe dei Padiscià e delle Sultane, a vedere i conventi dei dervis,  a  visitare
le mostre pubbliche dei corredi nuziali, e non c'è effigie d'uomo,  non  che  le
accompagni o le  segua,  ma  che,  se  anche  son  sole,  ardisca  di  far  loro
un'osservazione. Vedere un turco in  una  via  di  Costantinopoli,  non  dico  a
braccetto, ma al fianco, ma fermo per un momento a discorrere con una  "velata",
quando anche portassero scritto in fronte che son marito e  moglie,  parrebbe  a
tutti la più strana delle stranezze, o per meglio  dire  un'impudenza  inaudita,
come nelle nostre vie un uomo e una donna che si facessero ad  alta  voce  delle
dichiarazioni d'amore. Da questo lato le donne turche sono veramente più  libere
che le europee, e non si può dire questa libertà quanto la  godano,  e  con  che
matto desiderio corrano allo strepito, alla folla, alla luce,  all'aria  aperta,
esse che in casa non vedono che un uomo  solo,  ed  hanno  finestre  e  giardini
claustrali. Escono e scorazzano per  la  città  coll'allegrezza  di  prigioniere
liberate. C'è da divertirsi a pedinarne una a caso,  alla  lontana,  per  vedere
come sanno sminuzzarsi e raffinarsi i piaceri  del  vagabondaggio.  Vanno  nella
moschea più vicina a dire una preghiera e si fermano a cicalare un quarto  d'ora
con un'amica sotto le arcate del cortile; poi al bazar a dare  una  capatina  in
dieci  botteghe,  e  a  farne  metter  sottosopra  un  paio,  per  comprare  una
bagattella; poi pigliano il tramway, scendono al mercato dei pesci,  passano  il
ponte, si fermano a contemplare tutte  le  treccie  e  tutte  le  parrucche  dei
parrucchieri di via di Pera, entrano in un cimitero e mangiano  un  dolce  sopra
una tomba, ritornano in città, ridiscendono al  Corno  d'oro  scantonando  cento
volte e guardando colla coda dell'occhio ogni cosa - vetrine,  stampe,  annunzi,
signore che passano, carrozze, insegne, porte di teatri - comprano un  mazzo  di
fiori, bevono una limonata da un  acquaiolo,  fanno  l'elemosina  a  un  povero,
ripassano il Corno d'oro in caicco, ricominciano a far dei nastri  per  Stambul;
poi pigliano il tramway un'altra volta, e arrivate  sulla  porta  di  casa,  son
capaci di tornare indietro, per fare ancora un giro di cento passi intorno a  un
gruppo di casette; tale e quale come i ragazzi che escon soli la prima volta,  e
che in quell'oretta di libertà ci vogliono far  entrare  un  po'  di  tutto.  Un
povero effendi corpulento che volesse tener dietro a sua moglie per scoprire  se
ha qualche ripesco, rimarrebbe sgambato a mezza strada.

-

Per vedere il bel sesso musulmano, bisogna andare un giorno di gran  festa  alle
Acque dolci d'Europa, in fondo al Corno d'oro, o  a  quelle  d'Asia,  vicino  al
villaggio di Anaduli-Hissar; che sono due grandi giardini pubblici,  coperti  da
boschetti foltissimi, attraversati da due piccoli fiumi, e sparsi di caffè e  di
fontane. Là sopra un vasto piano erboso, all'ombra dei noci, dei terebinti,  dei
platani, dei sicomori, che formano una successione di padiglioni verdi, per  cui
non passa un raggio di sole, si vedono migliaia di turche sedute a  gruppi  e  a
circoli,  circondate  di  schiave,  d'eunuchi,  di  bambini,  che  merendano   e
folleggiano per una mezza giornata, in mezzo a un via  vai  di  gente  infinito.
Appena giunti si rimane come trasognati. Par di vedere una  festa  del  paradiso
islamitico. Quella miriade di veli bianchissimi e di feregé  scarlatti,  gialli,
verdi e cinerei, quegli innumerevoli gruppi di schiave vestite di mille  colori,
quel formicolìo di bimbi in costume di mascherine, i grandi  tappeti  di  Smirne
distesi in terra, i vasellami argentati e dorati che passano di mano in mano,  i
caffettieri musulmani, in abito di gala, che corrono in giro portando  frutti  e
gelati, gli zingari che danzano,  i  pastori  bulgari  che  suonano,  i  cavalli
bardati d'oro e di seta che scalpitano legati agli alberi, i pascià,  i  bey,  i
giovani signori che galoppano lungo la riva del fiume, il movimento della  folla
lontana che sembra il tremolìo d'un campo  di  camelie  e  di  rose,  i  caicchi
variopinti e le carrozze splendide che arrivano continuamente a versare in  quel
mare di colori altri colori, e il suono confuso dei  canti,  dei  flauti,  delle
zampogne, delle nacchere, delle grida infantili, in mezzo a quella  bellezza  di
verde e d'ombra, svariata qua e  là  da  piccole  vedute  luminose  di  paesaggi
lontani; presentano uno spettacolo così  festoso  e  così  nuovo  che  al  primo
vederlo vien voglia di batter le mani e di gridare: - Bravissimi! - come a scena
di teatro.

-

Ed anche là, malgrado la confusione, è rarissimo il cogliere sul fatto un  turco
e una turca che amoreggino cogli occhi o si scambino dei  sorrisi  e  dei  gesti
d'intelligenza. Là non esiste la galanteria coram populo come nei nostri  paesi;
non ci sono nè  le  sentinelle  melanconiche,  che  vanno  e  vengono  sotto  le
finestre, nè le retroguardie affannose che camminano  per  tre  ore  sulle  orme
delle loro belle. L'amore si fa tutto in casa. Se qualche volta, in  una  strada
solitaria, si sorprende un giovane turco che  guarda  in  su  a  una  finestrina
ingraticolata dietro la quale scintilla un occhietto nero o  spunta  una  manina
bianca, si può esser quasi certi che  è  un  fidanzato.  Ai  fidanzati  soli  si
permette il servizio di ronda e  di  scorta  e  tutte  le  altre  fanciullaggini
dell'amore ufficiale, come quella di parlarsi di lontano con un  fiore,  con  un
nastro, o per mezzo del colore d'un vestito o di una  ciarpa.  E  in  questo  le
turche sono maestre. Hanno migliaia di oggetti, tra fiori, frutti, erbe,  penne,
pietre, ciascuno dei quali possiede un significato convenuto, che è un epiteto o
un verbo od anche una proposizione intera, in modo che possono  mettere  insieme
una lettera con un mazzetto e dir mille cose con una scatolina o una borsa piena
di oggettini svariatissimi, che paiono riuniti a caso; e siccome il  significato
d'ogni oggetto è per lo più espresso in un verso, così ogni amante è in grado di
comporre una poesia amorosa od anche un poemetto polimetrico in  cinque  minuti.
Un chiodetto di garofano, una  striscia  di  carta,  una  fettina  di  pera,  un
pezzetto di sapone, un fiammifero, un po' di fil d'oro e un grano di cannella  e
di pepe, vogliono dire: - È molto tempo che t'amo -, che ardo -,  che  languisco
-, che muoio d'amore per te. - Dammi un po' di speranza - non  mi  respingere  -
rispondimi una parola. - E oltre all'amore, c'è  modo  di  dir  mille  cose:  si
possono far dei rimproveri, dar consigli, avvertimenti, notizie; ed è una grande
occupazione delle giovanette, al tempo  dei  primi  palpiti,  quella  d'imparare
questo frasario simbolico, e di comporne delle lunghe lettere dirette a dei  bei
sultani ventenni, veduti in sogno. E fanno  lo  stesso  per  il  linguaggio  dei
gesti, alcuni dei quali sono graziosissimi; quello che fa l'uomo,  per  esempio,
fingendo di lacerarsi il petto con un pugnale, che significa:  -  Sono  lacerato
dalle furie dell'amore -; a cui la donna risponde  lasciando  cader  le  braccia
lungo i fianchi, in modo che s'apra un poco dinanzi il feregé, che vuol dire:  -
Io t'apro le mie braccia. - Ma non c'è forse un Europeo che abbia mai visto  far
queste cose; le quali, d'altra parte, sono oramai piuttosto tradizioni che  usi;
e non s'imparano dai Turchi, i quali arrossirebbero di parlarne, ma  da  qualche
ingenua hanum, che le confida a qualche amica cristiana.

-

Per questo mezzo pure si conosce il modo di vestire della  donna  turca  fra  le
pareti dell'arem, quel bel costume capriccioso e pomposo,  di  cui  tutti  hanno
un'idea, e che dà a ogni donna la dignità d'una principessa e  la  grazia  d'una
bambina. Noi non lo vedremo mai, eccetto che la moda lo porti nei nostri  paesi,
perchè, se anche un giorno cadrà il feregé, le  turche  saranno  allora  vestite
all'europea anche di sotto. Che rodimento per i pittori e che peccato per tutti!
Bisogna raffigurarsi una bella turca "svelta come un cipresso"  e  colorita  "di
tutte le sfumature dei petali della rosa" con una berrettina di velluto rosso  o
di stoffa argentata, un po' inclinata a destra; colle treccie nere  giù  per  le
spalle; con una veste di damasco bianco ricamata d'oro, colle maniche a gozzi  e
un lunghissimo strascico, aperta dinanzi in modo da lasciar  vedere  due  grandi
calzoni di seta rosea, che cascano con mille pieghe su due  scarpettine  ritorte
in su alla chinese; con una  cintura  di  raso  verde  intorno  alla  vita;  con
diamanti nelle collane, negli spilloni, nei braccialetti,  nei  fermagli,  nelle
treccie, nella nappina del berretto, sulle babbuccie, sul collo  della  camicia,
sulla cintura, intorno alla fronte;  lampeggiante  da  capo  a  piedi  come  una
madonna delle cattedrali spagnuole, e adagiata, in un  atteggiamento  infantile,
sopra un largo divano, in mezzo a una corona di belle schiave circasse, arabe  e
persiane, ravvolte, come statue antiche, in grandi vesti cadenti; - o immaginare
una sposa "bianca come la cima dell'Olimpo", vestita di raso cilestrino e  tutta
coperta da un grande velo intessuto d'oro, seduta sopra  un'ottomana  imperlata,
dinanzi alla quale lo sposo, inginocchiato sopra un tappeto di  Teheran,  fa  la
sua ultima preghiera prima di scoprire il suo tesoro;  -  o  rappresentarsi  una
favorita innamorata, che  aspetta  il  suo  signore  nella  stanza  più  segreta
dell'arem, non più vestita che della zuavina e dei calzoncini,  che  mettono  in
rilievo tutte le grazie del suo corpo flessibile, e le danno l'aspetto d'un  bel
paggio snello e elegante; e bisogna convenire che quei brutti turchi "riformati"
colla testa pelata e il soprabito nero, hanno assai più di quello che  meritano.
Questo vestiario di casa, però, va soggetto ai capricci della  moda.  Le  donne,
non avendo altro da fare, passano il tempo  a  cercare  nuove  acconciature;  si
coprono di gale e di fronzoli, si mettono penne  e  nastri  nei  capelli,  bende
intorno al capo, pelliccie intorno al collo e alle braccia; prendono qualcosa ad
imprestito da tutti i vestimenti orientali; mescolano la moda europea colla moda
turca; si mettono delle parrucche, si tingono i capelli di nero, di  biondo,  di
rosso, si sbizzarriscono in mille modi e gareggiano fra  di  loro  come  le  più
sfrenate ambiziose delle grandi città europee. Se un giorno di festa, alle Acque
dolci, si potessero far sparire con un colpo di bacchetta magica tutti i  feregé
e tutti i veli, si vedrebbero  probabilmente  delle  turche  vestite  da  regine
asiatiche, altre da crestaine francesi, altre da gran signore  in  abbigliamento
da ballo, altre da mercantesse in pompa magna, da vivandiere,  da  cavallerizze,
da greche, da zingarelle: tante varietà di vestiario quante  se  ne  vedono  nel
sesso mascolino sul ponte della Sultana Validè.

-

Gli appartamenti dove stanno queste belle e ricche maomettane  corrispondono  in
qualche modo al loro vestiario seducente e bizzarro. Le  stanze  riserbate  alle
donne sono per lo più in bei siti, da cui si godono  vedute  meravigliose  sulla
campagna o sul mare o sopra una gran parte  di  Costantinopoli.  Sotto,  c'è  un
giardinetto chiuso da alti muri, rivestiti d'edera e di  gelsomini;  sopra,  una
terrazza; dalla parte della strada, dei camerini sporgenti  e  vetrati,  come  i
miradores delle case spagnuole. L'interno è delizioso. Sono quasi tutte  piccole
sale: i palchetti coperti di stuoie chinesi o di tappeti, i soffitti dipinti  di
frutti e di fiori, larghi divani lungo le pareti, una fontanella  di  marmo  nel
mezzo, vasi di fiori alle finestre, e quella luce vaga e soavissima, che è tutta
propria della casa orientale, una luce di bosco, che  so  io?  di  claustro,  di
luogo sacro e gentile, che impone di camminare sulla punta dei piedi, di  parlar
con un filo di voce, di non dire che parole umili e dolci, di non discorrere che
d'amore o di Dio. Questa luce languida, i  profumi  del  giardino,  il  mormorio
dell'acqua, le schiave che passano come ombre, il silenzio profondo che regna in
tutta la casa, le montagne dell'Asia di cui si vede l'azzurro a traverso i  fori
delle grate e i rami del caprifoglio che  fanno  tenda  alle  finestre,  destano
nelle europee, che entrano fra quelle mura per la  prima  volta,  un  sentimento
inesprimibile di dolcezza e di malinconia. La decorazione della maggior parte di
questi arem è semplice e quasi severa; ma ve ne sono pure degli  splendidissimi,
colle pareti coperte di raso bianco rabescato  d'oro,  coi  soffitti  di  cedro,
colle grate dorate, con suppellettili preziose. Dalle  suppellettili  s'indovina
la vita. Non si vedono che poltrone, ottomane grandi e piccine, piccoli tappeti,
sgabelli, panchettini, cuscini di tutte le forme e materasse coperte di  scialli
e di broccati; un mobilio tutto mollezza e delicature, che dice in mille modi: -
Siedi, allungati, ama, addormentati, sogna. - Ci  si  trovano  qua  e  là  degli
specchietti a mano e dei larghi ventagli  di  penne  di  struzzo;  dalle  pareti
pendono dei cibuk cesellati; ci son gabbie d'uccelli alle  finestre,  profumiere
in mezzo alle stanze, orologi a musica sui tavolini, balocchi e gingilli  d'ogni
maniera, che accusano i mille capricci puerili d'una donnina sfaccendata che  si
secca. E non c'è soltanto il lusso delle cose apparenti.  Ci  son  case  in  cui
tutto il servizio da tavola è d'argento dorato, d'oro  massiccio  i  vasi  delle
acque odorose, le serviette di  raso  frangiate  d'oro,  e  brillanti  e  pietre
preziose nelle posate, nelle tazze da caffè, nelle  anfore,  nelle  pipe,  nelle
tappezzerie, nei ventagli; come ci son altre case, e in molto maggior numero, si
capisce, in cui nulla o  quasi  nulla  è  mutato  dall'antica  tenda  o  capanna
tartara, di cui tutta la masserizia sta sul dorso  di  un  mulo,  dove  tutto  è
pronto per  un  nuovo  pellegrinaggio  a  traverso  l'Asia;  case  verginalmente
maomettane ed austere, nelle quali, quando sia giunta l'ora della partenza,  non
suonerà che la voce pacata del padrone, che dirà: - Olsun! - Così sia! -

-

La casa turca è divisa, come tutti sanno, in due parti: l'arem e il selamlik. Il
selamlik è la parte riserbata all'uomo. Qui egli ci lavora, ci desina, ci riceve
gli amici, ci fa la siesta, e ci dorme la notte  quando  amore  "non  gli  detta
dentro". La donna non ci penetra mai. E come  nel  selamlik  è  padrone  l'uomo,
nell'arem è padrona la donna. Essa ne ha l'amministrazione ed il governo e ci fa
quello che vuole fuorchè ricevervi degli uomini. Quando non le garbi di ricevere
suo marito, può anche fargli dire cortesemente che  torni  un'altra  volta.  Una
sola porta e un piccolo corridoio divide  per  lo  più  il  selamlik  dall'arem;
eppure sono come due case lontanissime l'una  dall'altra.  Gli  uomini  vanno  a
visitar l'effendi e le donne vanno a trovar la hanum senza incontrarsi  e  senza
sentirsi, e il più delle volte son gente sconosciuti  gli  uni  agli  altri.  Le
persone di servizio sono separate, e separate quasi sempre le  cucine.  Ciascuno
si diverte e scialaqua per conto suo. Raramente il marito desina  colla  moglie,
in ispecie quando ne ha più d'una. Non hanno nulla di comune fuorchè  il  divano
su cui s'avvicinano. L'uomo non entra quasi mai  nell'arem  come  marito,  ossia
come compagno e come educatore dei  figliuoli;  non  v'entra  che  come  amante.
Entrandovi, lascia sulla soglia, se può, tutti i pensieri che potrebbero turbare
il piacere ch'egli va a cercarvi; tutta quella parte di sè stesso,  che  non  ha
che fare col suo desiderio di quel momento. Egli va là per dimenticare le cure o
i dolori della giornata, o piuttosto per assopirne in sè il sentimento; non  per
domandar lume a una mente serena e conforto a un cuore gentile. Nè la sua donna,
sarebbe atta  a  quell'ufficio.  Egli  non  si  cura  nemmeno  di  presentarsele
circondato di quella qualsiasi gloria d'ingegno o di sapere o  di  potenza,  che
potrebbe renderlo  più  amabile.  A  che  pro?  Egli  è  il  dio  del  tempio  e
l'adorazione gli è dovuta; non ha bisogno di farsi valere; la preferenza ch'egli
dà alla donna che ricerca basta a far sì ch'essa gli dia con  un  sentimento  di
gratitudine che sembra amore l'amplesso  desiderato  da  lui.  "Donna"  per  lui
significa "piacere". Quel nome porta il suo pensiero diritto  a  quel  senso;  è
anzi quasi il nome  stesso  del  senso;  e  per  questo  gli  pare  impudico  il
pronunziarlo, e non lo pronuncia mai; e se ha da dire: - M'è nata una femmina  -
dice: - M'è nata una velata, una nascosta, una straniera.  -  Così  non  ci  può
essere un'intimità vera fra loro, perchè v'è sempre tra l'uno e l'altro come  il
velo  del  senso,  il  quale  nasconde  quegli  infiniti  segretissimi   recessi
dell'anima, che non si vedono se non a traverso la limpidezza d'una famigliarità
lunga e tranquilla. Oltrechè la donna, sempre preparata alla visita,  abbigliata
e atteggiata quasi per quel momento, intesa sempre a  vincere  una  rivale  o  a
conservare una predominanza che è continuamente in pericolo,  dev'essere  sempre
un po' cortigiana, far forza a sè stessa perchè tutto  sorrida  intorno  al  suo
signore, anche quando il suo cuore  è  triste,  mostrargli  sempre  la  maschera
ridente d'una donna fortunata e felice, perchè egli non se ne uggisca  e  se  ne
sdia. Perciò il marito la conosce di rado come sposa, come  non  ha  e  non  può
averla conosciuta figliuola, sorella, amica; come non la conosce madre. Ed  essa
lascia così isterilire a poco a poco in sè medesima le qualità  nobili  che  non
può rivelare o che non le sono pregiate; s'abitua a non curare se non quello che
le si cerca, e soffoca spesso risolutamente la voce del  suo  cuore  e  del  suo
spirito, per trovare in una certa sonnolenza  di  vita  animalesca,  se  non  la
felicità, la pace. Ha, è vero, il conforto dei figliuoli, e il marito li cerca e
li abbraccia dinanzi a lei; ma è un conforto amareggiato dal pensiero che forse,
un'ora prima, egli ha baciato i figliuoli d'un'altra, che bacierà  forse  un'ora
dopo quelli d'una terza, e che bacierà quelli d'una  quarta  tra  qualche  anno.
L'amore d'amante, l'affetto di padre, l'amicizia, la confidenza, tutto è  diviso
e suddiviso, ed ha il suo orario,  i  suoi  riguardi,  le  sue  misure,  le  sue
cerimonie; quindi tutto è freddo e insufficiente. E  poi  v'è  sempre  in  fondo
qualcosa di sprezzante e di mortalmente ingiurioso per la donna  nell'amore  del
marito che le tiene ai fianchi un eunuco. Egli le dice in sostanza: - Io  t'amo,
tu sei "la mia gioia e la mia gloria", tu sei "la perla della mia casa"; ma sono
sicuro che se questo mostro che ti sorveglia fosse un uomo, tu ti prostituiresti
al tuo servitore.

-

Variano però grandemente le condizioni della  vita  coniugale  secondo  i  mezzi
pecuniarii del marito, anche non tenuto conto di questo, che chi non ha mezzi di
mantenere più d'una donna è costretto ad avere una moglie sola. Il ricco signore
vive separato  di  casa  e  di  spirito  dalla  moglie,  perchè  può  tenere  un
appartamento od anche una casa per lei sola, e perchè, volendo  ricevere  amici,
clienti, adulatori, senza che le sue donne sian viste o disturbate, è  costretto
ad avere una casa separata. Il turco di mezzo ceto, per ragioni d'economia,  sta
più vicino a sua moglie, la vede  più  sovente  e  vive  con  essa  in  maggiore
famigliarità. Il turco povero, in fine, che  è  costretto  a  vivere  nel  minor
spazio e colla minor spesa possibile, mangia, dorme,  passa  tutte  le  sue  ore
libere colla moglie e coi figliuoli. La ricchezza  divide,  la  povertà  unisce.
Nella casa del povero non c'è  differenza  reale  tra  la  vita  della  famiglia
cristiana e quella della famiglia  turca.  La  donna,  che  non  può  avere  una
schiava, lavora, e il lavoro rialza la sua dignità e la sua autorevolezza. Non è
raro che essa vada a tirar fuori il marito ozioso dal caffè o dalla  taverna,  e
che lo spinga a casa a colpi di pantofola. Si trattano da pari a  pari,  passano
la sera l'uno accanto all'altro davanti alla porta di casa;  nei  quartieri  più
appartati, vanno sovente insieme a far le spese per la famiglia; e occorre molte
volte di vedere, in un cimitero solitario, il  marito  e  la  moglie  che  fanno
merenda vicino al cippo  d'un  parente,  coi  loro  bambini  intorno,  come  una
famigliuola d'operai dei nostri  paesi.  Ed  è  uno  spettacolo  più  commovente
appunto perchè è più singolare. E non si può, vedendolo,  non  sentire  che  c'è
qualcosa di necessario e d'universalmente ed  eternamente  bello  in  quel  nodo
d'anime e di corpi, in quel gruppo unico d'affetti; che non c'è posto per altri;
che una nota di più in quell'armonia la guasta o la distrugge; che s'ha  un  bel
dire e un bel fare, ma che la forza  prima,  l'elemento  necessario,  la  pietra
angolare d'una società ordinata e giusta è là; -  che  ogni  altra  combinazione
d'affetti e d'interessi è fuori della natura; - che quella sola è una  famiglia,
e l'altra un armento; - che quella sola è una casa, e l'altra un lupanare.

-

E v'è chi dice che le donne orientali sono soddisfatte della poligamia e che non
ne comprendono neppure l'ingiustizia. Per creder questo bisogna  non  conoscere,
non dico l'Oriente,  ma  nemmeno  l'anima  umana.  Se  questo  fosse  vero,  non
seguirebbe quello che segue: cioè che non v'è  quasi  ragazza  turca  la  quale,
accettando la mano d'un uomo, non gli  metta  per  condizione  di  non  sposarne
un'altra, lei viva; non  ci  sarebbero  tante  spose  che  ritornano  alla  loro
famiglia quando il marito manca a quella promessa; e non ci sarebbe un proverbio
turco che dice: - casa di quattro donne, barca nella  burrasca.  -  Anche  se  è
adorata da suo marito, la donna orientale non può che maledire la poligamia, per
cui vive sempre con quella spada di Damocle sul capo,  di  avere  di  giorno  in
giorno  una  rivale,  non  nascosta  o  lontana  e   sempre   colpevole,   com'è
necessariamente quella di una moglie europea; ma installata accanto  a  lei,  in
casa sua, col suo titolo, coi suoi stessi  diritti;  di  vedere  fors'anche  una
delle sue schiave, prescelta a odalisca,  alzare  tutt'a  un  tratto  la  fronte
dinanzi a lei, e trattarla da eguale, e mettere al mondo dei figliuoli che hanno
gli stessi  diritti  dei  suoi.  È  impossibile  che  il  suo  cuore  non  senta
l'ingiustizia di quella legge. Quando il marito amato da lei, le conduce in casa
un'altra donna, essa avrà un bel pensare che, facendo questo, l'uomo non fa  che
valersi d'un diritto che gli dà il codice del Profeta. In  fondo  all'anima  sua
sentirà che v'è una legge più antica e più sacra che condanna quell'atto come un
tradimento e una prepotenza, sentirà che quell'uomo non è più suo, che il nodo è
sciolto, che la sua vita è spezzata, ch'essa ha il diritto di  ribellarsi  e  di
maledire. E se anche non ama suo marito, ha mille ragioni  di  detestare  quella
legge: l'interesse leso dei suoi figliuoli,  il  suo  amor  proprio  ferito,  la
necessità in cui è posta, o di vivere abbandonata o di non  essere  più  cercata
dall'uomo che per compassione o per un desiderio  senz'amore.  Si  dirà  che  la
donna turca sa che queste cose accadono pure alla donna europea: è vero;  ma  sa
pure che la donna europea non è costretta  dalla  legge  civile  e  religiosa  a
rispettare e a chiamar sorella colei che le avvelena la vita, e che ha almeno la
consolazione di esser considerata come una vittima,  e  che  ha  mille  modi  di
consolarsi e di vendicarsi senza che il marito le possa dire, come può  dire  il
poligamo a una delle sue mogli infedeli: - Io  ho  il  diritto  di  amare  cento
donne, e tu hai il dovere di non amar che me solo.

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È vero che la donna turca ha molte guarentigie dalla legge e molti privilegi per
consuetudine. È generalmente  rispettata  con  una  certa  forma  di  gentilezza
cavalleresca. Nessun uomo oserebbe alzar la mano sopra una donna in  mezzo  alla
via. Nessun soldato, anche nel tafferuglio d'una sedizione,  s'arrischierebbe  a
maltrattare la più insolente delle popolane. Il marito tratta la moglie con  una
certa deferenza cerimoniosa. La madre è oggetto d'un culto particolare. Non  c'è
uomo che osi far lavorare la donna per campare sul suo lavoro. È  lo  sposo  che
assegna una dote alla sposa; essa non  porta  alla  casa  maritale  che  il  suo
corredo e qualche schiava. In caso  di  ripudio  o  di  divorzio,  il  marito  è
obbligato a dare alla moglie  tanto  che  basti  per  vivere  senza  disagio;  e
quest'obbligo lo trattiene da usar con lei dei cattivi trattamenti, che le diano
il diritto d'ottenere la separazione. La facilità del divorzio rimedia in  parte
alle tristi conseguenze dei  matrimonii,  fatti  quasi  sempre  alla  cieca  per
effetto della costituzione speciale della società turca, nella quale i due sessi
vivono divisi. Alla donna, per ottenere il divorzio, basta  poca  cosa:  che  il
marito l'abbia maltrattata una volta, che l'abbia offesa parlando con altri, che
l'abbia trascurata per un certo tempo. Quando essa ha da lagnarsi di suo marito,
non ha che da presentare le sue lagnanze per scritto al tribunale;  può,  quando
occorra, presentarsi in persona a un vizir, al gran vizir stesso, da cui è quasi
sempre ricevuta e ascoltata senza ritardo  e  benignamente.  Se  non  può  andar
d'accordo colle altre mogli, il marito è tenuto a darle una casa separata; e  se
anche va d'accordo, ha diritto a un appartamento per sè sola. L'uomo non può  nè
sposare nè far sue odalische le schiave che la moglie ha portato  con  sè  dalla
casa paterna. Una donna stata sedotta e abbandonata, può farsi sposare  dal  suo
seduttore, se questi non ha già  quattro  mogli;  e  se  ne  ha  quattro,  farsi
pigliare in casa come odalisca, e il padre deve  riconoscere  il  figliuolo;  il
perchè fra i turchi non ci  son  bastardi.  Rarissimi  i  celibi,  rarissime  le
vecchie ragazze; assai meno frequenti che non si  creda  i  matrimonii  forzati,
perchè la legge punisce i padri che se ne rendono colpevoli.  Lo  Stato  dà  una
pensione alle vedove senza parenti e senza mezzi, e provvede alle orfane;  molte
bambine rimaste in mezzo alla strada, sono pure raccolte da signore ricche,  che
le educano e le maritano; è raro che una donna sia lasciata nella miseria. Tutto
questo è vero ed è buono; ma non toglie che i Turchi ci facciano  ridere  quando
vogliono confrontare con vantaggio la condizione  sociale  della  loro  donna  a
quella della nostra, e affermare la loro società immune dalla corruzione di  cui
accusano la società europea. Che valgono alla donna le forme del rispetto, se la
sua condizione di moglie suppletoria è per sè stessa umiliante? Che le  vale  la
facilità di divorziare e di rimaritarsi, se qualunque altro uomo la sposi, ha il
diritto di metterla nelle condizioni medesime, per le  quali  s'è  separata  dal
primo marito? Che gran cosa che l'uomo abbia l'obbligo di riconoscere il  figlio
illegittimo se non ha i mezzi di mantenerlo,  e  se  può  averne  legittimamente
cinquanta, ai quali, se non il nome, tocca di bastardi la miseria o l'abbandono?
Ci dicono che non commettono infanticidii; ma li  aborti  voluti,  per  i  quali
hanno delle case apposite, chi li conta? Ci dicono che non hanno  prostituzione.
Ma come! E che altro mestiere è quello delle mille concubine caucasee,  comprate
e rivendute cento volte? Dicono: non c'è almeno quella pubblica. Che baie! Murad
III non avrebbe ordinato di mandare di là dal Bosforo tutte  le  donne  di  mala
vita, e si sa che ne fu fatta una grande retata. Vorrebbero  poi  farci  credere
che è più facile ad uomo aver la fedeltà di quattro donne che  di  una  sola?  E
darci ad intendere che il turco che ha quattro mogli, non commette  più  peccati
fuori di casa e fuori della propria religione? E ci parleranno di  moralità  gli
uomini più devoti alla nefanda voluptas che sian sulla terra?

-

Da tutto questo è facile argomentare che cosa siano le donne turche. Non sono la
maggior parte che "femmine piacevoli". Le più non sanno che leggere e  scrivere,
e nè leggono nè scrivono; e  sono  creature  miracolose  quelle  che  hanno  una
superficialissima coltura. Già ai turchi, secondo i  quali  le  donne  "hanno  i
capelli lunghi e l'intelligenza corta", non garba  ch'esse  coltivino  la  mente
perchè non conviene che siano in nulla eguali o  superiori  a  loro.  Così,  non
ricavando istruzione dai libri, e  non  potendo  riceverne  dalla  conversazione
cogli uomini, rimangono in una crassa ignoranza. Dalla separazione dei due sessi
nasce che all'uno manca qualche cosa di gentile  e  all'altro  qualche  cosa  di
alto: gli uomini diventano rozzi, le donne diventano comari.  E  non  praticando
della società altro che un piccolo cerchio donnesco, ritengono quasi tutte  fino
alla vecchiezza qualche  cosa  di  puerile  nelle  idee  e  nelle  maniere:  una
curiosità matta di mille cose, uno stupirsi di  tutto,  un  fare  un  gran  caso
d'ogni inezia, una maldicenza piccina, un'abitudine di sdegni e  di  dispettucci
da educande, un ridere sguaiato a tutti i propositi, e un divertirsi per  ore  a
giochi bambineschi, come inseguirsi di stanza in stanza e strapparsi di bocca  i
confetti. È vero che  hanno  per  contrapposto,  per  dirla  alla  rovescia  dei
francesi, la buona qualità  nel  difetto;  ed  è  che  sono  nature  schiette  e
trasparenti, dentro alle quali si legge alla prima; che sono quello che  paiono,
persone vere, come diceva la signora di Sevigné, non maschere, nè caricature, nè
scimmie; donne aperte e tutte d'un pezzo anche nella tristizia; e se è vero  che
basta che una di esse giuri e spergiuri una cosa perchè nessuno ci  creda,  vuol
dire appunto che non hanno arte abbastanza per riuscire nell'inganno.  E  non  è
una piccola lode il dire anche che non ci sono fra loro nè  dottoresse  pesanti,
nè maestruccole che non ciancino altro che di lingua e  di  stile,  nè  creature
vaporose che vivano fuori della vita.  Ma  è  anche  vero  che  in  quella  vita
angusta,  priva  di  alte  ricreazioni  dello  spirito,   nella   quale   rimane
perpetuamente insoddisfatto  il  desiderio  istintivo  della  gioventù  e  della
bellezza, di essere ammirate e lodate, l'animo loro  s'inasprisce;  e  che,  non
avendo il freno dell'educazione, corrono a qualunque eccesso, quando una  brutta
passione le muove. E l'ozio fomenta in loro mille  capricci  insensati,  in  cui
s'ostinano con furore, e li vogliono appagati a qualunque prezzo.  Oltrechè,  in
quell'aria sensuale dell'arem, in quella compagnia di donne inferiori a loro  di
nascita  e  d'educazione,  lontane  dall'uomo  che  servirebbe  loro  di  freno,
s'assuefanno a una crudità indicibile di linguaggio, non conoscono le  sfumature
dell'espressione, dicono le cose senza velo, amano la parola che  fa  arrossire,
lo scherzo inverecondo, l'equivoco plebeo; diventano  sboccatamente  mordaci  ed
insolenti; tanto che all'europeo che intende il turco, occorre qualche volta  di
sentire  dalla  bocca  d'una  hanum  d'aspetto  signorile,  stizzita  contro  un
bottegaio indiscreto o sgarbato, delle impertinenze che non isfuggono tra noi se
non alle donne della specie peggiore. E questa loro acrimonia va  crescendo  col
crescere delle loro relazioni colle donne europee o della  loro  conoscenza  dei
nostri costumi, che alimentano in esse lo spirito di ribellione; e  quando  sono
amate, si  vendicano  con  una  tirannide  capricciosa  sui  loro  mariti  della
tirannide sociale a cui sono soggette. Molti hanno dipinte le donne turche tutte
dolci, mansuete, peritose. Ma ci sono anche fra loro le anime ardite  e  feroci.
Anche là, nelle sommosse popolari, si vedono le donne in prima linea; si armano,
s'assembrano, arrestano le carrozze dei vizir invisi, li coprono di  contumelie,
li pigliano a sassate e resistono alla forza. Sono dolci e mansuete, come  tutte
le donne, quando nessuna passione le rode o le accende.  Trattano  amorevolmente
le schiave, se non ne sono gelose; dimostrano tenerezza  pei  figliuoli,  benchè
non sappiano o non si curino d'educarli; contraggono fra di  loro,  specialmente
quelle divise  dai  mariti  o  afflitte  dallo  stesso  dolore,  delle  amicizie
tenerissime, piene d'entusiasmo giovanile, e si dimostrano  l'affetto  reciproco
vestendosi degli stessi colori, profumandosi colle medesime essenze, e facendosi
dei nei della stessa forma. E qui potrei aggiungere quello che scrisse più d'una
viaggiatrice europea, "che ci sono fra loro tutti i vizii di Babilonia";  ma  mi
ripugna, in una cosa così grave, l'affermare sulla fede altrui.

-

Quale è la loro indole, tali sono le loro maniere. Somigliano la maggior parte a
quelle ragazze di buona famiglia, ma cresciute in campagna, le  quali,  nell'età
in cui non sono più bambine e non sono ancora donne, commettono in società mille
piacevolissime sconvenienze, per cui ogni momento si  fanno  far  gli  occhiacci
dalla mamma. Bisogna sentirne parlare da una signora europea, che abbia visitato
un arem. È una cosa comicissima. La hanum, per esempio,  che  nei  primi  minuti
sarà stata seduta sopra il sofà nello stesso atteggiamento  composto  della  sua
visitatrice, tutt'a un tratto incrocicchierà le dita sopra la testa, o tirerà un
lungo sbadiglio, o si piglierà un ginocchio tra le mani. Abituate alla  libertà,
per non dire alla licenza, dell'arem, agli atteggiamenti  cascanti  dell'ozio  e
della noia, e ammollite come sono dai lunghi bagni,  si  stancano  subito  d'una
qualunque compostezza forzata. Si coricano sul divano, si voltano e si rivoltano
continuamente attorcigliando e districando in mille  modi  il  loro  lunghissimo
strascico, si raggomitolano, si pigliano  i  piedini  in  mano,  si  mettono  un
cuscino sulle ginocchia e i gomiti sul cuscino,  s'allungano,  si  storcono,  si
stirano, fanno la gobbina come i gatti, rotolano  dal  divano  sulla  materassa,
dalla  materassa  sul  tappeto,  dal  tappeto  sul  marmo   del   pavimento,   e
s'addormentano dove il sonno le coglie come i bambini. Una viaggiatrice francese
ha detto che hanno qualcosa del mollusco. Son quasi sempre in  un  atteggiamento
da poterle prendere fra le braccia come una cosa rotonda. La loro posizione meno
rilassata è quella di star sedute  a  gambe  incrociate.  E  dicono  che  derivi
appunto dallo star sedute quasi sempre in questa maniera, fin dall'infanzia,  il
difetto che hanno quasi tutte delle gambe un po' arcate. Ma  con  che  garbo  si
siedono! Si vede nei cimiteri e nei  giardini.  Cascano  a  piombo  e  rimangono
sedute in terra, senza puntar le mani, immobili come statue, e si  drizzano  poi
in piedi, senz'appoggiarsi, d'un sol tratto, come se  scattassero.  Ma  è  forse
questo il loro solo movimento vivace. La grazia della donna turca  è  tutta  nel
riposo; - nell'arte di mettere in evidenza  le  belle  curve  con  atteggiamenti
stanchi d'addormentata, col capo arrovesciato  indietro,  coi  capelli  sciolti,
colle braccia penzoloni, - l'arte che strappa l'oro e i gioielli  al  marito,  e
sconvolge il sangue e la ragione all'eunuco.

-

E lo studio di quest'arte non è l'ultimo dei  mezzi  con  cui  esse  cercano  di
alleggerire la noia mortale che pesa sulla maggior parte degli  arem;  noia  che
deriva  non  tanto  dalla  mancanza  d'occupazioni  e  di  distrazioni,   quanto
dall'esser queste tutte d'un colore; come certi libri che, pure essendo svariati
nella sostanza, seccano per l'uniformità dello stile. Per  salvarsi  dalla  noia
fanno di tutto; la loro giornata non è spesso  che  una  lotta  continua  contro
questo mostro ostinato. Sedute sui cuscini o  sui  tappeti,  accanto  alle  loro
schiave, orlano  innumerevoli  fazzoletti  da  regalare  alle  amiche,  ricamano
berretti da notte o borse da tabacco pei mariti, per i padri, e per i  fratelli;
fanno scorrere cento volte le pallottoline del tespì; contano fin al numero  più
alto a  cui  sanno  contare;  seguitano  coll'occhio,  per  lunghi  tratti,  dai
finestrini rotondi delle stanze alte, i bastimenti che passano sul Bosforo o sul
Mar di Marmara,  o  si  mettono  a  fantasticare  ricchezze,  libertà  ed  amori
accompagnando collo sguardo le spire azzurrine del fumo della sigaretta.  Quando
son  stanche  della  sigaretta  assaporano  nel  cibuk  i  "biondi  capelli  del
Latachié"; sazie di fumare, sorbono una tazzina di caffè di  Siria;  rosicchiano
frutta e confetti; si fanno  durare  mezz'ora  un  gelato;  poi  fanno  un'altra
fumatina col narghilè profumato d'acqua di rosa; poi succhiano un po' di mastico
per levarsi il sapore del fumo; poi prendono la limonata per levarsi  il  sapore
del mastico. Si vestono,  si  svestono,  si  mettono  tutte  le  robe  del  loro
cassettone, esperimentano tutte le tinture dei  loro  vasetti,  si  fanno  e  si
disfanno dei nei in forma di stelle e di mezzelune,  e  combinano  in  tutte  le
maniere possibili una dozzina di specchi e di specchietti per vedersi  da  tutte
le parti, finchè si vengono in  uggia.  Allora  due  schiave  di  quindici  anni
ballano il balletto obbligato colle nacchere e col tamburello; una terza  ripete
per la centesima volta una canzonetta o una favola che sanno tutte a memoria;  o
le due solite maschiotte vestite da acróbata fanno la solita lotta, che  finisce
con un pattone sul pavimento e una risata senza sapore.  Qualche  volta  c'è  la
novità d'una brigatella di ballerine egiziane, e allora  è  una  piccola  festa;
qualche altra volta capita una zingara, e allora la hanum si fa dir  la  ventura
sulla palma, o compera un talismano per esser sempre  giovane,  un  decotto  per
aver figliuoli, un filtro per farsi amare. Stanno ore  col  viso  alle  grate  a
guardar la gente e  i  cani  che  passano,  insegnano  una  parola  nuova  a  un
pappagallo, scendono in giardino a fare all'altalena, risalgono in casa a dir le
preghiere, tornano a sdraiarsi sul divano per giocare alle carte, saltan su  per
ricever la visita d'una parente o d'un'amica,  e  allora  ricomincia  la  solita
sequela di caffè, di fumatine, di limonate, di merenduccie, di risate stanche  e
di sbadigli sonori, fin che l'amica  se  ne  va,  e  l'eunuco,  apparendo  sulla
soglia, dice a bassa voce: - L'Effendi. - Ah! finalmente! È proprio Allà che  lo
manda, foss'anche il più brutto marito di Stambul.

-

Questo segue negli arem dove c'è, se non altro, la pace; negli altri la  noia  è
soffocata dal furore delle passioni, e vi si  mena  una  vita  affatto  diversa.
Regna la pace nell'arem in cui v'è una donna sola, amata da suo marito, il quale
non bada alle schiave, e non  ha  intrighi  fuor  di  casa.  C'è  pure,  se  non
felicità, pace, negli arem dove sono parecchie mogli  di  carattere  leggiero  o
freddo, indifferenti per il marito il quale non  fa  differenza  tra  loro,  che
ricevono ciascuna alla propria  volta  le  sue  preferenze  senza  amore,  senza
gelosia e senza ambizione di predominio. Queste mogli di buona pasta cercano  di
cavare all'Effendi tutto il denaro che possono, stanno nella stessa casa, vivono
d'accordo, si chiamano sorelle, si divertono insieme, e addio; la barca è  fatta
alla diavola, ma tanto e tanto va  avanti.  C'è  ancora  la  pace,  un'apparenza
almeno di pace, negli arem dove la  moglie  posposta  a  una  nuova  venuta,  si
rassegna tristamente al suo destino, e pure rifiutando i ritagli d'amore che  le
vorrebbe dar suo marito, rimane amica sua, nella sua casa, e cerca  un  conforto
nei figli, e vive in un raccoglimento dignitoso. Ma è un tutt'altro vivere negli
arem dove ci sono donne di cuor fiero e  di  sangue  ardente  che  non  vogliono
sottostare  al  trionfo  d'una  rivale,  che  non   possono   sopportar   l'onta
dell'abbandono, che non si rassegnano a veder posposti i propri figli  a  quelli
d'un'altra madre. In questi arem c'è l'inferno. Qui si piange, si  strepita,  si
spezzano porcellane e cristalli, si fanno morir delle schiave a colpi di spillo,
si ordiscono delle congiure,  si  meditano  dei  delitti,  e  qualche  volta  si
consumano: si avvelena, si stiletta, si gettano  delle  bocce  di  vitriolo  nel
viso; qui la vita non  è  che  una  trama  orribile  di  persecuzioni,  di  odii
implacabili, di guerre sorde e feroci. L'uomo che ha più mogli, in  conclusione,
o ne ama una sola davvero, e non ha la pace; o le ama tutte ad un modo per  aver
la pace, e non ha l'amore. E nell'un caso e nell'altro, va quasi sempre  diritto
alla rovina, poichè se fra le sue donne non  c'è  gelosia  d'amore,  c'è  sempre
gelosia d'amor proprio, rivalità d'ambizione, gara di splendidezze; ed egli  non
può regalare alla sua prediletta del giorno un gioiello o  una  carrozza  o  una
villetta sul Bosforo, senza che ne nasca un sottosopra; il perchè è costretto  a
far per tutte quello che vorrebbe fare per una, vale a dire a comprar la pace  a
peso d'oro. E quello che segue tra le donne, segue tra i figliuoli,  i  quali  o
son figli della madre negletta, e odiano; o son figli  della  favorita,  e  sono
odiati. Ed è facile immaginare che educazione  possono  ricevere  nell'arem,  in
quelle case piene di rancori e d'intrighi, in mezzo alle schiave e agli eunuchi,
senza l'assistenza del padre, senza l'esempio del lavoro, in quell'aria bassa  e
sensuale; le ragazze in special modo, che  s'avvezzano  fin  dai  primi  anni  a
fondare tutte le speranze della propria fortuna sopra le  arti  d'una  seduzione
per la quale è troppo alto l'epiteto di "amorosa", e che  imparano  queste  arti
dalla madre, e il rimanente dalle schiave, e il di più da Caragheuz.

-

Vi sono poi due altre specie di arem, oltre ai pacifici e ai tempestosi:  l'arem
del turco giovane e spregiudicato, che seconda le tendenze europee della moglie,
e quello del turco o rigorista per sentimento proprio, o dominato da parenti,  e
in particolar modo da una vecchia madre, musulmana inflessibile, avversa ad ogni
novità, che gli fa governar la casa a modo suo. Fra questi due  arem  corre  una
gran differenza. Il primo  arieggia  la  casa  d'una  signora  europea.  C'è  un
pianoforte che la hanum impara a sonare da una maestra  cristiana;  ci  son  dei
tavolini da  lavoro,  delle  seggiole  impagliate,  un  letto  di  mogogon,  una
scrivania; c'è appeso a una parete un bel ritratto a matita  dell'Effendi  fatto
da un pittore italiano di Pera; c'è in un  cantuccio  uno  scaffaletto  con  una
ventina di libri, fra i quali un piccolo dizionario turco e francese e  l'ultimo
numero della Mode  illustrée  che  la  signora  riceve  di  seconda  mano  dalla
consolessa di Spagna. La signora possiede pure tutto l'occorrente per  dipingere
all'acquerello e dipinge con passione fiori e frutti.  Essa  assicura  alle  sue
amiche che non ha un momento di noia. Tra un lavoro  e  l'altro  scrive  le  sue
memorie. A una cert'ora riceve il  maestro  di  francese  (un  vecchio  gobbo  e
sfiatato, s'intende) col quale fa  esercizio  di  conversazione.  Qualche  volta
viene a farle il ritratto una fotografa tedesca  di  Galata.  Quando  è  malata,
viene a visitarla un medico europeo, il quale può anche essere un  bel  giovane,
chè il marito  non  è  poi  così  bestialmente  geloso  come  certi  suoi  amici
antiquati. E viene una volta ogni tanto anche una modista francese  a  misurarle
un vestito tagliato proprio sull'ultimo figurino del giornale  della  moda,  col
quale la signora vuol fare una bella sorpresa al marito la sera del giovedì, che
è la sera sacramentale degli sposi  musulmani,  nella  quale  l'effendi  ha  una
specie di cambiale galante da pagare alla sua "foglia di rosa". E l'effendi, che
è uomo d'alto affare, le ha promesso di farle vedere dallo spiraglio d'una porta
il primo gran ballo che darà nel prossimo inverno l'ambasciata d'Inghilterra. La
hanum, insomma, è una signora europea di religione  musulmana,  e  lo  dice  con
compiacenza alle amiche: - Io vivo come una cocona, - come una cristiana; - e le
amiche e le parenti sue professano almeno gli stessi principii, se  non  possono
condurre la stessa vita, e fra lei e loro si discorre di mode e  di  teatri,  si
canzonano le "superstizioni", le  "pedanterie",  le  "bigotterie  della  vecchia
Turchia" e si finisce ogni discorso col dire che "è tempo di cominciare a vivere
in una maniera più ragionevole". Ma nell'altro arem? Qui tutto  è  rigorosamente
turco dal vestire della signora fino alla più piccola  suppellettile.  Di  libri
non c'entra che il Corano, di giornali non ci penetra  che  lo  Stambul.  Se  la
signora s'ammala, non si chiama il medico, ma una  di  quelle  tante  dottoresse
turche, che hanno uno specifico miracoloso per tutti i mali. Se il  padre  e  la
madre della signora son gente infetta dalla tabe europea, non si  permette  loro
di veder la figliuola che una volta la settimana. Tutte le aperture  della  casa
sono bene ingraticolate e chiavistellate, e d'europeo non c'entra proprio  altro
che l'aria, eccetto il caso che la signora abbia avuto la  disgrazia  d'imparare
un po' di francese da bambina, chè allora la suocera è  capace  di  metterle  in
mano un qualche romanzaccio della peggio specie,  per  poterle  dir  poi:  -  Lo
vedete che bella società è quella che voi volete scimmiottare? che fior di  roba
produce? che belli esempi vi porge?

-

Eppure  la  vita  delle  donne  turche  è  piena  d'accidenti,  di  brighe,   di
pettegolezzi, che a primo aspetto non si credono possibili in una società dove i
due sessi non hanno comunicazione diretta fra loro. In un arem, per esempio, c'è
la vecchia madre che vuol levar dal cuore di suo  figlio  una  delle  mogli  per
farci entrare la prediletta  da  lei,  e  cerca  ogni  modo  di  nascondergli  i
figliuoli di quella, e di farne trasandare l'educazione perchè egli non ci ponga
affetto, e non li preferisca a quei dell'altra. In un altro c'è una moglie,  che
non potendo staccare il marito dalla sua rivale per riaverne l'amore essa  sola,
cerca almeno di sfogare il proprio dispetto staccandolo da quella per  un'altra,
e a questo scopo cerca per mare e per terra una bella schiava  da  metter  sotto
gli occhi all'Effendi, perchè se ne  incapricci  e  tradisca  con  essa  la  sua
favorita. Un'altra moglie, che  fa  per  inclinazione  naturale  la  sensale  di
matrimonii, s'ingegna di fare in maniera che un tale suo parente veda spesso una
tale ragazza, e se ne innamori, e la sposi, e la rubi così al proprio marito  il
quale cova da un pezzo il proposito di farla sua. Qui è un gruppo di signore che
si quotano a un tanto ciascuna per regalare, con qualche secondo fine, una bella
schiava al gran Visir o al Sultano; là sono  altre  signore,  alto  locate,  che
movendo mille fili segreti di parentele potenti, vengono a capo  di  quello  che
vogliono, e fanno cader nemici da alte cariche, e  salirvi  amici,  e  divorziar
l'uno, e partire un altro per una  provincia  lontana.  E  benchè  ci  sia  meno
commercio sociale che nelle nostre città, non si sanno meno che fra noi i  fatti
degli altri. La fama d'una donna spiritosa, o d'una  gran  maldicente,  o  d'una
gelosa feroce, o d'una grulla,  si  spande  molto  al  di  là  del  cerchio  dei
conoscenti. Anche là i motti arguti e i bei giochi di parole, a  cui  la  lingua
turca si presta mirabilmente, corrono  di  bocca  in  bocca  e  fanno  dei  giri
infiniti. Le nascite, le circoncisioni, i matrimonii,  le  feste,  tutti  i  più
piccoli avvenimenti che seguono nelle colonie  europee  e  nel  Serraglio,  sono
argomento  di  chiacchiere  interminabili.  Avete  visto  il  nuovo   cappellino
dell'Ambasciatrice di Francia? Si sa nulla  della  bella  schiava  venuta  dalla
Georgia, che la Sultana Validè regalerà al Sultano il giorno del gran Beiram?  È
vero che la moglie di  Ahmed-Pascià  è  uscita  ieri  l'altro  cogli  stivaletti
all'europea guerniti di nappine di seta? Sono finalmente arrivati i vestiarii da
Parigi  per  la  rappresentazione  del  Bourgeois  gentilhomme  al  teatro   del
Serraglio? È una settimana che la moglie di Mahmud-effendi  va  a  pregare  ogni
mattina nella moschea di Baiazet per  ottenere  la  grazia  di  due  gemelli.  È
seguito uno  scandalo  in  casa  del  tal  fotografo  di  via  di  Pera,  perchè
Ahmed-effendi ci ha trovato il ritratto di sua moglie.  La  signora  Aiscè  beve
vino. La signora Fatima s'è fatta fare  dei  biglietti  di  visita.  La  signora
Hafiten è stata vista entrare alle tre e uscire alle quattro dalla bottega  d'un
franco. La piccola cronaca maligna circola  con  una  rapidità  incredibile  fra
quelle innumerevoli casette gialle e  vermiglie,  s'allaccia  con  quella  della
corte, si spande per Scutari, s'allunga sulle due rive del Bosforo fino  al  mar
Nero, e arriva non di rado fino alle grandi città di provincia, di dove  ritorna
ricamata e frangiata a provocar nuove risate e nuovi pettegolezzi nei mille arem
della metropoli.

-

Sarebbe un divertimento curioso, se ci fossero fra i turchi,  come  ce  n'è  fra
noi, di quei gazzettini viventi del bel mondo, che conoscono  tutti  e  sanno  e
propalano tutto; sarebbe un divertimento insieme e  uno  studio  amenissimo  dei
costumi di Costantinopoli, l'andarsi a piantare con uno di  costoro  all'entrata
delle Acque dolci d'Europa, un giorno di festa, e farsi  dire  una  paroletta  a
proposito di tutte le persone notevoli  per  un  verso  o  per  l'altro  che  ci
passerebbero davanti. Ma che importa che non si sia fatto? Le cose si sanno,  le
persone si possono immaginare. Per me è come se vedessi  e  sentissi  in  questo
momento. La gente passa, e il turco accenna e ciancia.  Quella  signora  lì  s'è
rotta che è poco con suo marito ed è andata a stare  a  Scutari;  Scutari  è  il
rifugio delle malcontente e delle imbronciate; è andata  a  stare  con  una  sua
amica, e ci starà fin che suo marito, il quale in fondo le vuol bene,  le  andrà
ad annunziare che s'è sbarazzato della concubina, cagione della  rottura,  e  la
ricondurrà a casa pacificata. Questo  effendi  che  passa  è  un  impiegato  del
Ministero degli esteri, il quale per non aver che fare con parenti e parenti  di
parenti, che spesso mettono la discordia in casa,  ha  fatto  come  fanno  tanti
altri: ha sposato una schiava araba, che prende  appunto  in  questi  giorni  le
prime lezioni di lingua  turca  dalla  sorella  del  marito.  Quest'altra  bella
donnina è una divorziata, la quale aspetta che l'effendi  tale  abbia  ripudiata
una delle sue quattro mogli per andare a  prendere  il  posto  che  le  è  stato
promesso da un pezzo. Quell'altra laggiù è  una  signora  che  dopo  aver  fatto
divorzio due volte dallo stesso  marito,  lo  vuol  sposare  daccapo,  e  lui  è
d'accordo; e per far questo essa sposa fra qualche giorno, come vuole la  legge,
un altr'uomo, il quale sarà suo marito per  una  notte  sola,  e  farà  divorzio
subito, dopo di che la bella capricciosa potrà celebrare il suo terzo matrimonio
col primo sposo. Questa brunetta cogli occhi spiritati è una  schiava  abissina,
stata regalata da una gran signora del Cairo a una gran signora di  Stambul,  la
quale è morta, e le ha lasciato il posto di padrona di casa. Questo  effendi  di
cinquant'anni è già stato marito di dieci donne. Questa  vecchietta  vestita  di
verde può vantarsi d'essere stata moglie legittima di dodici uomini. Quest'altra
è una signora che si fa d'oro comprando ragazze di quattordici anni,  a  cui  fa
insegnare la musica,  il  ballo,  il  canto,  le  belle  maniere  della  società
signorile, e poi le rivende col guadagno del  cinquecento  per  cento.  Ecco  là
un'altra bella signora di cui posso dirvi il costo esatto: è una circassa che fu
comprata a Tophané per cento e venti lire turche e rivenduta tre anni  dopo  per
la bagattella di quattrocento. Questa qui che s'aggiusta il velo è  passata  per
una trafila singolare: è stata prima schiava,  poi  odalisca,  poi  moglie,  poi
divorziata, poi moglie daccapo, e adesso è vedova e sta brigando  per  un  nuovo
matrimonio. Guardate questo effendi: è in una condizione curiosa; ve  la  do  in
mille a indovinare; sua moglie è innamorata d'un eunuco, e si dice che è  capace
di dare a suo marito una cattiva tazza di caffè, per  andare  a  stare  in  pace
coll'amante, e non sarebbe il  primo  esempio  d'un  amore  così  mostruosamente
spirituale. Quello là è un negoziante che per ragioni di  commercio  ha  sposate
quattro donne, e ne tiene una a Costantinopoli, una a Trebisonda, una a Salonico
e la quarta in Alessandria d'Egitto, ed ha così quattro  porti  amorosi  in  cui
riparare al termine dei suoi viaggi. Questo bel pascià di  ventiquattr'anni  non
era un mese fa che un povero uffiziale subalterno  della  guardia  imperiale,  e
l'ha fatto pascià di sbalzo il Sultano per dargli in moglie una sua sorella;  ma
sconta i peccati degli altri mariti turchi, perchè con una Sultana non si celia,
e si sa che quella è "gelosa come un usignolo", e forse, se cercassimo bene  tra
la folla, troveremmo una schiava che lo pedina  alla  lontana  per  scoprir  chi
guarda e chi non guarda. Guardate questo bel fusto di  donna:  non  c'è  bisogno
d'un occhio fine per accorgersi che è un fiore uscito dal Serraglio; è stata una
bella del Sultano, e l'ha sposata mesi sono un  impiegato  del  Ministero  della
guerra, che per mezzo suo ha ora un piede nella Corte e farà in poco tempo molta
strada. Ecco là una bambina di cinque anni che fu fidanzata oggi a un ragazzo di
otto; lo sposino è stato condotto dai parenti a farle visita,  l'ha  trovata  di
suo genio e ha fatto subito le furie perchè un  cuginetto  alto  un  metro  l'ha
baciata in presenza sua. Ecco una vecchia  strega  che  ieri  l'altro  ha  fatto
scannar due montoni in ringraziamento ad Allà perchè la sbarazzò d'una nuora che
detestava. Ecco là una medichessa briccona, a cui una  signora  ha  messo  nelle
mani una delle sue schiave, incaricandola di farle andare a male il frutto  d'un
suo intrighetto coll'Effendi, poichè se la schiava mette al mondo una  creatura,
la padrona non la può più  vendere  e  il  padrone  bisogna  che  se  la  tenga.
Quest'altra è una donna dello stesso conio, a cui certi effendi danno di  tratto
in tratto l'incarico di verificare de visu se una schiava che vogliono pigliarsi
in casa è proprio schietta farina. Quella là col viso tutto coperto e col feregé
lilla, è la moglie d'un turco amico mio; ma non è turca, è cristiana, è va tutte
le domeniche in chiesa; ma non ne dite nulla a nessuno, per riguardo a lei,  non
già per il marito, chè il Corano non proibisce di sposar  le  cristiane,  e  per
purificarsi dall'abbraccio d'un infedele basta lavarsi il viso e  le  mani.  Ah!
che cos'abbiamo perduto! È passata una carrozza del Serraglio; c'era  dentro  la
terza cadina del Sultano: ho riconosciuto il  nastro  color  di  rosa  al  collo
dell'intendente: la terza cadina, regalo del pascià di  Smirne,  che  ha  i  più
grandi occhi e la più piccola bocca dell'impero; una figura sul gusto di  questa
piccola hanum col nasino arcato, che ieri offese Gesù e Maometto con un  pittore
inglese di mia conoscenza. La sciagurata! E pensare  che  quando  i  due  angeli
Nekir e Munkir giudicheranno l'anima sua, essa crederà di scusarsi colla  solita
bugia, dicendo che in quel momento  aveva  gli  occhi  chiusi  e  non  riconobbe
l'infedele!

-

Ma dunque ci sono delle turche infedeli? Se ce ne sono!  Nonostante  la  gelosia
degli effendi e la vigilanza degli eunuchi, nonostante i cento colpi  di  frusta
che il Corano minaccia ai colpevoli, nonostante che i mariti turchi formino  tra
loro una specie di  società  di  mutua  assicurazione,  e  che  segua  là  tutto
l'opposto di quello che segue in altri  paesi,  dove  par  che  tutti  cospirino
tacitamente a danno della felicità coniugale; si  può  quasi  affermare  che  le
"velate" di Costantinopoli non commettono meno peccati che le  "non  velate"  di
molte città cristiane. Se ciò non fosse, Caragheuz non avrebbe così spesso sulla
bocca la parola kerata,  la  quale,  tradotta  in  un  nome  storico,  significa
Menelao. O com'è possibile? È possibile in mille maniere. Già bisogna  dire  che
donne nel Bosforo non se ne gettano più, nè dentro un sacco, nè senza  sacco,  e
che i castighi del digiuno, del silenzio, del  cilicio,  delle  bastonate  sulle
piante dei piedi, non son più che minacce di qualche kerata bestiale. La gelosia
cerca d'impedire il tradimento; ma quando s'accorge di non esservi riuscita, non
fa più nè le furie nè le vendette d'una volta, poichè ora è assai più  difficile
di tener nascoste le tragedie domestiche fra le mura della casa, e nella società
musulmana è entrata, con molte altre forze europee, la forza  del  ridicolo,  di
cui la gelosia ha paura. E oltre a ciò la gelosia turca, che nella maggior parte
dei casi è una gelosia fredda, corporale, d'amor  proprio  più  che  d'amore,  è
bensì severa, pesante, ed anche vendicativa; ma non può avere i  mille  occhi  e
l'attività investigatrice e infaticabile di quella che  vien  proprio  dal  vivo
dell'anima innamorata. E poi chi vigila sulle  donne  separate  dal  marito,  od
anche non separate, ma che stanno in una casa a parte, dove egli non va tutti  i
giorni? Chi le segue per i vicoli  intricati  di  Pera  e  di  Galata  e  per  i
quartieri lontani di Stambul? Chi impedisce a  un  bell'aiutante  di  campo  del
Sultano di fare quel che gli vidi far io, di passar di  galoppo  accanto  a  una
carrozza, alla svoltata d'uno stradone, nel punto in cui l'eunuco che è  dinanzi
gli volge le spalle e quello di dietro non può vederlo perchè  c'è  la  carrozza
frammezzo, e di gettare passando un bigliettino nello sportello? E le  sere  del
Ramazan che le donne stan fuori fino a  mezzanotte?  E  le  cocone  compiacenti,
specie quelle che stanno sul confine d'un sobborgo  cristiano  e  d'un  sobborgo
musulmano, che ricevono in casa un'amica velata, senza chiuder la  porta  ad  un
amico europeo? Le avventure però non son più nè strane nè terribili  come  altre
volte. Non ci son più le gran dame che di notte, dopo soddisfatto un  capriccio,
precipitano nel Bosforo per un trabocchetto il giovane di bottega che ha portata
all'arem la stoffa comprata da loro la mattina;  come  faceva  una  Sultana  del
secolo scorso. Ora tutto procede prosaicamente. I primi convegni si danno per lo
più nelle retrobotteghe. Si sa; ci sono da per  tutto  dei  bottegai  che  fanno
bottega d'ogni cosa. E non c'è da domandare se le autorità  turche  cerchino  di
impedire questi abusi. Basti il dire che delle prescrizioni per il  buon  ordine
che dà la Polizia di Costantinopoli in occasione delle grandi feste, la  maggior
parte si riferiscono alle donne, e sono direttamente rivolte a loro in forma  di
consigli o di minaccie. È proibito alle  donne,  per  esempio,  d'entrare  nelle
stanze interne delle botteghe: debbono  stare  in  modo  da  esser  viste  dalla
strada. È proibito alle donne di  andare  in  tramway  per  divertimento:  ossia
debbono scendere al termine della corsa e non tornare  subito  indietro  per  la
stessa via. È proibito alle donne di far segni alla gente che passa, di fermarsi
qui, di passar per di là, di trattenersi più di quel certo tempo  in  quei  dati
luoghi: tutte prescrizioni che ognuno può immaginare come vengano poi rispettate
e se sia possibile farle rispettare. E poi  c'è  quel  benedetto  velo,  che  fu
istituito  come  una  salvaguardia  dell'uomo,  e  che  ora  è   diventato   una
salvaguardia della donna, perchè se lo mettono trasparente  per  far  saltare  i
capricci, e fitto per poterli appagare;  dal  che  si  dice  che  nascano  molti
accidenti bizzarri: di amanti fortunati che dopo molto tempo  non  sanno  ancora
chi siano le loro belle; di donne che si nascondono sotto il nome d'un'altra per
fare una vendetta; di corbellature, di  riconoscimenti,  d'imbrogli,  che  danno
luogo a chiacchiere e a battibecchi infiniti.

-

Le chiacchiere vanno poi tutte a confondersi e a ribollire nelle case di  bagni,
che sono i luoghi usuali di convegno per le donne turche. Il bagno  è  in  certo
modo il loro teatro. Ci vanno a coppie e a brigate colle schiave,  portando  con
sè cuscini, tappeti, oggetti di  toeletta,  ghiottonerie,  e  qualche  volta  il
desinare, per starvi dalla mattina alla sera. Là, in quelle sale semioscure, fra
i marmi e le fontane, si trovano qualche volta insieme più  di  duecento  donne,
nude come ninfe o mal velate, che a detta delle signore europee che  ci  furono,
presentano uno spettacolo da far cadere il pennello di mano a cento pittori.  Vi
si vedono le hanum bianchissime accanto alle schiave nere come l'ebano; le belle
matrone dalle forme poderose che rappresentano l'ideale  della  bellezza  per  i
turchi di gusto antico; delle sposine smilze e giovanissime, coi capelli corti e
ricciuti, che sembrano giovinetti; circasse coi capelli d'oro che  cascano  fino
alle ginocchia; turche che hanno fino a cento trecce  nerissime  sparse  per  il
seno e per le spalle; altre coi capelli divisi in un'infinità di piccole ciocche
disordinate che fanno la figura d'una parrucca enorme; una  con  un  amuleto  al
collo, un'altra con uno spicchio d'aglio legato al capo per scongiurare  il  mal
d'occhio; delle mezze selvagge con rabeschi sopra le braccia;  le  donnine  alla
moda che hanno intorno alla vita le tracce del busto  e  intorno  al  collo  del
piede i segni dello stivaletto; e qualche volta anche delle povere  schiave  che
mostrano sulle spalle le impronte del frustino degli eunuchi.  Si  vedono  mille
gruppi e mille atteggiamenti graziosi e bizzarri;  alcune  fumano  sdraiate  sui
tappeti,  altre  si  fanno  pettinar  dalle  schiave,  altre   ricamano,   altre
canterellano, ridono, si spruzzano e si rincorrono, o strillano sotto le doccie,
o gozzovigliano sedute in cerchio, o tagliano i panni al prossimo aggruppate  in
disparte. E scoprendo il loro corpo, scoprono anche, là più che altrove, la loro
indole fanciullesca. Si misurano i piedini, si giudicano,  si  confrontano.  Una
dice francamente: - Son bella; - un'altra: - Son passabile:  -  un'altra:  -  Mi
rincresce d'aver questo difetto - oppure: - Ma sai che sei più bella di me,  tu?
- E qualcuna dice in tuono di  rimprovero  all'amica:  -  Ma  guarda  dunque  la
signora Ferideh com'è diventata grassa a mangiar  gamberi  schiacciati,  tu  che
dicevi che fanno meglio le pallottole di riso? - E quando c'è una cocona garbata
la circondano e le fanno mille domande: - Ma è vero che andate ai balli scoperte
fin qui? Il vostro effendi che cosa ne pensa? E gli altri  uomini  che  cosa  ne
dicono? E come vi pigliate per ballare? In codesto  modo?  Ma  davvero?  Ma  son
proprio cose che bisognerebbe vederle per poterci credere!

-

E non solo nei bagni, ma per tutto e in tutte le occasioni cercano di  conoscere
signore europee, e son felici quando  possono  attaccar  discorso  con  esse,  e
specialmente quando possono  riceverle  in  casa.  Allora  radunano  le  amiche,
mettono in vista tutte le donne di servizio, fanno un po' di  festa,  rimpinzano
la visitatrice di dolci e di frutti, e di rado la lasciano andar  via  senza  un
regalo. Il sentimento che le muove a queste dimostrazioni è più la curiosità, si
capisce,  che  la  benevolenza;  e  infatti,  appena  hanno  preso  un  po'   di
famigliarità colla nuova amica, si  fanno  dire  mille  particolari  della  vita
europea, esaminano  il  suo  vestiario  parte  per  parte  dal  cappellino  agli
stivaletti, e non sono soddisfatte se non quando l'hanno  condotta  al  bagno  e
hanno visto bene com'è fatta una nazarena, una di  queste  donne  straordinarie,
che studiano tante cose, che dipingono, che scrivono per le stampe, che lavorano
negli uffici pubblici, che montano a  cavallo,  che  salgono  sulla  cima  delle
montagne. Da molto tempo, però, non hanno più di loro le strane idee che avevano
prima della riforma; non credono più, per esempio, che il busto sia  una  specie
di corazza messa dai mariti alle mogli per assicurarsi della loro fedeltà, e  di
cui essi soli abbian la chiave; nè che le donne europee siano  di  tutti  coloro
con cui vanno una volta a braccetto; per il che le guardavano con  diffidenza  e
ne parlavano con disprezzo, non invidiando nemmeno la loro coltura, di  cui  non
avevano idea o che non erano in grado d'apprezzare. Ora nutrono invece per  esse
un tutt'altro sentimento, e son  diventate  diffidenti  nel  senso  opposto;  si
vergognano, cioè, in faccia a loro, della propria  ignoranza;  temono  di  parer
rozze o sciocche  o  puerili;  e  molte  non  s'abbandonano  più  coll'ingenuità
confidente delle prime volte. Ma le imitano sempre più nel vestire e  nei  modi.
Quelle che studiano una lingua europea, la studiano più per imitazione  che  per
desiderio di sapere, o la studiano per parlare con  le  cristiane.  Discorrendo,
s'ingegnano d'incastrare nel turco qualche parola francese; quelle che non sanno
quella lingua, fingon di saperla o almeno d'intenderla; sono beate  di  sentirsi
chiamar madame; vanno apposta in certe botteghe di franchi per  essere  salutate
con quel titolo; e Pera, la gran Pera le  attira,  come  il  lume  le  farfalle;
attira i loro passi, le loro fantasie e i loro quattrini, e qualche volta  anche
i loro peccati. Per questo son smaniose di conoscer signore  franche,  che  sono
per esse come le rivelatrici d'un nuovo mondo. Da loro  si  fanno  descrivere  i
grandi spettacoli dei teatri d'occidente, i balli splendidi, i  bei  conviti,  i
ricevimenti sontuosi delle gran dame, le  avventure  carnevalesche  e  i  grandi
viaggi, e tutte queste immagini luminose turbinano poi tutte insieme nella  loro
testina affaticata, fra le pareti  uggiose  dell'arem,  all'ombra  dei  giardini
malinconici; e come le donne europee sognano gli orizzonti sereni  dell'Oriente,
esse sospirano in quei momenti, la vita varia e febbrile  dei  nostri  paesi,  e
darebbero tutte le meraviglie del Bosforo per un quartiere nebbioso  di  Parigi.
Ma non è soltanto la vita varia e febbrile ch'esse sospirano;  è  anche,  e  più
sovente e più intimamente desiderata, la vita domestica, il piccolo mondo  della
casa europea, il cerchio degli amici devoti, le  mense  coronate  di  figli,  le
belle vecchiezze onorate; quel santuario pieno di memorie, di  confidenze  e  di
tenerezze, che può render bella l'unione di due anime anche  senza  l'amore;  al
quale si ritorna anche dopo una lunga vita d'aberrazioni e di colpe; nel  quale,
anche fra i dolori del presente e le tempeste della giovinezza, il  pensiero  si
rifugia e il cuore si conforta, come in una promessa di pace per  gli  anni  più
tardi, come nella bellezza d'un tramonto sereno contemplato dall'oscurità  della
valle.

-

Ma c'è una gran cosa da dire a conforto di tutti coloro che lamentano  la  sorte
della donna turca, ed è che la poligamia decade di giorno in giorno. Già è stata
considerata sempre dai turchi medesimi piuttosto come un abuso  tollerabile  che
come diritto naturale dell'uomo. Maometto disse: - È sempre lodevole  chi  sposa
una donna sola, - benchè egli ne abbia sposato parecchie; e sposano infatti  una
donna sola tutti coloro che vogliono dar l'esempio di costumi onesti ed austeri.
Chi n'ha più d'una, non è apertamente disapprovato, ma  non  è  nemmeno  lodato.
Sono pochi i turchi che sostengono la poligamia apertamente, più rari quelli che
l'approvino nella loro coscienza. Quasi tutti ne comprendono l'ingiustizia e  le
male conseguenze; molti la combattono a viso aperto e con ardore.  Tutti  coloro
che sono in una condizione  sociale  che  impone  una  certa  rispettabilità  di
carattere e una qualche dignità di vita, non hanno che una donna. Ne  hanno  una
sola  gli  alti  impiegati  dei  ministeri,  gli  ufficiali   dell'esercito,   i
magistrati, gli uomini di religione. Una sola, per necessità, tutti i  poveri  e
quasi  tutti  gli  uomini  del  mezzo  ceto.  Quattro  quinti  dei   turchi   di
Costantinopoli non sono più poligami. Molti, è vero, non sposano che  una  donna
per la manìa d'imitar gli europei; e molti altri, che hanno una moglie sola,  si
rifanno colle odalische. Ma quella manìa d'imitazione ha le sue prime radici  in
un sentimento confuso della necessità d'un cangiamento nella società  musulmana;
e l'uso delle odalische, apertamente biasimato come vizio, non può  che  scemare
col ristringersi del commercio, ancora tollerato,  delle  schiave,  fin  che  si
confonderà colla corruzione ordinaria di tutti i paesi europei. Ne  nascerà  una
corruzione  maggiore?  Ad  altri  la  sentenza.  Questo  è  il  fatto:  che   la
trasformazione europea della società turca non è possibile senza  la  redenzione
della donna, che la redenzione della donna non si può compiere senza  la  caduta
della poligamia, e che la poligamia cade. Nessuno forse leverebbe la voce, se la
sopprimesse improvvisamente domani un decreto del  Gran  Signore.  L'edifizio  è
crollato e non c'è più che da sgombrar le rovine. La nuova aurora tinge  già  di
rosa le terrazze degli arem. Sperate, o  belle  hanum!  Le  porte  del  selamlik
saranno spezzate, le grate cadranno, il feregé andrà a decorare i musei del gran
bazar, l'eunuco non sarà più che una  reminiscenza  nera  dell'infanzia,  e  voi
mostrerete liberamente al mondo le grazie del  vostro  viso  e  i  tesori  della
vostra anima; e allora, ogni volta  che  si  nomineranno  in  Europa  le  "perle
dell'Oriente",  s'intenderà  di  nominar  voi,  o  bianche  hanum;  voi,   belle
musulmane, colte, argute e gentili; non le inutili perle  che  brillano  intorno
alla vostra fronte in mezzo alle pompe fredde dell'arem.  Coraggio,  dunque!  Il
Sole si leva. Per me - e questo lo dico ai miei amici increduli -  vecchio  come
sono, non ho ancora rinunziato alla speranza di dare il braccio alla moglie d'un
pascià di passaggio per Torino, e di condurla a passeggiare sulle rive  del  Po,
recitandole un capitolo dei Promessi Sposi.

IANGHEN VAR

Stavo appunto fantasticando intorno a questa passeggiata, verso le cinque  della
mattina, nella mia camera dell'Albergo di Bisanzio, e così tra  il  sonno  e  la
veglia, vedendo lontano la collina di Superga, cominciavo a dire alla mia  hanum
viaggiatrice: - "Quel ramo del lago di Como che  volge  a  mezzogiorno  fra  due
catene non interrotte...." - quando mi comparve dinanzi, col lume  in  mano,  il
mio amico Yunk "bianco vestito" e mi domandò con gran  meraviglia:  -  Che  cosa
accade questa notte a Costantinopoli? Tesi l'orecchio e sentii un rumore sordo e
confuso che veniva dalla strada, un suono di passi affrettati per le  scale,  un
mormorio, un fremito, che pareva di giorno. Mi affacciai alla  finestra  e  vidi
giù nell'oscurità un gran correre di gente  verso  il  Corno  d'oro.  Corsi  sul
pianerottolo, afferrai un cameriere greco che scendeva le scale a  precipizio  e
gli domandai che cos'era accaduto. Egli si svincolò dicendo: - Ianghen var,  per
Dio! Non avete sentito il grido? - E poi soggiunse scappando: - Guardate la cima
della Torre di Galata. - Tornammo alla finestra e  guardando  giù  verso  Galata
vedemmo tutta la parte  superiore  della  gran  torre  illuminata  da  una  luce
purpurea vivissima, e una gran nuvola nera che s'alzava  dalle  case  vicine  in
mezzo a un vortice  di  scintille  e  s'allargava  rapidamente  sopra  il  cielo
stellato.  Subito  il  nostro  pensiero  corse  ai   formidabili   incendii   di
Costantinopoli, e specialmente a quello spaventevole di quattr'anni  innanzi;  e
il nostro primo sentimento fu di terrore e  di  compassione.  Ma  immediatamente
dopo, - lo confesso e me ne vergogno, - un altro sentimento egoistico e crudele,
- la curiosità del pittore e del descrittore, - prese il disopra e,  -  confesso
anche questo, - ci scambiammo un sorriso che il Doré avrebbe potuto  cogliere  a
volo per stamparlo sulla faccia d'uno dei suoi demoni danteschi. Chi  ci  avesse
aperto il petto, in quel momento, non ci avrebbe trovato che un calamaio  e  una
tavolozza. Ci vestimmo e scendemmo in furia giù per la gran strada di  Pera.  Ma
la nostra curiosità, per fortuna, fu delusa. Non eravamo  ancora  arrivati  alla
torre di Galata che l'incendio  era  quasi  spento.  Finivano  di  bruciare  due
piccole case;  la  gente  cominciava  a  ritirarsi;  le  strade  erano  allagate
dall'acqua delle pompe e ingombre  di  mobili  e  di  materasse,  fra  le  quali
andavano e venivano,  nell'oscurità  grigia  del  mattino,  uomini  e  donne  in
camicia, tremanti dal freddo, levando in cento lingue un vocìo  assordante,  nel
quale non si sentiva più che quel resto di paura che dà sapore alla  chiacchiera
dopo un grave pericolo svanito. Vedendo che tutto stava  per  finire,  scendemmo
verso il ponte per consolarci del nostro dispetto scellerato  colla  levata  del
sole. Qui assistemmo a uno spettacolo che valeva quello d'un incendio. Il  cielo
cominciava appena a chiarirsi dietro le colline dell'Asia. Stambul,  scossa  per
poco al primo annunzio dell'incendio, era già  rientrata  nella  quiete  solenne
della notte. Le rive e il ponte erano deserti; tutto  il  Corno  d'oro  dormiva,
coperto da una bruma leggerissima e immerso in un silenzio profondo. Non  moveva
una barca, non volava un uccello, non stormiva un  albero,  non  si  sentiva  un
respiro. Quella interminabile città  azzurra,  muta  e  velata,  pareva  dipinta
nell'aria,  e  sembrava  che,  gettando  un  grido,  avrebbe   dovuto   svanire.
Costantinopoli non ci s'era mai  mostrata  in  un  aspetto  così  aereo  e  così
misterioso; non ci aveva mai presentato più vivamente l'immagine di quelle città
favolose delle storie orientali, che il pellegrino vede sorgere  improvvisamente
dinanzi a sè, e vi trova, entrando,  un  popolo  immobile,  pietrificato,  negli
infiniti atteggiamenti di una  vita  affaccendata  ed  allegra,  dalla  vendetta
improvvisa d'un Re dei geni. Stavamo là appoggiati  alle  spallette  del  ponte,
contemplando quella scena meravigliosa, senza più pensare  all'incendio,  quando
sentimmo prima un vocìo fioco e confuso di là dal Corno d'oro, come di gente che
chiedesse soccorso, e poi uno scoppio di grida altissime: - Allà! Allà! Allà!  -
che risonarono improvvisamente nel vano enorme e silenzioso della rada, e  nello
stesso tempo apparve sulla sponda opposta,  e  si  slanciò  giù  per  il  ponte,
correndo precipitosamente verso  di  noi,  una  folla  rumorosa  e  sinistra.  -
Tulumbadgi! - gridò uno dei guardiani del ponte. - (I pompieri!) Noi ci  tirammo
da una parte. Un'orda di selvaggi seminudi, col capo scoperto, coi petti irsuti,
grondanti di sudore, vecchi, giovani, neri, nani e giganti cappelluti e  rapati,
faccie d'assassini e di ladri, quattro dei  quali  portavano  sulle  spalle  una
piccola pompa e pareva una bara di fanciullo; armati di lunghe aste uncinate, di
fasci di corde, d'ascie, e  di  picconi,  -  ci  passarono  accanto,  urlando  e
anelando, cogli occhi dilatati, coi capelli sparsi, coi cenci al vento, stretti,
impetuosi e biechi, -  e  gettandoci  in  viso  una  tanfata  d'odor  di  belve,
disparvero nella strada di Galata, d'onde  ci  giunsero  le  loro  ultime  grida
fioche di Allà, e poi fu di nuovo un silenzio  profondo.  L'impressione  che  mi
fece quell'apparizione tumultuosa e  fulminea  in  quella  quiete  arcana  della
grande città addormentata, non la so esprimere; - so che compresi e vidi  in  un
momento mille scene d'invasioni barbariche, di saccheggi e d'orrori di  paesi  e
di tempi  lontani,  che  fino  allora  la  mia  immaginazione  si  era  sforzata
inutilmente di rappresentarsi al vivo, e che mi domandai se quella era la città,
se quello era proprio il ponte, su cui, di giorno, passavano degli  ambasciatori
europei, delle signore  vestite  alla  parigina  e  dei  venditori  di  giornali
francesi. Un minuto dopo, il silenzio solenne del Corno d'oro fu rotto di  nuovo
da un gridìo lontano, e un'altra turba scamiciata e selvaggia ci passò  dinanzi,
come un turbine, sul ponte ondeggiante e sonante, levando un  frastuono  confuso
di urli, di sbuffi, d'aneliti, di risa soffocate e sinistre, e un'altra volta le
grida prolungate e lamentevoli di Allà si perdettero per le  strade  di  Galata,
seguite da un silenzio mortale. Poco  dopo  passò  un'altra  turba,  e  poi  una
quarta, e poi altre due, e infine passò il pazzo di Pera, nudo  dalla  testa  ai
piedi, mezzo morto dal freddo, gettando grida acutissime, inseguito da un branco
di monelli turchi, che disparvero con lui e coi pompieri dietro  le  case  della
riva franca; e sulla grande città, dorata dai primi raggi dell'aurora,  tornò  a
regnare un altissimo silenzio. Di lì a  poco  si  levò  il  sole,  comparvero  i
muezzin sui minareti, si mossero i caicchi, si  svegliò  il  porto,  cominciò  a
passar gente sul  ponte  e  a  spandersi  intorno  il  rumor  sordo  della  vita
cittadina, e noi ritornammo verso Pera. Ma l'immagine  di  quella  grande  città
assopita, di quel cielo albeggiante, di quella  pace  solenne,  di  quelle  orde
selvaggie, ci rimase così profondamente stampata nella mente,  che  oggi  ancora
non ci rivediamo una volta senza ricordarcela, con un  misto  piacevolissimo  di
stupore e di paura, come una  scena  veduta  nella  Stambul  d'altri  secoli,  o
sognata nell'ebbrezza dell'hascisc.

Così non vidi lo spettacolo di un incendio a Costantinopoli; ma se non  lo  vidi
coi miei occhi, conobbi tanti testimonii oculari di quello  che  distrusse  Pera
nel 1870, e ne raccolsi notizie così minute, che posso dire d'averlo visto colla
mente, e descriverlo forse con non minore evidenza che se ne fossi stato anch'io
spettatore.

La prima fiamma s'accese in una piccola casa di via Feridié, in Pera, il  giorno
cinque di giugno, stagione in cui una buona parte della  popolazione  agiata  di
Costantinopoli villeggia sul Bosforo; al tocco  dopo  mezzogiorno,  ora  in  cui
quasi tutti gli abitanti della città, anche europei, stanno chiusi in casa a far
la siesta. Nella casa di via  Feridié  non  c'era  che  una  vecchia  serva;  la
famiglia era partita la mattina per la campagna. Appena s'accorse dell'incendio,
la vecchia si slanciò nella strada e si mise a correre gridando: - Al  fuoco!  -
Subito accorse gente dalle case intorno, con secchie  e  con  piccole  pompe  -,
perchè era già caduta la legge insensata che proibiva di spegnere  gli  incendii
prima che arrivassero gli ufficiali dei Seraschierato  -,  e,  come  sempre,  si
precipitarono tutti verso la fontana più vicina per prender acqua. Le fontane di
Pera, a cui i portatori d'acqua vanno ad attingere, a certe ore, per le famiglie
del  quartiere,  vengono  tutte  chiuse  a  chiave  dopo  la  distribuzione,   e
l'impiegato che le ha  in  custodia  non  può  più  aprirle  senza  il  permesso
dell'autorità. In quel momento appunto v'era accanto alla  fontana  una  guardia
turca della municipalità di Pera, che aveva la  chiave  in  tasca,  e  stava  là
spettatrice  impassibile  dell'incendio.  La  folla  affannata  lo  circonda   e
gl'intima di aprire. Egli rifiuta dicendo che non ha l'ordine. Gli si  stringono
addosso, lo minacciano, lo afferrano: egli resiste, si dibatte,  grida  che  non
leveranno la chiave che dal suo cadavere. Intanto le fiamme avvolgono  tutta  la
casa e cominciano ad attaccarsi alle case vicine. La  notizia  dell'incendio  si
propaga di quartiere in quartiere. Dalla sommità della  torre  di  Galata  e  di
quella del Seraschiere, i guardiani hanno visto il fumo e messo fuori le  grandi
ceste purpuree, segnale degl'incendii di  giorno.  Tutte  le  guardie  di  città
corrono per le strade battendo i loro lunghi bastoni sul ciottolato  e  mettendo
il grido sinistro: - Ianghen var! - C'è il fuoco! - a cui rispondono  con  rulli
cupi e precipitosi i  mille  tamburi  delle  caserme.  Il  cannone  di  Top-hané
annunzia il pericolo alla immensa città con tre colpi che risuonano dal  mar  di
Marmara al mar Nero. Il Seraschierato, il serraglio, le ambasciate, tutta Pera e
tutta Galata sono sottosopra; e pochi minuti dopo arrivano a  spron  battuto  in
via Feridié il ministro della guerra, un nuvolo di  ufficiali,  un  esercito  di
pompieri, e cominciano precipitosamente il lavoro. Ma come accade quasi  sempre,
quel primo tentativo riuscì inutile.  Le  strade  strettissime  non  concedevano
libertà di movimenti; le  pompe  non  servivano,  l'acqua  era  insufficiente  e
lontana; i pompieri,  mal  disciplinati,  come  sempre,  e  piuttosto  intesi  a
crescere che a scemare la confusione, per pescare nel  torbido;  e  per  di  più
scarseggiavano i facchini per il trasporto delle robe, essendone andato un  gran
numero, quel giorno, alla festa nazionale armena che si celebra a  Beicos.  È  a
notarsi, inoltre, che le case di legno erano allora in assai maggior numero  che
non siano ora, e che anche le case di pietra e di mattoni avevano,  come  quelle
di legno, dei tetti sottili, difesi da radissime tegole, e perciò facilissimi ad
accendersi. E non v'era nemmeno il vantaggio che presenta, in simili  occasioni,
la popolazione musulmana, la quale, fatalista ed apatica com'è  in  faccia  alla
sventura, non si atterrisce gran fatto all'aspetto d'un incendio, e se non aiuta
abbastanza a spegnere, non intralcia almeno l'opera degli altri con  la  propria
forsennatezza.  Quella  era  popolazione  quasi  tutta  cristiana   e   perdette
immediatamente la testa. L'incendio non abbracciava ancora che poche  case,  che
già in tutte le strade d'intorno era un tramestìo indescrivibile, un  precipitar
di mobili dalle finestre, un tumulto di pianti e  di  grida,  uno  sgomento,  un
ingombro, contro cui non potevano nè le minaccie,  nè  la  forza,  nè  le  armi.
Un'ora era appena trascorsa dall'apparire delle prime fiamme,  e  già  tutta  la
strada Feridié era  accesa,  e  gli  ufficiali  e  i  pompieri  indietreggiavano
rapidamente da tutte le parti, lasciando qua e là morti e feriti, e la  speranza
di soffocar l'incendio sul nascere era perduta.  Per  maggior  disgrazia  tirava
quel giorno un vento fortissimo che abbatteva le fiamme delle case ardenti sopra
i tetti delle case vicine, in  larghe  vampe  orizzontali,  che  parevano  tende
ondeggianti, in modo che il fuoco penetrava in tutte le  case  dal  tetto,  come
rovesciatovi sopra da un vulcano. L'accensione era così rapida, che le  famiglie
raccolte nelle case, sicure d'essere ancora in tempo a portar via una parte  dei
loro averi, si sentivano tutt'a un tratto crepitare il tetto sul capo, e  appena
riuscivano a metter in salvo la vita. Le case s'accendevano l'una  dopo  l'altra
come  se  fossero  state  intonacate  di  pece,  e  subito,  dalle  innumerevoli
finestrine prorompevano le fiamme lunghe, diritte,  mobilissime,  come  serpenti
smaniosi di preda, che si curvavano fino a lambire la strada  quasi  per  cercar
vittime umane. L'incendio non correva, volava, e prima  di  avvolgere,  copriva,
come un mare di fuoco. Dalla via  Feridiè  irruppe  furiosamente  nella  via  di
Tarla-Bascì, di qui tornò indietro e invase come un torrente la via di Misc, poi
infiammò  come  una  foresta  secca  il  quartiere  Aga-Dgiami,   poi   la   via
Sakes-Agatsce, poi quella di Kalindgi-Kuluk, e poi di strada in strada, coprì di
fuoco tutta la china di Yeni-Sceir, e  s'incrociò  col  turbine  di  fiamme  che
veniva giù strepitando e muggendo per  la  gran  strada  di  Pera.  Non  c'erano
soltanto mille incendii da spegnere, mille nemici sparsi  da  combattere;  erano
come le insidie e i colpi di mano inaspettati d'un grande esercito,  che  pareva
fosse guidato astutamente da una volontà unica, per cogliere nella rete la città
intera, e non lasciar scampo a nessuno. Erano tanti  torrenti  di  lava  che  si
riunivano e s'incrociavano, precipitando e spandendosi in laghi di fuoco con una
rapidità che preveniva tutti i soccorsi. In capo a tre ore metà di Pera  era  in
fiamme. Una miriade di  colonne  di  fumo  vermiglio,  sulfureo,  bianco,  nero,
fuggivano rapidissimamente rasente i tetti e  s'allungavano  a  perdita  d'occhi
lungo le colline, ottenebrando e tingendo di colori sinistri i  vasti  sobborghi
del Corno d'oro; per tutto era un turbinio furioso di cenere e di  scintille;  e
il vento sbatteva contro le case ancora intatte dei  bassi  quartieri  una  vera
grandine di braci e  di  tizzi,  che  spazzavano  le  strade  come  scariche  di
mitraglia. Le strade dei quartieri accesi non  erano  più  che  grandi  fornaci,
sopra alcune delle quali le fiamme formavano come  un  fitto  padiglione,  e  là
precipitavano e saltellavano con un fracasso orrendo i pini del mar  Nero  delle
travature dei tetti, i travicelli sottili dei  ciardak,  i  balconi  vetrati,  i
minareti di legno delle piccole moschee, che pareva rovinassero spezzati  da  un
terremoto. Per le strade ancora accessibili, si vedevano passare, come  spettri,
illuminati da bagliori d'inferno,  lancieri  a  cavallo,  ventre  a  terra,  che
portavano in tutte le direzioni gli  ordini  del  Seraschierato;  ufficiali  del
Serraglio, col capo scoperto e la divisa  abbruciacchiata;  cavalli  sciolti  di
soldati caduti; frotte  di  facchini  carichi  di  masserizie,  sciami  di  cani
ululanti, turbe di fuggiaschi che inciampavano e stramazzavano urlando  giù  per
le chine, tra i feriti, i cadaveri e le macerie, e sparivano tra il  fumo  e  le
fiamme, come legioni di dannati. Per  un  momento,  fu  visto  immobile  dinanzi
all'imboccatura  d'una  strada  accesa  del  quartier  Aga-Dgiami,  il   Sultano
Abdul-Aziz, a cavallo, circondato dal suo  corteo,  pallido  come  un  cadavere,
cogli occhi dilatati e fissi nelle fiamme, come se ripetesse tra  sè  le  parole
memorabili di Selim I: - Ecco il soffio ardente delle mie vittime! Io lo  sento,
che distruggerà la città, il mio serraglio e me pure! - E  poi  disparve  in  un
nuvolo  di  cenere,  trascinato  dai  suoi  cortigiani.  Tutto   l'esercito   di
Costantinopoli e tutta l'innumerevole turba dei pompieri era in moto, a  frotte,
a lunghissime catene, a semicerchi immensi che abbracciavano  interi  quartieri,
sorvegliati e diretti da visir, da ufficiali di corte, da pascià, da  ulema;  in
alcuni punti, per tagliar la strada alle fiamme, fervevano battaglie  disperate;
case  dietro  case,  in  pochi  minuti,  cadevano  sotto  le  scuri;   i   tetti
formicolavano di gente ardita che affrontava il fuoco a bruciapelo, e cadevano a
capofitto nei crateri aperti sotto i loro piedi, e altri vi succedevano, come in
una  mischia,  ostinati,  gettando   grida   selvaggie,   e   agitando   i   fez
abbruciacchiati in mezzo  al  fumo  color  di  foco.  Ma  l'incendio  s'avanzava
vittorioso in mezzo ai mille getti d'acqua, sorpassando a grandi  salti  piazze,
giardini, grandi edifici di pietra, piccoli cimiteri, e faceva da tutte le parti
retrocedere  pompieri,  soldati  e  cittadini,  come  un  esercito   in   rotta,
flagellandoli alle spalle con una pioggia di  carboni  roventi.  Si  compievano,
anche in quell'orrenda confusione, dei belli atti di coraggio e di  umanità.  Si
videro in molti punti, fra le rovine  ardenti  delle  case,  sventolare  i  veli
bianchi  delle  Suore  di  Carità,  curve  sui  moribondi;  dei  turchi  che  si
slanciarono tra le fiamme e ricomparvero  poco  dopo  sollevando  sulle  braccia
scorticate dei bambini cristiani;  altri  musulmani  che,  dinanzi  a  una  casa
infiammata, immobili, colle braccia incrociate in mezzo a una famiglia cristiana
in preda alla disperazione,  offrivano  freddamente  cento  lire  turche  a  chi
salvasse un ragazzo europeo rimasto  nel  fuoco;  alcuni  che  raccoglievano  in
drappelli, per le strade, i bimbi  smarriti,  e  li  legavano  colle  bende  del
turbante, per restituirli poi ai parenti; altri che aprivano  le  loro  case  ai
fuggitivi seminudi; più d'uno,  che,  per  dar  un  esempio  di  coraggio  e  di
disprezzo dei beni terreni, mentre la propria casa bruciava, stava seduto  nella
via sopra un tappeto, fumando tranquillamente il narghilè, e si  faceva  in  là,
con suprema indifferenza, man mano che le fiamme s'avvicinavano. Ma il  coraggio
e la freddezza d'animo non valevano più oramai contro quella tempesta di  fuoco.
A momenti, pareva che, scemando un poco il vento,  l'incendio  rimettesse  della
sua furia; ma subito il vento ricominciava a soffiare con maggior veemenza, e le
fiamme, che s'erano appena risollevate, tornavano a  curvarsi  con  impeto  e  a
vibrare come freccie le loro punte diritte e implacabili, levando  uno  strepito
cupo e precipitoso, rotto  dagli  scoppi  improvvisi  delle  farmacie  piene  di
petrolio, dalle detonazioni del gaz sparso per le case, di cui i  tubi  disfatti
mandavano fuori rigagnoli di piombo fuso; dai tetti che  rovinavano  d'un  colpo
come schiacciati da una valanga; dal crepitìo dei giardini di  cipressi  che  si
contorcevano e s'infiammavano a un  tratto,  sciogliendosi  in  una  pioggia  di
resina  ardente;  dai  gruppi  di  vecchie  case  di  legno,  che  s'accendevano
scoppiettando come fuochi d'artifizio, e sprigionavano fasci  enormi  di  fiamme
bianche in cui parevano che soffiassero  mantici  di  cento  officine.  Era  uno
stritolamento, un rovinìo, una distruzione rabbiosa, che pareva  prodotta  nello
stesso tempo da un incendio, da un'inondazione, da una convulsione della terra e
dalla rapina d'un esercito. Nessuno aveva mai nè  visto  nè  sognato  un  simile
orrore.  La  popolazione  pareva  impazzita.  Per  le  strade  di  Pera  era  un
rimescolamento vertiginoso e un urlìo forsennato come sul ponte d'un  bastimento
nel momento del naufragio. In mezzo ai mobili rotolati, sotto al  balenìo  delle
spade degli ufficiali, fra gli urti e le bastonate dei facchini e dei  portatori
d'acqua, in mezzo ai cavalli dei Pascià e alle frotte dei pompieri che passavano
di corsa  investendo  e  rovesciando  quanto  incontravano,  famiglie  italiane,
francesi,  greche,  armene,  poveri  e  ricchi,  donne  e  fanciulli,  smarriti,
smemorati,  si  cercavano  brancolando,  si  chiamavano  gridando  e  piangendo,
soffocati dal fumo e accecati dalle scintille; passavano  ambasciatori,  seguiti
da drappelli di servi, carichi di carte e di libri;  frati  che  innalzavano  un
crocifisso sopra la folla; gruppi di donne turche che portavano fra  le  braccia
gli oggetti più preziosi dell'arem; stuoli  di  gente  curva  sotto  spoglie  di
chiese, di teatri, di scuole, di moschee; e a quando a quando, una nuvola enorme
di fumo caliginoso, spinta giù da una ventata improvvisa, immergeva tutti  nelle
tenebre e cresceva lo scompiglio e il terrore. A crescere ancora gli  orrori  di
quel disastro, c'era, come sempre, ma più quel giorno che mai,  una  miriade  di
ladri d'ogni paese, sbucati  da  tutti  i  covi  di  Costantinopoli,  riuniti  a
drappelli d'intesa fra loro, e vestiti da facchini, da signori o da  soldati,  i
quali entravano nelle case e rubavano a man salva, e correvano poi in  frotte  a
Kassim-Pascià e a Tataola, a depositarvi il bottino; e i soldati li  cacciavano,
stendendosi  in  cordoni,  e  assalendoli  a  pattuglie,  e   seguivano   lotte,
dispersioni e inseguimenti, che aggiungevano sgomento a sgomento. I pompieri,  i
facchini, i portatori d'acqua, spalleggiati dai loro parenti, stretti  in  bande
brigantesche, sotto gli occhi delle famiglie desolate di cui ardevano  le  case,
interrompevano il lavoro, e mettevano a prezzo d'oro la continuazione. I  mobili
ammucchiati a traverso le strade strette, difesi  dalle  famiglie,  erano  presi
d'assalto da torme di predoni, colle  armi  alla  mano,  e  poi  ridifesi,  come
barricate, dall'assalto di altri  predoni.  Turbe  di  fuggitivi,  incontrandosi
colle loro robe nei varchi angusti, si disputavano ferocemente la precedenza del
passaggio, e lasciavano il terreno ingombro di gente soffocata o ferita. Ma  già
dopo le prime quattr'ore d'incendio, la  furia  del  foco  era  tale  che  pochi
s'affannavano più per le proprie robe, e a tutti pareva già molto di  metter  in
salvo la vita. Due terzi di Pera ardevano, e  le  fiamme,  correndo  sempre  più
rapidamente in tutte le direzioni, accerchiavano quasi all'improvviso dei  vasti
spazii prima che  la  gente,  ch'era  dentro,  se  ne  avvedesse.  Centinaia  di
sventurati, stretti in folla, si slanciavano su per una  stradicciuola  tortuosa
per cercare uno scampo, e improvvisamente, a una  svoltata,  si  vedevano  venir
contro un uragano di vampe e di fumo, che li ricacciava indietro, forsennati,  a
cercare un'altra uscita. Famiglie intere, - ed  una,  fra  queste,  di  ventidue
persone, - erano tutt'a un tratto circondate,  asfissiate,  arse,  carbonizzate.
Presi  dalla  disperazione,  si  rifugiavano  nelle  cantine   dove   rimanevano
soffocati, si precipitavano nei  pozzi  e  nelle  cisterne,  s'impiccavano  agli
alberi, o dopo aver cercato inutilmente un ricovero nei ripostigli  più  segreti
della casa, smarrita la ragione, uscivano  all'aperto  e  correvano  a  buttarsi
nelle fiamme. Dai luoghi alti di Pera, si vedevano giù per le chine, in mezzo  a
cerchi di fuoco, famiglie inginocchiate sulle terrazze, colle braccia tese e  le
mani giunte, che chiedevano al cielo il soccorso che  non  speravano  più  dalla
terra. Si vedevano venir giù di corsa dalle alture di Pera e  sparpagliarsi  per
Galata, per Top-hanè, per Funduclù,  per  i  bassi  cimiteri,  stormi  di  gente
pallida  e  scapigliata,  stravolta  dal  terrore,  che  cercava   ancora   dove
nascondersi, come se fosse inseguita dal fuoco;  fanciulli  insanguinati,  donne
lacere, coi  capelli  arsi,  che  stringevano  fra  le  braccia  bimbi  morti  o
acciecati; uomini col viso e le braccia  scorticate  che  si  scontorcevano  per
terra fra gli spasimi dell'agonia; vecchi singhiozzanti  come  bambini,  signori
ridotti alla miseria che davan del  capo  nei  muri,  giovanetti  deliranti  che
andavano a cadere estenuati sulla riva del Corno d'oro, famiglie  che  portavano
cadaveri anneriti, sventurati impazziti dallo spavento che trascinavano seggiole
attaccate a uno spago o si serravano sul petto delle bracciate  di  cocci  e  di
cenci, prorompendo in  grida  lamentevoli  o  in  risa  frenetiche.  E  intanto,
continuavano a salire dai quartieri bassi, dagli  arsenali  di  Ters-hanè  e  di
Top-hanè, dalle caserme, dalle moschee, dai palazzi  del  Sultano,  e  correvano
come a un assalto, urlando Janghen var  e  Allà,  su  per  le  colline,  fra  il
turbinìo della cenere e delle scintille, sotto una pioggia di caligine  ardente,
per le strade coperte di tizzoni e di rottami, battaglioni di  nizam,  bande  di
ladri, falangi di pompieri, generali, dervis, messi della  Corte,  famiglie  che
tornavano indietro a cercare i parenti perduti, predatori ed eroi, la  sventura,
la carità  e  il  delitto,  confusi  in  una  turba  spaventevole,  che  montava
rumoreggiando  come  un  mare  in  tempesta,  colorata  dai  riflessi   vermigli
dell'immensa fornace. E poco lontano da quell'inferno, rideva, come  sempre,  la
maestà serena  di  Stambul  e  la  bellezza  primaverile  della  riva  asiatica,
specchiata dal mar di Marmara e dal Bosforo, coperto di bastimenti immobili; una
folla immensa, che faceva nere tutte le rive, assisteva muta e impassibile  allo
spettacolo spaventoso; i muezzin annunziavano con lente cantilene  dai  terrazzi
dei minareti il tramonto del sole; gli uccelli  roteavano  allegramente  intorno
alle moschee delle sette colline;  e  i  vecchi  turchi,  seduti  all'ombra  dei
platani, sopra le alture verdi di Scutari, mormoravano  con  voce  pacata:  -  È
sonata l'ultima ora per la città dei Sultani. - Il giorno prescritto è venuto. -
La sentenza d'Allà si compisce. - Così sia - Così sia. L'incendio, per  fortuna,
non si protrasse nella notte. Alle sette della sera s'accendeva, per ultimo,  il
palazzo  dell'ambasciata  d'Inghilterra;  dopo   di   che   il   vento   cessava
improvvisamente, e le fiamme morivano, spontaneamente o soffocate, da  tutte  le
parti. In sei ore due terzi di Pera erano stati distrutti dalle fondamenta, nove
mila case incenerite, due mila persone morte. Dopo l'incendio famoso  del  1756,
che distrusse ottanta mila case, e spianò due terzi di Stambul, sotto  il  regno
di Otmano III, non s'era più visto un disastro così tremendo; e nessun incendio,
dalla presa di Costantinopoli in poi, mietè un così gran numero di vite.

Il giorno seguente Pera offriva un aspetto meno spaventevole, ma non meno triste
che durante l'infuriare dell'incendio. Dov'era passato il fuoco, era un deserto,
e apparivano le forme nude e sinistre della grande collina; nuovi prospetti, una
luce nuova, vastissimi spazi coperti di cenere in mezzo ai quali non  rimanevano
che le torricine affumicate dei camini, come monumenti funebri; quartieri interi
scomparsi come accampamenti  di  beduini  portati  via  dall'uragano;  strade  e
crocicchi di cui non rimanevan più che le traccie nere e  fumanti  sulla  terra,
fra le quali erravano migliaia di sventurati cenciosi e sparuti, che  chiedevano
l'elemosina in mezzo a un  via  vai  di  soldati,  di  medici,  di  monache,  di
sacerdoti d'ogni religione e d'impiegati di tutti  i  gradi,  che  distribuivano
pane e denaro, e guidavano lunghe file  di  carri  carichi  di  materasse  e  di
coperte, mandate dal governo per la gente rimasta senza casa. Il  governo  aveva
fatto pure distribuire le tende dei soldati. Le alture di Tataola  e  il  grande
cimitero armeno  erano  coperti  d'accampamenti,  in  cui  brulicava  una  folla
immensa. Per tutto si vedevano strati e monti  di  masserizie  su  cui  sedevano
famiglie estenuate e istupidite. Nel vasto cimitero di  Galata  erano  sparsi  e
accatastati alla rinfusa, come in un bazar messo sottosopra, lungo i sentieri  e
in mezzo  ai  sepolcri,  divani,  letti,  cuscini,  pianoforti,  quadri,  libri,
carrozze sconquassate, cavalli feriti  legati  ai  cipressi,  portantine  dorate
d'ambasciatori e gabbie di pappagalli degli arem,  custoditi  da  una  folla  di
servi e di facchini neri  di  caligine  e  cascanti  di  sonno.  Una  poveraglia
innumerevole, immonda, non mai veduta, girava per le strade a  cercar  chiodi  e
serrature fra le macerie, scansando i soldati  e  i  pompieri  addormentati  per
terra, sfiniti dalle fatiche della notte; si vedeva per tutto gente affaccendata
a rizzar baracche sulle rovine delle proprie case, con tende ed assiti; famiglie
inginocchiate in mezzo ai muri affumicati di  chiese  senza  tetto,  dinanzi  ad
altari bruciati; gruppi di uomini e di donne che correvano  affannosamente,  col
capo chino, osservando viso per viso lunghe  file  di  cadaveri  carbonizzati  e
sformati, e lì riconoscimenti, grida disperate,  scoppi  di  pianto,  gente  che
stramazzava come fulminata, in mezzo a una processione di lettighe e di bare,  a
un polverìo denso, a un'aria infocata, a un puzzo di carni  arse,  a  nuvoli  di
scintille che si sollevavano improvvisamente sotto le vanghe e i  picconi  degli
scavatori, e ricadevano sopra una folla fitta,  lenta,  silenziosa,  sbalordita,
accorsa da tutte le parti di Costantinopoli,  sopra  alla  quale  apparivano  le
faccie pallide e gravi dei Consoli  e  degli  Ambasciatori,  che  arrestavano  i
cavalli sui  crocicchi,  e  guardavano  intorno  sgomentati  dall'immensità  del
disastro.

Eppure anche quell'immenso disastro, come segue sempre nei paesi  orientali,  fu
presto dimenticato. Quattro anni dopo  io  non  ne  vidi  più  traccia,  fuorchè
qualche tratto di terreno sgombro all'estremità di Pera, dinanzi  all'altura  di
Tataola. Dell'incendio si parlava già come d'un avvenimento molto  lontano.  Per
qualche tempo, mentre le ceneri erano ancora calde, i giornali  avevano  chiesto
al governo dei provvedimenti: che riordinasse il corpo dei pompieri, che mutasse
le pompe, che  si  procurasse  maggior  abbondanza  d'acqua,  che  regolasse  la
costruzione delle case; ma il governo aveva fatto il sordo e gli europei avevano
rimesso il cuore in pace, continuando a vivere alla turca, ossia fidando un  po'
nel buon Dio e un po' nella buona fortuna.

Così, nulla o quasi nulla essendo mutato, si può andar  sicuri  che  quello  del
1870 non fu l'ultimo dei grandi incendi dai quali "è scritto" che la  città  dei
Sultani sia ogni tanti anni desolata. Le case di Pera sono ora  quasi  tutte,  è
vero, di muratura; ma costrutte la maggior parte malamente, da architetti  senza
studii e senza esperienza, non invigilati dal Governo, e spesso anche  costrutte
dal primo venuto, in maniera che  molte  rovinano  prima  d'esser  terminate,  e
quelle che rimangono su, non possono  opporre  alcuna  resistenza  alle  fiamme.
L'acqua, specialmente a  Pera,  è  sempre  scarsa  e  soggetta  a  un  monopolio
vergognoso; e siccome  viene  in  gran  parte  dai  serbatoi  del  villaggio  di
Belgrado,  costrutti  dai  Romani,  manca  affatto  quando  non  cadono  pioggie
abbondanti in primavera e in autunno; onde chi ha denari  deve  pagarla  a  peso
d'oro e i poveri bevono fango. I pompieri sono sempre piuttosto una grande banda
di malfattori, che un corpo ordinato di operai; banda composta di  gente  d'ogni
paese, dipendenti più di nome  che  di  fatto  dal  Seraschierato,  da  cui  non
ricevono che una razione di pane; inesperti, indisciplinati, ladri, detestati  e
temuti dalla popolazione quanto il fuoco che non sanno spegnere, e sospetti, non
senza fondamento, di desiderare gl'incendi, come occasione di  far  bottino.  Le
pompe non scarseggiano, è vero, e i turchi ne  vanno  alteri  come  di  macchine
meravigliose; ma sono ridicole carabattole, che contengono una dozzina di  litri
d'acqua, e mandano uno zampillo  sottilissimo,  piuttosto  adatto  a  innaffiare
giardini che a spegnere incendi.  E  sarebbe  nondineno  una  gran  fortuna,  se
rimanendo questi inconvenienti, fossero cessati gli altri, che  sono  molto  più
gravi. Non è credibile, senza dubbio, quello che molti credono  ancora,  che  il
Governo, cioè, susciti gl'incendii per allargare le strade, chè il  danno  e  il
pericolo sarebbero troppo sproporzionati ai vantaggi; nè accade più come per  il
passato,  che  il  "partito  d'opposizione"  dia  fuoco  a   un   quartiere   di
Costantinopoli per spaventare il Sultano, nè che l'esercito incendii un sobborgo
per ottenere un accrescimento di paga. Ma il  sospetto,  che  gl'incendii  siano
molte volte suscitati da coloro che ne possono trarre guadagno, è sempre vivo, e
il fatto provò troppo spesso che non è un sospetto  infondato.  Per  il  che  la
popolazione vive  in  un'ansietà  continua.  Teme  dei  portatori  d'acqua,  dei
facchini, degli architetti, dei mercanti di legna e di calce, e massimamente dei
servitori, che sono la peggior genìa di Costantinopoli, legati la maggior  parte
con ladri, i quali sono alla loro volta ordinati in associazioni e in  comitati,
da cui altre compagnie occulte compran la roba rubata  e  facilitano  con  varii
mezzi il delitto. E la polizia locale mostra con questa  gente  una  fiacchezza,
per  non  chiamarla  indulgenza,  la  quale  produce  quasi  gli  effetti  della
complicità. Non fu mai  condannato  un  incendiario.  Raramente  i  ladri,  dopo
gl'incendii, sono colti e puniti. È anche più raro che gli  oggetti  sequestrati
dalla  polizia  siano  restituiti  ai  proprietarii.   Di   più,   essendoci   a
Costantinopoli del canagliume di tutti  i  paesi,  l'azione  della  giustizia  è
inceppata in mille modi dai trattati internazionali; i Consolati reclamano a  sè
i  malfattori  della  propria  nazione;  i  processi  durano  un  secolo;  molti
delinquenti scappano; il timore del castigo non serve  quasi  affatto  di  freno
agli scellerati, e il saccheggio negl'incendii è considerato da loro quasi  come
un privilegio tacitamente riconosciuto dalle autorità, come era altre volte  per
gli eserciti il mettere a  sacco  le  città  espugnate.  Per  questo  la  parola
"incendio" significa ancora per  la  popolazione  di  Costantinopoli  "tutte  le
sventure" e il grido di Janghen var è sempre un grido tremendo, solenne, fatale,
al cui suono tutta la città si rimescola fin nel più profondo delle sue viscere,
come all'annunzio d'un castigo di Dio. E chi sa quante volte la grande metropoli
dovrà ancora essere incenerita e rialzata sulle sue ceneri prima che la  civiltà
europea abbia piantato la sua bandiera sul palazzo imperiale di Dolma-Bagcé!

Nei tempi andati, quando scoppiava un incendio in Costantinopoli, se il  Sultano
si trovava in quel  momento  nell'arem,  gli  portava  l'annunzio  del  pericolo
un'odalisca tutta vestita color di porpora dal turbante alle babbuccie, la quale
aveva l'ordine di presentarsi a Lui in qualunque luogo egli fosse;  fosse  anche
stato in braccio alla più cara  delle  sue  favorite.  Essa  non  aveva  che  da
presentarsi sulla soglia: il color di fuoco dei suoi panni era  l'annunzio  muto
della sventura. Ebbene, chi  crederebbe  che  fra  tante  immagini  grandiose  e
terribili  che  mi  si  affacciano  alla  mente  quando  penso  agl'incendii  di
Costantinopoli, sia la figura di quell'odalisca quella che scuote più  vivamente
tutte le mie fibre d'artista?  Io  vorrei  essere  pittore  per  dipingere  quel
quadro, e supplicherò tutti i pittori di dipingerlo, sin che n'abbia trovato uno
che  s'innamori  dell'argomento,  e  a  lui  sarò  grato  per  la   vita.   Egli
rappresenterà,  in  una  stanza  dell'arem  imperiale,  tappezzata  di  raso   e
rischiarata da una luce  soavissima,  sopra  un  largo  divano,  accanto  a  una
circassa bionda di  quindici  anni,  coperta  di  perle,  Selim  I,  il  Sultano
tremendo, che s'è svincolato impetuosamente dalle braccia della  sua  cadina,  e
fissa i grand'occhi atterriti sopra l'odalisca purpurea, muta,  sinistra,  ritta
sulla soglia come una statua, la quale, con  un  volto  pallido  che  rivela  la
venerazione e il terrore, sembra voler dire: - Re dei Re, Allà ti  chiama  e  il
tuo popolo desolato t'aspetta! - e sollevando la cortina della porta, mostra  di
là da un terrazzo, in una grande lontananza azzurrina, la città enorme che fuma.

LE MURA

Il giro intorno alle antiche mura di Stambul lo volli far solo, e  consiglio  ad
imitarmi tutti gl'Italiani che andranno a Costantinopoli, perchè  lo  spettacolo
delle grandi rovine solitarie non lascia  un'impressione  veramente  profonda  e
durevole se non in chi è tutto inteso a riceverla, e può seguire liberamente  il
corso dei suoi pensieri, in silenzio. C'era da fare  una  passeggiata  di  circa
quindici miglia italiane, a piedi, sotto i raggi del sole, per strade deserte. -
Forse - dissi al mio amico - a  metà  strada  mi  piglierà  la  tristezza  della
solitudine e t'invocherò  come  un  Santo;  ma  tant'è,  voglio  andar  solo.  -
Alleggerii il portamonete per il caso che qualche ladro suburbano avesse  voluto
vederci dentro, gittai qualchecosa "dentro alle bramose canne" per poter dir poi
a me stesso: - "taci, maledetto lupo" -; e m'incamminai alle otto della mattina,
sotto un bel cielo lavato da una pioggerella della notte, verso il  ponte  della
Sultana Validè. Il mio  disegno  era  d'uscire  da  Stambul  per  la  porta  del
quartiere delle Blacherne, di percorrere la linea delle  mura  dal  Corno  d'oro
fino al castello delle Sette Torri, e di ritornare lungo  la  riva  del  Mar  di
Marmara, girando così intorno a tutto il grande triangolo della città musulmana.
Passato il ponte, svoltai a destra e m'innoltrai nel  vasto  quartiere  chiamato
Istambul-disciaré, o Stambul  esterna,  che  è  una  lunga  striscia  di  città,
compresa fra le mura ed il porto, tutta casupole e magazzini d'oli e  di  legna,
stata distrutta più volte dagli incendii. Fra le viuzze  e  la  riva  del  Corno
d'oro, lungo la quale si stende una fila di piccoli scali e  di  seni  pieni  di
bastimenti e di barconi, c'è un  viavai  fitto  di  facchini,  di  ciucci  e  di
cammelli, un  rimescolìo  di  gente  strana  e  di  cose  sporche,  e  un  urlìo
incomprensibile, che fa pensare a quei porti meravigliosi del mar  dell'Indie  e
del mar della China dove s'incontrano i popoli e le merci dei due  emisferi.  Le
mura che rimangono da questo lato della città, sono alte cinque volte  un  uomo,
merlate, fiancheggiate di cento in cento passi da piccole torri quadrangolari, e
in molte parti rovinate; ma sono il tratto  meno  notevole  e  per  arte  e  per
memorie delle mura di Stambul. Attraversai  il  quartiere  del  Fanar,  passando
sulla riva ingombra di fruttaioli, di pasticcieri, di  venditori  d'anice  e  di
rosolio, e di cucine esposte all'aria aperta, in mezzo a gruppi di bei  marinari
greci atteggiati come  le  statue  dei  loro  Numi  antichi;  girai  intorno  al
vastissimo ghetto di Balata; percorsi il quartiere silenzioso delle Blacherne, e
uscii finalmente di città per la porta chiamata Egri-Kapú,  poco  lontana  dalla
riva del Corno d'oro. Tutto questo è presto detto; ma è una camminata di  un'ora
e mezzo, ora in salita, ora in discesa, intorno a laghi di mota, sopra  ciottoli
enormi, per vicoli senza fine, sotto volte oscure, a  traverso  a  vasti  spazii
solitari, senz'altra guida che la punta dei minareti della moschea di  Selim.  A
un certo punto si cominciano a non veder più nè faccie nè abiti di franchi;  poi
spariscono le casette all'europea; poi  il  ciottolato,  poi  le  insegne  delle
botteghe, poi l'indicazione delle strade, poi ogni rumor di lavoro; e più si  va
innanzi, più i cani guardano torvo, più i monelli turchi  fissano  con  l'occhio
ardito, più le donne del volgo si nascondono la faccia con cura, fin che  ci  si
trova in piena barbarie asiatica, e la passeggiata di due ore pare che sia stata
un viaggio di due giorni.

Uscendo da Egri-Kapú, voltai a sinistra e vidi  improvvisamente  un  larghissimo
tratto delle mura famose che  difendono  Stambul  dalla  parte  di  terra.  Sono
passati tre anni da quel momento; ma non posso  ricordarmene  senza  provare  un
sentimento vivissimo di maraviglia. Non so in quale altro luogo dell'Oriente  si
trovino così raccolte la grandezza dell'opera umana, la maestà della potenza, la
gloria dei secoli, la solennità delle memorie,  la  mestizia  delle  rovine,  la
bellezza della natura. È una vista che ispira insieme ammirazione, venerazione e
terrore;  uno  spettacolo  degno  d'un  canto  d'Omero.  A  primo  aspetto,   si
scoprirebbe il capo e si griderebbe: - Gloria! -  come  dinanzi  a  una  schiera
interminabile di giganteschi eroi mutilati. La cinta delle mura  e  delle  torri
enormi si stende fin dove arriva lo sguardo, salendo e scendendo a seconda delle
alture e degli avvallamenti, dove bassissima che  par  che  si  sprofondi  nella
terra, dove alta  che  par  che  coroni  la  sommità  d'una  montagna;  svariata
d'infinite forme di rovine, tinta di mille colori  severi,  dal  calcareo  fosco
quasi  nero  al  giallo  caldo  quasi  dorato,  e  rivestita  d'una  vegetazione
rigogliosa d'un verde cupo, che s'arrampica su per i muri, ricasca in  ghirlande
dai merli e dalle feritoie, si rizza in ciuffi alteri sulla  cima  delle  torri,
s'ammucchia in piramidi altissime, vien giù quasi a cascatelle dalle cortine,  e
colma brecce, spaccature e fossati, e si avanza fin sulla via. Sono  tre  ordini
di mura che formano come una gradinata gigantesca di rovine:  il  muro  interno,
che è il più alto, fiancheggiato, a brevi distanze eguali, da grossissime  torri
quadrate; quel di mezzo, rafforzato da piccole torri  rotonde;  l'esterno  senza
torri, bassissimo, e difeso da un fosso largo e profondo,  anticamente  riempito
dalle acque del Corno d'oro e del Mar  di  Marmara,  ora  coperto  d'erba  e  di
cespugli. Tutte queste mura sono ancora, presso a poco, quali  erano  il  giorno
dopo la presa di Costantinopoli: perchè sono pochissima cosa i ristauri fatti da
Maometto e da Bajazet II. Vi si  vedono  ancora  le  breccie  che  v'apersero  i
cannoni enormi d'Orbano, le tracce dei colpi degli arieti e delle catapulte, gli
squarci delle mine, e tutti gl'indizii dei luoghi dove si  diedero  gli  assalti
più furiosi e si opposero le resistenze più disperate. Le  torri  rotonde  delle
mura di mezzo sono quasi tutte rovinate fino alle  fondamenta;  le  torri  delle
mura interne, quasi tutte ritte; ma smerlate, scantonate, ridotte in punta  alla
sommità come tronchi d'alberi enormi acuminati a colpi d'accetta,  e  screpolate
di cima in fondo o incavate alla base come scogli rosi dal mare. Pezzi smisurati
di muratura, rotolati giù dalle cortine, ingombrano la piattaforma del  muro  di
mezzo, quella del muro esterno ed il fosso. Piccoli sentieri serpeggiano fra  le
macerie e le erbaccie e si perdono nell'ombra cupa della vegetazione alta, fra i
macigni e gli scoscendimenti della terra messa a nudo dai muri precipitati. Ogni
tratto di bastione compreso fra due torri è un quadro stupendo di  rovine  e  di
verde, pieno di maestà e di  grandezza.  Tutto  è  colossale,  selvatico,  irto,
minaccioso, e  improntato  d'una  bellezza  pomposa  e  triste,  che  impone  la
riverenza. Par di vedere le rovine d'una catena sterminata di castelli  feudali,
o i resti d'una di quelle muraglie prodigiose che circondavano i  grandi  imperi
leggendarii dell'Asia orientale.  La  Costantinopoli  del  secolo  decimonono  è
sparita; si  è  dinanzi  alla  città  dei  Costantini;  si  respira  l'aria  del
quattrocento; tutti i pensieri corrono al giorno dell'immensa caduta e si rimane
per un momento sbalorditi e sgomenti.

La porta per cui ero uscito, chiamata dai turchi Egri-Kapú,  era  quella  famosa
porta Caligaria, per la quale fece la  sua  entrata  trionfale  Giustiniano,  ed
entrò poi Alessio Comneno per impadronirsi del trono. Dinanzi  v'è  un  cimitero
musulmano. Nei primi giorni dell'assedio era stato  messo  là  quello  smisurato
cannone d'Orbano, intorno al quale  lavoravano  quattrocento  artiglieri  e  che
cento buoi stentavano a smovere. La porta era difesa da Teodoro di Caristo e  da
Giovanni Greant, contro l'ala sinistra dell'esercito turco che si stendeva  fino
al Corno d'oro. Da quel punto fino al Mar di Marmara non c'è più un sobborgo  nè
un gruppo di case. La strada corre diritta fra le mura e la  campagna.  Non  v'è
nulla che distragga dalla contemplazione delle rovine. Mi misi in cammino. Andai
per un lungo tratto in mezzo a due cimiteri; uno cristiano a sinistra, sotto  le
mura; un altro maomettano, a destra, vastissimo e ombreggiato da  una  selva  di
cipressi. Il sole scottava;  la  strada  si  stendeva  dinanzi  a  me  bianca  e
solitaria, e sollevandosi a poco a poco tagliava  con  una  linea  retta,  sulla
sommità dell'altura, il cielo, limpidissimo. Da una parte le  torri  succedevano
alle torri, dall'altra le tombe succedevano  alle  tombe.  Non  sentivo  che  il
rumore cadenzato del  mio  passo  e  di  tratto  in  tratto  il  fruscìo  di  un
lucertolone fra i cespugli vicini. Andai così per un lungo tratto,  fin  che  mi
trovai impensatamente davanti a una  bella  porta  quadrata,  sormontata  da  un
grande arco a tutto sesto e fiancheggiata da due grosse torri ottagone.  Era  la
porta d'Adrianopoli, la Polyandria dei Greci; quella che sostenne nel 625, sotto
Eraclio, l'urto formidabile degli Avari, che fu difesa contro  Maometto  II  dai
fratelli Paolo e Antonino Troilo Bochiardi, e che divenne  poi  la  porta  delle
uscite e dell'entrate trionfali degli eserciti musulmani. Nè dinanzi nè  intorno
non c'era anima viva. Improvvisamente uscirono di galoppo due cavalieri  turchi,
mi ravvolsero in un nuvolo di polvere e sparirono per la  strada  d'Adrianopoli;
poi tornò a regnare un silenzio profondo.

Di là, voltando le spalle alle mura, mi avanzai  per  la  strada  d'Adrianopoli,
discesi nel vallone del Lykus, salii sopra un'altura, e  mi  trovai  dinanzi  al
vastissimo piano ondulato e  arido  di  Dahud-Pascià,  dove  tenne  il  quartier
generale Maometto II, durante l'assedio di Costantinopoli. Stetti qualche  tempo
là immobile, guardando intorno con una mano sugli occhi,  come  per  cercare  le
traccie  dell'accampamento  imperiale  e  rappresentarmi  il  grande  e   strano
spettacolo che doveva offrire quel luogo sul finire della primavera del 1453. Là
proprio rifluiva, come al suo cuore, la vita  di  tutto  l'enorme  esercito  che
stringeva nel  suo  formidabile  amplesso  la  grande  città  moribonda.  Di  là
partivano gli ordini fulminei che movevano le braccia di centomila  operai,  che
facevano trascinare per terra duecento galere dalla baia di Besci-tass alla baia
di Kassim-Pascià, che spingevano nelle viscere della terra eserciti di  minatori
armeni, che sguinzagliavano da cento parti i  drappelli  d'araldi  ad  annunziar
l'ora  degli  assalti,  e  facevano,  nel  tempo  che  s'impiega  a  contare  le
pallottoline d'un tespì, tendere trecentomila  archi  e  sguainare  trecentomila
scimitarre. Là i messi pallidi di  Costantino  s'incontravano  coi  genovesi  di
Galata venuti a vender l'olio per rinfrescare i cannoni d'Orbano e colle vedette
musulmane  che  spiavano  dalla  riva  del  Mar  di   Marmara   se   apparissero
all'orizzonte le flotte europee a portar gli ultimi soccorsi  della  cristianità
all'ultimo baluardo dei Costantini. Là era un formicolìo di cristiani rinnegati,
d'avventurieri asiatici, di vecchi  sceicchi,  di  dervis  macilenti,  laceri  e
stremati dalle lunghe marcie, che andavano  e  venivano  affannosamente  intorno
alle tende di quattordicimila giannizzeri, fra schiere interminabili di  cavalli
bardati, fra lunghissime file di alti cammelli immobili, in mezzo a catapulte  e
a baliste infrante, a rottami di cannoni scoppiati, a piramidi di  palle  enormi
di granito; incrociandosi con le processioni dei soldati polverosi che portavano
a due a due, dalle mura all'aperta campagna, cadaveri sformati e feriti urlanti,
a  traverso  una  nuvola  perpetua  di  fumo.  In  mezzo  all'accampamento   dei
giannizzeri s'alzavano le tende variopinte della Corte, e al di sopra di queste,
il padiglione vermiglio di Maometto II. E ogni mattina, allo spuntar del giorno,
egli era là, ritto dinanzi all'apertura del suo padiglione, pallido della veglia
affannosa della notte, col suo gran turbante ornato d'un pennacchio giallo e  il
suo lungo caffettano  color  di  sangue,  e  fissava  il  suo  sguardo  d'aquila
sull'immensa città che gli si stendeva dinanzi,  tormentando  con  una  mano  la
folta barba nera e coll'altra il  manico  d'argento  del  suo  pugnale  ricurvo.
Accanto a lui c'era Orbano, l'inventore del cannone prodigioso, che doveva pochi
giorni dopo, scoppiando, slanciare le sue ossa  sulla  spianata  dell'Ippodromo;
l'ammiraglio Balta-Ogli, già turbato dal presentimento della sconfitta, che fece
cadere sul suo capo il bastone d'oro del Gran Signore; il  comandante  temerario
dell'Epepolin, il grande castello mobile, coronato di torri e irto di ferro, che
cadde poi incenerito davanti alla porta di San Romano; una corona di  legisti  e
di poeti abbronzati dal sole di cento  battaglie;  un  corteo  di  pascià  colle
membra coperte di cicatrici e i caffettani lacerati dalle freccie; una folla  di
giannizzeri giganteschi colle lame nude nel pugno e di sciaù armati di verghe di
acciaio, pronti a far cadere le teste e a lacerare le  carni  ai  ribelli  e  ai
vigliacchi; tutto il fiore di quella sterminata moltitudine asiatica,  piena  di
gioventù, di ferocia e di forza, che stava per rovesciarsi, come un torrente  di
ferro e di  fuoco,  sugli  avanzi  decrepiti  dell'Impero  bizantino;  e  tutti,
immobili come statue, tinti di rosa  dai  primi  raggi  dell'aurora,  guardavano
all'orizzonte le mille cupole argentee della città promessa dal  Profeta,  sotto
le quali sonavano, in quell'ora, le preghiere e i singhiozzi del popolo codardo.
Io vedevo i visi, gli atteggiamenti, i pugnali, le  pieghe  delle  cappe  e  dei
caffettani, e le grandi ombre che s'allungavano sul terreno incavato dalle ruote
dei cannoni e delle torri. Ma a un tratto, lasciando cader gli occhi  sopra  una
grossa pietra mezzo affondata nella terra, e leggendovi  una  rozza  iscrizione,
quel gran quadro disparve come una visione fantasmagorica, e vidi  sparpagliarsi
per la pianura brulla una moltitudine allegra di  cacciatori  di  Vincennes,  di
zuavi e di fantaccini dai calzoni rossi;  sentii  cantare  le  canzonette  della
Provenza e della Normandia; vidi il maresciallo Saint-Arnaud, Canrobert,  Forey,
Espinasse, Pelissier; riconobbi mille  volti  e  mille  colori  vivi  nella  mia
memoria e cari al mio cuore fin dall'infanzia... e  rilessi  con  un  sentimento
inesprimibile di sorpresa e  di  piacere  quella  povera  iscrizione.  La  quale
diceva: - Eugène Saccard, caporal dans le 22° léger, 16 Juin 1854.

Di là ripassai per il vallone del Lykus e ritornai sulla strada che  fiancheggia
le mura, sempre solitaria e sempre serpeggiante fra  le  rovine  e  i  cimiteri.
Passai dinanzi all'antica porta militare  di  Pempti,  ora  murata;  attraversai
un'altra volta il Lykus,  che  entra  nella  città  in  quel  punto,  e  arrivai
finalmente dinanzi alla porta chiamata del Cannone, dal gran  cannone  d'Orbano,
che v'era appostato davanti; la porta contro cui rivolse il suo  ultimo  assalto
l'esercito di Maometto. Alzando gli occhi alla sommità delle mura,  vidi  dietro
ai merli parecchie orribili  faccie  nere,  coi  capelli  scarmigliati,  che  mi
guardavano in aria di stupore. Seppi poi che s'era  annidata  là  una  tribù  di
zingari, ficcando le sue capanne nelle spaccature delle cortine e  delle  torri.
Qui le traccie della  lotta  sono  veramente  gigantesche  e  superbe:  le  mura
sventrate, crivellate, stritolate; le torri dimezzate ed informi, le piattaforme
sepolte sotto monti di ruderi, le feritoie squarciate, il terreno sconvolto,  il
fosso ingombro di rottami colossali, che sembrano massi di roccie franati da una
montagna. La battaglia tremenda sembra stata combattuta il giorno innanzi  e  le
rovine raccontano meglio d'una voce  umana  l'orribile  eccidio  di  cui  furono
spettatrici. E fu poco meno che il medesimo dinanzi a tutte le porte, per  tutta
la lunghezza delle mura. La lotta cominciò allo spuntare del giorno.  L'esercito
ottomano era  diviso  in  quattro  enormi  colonne,  e  preceduto  da  centomila
volontarii, che formavano un'immensa avanguardia predestinata alla morte.  Tutta
questa carne da cannone, questa turba indisciplinata e temeraria di tartari,  di
caucasei, d'arabi, di negri, guidati dai sceicchi, eccitati dai dervis, cacciati
innanzi a nerbate da un esercito di sciaù, si slanciò per la prima  all'assalto,
carica di terra e di fascine, formando una sola catena e cacciando un urlo  solo
dal Mar di Marmara al Corno d'oro. Arrivati sulla sponda del fosso, una grandine
di ferro e di  pietre  li  arresta  e  li  macella;  cadono  a  cento  a  cento,
schiacciati dai macigni, crivellati dalle freccie, fulminati dalle  palle,  arsi
dalle  vampe  delle  spingarde,  vecchi,  fanciulli,  schiavi,  ladri,  pastori,
briganti; altre turbe, spinte da turbe più lontane, sottentrano; in  poco  tempo
il fosso e le sponde sono coperte di mucchi di cadaveri, di  membra  palpitanti,
di turbanti insanguinati, d'archi, di scimitarre; su cui altri torrenti d'armati
passano muggendo e vanno a frangersi e a insanguinarsi ai piedi delle cortine  e
delle torri, sotto un rovescio più fitto di  giavellotti  e  di  sassi,  in  una
nuvola densa che nasconde le mura, i difensori, i  morti,  la  strada;  fin  che
mille trombe ottomane fanno sentire i loro squilli  selvaggi  sopra  il  tumulto
della battaglia, e  la  grande  avanguardia  dimezzata  e  sanguinosa  retrocede
confusamente da tutta la  linea  delle  mura.  Allora  Maometto  II  sguinzaglia
all'assalto il  grosso  delle  sue  forze.  Tre  grandi  eserciti,  tre  fiumane
d'uomini, condotti da cento Pascià, sorvolati da  mille  stendardi,  s'avanzano,
s'allargano, coprono le alture, allagano le valli, scendono levando un frastuono
spaventoso di trombe, di timballi e di spade, e gettando un  grido:  -  La  Ilah
illa lah! - che rimbomba come uno scoppio di fulmine dal Corno d'oro alle  Sette
Torri, spiccano la corsa e vanno a precipitarsi contro le mura come un oceano in
tempesta contro una riva di roccie tagliate a picco. Allora comincia  la  grande
battaglia, ossia cento battaglie, alle porte, alle  breccie,  nei  fossi,  sulle
piattaforme, ai piedi delle cortine, da un capo all'altro  dell'enorme  baluardo
secolare di Costantinopoli. Dieci mila feritoie vomitano la morte sopra duecento
mila vite. Dall'alto delle cortine e delle torri ruzzolano i macigni, le  travi,
le botti piene di terra, le fascine  accese.  Le  scale,  cariche  d'assalitori,
rovinano; i ponti levatoi delle  torri  di  assedio  precipitano;  le  catapulte
fiammeggiano. Schiere dietro schiere s'avventano e ricadono,  sfolgorate,  sulle
macerie, sui molti sfracellati, sui moribondi,  nel  sangue,  nell'acqua,  sulle
armi dei compagni, dentro a un fumo fitto,  illuminato  qua  e  là  dalle  vampe
improvvise del fuoco greco, fra i  sibili  rabbiosi  della  mitraglia,  fra  gli
scoppi delle mine, fra gli urli dei mutilati, fra i rimbombi  formidabili  delle
diciotto batterie di Maometto, che fulminano la città dalle alture. Di tratto in
tratto la battaglia si rallenta come per riprender respiro, e allora sulla larga
breccia di porta San Romano, a traverso il fumo diradato, si  vede  per  qualche
momento ondeggiare il mantello di porpora di Costantino, scintillare le armature
di Giustiniani e di Francesco di Toledo, e agitarsi  confusamente  le  terribili
figure dei trecento arcieri genovesi. Poi  la  mischia  si  riaccende,  il  fumo
rinasconde le breccie, le scale si riappoggiano  alle  mura,  e  ricominciano  a
cader rovine su rovine e cadaveri su cadaveri  alla  porta  d'Adrianopoli,  alla
porta Dorata, alla porta di Selymbria, alla porta  di  Tetarté,  alla  porta  di
Pempti, alla porta di Russion, alle Blacherne, all'Heptapyrgion; e turbe  armate
dietro turbe armate, che par che  escano  dalla  terra,  seguitano  a  irrompere
contro le mura, valicano il fosso, superano le prime cortine, cadono, risorgono,
s'arrampicano su per le  macerie,  strisciano  sui  cadaveri,  sotto  nuvoli  di
freccie,  sotto  tempeste  di  palle,  sotto  nembi  di  fuoco.  Finalmente  gli
assalitori, diradati e sfiniti, cedono, retrocedono, si sparpagliano, e un grido
altissimo di vittoria e un coro solenne di canti  sacri  s'innalza  dalle  mura.
Dall'altura di fronte a San Romano, Maometto II, circondato  da  quattordicimila
giannizzeri, vede, e rimane qualche tempo incerto se debba ritentare l'assalto o
rinunziare all'impresa. Ma girato uno sguardo sui suoi formidabili  soldati  che
lo guardano in volto fremendo d'impazienza e d'ira, si rizza superbamente  sulle
staffe e getta un'altra volta il grido della battaglia. Allora è la vendetta  di
Dio che si scatena. I giannizzeri rispondono con  quattordicimila  grida  in  un
grido; le colonne si movono; una turba di  dervis  si  spande  per  il  campo  a
rianimare i dispersi, i sciaù  arrestano  i  fuggenti,  i  pascià  riformano  le
schiere, il Sultano, brandendo la sua mazza di ferro, s'avanza tra uno sfolgorìo
di scimitarre e d'archi, in mezzo a un mare di turbanti e di caschi; sulla porta
di San  Romano  torna  a  rovesciarsi  una  grandine  di  freccie  e  di  palle;
Giustiniani, ferito, scompare;  gl'italiani,  scoraggiti,  si  scompigliano;  il
gigantesco  giannizzero  Hassan  d'Olubad  sale  per  il  primo  sui   baluardi;
Costantino, combattendo in mezzo  agli  ultimi  suoi  valorosi  della  Morea,  è
precipitato dai merli, lotta ancora sotto alla  porta,  stramazza  in  mezzo  ai
cadaveri...; l'Impero d'Oriente è caduto.  La  tradizione  dice  che  un  grande
albero segnava il luogo dove fu trovato il corpo di Costantino; ma non  ne  vidi
più traccia. Fra quei ruderi, dove corsero rigagnoli di  sangue,  la  terra  era
tutta bianca di margheritine e di ombrellifere, sulle quali svolazzava un nuvolo
di farfalle. Colsi un fiore  per  ricordo,  sotto  gli  sguardi  attoniti  degli
zingari, e mi rimisi in cammino.

Le mura mi si stendevano sempre dinanzi  a  perdita  d'occhi.  Nei  luoghi  alti
nascondevano affatto la città, in modo che chi non l'avesse saputo, non  avrebbe
pensato mai che dietro quelle rovine solitarie e silenziose, ci  potesse  essere
una vasta metropoli, coronata di grandi monumenti e abitata da un grande popolo.
Nei luoghi bassi,  invece,  apparivano  dietro  i  merli  punte  inargentate  di
minareti, sommità di cupole, tetti di chiese greche, vette di  cipressi.  Qua  e
là, per uno squarcio delle cortine, vedevo  di  sfuggita,  come  per  una  porta
improvvisamente aperta e chiusa, un pezzo di città: gruppi di case che  parevano
abbandonate, vallette deserte, orti, giardini,  e  più  lontano,  sfumati  nella
chiarezza bianca del mezzogiorno,  i  contorni  fantastici  di  Stambul.  Passai
dinanzi alla porta murata di Tetartè, non indicata che da due torri vicinissime.
In quel tratto le mura sono meglio conservate. Si vedono dei lunghi pezzi  delle
cortine di Teodosio II, quasi  intatte;  delle  belle  torri  del  prefetto  del
Pretorio  Antemio  e  dell'imperatore  Ciro  Costantino,  che   portano   ancora
gloriosamente sul capo invulnerato la loro corona di quindici secoli, e par  che
sfidino un nuovo assalto. In alcuni punti,  sulle  piattaforme,  ci  sono  delle
capanne di contadini, che danno  un  risalto  inaspettato,  colla  loro  fragile
piccolezza, alla salda maestà delle mura,  e  paion  nidi  d'uccelli  appesi  ai
fianchi dirupati d'una montagna. E a destra sempre cimiteri, boschi di  cipressi
in salita e in discesa, vallette grigie di pietre sepolcrali; qui un convento di
dervis, mezzo nascosto da una corona di platani; là un caffè solitario;  più  in
là una fontana ombreggiata da un salice; e di là dai boschetti, sentieri bianchi
che si perdono nella campagna alta ed arida, sotto un cielo abbagliante, in  cui
ruotano degli avoltoi.

Dopo un altro quarto d'ora  di  cammino  arrivai  dinanzi  alla  porta  chiamata
Yeni-Mewle-hane, da un famoso convento di dervis  che  c'è  davanti:  una  porta
bassa, nella quale sono incastrate quattro colonne  di  marmo,  e  ai  cui  lati
s'innalzano due torri quadrate, ornate d'un'iscrizione di Ciro  Costantino,  del
447, e d'un'iscrizione di Giustino II e di Sofia, nella quale  l'ortografia  dei
nomi imperiali è sbagliata: saggio  curioso  della  ignoranza  barbarica  del  V
secolo. Guardai dentro la porta, sulle mura, intorno al convento, nei  cimiteri:
non c'era anima nata. Riposai qualche  momento  appoggiato  alle  spallette  del
piccolo ponte che accavalcia il fosso delle mura, e poi ripresi la mia strada.

Io darei il ricordo d'una delle più belle vedute  di  Costantinopoli  per  poter
trasfondere  in  chi  legge  soltanto  un'ombra  del   sentimento   profondo   e
singolarissimo che provavo andando così solo fra quelle due catene interminabili
di rovine e di sepolcri, sotto quel sole, in quella solitudine severa, in  mezzo
a  quella  immensa  pace.  Molte  volte,  nei  giorni  tristi  della  mia  vita,
fantasticando, desiderai di trovarmi fra una  carovana  di  gente  misteriosa  e
muta,  che  camminasse  eternamente,  per  paesi  sconosciuti,  verso  una  meta
ignorata. Ebbene, quella strada rispondeva a quel mio  desiderio.  Avrei  voluto
che non finisse mai. Ma non m'inspirava mestizia;  mi  dava  invece  serenità  e
ardimento. Quei colori vigorosi della vegetazione, quelle forme ciclopiche delle
mura, quelle grandi linee del terreno simili  alle  onde  d'un  oceano  agitato,
quelle solenni memorie d'imperatori, d'eserciti, di lotte titaniche,  di  popoli
scomparsi, di generazioni defunte,  accanto  a  quella  città  enorme,  in  quel
silenzio mortale, rotto soltanto dal frullo possente delle ali  dell'aquile  che
spiccavano il volo dalla sommità  delle  torri,  mi  destavano  nella  mente  un
ribollimento  di  fantasie  gigantesche  e  di  desiderii  smisurati,   che   mi
raddoppiava il sentimento della vita. Avrei voluto esser più alto di due palmi e
vestire l'armatura colossale del Grand'Elettore di  Sassonia  che  avevo  veduto
nell'Armeria di Madrid, e che il mio passo risonasse in quel  silenzio  come  il
passo misurato d'un reggimento d'alabardieri del medioevo. Avrei voluto aver  la
forza d'un Titano per sollevare fra le braccia i ruderi immani  di  quelle  mura
superbe. Camminavo colla fronte alta, colle sopracciglia corrugate,  colla  mano
destra serrata, apostrofando a  grandi  versi  sciolti  Costantino  e  Maometto,
rapito in una specie d'ebbrezza guerriera, con tutta l'anima nel passato;  e  mi
sentivo tanta giovinezza nella mente e nel sangue, ed  ero  così  beato  d'esser
solo, e così geloso di quella solitudine piena di vita,  che  non  avrei  voluto
incontrare nemmeno il più intimo dei miei amici.

Passai dinanzi all'antica porta militare di Trite, oggi chiusa. Le cortine e  le
torri sfracellate indicano che dinanzi a quel tratto di mura debbono esser stati
posti alcuni dei grossi cannoni d'Orbano. Si crede anzi che fosse là  una  delle
tre grandi  breccie  che  Maometto  II  accennò  all'esercito  il  giorno  prima
dell'assalto, quando disse: - Voi potrete entrare in  Costantinopoli  a  cavallo
per le tre brecce che ho aperte. - Di là riuscii davanti  a  una  porta  aperta,
fiancheggiata da due torri ottagone, e riconobbi dal piccolo ponte a  tre  archi
d'un bel color d'oro, la porta di Selivri, da cui partiva la grande  strada  che
conduceva alla città di Selybmria, che le diede il nome, cangiato dai Turchi  in
Selivri.  Durante  l'assedio  di  Maometto,  difendeva  quella  porta   Maurizio
Cattaneo, genovese. La strada conserva ancora alcune pietre del  lastricato  che
vi fece fare Giustiniano. Dinanzi c'è un vasto cimitero e di là dal cimitero  il
monastero notissimo di Baluklù.

Appena entrato nel cimitero, trovai da me solo  il  luogo  solitario  dove  sono
sepolte le teste del famoso Alì di Tepeleni, pascià di Giannina; dei suoi figli:
Velì, governatore di Trihala, Muctar, comandante d'Arlonia,  Saalih,  comandante
di Lepanto; e di suo nipote Mehemet, figlio di Velì, comandante di Delvina. Sono
cinque colonnine di pietra, terminate in forma di turbante, che portano tutte la
data del 1827, e un'iscrizione semplicissima,  fatta  da  quel  povero  Solimano
dervis, amico d'infanzia d'Alì, che comperò le teste, dopo che  furono  staccate
dai merli del Serraglio, e le seppellì  di  sua  mano.  L'iscrizione  del  cippo
d'Alì, che è posto nel mezzo, dice: - Qui giace la testa del  famoso  Alì-Pascià
di Tepeleni, governatore del Sangiaccato di  Giannina,  il  quale,  per  più  di
cinquant'anni, s'affaticò per l'indipendenza dell'Albania. - Il  che  prova  che
anche sui sepolcri musulmani si scrivono delle  pietose  menzogne.  Mi  arrestai
qualche momento a contemplare quella poca terra  che  copriva  quel  formidabile
capo, e mi venivano in mente le domande d'Amleto al teschio di Yorik. Dove  sono
i tuoi Palicari, leone d'Epiro? Dove sono i tuoi bravi Arnauti e i tuoi  palazzi
irti di cannoni e il tuo bel chiosco riflesso dal lago  di  Giannina  e  i  tuoi
tesori sepolti nelle roccie e i begli occhi della tua Vasiliki? E  pensavo  alla
bellissima donna vagante per le vie di Costantinopoli,  povera  e  desolata  dai
ricordi della sua felicità e della  sua  grandezza,  quando  sentii  un  leggero
fruscio, e voltandomi, vidi un uomo lungo e stecchito, vestito d'una gran tonaca
scura, col capo scoperto, che mi guardava in aria interrogativa. Da un cenno che
mi fece, capii che era un monaco greco di Baluklù, che voleva  farmi  vedere  la
fontana miracolosa, e m'incamminai con lui verso il  monastero.  Mi  condusse  a
traverso un cortile silenzioso, aperse una porticina,  accese  una  candela,  mi
fece scendere con sè per una  scaletta,  sotto  una  volta  umida  e  oscura,  e
fermandosi dinanzi a una specie di cisterna, sulla quale raccolse con  una  mano
la luce della fiammella, mi accennò di guardare i  pesci  rossi  che  guizzavano
nell'acqua. Mentre guardavo, mi borbottò un discorso incomprensibile che  doveva
essere la favola famosa del  miracolo  dei  pesci.  Mentre  i  Musulmani  davano
l'ultimo assalto alle mura di Costantinopoli, un monaco greco, in quel convento,
friggeva dei pesci. Improvvisamente s'affacciò alla porta della cucina un  altro
monaco, tutto atterrito, e gridò: - La città è presa! - Che! - rispose  l'altro:
- lo crederò quando vedrò i miei pesci saltar fuori della padella. - E  i  pesci
saltarono fuori sull'atto, belli e vivi, mezzi bruni e mezzi  rossi  perchè  non
erano fritti che da una parte, e furono rimessi religiosamente, come ognuno  può
pensare, nell'acqua dov'erano stati pigliati e dove guizzano ancora.  Finita  la
sua chiacchierata, il monaco mi gettò sul viso alcune goccie  dell'acqua  sacra,
che gli ricascarono in mano convertite in soldi, e  dopo  avermi  riaccompagnato
alla porta, stette un pezzo a guardarmi, mentre m'allontanavo, coi suoi  piccoli
occhi annoiati e sonnolenti.

E sempre, da una parte, mura dietro mura e  torri  dietro  torri,  e  dall'altra
cimiteri ombrosi, qualche campo verde, qualche vigneto, qualche casa  chiusa,  e
di là, il deserto. Qualche volta, guardando le mura da un luogo basso, mi pareva
di vederne l'ultimo profilo; ma fatta una  breve  salita,  le  vedevo  di  nuovo
stendersi dinanzi a me senza fine, e a  ogni  passo  saltavan  fuori  le  torri,
lontano, l'una dietro l'altra, a due, a tre insieme, come se accorressero  sulla
strada per veder chi turbava il silenzio di quella solitudine.  La  vegetazione,
in quel tratto, è maravigliosa. Alberi frondosi si  rizzano  sulle  torri,  come
sopra vasi giganteschi; dai merli spenzolano ciuffi di fiori gialli e  di  fiori
rossi e ghirlande d'edera e di caprifoglio; di sotto ci son mucchi inestricabili
di corbezzoli, di lentischi, di ortiche, di pruni, in mezzo a  cui  sorgono  dei
platani e dei salici, che coprono d'ombra il fosso e le sponde. Grandi tratti di
muro sono completamente coperti  dall'edera,  che  trattiene  come  una  rete  i
mattoni e i calcinacci staccati, e nasconde le breccie e le feritoie. Il fosso è
coltivato a orticelli; sulle  sponde  pascolano  capre  e  pecore  custodite  da
ragazzi  greci,  coricati  all'ombra  degli  alberi;  dai  muri  escono   stormi
d'uccelli; l'aria è piena delle fragranze acute dell'erbe  selvatiche;  e  spira
non so che allegrezza primaverile  sulle  rovine,  che  paiono  inghirlandate  e
infiorate per il passaggio trionfale d'una Sultana. Tutt'a un tratto  mi  sentii
nel volto un soffio d'aria salina, e alzando gli occhi vidi lontano,  dinanzi  a
me, l'azzurro del Mar di Marmara. Nello stesso  punto  mi  parve  che  una  voce
sommessa mi mormorasse nell'orecchio: - Il castello delle Sette  Torri  -  e  mi
fermai un momento in mezzo alla strada, con un sentimento  vago  d'inquietudine.
Poi ripresi il cammino, passai dinanzi all'antica porta  Deleutera,  oltrepassai
la porta Melandesia, e mi trovai in faccia al castello.

Questo edificio di malaugurio, innalzato da Maometto  II  sull'antico  Cyclobion
dei Greci, per difendere la città nel punto in cui le  mura  che  la  proteggono
dalla parte di terra si congiungono con quelle che la difendono dalla parte  del
Mar di Marmara, e convertito poi in  prigione  di  Stato,  appena  le  ulteriori
conquiste dei Sultani, mettendo al sicuro Stambul dal pericolo d'un assedio,  lo
ebbero reso inutile come fortezza; non è più ora che uno scheletro di  castello,
custodito da pochi soldati; una rovina maledetta, piena di  memorie  dolorose  e
orribili, che corrono in leggende sinistre per le bocche di tutti  i  popoli  di
Costantinopoli, e non veduta dai viaggiatori, per solito, che di sfuggita, dalla
prora del bastimento  che  li  porta  al  Corno  d'oro.  I  Turchi  lo  chiamano
Jedi-Kulé, ed è per loro ciò che la Bastiglia per  la  Francia  e  la  Torre  di
Londra per l'Inghilterra: un monumento che ricorda i  tempi  più  nefandi  della
tirannia dei Sultani. Le mura della città lo nascondono agli occhi di chi guarda
dalla strada, eccetto due delle sette grandi torri  che  gli  diedero  il  nome,
delle quali non ce n'è più intere che quattro. Nel muro  esterno  rimangono  due
colonne corinzie, che appartenevano all'antica Porta dorata, per la quale fecero
le loro entrate trionfali Narsete ed Eraclio, e che  è  la  stessa,  giusta  una
leggenda comune ai musulmani ed ai greci, per la quale passeranno i Cristiani il
giorno che rientreranno vincitori nella città di Costantino. La porta  d'entrata
è dentro le mura, in una piccola torre quadrata, dinanzi a  cui  sonnecchia  una
sentinella in babbuccie, la quale acconsente  quasi  sempre  a  lasciar  entrare
nello stesso tempo una moneta in tasca e un viaggiatore nel castello.  Entrai  e
mi trovai solo in un grande recinto, d'un  aspetto  lugubre  di  cimitero  e  di
carcere, che mi fece arrestare il passo. Tutt'intorno  s'alzano  mura  enormi  e
nere, che formano un pentagono, coronate di grosse  torri  quadrate  e  rotonde,
altissime e basse, alcune diroccate,  altre  intere  e  coperte  da  alti  tetti
conici, rivestiti di piombo, e innumerevoli scale in rovina,  che  conducono  ai
merli e alle feritoie. Dentro al recinto  c'è  una  vegetazione  alta  e  fitta,
dominata da un gruppo di cipressi e di platani, sopra i quali spunta il minareto
d'una piccola moschea nascosta; fra le piante più basse, i tetti d'un gruppo  di
capanne, in cui dormono i soldati;  nel  mezzo,  la  tomba  d'un  vizir  che  fu
strangolato nel castello; qua e là i resti deformi d'un antico ridotto; e fra  i
cespugli e lungo i  muri,  frammenti  di  bassorilievi,  tronchi  di  colonne  e
capitelli affondati nella terra, mezzo coperti dalle erbaccie e  dall'acqua  dei
pantani: un disordine bizzarro e triste, pieno di misteri  e  di  minaccie,  che
mette ripugnanza a inoltrarsi. Stetti un po' incerto guardando  intorno,  e  poi
andai innanzi, con circospezione, come per timore di mettere  il  piede  in  una
pozza di sangue. Le capanne erano chiuse, la moschea chiusa; tutto  solitario  e
quieto, come in una rovina abbandonata. In qualche punto dei muri ci sono ancora
tracce di croci greche, frammenti  di  monogrammi  costantiniani,  ali  spezzate
d'aquile romane e resti di fregi dell'antico edifizio  bizantino,  anneriti  dal
tempo. Su alcune pietre si vedono incise rozzamente delle iscrizioni  greche  in
caratteri  minuti:  quasi  tutte  iscrizioni  dei  soldati  di  Costantino,  che
custodivano la fortezza, sotto il comando del  fiorentino  Giuliani,  il  giorno
prima della caduta di Costantinopoli; povera  gente  rassegnata  a  morire,  che
invocava Iddio perchè salvasse la loro città dal saccheggio e le  loro  famiglie
dalla schiavitù. Delle due torri poste dietro alla Porta dorata, una è quella in
cui venivano chiusi gli ambasciatori degli Stati ch'erano in guerra coi Sultani,
e vi si leggono ancora sui muri parecchie iscrizioni latine, delle quali la  più
recente è degli ambasciatori veneti imprigionati sotto  il  regno  d'Ahmed  III,
quando scoppiò la guerra della Morea.  L'altra  è  la  torre  famosa  a  cui  si
riferiscono le più lugubri tradizioni del castello: la torre che racchiudeva  un
labirinto di segrete orrende, sepolcri di vivi, nelle quali i vizir e  i  grandi
della Corte aspettavano, pregando nelle tenebre, l'apparizione del carnefice,  o
impazziti dalla disperazione, lasciavano  sulle  pareti  le  traccie  sanguinose
delle unghie e del cranio. In uno di quei sepolcri c'era il  grande  mortaio  in
cui si stritolavano le ossa e le  carni  agli  ulema.  A  pian  terreno  v'è  lo
stanzone rotondo, chiamato prigione di sangue, dove si decapitavano secretamente
i condannati, e si buttavano le teste in un pozzo, detto il pozzo di sangue,  di
cui si vede ancora la bocca nel mezzo del pavimento  ineguale,  coperta  da  due
lastre di pietra. Sotto c'era la così detta caverna rocciosa, rischiarata da una
lanterna appesa alla volta, dove si tagliava la pelle a striscie  ai  condannati
alla tortura, si versava la pece infiammata nelle piaghe aperte dalle  verghe  e
si schiacciavano colle mazze i piedi  e  le  mani,  e  gli  urli  orrendi  degli
agonizzanti  non  arrivavano  che  come  un  lamento  fioco  agli  orecchi   dei
prigionieri della torre. In un angolo del recinto si vedono  ancora  le  traccie
d'un cortile nel quale si troncava la testa, di notte, ai condannati  comuni;  e
là vicino c'era ancora, non è gran tempo, un muro di ossa umane che  s'innalzava
fin quasi alla piattaforma del castello. Vicino all'entrata c'è la  prigione  di
Otmano II, la prima vittima imperiale dei  Giannizzeri.  È  la  stanza  dove  il
povero  Sultano  diciottenne,  a  cui  la  disperazione  raddoppiava  le  forze,
resistette furiosamente ai suoi quattro carnefici, fin che una mano  spietata  e
codarda, esercitata a far gli eunuchi, lo afferrò "alle sorgenti della virilità"
e gli strappò un altissimo grido, che fu soffocato dal  capestro.  In  tutte  le
altre torri e in parte delle mura c'era un andirivieni di corridoi tenebrosi, di
scalette segrete, di porte basse, chiuse da battenti di ferro o di travi,  sotto
le quali curvarono la testa  per  l'ultima  volta  pascià,  principi  imperiali,
governatori, ciambellani, grandi ufficiali nel  fiore  della  giovinezza  e  nel
colmo della potenza, a cui tutto veniva tolto in un'ora; e il  loro  capo  aveva
già rigato di sangue le  mura  esterne  del  castello,  che  le  loro  spose  li
aspettavano ancora vestite a festa fra gli splendori degli arem.  Passavano  per
quei corridoi stillanti d'acqua e per quelle scale sepolcrali, di notte, al lume
delle lanterne, soldati e carnefici dalle mani  sanguinose,  e  messaggieri  del
Serraglio che venivano a portare ai condannati a  morte,  ancora  illusi  da  un
barlume di speranza, l'ultimo no dei Sultani, e cadaveri cogli occhi fuor  della
fronte e coll'orrendo cordone di seta alla gola, portati da  sciaù  affannati  e
stanchi dalle lunghe lotte combattute  nelle  tenebre  contro  la  rabbia  della
disperazione. Alla estremità opposta di Stambul, sulla  collina  del  Serraglio,
v'era il tribunale spaventoso della  Corte.  Qui  era  una  macchina  enorme  di
supplizio, coronata da sette patiboli di pietra, la quale riceveva  dal  mare  e
dalla terra, al lume della luna, le vittime vive, e non restituiva al  sole  che
teschi e cadaveri; e dall'alto delle torri, in  cui  si  moriva,  le  sentinelle
notturne vedevano lontano i chioschi  del  Serraglio  illuminati  per  le  feste
imperiali. Ed ora si prova un senso di piacere al veder il castello infame  così
deformato, come se tutte le vittime risuscitate  l'avessero  roso  e  sgretolato
colle unghie e coi denti per vendicarsi sulle mura non potendo vendicarsi  sugli
uomini. Il grande mostro, disarmato e decrepito, sbadiglia  colle  cento  bocche
delle sue feritoie e delle sue porte squarciate, ridotto a un vano  spauracchio,
e una miriade di topi, di biscie e di  scorpioni  giallognoli,  pullulati,  come
vermi, dal suo corpaccio infracidito, gli brulica nel ventre vuoto e per le reni
spezzate, in  mezzo  a  una  vegetazione  insolente  che  lo  inghirlanda  e  lo
impennacchia per ludibrio. Dopo essermi affacciato a  varie  porte  senza  veder
altro che una fuga precipitosa di topacci, salii per una scala erbosa sopra  una
delle cortine del lato occidentale. Di là si domina tutto il castello: un  vasto
disordine di rovine, di  torri,  di  merli,  di  scale,  dì  piatteforme,  tutto
nerastro o rosso cupo, intorno a un gran mucchio di verde vivo; e di  là,  altre
torri e altri merli innumerevoli delle mura orientali di  Stambul;  così  che  a
socchiuder gli occhi, par di vedere una sola  vastissima  fortezza  abbandonata,
che si disegna sull'azzurro del Mar di Marmara. A  sinistra  si  vede  una  gran
parte di Stambul, tagliata da parecchie  lunghissime  strade  serpeggianti,  che
fuggono nella direzione dell'antica via trionfale degl'Imperatori Bizantini,  la
quale dalla Porta Dorata, passando per il  foro  d'Arcadio  e  per  il  foro  di
Costantino, andava fino alla reggia. Era una veduta immensa e  ridente,  che  mi
faceva parer più sinistro il mucchio di rovine malaugurate che avevo  ai  piedi.
Rimasi lungo tempo là, appoggiato a un merlo infocato dal  sole,  abbagliato  da
una luce vivissima, guardando sotto quel grande sepolcro scoperchiato con quella
curiosità pensierosa e diffidente con cui si guardano i luoghi dove fu  commesso
di fresco un delitto. Regnava un silenzio profondo. Per i muri  correvano  delle
grosse lucertole, giù nei fossi gracidavano i rospi, sopra  le  torri  roteavano
dei corvi, intorno al capo mi ronzava un nuvolo d'insetti venuti su dai  pantani
delle rovine, e  l'aria  un  po'  agitata  mi  portava  il  puzzo  d'un  cavallo
putrefatto, disteso in fondo al fosso esterno della fortezza. Mi prese un  senso
di schifo e di ribrezzo; eppure mi  sentivo  inchiodato  là,  come  affascinato,
immerso in una specie  d'assopimento;  e  tenendo  gli  occhi  socchiusi,  quasi
sognando, in quella pace morta del mezzogiorno, mi pareva  d'udire,  nel  ronzio
monotono  degl'insetti,  il  tonfo  dei  teschi  gettati  nel  pozzo,  le  grida
lamentevoli dei moribondi dei sotterranei e la  voce  del  figliuolo  minore  di
Brancovano, che sentendosi sul collo il freddo del capestro,  gridava:  -  Padre
mio! Padre mio! - E siccome ero stanco e la luce m'abbagliava, chiusi gli  occhi
e rimasi un momento assopito; e subito tutte  quelle  orribili  immagini  mi  si
affollarono alla mente con un'evidenza spaventosa. In quel punto fui riscosso da
un grido acuto e sonoro, e vidi sotto, sul terrazzo  del  piccolo  minareto,  il
muezzin della moschea del castello.  Quella  voce  lenta,  dolce,  solenne,  che
parlava di Dio, in quel luogo, in quel momento,  mi  discese  nel  più  profondo
dell'anima! Pareva che parlasse in nome  di  tutti  coloro  che  eran  morti  là
dentro, che dicesse che i loro dolori non  erano  stati  inutili,  che  le  loro
ultime lacrime erano state raccolte,  che  le  loro  torture  avevano  avuto  un
compenso, che essi avevano perdonato, che bisognava  perdonare,  che  si  doveva
pregare e confidare in Dio, anche quando il mondo ci abbandona, e  che  tutto  è
vano sulla terra fuorchè questo sentimento infinito di amore  e  di  pietà...  E
uscii dal castello, commosso.

Ripresi il mio cammino verso il mare lungo le mura esterne di Stambul. Là vicino
c'è la stazione di Adrianopoli e s'incrociano sotto le mura parecchi tronchi  di
strada ferrata. Mi trovai in mezzo a lunghe file di vagoni logori  e  polverosi.
Non c'era nessuno. Se  fossi  stato  un  turco  fanatico,  nemico  delle  novità
europee, avrei potuto incendiare l'una dopo l'altra quelle baracche, e andarmene
tranquillamente senz'essere molestato.  Andai  innanzi  sull'orlo  della  strada
temendo di sentire da un momento all'altro l'olà minaccioso d'un  guardiano;  ma
nessuno mi diede noia, In poco tempo arrivai all'estremità delle  mura.  Credevo
di poter entrare in Stambul per di là: fui deluso. Le mura del lato di terra  si
congiungono sulla spiaggia con quelle della parte di mare, e non c'è effigie  di
porta. Allora mi avanzai su per le rovine d'un antico molo e  sedetti  sopra  un
macigno, in mezzo all'acqua. Di là non vedevo altro che il  Mar  di  Marmara,  i
monti dell'Asia, e le alture azzurrine, che parevano lontanissime,  di  Scutari.
La spiaggia era deserta; mi pareva d'esser solo nell'universo. Le onde  venivano
a rompersi ai miei piedi e mi spruzzavano il volto. Rimasi là un pezzo, pensando
a mille cose, vagamente. Vedevo me, solo, uscir dalla porta  Caligaria  e  venir
giù lentamente per la strada solitaria, fra i cimiteri e le torri,  e  seguitavo
quell'uomo, come se fosse un altro. Poi mi diedi  a  cercare  Yunk  nella  città
immensa. Poi stetti a osservare le  onde  che  venivano  l'una  dopo  l'altra  a
distendersi mormorando sulla riva e sparivano l'una dopo l'altra in silenzio;  e
vedevo in esse l'immagine dei popoli e degli eserciti che eran venuti l'un  dopo
l'altro a urtarsi  contro  le  mura  di  Bisanzio:  le  falangi  di  Pausania  e
d'Alcibiade, le legioni di Massimo e di Severo, le torme dei Persiani,  le  orde
degli Avari, e gli Slavi e gli Arabi e i Bulgari e i Crociati, e gli eserciti di
Michele Paleologo e di Comneno e quei di Baiazet Ilderim e  quelli  del  secondo
Amurat e quelli di Maometto il conquistatore,  svaniti  l'un  dopo  l'altro  nel
silenzio infinito della morte; e provavo la tristezza che stringeva il cuore  al
Leopardi la sera del dì di festa, quando sentiva morire a poco a poco  il  canto
solitario dell'artigiano, che gli rammentava il  suono  dei  popoli  antichi,  e
pensava che tutto passa come un sogno sopra la terra.

Di là tornai indietro fino alla porta delle Sette Torri ed entrai dentro le mura
per percorrere tutta Stambul lungo la riva del Mar di  Marmara.  Ero  già  mezzo
sgambato; ma nelle lunghe passeggiate, a un certo punto, nasce dalla  stanchezza
medesima una cocciutaggine animalesca che  ravviva  le  forze.  Mi  vedo  ancora
camminare e camminare per  quelle  strade  deserte,  sotto  quel  sole  ardente,
dominato da non so che sonnolenza fantastica, nella quale  mi  passavan  dinanzi
faccie d'amici di Torino, episodi di romanzi, vedute di altri paesi  e  pensieri
vaghi sulla vita umana e sull'immortalità dell'anima; e  tutto  metteva  a  capo
alla tavola  rotonda  dell'albergo  di  Bisanzio,  scintillante  di  lumi  e  di
cristalli, che vedevo lontanissima, al di là d'una città cento volte più  grande
di Stambul, e già coperta dalla notte. Attraverso un sobborgo musulmano, che par
disabitato, nel quale spira ancora la tristezza del castello delle Sette  Torri,
ed entro nel vasto quartiere di Psammatia, abitato  da  greci  e  da  armeni,  e
anch'esso deserto. Vado innanzi per una  interminabile  stradicciuola  tortuosa,
dalla quale vedo giù a destra, fra casa e casa, le mura merlate della città, che
profilano i loro merli neri nell'azzurro vivo del mare. Passo sotto la porta  di
Psammatia  e  mi  trovo  daccapo  in  un  quartiere  musulmano,   tra   finestre
ingraticolate,  porte  chiuse,  piccole  moschee,  giardini  nascosti,  cisterne
erbose, fontane abbandonate. Attraverso lo spazio dov'era l'antico foro  boario,
vedendo sempre, giù a destra, le mura e le torri, e non incontrando che  qualche
cane che si ferma per vedermi passare e qualche monello turco, seduto in  terra,
che mi fissa in volto, pensando un'impertinenza. Qualche finestra  s'apre  e  si
chiude improvvisamente, e vedo di sfuggita una mano o il lembo d'una  manica  di
donna. Giro intorno ai vasti giardini di  Vlanga  che  fanno  corona  all'antico
porto di Teodosio; vedo dei vasti spazii colle traccie  d'un  incendio  recente,
dei luoghi dove pare che la  città  finisca  nella  campagna,  dei  conventi  di
dervis, delle chiese greche, delle piazzette misteriose ombreggiate da un grande
platano, sotto il quale sonnecchia qualche vecchio col bocchino del narghilè tra
le dita. Vado innanzi, mi fermo dinanzi a un piccolo caffè per bere un  bicchier
d'acqua messo in mostra sulla finestra, chiamo, picchio, nessuno risponde.  Esco
dal quartiere greco di Jeni-Kapú, entro in un altro quartiere musulmano, rientro
un'altra volta fra le casette greche ed armene del quartiere  di  porta  Kum,  e
m'accompagnano sempre da una parte i merli delle mura e l'azzurro  del  mare,  e
non incontro che cani, mendicanti, monelli, e sento sonare in alto la  voce  dei
muezzin che annunziano  il  tramonto.  L'aria  si  fa  oscura;  e  continuano  a
succedersi  le  casette,  le  moschee  malinconiche,  i  crocicchi  deserti,  le
imboccature dei vicoli; e comincio a sentirmi spossato e a pensare  di  buttarmi
sopra una materassa dinanzi al primo caffè veduto, quando, a  una  svoltata,  mi
sorge improvvisamente dinanzi la mole enorme di Santa Sofia. Oh, la cara  vista!
Le forze mi tornano, i pensieri si rasserenano, affretto  il  passo,  arrivo  al
porto, passo il ponte, ed ecco dinanzi alla porta illuminata del primo caffè  di
Galata, Yunk, Rosasco, Santoro,  tutta  la  mia  piccola  Italia  che  mi  viene
incontro col volto sorridente e colle mani tese... e tiro uno dei più  lunghi  e
larghi respiri che abbiano mai tirato i polmoni d'un galantuomo.

L'ANTICO SERRAGLIO

Come a Granata prima d'aver visto l'Alhambra, così  a  Costantinopoli  pare  che
tutto rimanga da vedere fin che non si  è  penetrati  fra  le  mura  dell'antico
Serraglio. Mille volte al giorno, da tutti i punti della città e  del  mare,  si
vede là quella collina verdissima, piena di segreti e di  promesse,  che  attira
sempre gli sguardi come una cosa nuova, che tormenta la fantasia come un enimma,
che si caccia in mezzo a tutti i pensieri, a segno che si  finisce  per  andarci
prima del giorno fissato, più per liberarsi da un tormento che per  cercarvi  un
piacere. Non c'è infatti un altro angolo di terra in tutta  Europa,  di  cui  il
solo nome risvegli nella mente una più  strana  confusione  d'immagini  belle  o
terribili;  intorno  al  quale  si  sia  tanto  pensato  e  scritto  e   cercato
d'indovinare; che abbia dato luogo a tante notizie vaghe e  contradditorie;  che
sia ancora  oggetto  di  tante  curiosità  inappagabili,  di  tanti  pregiudizii
insensati, di tanti racconti meravigliosi. Ora tutti ci  penetrano  e  molti  ne
escono coll'animo freddo. Ma si può esser sicuri che, anche fra  secoli,  quando
forse la dominazione ottomana non sarà più che una reminiscenza in Europa, e  su
quella bella collina s'incroceranno le vie popolose d'una  città  nuova,  nessun
viaggiatore  vi  passerà  senza  riveder  col  pensiero  gli  antichi   chioschi
imperiali, e senza pensare con invidia  a  noi  del  secolo  diciannovesimo  che
abbiamo ancora ritrovato in quei luoghi le memorie vive e parlanti della  grande
reggia ottomana. Chi sa quanti archeologi cercheranno pazientemente  le  traccie
d'una porta  o  d'un  muro  nei  cortili  dei  nuovi  edifizii  e  quanti  poeti
scriveranno dei versi sopra poche macerie sparse sulla riva del  mare!  O  forse
anche, fra molti secoli, quelle mura saranno  ancora  gelosamente  custodite,  e
andranno a visitarle dotti, innamorati ed artisti, e la vita favolosa che vi  fu
vissuta per quattrocent'anni, si ridesterà e  si  spanderà  in  una  miriade  di
volumi e di quadri su tutta la faccia della terra.

Non è la  bellezza  architettonica  che  attira  su  quelle  mura  la  curiosità
universale. Il Serraglio non è un grande monumento artistico come l'Alhambra. Il
solo cortile dei leoni della reggia araba vale tutti i chioschi e tutte le torri
della reggia turca. Il pregio del  Serraglio  è  d'essere  un  grande  monumento
storico, che commenta ed illumina quasi tutta la vita della  dinastia  ottomana;
che porta scritta sulle pietre dei suoi  muri  e  sul  tronco  dei  suoi  alberi
secolari tutta la cronaca più intima e più secreta dell'impero. Non vi manca che
quella degli ultimi trent'anni e quella  dei  due  secoli  che  precedettero  la
conquista di Costantinopoli.  Da  Maometto  II  che  ne  pose  la  fondamenta  a
Abdul-Megid che l'abbandonò per andare ad abitare il palazzo di Dolma-Bagcé,  ci
vissero venticinque Sultani. Qui la dinastia pose il piede appena conquistata la
sua metropoli europea, qui salì all'apice della sua fortuna, qui cominciò la sua
decadenza. Era insieme una  reggia,  una  fortezza  e  un  santuario;  v'era  il
cervello dell'impero e il cuore dell'islamismo; era una città nella  città,  una
rocca augusta e magnifica, abitata da un popolo e custodita da un  esercito,  la
quale abbracciava fra le sue mura una  varietà  infinita  d'edifizi,  luoghi  di
delizie e luoghi d'orrore, città e campagna, reggie, arsenali,  scuole,  uffici,
moschee; dove si alternavano le feste e le stragi, le cerimonie religiose e  gli
amori, le solennità diplomatiche e le follie; dove i  Sultani  nascevano,  erano
innalzati al trono, deposti, incarcerati, strozzati; dove s'ordiva la  trama  di
tutte le congiure ed echeggiava il grido di tutte le ribellioni;  dove  affluiva
l'oro e il sangue più puro dell'impero; dove girava l'elsa della  spada  immensa
che balenava sul capo di cento popoli; dove per quasi tre secoli  tennero  fisso
lo sguardo l'Europa inquieta, l'Asia diffidente e l'Affrica impaurita, come a un
vulcano fumante, che minacciasse la terra.

Questa reggia mostruosa è posta sulla collina  più  orientale  di  Stambul,  che
declina dolcemente verso il mar di Marmara, verso l'imboccatura  del  Bosforo  e
verso il  Corno  d'oro;  nello  spazio  occupato  anticamente  dall'Acropoli  di
Bisanzio,  da  una  parte  della  città  e  da   un'ala   dei   grandi   palazzi
degl'imperatori. È la più bella collina di Costantinopoli e il  promontorio  più
favorito dalla natura di tutta la riva europea. Vi convergono, come a un centro,
due mari  e  due  stretti;  vi  mettevano  capo  le  grandi  strade  militari  e
commerciali dell'Europa orientale; gli acquedotti degl'imperatori  bizantini  vi
conducevano torrenti d'acqua; le colline della Tracia lo riparano dai venti  del
settentrione; il mare lo bagna da tre parti; Galata lo prospetta  dal  lato  del
porto; Scutari lo guarda dalla parte del Bosforo; e  le  grandi  montagne  della
Bitinia gli chiudono dinanzi colle loro cime nevose gli orizzonti  dell'Asia.  È
un colle solitario, posto all'estremità della grande metropoli,  quasi  isolato,
fortissimo  e  bellissimo,  che  sembra  fatto  dalla  natura  per  servire   di
piedestallo a una grande monarchia e per proteggere la vita deliziosa ed  arcana
d'un principe quasi Dio. Tutta la collina è circondata, ai  piedi,  da  un  alto
muro merlato, fiancheggiato da grosse torri. Sulla riva del  mar  di  Marmara  e
lungo il Corno d'oro, queste mura sono le mura stesse della città;  dalla  parte
di terra, son mura innalzate da Maometto II, le quali separano  la  collina  del
Serraglio da quella su cui s'innalza la Moschea  di  Nuri-Osmaniè,  svoltano  ad
angolo retto vicino alla  Sublime  Porta,  passano  dinanzi  a  Santa  Sofia,  e
descrivendo una grande curva in avanti,  vanno  a  congiungersi  con  quelle  di
Stambul sulla riva del mare.  Questa  è  la  cinta  esterna  del  Serraglio.  Il
Serraglio propriamente detto si stende sulla sommità, circondato alla sua  volta
da alti muri, che formano come un ridotto centrale  della  gran  fortezza  della
collina. Ma sarebbe fatica sprecata il descrivere il Serraglio quale  è  ridotto
al presente. La strada ferrata passa a  traverso  le  mura  esterne;  un  grande
incendio, nel 1865, distrusse molti edifizi;  i  giardini  sono  in  gran  parte
devastati; vi furono  innalzati  ospedali,  caserme  e  scuole  militari;  degli
edifizi rimasti parecchi vennero cangiati di forma e di uso;  e  benchè  i  muri
principali rimangano, in modo da presentare ancora tutta  intera  la  forma  del
Serraglio antico, le piccole alterazioni son tante e tali, e l'abbandono in  cui
è lasciata ogni cosa da circa trent'anni ha mutato in  maniera  l'aspetto  delle
parti intatte, che non si potrebbe descrivere il luogo fedelmente senza  che  ne
rimanesse delusa anche la più modesta aspettazione.

Val meglio per chi scrive e per chi legge il rivedere  questo  Serraglio  famoso
qual era nei bei tempi della grandezza ottomana. Allora, chi poteva  abbracciare
tutta la collina con uno sguardo, o dai merli d'una delle torri più alte,  o  da
un minareto della moschea di Santa Sofia, godeva  una  veduta  meravigliosa.  In
mezzo all'azzurro vivo del mare, del Bosforo  e  del  porto,  dentro  al  grande
semicerchio bianco delle vele della flotta, si vedeva  la  vasta  macchia  verde
della collina, circondata  di  mura  e  di  torri,  coronate  di  cannoni  e  di
sentinelle; e in mezzo a questa macchia, ch'era una selva d'alberi enormi, fra i
quali biancheggiava un labirinto di sentieri e ridevano i colori di mille aiuole
fiorite, si stendeva,  sull'alto  del  colle,  il  vastissimo  rettangolo  degli
edifizi del serraglio, diviso in tre grandi cortili, o  meglio  in  tre  piccole
città  fabbricate  intorno  a  tre  piazze  ineguali,  da  cui  s'innalzava  una
moltitudine confusa di tetti variopinti, di terrazze colme di fiori,  di  cupole
dorate, di minareti bianchi,  di  cime  aeree  di  chioschi,  d'archi  di  porte
monumentali, frammezzati di giardini e di  boschetti,  e  mezzo  nascosti  dalle
fronde. Era una piccola metropoli bianca, scintillante  e  disordinata,  leggera
come un accampamento di tende, da cui spirava  non  so  che  di  voluttuoso,  di
pastorale e di guerriero; in una parte piena di gente e  di  vita;  in  un'altra
solitaria e muta come una necropoli; dove tutta scoperta e dorata dal sole; dove
inaccessibile ad ogni sguardo umano e immersa in un'ombra  perpetua;  rallegrata
da infiniti zampilli, abbellita da mille contrasti di splendori e  d'oscurità  e
di colori possenti e di sfumature di tinte argentee e  azzurrine,  riflesse  dai
marmi dei colonnati e dalle acque dei laghetti, e sorvolata da nuvoli di rondini
e di colombi. Tale era l'aspetto esterno della città imperiale,  non  vastissima
all'occhio di chi la guardava dall'alto; ma così divisa e suddivisa e  intricata
dentro, che servitori, i quali ci vivevano da cinquant'anni,  non  riuscivano  a
racappezzarvisi, e i giannizzeri che l'invadevano  per  la  terza  volta  ci  si
smarrivano ancora.

La porta principale era ed è sempre la Bab-Umaiùn, o porta augusta, che dà sulla
piccola piazza dove s'innalza la fontana del Sultano Ahmed, dietro alla  moschea
di Santa Sofia. È una grande porta di marmo bianco e nero,  decorata  di  ricchi
arabeschi, sulla quale s'appoggia un alto edifizio, con otto  finestre,  coperto
da un tetto sporgente; e appartiene a quel misto di stile arabo e  persiano,  da
cui si riconoscono quasi tutti i monumenti innalzati dai Turchi nei  primi  anni
dopo la conquista, prima che cominciassero ad imitare l'architettura  bizantina.
Sopra l'apertura, in una cartella di marmo,  si  legge  ancora  l'iscrizione  di
Maometto II: - Allà conservi in eterno la  gloria  del  suo  possessore  -  Allà
consolidi il suo edifizio - Allà  fortifichi  le  sue  fondamenta.  È  la  porta
dinanzi alla quale veniva ogni mattina il popolo di Stambul a  vedere  di  quali
grandi dello Stato o della corte fosse caduta la testa  nella  notte.  Le  teste
erano appese a un chiodo dentro a  due  nicchie  che  si  vedono  ancora,  quasi
intatte, a destra e  a  sinistra  dell'entrata;  oppure  esposte  in  un  bacino
d'argento, accanto al quale era affissa l'accusa e la  sentenza.  Sulla  piazza,
davanti alla porta, si buttavano i cadaveri dei condannati  al  capestro;  e  là
s'arrestavano, aspettando l'ordine d'entrare nel primo recinto del Serraglio,  i
distaccamenti degli eserciti lontani, venuti a portare i trofei delle  vittorie;
e ammucchiavano sulla soglia  augusta  armi,  bandiere,  teschi  di  capitani  e
splendide divise insanguinate. La porta era custodita da un grosso drappello  di
capigì, figli di bey e di pascià,  vestiti  pomposamente;  i  quali  assistevano
dall'alto delle mura e delle finestre alla processione continua della gente  che
entrava ed usciva, o tenevano indietro colle larghe scimitarre la folla muta dei
curiosi, venuti là per veder  di  sfuggita,  per  uno  spiraglio,  un  pezzo  di
cortile, un frammento della seconda porta, un barlume almeno  di  quella  reggia
enorme ed arcana, argomento di tanti desiderii e di tanti terrori.  Passando  di
là, il musulmano devoto mormorava una preghiera per il suo Sublime  Signore;  il
giovinetto povero e ambizioso, sognava il giorno  in  cui  avrebbe  oltrepassato
quella soglia per andar a ricevere la coda di  cavallo;  la  fanciulla  bella  e
cenciosa fantasticava, con una vaga speranza, la vita splendida della Cadina;  i
parenti delle vittime abbassavano il  capo,  fremendo;  e  in  tutta  la  piazza
regnava un silenzio severo, non turbato che  tre  volte  al  giorno  dalla  voce
sonora dei muezzin di Santa Sofia.


Dalla porta Umaium s'entrava nel così detto cortile dei Giannizzeri, che era  il
primo recinto del Serraglio.

Questo gran cortile c'è ancora, circondato d'edifizi irregolari, lunghissimo,  e
ombreggiato da varii gruppi d'alberi,  fra  cui  il  platano  enorme  detto  dei
Giannizzeri, del quale dieci uomini non bastano  ad  abbracciare  il  tronco.  A
sinistra di chi entra, v'è la chiesa di Sant'Irene,  fondata  da  Costantino  il
Grande, e convertita dai turchi in armeria.  Più  in  là  e  tutt'intorno  v'era
l'ospedale del Serraglio, l'edifizio del tesoro  pubblico,  il  magazzino  degli
aranci, le scuderie imperiali, le cucine, le caserme dei capigì, la zecca, e  le
case degli alti ufficiali della Corte. Sotto il grande platano  ci  sono  ancora
due colonnette di pietra, sulle quali si eseguivano  le  decapitazioni.  Di  qui
passavano tutti coloro che dovevano andare al divano o dal  Padiscià.  Era  come
uno smisurato vestibolo aperto, sempre affollato, nel quale tutto era rimescolìo
e affaccendamento. Centocinquanta fornai  e  duecento  tra  cuochi  e  sguatteri
lavoravano nelle grandi cucine, a preparare il vitto per la famiglia  sterminata
"che mangiava il  pane  e  il  sale  del  Gran  Signore".  Dalla  parte  opposta
s'affollavano le guardie ed i servi, finti malati, per farsi ammettere alla vita
molle dell'ospedale sontuoso, in cui erano impiegati venti medici e un  esercito
di schiavi. Lunghe carovane di muli e di cammelli entravano a portar provvigioni
alle cucine, o a portar armi d'eserciti vinti nella chiesa di  Sant'Irene,  dove
accanto alla sciabola di Maometto II scintillava la scimitarra di Scanderberg  e
il bracciale di Tamerlano. I percettori  delle  imposte  passavano,  seguiti  da
schiavi carichi d'oro, diretti alla tesoreria,  dove  c'erano  tante  ricchezze,
come diceva Sokolli, gran vizir di Solimano il Grande, da costrurre delle flotte
colle ancore d'argento e coi cordami di seta. Passavano a frotte,  condotti  dai
bei palafrenieri della Bulgaria,  i  novecento  cavalli  di  Murad  IV,  che  si
pascevano a mangiatoie d'argento massiccio. V'era dalla  mattina  alla  sera  un
formicolìo luccicante d'uniformi, in mezzo al quale spiccavano gli alti turbanti
bianchi dei giannizzeri,  i  grandi  pennacchi  d'airone  dei  solak,  i  caschi
argentati dei peik, guardie del Sultano, vestite d'una tunica d'oro stretta alla
vita da una cintura ingemmata; i zuluftú-baltagì, impiegati  al  servizio  degli
ufficiali di camera, colle  loro  treccie  di  lana  pendenti  dal  berretto;  i
kassekì, col loro bastone  emblematico  in  mano;  i  balta-gì  coll'accetta;  i
valletti del gran vizir colla frusta ornata di catenelle d'argento; i  bostangì,
guardie dei giardini, coi grandi berretti purpurei;  e  una  folla  svariata  di
cento colori e di cento emblemi, d'arcieri, di lancieri, di guardie del  tesoro,
di guardie coraggiose, di guardie temerarie, d'eunuchi neri e d'eunuchi bianchi,
di scudieri e di sciaù, uomini alti e  poderosi,  d'aspetto  altero,  improntato
della dignità signorile della Corte, che riempivano il cortile  di  profumi.  Un
orario minuzioso e severo regolava  le  faccende  di  tutti  in  quell'apparente
disordine. Tutti si movevano in quel cortile come gli automi  giranti  sopra  la
tavola che rinchiude il meccanismo.  Allo  spuntare  del  giorno  comparivano  i
trentadue muezzin della Corte, scelti fra i cantori più  dolci  di  Stambul,  ad
annunziare l'alba dai minareti delle moschee  del  Serraglio,  e  s'incontravano
cogli astrologhi e cogli astronomi che scendevano dalle terrazze,  dove  avevano
passato la notte studiando il firmamento dalle terrazze per determinare  le  ore
propizie alle occupazioni del Sultano. Poi il primo medico del Serraglio entrava
a chieder notizie della salute del Padiscià; l'ulema istitutore  andava  a  dare
all'augusto discepolo il solito insegnamento religioso; il segretario privato  a
leggergli le suppliche ricevute la sera; i  professori  di  arti  e  di  scienze
passavano per recarsi nel terzo cortile a far le  lezioni  ai  paggi  imperiali.
Ognuno alla sua ora, tutti  i  personaggi  impiegati  al  servizio  dell'augusta
persona passavano di là per andare a chieder gli  ordini  per  la  giornata.  Il
bostangi-bascì, generale delle guardie imperiali, governatore  del  Serraglio  e
delle ville del Sultano sparse sulle rive del Bosforo e della Propontide, veniva
a informarsi se al Gran Signore piacesse di  fare  una  gita  sul  mare,  perchè
spettava a lui il governo del timone  e  ai  suoi  bostangì  l'onore  dei  remi.
Venivano a interrogare i capricci del Padiscià il  gran  maestro  delle  caccie,
accompagnato dal gran falconiere, insieme al capo  dei  cacciatori  dei  falconi
bianchi, al capo dei cacciatori degli avoltoi e a quello  dei  cacciatori  degli
sparvieri. Veniva l'intendente generale della città,  uno  stuolo  d'intendenti,
delle cucine, delle monete, dei foraggi, del tesoro, l'uno dopo l'altro,  in  un
ordine prestabilito, ciascuno coi suoi memoriali, colle  sue  parole  preparate,
coi suoi servi distinti da un vestimento speciale.  Più  tardi,  seguiti  da  un
corteo di segretari e di famigliari, passavano i vizir della Cupola per  recarsi
al divano. Passavano personaggi a cavallo, in carrozza, in bussola, e scendevano
tutti alla seconda porta, la quale non si poteva oltrepassare che a piedi. Tutta
questa gente era riconoscibile, carica per carica, dalla forma dei turbanti, dal
taglio delle maniche, dalla qualità delle pelliccie, dai  colori  delle  fodere,
dagli ornamenti delle selle, dall'avere la barba intera o i baffi soli.  Nessuna
confusione seguiva in quell'affollamento continuo. Il muftì era bianco; i  vizir
si riconoscevano al verde chiaro, i ciambellani allo scarlatto; l'azzurro carico
distingueva i sei primi ufficiali legislativi, il capo degli emiri e  i  giudici
della Mecca, di Medina e di Costantinopoli; i  grandi  ulema  avevano  il  color
violaceo; i muderrì e gli sceicchi indossavano l'azzurro chiaro;  il  cilestrino
chiarissimo segnalava gli sciaù feudatarii e gli agà dei vizir;  il  verde  cupo
era privilegio degli agà della staffa imperiale e del portatore dello  stendardo
sacro; gl'impiegati delle scuderie del sultano vestivano  il  verde  pallido;  i
generali dell'esercito portavano gli stivali rossi, gli ufficiali  della  Porta,
gialli,  gli  ulema,  turchini;  e  alla  scala  dei  colori  corrispondeva  una
gradazione nella profondità degl'inchini. Il bostangì-bascì, capo della  polizia
del Serraglio, comandante un esercito di carcerieri e di carnefici, che spandeva
il terrore col suono del suo nome e dei suoi passi, attraversava il  cortile  in
mezzo a due schiere di teste chinate a terra. Passava  il  capo  degli  Eunuchi,
gran maresciallo della Corte interna ed esterna, e  si  curvavano  i  caschi,  i
turbanti, i pennacchi, come spinti giù  da  cento  mani  invisibili.  Il  grande
elemosiniere passava fra mille saluti ossequiosi. Tutti coloro che  avvicinavano
il Sultano, il capo  degli  staffieri  che  gli  reggeva  la  staffa,  il  primo
cameriere che portava i suoi sandali, il Silihdar agà che forbiva le  sue  armi,
l'eunuco bianco che lambiva il pavimento  colla  lingua  prima  di  stendere  il
tappeto, il paggio che versava al Sultano l'acqua per le abluzioni,  quello  che
gli porgeva l'archibugio nelle caccie, quello che  custodiva  i  suoi  turbanti,
quello che spolverava i suoi pennacchi ingemmati, quello che  aveva  cura  delle
sue vesti di  volpe  nera,  passavano  in  mezzo  a  dimostrazioni  speciali  di
curiosità e di rispetto. Un bisbiglio sommesso precedeva e seguiva il  passaggio
del predicatore della Corte e del gran mastro della guardaroba,  che  gettava  i
denari al popolo nelle  feste  imperiali.  Passava  saettato  da  molti  sguardi
invidiosi il musulmano fortunato che ogni dieci giorni radeva il capo al Sultano
dei Sultani. La folla s'apriva con una  premura  particolare  davanti  al  primo
chirurgo incaricato della circoncisione dei principi, davanti al primo  oculista
che preparava il collirio per  le  palpebre  delle  cadine  e  delle  odalische,
davanti al gran maestro dei fiori, affaccendato dai capricci di cento belle, che
portava sotto il caffettano il suo poetico diploma ornato  di  rose  dorate.  Il
primo cuoco riceveva i suoi saluti adulatorii. Sorrisi cerimoniosi salutavano il
guardiano dei pappagalli e degli usignuoli che potevano varcare  le  soglie  dei
chioschi più segreti.  Erano  migliaia  di  persone,  divise  in  una  gerarchia
minutissimamente graduata, governate da  un  cerimoniale  di  cinquanta  volumi,
vestite in mille foggie pittoresche, che sfilavano o circolavano  per  il  vasto
cortile, e ad ogni minuto era una folla nuova. Tratto tratto passava rapidamente
un  messaggiero  e  tutte  le  teste  si  voltavano.  Era  il  vizir  karakulak,
messaggiere tra il Sultano e il primo ministro, che andava a fare  un'imbasciata
segreta al Gran Vizir; era un capigí che correva al palazzo d'un  pascià  caduto
in sospetto, a portargli l'ordine di presentarsi immediatamente al  divano;  era
il portatore di buone notizie che veniva ad annunziare al Padiscià il  fortunato
arrivo della grande carovana alla  Mecca.  Altri  messaggieri  speciali  tra  il
Sultano e i grandi ufficiali dello Stato, ciascuno  distinto  con  un  titolo  e
riconoscibile a qualche  particolarità  del  vestimento,  s'aprivano  il  passo,
correndo, e sparivano  per  le  due  porte  del  cortile.  Passavano  sciami  di
caffettieri per recarsi alle cucine della corte, frotte di cacciatori  imperiali
curvi dal peso  dei  carnieri  dorati;  file  di  facchini  carichi  di  stoffe,
preceduti dal Gran Mercante, provveditore del  Sultano;  drappelli  di  galeotti
condotti  dagli  schiavi  ai  lavori  più  faticosi  del  Serraglio.  Poi  cento
sguatteri, due volte al giorno, uscivano dalle cucine e portavano all'ombra  dei
platani, sotto le arcate, lungo i muri, piramidi enormi di riso e montoni interi
arrostiti; una turba di guardie e di servitori accorreva, e  il  grande  cortile
offriva lo spettacolo festoso del convito d'un  esercito.  Poco  dopo  la  scena
mutava, e si vedeva venir innanzi un'ambasciata straniera in mezzo  a  due  muri
d'oro e di seta. Là, come scriveva Solimano  il  grande  allo  Scià  di  Persia,
"affluiva tutto l'universo." Gli ambasciatori di Carlo  V  vi  si  trovavano  al
fianco degli ambasciatori di Francesco I; gl'inviati dell'Ungheria, della Serbia
e della Polonia vi entravano  accanto  ai  rappresentanti  della  repubblica  di
Genova e di Venezia. Il peskesdgi-bascì, incaricato di ricevere i  doni,  andava
incontro alle carovane straniere sul limitare di Bab-Umaiùn, e venivano innanzi,
tra mille spettatori, elefanti che portavano troni d'oro, gazzelle  gigantesche,
gabbie di leoni, cavalli della Tartaria, e cavalli dei deserti, vestiti di pelli
di tigri e carichi di scudi d'orecchie d'elefante; gl'inviati della  Persia  coi
vasi della china; i messi dei Sultani delle Indie con  scatole  d'oro  colme  di
gemme; gli ambasciatori dei  re  affricani  con  tappeti  di  pelo  di  cammelli
strappati dal ventre delle madri e pezzi di stoffa argentata che facevan  piegar
le schiene di dieci schiavi; gli ambasciatori degli  Stati  nordici  seguiti  da
drappelli di servi carichi di pelliccie e d'armi preziose.  Entravano,  dopo  le
guerre fortunate, per esser mostrati al Padiscià, generali carichi di  catene  e
principesse prigioniere, velate, coi loro cortei disarmati e  tristi,  e  stuoli
d'eunuchi d'ogni età e d'ogni colore, carpiti come bottino di guerra, o  offerti
in dono dai principi vinti. E intanto gli  ufficiali  degli  eserciti  vincitori
s'affollavano alle porte della Tesoreria a deporre  i  broccati  e  le  sciabole
imperlate prese nei saccheggi delle città persiane, l'oro e le  gemme  tolte  ai
mammalucchi d'Egitto, le coppe d'oro intopaziate del  tesoro  dei  Cavalieri  di
Rodi,  i  torsi  delle  statue  di  Diana  e  d'Apollo  rapite  alla  Grecia   e
all'Ungheria, e chiavi di città e di castelli; e altri  conducevano  al  secondo
cortile i giovanetti e le fanciulle rubate all'isola di Lesbo. Tutte  le  enormi
provvigioni d'ogni natura che venivano al Serraglio dai porti dell'Africa, della
Caramania, della Morea, del mar Egeo, passavano o s'arrestavano fra quelle mura,
e un esercito di maggiordomi e di segretarii erano continuamente affaccendati  a
registrare, a pagare, a disporre, a  fissare  udienze,  a  dare  ordinazioni.  I
mercanti dei bazar di schiave di Brussa e di  Trebisonda  si  trovavano  dinanzi
alla seconda porta, ad aspettare il turno d'entrata, insieme ai poeti venuti  da
Bagdad per recitar dei versi al Sultano.  I  governatori  caduti  in  disgrazia,
venuti per comprare la propria salvezza con una coppa  piena  di  monete  d'oro,
aspettavano accanto ai messi d'un Pascià venuti  ad  offrire  in  dono  al  Gran
Signore una bella vergine tredicenne, trovata dopo tre mesi di ricerche sotto  a
una capanna dell'Anatolia;  in  mezzo  a  spie  ritornate  da  tutti  i  confini
dell'Impero, vicino a famiglie stanche arrivate da provincie lontane per chieder
giustizia, tra  donne  e  fanciulli  dell'infima  plebe  di  Stambul  ammessi  a
presentare le loro querele al divano. E i giorni di divano si vedevano passar di
là, fra gli scherni dei curiosi, gli ambasciatori  delle  provincie  ribelli,  a
cavallo a un asino, colla barba rasa e un berretto di donna sul capo, e i  messi
insolenti dei principi asiatici col naso spuntato dalle scimitarre dei sciaù; di
là gli ufficiali dello Stato che  uscivano,  inconsapevoli,  per  portare  a  un
governatore lontano uno scialle prezioso, dono del Gran  vizir,  che  nascondeva
fra le sue pieghe la loro sentenza  di  morte;  di  là  i  visi  radianti  degli
ambiziosi che avevano ottenuto una satrapìa coll'intrigo e  i  visi  pallidi  di
quei che avevano sentito nel divano la minaccia sorda d'una disgrazia vicina; di
là i portatori di quegli hattiscerif, inesorabili come il destino, che andavano,
sulla groppa d'un cavallo, lontano trecento miglia, a  portar  la  rovina  e  la
morte nel palazzo di un vicerè; di là i terribili muti  della  corte  mandati  a
strozzare i prigionieri illustri nei sotterranei delle Sette Torri. E con questi
si incontravano gli ulema, i bey,  i  mollà,  gli  emiri,  che  tornavano  o  si
recavano alle udienze col capo basso, cogli occhi a terra, con le mani  nascoste
nelle grandi maniche; i vizir, che tenevano il Corano in tasca  per  leggere,  a
un'occorrenza, le orazioni dei morti; il gran vizir, despota  spiato  dal  boia,
che portava sotto il caffettano il proprio testamento, per essere sempre  pronto
a morire. E tutti passavano composti, a passo lento, in silenzio, o  parlando  a
bassa voce un linguaggio circospetto e corretto, proprio  del  Serraglio;  e  si
vedeva un continuo ricambiarsi di sguardi gravi e scrutatori, e un  posar  delle
mani sulla fronte e sul  petto,  accompagnato  da  bisbigli  interrotti,  da  un
fruscìo discreto  di  cappe  e  di  babbuccie,  da  un  tintinnare  sommesso  di
scimitarre, da non so che di monacale e di triste, che  faceva  contrasto  colla
fierezza guerriera dei volti, colla pompa  dei  colori,  collo  splendore  delle
armi. In tutti gli occhi si leggeva un pensiero, su tutte le fronti si vedeva il
terrore d'un uomo, che era sopra tutti, che era scopo di tutto, davanti al quale
tutto  s'inchinava,  strisciava,  s'annichiliva,  e  pareva  che  ogni  cosa  ne
presentasse l'immagine e che in ogni rumore si sentisse il suo nome.

Da questo cortile s'entrava nel secondo per  la  grande  porta  Bab-el-selam,  o
porta della Salute, che è ancora intatta in mezzo a due grosse torri, e  non  ci
si passa, nemmeno ora, senza un firmano.  Anticamente  due  grandi  battenti  la
chiudevano dalla parte del primo cortile e altri due dalla parte del secondo, in
modo che ci rimaneva dentro, quando tutto era chiuso, uno stanzone oscuro,  dove
un uomo poteva essere spacciato segretamente. Là  sotto  c'erano  le  celle  dei
carnefici, le quali, per un andito cieco, comunicavano colla sala del divano. Là
andavano ad aspettare la loro sentenza gli alti personaggi caduti in  disgrazia,
e vi ricevevano sovente, nello stesso punto, la sentenza e la morte. Altre volte
il governatore o  il  vizir  disgraziato,  era  chiamato  al  Serraglio  con  un
pretesto; veniva; passava, senza sospetti, sotto la volta sinistra, entrava  nel
divano, era ricevuto con un sorriso benevolo o con una  severità  mite  che  non
minacciava  che  un  castigo   lontano,   e   congedato,   tornava   a   passare
tranquillamente sotto la porta.  Ma  all'improvviso,  senza  veder  nessuno,  si
sentiva una lama nelle reni o un capestro alla  gola,  e  stramazzava  senz'aver
tempo a resistere. Al grido del  moribondo,  cento  visi  si  voltavano  per  un
momento dai due cortili; poi tutti ripigliavano, in silenzio, le loro  faccende.
La testa era portata in una nicchia di Bab-Umaiùn, il cadavere  ai  corvi  della
spiaggia di Santo Stefano, la notizia al Sultano, e tutto era finito. C'è ancora
a destra, sotto la  volta,  la  porticina  ferrata  della  prigione  in  cui  si
gettavano le vittime, quando veniva disdetto a tempo l'ordine  di  morte  o  per
prolungare la loro agonia o per cacciarle invece in esilio.

Uscendo di sotto a Bab-el-selam si entra immediatamente nel secondo cortile. Qui
si cominciava a sentir più viva l'aura sacra del Signore "dei due mari e dei due
mondi," e chi vi penetrava per la prima  volta,  si  fermava  involontariamente,
appena entrato, preso da un sentimento  di  timore  e  di  venerazione.  Era  un
vastissimo cortile irregolare, una smisurata sala a cielo aperto, circondata  da
edifizii graziosi e da cupole argentate e  dorate,  sparsa  di  gruppi  d'alberi
bellissimi, e attraversata da due viali fiancheggiati di  cipressi  giganteschi.
Tutt'intorno girava un bel loggiato,  sorretto  da  delicate  colonne  di  marmo
bianco, e coperto da  un  tetto  sporgente  rivestito  di  piombo.  A  sinistra,
entrando, v'era la sala del divano, sormontata da una cupola  scintillante;  più
in là, la sala dei grandi ricevimenti, dinanzi alla quale sei enormi colonne  di
marmo di Marmara sostenevano un largo tetto a falde, ondulate: basi,  capitelli,
muri,  tetto,  porte,  archi,  tutto  cesellato,  intarsiato,  dipinto,  dorato,
leggerissimo e gentile come un padiglione di merletti  tempestati  di  gemme,  e
ombreggiato da un gruppo di platani  superbi.  Dagli  altri  lati,  v'erano  gli
archivi, le sale dove si custodivano i vestimenti  d'onore,  i  magazzeni  delle
tende, la casa del grande Eunuco nero, le cucine della  Corte.  Qui  stava  quel
grande Intendente, più affaccendato d'un Ministro della  Cupola,  che  aveva  ai
suoi ordini cinquanta sottintendenti, ai quali obbediva un esercito di cuochi  e
di confettieri, aiutati, nelle grandi occasioni, da artisti fatti venire  d'ogni
parte dell'impero. Là si faceva il desinare per i visir i giorni di  divano;  là
si preparavano, in occasione delle circoncisioni e delle nozze  principesche,  i
famosi giardini di pasta dolce, le cicogne, i falchi, le giraffe, i cammelli  di
zucchero, i montoni arrostiti da cui uscivano stormi d'uccelli; che si portavano
poi, in gran pompa, nella piazza  dell'Ippodromo;  là  gl'infiniti  dolciumi  di
mille forme e di mille colori che  andavano  a  sciogliersi  nelle  innumerevoli
boccuccie golose dell'arem.  Vicino  alle  cucine  formicolavano,  nelle  grandi
feste, gli ottocento operai incaricati  di  drizzare  le  tende  del  Sultano  e
dell'arem nei giardini del Serraglio o sulle colline del Bosforo; e  quando  non
bastavan più le tende dei vastissimi magazzini, si formavano i padiglioni  colle
vele della flotta, e con cipressi interi sradicati  dai  boschetti  delle  ville
imperiali. La casa del grande Eunuco, là vicina, era una piccola reggia, fra  la
quale e il terzo cortile andava e  veniva  una  processione  continua  d'eunuchi
neri, di schiave e di servi. In  questo  cortile  passavano  le  Ambasciate  per
andare dal Sultano. Allora tutto il loggiato era parato di  panno  vermiglio,  i
muri luccicavano, il suolo era pulito come il pavimento d'una sala; duecento tra
giannizzeri, spahì e silihdar, che formavano la guardia del  divano,  vestiti  e
armati come principi, stavano schierati all'ombra dei cipressi e dei platani,  e
drappelli d'eunuchi bianchi e d'eunuchi neri, lindi e  profumati,  facevano  ala
alle porte. Tutto, in questo secondo cortile, annunziava la vicinanza  del  Gran
Signore; le voci suonavano più basse, i movimenti eran più raccolti, non  vi  si
sentiva nè scalpitìo di cavalli  nè  rumor  di  lavoro;  i  servi  e  i  soldati
passavano tacitamente; e una certa quiete  di  santuario  regnava  in  tutto  il
recinto, non turbata che dallo strepito improvviso degli uccelli  che  fuggivano
dagli alberi o dall'urto sonoro delle grandi porte di ferro chiuse dai capigì.

Di tutti gli edifizii del cortile non vidi che la sala del divano,  la  quale  è
quasi intatta, com'era quando vi si teneva il consiglio supremo dello  Stato.  È
una grande sala a  vôlta,  rischiarata  dall'alto,  da  finestrine  moresche,  e
rivestita di marmi ornati di rabeschi d'oro,  senz'altra  suppellettile  che  il
divano su cui sedevano i membri del Consiglio. Sopra il posto del gran vizir c'è
ancora la finestrina chiusa da una graticola di legno dorato, dietro alla  quale
prima Solimano il grande e poi tutti gli altri Padiscià assistevano, non  visti,
o si credeva che assistessero alle sedute: un  corridoio  segreto  conduceva  da
quello stanzino nascosto agli  appartamenti  imperiali  del  terzo  cortile.  In
questa sala sedeva cinque volte la settimana  il  gran  consesso  dei  ministri,
presieduti dal gran vizir. L'apparato era  solenne.  Il  gran  vizir  sedeva  in
faccia  alla  porta  d'entrata;  vicino  a  lui  i  vizir   della   Cupola,   il
capudan-pascià, grande ammiraglio; i due grandi giudici d'Anatolia e di Rumelia,
rappresentanti della magistratura delle provincie  d'Asia  e  d'Europa;  da  una
parte i tesorieri dell'impero; dall'altra il nisciandgì, che metteva il suggello
del Sultano ai decreti; più in là, a destra e a sinistra, due schiere di ulema e
di ciambellani; agli angoli, sciaù, portatori d'ordini, esecutori di  supplizii,
esercitati a comprendere ogni cenno e ogni sguardo. Era uno spettacolo davanti a
cui i più arditi tremavano e  i  più  innocenti  interrogavano  paurosamente  la
propria coscienza. Tutta quella gente stava  là  col  volto  impassibile,  colle
braccie incrociate, colle mani nascoste. Una luce vaga, scendendo  dalla  vôlta,
tingeva d'un color d'oro pallido i turbanti bianchi, le faccie gravi, le  lunghe
barbe immobili, le ricche pellicce, i manichi gemmati dei pugnali. A prima vista
il Consiglio presentava l'apparenza morta d'un grande gruppo di statue vestite e
dipinte. Le stuoie non lasciavan sentire il  passo  di  chi  entrava  e  di  chi
usciva,  l'aria  odorava  dei  profumi  delle  pelliccie,  le  pareti   marmoree
riflettevano il verde degli alberi del cortile;  il  canto  degli  uccelli,  nei
momenti di silenzio, risonava sotto la vôlta luccicante d'oro; tutto era dolce e
grazioso in quel tribunale tremendo. Le voci sonavano una alla volta, tranquille
e monotone come il mormorio d'un ruscello, senza che chi accusava o si scolpava,
ritto in mezzo alla sala, s'accorgesse da che bocca uscivano. Cento grandi occhi
fissi scrutavano il volto d'un solo.  Gli  sguardi  erano  studiati,  le  parole
pesate, i pensieri indovinati dai più sfuggevoli movimenti del viso. Le sentenze
di morte escivano a parole pacate, dopo lunghi dialoghi sommessi, accolte con un
silenzio sepolcrale; oppure scoppiavano improvvisamente, come folgori, e  avevan
per eco quelle tremende parole  che  escono  dall'anima  disperata  nei  momenti
supremi; e allora, a un cenno, le scimitarre spezzavano le vertebre,  il  sangue
spicciava sui tappeti e sui marmi; agà  di  spahì  e  di  giannizzeri,  cadevano
crivellati di pugnalate; governatori e  kaimacan  stramazzavano  col  laccio  al
collo e cogli occhi fuori della fronte. Un minuto dopo, i cadaveri erano distesi
all'ombra dei platani, coperti da un panno verde; il sangue era  lavato,  l'aria
profumata, i carnefici al posto, e il consesso  ripigliava  la  sua  seduta  coi
volti impassibili, colle mani nascoste, colle voci pacate e monotone,  sotto  la
luce vaga delle finestrine moresche che tingeva  d'un  colore  d'oro  pallido  i
grandi turbanti e le grandi barbe. Ma si scotevano alla loro volta,  quei  fieri
giudici, quando Murad IV o il secondo  Selim,  scontenti  del  divano,  facevano
scricchiolare con un pugno furioso la graticola dorata della segreta  imperiale!
Dopo un lungo silenzio e  un  consultarsi  a  vicenda  cogli  sguardi  smarriti,
ripigliavano anche allora la seduta, col volto impassibile e colle voci solenni;
ma le mani agghiacciate tremavano per lungo tempo nelle  grandi  maniche,  e  le
anime si raccomandavano a Dio.

In fondo a questo secondo cortile, che era in certo modo il cortile  diplomatico
del Serraglio, s'apriva la terza grande porta, fiancheggiata da colonne di marmo
e coperta da un gran tetto sporgente, dinanzi alla quale stava di guardia  notte
e giorno un drappello d'eunuchi bianchi  e  uno  stuolo  di  capigì,  armati  di
sciabole e di pugnali. Era questa la famosa Bab-Seadet o porta  della  Felicità,
che conduceva al terzo cortile; la porta  sacra  che  rimase  chiusa  per  quasi
quattro secoli ad ogni cristiano, che non si presentasse in nome d'un re o  d'un
popolo; la porta misteriosa alla quale picchiò invano la curiosità supplichevole
di mille viaggiatori potenti ed illustri; la porta da cui uscirono e si sparsero
per il mondo tante fole gentili e tante leggende di dolori,  tanti  fantasmi  di
bellezza e di piacere, tante rivelazioni vaghe di segreti d'amore e di sangue  e
un'aura infinita  di  poesia  voluttuosa  e  terribile;  la  porta  solenne  del
Santuario del re dei re,  che  il  popolo  nominava  con  un  senso  segreto  di
sgomento, come la porta d'un recinto fatato, entrando  nel  quale  una  creatura
profana dovesse rimaner petrificata o veder cose che  il  linguaggio  umano  non
avrebbe potuto descrivere; la porta dinanzi a cui, anche ora, il viaggiatore più
freddo d'immaginazione e di sentimento si arresta  con  una  certa  titubanza  e
guarda con stupore l'ombra del  suo  cappello  cilindrico  che  si  allunga  sui
battenti socchiusi.

Eppure anche là, davanti a quella porta solenne, arrivò il flutto muggente delle
ribellioni soldatesche. Si può anzi dire che quell'angolo  del  grande  cortile,
che è compreso fra la sala del  divano  e  la  porta  Seadet,  è  il  punto  del
Serraglio dove il furore dei ribelli  commise  gli  atti  più  temerarii  e  più
sanguinosi. Il Gran Signore governava colla spada e  la  spada  gli  dettava  la
legge. Il despotismo che difendeva gli  accessi  del  Grande  Serraglio  era  lo
stesso che ne violava i penetrali. Allora si vedeva su che  fragile  piedestallo
si reggesse il colosso minaccioso, quando gli si ritiravano d'intorno i puntelli
delle scimitarre! Orde armate di giannizzeri e di spahì, nel cuore della  notte,
colle fiaccole nel pugno, rovesciavano a colpi di scure le porte del primo e del
secondo cortile, e irrompevano là agitando sulla punta delle lame  le  suppliche
che chiedevano le teste dei vizir, e le loro grida di morte risonavano di là dai
muri inviolabili, nel recinto sacro dei loro Sovrani, dove tutto era  confusione
e spavento. Invano dall'alto dei muri si gettavano  sacchi  di  monete  d'oro  e
d'argento; invano il muftì, gli sceicchi,  gli  ulema,  i  grandi  della  Corte,
smarriti, ragionavano, pregavano, tentavano dolcemente  d'abbassare  le  braccia
convulse dall'ira; invano le Sultane-validè, smorte, mostravano  dalle  finestre
ingraticolate i piccoli  figliuoli  innocenti.  Il  mostro  dalle  mille  teste,
scatenato e cieco, voleva la sua preda, le vittime vive, le carni  da  lacerare,
il  sangue  da  spargere,  i  teschi  da  piantare  sulle  picche.   I   Sultani
s'affacciavano fra i merli, s'arrischiavano fin sulle barricate della porta,  in
mezzo agli eunuchi e ai paggi tremanti, armati di pugnali  inutili;  disputavano
le teste a una a una, promettevano, piangevano, chiedevano grazia in nome  della
propria madre, dei propri figli, del Profeta, della  gloria  dell'impero,  della
pace del mondo. Uno scoppio di minaccie e d'insulti e un agitare vertiginoso  di
fiaccole e di scimitarre rispondeva alle loro grida impotenti.  E  allora  dalla
porta della Felicità uscivan fuori a uno a uno, brancolando, e cadevano in mezzo
alle belve assetate di sangue, i tesorieri, i vizir, gli eunuchi, le favorite, i
generali, e l'un dopo l'altro cadevano lacerati da  cento  lame  e  sformati  da
cento piedi. Così Murad III gettava Mehemed, il suo falconiere favorito, che era
messo in brani sotto i suoi occhi; così Maometto III gettava il Kislaragà Otmano
e il capo degli eunuchi bianchi  Ghaznéfer,  ed  era  costretto  a  salutare  la
soldatesca  dinanzi  ai  due  cadaveri  insanguinati;  così  Murad  IV  gettava,
singhiozzando, il gran vizir Hafiz, a cui diciassette  pugnali  squarciavano  il
petto e le reni; così Selim III gettava tutte le teste del suo divano; e  mentre
i Padiscià rientravano nelle loro stanze, imprecando,  straziati  dal  dolore  e
dalla vergogna, le mille fiaccole dei ribelli correvano per le vie  di  Stambul,
rischiarando gli avanzi dei cadaveri, trascinati in trionfo in mezzo alla  folla
briaca.

La porta della Felicità formava, come la  Bab-el-Selam,  un  lungo  andito,  dal
quale si riusciva direttamente nel recinto arcano che racchiudeva  il  "fratello
del sole."

Qui, per dare un'immagine viva del luogo, bisognerebbe che la mia  parola  fosse
accompagnata da una musica sommessa, piena di sorprese e di  capricci.  Era  una
piccola città fatata, un disordine bizzarro d'architetture misteriose e gentili,
nascoste in un bosco di cipressi e di platani smisurati, che stendevano  i  loro
rami sui tetti, e coprivano d'ombra  un  labirinto  intricatissimo  di  giardini
pieni  di  rose  e  di  verbene,  di  cortiletti  circondati  di   portici,   di
stradicciuole  fiancheggiate  da  chioschi  e  da  padiglioncini   chinesi,   di
praticelli, di laghetti coronati di  mirti,  che  riflettevano  piccole  moschee
bianchissime e cupolette argentate d'edifizi  della  forma  di  tempietti  e  di
chiostri, congiunti da gallerie coperte, sostenute da file di colonne leggere; e
tetti di legno intarsiato e dipinto che sporgevano sopra  porticine  coperte  di
rabeschi e sopra scalette esterne che conducevano a terrazze munite di balaustri
graziosi; e per tutto prospetti oscuri, in cui biancheggiavano fontane di  marmo
e apparivano tra le fronde archetti e colonnine d'altri chioschi; e da  tutti  i
punti, fra il verde dei pini e dei sicomori, vedute lontane ed immense  del  mar
di Marmara, delle due rive del Bosforo, del porto e di Stambul; e  sopra  questo
paradiso, quel cielo. Era una piccola città sepolta  in  un  mucchio  enorme  di
verzura, costrutta a poco a poco, senza un disegno prefisso, secondo i bisogni o
i capricci del momento, pomposa e  fragile  come  un  apparato  teatrale,  tutta
nascondigli e bizzarrie gelose e puerili; che vedeva tutto  ed  era  invisibile,
che formicolava di gente e pareva solitaria,  come  se  vi  regnasse  ancora  lo
spirito pastorale e meditativo degli antichi principi ottomani; un  accampamento
di pietra, che ricordava ancora, tra  il  fasto,  quello  di  tela  delle  tribù
erranti della Tartaria; una gran reggia sparpagliata, composta di cento  piccole
reggie nascoste l'una all'altra, da cui  spiravano  insieme  la  mestizia  della
prigione, l'austerità del tempio e la gaiezza  della  campagna;  uno  spettacolo
pieno d'ostentazione principesca e d'ingenuità barbarica, dinanzi  al  quale  il
nuovo venuto si domandava in che secolo vivesse e in che  mondo  fosse  cascato.
Questo era il cuore del Serraglio a cui mettevano tutte le vene della  monarchia
e da cui partivano tutte le arterie dell'impero.

Il primo edifizio che s'incontrava entrando, era quello della  sala  del  Trono,
che c'è ancora, e che potei visitare. È un piccolo edifizio quadrato, intorno al
quale gira un bel porticato  di  marmo,  e  ci  s'entra  per  una  ricca  porta,
fiancheggiata da due belle fontane. La sala è  coperta  da  una  volta  decorata
d'arabeschi dorati, le pareti son rivestite di marmi e di lastrine di porcellana
combinate a figure simmetriche, nel mezzo c'è una  fontana  di  marmo,  la  luce
scende da alte finestre chiuse da vetri coloriti, e in fondo c'è il trono  della
forma d'un grande letto, coperto da  un  baldacchino  frangiato  di  perle,  che
s'appoggia su quattro alte e sottili colonne di rame dorato, ornate  d'arabeschi
e di  pietre  preziose,  e  sormontate  da  quattro  palle  d'oro,  con  quattro
mezzalune, da cui spenzolano  delle  code  di  cavallo,  emblema  della  potenza
militare dei Padiscià. Qui il Gran Signore  faceva  i  ricevimenti  solenni,  in
presenza di tutta la Corte; qui venivano buttati ai suoi piedi i  fratelli  e  i
nipoti uccisi per rassicurare il suo regno  dalle  congiure  e  dai  tradimenti.
Pensai, appena entrato, ai diciannove fratelli di  Maometto  III.  Essi  avevano
ricevuto la sentenza di morte, in fondo alle loro prigioni, dai colpi di cannone
che annunziavano all'Asia e all'Europa la morte  del  loro  padre.  I  muti  del
Serraglio ammucchiarono i loro cadaveri davanti al trono. Ce n'eran di tutte  le
età,  dall'infanzia  all'età  matura,  l'uno  sull'altro,  cogli   occhi   fuori
dell'orbite, coll'impronta delle mani omicide sul viso e nel collo;  le  piccole
teste bionde dei bambini appoggiate sul  petto  robusto  degli  adolescenti,  le
teste grigie schiacciate contro il pavimento dai  piedi  dei  fratelli  decenni;
caffettani rozzi di prigionieri e  pannolini  levati  dalle  culle,  contaminati
insieme dal capestro, e confusi fra le membra irrigidite e i volti  deformi.  Ne
videro dei zampilli di sangue  quei  bei  rabeschi  d'oro  e  quelle  porcellane
luccicanti, qui dove scoppiarono le collere formidabili di Selim  II,  di  Murad
IV, di Ahmed I, d'Ibraim, spettatori esultanti delle agonie  disperate!  Qui  ne
stramazzavano dei vizir, sotto i piedi dei sciaù, spezzandosi il  cranio  contro
il marmo della fontana! Qui ne rotolarono delle  teste  di  governatori  portate
dalla Siria e dall'Egitto, appese alla sella d'un  agà!  Chi  entrava  là  colla
coscienza malsicura, si voltava sulla soglia a dare un addio al bel cielo e alle
belle colline dell'Asia, e chi n'usciva salvo risalutava il sole col  sentimento
d'un infermo che ritorna alla vita.

Questo padiglione del trono non è il solo che si possa visitare. Uscendo di  là,
si passa per varii giardini e cortiletti circondati da piccoli edifizii ad archi
moreschi, sostenuti da colonnine di marmo. Là i  paggi  stavano  riuniti  in  un
collegio, in cui erano istrutti per occupare poi le alte cariche  dell'impero  e
della corte, e avevano abitazioni sontuose e  sale  di  ricreazione  e  servi  e
maestri scelti fra gli uomini più dotti dello Stato. In mezzo a quegli  edifizii
s'alzava una fila di graziosi chioschi seracineschi, coi peristilii aperti,  nei
quali c'era la biblioteca, e ne rimane uno, ammirabile principalmente per la sua
grande porta di bronzo, ornata di  rilievi  di  diaspro  e  di  lapislazzuli,  e
coperta d'una cesellatura prodigiosa d'arabeschi, di  stelle,  di  fogliami,  di
figure d'ogni forma, delicatissime e  intricatissime,  che  non  sembrano  opera
umana.  Poco  lontano  dalla  biblioteca  s'alzava  il  padiglione  del   Tesoro
imperiale, tutto luccicante di porcellana, dove eran chiuse  ricchezze  immense,
composte in gran parte d'armi conquistate o donate ai  Sultani  o  lasciate  per
testamento  dai  Sultani  stessi,  come  ricordi.  Il  solo  Mahmud  II,  ch'era
calligrafo valente, e se ne teneva, ci lasciò il suo calamaio d'oro,  tempestato
di diamanti. Ora una buona parte di questi tesori passò, cangiata in oro,  nelle
casse dell'erario. Ma ai bei tempi  della  monarchia  il  padiglione  era  tutto
sfolgorante di scimitarre damascate, di cui l'elsa pareva un nodo solo di  perle
e di gemme; di pistole enormi, con fino a duecento diamanti sull'impugnatura; di
pugnali che valevano la rendita d'un anno d'una  provincia  asiatica;  di  mazze
d'argento massiccio o  d'acciaio  colla  testa  formata  da  un  solo  pezzo  di
cristallo faccettato e dorato, frammiste ai pennacchi ingioiellati dei  Murad  e
dei Maometti, alle tazze d'agata in cui avevano spumato i vini di  Ungheria  nei
banchetti imperiali, alle coppe incavate in una sola turchina,  ch'eran  passate
per le reggie dei re persiani e di Timur, alle collane ornate di diamanti grossi
come noci di Caramania, alle cinture imperlate, alle  selle  coperte  d'oro,  ai
tappeti scintillanti di gemme, per cui la sala pareva tutta ardente, e offuscava
insieme la ragione e la vista.  Poco  lontano  dal  padiglione  del  Tesoro  v'è
ancora, in mezzo a un giardino solitario, quella famosa gabbia degli uccelli, in
cui, da Maometto IV in poi, si chiudevano i principi del  sangue,  che  facevano
ombra al Padiscià; e là rimanevano, sepolti vivi, ad aspettare che le grida  dei
giannizzeri li chiamassero al trono o che venisse il carnefice a  strozzarli.  È
un edifizio  della  forma  d'un  tempietto,  di  grosse  mura,  senza  finestre,
rischiarato dall'alto e chiuso da una piccola porta di ferro, contro la quale si
metteva un grosso macigno. Là fu chiuso Abdul-Aziz durante i  pochi  giorni  che
trascorsero fra la sua caduta dal trono e la sua morte. Là fece la sua  orribile
e miseranda fine il Caligola degli Ottomani, Ibrahim, e la  sua  immagine  è  la
prima che si rizza sulla soglia  di  quella  necropoli  di  vivi  in  faccia  al
visitatore straniero.  Gli  agà  militari  l'avevano  tirato  giù  dal  trono  e
strascinato, come un miserabile, alla prigione. Qui era  stato  chiuso  con  due
delle sue odalische predilette. Dopo le prime furie  della  disperazione,  s'era
rassegnato. - Questo - diceva - era scritto sulla mia fronte;  era  l'ordine  di
Dio. - Di tutto il suo impero e dell'immenso arem in cui aveva  folleggiato  per
nove anni, non gli rimaneva più che una carcere, due schiave e il Corano; ma  si
credeva sicuro della vita, e viveva  tranquillamente,  consolato  ancora  da  un
raggio di speranza; che i suoi partigiani  delle  taverne  e  delle  caserme  di
Stambul riuscissero a mutare le sue sorti. Ma egli aveva dimenticato la sentenza
del Corano: se ci sono due Califfi, uccidetene  uno,  e  il  muftì,  interrogato
dagli agà e dai vizir, se n'era ricordato.  Il  suo  ultimo  giorno  egli  stava
seduto sopra una stuoia in un angolo della sua tomba e leggeva  il  Corano  alle
due schiave, ritte dinanzi a  lui,  colle  braccia  incrociate  sul  petto.  Era
vestito d'un caffettano nero, stretto  intorno  alla  vita  da  uno  scialle  in
brandelli; e aveva in capo un berretto di lana rossa. Un raggio di luce pallida,
scendendo dalla vôlta, rischiarava il suo viso smunto e cereo, ma tranquillo.  A
un tratto udì un rumore cupo e balzò in piedi; la porta era aperta e  un  gruppo
di figure sinistre occupava la soglia.  Capì,  alzò  gli  occhi  a  una  tribuna
ingraticolata che sporgeva dall'alto d'una parete, e vide  traverso  ai  fori  i
volti impassibili del muftì, degli agà e dei vizir, su cui era  scritta  la  sua
sentenza. Il terrore lo invase, e un'onda di parole supplichevoli gli uscì dalla
bocca: - Pietà di me! Pietà del Padiscià!  Fatemi  grazia  della  vita!  Se  c'è
qualcuno fra voi che abbia mangiato del mio pane, mi soccorra, in nome  di  Dio!
Tu, muftì Abdul-rahim, bada a quello che stai per fare! Vedi se gli  uomini  son
ciechi insensati! Ora te lo  dico:  Iusuf-pascià  m'aveva  consigliato  a  farti
morire come traditore, e io non volli, e tu ora vuoi  la  mia  morte!  Leggi  il
Corano come  me,  leggi  la  parola  di  Dio,  che  condanna  l'ingratitudine  e
l'ingiustizia. Lasciami la vita, Abdul-rahim, la vita! la vita! - Il  carnefice,
tremante, alzò gli occhi verso la tribuna; ma una voce secca, uscita di mezzo  a
quei visi  immobili  come  simulacri,  rispose:  -  Kara-alì,  eseguisci.  -  Il
carnefice gettò le mani sulle spalle di Ibrahim. Ibrahim  gettò  un  urlo  e  si
rifugiò in un angolo, dietro  le  due  schiave.  Allora  Kara-alì  e  gli  sciaù
accorsero, gettarono a terra le donne, e si precipitarono sul Padiscià; s'intese
uno scoppio di maledizioni e di bestemmie, il rumore d'un corpo stramazzato,  un
grido altissimo che morì in un rantolo sordo, e poi  un  silenzio  profondo.  Un
piccolo cordoncino di  seta  aveva  slanciato  nell'eternità  il  diciannovesimo
Padiscià della dinastia degli Osmani. Altri edifizi,  oltre  ai  descritti  e  a
quelli dell'arem, erano sparsi qua e là in mezzo ai  giardini  e  ai  boschetti.
V'erano i bagni di Selim II, che comprendevano trentadue vastissime sale,  tutte
marmo, oro e pittura; v'erano dei chioschi ottagoni  e  rotondi,  sormontati  da
cupole e da tetti d'ogni forma, che coprivano salotti rivestiti di madreperla  e
decorati d'iscrizioni arabe, dove a tutte le finestre spenzolavano gabbie dorate
di usignoli e di pappagalli, e i vetri colorati spandevano una  dolcissima  luce
azzurrina o rosea; chioschi in cui i Padiscià andavano a sentir leggere le Mille
e una notte dai vecchi dervis; altri in cui  eran  date  solennemente  le  prime
lezioni  di  lettura  ai  principini;  piccoli  chioschi  per  le   meditazioni,
padiglioncini per convegni  notturni,  nidi  e  prigioni  gentili,  innalzati  e
rovesciati da un ghiribizzo, che godevano la vista di  Scutari  imporporata  dal
tramonto e dell'Olimpo  inargentato  dalla  luna,  e  la  carezza  perpetua  dei
venticelli del Bosforo, pieni di fragranze, che facevano tremolare le  mezzalune
d'oro sulla punta delle loro guglie sottili. E infine, nella parte  più  segreta
dell'arem, il tempietto delle reliquie, o camera  della  nobile  veste,  imitata
dalla sala aurea degl'Imperatori bizantini, e chiusa  da  una  porta  argentata;
nella quale si conservava il mantello del Profeta,  scoperto  solennemente,  una
volta all'anno, in presenza di tutta la Corte, il suo bastone, l'arco chiuso  in
una guaina d'argento,  le  reliquie  della  Kaaba,  e  il  venerato  e  tremendo
stendardo delle guerre sante, ravvolto in quaranta coperte di  seta,  dal  quale
sarebbe rimasto acciecato, come da un colpo di fulmine, l'infedele che  v'avesse
fissato lo sguardo. Tutto quello che  aveva  di  più  sacro  la  razza,  di  più
prezioso l'impero, di più diletto e di più arcano la dinastia, era raccolto  là,
in quel recinto ombroso e discreto, in quella piccola città  occulta,  verso  la
quale pareva che convergesse da tutte le parti la metropoli  immensa,  come  una
folla innumerevole che volesse prostrarsi e adorare.

In un angolo di questo terzo recinto, a sinistra di chi  entrava,  all'ombra  di
alberi più folti, fra un mormorio più sonante di  fontane  e  un  bisbiglio  più
fitto d'uccelli, s'innalzava l'arem, che era come un  quartiere  separato  della
cittadina imperiale, e si componeva di molti piccoli edifizii bianchi coperti da
cupolette di piombo, ombreggiati da aranci e da pini  a  ombrello,  separati  da
giardinetti cinti di muri rivestiti di caprifoglio e d'edera, in mezzo ai  quali
serpeggiavano sentieri sparsi di minutissime conchiglie combinate a musaico, che
si perdevano fra i roseti, gli ebani e i mirti; tutto piccino,  chiuso,  diviso,
suddiviso; i balconi coperti, le finestrine ingraticolate, i  loggiati  nascosti
da tendine color di rosa, i vetri coloriti, le porte ferrate,  le  stradicciuole
senza uscita; e in ogni parte una luce crepuscolare dolcissima,  una  freschezza
di foresta, un'aria di mistero e di pace, che faceva sognare. Qui viveva, amava,
languiva, serviva, rinnovandosi continuamente, tutta la grande famiglia muliebre
del Serraglio. Era un vasto monastero, che aveva per religione il piacere e  per
Dio il Sultano. C'erano  gli  appartamenti  imperiali.  Ci  stavano  le  quattro
cadine, amanti titolate del Gran Signore, ciascuna  delle  quali  aveva  il  suo
chiosco, la sua piccola  corte,  i  suoi  grandi  ufficiali,  le  sue  barchette
rivestite di raso, le sue carrozze dorate, i suoi eunuchi, le sue schiave  e  il
suo denaro delle pantofole, ch'era la rendita d'una  provincia.  Ci  abitava  la
Sultana Madre, col suo corteo innumerevole d'ustà, divise in compagnie di  venti
o trenta, ciascuna impiegata a un servizio speciale. C'era tutta la famiglia del
Padiscià, zie, sorelle, figliuole, nipoti, che formavano una corte nella  corte,
coi principi bambini e adolescenti. C'erano le ghediclù, di cui  le  dodici  più
belle servivano, ciascuna con un titolo e un ufficio speciale,  la  persona  del
Sultano; cento sciaghird, o novizie, che facevano il tirocinio  per  occupare  i
posti vacanti delle ustà; un formicaio di schiave d'ogni paese,  d'ogni  colore,
d'ogni divisa, scelte fra mille e  mille,  che  empivano  quell'enorme  gineceo,
scompartito come un alveare in cellette innumerevoli, d'un fremito  di  gioventù
poderosa, d'un profumo caldo di voluttà affricana ed asiatica,  che  montava  al
capo del Nume, e si rispandeva poi, trasfuso nelle sue passioni formidabili,  su
tutta la faccia dell'impero.

Quante memorie fra gli alberi di quei giardini  e  le  pareti  di  quei  piccoli
chiostri bianchi! Quante belle figliuole del Caucaso  e  dell'Arcipelago,  delle
montagne dell'Albania  e  dell'Etiopia,  del  deserto  e  del  mare,  musulmane,
nazarene, idolatre, conquistate dai pascià, comprate dai mercanti, regalate  dai
principi, rubate dai corsari, passarono,  come  ombre,  sotto  quelle  cupolette
argentine! Son questi i muri  e  le  volte  che  videro  folleggiare,  col  capo
incoronato di fiori e la barba scintillante di gemme, il primo Ibraim, il  quale
faceva rincarare le schiave in tutti i mercati dell'Asia, e decuplare il  prezzo
dei profumi dell'Arabia; che assistettero alle furie  della  sensualità  morbosa
del terzo Murad, padre  di  cento  figli;  che  videro  Murad  IV,  decrepito  a
trentun'anno, irrompere barcollando agli amplessi infami; che  furono  testimoni
delle orgie e dei delirii del secondo Selim. Per questi sentieri  passavano,  la
notte, ebbri di vino e di lussuria, quei dissoluti feroci, a  cui  la  madre,  i
vizir, i pascià, offerendo schiave su  schiave,  non  facevano  che  infocare  i
desiderii; e correvano di chiosco in chiosco, cercando la voluttà e non trovando
che lo spasimo, fin che la fantasia  stravolta  li  trascinava,  rabbiosi,  fuor
della reggia, a cercare i resti delle bellezze famose fra le  mura  malinconiche
dell'Eschi-Seraï. Qui si celebravano quelle strane feste notturne, in cui  sulle
cupole, sui tetti e sugli alberi erano disegnate a tratti di fuoco le navi della
flotta, e migliaia di vasi  di  fiori,  illuminati  da  migliaia  di  fiammelle,
riflesse da innumerevoli specchi, presentavano l'immagine  d'un  vasto  giardino
ardente, dove centinaia di belle s'affollavano intorno a bazar pieni di  tesori,
e gli eunuchi sollevavano fra  le  braccia,  spasimando,  le  schiave  seminude,
abbandonate al vortice dei balli sfrenati, in mezzo al fumo di mille profumiere,
che il vento del Mar Nero spandeva per tutto il serraglio insieme  al  frastuono
d'una musica barbaresca e guerriera.

Risuscitiamo quella vita, in una bella giornata d'aprile,  sotto  il  regno  del
grande Solimano o del terzo Ahmed. Il cielo è sereno, l'aria piena di  fragranze
primaverili, i giardini tutti in fiore. Per il  labirinto  dei  sentieri  ancora
umidi della rugiada, girano, oziando, eunuchi neri vestiti di tuniche dorate,  e
passano schiave, vestite di stoffe rigate di colori  vivissimi,  che  portano  e
riportano vassoi e panierini coperti di veli verdi fra i chioschi e  le  cucine.
Le ustà della  Validé  s'incontrano  sotto  i  piccoli  portici  moreschi  colle
gheduclù del Sultano, che  passano  alteramente,  seguite  da  schiave  novizie,
cariche della biancheria imperiale. Tutti gli sguardi si voltano da una parte: è
uscita per una porticina e sparita su per una  scaletta  la  più  giovane  delle
dodici gheduclù privilegiate, la coppiera, una fanciulla  siriana  benedetta  da
Allà, che piacque al Gran Signore, il quale le ha già  accordato  il  titolo  di
figlia della felicità, e le darà la pelliccia  di  zibellino,  appena  essa  dia
segno d'esser madre. Lontano, all'ombra  dei  platani,  giocano  i  buffoni  del
Sultano, vestiti di panni arlecchineschi, e nani deformi  col  capo  coperto  da
turbanti spropositati. Più in là, dietro una siepe, un eunuco gigantesco, con un
cenno impercettibile delle dita e del capo, ordina a cinque muti,  esecutori  di
supplizi, di recarsi da Kislar-agà, che li cerca  per  un  affare  segreto.  Dei
giovinetti, d'una bellezza ambigua, abbigliati con  una  ricercatezza  femminea,
s'inseguono, correndo, fra le siepi  d'un  giardino  ombreggiato  da  un  enorme
platano. In un'altra parte, un drappello di schiave s'arresta improvvisamente  e
si divide in  due  ali,  inchinandosi  per  lasciar  passare  la  Kiaya,  grande
governatrice dell'arem, la quale restituisce il saluto  con  un  cenno  del  suo
bastoncino ornato di lamine d'argento, che  porta  a  un'estremità  il  suggello
imperiale. Nello stesso punto, la porta d'un chiosco vicino s'apre, e n'esce una
cadina, in abito celeste, ravvolta in un fitto velo bianco,  seguita  dalle  sue
schiave, la quale va, col permesso della Governatrice, ottenuto il giorno prima,
a giocare al palloncino volante con un'altra cadina, e svoltando in un  vialetto
ombroso, incontra e saluta mollemente una sorella del Sultano, che  si  reca  al
bagno colle sue bimbe e colle sue ancelle. In fondo al piccolo viale, davanti al
chiosco di un'altra cadina, sotto  una  graziosa  tettoia  sorretta  da  quattro
colonnine alte e snelle come fusti di palma, un eunuco aspetta un cenno per  far
entrare una ebrea, mercantessa di gioielli, che dopo molto intrigare ha ottenuto
il diritto d'entrata nell'arem imperiale, dove, coi gioielli, porterà imbasciate
segrete  di  pascià  ambiziosi  e  d'amanti  temerarii.  All'estremità   opposta
dell'arem, la hanum incaricata di visitare le nuove schiave, va in  cerca  della
Governatrice, per riferirle che la giovane abissina presentata il giorno avanti,
le è parsa degna d'esser ricevuta fra le gheduclù, se non si bada a una  piccola
escrescenza che ha sulla spalla sinistra. Intanto, in un  praticello  circondato
di mortelle, sotto un  alto  pergolato,  si  raccolgono  le  venti  nutrici  dei
principini nati nell'anno, e un  gruppo  di  schiave  suonano  il  flauto  e  la
chitarra in mezzo a  un  cerchio  saltellante  di  bambine  vestite  di  velluto
cilestrino e di raso  vermiglio,  a  cui  la  Sultana  Validé  getta  dei  dolci
dall'alto d'una terrazza. Passano le maestre che vanno a dar lezioni  di  danza,
di musica e di ricamo alle sciaghird; eunuchi che portano grandi piatti pieni di
dolci della forma di leoncini e  di  pappagalli;  schiave  che  reggono  fra  le
braccia grossi vasi di fiori e pesanti tappeti: doni d'una sultana a una cadina,
d'una cadina alla Validè, della Validè  alle  nipoti.  La  tesoriera  dell'arem,
accompagnata da tre schiave, arriva con una  notizia  sul  volto:  i  bastimenti
imperiali mandati incontro alle galere veneziane e genovesi, le hanno incrociate
a venti miglia dal porto di Sira, e hanno accaparrato tutte le sete  e  tutti  i
velluti del carico per l'arem  del  Padiscià.  Arriva  di  corsa  un  eunuco  ad
annunciare a una Sultana trepidante che la circoncisione del bimbo è riuscita  a
meraviglia, e poco dopo due altri eunuchi sopraggiungono, di cui l'uno porta  in
un piatto d'argento, alla madre, la parte tagliata dal chirurgo, l'altro, in  un
piatto d'oro, alla Validè, il coltello insanguinato.  È  un  continuo  aprire  e
chiudere di porte e  sollevare  e  ricascar  di  cortine,  per  lasciar  passare
notizie, imbasciate, regaletti, pettegolezzi.  Chi  potesse  dall'alto  penetrar
collo sguardo a traverso ai tetti e  alle  cupole,  vedrebbe  in  una  sala  una
Sultana alla finestra, che guarda melanconicamente, fra le tendine di  raso,  le
montagne azzurre  dell'Asia,  pensando  forse  al  suo  sposo,  un  bel  pascià,
governatore d'una provincia lontana, stato strappato alle sue  braccia,  secondo
il costume, dopo sei mesi  d'amore,  perchè  non  avessero  figli;  in  un'altra
saletta, rivestita di marmi e di specchi,  una  cadina  di  quindici  anni,  che
aspetta nella giornata una visita del  Padiscià,  scherza  fanciullescamente  in
mezzo a un gruppo di schiave che la profumano e l'infiorano, magnificando le sue
bellezze più segrete  con  atti  servili  di  meraviglia  e  di  gioia;  sultane
giovinette  che  si  rincorrono  pei  giardinetti  chiusi,  intorno  ai   bacini
luccicanti di pesci dorati, facendo scricchiolare  le  conchiglie  dei  sentieri
sotto le loro babbuccie di raso  bianco;  altre,  pallide,  sedute  in  fondo  a
stanzine oscure, in atto di meditare vendette; salotti tappezzati  di  broccato,
dove bimbi condannati a morte nascendo, si  ravvoltolano  sui  cuscini  di  raso
rigati d'oro e sotto le tavole di madreperla; belle principesse nude  nei  bagni
di marmo di Paros; gheduclù  addormentate  sui  tappeti;  crocchi  e  viavai  di
schiave e d'eunuchi per le gallerie coperte, giù per le scalette  nascoste,  nei
vestiboli, per i corridoi semioscuri; e da per tutto  volti  curiosi  dietro  le
grate, saluti muti ricambiati fra le terrazze e i giardini, cenni furtivi dietro
le tende, dialoghetti a monosillabi, fra spiraglio e spiraglio, rotti di  tratto
in tratto da risate sonore e compresse, seguite da rapide fughe di gonnelle  che
svaniscono lungo i muri claustrali.

Ma non s'incrociavano soltanto intrighi amorosi e pettegolezzi puerili  in  quel
labirinto di giardini e di tempietti. La politica c'entrava per le commessure di
tutte le porte e per i fori di tutte le grate, e  la  potenza  dei  begli  occhi
sugli affari dello Stato non era minore là che  nelle  reggie  d'occidente;  chè
anzi la  vita  reclusa  e  monotona  cresceva  intensità  alle  gelosie  e  alle
ambizioni. Quelle testoline ingemmate  agitavano,  da  quelle  piccole  prigioni
odorose, la corte, i divani,  il  serraglio  intero.  Per  mezzo  degli  eunuchi
comunicavano  col  muftì,  coi  vizir  e  cogli  agà  dei   giannizzeri.   Dagli
amministratori dei loro beni, coi quali potevano conferire,  a  traverso  a  una
tenda o a una grata, sui propri interessi, erano tenute in corrente di  tutti  i
più piccoli avvenimenti della reggia e della metropoli; sapevano i  pericoli  da
cui erano minacciate, imparavano a conoscere gli uomini di Stato di cui  avevano
a temere o da  cui  potevano  sperare,  e  ordivano  pazientemente  le  congiure
misteriose che precipitavano i nemici e sollevavano i protetti. Tutti i  partiti
della Corte e dell'Impero avevano là dentro una radice, cento radici, ramificate
nei  cuori  delle  validè,  delle  sorelle  del  Sultano,  delle  cadine,  delle
odalische. Erano quistioni e armeggi infiniti per l'educazione dei figli, per il
matrimonio delle figliuole, per le dotazioni, per le precedenze nelle feste, per
la successione dei principini al trono, per le paci e per le guerre. I  capricci
delle belle mandavano eserciti di trentamila giannizzeri e di quarantamila spahì
a coprir di cadaveri le rive del Danubio, e flotte di cento navi a  insanguinare
il Mar Nero e l'Arcipelago. A loro ricorrevano, con lettere segrete, i  principi
d'Europa per assicurare il buon esito dei negoziati. Dalle loro  manine  bianche
uscivano i decreti che davano  i  governi  delle  provincie  e  gli  alti  gradi
dell'esercito. Sono le carezze di Rosellana che fecero stringere  il  laccio  al
collo ai gran vizir Ahmed e Ibrahim. Sono i baci di Saffié, la bella  veneziana,
perla e conchiglia del califfato, che mantennero per  tanti  anni  le  relazioni
amichevoli della Porta e della repubblica di Venezia. Sono le  sette  cadine  di
Murad  III  che  governarono  l'impero  per  gli  ultimi  vent'anni  del  secolo
sedicesimo. È  la  bella  Makpeiker,  forma  di  luna,  la  cadina  dai  duemila
settecento scialli, che regnò sui due mari e sui due mondi da Ahmed  I  sino  al
quarto Maometto. Fu Rebia Gulnuz, l'odalisca dalle cento carrozze d'argento, che
resse i divani imperiali nei primi dieci anni  della  seconda  metà  del  secolo
decimosettimo. È Scekerbulì, il pezzettino di zucchero, che faceva viaggiare pei
suoi fini, come un automa, fra Stambul e Adrianopoli, il sanguinario Ibrahim.

Che confusione di maneggi, che reticolazione intricata di spionaggi terribili  e
di  ciancie  puerili  ci  doveva  essere  in  quella  piccola  città  amorosa  e
onnipotente! Passando per quei viali, mi pareva di  sentire  da  ogni  parte  un
bisbiglio  accelerato  di  voci  femminili,  che  svolgessero,  interrogando   e
rispondendo, tutta la cronaca intima del serraglio. E doveva essere una  cronaca
stranamente svariata e intrecciata.  Si  trattava  di  sapere  quale  cadina  il
Sultano avrebbe condotto nell'estate al suo chiosco delle Acque dolci; che  dote
sarebbe stata fatta alla terza figliola del  Padiscià,  che  doveva  sposare  il
grande ammiraglio; se era vero che l'erba data  alla  governatrice  Raazgié  dal
mago Sciugaa avesse fatto concepire la terza cadina infeconda da cinque anni; se
era un fatto sicuro che la favorita Giamfeda avesse ottenuto per il  governatore
d'Anatolia il governo della  provincia  di  Caramania.  Di  chiosco  in  chiosco
circolava la notizia che, sgravandosi felicemente la prima cadina, il nuovo gran
vizir, per superare il suo predecessore, le avrebbe regalato una culla d'argento
massiccio, tutta tempestata di smeraldi; che la prescelta  dal  Sultano  sarebbe
stata la schiava regalata dalla kiaya-harem e non  quella  regalata  dal  Pascià
d'Adrianopoli; che morendo il grande  eunuco  bianco  ch'era  agli  estremi,  il
giovane paggio Mehemet avrebbe comprato col sacrifizio  della  sua  virilità  la
carica ambita da tanto tempo. Si diceva sotto voce che non si sarebbe più  fatto
il gran  canale  dell'Asia  Minore  proposto  dal  gran  vizir  Sinau,  per  non
allontanare gli operai occupati ad innalzare il nuovo  chiosco  per  la  Sultana
Baffo; e che la cadina Saharai, trentacinquenne, piangeva da due giorni e da due
notti per timore d'essere relegata al vecchio Serraglio; e che il buffone  Ahmed
aveva fatto ridere così di cuore il Sultano, che  questi  l'aveva  nominato  sul
momento agà dei  Giannizzeri.  E  poi  scoppiettavano  mille  chiacchiere  sulle
prossime feste per il matrimonio d'Otman-pascià colla Sultana  Ummetullà,  nelle
quali un drago di  bronzo  avrebbe  vomitato  fuoco  nell'At-meidan;  sul  nuovo
vestito della Sultana Validè, tutto di zibellino, di cui ogni  bottone  era  una
pietra preziosa del valore di cento scudi d'oro; sul nuovo appannaggio dato alla
cadina Kamarigé, luna di bellezza, della rendita della Valachia, e sulla piccola
rosa color di sangue scoperta  nel  collo  alla  sciamascirusta,  custode  della
biancheria del Sultano, e sui bei capelli  biondi  inanellati  dell'ambasciatore
della repubblica di Genova, e sulla  meravigliosa  lettera  scritta  di  proprio
pugno dalla prima moglie dello Scià di Persia in risposta alla  sultana  Currem,
l'allegra. Tutte le voci venute dalla città, tutti gl'incidenti clamorosi  delle
discussioni del divano, tutti i rumori  uditi  la  notte  nel  serraglio,  erano
commentati e passati alla trafila di mille congetture in tutti quei giardinetti,
da cento gruppi di testoline circospette e curiose. Là pure passavano di mano in
mano e di bocca in bocca i madrigali anonimi dei  Padiscià,  i  versi  tristi  e
liberi di Abdul-Baki l'immortale, e le poesie smaglianti d'Abu-Sud, di cui "ogni
parola era un diamante", e i canti ebbri d'oppio e  di  vino  di  Fuzuli,  e  le
lascivie canore di Gazali. E tutto cangiava col  cangiare  dell'indole  e  della
vita dei Padiscià. Ora passava a traverso quel piccolo mondo come  una  corrente
di tenerezza e di malinconia, e allora una certa dignità gentile rialzava  tutte
le fronti, il furore del lusso si quetava, i modi si correggevano, il linguaggio
si purgava, nasceva il gusto delle letture pie, si ostentava il raccoglimento  e
la devozione religiosa, e  le  feste  medesime,  senza  essere  meno  splendide,
assumevano l'aspetto di cerimonie liete, ma composte. Ora invece saliva al trono
un Padiscià educato dall'infanzia al vizio  e  alle  follie,  e  allora  la  dea
Voluttà riconquistava il suo impero, i veli cadevano, si tornava  a  sentire  il
linguaggio senza sottintesi e la risata clamorosa,  si  tornavano  a  vedere  le
nudità senza pudore; gl'incettatori della bellezza partivano per  la  Georgia  e
per la Circassia; le fanciulle affluivano; cento donne si potevano vantare degli
amplessi del  Gran  Signore,  i  chioschi  si  popolavano  di  culle,  le  casse
dell'erario versavano torrenti d'oro, i vini di Cipro e d'Ungheria gorgogliavano
sulle mense coperte di fiori, Sodoma alzava la fronte, Lesbo  trionfava,  i  bei
volti dai grandi occhi neri impallidivano, e tutto l'arem febbricitava, rabbioso
di voluttà, in un'atmosfera carica di profumi e di vizio, fin che una  notte  si
svegliava  improvvisamente  abbagliato  da  mille  fiaccole,  e   subiva   dalle
scimitarre dei Giannizzeri il castigo di Dio.

Venivano le notti tremende anche per quella piccola  Babilonia  nascosta  tra  i
fiori. La ribellione non rispettava il terzo recinto più di quel che rispettasse
gli altri due. La soldatesca atterrava  le  porte  della  Felicità  e  irrompeva
nell'arem.  Cento  eunuchi  difendevano  invano,  a  pugnalate,  le  soglie  dei
chioschi. I giannizzeri salivano sui tetti, rompevano le cupole, si precipitammo
nelle sale a strappare i principi dalle braccia delle  madri.  Le  Validè  erano
tirate per i piedi fuori dei loro nascondigli, si difendevano  a  unghiate  e  a
morsi, cadevano riverse sotto le ginocchia dei baltagì  e  morivano  strangolate
coi cordoni delle tendine. Le  Sultane,  rientrando  in  casa,  gettavano  grida
disperate alla vista delle culle vuote, e voltandosi a interrogare  le  schiave,
n'avevano in risposta un silenzio tremendo, che voleva dire: - Vallo  a  cercare
ai piedi del trono il  tuo  bambino!  -  Gli  eunuchi,  atterriti,  venivano  ad
annunziare alle favorite, svegliate da un tumulto lontano,  che  le  loro  teste
erano aspettate e che bisognava prepararsi a morire. Le  tre  cadine  del  terzo
Selim, condannate al capestro ed al sacco,  sentivano,  nella  notte,  le  grida
supreme l'una dell'altra, e spiravano nelle tenebre sotto le mani  convulse  dei
muti. Gelosie mortali e vendette orrende facevano risonare i chioschi di  gemiti
e di strida che spandevano il terrore in tutto  l'arem.  La  Circassa  madre  di
Mustafà lacerava il  viso  a  Rosellana,  le  favorite  rivali  schiaffeggiavano
Scekerbulì, la sultana Tarchan vedeva balenare sul capo delle  sue  creature  il
pugnale di Maometto IV, la prima cadina del primo Ahmed strozzava colle  proprie
mani la schiava rivale, e stramazzava alla sua volta, pugnalata in viso, sotto i
piedi  del  Padiscià,  urlando  di  dolore  e  di  rabbia;  le   cadine   gelose
s'aspettavano nei corridoi  oscuri,  si  trattavano  ad  alte  grida  di  "carne
venduta" e s'avvinghiavano come tigri straziandosi il  collo  e  le  reni  colla
punta degli stiletti avvelenati. E chi  sa  quanti  eccidi  rimasti  ignoti,  di
schiave soffocate nelle fontane, freddate a colpi d'elsa nelle tempie,  lacerate
dal colbac degli eunuchi, schiacciate  fra  le  porte  di  ferro  dalle  braccia
d'acciaio di dieci gelose frenetiche! I veli  soffocavano  i  lamenti,  i  fiori
nascondevano il sangue, due ombre si perdevano nel labirinto  dei  viali  oscuri
portando una cosa nera; le  sentinelle  delle  torri,  sulla  riva  del  Mar  di
Marmara, sentivano un tonfo nelle acque, e l'arem si  ridestava  all'alba,  come
sempre, odoroso e ridente, senza accorgersi che una delle sue mille  stanze  era
vuota.

Tutte queste immagini mi venivano  alla  mente,  girando  per  quel  recinto,  e
alzando gli occhi  alle  grate  di  quei  chioschi  abbandonati  e  tristi  come
sepolcri. Eppure, in mezzo a quelle  memorie  sinistre,  provavo  di  tratto  in
tratto un certo batticuore piacevole,  una  specie  di  trepidazione  voluttuosa
d'adolescente, mista di malinconia e di tenerezza, pensando che le scalette  per
cui salivo e scendevo, avevano sentito il peso  di  quelle  donne  bellissime  e
famose; che i sentieri che calpestavo avevano udito il fruscìo delle loro vesti,
che le vôlte di quei piccoli portici di cui accarezzavo, passando, le colonnine,
avevano ripercosso il suono delle loro risa infantili.  Mi  pareva  che  qualche
cosa di loro ci dovesse ancora essere dietro quei  muri,  in  quell'aria.  Avrei
voluto cercare, gridare quei nomi memorabili, chiamarle a una a una cento volte,
e  mi  pareva  che  qualche  risposta  di  voce  lontana  l'avrei  sentita,  che
qualchecosa di bianco l'avrei visto passare sulle alte terrazze o  in  fondo  ai
boschetti solitarii. E giravo gli occhi qua e là, e interrogavo le  grate  e  le
porte. Quanto avrei dato per sapere dove era stata chiusa la vedova  di  Alessio
Comneno, la più bella delle prigioniere di Lesbo e la più  seducente  greca  del
suo secolo, o dov'era stata pugnalata la cara figliuola d'Erizzo, governatore di
Negroponte, che preferì la morte all'amplesso brutale di Maometto II! E  Currem,
la  favorita  di  Solimano,  a  che  finestra  si  affacciava,  coi  suoi  belli
atteggiamenti languidi di persiana, per  fissare  nel  Mar  di  Marmara  i  suoi
potenti occhi neri, velati dalle lunghissime ciglia  di  seta?  Qui,  su  questo
sentiero, non avrà lasciato molte volte le traccie del  suo  passo  leggiero  la
bella danzatrice ungherese che levò Saffiè dal cuore  di  Murad  III,  scattando
come una lama d'acciaio fra le braccia imperiali? E da quest'aiuola non avrà mai
strappato un fiore, passando, Kesem, la bella greca, la gelosa feroce, dal  viso
pallido  e  malinconico,  che  vide  il  regno  di  sette  Sultani?  E  l'armena
gigantesca, che fece impazzir d'amore Ibrahim,  non  avrà  mai  immerso  il  suo
enorme braccio bianco nell'acqua di questa fontana? E chi  aveva  il  piede  più
piccino, la piccola favorita di Maometto IV, di cui due babbuccie  non  facevano
la lunghezza d'uno stiletto, o Rebia Gulnuz, la bevanda delle rose di primavera,
che aveva i più begli occhi azzurri dell'Arcipelago, e non lasciava traccia  del
suo passo sulle sabbie bianche del suo giardino? E i capelli più  dorati  e  più
morbidi chi li possedeva, Marhfiruz,  la  favorita  dell'astro  delle  notti,  o
Miliclia, la giovane odalisca russa, che soggiogò la ferocia del secondo Otmano?
E le fanciulle persiane ed arabe che addormentavano colle loro favole Ibrahim? E
le quaranta giovinette che bevettero il sangue del terzo Murad?  Non  ne  rimane
più nulla, nemmeno una ciocca di capelli, nemmeno il filo d'un velo, nemmeno  un
segno nelle pareti? E queste fantasie terminavano tutte in una visione  dolorosa
e spaventevole. Le vedevo passare, a file interminabili, lontano, fra i  tronchi
fitti degli alberi e sotto i  lunghi  portici,  l'una  dietro  l'altra,  sultane
validè, sultane sorelle, cadine, odalische, schiave, fanciulle appena sbocciate,
donne trentenni, vecchie coi capelli bianchi, visi  timidi  di  vergini  e  visi
terribili di gelose,  dominatrici  d'imperi,  favorite  d'un  giorno,  trastulli
d'un'ora; creature di dieci generazioni  e  di  cento  popoli,  coi  loro  bimbi
strozzati fra le braccia o per mano; una col laccio al collo, una con un pugnale
nel cuore, un'altra grondante d'acqua del Mar di Marmara, splendenti  di  gemme,
coperte di ferite, moribonde di veleno, trasfigurate  dalle  lunghe  agonie  del
vecchio Serraglio; e passavano mute e leggiere come fantasime, e si perdevano in
file interminabili nell'oscurità dei boschetti, lasciando dietro di sè una lunga
traccia di fiori appassiti e di goccie di pianto e di sangue; e un'immensa pietà
mi stringeva il cuore.

Di là dal terzo recinto, si stende un tratto di  terreno  piano,  tutto  coperto
d'una vegetazione rigogliosa, e sparso di piccoli edifizi gentili, in  mezzo  ai
quali s'innalza la così detta colonna di Teodosio, di granito grigio, sormontata
da un bel capitello corinzio, e sorretta da un  largo  piedestallo,  su  cui  si
leggono ancora le due ultime parole d'una iscrizione latina che diceva: Fortunae
reduci ob devictos Gothos. E qui finisce l'alto piano sul quale si  distende  il
grande rettangolo centrale degli edifizi del Serraglio. Di qui fino al capo  del
Serraglio, e in tutto lo spazio compreso fra il circuito dei tre  recinti  e  le
mura esteriori, lungo i fianchi della collina, era  tutto  un  bosco  di  grandi
platani, di cipressi altissimi, di filari di  pini,  di  gruppi  d'allori  e  di
terebinti  e  di  pioppi  inghirlandati  di  pampini,  che   ombreggiavano   una
successione di giardini pieni di rose e d'elitropie,  disposti  a  scaglioni,  e
attraversati da larghe gradinate di marmo per le quali si scendeva fino al mare.
Lungo le mura, in faccia a Scutari, c'era il nuovo palazzo del  Sultano  Mahmud,
che s'apriva sul mare in una grande porta rivestita di rame  dorato.  Vicino  al
Capo del Serraglio, s'innalzava l'arem d'estate, che era un vastissimo  edifizio
semicircolare, capace di cinquecento donne, con vasti cortili e bagni  splendidi
e giardini, dove si  facevano  quelle  luminarie  fantastiche,  che  diventarono
celebri sotto il nome di feste dei tulipani. Davanti a quest'arem,  fuori  delle
mura, sopra la riva del mare, c'era la batteria famosa del Serraglio, formata di
venti cannoni di forme bizzarre, scolpiti e istoriati, ch'erano stati tolti agli
eserciti cristiani nelle prime guerre europee. Le mura avevano otto  porte,  tre
dalla parte della città, e cinque dalla parte del mare. Grandi terrazze di marmo
s'avanzavano dalle mura sulla riva. Strade sotterranee conducevano dalla  reggia
alle porte del Mar di Marmara, in modo che i Sultani  potevano  salvarsi  da  un
assalto imbarcandosi segretamente, e riparando a Scutari o a  Top-Hané.  Nè  qui
era tutto il Serraglio. Vicino alle mura esterne e per i fianchi  della  collina
s'innalzavano ancora molti chioschi, della forma di piccole moschee, di  fortini
e di gallerie, da ognuno dei quali, per un sentiero nascosto da  alte  spalliere
di verzura, si riusciva alle  porte  secondarie  del  terzo  recinto.  V'era  il
chiosco Yali, ora distrutto, che si specchiava  nel  Corno  d'oro.  C'è  ancora,
quasi intatto, il Nuovo chiosco, che è una piccola reggia rotonda, tutta  ornata
di dorature e di pitture, nella quale i Sultani andavano, sul tramonto, a godere
la vista delle mille navi del porto. Vicino all'arem d'estate v'era  il  chiosco
degli Specchi, dove fu segnato il trattato di pace del 1784, con cui la  Turchia
cedette la Crimea alla Russia, e il chiosco d'Hassan  Pascià,  tutto  splendente
d'oro, le cui pareti coperte di specchi rallegravano con un gioco fantastico  di
riflessi le feste e le orgie notturne dei Sultani. Il chiosco del Cannone per le
cui finestre si gettavano nel mare i cadaveri, sorgeva vicino alla batteria  del
Capo del Serraglio. Il chiosco del Mare, in cui teneva i suoi divani segreti  la
Validè di Maometto IV, pendeva a filo sulle correnti confuse del Mar di  Marmara
e del Bosforo. Il chiosco delle Rose dominava la spianata in  cui  facevano  gli
esercizi i paggi,  e  dove  fu  proclamata,  nel  1839,  la  nuova  costituzione
dell'Impero, col famoso hatti-scerif di Gul-Hané. Dall'altra parte del Serraglio
c'era ancora il chiosco delle Riviste, da cui i Sultani  vedevano  passare,  non
visti, tutti coloro che andavano al divano;  sull'angolo  delle  mura  vicino  a
Santa Sofia, il chiosco d'Alai, dal quale Maometto IV gittò all'esercito ribelle
la sua favovita Meleki, e ventinove ufficiali della Corte, sbranati sotto i suoi
occhi; e all'altra estremità delle mura, il chiosco Sepedgiler, vicino al  quale
i Padiscià davano congedo ai  grandi  ammiragli  che  partivano  per  le  guerre
lontane. Così la reggia formidabile, dall'alto del colle, dov'erano  raccolte  e
nascoste le sue parti più vitali, si sparpagliava per la china e lungo  la  riva
del mare, coronata di torri, irta di cannoni, inghirlandata di  rose;  slanciava
da tutte le parti le sue barchette dorate, levava al cielo un nuvolo di  profumi
come un enorme altare, specchiava nelle  acque  le  mille  fiammelle  delle  sue
feste, gettava dall'alto delle sue mura oro alla folla  e  cadaveri  alle  onde,
ieri in balìa d'una schiava, oggi in potere  d'un  forsennato,  domani  ludibrio
della soldatesca, bella come un'isola fatata e  sinistra  come  un  sepolcro  di
vivi...

La notte è alta; il Mar di Marmara riflette il cielo ardente di stelle; la  luna
inargenta le cento cupole del Serraglio e imbianca le cime dei  cipressi  e  dei
platani, che distendono le loro grandi ombre nei vasti  recinti,  circondati  da
innumerevoli finestrine illuminate che  si  vanno  spegnendo  a  una  a  una.  I
chioschi e le moschee risaltano con una bianchezza di neve  in  mezzo  al  verde
lugubre dei boschetti. Le guglie, le punte dei minareti, le mezzelune aeree,  le
porte di bronzo, le graticole  dorate  luccicano  fra  gli  alberi,  presentando
l'apparenza vaga d'una città d'oro e d'argento. La città imperiale s'addormenta.
Le tre grandi porte son state chiuse ora ora, e le chiavi enormi suonano  ancora
fra le mani dei capigì, sotto le vôlte degli alti  vestiboli.  Un  drappello  di
capigì  veglia  dinanzi  alla  porta  della  Salute;  trenta   eunuchi   bianchi
custodiscono la porta della  Felicità,  appiccicati  ai  muri  e  immobili  come
bassorilievi, col volto nell'ombra. Centinaia di sentinelle invisibili, vigilano
dalle mura e dalle torri, guardando il mare, il porto, le  strade  tenebrose  di
Stambul, e la mole enorme e muta di Santa Sofia. Nelle grandi cucine  del  primo
cortile si vede ancora un saliscendi di lanterne,  che  rischiarano  gli  ultimi
lavori; poi tutto l'edifizio rimane oscuro. Un lume brilla ancora nelle case del
Veznedar agà e del Defterdar effendi. Qualche cosa brulica, nel secondo recinto,
dinanzi alla casa del  Grand'Eunuco  nero.  Nel  labirinto  dell'arem  si  vanno
chiudendo le ultime porte. Gli eunuchi girano per i viali  deserti,  intorno  ai
chioschi oscuri, non udendo altro rumore che lo stormire  degli  alberi  agitati
dall'aria marina e il mormorio monotono delle  fontane.  Un'alta  pace  par  che
regni su tutta la reggia. Eppure una vita febbrile  ribolle  ancora  fra  quelle
mura. Da tutto quel popolo di schiave, di soldati, di prigionieri, di  servi,  i
pensieri della notte si levano confusamente, e superate le mura  del  Serraglio,
volano ai quattro angoli del mondo a cercar  luoghi  cari  e  madri  abbandonate
dall'infanzia, e a riandare vicende strane e  terribili  di  tempi  lontani.  Le
preghiere e i lamenti muti s'incrociano per gli anditi e per i boschetti  oscuri
coi propositi di vendetta e di sangue, e coi desiderii insensati delle ambizioni
segrete. La grande reggia dorme un sonno  torbido,  interrotto  da  riscotimenti
improvvisi di diffidenza e di paura. Un bisbiglio diffuso  di  parole  di  cento
lingue si confonde col suono  dei  respiri  e  col  mormorio  della  vegetazione
ventilata. A breve distanza, divisi da poche pareti, dorme  il  paggio  che  s'è
prostituito, l'iman che ha predicato la parola  di  Dio,  il  carnefice  che  ha
strozzato un innocente, il principe prigioniero che aspetta la morte, la sultana
innamorata che si prepara alle nozze. Creature diseredate d'ogni bene,  riposano
accanto a ricchezze favolose; la bellezza divina, la deformità derisa,  tutti  i
vizii, tutte le sventure, tutte le prostituzioni dell'anima e  della  carne,  si
trovano rinchiuse fra le stesse mura. Le architetture moresche, che  s'innalzano
sopra gli alberi, profilano nel cielo stellato le loro mille forme  bizzarre  ed
aeree; sui muri si allungano ombre graziose di frangie, di festoni e  di  trine;
le fontane illuminate dalla luna schizzano zaffiri e diamanti; e tutti i profumi
del giardino volano,  portati  dall'aria  notturna,  confusi  in  una  fragranza
potente che entra per le grate nelle sale a destar fremiti di  piacere  e  sogni
lascivi. È l'ora in cui gli eunuchi, seduti sotto gli alberi, cogli occhi  fissi
nel lume fioco che traluce dalle finestre dei chioschi, si rodono l'anima  e  il
cuore, tastando colle dita tremanti la punta del pugnale; l'ora in cui la povera
giovinetta, rubata e venduta di fresco, dal finestrino  alto  della  sua  cella,
guarda cogli occhi umidi di lagrime gli orizzonti sereni dell'Asia, rimpiangendo
la capanna dov'è nata e la valle dove sono sepolti i suoi padri; l'ora in cui il
galeotto incatenato, il muto macchiato di sangue, il  nano  spregiato,  misurano
con un tremito di sgomento l'infinita distanza che li  separa  dall'uomo  che  è
sopra tutti, e interrogano dolorosamente il potere ascoso che tolse  all'uno  la
libertà, all'altro la parola, al terzo la forma umana per dare ogni cosa  ad  un
solo. È l'ora in cui piangono i reietti e in cui tremano i grandi, malsicuri del
domani. Le lanterne sparse per gli edifizi multiformi rischiarano fronti pallide
di tesorieri curvi sulle carte; teste scarmigliate d'odalische,  disperate  d'un
lungo abbandono, che cercano  il  sonno  invano  sui  guanciali  infocati;  visi
abbronzati di giannizzeri erculei,  addormentati  con  un  sorriso  feroce,  che
tradisce la visione di una strage. I muri sottili sentono aneliti di  voluttà  e
singhiozzi rotti da parole disperate. E mentre in un chiosco  spuma  il  liquore
maledetto in mezzo a un  cerchio  di  baccanti  seminude;  mentre  in  una  sala
semioscura, una povera sultana, madre da un istante, nasconde, urlando, il  viso
nei guanciali, per non vedere un lago di sangue nel quale spira la sua creatura,
a cui, per ordine del Padiscià, la levatrice lasciò aperto il  tubo  ombelicale;
mentre le teste dei bey, uccisi al cader della notte, stillano  le  loro  ultime
goccie di sangue sui marmi delle nicchie di Bab-Umaiun; nel chiosco più alto del
terzo recinto, in una sala tappezzata di damasco vermiglio, sopra  un  letto  di
zibellino, in mezzo a un disordine sfarzoso di cuscini imperlati e di coperte di
velluto splendenti d'oro, su cui scende la  luce  vaga  d'una  lanterna  moresca
d'argento cesellato, appesa al soffitto di cedro,  una  bella  fanciulla  bruna,
ravvolta in un grande velo bianco, che pochi anni  sono  conduceva  l'armento  a
traverso le pianure dell'Arabia Felice,  chinata  sul  viso  pallido  del  terzo
Murad, che riposa, sonnecchiando, ai suoi piedi, gli mormora con una voce timida
e dolce: - V'era una volta a Damasco un mercante  chiamato  Abu-Eiub  che  aveva
raccolte molte ricchezze e  viveva  onorevolmente.  E  possedeva  un  figliuolo,
ch'era bello e che sapeva molte cose e che si chiamava Schiavo  d'amore,  e  una
figliuola bellissima, che aveva per soprannome Forza  dei  cuori.  Ora  Abu-Eiub
venne a morire e lasciò tutte le sue mercanzie fasciate e  legate,  e  su  tutte
c'era scritto: Per Bagdad. E Schiavo d'amore domandò alla madre:  -  Perchè  c'è
scritto per Bagdad su tutte le mercanzie di mio padre? - E la madre  rispose:  -
Figliuol mio.... - Ma il  Padiscià  s'è  addormentato  e  la  schiava  abbandona
dolcemente il suo capo sopra i guanciali. Tutte le porte dell'arem  son  chiuse,
tutti i lumi son spenti, la luna inargenta le cento cupole, le  mezzelune  e  le
finestre dorate luccicano tra gli alberi, le  fontane  zampillano  rumorosamente
nell'alto silenzio della notte: tutto il Serraglio riposa.

E così riposa da trent'anni, abbandonato  sulla  sua  collina  solitaria;  e  si
possono ripetere per esso i versi del poeta persiano che vennero sulle labbra  a
Maometto  il  conquistatore  quando  pose  il  piede   nel   palazzo   devastato
degl'Imperatori d'Oriente: L'immondo ragno ordisce le sue tele  nelle  sale  dei
re, e dalle vette superbe d'Erasciab, il corvo  vibra  nell'aria  il  suo  canto
sinistro.

GLI ULTIMI GIORNI

A questo punto mi trovo spezzata la catena delle reminiscenze minute  e  lucide,
che permettono le lunghe descrizioni; e non ricordo più che una serie  di  corse
affannose da una riva all'altra del Corno d'oro e dall'Europa all'Asia, dopo  le
quali, la sera, mi vedevo passare davanti rapidissimamente, come in sogno, città
luminose, folle immense, boschi, flotte, colline, e il pensiero  della  partenza
vicina dava a ogni cosa un leggiero colore di  tristezza,  come  se  già  quelle
visioni non fossero più che ricordi d'un paese lontano.

[Le moschee] Eppure alcune immagini rimangono immobili in  mezzo  alla  fuga  di
persone e di cose, a cui mi sembra  d'assistere  quando  penso  a  quei  giorni.
Ricordo la bella mattinata  in  cui  visitai  la  maggior  parte  delle  moschee
imperiali, e pensandoci, mi pare ancora che si faccia intorno a  me  un  immenso
vuoto e un silenzio solenne. L'immagine di Santa  Sofia  non  scema  affatto  la
meraviglia che si prova al primo entrare in mezzo a quelle mura titaniche. Anche
là, come altrove, la  religione  dei  vincitori  s'è  appropriata  l'arte  della
religione dei vinti. Quasi tutte le  moschee  sono  imitate  dalla  Basilica  di
Giustiniano; hanno la grande cupola, le mezze cupole sottoposte,  i  cortili,  i
portici; qualcheduna, la forma della croce greca. Ma l'islamismo  ha  sparso  su
ogni cosa il colore e la luce propria, in modo che il complesso di quelle  forme
note presenta  l'apparenza  d'un  edifizio  nuovo,  in  cui  s'intravvedono  gli
orizzonti d'un mondo sconosciuto e si sente l'aura d'un altro Dio.  Sono  navate
enormi,  d'una  semplicità  austera  e  grandiosa,  bianche  in  ogni  parte,  e
rischiarate da finestre innumerevoli, che mettono per tutto una  luce  dolce  ed
uguale, in cui l'occhio vede ogni cosa, da  un'estremità  all'altra,  e  riposa,
insieme col pensiero, quasi addormentato in una  quiete  soave  e  diffusa,  che
somiglia a quella d'una valle  nevosa,  coperta  da  un  cielo  bianco.  Non  si
crederebbe d'essere in un luogo chiuso se  non  si  sentisse  l'eco  sonora  del
proprio passo. Non v'è nulla che distragga la mente: il pensiero  va  dritto,  a
traverso quel vuoto e quella chiarezza,  all'oggetto  dell'adorazione.  Non  v'è
argomento nè di malinconie nè di terrori; non vi sono nè illusioni, nè  misteri,
nè angoli  oscuri,  in  cui  brillino  vagamente  le  immagini  d'una  gerarchia
complicata d'esseri sovrumani, che  confondon  la  mente;  non  v'è  che  l'idea
chiara, netta, abbagliante, formidabile d'un Dio  solitario,  che  predilige  la
nudità severa dei deserti inondati di luce, e non ammette altro simulacro di  sè
stesso che il cielo. Tutte le moschee  imperiali  di  Costantinopoli  presentano
questo medesimo aspetto di grandezza che solleva la mente, e di  semplicità  che
la fissa in un solo pensiero, e differiscono così poco nei  particolari,  che  è
difficile il ricordarle a una,  a  una.  La  moschea  d'Ahmed,  enorme,  e  pure
graziosa e leggera, all'esterno, come un edifizio aereo, appoggia la sua  cupola
sopra quattro smisurati pilastri rotondi  di  marmo  bianco,  nel  cui  seno  si
potrebbero aprire quattro piccole moschee, ed è la sola di Stambul che abbia  la
corona gloriosa di sei minareti. La moschea di  Solimano,  che  è,  più  che  un
tempio, una città sacra, nella quale lo straniero si smarrisce, è formata da tre
navate, e la sua cupola, più alta di quella di Santa Sofia, riposa sopra quattro
colonne meravigliose di granito roseo, che fanno pensare  ai  fusti  dei  famosi
alberi giganteschi della California. La moschea di Maometto è  una  Santa  Sofia
bianca ed allegra; quella di Baiazet gode la primazia dell'eleganza delle forme;
quella di Osmano è tutta di marmo; quella di Scià-Zadé ha  i  due  più  graziosi
minareti  di  Stambul;  quella  di  Ak-Serai  è  il  più  gentile  modello   del
rinascimento dell'arte turca; quella di Selim è la più grave, quella  di  Mahmud
la più capricciosa, quella della Sultana Validè la più ornata. Ognuna ha qualche
bellezza sua propria o una leggenda o un privilegio. Sultan-Ahmed custodisce  lo
stendardo del Profeta, Sultan-Baizit è coronata di colombi, Solimaniè  vanta  le
iscrizioni di Karà-hissari, Validè Sultan ha la falsa colonna d'oro che costò la
vita al conquistatore della Canea; Sultan-Mehemet vede "undici moschee imperiali
chinar  la  testa  intorno  a  lei,  come  davanti  al  manipolo   di   Giuseppe
s'inchinavano i manipoli dei  fratelli".  In  una  s'innalzano  le  colonne  del
palazzo imperiale e dell'Augusteon di Giustiniano, che portarono  le  statue  di
Venere, di Teodora e d'Eudossia; in altre si  ritrovano  i  marmi  delle  chiese
antiche di Calcedonia,  colonne  delle  rovine  di  Troia,  pilastri  di  templi
d'Egitto, vetri preziosi rapiti alle reggie persiane, materiali  di  circhi,  di
fori,  di  acquedotti,  di  basiliche:  tutto  confuso  e  svanito  nell'immensa
bianchezza della religione vincitrice. Dentro differiscono anche meno che  nella
forma esterna. In fondo v'è un pulpito  di  marmo;  in  faccia,  la  loggia  del
Sultano chiusa da una grata dorata; accanto al Mihrab, due candelabri enormi che
sorreggono torcie alte come fusti di palme;  e  per  tutta  la  navata,  lampade
innumerevoli formate di grandi  globi  di  vetro,  e  disposte  in  una  maniera
bizzarra, che par più propria a una grande festa di ballo che  a  una  solennità
religiosa. Le grandi iscrizioni sacre  che  girano  intorno  ai  pilastri,  alle
porte, alle finestre delle cupole, qualche finto fregio dipinto a imitazione del
marmo, e i vetri disegnati e coloriti a  fiorami,  sono  i  soli  ornamenti  che
risaltino nella nudità bianca di quelle mura monumentali. Tesori di  marmo  sono
profusi nei pavimenti dei vestiboli, nei portici che circondano i cortili, nelle
fontane  per  le  abluzioni,  nei  minareti;  ma  non  alterano   il   carattere
graziosamente sobrio ed austero dell'edifizio, tutto bianco, circondato di verde
e coronato di cupole, scintillanti sull'azzurro del  cielo.  E  la  moschea  non
occupa che la parte minore del recinto,  il  quale  abbraccia  un  labirinto  di
cortili e di case. E qui ci sono auditorii per la lettura del Corano e luoghi di
deposito per i tesori dei privati, biblioteche e accademie, scuole di medicina e
scuole pei bambini, quartieri per gli studenti e cucine per i poveri,  manicomi,
infermerie, ricoveri per  i  viaggiatori,  sale  da  bagno:  una  piccola  città
ospitale e benefica, affollata intorno alla mole altissima del tempio,  come  ai
piedi d'una montagna, e ombreggiata  da  alberi  giganteschi.  Ma  tutte  queste
immagini si sono oscurate nella mia mente; e non vedo più, in questo punto,  che
la piccola macchietta nera della mia persona, quasi  smarrita,  come  un  atomo,
nelle enormi navate, in mezzo a lunghe file di piccolissimi turchi prostrati che
pregano; e vo innanzi abbagliato da quella bianchezza, stupito  da  quella  luce
strana, sbalordito da quella immensità, strascicando le mie babbuccie  sdruscite
e il mio orgoglio schiacciato di descrittore;  e  mi  par  che  una  moschea  si
confonda coll'altra, e che mi si stenda d'intorno, in tutte  le  direzioni,  una
successione interminabile di pilastri e di volte, e una folla  bianca  infinita,
nella quale il mio sguardo si perde.

[Le cisterne] Le reminiscenze d'un altro giorno son  tutte  oscure  e  piene  di
misteri e di fantasmi. Entro nel cortile d'una casa musulmana, discendo, al lume
di una fiaccola, sino all'ultimo gradino di una scala tetra e umida, e mi  trovo
sotto le volte di Kere-batan Serai, la grande cisterna basilica  di  Costantino,
della quale il volgo di Stambul dice che non si conoscono i  confini.  Le  acque
verdastre si perdono sotto le volte nere, rischiarate qua e là da un barlume  di
luce livida che accresce l'orrore delle tenebre. La fiaccola colora di fuoco gli
archi vicini alla porta, fa luccicare i muri sgocciolanti, e rivela confusamente
file sterminate di colonne che intercettano lo sguardo da tutte le parti, come i
tronchi degli alberi in una fittissima foresta allagata. La  fantasia,  attratta
dalla voluttà del terrore, si slancia per quelle fughe  di  portici  sepolcrali,
sorvolando le acque sinistre, e si smarrisce in  infiniti  giri  vertiginosi  in
mezzo alle  colonne  innumerevoli,  mentre  la  voce  sommessa  d'un  dracomanno
racconta  le  storie  paurose  di  chi  s'avventurò  sopra  una  barca  in  quel
sotterraneo per scoprirne i confini, e tornò indietro molte  ore  dopo,  remando
disperatamente, col volto trasfigurato e  coi  capelli  irti,  mentre  le  volte
lontane echeggiavano di risate fragorose e di fischi acuti; e  d'altri  che  non
tornarono più, che finirono chi sa come,  forse  impazziti  dal  terrore,  forse
morti di fame,  forse  trascinati  da  una  corrente  misteriosa  in  un  abisso
sconosciuto, molto lontano da Stambul, Dio solo sa dove. Questa visione  lugubre
sparisce improvvisamente nella grande luce della piazza dell'At-meidan, e  pochi
minuti dopo mi trovo daccapo sotto terra, fra le duecento colonne della cisterna
asciutta Bin-birdirek, dove cento operai greci filano la seta, cantando con voci
acute una canzone guerriera, rischiarati da un raggio di  luce  pallida  che  si
rompe negl'incrociamenti delle arcate; e sento sopra il  mio  capo  lo  strepito
confuso d'una carovana che passa. Poi daccapo l'aria aperta e la luce del  sole,
e poi di nuovo l'oscurità, sotto altre arcate secolari, in mezzo ad  altre  file
di colonne, in una quiete di  sepolcro,  turbata  da  un  suono  fioco  di  voci
lontane; e così fino a sera, un pellegrinaggio misterioso e pensieroso, dopo  il
quale mi rimane per molto tempo dinanzi agli occhi l'immagine di un  vasto  lago
sotterraneo, in cui sia sprofondata la metropoli dell'impero  greco,  e  in  cui
Stambul, ridente ed incauta debba un giorno alla sua volta sparire.

[Scutari] Tutta questa  oscurità  svanisce  dinanzi  all'immagine  splendida  di
Scutari. Andando a Scutari, sopra un piroscafo affollato, discutevamo sempre, il
mio amico ed io, se il primato della bellezza appartenesse a quella riva o  alle
due rive del Corno d'oro.  Yunk  preferiva  Scutari;  io,  Stambul.  Ma  Scutari
m'innamorava coi suoi improvvisi  cangiamenti  d'aspetto,  coi  quali  pare  che
voglia pigliarsi gioco di chi le  s'avvicina  dal  mare.  Guardata  dal  Mar  di
Marmara, non pare che un grande villaggio disteso sopra  una  collina.  Guardata
dal Corno d'oro, presenta già l'aspetto d'una città.  Ma  quando  il  piroscafo,
girando intorno alla punta più avanzata della riva asiatica, va dritto verso  il
suo porto, allora  la  cittadina  s'allarga  e  s'innalza;  le  colline  coperte
d'edifizi saltan fuori l'una di dietro  all'altra;  i  sobborghi  sbucano  dalle
valli, le villette si sparpagliano sulle alture; la riva,  tutta  variopinta  di
casette, si svolge a perdita d'occhi; una città enorme, pomposa,  teatrale,  che
non si comprende dove potesse stare nascosta, si scopre allo  sguardo  in  pochi
momenti come all'alzarsi d'un telone immenso, e fa rimaner  là  stupefatti  come
aspettando che torni a sparire. Si scende sopra  uno  scalo  di  legno,  fra  un
visibilio di barcaiuoli, di noleggiatori di cavalli e di dracomanni, e si va  su
per la via principale che sale dolcemente,  serpeggiando,  in  mezzo  a  casette
rosse e gialle, vestite d'edera e di pampini, fra muri di giardini riboccanti di
verzura, sotto alti pergolati, all'ombra di grandi platani che chiudono quasi il
passaggio; si passa dinanzi a caffè turchi, ingombri di fannulloni asiatici, che
fumano, sdraiati, cogli occhi fissi non si  sa  dove;  s'incontrano  branchi  di
capre, carri pesanti di  campagna,  tirati  da  bufali  colla  testa  infiorata,
contadini in fez e in turbante, convogli  funebri  musulmani,  e  brigatelle  di
hanum villeggianti, che portano mazzi di  fiori  e  ramoscelli.  Par  di  vedere
un'altra Stambul, meno maestosa, ma più gaia e più fresca di quella delle  sette
colline. È come una grande città villereccia. La campagna l'invade da  tutte  le
parti. Le stradicciuole, fiancheggiate da casine da presepio, scendono e salgono
per valli e per colline, e si perdono nel verde dei giardini e degli orti. Nelle
parti alte della città regna la pace profonda della campagna; nelle parti  basse
brulica la vita affaccendata delle città  di  mare;  dalle  grandi  caserme  che
sorgono qua e là, esce un frastuono confuso di grida, di canti e di  tamburi,  e
migliaia  d'uccelletti  saltellano,  per  le  viuzze  solitarie.  Seguitando  un
convoglio mortuario, usciamo dalla città, ci addentriamo nel cimitero famoso, ci
smarriamo in una grande foresta di cipressi altissimi,  che  si  stende  da  una
parte verso il Mar di Marmara e dall'altra verso il Corno d'oro, sopra un  vasto
terreno montuoso. Le  pietre  sepolcrali  biancheggiano  tutt'intorno  fin  dove
arriva lo sguardo, a mucchi, a file sterminate, in mezzo ai cespugli e ai  fiori
selvatici, in una rete infinita di  sentieri,  fra  i  tronchi  fittissimi,  che
lasciano  appena  vedere  l'orizzonte  come  una  lontana  striscia  luminosa  e
ondeggiante. Andiamo innanzi, a caso, in mezzo ai cippi dipinti e dorati,  ritti
e rovesci, fra le cancellate dei sepolcri di famiglia, fra  i  piccoli  mausolei
dei pascià, fra le colonnette rozze del volgo, vedendo qua e là mazzi  di  fiori
appassiti e cocuzzoli di cranii che spuntano fra la terra smossa, udendo grugare
da ogni parte i colombi nascosti nei cipressi; e via via, pare che la foresta si
allarghi, che le pietre pullulino, che  i  sentieri  si  moltiplichino,  che  la
striscia luminosa dell'orizzonte si allontani, che il regno della morte s'avanzi
a passo a passo con noi; e  cominciamo  a  domandarci  come  n'usciremo,  quando
sbocchiamo inaspettatamente in un larghissimo viale, che ci conduce nella  vasta
pianura aperta d'Haidar pascià, dove si raccoglievano gli eserciti musulmani per
muovere alle guerre dell'Asia, e di là abbracciamo con uno  sguardo  il  Mar  di
Marmara, Stambul, l'imboccatura del Corno d'oro, Galata  e  Pera,  tutto  velato
leggermente dai vapori della mattina e tinto di colori di paradiso, che ci fanno
risentire un fremito della meraviglia e della gioia dell'arrivo.

[Palazzo di Ceragan] Un'altra mattina ci troviamo in un carrozzone del  tramway,
in mezzo a due colossali eunuchi  neri,  incaricati  da  un  aiutante  di  campo
d'Abdul-Aziz di condurci a visitare il palazzo imperiale di Ceragan, posto sulla
riva del Bosforo ai piedi del sobborgo di Bescic-Tass. Mi ricordo del sentimento
indefinibile, misto di curiosità e di ribrezzo, che provavo guardando colla coda
dell'occhio l'eunuco che m'era accanto, il quale mi sorpassava di quasi tutta la
testa, e teneva stesa sul ginocchio una mano smisurata;  e  ogni  volta  che  mi
voltavo, sentivo un profumo leggiero di essenza di  bergamotto  che  usciva  dai
suoi panni lucidi e corretti di cortigiano. Quando il carrozzone si fermò,  misi
la mano in tasca per prendere il portamonete; ma la mano  smisurata  dell'eunuco
m'afferrò il braccio come una tanaglia di ferro, e i suoi grandi occhi di  negro
si fissarono nei miei, come per dire: - Cristiano, non mi far questo affronto  o
ti slogo le ossa. - Si discese  dinanzi  a  una  piccola  porta  arabescata,  si
percorse un lunghissimo corridoio,  dove  ci  venne  incontro  un  drappello  di
servitori in livrea, e infilate le babbuccie, si salì per una larga  scala,  che
metteva alle sale della reggia. Qui  non  ci  fu  bisogno  d'evocare  i  ricordi
storici per procurarsi un'illusione di vita. L'aria era ancora calda  dell'alito
della Corte. I  larghissimi  divani  coperti  di  velluto  e  di  raso,  che  si
stendevano lungo le pareti, erano proprio quelli su cui, poche settimane  prima,
si erano sedute le odalische del Gran Signore. Un vago profumo di vita  molle  e
fastosa riempiva ancora l'aria. Si passò per un lungo giro di sale, decorate con
uno stile misto di europeo  e  di  moresco,  nitidissime  e  belle  d'una  certa
semplicità superba, che  ci  faceva  abbassare  la  voce;  mentre  gli  eunuchi,
borbottando spiegazioni incomprensibili, ci indicavano ora un  angolo,  ora  una
porta, con un gesto circospetto, come se accennassero a un mistero.  Le  cortine
di seta, i tappeti di mille colori, le tavole di musaico, i bei  quadri  a  olio
messi a contrallume, i begli  archi  a  stalattiti  delle  porte  tramezzate  da
colonnine arabe, gli altissimi candelabri simili  ad  alberi  di  cristallo  che
tintinnavano  rumorosamente  al  nostro   passaggio,   si   succedevano   e   si
confondevano, appena visti, nella nostra  fantasia,  tutta  intesa  a  inseguire
immagini fuggenti di cadine sorprese. Non mi è rimasta dinanzi agli occhi che la
sala da bagno del Sultano, tutta di marmo bianchissimo, scolpito a stalattiti, a
fiori penzoli, a frangio e a ricami aerei, d'una delicatezza, da far temere  che
si stacchino a toccarli colla punta delle dita. La disposizione  delle  sale  mi
ricordava vagamente l'Alhambra. Camminavamo in fretta sui  tappeti  spessissimi,
senza far rumore, quasi furtivamente. Di tanto in  tanto  un  eunuco  tirava  un
cordone, una tenda  verde  s'alzava,  e  vedevamo,  per  un'ampia  finestra,  il
Bosforo, l'Asia, mille navi, una gran luce;  poi  tutto  spariva  ad  un  tratto
lasciandoci come abbarbagliati da un lampo. Da una finestra vedemmo di  sfuggita
un piccolo giardino, chiuso da alti muri, lindo, compassato,  monacale,  che  ci
rivelò in un momento mille segrete malinconie di belle donne assetate d'amore  e
di libertà, e disparve improvvisamente dietro la tenda. E le  sale  non  finivan
mai, e alla vista d'ogni nuova porta,  affrettavamo  il  passo  per  affacciarci
inaspettati alla nuova sala; ma non si vedeva più  nemmeno  lo  strascico  d'una
veste, le odalische erano scomparse, un silenzio profondo regnava in ogni parte,
il fruscìo che ci faceva voltare indietro curiosamente non era  che  il  fruscìo
delle tende pesanti di broccato che ricadevano sulla soglia della  porta;  e  il
tintinnìo dei candelabri di cristallo c'indispettiva come  se  fosse  la  risata
argentina di qualche bella nascosta, che ci schernisse. E  infine  ci  venne  in
uggia quell'andare e venire senza  fine  per  quella  reggia  muta,  fra  quelle
ricchezze morte, vedendo riflesse a  ogni  passo,  dai  grandi  specchi,  quelle
faccie nere d'eunuchi, quel drappello sinistro  di  servitori  pensierosi,  e  i
nostri due visi attoniti di vagabondi; e uscimmo quasi correndo, e  provammo  un
gran piacere nel ritrovarci all'aria libera, fra le case  miserabili,  in  mezzo
alla popolaglia cenciosa e vociferante del quartiere di Top-hanè.

Eyub E la necropoli d'Eyub come dimenticarla? Ci andammo una sera al tramonto, e
m'è sempre rimasta nella memoria, così come la  vidi,  illuminata  dagli  ultimi
raggi del sole. Un caicco leggerissimo ci condusse fino in fondo al Corno d'oro,
e salimmo alla "terra santa" degli Osmani per un sentiero ripido,  fiancheggiato
di sepolcri. In quell'ora gli scalpellini che  lavorano  il  giorno  intorno  ai
cippi, e fanno echeggiare la vasta necropoli dei loro colpi  sonori,  erano  già
partiti; il luogo era deserto. Andammo innanzi, circospetti,  guardando  intorno
se apparisse il volto severo d'un iman o d'un dervis, poichè  là,  meno  che  in
ogni altro luogo sacro, è tollerata la curiosità profana di un giaurro;  ma  non
vedemmo nè cappelli conici nè turbanti.  Arrivammo,  con  qualche  trepidazione,
sino a quella misteriosa moschea d'Eyub, della quale avevamo visto  mille  volte
dalle colline dell'altra riva e da tutti i seni  del  Corno  d'oro  le  cupolone
scintillanti e i minareti leggieri. Nel cortile, all'ombra d'un grande  platano,
s'innalza in forma di  chiosco,  perpetuamente  rischiarato  da  una  corona  di
lampade, il mausoleo che  racchiude  il  corpo  del  portastendardo  famoso  del
Profeta, morto coi primi musulmani sotto Bisanzio, e ritrovato otto secoli dopo,
sepolto su quella riva, da Maometto  il  conquistatore.  Maometto  gli  consacrò
quella moschea, nella quale vanno i Padiscià a  cingere  solennemente  la  spada
d'Otmano; poichè è quella la  moschea  più  santa  di  Costantinopoli,  come  il
cimitero che la circonda è il più sacro  dei  cimiteri.  Intorno  alla  moschea,
all'ombra di grandi alberi, s'innalzano turbè di Sultane, di  vizir,  di  grandi
della Corte, circondati di fiori, splendidi di marmi  e  di  rabeschi  d'oro,  e
decorati d'iscrizioni pompose. In disparte v'è il tempietto mortuario dei  muftì
coperto da una cupola ottagona, nel quale riposano i grandi sacerdoti chiusi  in
enormi catafalchi neri, sormontati da altissimi turbanti  di  mussolina.  È  una
città di tombe, tutta bianca e ombrosa, e regalmente gentile, che  insieme  alla
tristezza religiosa ispira non so che sentimento di soggezione mondana, come  un
quartiere aristocratico, muto d'un silenzio superbo. Si passa in  mezzo  a  muri
bianchi e a cancellate delicatissime da cui scende a ghirlande e  a  ciocche  la
verzura dei giardini funebri, e sporgono i rami delle acacie,  delle  quercie  e
dei mirti, e per le trine di ferro dorato che chiudono le  finestre  arcate  dei
turbè, si vedono dentro, in una luce  soave,  i  mausolei  marmorei,  tinti  dei
riflessi verdi degli alberi. In nessun altro luogo di  Stambul  si  spiega  così
graziosamente l'arte musulmana di illeggiadrire  l'immagine  della  morte  e  di
farvi fissare il pensiero  senza  terrore.  È  una  necropoli,  una  reggia,  un
giardino, un panteon, pieno di malinconia e di grazia, che chiama insieme  sulle
labbra la preghiera e il sorriso. E da tutte le parti gli si stendono intorno  i
cimiteri, ombreggiati da cipressi secolari, attraversati da viali  serpeggianti,
bianchi di miriadi di cippi che par che si precipitino  giù  per  le  chine  per
andarsi a tuffare nelle acque o che si affollino  lungo  i  sentieri  per  veder
passare delle larve. E da mille recessi oscuri, allargando i rami dei  cespugli,
si vede a destra, confusamente, Stambul lontana, che  presenta  l'aspetto  d'una
fuga di città azzurrine, staccate l'una dall'altra; sotto, il  Corno  d'oro,  su
cui lampeggia l'ultimo raggio del sole; in faccia, i sobborghi  di  Sudlugé,  di
Halidgi-Ogli, di Piri-Pascià, di Hass-kioi, e più lontano il grande quartiere di
Kassim e il profilo vago di Galata, perduti in una dolcezza  infinita  di  tinte
tremole e morenti, che non paion cosa di questa terra.

[Il museo dei Giannizzeri] Tutto questo svanisce, e mi trovo a  passeggiare  per
lunghissimi cameroni nudi, in mezzo a due schiere immobili di  figure  sinistre,
che paiono cadaveri inchiodati alle pareti. Non ricordo d'aver  mai  provato  un
senso così vivo di  ribrezzo  fuorchè  a  Londra,  nell'ultima  sala  del  museo
Tussaud,   dove   s'intravvedono   nell'oscurità   i   più   orrendi   assassini
d'Inghilterra. È come un museo di spettri, o piuttosto un  sepolcro  aperto,  in
cui si trovano, mummificati, i più famosi personaggi di quella  vecchia  Turchia
splendida, stravagante e feroce, che non esiste più se  non  nella  memoria  dei
vecchi e nella fantasia dei poeti. Sono centinaia di  grandi  figure  di  legno,
colorite, vestite dei vecchi costumi, ritte, in atteggiamenti rigidi e  superbi,
coi visi alti, cogli  occhi  spalancati,  colle  mani  sull'else,  che  par  che
aspettino un cenno per snudare le lame e far sangue, come al buon tempo  antico.
Prima viene la casa del Padiscià: il grand'eunuco,  il  gran  vizir,  il  muftì,
ciambellani e grandi ufficiali, col capo  coperto  di  turbanti  d'ogni  colore,
piramidali, sferici,  quadrati,  spropositati,  prodigiosi,  con  caffettani  di
broccato di colori smaglianti, coperti di ricami, con tuniche di seta  vermiglia
e di seta bianca, strette alla vita da sciarpe di casimir, con vesti dorate, coi
petti coperti di lastre d'oro e d'argento, con  armi  principesche:  due  lunghe
file di spauracchi bizzarri e splendidi, che  rivelano  in  modo  ammirabile  la
natura dell'antica  corte  ottomana,  spudoratamente  fastosa  e  barbaricamente
superba. Seguono i paggi che portano le pelliccie del Padiscià, il turbante,  lo
sgabello, la spada. Poi le guardie delle porte e dei giardini,  le  guardie  del
Sultano, gli eunuchi bianchi e gli eunuchi neri, con visi  di  magi  e  d'idoli,
scintillanti, impennacchiati, colle teste coperte  di  cappelli  persiani  e  di
caschi metallici, di berrette purpuree,  di  turbanti  strani,  della  forma  di
mezzelune, di coni,  di  piramidi  rovescie;  armati  di  verghe  d'acciaio,  di
pugnalacci e di fruste come un branco d'assassini e di carnefici; e l'uno guarda
in aria  di  disprezzo,  un  altro  digrigna  i  denti,  un  terzo  caccia  fuor
dell'orbita due occhi assetati di sangue, un quarto sorride  con  un'espressione
di sarcasmo satanico. E in  fine,  il  corpo  dei  giannizzeri,  col  suo  santo
patrono, Emin babà, scheletrito, vestito d'una tunica  bianca,  e  ufficiali  di
tutti i gradi simboleggiati dai varii uffici della cucina,  e  soldati  di  ogni
classe con tutti gli emblemi e  tutte  le  divise  di  quell'esercito  insolente
sterminato dalla mitraglia di Mahmud. E qui la bizzarria grottesca e puerile dei
vestiari,  mista  al  terrore  delle  memorie,   produce   l'impressione   d'una
pagliacciata feroce. La più sbrigliata fantasia di pittore non riuscirebbe mai a
formare una così  pazza  confusione  di  vestimenti  da  re,  da  sacerdoti,  da
briganti, da giullari. I "portatori d'acqua", i "preparatori della minestra",  i
"cuochi superiori", i "capi dei guatteri",  i  soldati  incaricati  di  servizii
speciali, si succedono in lunghe file, colle scope e coi cucchiai nei  turbanti,
cui sonagli appesi alle tuniche, cogli otri, colle marmitte famose che davano il
segnale delle rivolte, coi grandi berretti di pelo, colle larghe stoffe cadenti,
come mantelli di negromanti, dalla nuca  sui  lombi,  colle  larghe  cinture  di
dischi  di  metallo  cesellato,  colle  sciabole  gigantesche,  cogli  occhi  di
granchio, coi busti enormi, coi volti contratti in atteggiamenti  di  beffa,  di
minaccia e d'insulto. Ultimi vengono i muti del Serraglio, col cordone  di  seta
alla mano, e i nani e i buffoni, con visi ributtanti di  cretini  inviperiti,  e
corone burlesche sul capo. Le grandi vetrine in cui è chiusa tutta questa gente,
danno al luogo una cert'aria  di  museo  anatomico,  che  rende  più  verosimile
l'apparenza cadaverica dei simulacri e fa qualche  volta  torcere  il  viso  con
orrore. Arrivati in fondo, sembra  d'esser  passati  per  una  sala  dell'antico
serraglio, in mezzo a tutta la  Corte,  agghiacciata  di  terrore  da  un  grido
minaccioso del Padiscià; ed uscendo e incontrando sulla piazza  dell'Atmeidan  i
pascià in abito nero e i nizam vestiti modestamente alla zuava, oh come par mite
ed amabile la Turchia dei nostri giorni!

E anche di là ritorno irresistibilmente fra le tombe, in mezzo agli innumerevoli
turbé imperiali sparsi per la città  turca,  che  rimarranno  sempre  nella  mia
memoria come una delle più gentili manifestazioni dell'arte  e  della  filosofia
musulmana. Un firmano ci fece aprire, per  il  primo,  il  turbè  di  Mahmud  il
riformatore, posto poco lontano dall'Atmeidan, in un giardino pieno di rose e di
gelsomini. È un bel tempietto esagono, di marmo bianco, coperto  di  una  cupola
rivestita di piombo,  sostenuto  da  pilastri  ionici  e  rischiarato  da  sette
finestre chiuse da inferriate dorate, alcune delle quali guardano in  una  delle
vie principali di Stambul. Le pareti  interne  sono  ornate  di  bassorilievi  e
decorate di tappeti di seta e di broccato. Nel mezzo sorge il sarcofago  coperto
di bellissimi scialli persiani; e v'è sopra il fez, emblema della  riforma,  col
pennacchietto scintillante di diamanti,  e  intorno  una  graziosa  balaustrata,
intarsiata di madreperla, che racchiude  quattro  grandi  candelabri  d'argento.
Lungo le pareti ci sono i sarcofagi di sette sultane. Il pavimento è coperto  di
stuoie finissime e di  tappeti  variopinti.  Qua  e  là,  sopra  ricchi  leggii,
brillano dei corani preziosi,  scritti  in  caratteri  d'oro.  In  una  cassetta
d'argento v'è  un  lungo  pezzo  di  mussolina,  arrotolato,  tutto  coperto  di
minutissimi caratteri arabi, tracciati dalla mano di Mahmud. Prima di salire  al
trono,  quando  viveva  prigioniero  nell'antico  serraglio,   egli   trascrisse
pazientemente su quel pezzo di stoffa una gran  parte  del  Corano,  e  morendo,
ordinò che quel suo ricordo giovanile fosse posto sulla sua tomba.  Dall'interno
del turbé si vede a traverso le inferriate dorate il verde  del  giardino  e  si
sente l'odor delle rose; una luce viva rischiara tutto  il  tempietto;  tutti  i
rumori della città vi risuonano come sotto un  portico  aperto;  le  donne  e  i
fanciulli, dalla strada, s'affacciano alle finestre e bisbigliano una preghiera.
V'è in tutto questo un che di primitivo e di dolce, che tocca il cuore. Pare che
non il cadavere, ma l'anima del Sultano sia chiusa fra quelle pareti, e che veda
e senta ancora il suo popolo, che passa e lo saluta. Morendo, egli non ha  fatto
che cambiare di chiosco; dai chioschi del Serraglio è venuto in quest'altro, non
meno ridente, ed è sempre alla luce del sole, in mezzo allo strepito della  vita
di Stambul, tra i suoi figli, anzi più vicino  ad  essi,  sull'orlo  della  via,
sotto gli occhi di tutti,  e  mostra  ancora  al  popolo  il  suo  pennacchietto
scintillante come quando andava alla moschea, pieno  di  vita  e  di  gloria,  a
pregare per la prosperità dell'Impero. E così son quasi tutti gli  altri  turbé,
quello d'Ahmed, quello di Bajazet,  che  appoggia  la  testa  sopra  un  mattone
composto colla polvere raccolta dai suoi abiti e dalle sue babbuccie; quello  di
Solimano, quello di Mustafà e di Selim III, quello d'Abdul-Hamid,  quello  della
sultana Rosellana. Son tempietti sostenuti da pilastri  di  marmo  bianco  e  di
porfido, luccicanti d'ambra e di madreperla; in alcuni dei quali scende  l'acqua
piovana, per un'apertura della cupola, a bagnare i fiori  e  l'erbe  intorno  ai
sarcofagi, coperti di velluti e di trine; e dalle volte pendono ova di struzzo e
lampade dorate che rischiarano le tombe dei principi, disposte a corona  intorno
al sepolcro paterno, con su i fazzoletti che servirono a  strozzarli  bambini  o
giovinetti; forse  per  indurre  nei  fedeli,  colla  pietà  delle  vittime,  il
sentimento della necessità fatale di quei delitti. E ricordo,  che  a  furia  di
vedere immagini di quelle morti, cominciavo a sentire in me come un principio di
asservimento del pensiero e del cuore  alla  iniqua  ragione  di  Stato  che  le
sanciva; come a furia di trovare a ogni passo, nelle moschee, nelle fontane, nei
turbé, in mille immagini, ricordato e glorificato il nome d'un uomo, una potenza
assoluta e suprema, qualche cosa, dentro di me, cominciava a sottomettersi; come
a furia di errare all'ombra dei cimiteri e di fissare il pensiero nei  sepolcri,
cominciavo a considerare sotto un nuovo  aspetto,  quasi  sereno,  la  morte;  a
provare un sentimento più queto e più noncurante della vita;  a  abbandonarmi  a
non so che filosofia odiosa, a un vagare indefinito del pensiero,  a  uno  stato
nuovo dell'animo, in cui  mi  pareva  che  il  meglio  fosse  passare  il  tempo
placidamente sognando e lasciare che quello che è scritto si compia.  E  provavo
un sentimento improvvido di uggia  e  d'avversione  quando  in  mezzo  a  quelle
fantasie  serene  e  quiete,  mi  s'affacciava  l'immagine  delle  nostre  città
affaticate, delle nostre chiese oscure, dei nostri cimiteri murati e deserti.

[I dervis] E anche i dervis mi passano dinanzi, fra le immagini di quegli ultimi
giorni; e sono i dervis Mevlevi (il più famoso dei trentadue ordini)  che  hanno
un notissimo tekké in via di  Pera.  Ci  andai  preparato  a  vedere  dei  volti
luminosi di santi, rapiti da allucinazioni paradisiache. Ma  ci  ebbi  una  gran
delusione. Ahimè! anche nei dervis la fiamma della fede "lambe  l'arido  stame".
La famosa danza divina non mi parve che una  fredda  rappresentazione  teatrale.
Sono curiosi a vedersi, senza dubbio, quando entrano  nella  moschea  circolare,
l'un dietro l'altro, ravvolti in un grande mantello bruno, col capo basso, colle
braccia nascoste, accompagnati da una musica barbara, monotona e dolcissima, che
somiglia al gemito del vento fra i  cipressi  del  cimitero  di  Scutari,  e  fa
sognare a occhi aperti; e quando girano intorno,  e  s'inchinano  a  due  a  due
dinanzi al Mirab, con un movimento maestoso e languido che fa nascere un  dubbio
improvviso sul loro sesso. Così è pure una bella scena quando buttano  in  terra
il mantello con un gesto vivace, e appariscono tutti vestiti  di  bianco,  colla
lunga gonnella di lana, e allargando le braccia in atto amoroso e rovesciando la
testa, si abbandonano l'un dopo l'altro ai giri, come se  fossero  slanciati  da
una mano invisibile; e quando girano tutti  insieme  nel  mezzo  della  moschea,
equidistanti fra loro, senza scostarsi d'un filo dal proprio posto, come  automi
sur  un  perno,  bianchi,  leggeri,  rapidissimi,  colla   gonnella   gonfia   e
ondeggiante, e cogli occhi socchiusi; e quando  si  precipitano  tutti  insieme,
come atterrati da una apparizione sovrumana, soffocando contro il  pavimento  il
grido tonante di Allà; e quando ricominciano a inchinarsi e a baciarsi le mani e
a girare intorno, rasente il muro, con un passo grazioso  tra  l'andatura  e  la
danza. Ma le estasi, i rapimenti, i volti trasfigurati,  che  tanti  viaggiatori
videro e descrissero, io non li vidi. Non vidi che dei  ballerini  agilissimi  e
infaticabili che facevano il loro mestiere colla massima indifferenza. Vidi anzi
delle risa represse; scopersi un giovane dervis che non pareva  punto  scontento
d'esser guardato fisso da una signora inglese affacciata a una tribuna in faccia
a lui; e ne colsi sul fatto  parecchi  che,  nell'atto  di  baciar  le  mani  ai
compagni,  tiravano  a  morderli  di  nascosto,  e  questi  li  respingevano   a
pizzicotti. Ah gl'ipocriti! Quello che mi fece più senso fu il vedere  in  tutti
quegli uomini, e ce n'eran d'ogni età e d'ogni aspetto, una grazia e un'eleganza
di mosse e d'atteggiamenti, che potrebbero invidiare molti dei nostri  ballerini
da salotto; e che è certo un pregio naturale delle razze  orientali,  dovuto  ad
una particolare struttura del corpo. E lo notai anche meglio un altro giorno, in
cui potei penetrare in una celletta del tekké, e veder da vicino un  dervis  che
si preparava alla funzione. Era un giovane imberbe, alto e snello, di  fisonomia
femminea. Si stringeva ai fianchi la sottana bianca, guardandosi nello specchio;
si voltava verso di noi e sorrideva; si tastava colle mani la vita  sottile;  si
accomodava in fretta, ma con garbo, e con un occhio d'artista,  tutte  le  parti
del  vestimento,  come  una  signora  che  dia  gli  ultimi  tocchi   alla   sua
acconciatura; e visto di dietro, con quello  strascico,  presentava  infatti  il
profilo di un bel fusto di ragazza vestita da ballo che domandasse  un  giudizio
allo specchio.... Ed era  un  frate!.  Oh  strane  cose  in  vero,  come  diceva
Desdemona a Otello.

[Ciamligià] Ma il più bello dei miei ultimi  ricordi  è  sulla  cima  del  monte
Ciamligià, che s'alza alle spalle di Scutari. Di là  diedi  alla  città  il  mio
ultimo saluto, e fu l'ultima e la più splendida  delle  mie  grandi  visioni  di
Costantinopoli. Andammo  a  Scutari  allo  spuntare  del  giorno  con  un  tempo
nebbioso. La nebbia c'era ancora, quando s'arrivò sulla cima del  monte;  ma  il
cielo prometteva una giornata serena. Sotto di noi, tutto era nascosto. Era  uno
spettacolo  singolarissimo.  Una  immensa  tenda  grigia  orizzontale,  che  noi
dominavamo tutta collo sguardo, copriva Scutari, il  Bosforo,  il  Corno  d'oro,
tutta Costantinopoli. Non si vedeva assolutamente nulla. La  grande  città,  con
tutti i suoi sobborghi e tutti i suoi porti, pareva che fosse sparita. Era  come
un mare di nebbia da cui non usciva che la cima di Ciamligià, come  un'isola.  E
noi guardavamo quel mare grigio, immaginando di essere  due  poveri  pellegrini,
venuti d'in fondo all'Asia Minore, e arrivati là, prima dell'alba, sopra  quella
gran nebbia, senza sapere che ci fosse sotto  la  grande  metropoli  dell'Impero
ottomano, e provavamo un gran piacere a seguire  colla  fantasia  il  sentimento
crescente di stupore e di  meraviglia  che  quei  pellegrini  avrebbero  provato
vedendo apparire a poco a poco, al levarsi del sole,  sotto  quell'immenso  velo
grigio, la città meravigliosa e inaspettata. E infatti, di là a  poco,  il  velo
fittissimo si cominciò a rompere nello stesso tempo in varii  punti.  Si  videro
apparire qua e là, su quella vasta superficie grigia, come  tanti  principii  di
città, che parevano isolette; un arcipelago di cittadine nuotanti nella  nebbia,
e sparpagliate a grandi distanze: la  cima  di  Scutari,  le  sette  cime  delle
colline di Stambul, la sommità di Pera, i sobborghi più alti della riva  europea
del Bosforo, la cresta di Kassim Pascià, qualcosa di  confuso  dei  più  lontani
sobborghi del  Corno  d'Oro,  laggiù  verso  Eyub  e  Hass-Kioi;  venti  piccole
Costantinopoli, rosate ed aree, irte di  innumerevoli  punte  bianche,  verdi  e
argentine.  Poi  ciascheduna  prese  a  allargarsi,  a   allargarsi,   come   se
s'innalzasse lentamente sopra quel mare vaporoso, e  venivan  su,  a  galla,  da
tutte le parti, migliaia di tetti, di cupole, di torri, di minareti, che  pareva
s'affollassero, o si schierassero in furia, per trovarsi al proprio posto  prima
di esser sorprese dal sole. Già si vedeva sotto tutta Scutari; in faccia,  quasi
tutta Stambul; sull'altra riva del Corno d'oro, la parte più  alta  di  tutti  i
sobborghi che si stendono da Galata alle Acque dolci; e sulla riva  europea  del
Bosforo, Top-hané, Funduclú, Dolma bagcè, Besci-tass, e via, a perdita  d'occhi,
città accanto a città, gradinate immense di edifizi, e città più lontane che non
mostravano che  la  fronte,  suffuse  dall'aurora  d'un  soavissimo  rossore  di
corallo. Ma il Corno d'oro,  il  Bosforo,  il  mare  erano  ancora  nascosti.  I
pellegrini non ci  avrebbero  capito  nulla.  Avrebbero  potuto  immaginare  che
l'immensa città fosse fabbricata  sopra  due  valli  profonde,  e  perpetuamente
nebbiose, di cui l'una entrasse nell'altra, e domandarsi  che  cosa  si  potesse
nascondere in quei due abissi misteriosi. Ma ecco, in pochi momenti,  il  grigio
delle ultime nebbie si chiarisce - azzurreggia - splende - è acqua - è una  rada
- uno stretto - un mare - due mari: tutta Costantinopoli è  là,  immersa  in  un
oceano di luce, d'azzurro e di verde, che par creato  da  un'ora.  Ah!  in  quel
punto, s'ha un bell'avere già contemplato da mille altezze quella bellezza, s'ha
un bell'averla scrutata in tutti i suoi particolari, e aver  espresso  in  mille
modi lo stupore e l'ammirazione; ma  bisogna  strepitare  e  gridare  ancora;  e
pensando che fra pochi giorni tutto sparirà dai nostri occhi, per non esser  più
che un ricordo confuso, che quel velo di nebbia non si alzerà  mai  più,  che  è
quello il momento di dare l'ultimo addio a ogni  cosa...  non  so...  sembra  di
dover partire per l'esilio e che l'orizzonte della nostra vita s'oscuri.

Eppure anche a Costantinopoli, negli ultimi giorni, ci colse la noia.  La  mente
affaticata si rifiutava  alle  nuove  impressioni.  Passavamo  sul  ponte  senza
voltarci. Tutto ci pareva  d'un  colore.  Giravamo  senza  scopo,  sbadigliando,
coll'aria di vagabondi sconclusionati. Passavamo ore ed ore dinanzi a  un  caffè
turco, cogli occhi fissi sui ciottoli, o alla finestra dall'albergo a guardare i
gatti che vagavano sui tetti delle case  dirimpetto.  Eravamo  sazii  d'Oriente;
cominciavamo a sentire un bisogno prepotente di raccoglimento e di  lavoro.  Poi
piovve per due giorni: Costantinopoli  si  convertì  in  un  immenso  pantano  e
diventò tutta grigia. E quello fu il colpo di grazia.  Ci  pigliò  l'umor  nero,
dicevamo corna della città, eravamo diventati  insolenti,  sfrontati,  pieni  di
pretese e di boria europea. Chi ce l'avesse detto il giorno dell'arrivo! E a che
punto si giunse! Si giunse a far festa il giorno  che  s'uscì  dall'ufficio  del
Lloyd austriaco con due biglietti d'imbarco per Varna e per il Danubio! Ma c'era
un punto nero in quella festa, ed era il  dispiacere  di  doverci  separare  dai
nostri buoni amici di  Pera,  coi  quali  passammo  tutte  quelle  ultime  sere,
affettuosamente. Com'è tristo questo dover sempre dire addio, e  spezzar  sempre
dei legami, e lasciare un briciolo del proprio  cuore  da  per  tutto!  Non  c'è
dunque proprio in nessuna parte del mondo una bacchetta fatata con cui io  possa
un giorno, a una data ora, far ricomparire tutti  insieme  intorno  a  una  gran
tavola imbandita tutti i miei buoni amici sparsi alle quattro plaghe dei  venti:
te da Costantinopoli, Santoro; te dalle rive dell'Affrica, Selam; te dalle  dune
dell'Olanda, Ten Brink; te, Segovia, dal Guadalguivir, e te, Saavedra, dal Tago,
per gridarvi che vi avrò sempre nel cuore? Ahimè! la bacchetta non si  trova,  e
intanto gli anni passano e le speranze volano via.

I TURCHI

Ora, prima di salire sul bastimento austriaco  che  fuma  nel  Corno  d'oro,  in
faccia a Galata, pronto a  partire  per  il  Mar  Nero,  mi  rimane  da  esporre
modestamente,  da  povero  viaggiatore,  alcune   osservazioni   generali,   che
rispondano alla domanda: -  Che  cosa  t'è  parso  dei  Turchi?  -  osservazioni
spontanee, liberissime da ogni  considerazione  degli  avvenimenti  presenti,  e
ricavate tali e quali dalle mie memorie di quei giorni. A quella domanda: -  Che
cosa t'è parso dei Turchi? - mi si ravviva, per prima  cosa,  l'impressione  che
produsse in me, così il primo giorno che  l'ultimo,  l'aspetto  esteriore  della
popolazione maschia di Stambul. Anche non tenendo conto della  differenza  delle
forme fisiche, è un'impressione affatto diversa da quella che produce  la  gente
di qualunque altra città europea. Sembra di vedere  un  popolo  -  non  so  come
render meglio la mia idea - nel quale tutti pensino perpetuamente alla  medesima
cosa. La  stessa  impressione  possono  produrre,  in  un  abitante  dell'Europa
meridionale, che osservi superficialmente, gli abitanti delle città nordiche; ma
la cosa è molto diversa. Questi hanno la serietà e  il  raccoglimento  di  gente
affaccendata, che pensi ai fatti proprii; i turchi hanno l'aspetto di gente  che
pensi a qualche cosa remota e indeterminata. Paiono tutti  filosofi  assorti  in
un'idea fissa, o sonnambuli, che camminino senza accorgersi del luogo dove  sono
e delle cose che hanno intorno. Guardano tutti diritto  e  lontano  come  chi  è
abituato a contemplare dei grandi orizzonti, e hanno  una  vaga  espressione  di
tristezza negli occhi e nella bocca, come chi è abituato a vivere  molto  chiuso
in sè stesso. È in tutti la stessa gravità, la stessa compostezza  di  modi,  lo
stesso riserbo del linguaggio, dello sguardo, dei gesti. Paiono  tutti  signori,
educati tutti ad un modo, dal pascià al merciaiolo, e ammantati d'una specie  di
dignità aristocratica, la quale  fa  sì  che  nessuno  s'accorgerebbe,  a  primo
aspetto, che ci sia una  plebe  a  Stambul,  se  non  fosse  la  differenza  dei
vestimenti. Son quasi tutti visi freddi, che non rivelano affatto l'animo  e  il
pensiero. È rarissimo trovare una di quelle fisonomie chiare, così frequenti tra
noi, che sono come lo specchio d'un'indole amorevole o appassionata o bisbetica,
e che consentono un giudizio pronto e sicuro dell'uomo. Fra loro ogni viso è  un
enimma; il loro sguardo interroga, ma non risponde; la loro bocca  non  tradisce
nessun movimento del cuore.  Non  si  può  dire  quanto  pesi  sull'animo  dello
straniero  questo  mutismo  dei  volti,  questa  freddezza,  questa   uniformità
d'atteggiamenti statuarii e di sguardi fissi, che non dicono nulla. A volte vien
voglia di gridare in mezzo alla folla: - Ma  scotetevi  una  volta!  diteci  chi
siete, che cosa pensate, che cosa vedete dinanzi a voi,  per  aria,  con  quegli
occhi di vetro! - E la cosa par tanto strana, che si stenta quasi a credere  che
sia naturale; si dubita, in qualche momento, che sia una finzione  convenuta,  o
l'effetto passeggiero di qualche malattia morale comune a tutti i  musulmani  di
Costantinopoli. Dà nell'occhio alle prime, però, in quella uniformità di modi  e
d'atteggiamenti, una differenza notevole d'aspetto fra una parte e l'altra della
popolazione. I tratti originali della razza turca, che è bella  e  robusta,  non
son rimasti inalterati che nel basso popolo,  che  serba  per  necessità  o  per
sentimento religioso la sobrietà di vita dei suoi padri. In  esso  si  vedono  i
corpi asciutti e vigorosi, le  teste  ben  formate,  gli  occhi  vivi,  il  naso
aquilino, le ossa mascellari prominenti, e un che di forte e d'ardito  in  tutte
le forme della persona. I turchi delle alte classi, per contro, in cui è  antica
la corruzione e maggiore la mescolanza del sangue straniero, hanno  per  lo  più
dei corpi grossi d'una molle pinguedine,  teste  piccine,  fronti  basse,  occhi
senza lampo, labbra cadenti. E a questa differenza fisica  corrisponde  una  non
meno grande, o forse maggiore differenza morale, che è quella che corre  fra  il
turco vero, schietto, antico, e  quell'essere  ambiguo,  senza  colore  e  senza
sapore, che si  chiama  il  turco  della  riforma.  Dal  che  nasce  una  grande
difficoltà allo studiare quello che si chiama in modo generale il popolo  turco;
poichè colla parte di esso, che ha serbato intatto il carattere nazionale, o non
c'è modo di mescolarsi o non c'è verso  d'intendersi;  e  l'altra  parte,  colla
quale c'è facilità di commercio e d'osservazione, non rappresenta fedelmente  nè
l'indole ne le idee della nazione. Ma nè la corruzione  nè  la  nuova  tinta  di
civiltà europea ha ancora tolto ai turchi delle classi superiori quel non so che
d'austero e di vagamente triste, che si osserva nel popolo  basso,  e  che,  non
considerato negli individui, ma  nella  generalità  della  popolazione,  produce
un'impressione   innegabilmente   favorevole.   A    giudicarne,    in    fatti,
dall'apparenza, la popolazione turca di Costantinopoli parrebbe la più civile  e
la più onesta dell'Europa. Non si dà caso, nemmeno per le strade  più  solitarie
di Stambul, che uno straniero sia insultato; si  possono  visitare  le  moschee,
anche durante le preghiere, con assai più sicurezza d'essere rispettati che  non
potrebbe averne un turco che visitasse le  nostre  chiese;  tra  la  folla,  non
s'incontra mai uno sguardo, non  dico  insolente,  ma  neanche  troppo  curioso;
rarissime le risse, rarissima la gente del popolo che si scanagli in mezzo  alla
strada, nessun vocìo di donnacole alle porte,  alle  finestre,  nelle  botteghe;
nessun'apparenza pubblica di prostituzione, nessun atto  indecente;  il  mercato
poco meno dignitoso della moschea; per tutto una gran parsimonia di gesti  e  di
parole; non canti, non risate clamorose,  non  schiamazzi  plebei,  non  crocchi
importuni che impediscano il passo; visi, mani e piedi puliti; rari i  cenci,  e
raramente sudici; punto becerume; e una manifestazione universale e reciproca di
rispetto fra tutte le classi sociali. Ma ciò non è che apparenza.  Il  marcio  è
nascosto. La corruzione è dissimulata dalla separazione dei due sessi, l'ozio  è
larvato dalla quiete, la dignità fa da  maschera  all'orgoglio,  la  compostezza
grave dei visi, che  pare  indizio  di  profondi  pensieri,  nasconde  l'inerzia
mortale dell'intelletto, e quella che sembra temperanza civile di  vita,  non  è
che mancanza di vera vita. La natura, la  filosofia,  l'intera  vita  di  questo
popolo è significata da uno stato particolare dello spirito e del corpo, che  si
chiama Kief, e che è il supremo dei suoi piaceri. Aver mangiato parcamente, aver
bevuto un bicchiere d'acqua di fonte, aver detto le preghiere, sentire la  carne
quieta e la coscienza tranquilla, e star così, in un punto da  cui  si  veda  un
vasto orizzonte, seduti  all'ombra  d'un  albero,  seguitando  collo  sguardo  i
colombi del cimitero sottoposto, i bastimenti  lontani,  gl'insetti  vicini,  le
nuvole del cielo e il fumo del narghilé, pensando vagamente a Dio,  alla  morte,
alla vanità dei beni della terra e alla dolcezza del  riposo  eterno  d'un'altra
vita: ecco il Kief. Star spettatore inoperoso del gran teatro del mondo: ecco la
grande aspirazione del turco. A questo lo porta la sua natura antica di  pastore
contemplativo e lento, la sua religione che lega le braccia all'uomo, rimettendo
ogni cosa a Dio, la sua tradizione di soldato dell'islamismo, per il  quale  non
c'è altra azione veramente grande e necessaria che combattere e vincere  per  la
propria fede, e finita la battaglia, ogni dovere è compiuto. Per  lui,  tutto  è
fatale; l'uomo non è che uno strumento nelle mani della Provvidenza;  è  inutile
che egli si agiti per  dare  alle  cose  umane  altro  corso  da  quello  che  è
prescritto nel cielo; la terra è un caravanserai; Dio ha creato l'uomo perchè vi
passi, pregando e ammirando le suo opere; lasciamo fare a Dio;  lasciamo  cadere
quello che cade e passare quello che passa; non ci affanniamo per rinnovare, non
ci affanniamo per conservare. Così il suo supremo desiderio è la quiete, ed egli
si preserva con somma cura da tutte le commozioni che possono turbare  l'armonia
pacata della sua vita. Quindi nè avidità di sapere, nè febbre  di  guadagni,  nè
furore di viaggi, nè passioni vaghe e inappagabili  d'amore  e  d'ambizione.  La
mancanza dei moltissimi bisogni intellettuali e fisici, per soddisfare  i  quali
noi lottiamo con un lavoro continuo, fa sì ch'egli non comprenda nemmeno in  noi
la ragione di questo lavoro. Egli lo considera come un  indizio  di  aberrazione
morbosa  del  nostro  spirito.   L'ultimo   scopo   d'ogni   fatica   parendogli
necessariamente la pace di cui egli gode senza affaticarsi, gli pare altresì che
sia più saggio e più utile l'arrivarci per la via breve e piana per cui egli  ci
arriva. Tutto il grande lavorìo di pensieri e di braccia dei popoli europei, gli
pare un anfanamento puerile, perchè non ne vede gli effetti in  una  possessione
maggiore della sua felicità ideale. Non lavorando, non ha sentimento del  valore
del tempo; e mancandogli questo sentimento, non può nè  desiderare  nè  pregiare
tutti i trovati dell'ingegno umano che  tendono  ad  accelerare  la  vita  e  il
cammino dell'umanità. È capace di domandarsi a che cosa giovi una strada ferrata
se non conduce a una città dove si possa viver più felici che in quella  da  cui
si parte. La sua fede fatalista,  che  gli  fa  parer  vano  il  darsi  pensiero
dell'avvenire, è cagione pure ch'egli non pregi nessuna cosa  se  non  per  quel
tanto di godimento sicuro e immediato che gli può procurare. Perciò non gli pare
che un sognatore l'europeo che prevede e che prepara, che  getta  le  fondamenta
d'un edifizio di cui non vedrà il compimento, che  consuma  le  sue  forze,  che
sacrifica la sua pace ad un fine dubbio e  lontano.  Perciò  giudica  la  nostra
razza una razza frivola, meschina, presuntuosa, imbastardita,  di  cui  il  solo
pregio è una scienza orgogliosa delle cose terrene, ch'egli disdegna, se non  in
quanto è costretto a valersene per non rimanerci al di sotto.  E  ci  disprezza.
Per me è questo il sentimento dominante che ispiriamo noi europei ai veri turchi
che costituiscono ancora la grande maggioranza della nazione; e si potrà  negare
e fingere di non crederci; ma non si può non sentire da chi sia vissuto  poco  o
molto in mezzo a loro. E questo sentimento di disprezzo deriva da molte cagioni:
la prima delle quali è la considerazione d'un fatto significantissimo per  essi:
che cioè, da più di quattro  secoli,  benchè  relativamente  scarsi  di  numero,
dominano una gran parte di Europa di fede avversa alla loro, e vi si  mantengono
malgrado tutto quello che accadde e che accade. La parte  minima  della  nazione
vede la cagione di questo fatto nelle gelosie  e  nelle  discordie  degli  Stati
d'Europa; la parte maggiore la  vede  invece  nella  superiorità  delle  proprie
forze, e nel nostro avvilimento. Non cade neppur nella mente, infatti, a  nessun
turco del volgo che un'Europa islamitica avrebbe subito e  subirebbe  l'affronto
d'una conquista cristiana dai Dardanelli  al  Danubio.  Ai  vanti  della  nostra
civiltà, essi oppongono il fatto della loro dominazione. Orgogliosi  di  sangue,
fortificati  in  quest'orgoglio  dalla  consuetudine  dell'impero,  abituati   a
sentirsi dire, in nome di Dio, ch'essi appartengono a una razza  conquistatrice,
nata alla guerra, non al lavoro, abituati anzi a vivere del  lavoro  dei  vinti,
non comprendono nemmeno come i popoli  soggetti  a  loro  possano  accampare  un
diritto qualsiasi all'eguaglianza civile. Per loro, posseduti da una fede  cieca
nel  regno  sensibile  della  Provvidenza,  la  conquista  dell'Europa  è  stata
l'adempimento di un decreto di Dio; è Dio che  li  ha  investiti,  in  segno  di
predilezione, di questa sovranità terrena; e il  fatto  ch'essi  la  conservino,
contro tante forze ostili, è una prova incontestabile del loro diritto divino, e
nello stesso tempo un argomento luminoso in favore della verità della loro fede.
Contro questo loro sentimento si spezzano tutti i ragionamenti  di  civiltà,  di
diritto, d'eguaglianza. La civiltà per loro non è che una forza ostile che  vuol
disarmarli senza combattere, a poco a poco, a tradimento, per abbassarli a  paro
dei loro  soggetti  e  spogliarli  della  loro  dominazione.  Quindi,  oltre  al
disprezzarla come vana, la temono come nemica; e poichè non possono  respingerla
colla  forza,  le  oppongono  la  invincibile  resistenza  della  loro  inerzia.
Trasformarsi, incivilirsi, eguagliarsi ai loro soggetti,  essi  comprendono  che
significa doversi mettere a gareggiare con quelli  d'ingegno,  di  studio  e  di
lavoro; acquistare una superiorità nuova; rifare colle forze  dello  spirito  la
conquista già fatta colla spada; e a questo s'oppone, oltre  il  loro  interesse
materiale di dominatori, il loro disprezzo religioso per gli infedeli,  la  loro
alterezza soldatesca, la loro indolenza fatta seconda natura, l'indole del  loro
ingegno mancante d'ogni facoltà iniziatrice, e  intorpidito  nell'immobilità  di
quelle cinque idee tradizionali, che formano tutto il  patrimonio  intellettuale
della nazione. Essi non vedono, d'altra parte, in  quella  classe  sociale,  che
accetta, secondo loro, la civiltà europea, e che rappresenta ai  loro  occhi  lo
stato in cui l'Europa vorrebbe veder ridotti tutti i figli d'Osmano, non  vedono
in quei loro fratelli in soprabito e in guanti, che balbettano il francese e non
vanno alla moschea, un  esempio  che  possa  ragionevolmente  convertirli.  Come
rappresenta la civiltà quella parte della nazione ottomana? Su questo son presso
a poco tutti d'accordo. Il nuovo turco non vale il  vecchio.  Egli  ha  preso  i
nostri panni, i nostri comodi, i nostri vizii,  le  nostre  vanità;  ma  non  ha
accolto, per ora, nè i nostri  sentimenti,  nè  le  nostre  idee;  e  in  questa
trasformazione parziale, ha perduto quello che c'era di buono in fondo alla  sua
natura genuina di Osmano. Il  vecchio  turco  non  vede  per  ora  altri  frutti
dell'incivilimento che  una  più  diffusa  peste  dicasterica,  un'impiegataglia
innumerevole, oziosa, inetta, miscredente, rapace, mascherata alla  franca,  che
disprezza tutte le  tradizioni  nazionali,  e  una  specie  di  jeunesse  dorée,
corrotta e sfrontata, che promette di riuscire assai peggiore  dei  suoi  padri.
Così vestire e così vivere, giusta il concetto del vero turco, è esser civili; e
infatti egli chiama fare, pensare, vivere alla franca, tutti gli usi e tutte  le
azioni che non solo la sua coscienza di maomettano, ma la coscienza di qualunque
uomo onesto condanna. Considera quindi gli "inciviliti", non come musulmani  più
avanzati degli altri sulla via  d'un  miglioramento  qualsiasi;  ma  come  gente
scaduta, traviata, poco meno che apostata e  che  traditrice  della  nazione;  e
diffida delle novità, e le respinge per quanto è  in  lui,  non  foss'altro  che
perchè gli vengono da quella parte, in cui egli ne vede tutto giorno gli effetti
funesti. Ogni novità europea è per lui un attentato contro il  suo  carattere  e
contro i suoi interessi. Il governo è rivoluzionario, il popolo è  conservatore;
la semenza delle nuove idee casca in un terreno rigido e unito  che  le  rifiuta
gli umori per la fecondazione; la mano di chi regge le cose,  stringe  ed  agita
l'elsa; ma la lama gira nel manico. Questa è la ragione per  cui  tutta  l'opera
riformatrice che si va tentando da cinquant'anni, non ha ancora passato la prima
pelle della nazione. Si sono mutati i nomi, sono rimaste le cose. Il poco che fu
fatto, fu fatto colla violenza, e  a  questo  il  popolo  attribuisce  l'audacia
crescente degl'infedeli, la corruzione che piglia campo nel cuore dell'impero, e
tutte le sventure nazionali.  Perchè  mutare  le  nostre  istituzioni,  egli  si
domanda, se son quelle colle quali abbiamo vinto e dominato per  secoli?  Perchè
adottar quelle che non ebbero forza di resistere all'urto  della  nostra  spada?
L'organesimo, la vita, le tradizioni del popolo turco son quelle  d'un  esercito
vincitore accampato in Europa; esso ne esercita il comando, ne gode i  privilegi
e gli ozii, e ne sente l'orgoglio; e come  tutti  gli  eserciti,  preferisce  la
disciplina di ferro, che gli concede la prepotenza sui vinti, a  una  disciplina
più mite, ma che incatena il suo arbitrio  di  vincitore.  Ora  lo  sperare  che
questo stato di cose, immobile da secoli, possa mutare nel giro di pochi anni, è
un sogno. Le avanguardie leggere della civiltà possono procedere quanto vogliono
rapidamente; ma il grosso dell'esercito, carico ancora  delle  pesanti  armature
medioevali, o non si muove, o non le segue che alla lontana, a lentissimo passo.
Non  sono  che  cose  di  ieri,  convien  ricordarsi,  il  dispotismo  cieco,  i
giannizzeri, il serraglio coronato di teste,  il  sentimento  dell'invincibilità
degli osmani, il  raià  considerato  e  trattato  con  un  essere  immondo,  gli
ambasciatori di Francia vestiti e pasciuti sul limitare della  sala  del  trono,
per simboleggiare la vile povertà degl'infedeli al cospetto del Gran Signore. Ma
su questo argomento, non c'è, credo, gran disparità di pareri  nemmeno  fra  gli
Europei e i Turchi medesimi. La disparità dei giudizii, e quindi  la  difficoltà
per uno straniero di dare un giudizio proprio, è nell'estimazione  delle  intime
qualità individuali del turco; poichè a interrogarne i raià, non si sentono  che
i vilipendii dell'oppresso contro l'oppressore; a domandarne gli Europei  liberi
delle colonie, i quali non hanno ragione nè di temere nè di odiare  gli  Osmani,
non solo, ma hanno mille ragioni di compiacersi dello stato attuale delle  cose,
non si ottengono in generale che giudizii,  forse  coscienziosamente,  ma  certo
eccessivamente favorevoli. I più di questi  sono  concordi  nel  riconoscere  il
turco probo, franco, leale, e sinceramente religioso. Ma riguardo al  sentimento
religioso, la cui conservazione gli potrebbe esser tenuta in conto  d'un  grande
merito, è da notarsi che la religione in cui si mantiene saldo, non s'oppone  ad
alcune delle sue tendenze e ad alcuno dei suoi interessi;  accarezza,  anzi,  la
sua natura sensuale, giustifica la sua inerzia,  sancisce  la  sua  dominazione;
egli vi si attiene tenacemente, poichè sente che la sua nazionalità  è  nel  suo
dogma e il suo destino nella sua fede. Riguardo alla probità,  si  citano  molte
prove di fatti individuali dei quali si potrebbero  citare  esempi  innumerevoli
anche fra il più corrotto popolo europeo. Ma è da considerarsi, anche  a  questo
riguardo, che non ha poca parte l'ostentazione nella probità che mostra il turco
nei suoi commerci coi cristiani, coi quali fa spesso per orgoglio quello che non
farebbe per semplice impulso della coscienza, poichè gli  ripugna  di  comparire
dappoco in faccia a gente a cui si tiene superiore di razza e di valore  morale.
Così nascono pure dalla sua  stessa  condizione  di  dominatore  certe  qualità,
astrattamente pregevoli, di franchezza, di fierezza, di dignità, che non  è  ben
certo se avrebbe conservate, messo nella condizione di chi gli è  soggetto.  Non
gli si può negare, però, nè il sentimento della  carità,  il  quale  è  il  solo
balsamo agl'infiniti mali della  sua  società  mal  ordinata,  benchè  incoraggi
l'indolenza e moltiplichi la miseria; nè altri sentimenti che  sono  indizii  di
gentilezza d'animo,  come  la  gratitudine  ch'egli  serba  per  i  più  piccoli
benefizii, il culto dei morti, la cortesia ospitale, il rispetto degli  animali.
È bello il suo  sentimento  dell'eguaglianza  di  tutte  le  classi  sociali.  È
innegabile una certa moderazione severa della sua  indole,  che  traspare  dagli
innumerevoli proverbi pieni di saggezza e  di  prudenza;  una  certa  semplicità
patriarcale, una tendenza vaga alla solitudine e alla malinconia, che esclude la
volgarità e la tristizia dell'animo. Senonchè tutte queste qualità  galleggiano,
per così dire, al sommo dell'anima sua, nella  quiete  non  turbata  della  vita
ordinaria; e v'è in fondo, come addormentata, la sua violenta  natura  asiatica,
il suo fanatismo, il suo furore di soldato, la  sua  ferocia  di  barbaro,  che,
stimolati, prorompono, e ne balza fuori un altr'uomo.  Il  perchè  è  giusta  la
sentenza che il turco ha un'indole mitissima quando  non  taglia  le  teste.  Il
tartaro è come rannicchiato dentro di  lui,  e  assopito.  Il  vigore  nativo  è
rimasto intero in lui, quasi custodito dalla indolente mollezza della sua  vita,
la quale non se ne serve che nelle occasioni supreme. Così gli è rimasto  intero
il coraggio di cui la cultura dell'intelligenza rallenta la molla, raffinando il
sentimento della vita, resa più cara dal concetto e dalla speranza di  godimenti
maggiori. In lui la passione religiosa e guerriera trova un campo non guasto  nè
da dubbi, nè da ribellioni dello spirito, nè da cozzi d'idee; una sostanza tutta
e istantaneamente infiammabile; un uomo tutto d'un pezzo che scatta, a un tocco,
tutto intero; una lama sempre affilata, su cui non è scritto che  il  nome  d'un
Dio e d'un Sovrano. La vita sociale ha appena digrossato in  lui  l'uomo  antico
della steppa e della capanna.  Spiritualmente,  egli  vive  ancora  nella  città
presso a poco come viveva nella tribù, in mezzo alla  gente,  ma  solitario  coi
suoi pensieri. Non c'è, anzi, fra loro, una vera vita sociale. La vita  dei  due
sessi dà l'immagine di due fiumi paralleli,  i  quali  non  confondono  le  loro
acque, se non qua e là per via  di  comunicazioni  sotterranee.  Gli  uomini  si
raccolgono fra loro, ma non vivono in intimità di pensiero gli uni cogli  altri;
si avvicinano, ma non si legano;  ciascuno  preferisce  alla  espansione  di  sè
medesimo, quella che un grande poeta definì mirabilmente  la  vegetazione  sorda
delle idee. La nostra  conversazione,  agile  e  varia,  che  scherza,  discute,
insegna, ricrea, il nostro bisogno di dare e di ricevere sentimenti e  pensieri,
questa estrinsecazione reciproca del nostro essere,  in  cui  l'intelligenza  si
esercita e il cuore si riscalda,  pochissimi  tra  loro  la  conoscono.  I  loro
discorsi  radono  quasi  sempre  la  terra  e  trattano  per  lo  più  di   cose
materialmente necessarie. L'amore è escluso,  la  letteratura  è  privilegio  di
pochi, la scienza è un mito, la politica si riduce per lo più a una quistione di
nomi, gli affari non occupano che una piccolissima parte nella vita del  maggior
numero. Alle discussioni astratte la natura della loro intelligenza si  rifiuta.
Essi non comprendono bene che quello che vedono e quello che toccano; del che  è
una prova la loro lingua  stessa,  la  quale  difetta  ogni  volta  che  c'è  da
esprimere un'astrazione; per il che i turchi istruiti sono costretti a ricorrere
all'arabo e al persiano, o a una lingua europea. Essi non  sentono  il  bisogno,
d'altra parte, di forzare la mente a comprendere cose che  son  fuori  dei  loro
desiderii, e quasi della loro vita. Il persiano è più investigatore,  l'arabo  è
più curioso: il turco non ha che una suprema indifferenza  per  quello  che  non
conosce. E non avendo idee da scambiare, non cerca la compagnia degli europei; e
non ama nè le loro interminabili e sottili discussioni, nè loro  stessi.  Nè  ci
può esser intera confidenza fra gli uni  e  gli  altri,  dacchè  l'uno  dei  due
nasconde perpetuamente una parte di sè: i suoi affetti più intimi, la sua  casa,
i suoi piaceri, e quello che più importa, il vero  sentimento  che  nutre  verso
l'altro; che è  un  sentimento  invincibile  di  diffidenza.  Il  turco  tollera
l'armeno, sprezza l'ebreo, odia il  greco,  diffida  del  franco.  Sopporta,  in
generale, tutti quanti, come un grosso animale che si lascia  passeggiare  sulla
schiena una miriade di mosche, riserbandosi a darci  su  una  codata  quando  si
senta pungere nel vivo. Lascia che tutti  facciano,  armeggino,  rimestino  ogni
cosa intorno a lui; si vale degli europei che gli possono essere utili;  accetta
le novazioni materiali di cui riconosce il vantaggio immediato;  sta  a  sentire
senza batter palpebra le lezioni di civiltà che gli si danno; muta leggi, foggie
e cerimoniali; impara a ripetere correttamente le nostre  sentenze  filosofiche;
si  lascia  travestire,  imbellettare,   mascherare;   ma   dentro   è   sempre,
immutabilmente, invincibilmente  lo  stesso.  Eppure  ripugna  alla  ragione  il
rassegnarsi a credere che l'azione lenta e continua della civiltà non possa,  in
un periodo di tempo indeterminato, infondere la scintilla d'una  nuova  vita  in
questo gigantesco soldato asiatico, che dorme a traverso ai  due  continenti,  e
non si sveglia mai che per brandire la spada. Ma considerando gli sforzi fatti e
i frutti ottenuti sinora, questo periodo di tempo appare alla mente tanto lungo,
in confronto ai bisogni e alle impazienze dei  popoli  cristiani  d'Oriente,  da
rendere vana la speranza che la quistione intorno a cui s'affanna  ora  l'Europa
si possa risolvere coll'incivilimento progressivo del  popolo  turco.  Questa  è
l'opinione che mi son formata nel mio breve soggiorno a Costantinopoli. -  O  in
che altro modo si può dunque risolvere la quistione? Ah!  signori,  qui  proprio
non mi credo obbligato a rispondere,  perchè  non  potrei  rispondere  senz'aver
l'aria di dar consigli all'Europa; e a questo si rifiuta inesorabilmente la  mia
modestia. E poi... l'ho già detto che v'è un bastimento austriaco che  fuma  sul
Corno d'oro, in faccia a Galata, pronto a partire per il Mar Nero; e il  lettore
lo sa dove deve passare, questo bastimento!

IL BOSFORO

Appena saliti a bordo, vediamo come un velo grigio stendersi su  Costantinopoli,
e su questo velo disegnarsi le montagne della Moravia e dell'Ungheria, e le alpi
della bassa Austria. È un rapido cangiamento di scena che si vede sempre salendo
sopra un bastimento in cui s'incontrano già i visi e si sentono già gli  accenti
del paese per cui si parte. Siamo imprigionati in un cerchio di faccie  tedesche
che ci fanno sentire innanzi tempo il  freddo  e  l'uggia  del  settentrione.  I
nostri amici ci hanno lasciati: non vediamo più che tre fazzoletti  bianchi  che
sventolano sopra un caicco lontano, in mezzo a un via vai di  barconi  neri,  in
faccia alla casa della dogana. Siamo nello stessissimo punto in cui si fermò  il
nostro bastimento siciliano il giorno dell'arrivo. È una bella  sera  d'autunno,
splendida e tiepida. Costantinopoli non ci è  mai  parsa  così  ridente  e  così
grande. Per l'ultima volta cerchiamo di fissarci nella  mente  i  suoi  contorni
immensi e i suoi colori vaghi di  città  fatata;  e  slanciamo  lo  sguardo  per
l'ultima volta in fondo a quel meraviglioso Corno d'oro, che  ci  si  nasconderà
fra pochi momenti per sempre. I fazzoletti bianchi sono scomparsi. Il bastimento
si muove. Tutto pare che si  sposti.  Scutari  viene  avanti,  Stambul  si  tira
indietro, Galata gira sopra sè stessa, come per vederci partire. Addio al  Corno
d'oro! Un guizzo del bastimento ci rapisce  il  sobborgo  di  Kassim-Pascià,  un
altro guizzo ci porta via Eyub, un altro, la sesta collina di Stambul;  scompare
la quinta, si nasconde la quarta, svanisce  la  terza,  sfuma  la  seconda;  non
rimane più che la collina del Serraglio, la  quale,  grazie  al  cielo,  non  ci
lascierà per un pezzo. Navighiamo già nel bel mezzo  del  Bosforo,  rapidamente.
Passa il quartiere di Top-hané, passa  il  quartiere  di  Funduclù;  fuggono  le
facciate bianche e cesellate del palazzo di Dolma-Bagcé; e Scutari distende, per
l'ultima volta, il suo anfiteatro di colli  coperti  di  giardini  e  di  ville.
Addio, Costantinopoli! cara e immensa città, sogno della mia  infanzia,  sospiro
della mia giovinezza, ricordo incancellabile della  mia  vita!  Addio,  bella  e
immortale regina dell'Oriente! Che il tempo muti le tue sorti,  senza  offendere
la tua bellezza, e possano vederti un giorno i miei figli colla stessa  ebbrezza
d'entusiasmo giovanile colla quale io ti vidi e t'abbandono.

La mestizia dell'addio, però,  non  durò  che  pochi  momenti,  perchè  un'altra
Costantinopoli, più vasta, più bella, più allegra di  quella  che  lasciavo  sul
Corno d'oro, mi si stendeva dinanzi per la lunghezza  di  ventisettemila  metri,
sulle due più belle rive della terra.

Il primo villaggio che si presenta a sinistra, sulla riva europea del Bosforo, è
Bescik-Tass; un grosso villaggio  turco,  o  piuttosto  un  grande  sobborgo  di
Costantinopoli, che si stende ai piedi  d'una  collina,  intorno  a  un  piccolo
porto. Dietro gli s'apre  una  bella  valle;  l'antica  valle  degli  allori  di
Stefano, di Bisanzio, che rimonta verso Pera; fra le case s'innalza un gruppo di
platani che ombreggiano il sepolcro  del  famoso  corsaro  Barbarossa;  un  gran
caffè, stipato di gente, sporge sulle acque, sorretto da una selva di palafitte;
il porto è pieno di barche e di caicchi; la riva affollata; la  collina  coperta
di verzura, la valle piena di case e di giardini. Ma non c'è più  l'aspetto  dei
sobborghi di Costantinopoli. C'è già la grazia e  la  gaiezza  tutta  propria  e
indimenticabile dei villaggi del Bosforo. Le forme son più piccine,  la  verzura
più fitta, i colori più arditi. È come  una  nidiata  di  casette  ridenti,  che
paiono sospese fra la terra e l'acqua, una cittadina da innamorati e  da  poeti,
destinata a durare  quanto  una  passione  od  un  estro,  piantata  là  per  un
capriccio, in una bella notte d'estate. Non vi si è ancora fissato  lo  sguardo,
che già è lontana, e ci passa davanti il palazzo di  Ceragan,  o  piuttosto  una
schiera di palazzi di marmo bianco, semplici e  magnifici,  decorati  di  lunghe
file di colonne e coronati di terrazze a balaustri,  sui  quali  si  drizza  una
merlatura vivente d'innumerevoli uccelli bianchi del Bosforo, messi  in  rilievo
dal verde vigoroso delle colline della riva. Ma qui comincia il caro tormento di
veder fuggire mille bellezze, nel punto che se ne ammira una  sola.  Mentre  noi
contempliamo Bescik-Tass e Ceragan, dall'altra parte  fugge  la  riva  asiatica,
coperta di villaggi deliziosi, che si vorrebbero poter comprare  e  portar  via,
come gioielli. Fugge Kuzgundgiuk, tinto di tutti i colori  dell'iride,  col  suo
piccolo porto, dove dice la tradizione che approdasse la giovenca Io, dopo  aver
attraversato il Bosforo, per salvarsi dai tafani  di  Giunone;  passa  Istauros,
colla sua bella moschea dai due  minareti;  scompare  il  palazzo  imperiale  di
Beylerbey, coi suoi tetti conici e piramidali, e le sue mura  gialle  e  grigie,
che presenta l'aspetto misterioso e bizzarro di un convento  di  principesse;  e
poi il villaggio di Beylerbey, riflesso dalle acque, dietro al  quale  s'innalza
il monte di Bulgurlù; e tutti questi villaggi, raccolti o  sparsi  ai  piedi  di
piccole colline verdissime, e tuffati in una vegetazione opulenta, che  par  che
tenda a coprirli, sono legati fra loro da ghirlande di ville e di casette  e  da
lunghi filari d'alberi che corrono lungo la riva, o scendono  a  zig  zag  dalle
alture al mare, a traverso a innumerevoli  giardini  e  orti  e  piccoli  prati,
disposti a scacchi e a scaglioni, e coloriti d'infinite sfumature di verde.

Bisogna dunque rassegnarsi a veder tutto di volo, girando continuamente la testa
a destra e a sinistra, con  una  regolarità  automatica.  Oltrepassato  di  poco
Ceragan, si vede, a sinistra, sulla riva europea, il grande villaggio Orta-Kioi,
al di sopra del quale mostra la sua cupola luccicante la moschea  della  Sultana
Validè, madre d'Abdul-Aziz, e  sporge  i  suoi  tetti  graziosi  il  palazzo  di
Riza-Pascià; ai piedi d'una collina, sulla  cui  cima,  in  mezzo  a  una  folta
vegetazione, s'alzano le muraglie bianche e leggiere del chiosco imperiale della
Stella. Orta-Kioi è abitato da molti banchieri armeni, franchi e greci. In  quel
momento vi  approdava  il  piroscafo  di  Costantinopoli.  Una  folla  sbarcava,
un'altra folla stava aspettando  sullo  scalo,  per  imbarcarsi.  Erano  signore
turche, signore europee, ufficiali, frati, eunuchi, zerbinotti,  fez,  turbanti,
cappellini, cappelli a staio, confusi: spettacolo che si vede in tutte le  venti
stazioni del Bosforo, principalmente la sera. In faccia a Orta-Kioi, sulla  riva
asiatica, brilla di mille colori, in mezzo a una corona di ville,  il  villaggio
di Cengel, dell'ancora, da una vecchia ancora di ferro che trovò su quella  riva
Maometto II; e gli si alza alle spalle il chiosco bianco, di trista memoria,  da
cui Murad IV, roso da un'invidia feroce, ordinava la morte della  gente  allegra
che passava pei campi cantando. Guardando daccapo verso l'Europa, ci troviamo in
faccia al bel villaggio e al porto grazioso  di  Kuru-Cesmé,  l'antica  Anaplos,
dove  Medea,  sbarcata  con  Giasone,  piantò  l'alloro  famoso;  e   voltandoci
nuovamente verso l'Asia,  vediamo  i  due  villaggi  ridenti  di  Kulleli  e  di
Vani-Kioi, sparsi lungo la riva, a destra e a sinistra d'una smisurata  caserma,
simile a un palazzo reale, che si specchia nelle acque. Dietro ai  due  villaggi
s'alza  una  collina  coronata  da  un  grande  giardino,  in  mezzo  al   quale
biancheggia, quasi tutto nascosto dagli alberi,  il  chiosco  dove  Solimano  il
Grande visse tre anni,  nascosto  in  una  piccola  torre,  per  sottrarsi  alle
ricerche delle spie e dei carnefici di suo padre Selim. Mentre noi cerchiamo  la
torre fra gli alberi, il bastimento passa dinanzi ad  Arnot-Kioi,  il  villaggio
degli Albanesi, ora abitato da Greci, disteso in forma di mezzaluna, sulla  riva
europea, intorno a un piccolo seno, pieno di bastimenti a vela. Ma come  si  può
vedere ogni cosa? Un villaggio ci ruba l'altro, una bella moschea ci distrae  da
un paesaggio gentile, e mentre si guardano i villaggi  ed  i  porti,  passano  i
palazzi dei vizir, dei pascià, delle  Sultane,  dei  grandi  eunuchi,  dei  gran
signori; case gialle, azzurre e purpuree, che  paiono  galleggianti  sull'acqua,
vestite d'edera e di liane, coperte di terrazze colme di fiori, e mezzo nascoste
in boschetti di cipressi, d'allori e d'aranci; edifizi  sormontati  da  frontoni
corinzii e decorati di  colonne  di  marmo  bianco;  villette  svizzere,  casine
giapponesi, piccole reggie moresche, chioschi turchi, di  tre  piani,  sporgenti
l'uno  sull'altro,  che  sospendono   sull'azzurro   del   Bosforo   i   balconi
ingraticolati degli arem, e spingono innanzi i loro piccoli scali a gradinate  e
i loro giardinetti accarezzati dalla corrente; tutti piccoli edifizii leggeri  e
passeggieri, che rappresentano appunto la fortuna dei loro abitatori: il trionfo
d'una giovinetta, il buon successo d'un intrigo, un'alta carica che sarà perduta
domani, una gloria che  finirà  nell'esilio,  una  ricchezza  che  svapora,  una
grandezza che crolla. Non c'è quasi tratto delle due rive che non sia coperto di
case. È una specie di Canal grande d'una smisurata Venezia campestre. Le  ville,
i chioschi, i palazzi s'alzano l'un dietro l'altro, disposti in modo  che  tutta
la facciata di ciascheduno è visibile, e quei  di  dietro  paiono  piantati  sul
tetto di quei davanti, e in mezzo agli uni  e  agli  altri,  e  di  là  dai  più
lontani, tutto è verde, per  tutto  s'alzano  punte  e  chiome  di  quercie,  di
platani, d'aceri, di pioppi, di pini, di fichi, fra cui biancheggiano fontane  e
scintillano cupolette di turbé e di moschee solitarie.

Voltandoci verso Costantinopoli, vediamo ancora, confusamente,  la  collina  del
Serraglio, e la cupola enorme di Santa Sofia, che nereggia sul cielo  limpido  e
dorato. Intanto sparisce Arnot-Kioi, Vani, Kulleli,  Cengel,  Orta,  e  tutto  è
mutato intorno a noi. Par di essere in un vasto lago. Una piccola baia si apre a
sinistra, sulla riva  europea;  un'altra  piccola  baia  a  destra,  sulla  riva
asiatica. Sulla riva di sinistra si stende  a  semicerchio  la  bella  cittadina
greca di Bebek, ombreggiata da alberi altissimi, fra i  quali  sorge  una  bella
moschea antica e il  chiosco  imperiale  d'Humaiun-Habad,  dove  altre  volte  i
Sultani ricevevano a convegni segreti gli ambasciatori europei. Una parte  della
città si nasconde nella verzura folta d'una piccola  valle;  un'altra  parte  si
sparpaglia alle falde d'una collina, coperta di quercie, sulla cima della  quale
è un bosco famoso per un'eco potentissima, che risponde alla pesta d'un  cavallo
collo  scalpitìo  d'uno  squadrone.  È  un  paesaggio  grazioso  e  ridente   da
incapricciare una regina; ma si dimentica, voltandosi dalla parte  opposta.  Qui
la riva dell'Asia offre  una  veduta  da  paradiso  terrestre.  Sopra  un  largo
promontorio si distende, ad arco sporgente, il villaggio di Kandilli, variopinto
come un villaggio olandese, con una moschea bianchissima, e un folto  corteo  di
villette; dietro al quale s'alza la collina florida di  Igiadié,  sormontata  da
una torre merlata, che spia gl'incendii sulle due rive. A  destra  di  Kandilli,
sboccano sulla baia, a breve distanza l'una dall'altra, due  valli:  quella  del
grande e quella del piccolo ruscello celeste, fra le quali si stende la prateria
deliziosa delle Acque dolci  d'Asia,  coperta  di  sicomori,  di  quercie  e  di
platani, e dominata dal chiosco ricchissimo della madre d'Abdul-Megid, disegnato
e scolpito sullo  stile  del  palazzo  di  Dolma-Bagcé,  e  circondato  di  alti
giardini, rosseggianti di rose. E di là dal "gran ruscello  celeste"  si  vedono
ancora  i  mille  colori  del  villaggio  d'Anaduli-Hissar,  steso  alle   falde
d'un'altura, su cui si drizzano le torri snelle del castello di Baiazet-Ilderim,
che fronteggia il castello di Maometto  II,  posto  sulla  riva  europea.  Tutto
questo bel tratto del Bosforo, in quel momento, era pieno di vita. Nella baia di
Europa guizzavano centinaia di barchette; passavano legni a  vela  e  a  vapore,
diretti al porto di Bebek;  i  pescatori  turchi  gettavano  le  reti  dai  loro
gabbiotti  aerei,  sostenuti  sull'acqua  da  altissime  travi  incrociate;   un
piroscafo di Costantinopoli versava sullo  scalo  della  cittadina  europea  una
folla di signore greche, di Lazzaristi,  di  allievi  della  scuola  protestante
americana, di famigliuole cariche d'involti e di vesti; e dalla  parte  opposta,
si vedevano, col cannocchiale, gruppi di signore  musulmane,  che  passeggiavano
sotto gli alberi delle Acque dolci, o stavano sedute in  crocchio  sulla  sponda
del  ruscello  celeste,  mentre  un  gran  numero  di  caicchi  e  di  barche  a
baldacchino, piene di turchi e di turche, andavano e  venivano  lungo  la  riva.
Pareva una festa. Era un non so che d'arcadico e d'amoroso, che  metteva  voglia
di buttarsi giù dal bastimento, di raggiungere a nuoto una delle due rive, e  di
piantarsi là, e di dire: - Nasca che nasca, non mi voglio più  muovere  di  qui;
voglio vivere e morir qui, in mezzo a questa beatitudine musulmana.

Ma a un tratto lo spettacolo cangia e tutte quelle fantasie pigliano il volo. Il
Bosforo si stende diritto dinanzi a noi, e presenta una vaga immagine del  Reno;
ma  d'un  Reno  ingentilito,  e  tinto  sempre  dei  colori  caldi   e   pomposi
dell'oriente. A sinistra, un cimitero coperto da un bosco di cipressi e di pini,
rompe la linea delle case, sino a quel punto non interrotta; e subito  appresso,
alle falde del piccolo monte roccioso  d'Hermaion,  s'innalzano  le  tre  grandi
torri di Rumili-Hissar, il castello  d'Europa,  circondate  di  avanzi  di  mura
merlate e di torri minori, che scendono in una gradinata  pittoresca  di  rovine
fin sull'orlo della riva. È il castello famoso che innalzò Maometto II  un  anno
prima  della  presa  di  Costantinopoli,  malgrado  le  calde   rimostranze   di
Costantino, i cui ambasciatori, come  tutti  sanno,  furono  rimandati  indietro
minacciati di morte. È quello il punto  in  cui  è  più  impetuosa  la  corrente
(chiamata perciò "gran corrente" dai Greci e corrente di Satana dai Turchi) ed è
pure il tratto più stretto del Bosforo, non distando le due rive che poco più di
cinquecento metri. Là fu gettato da Mandocle di Samo il ponte di barche  su  cui
passarono i settecentomila soldati di Dario,  e  là  pure  si  crede  che  siano
passati i diecimila, ritornando dall'Asia. Ma non rimane più  traccia  nè  delle
due colonne di Mandocle, nè del trono scavato nella roccia del  monte  Hermaion,
dal quale il re persiano avrebbe assistito al passaggio  del  suo  esercito.  Un
piccolo  villaggio  turco  sorride  segretamente,  rannicchiato  ai  piedi   del
castello, e la riva asiatica fugge  sempre  più  verde  e  più  allegra.  È  una
successione continua di casette di barcaioli e di giardinieri, di  vallette  che
riboccano di vegetazione, di piccoli  seni  solitarii  quasi  coperti  dai  rami
giganteschi degli alberi della riva, sotto  i  quali  passano  lentamente  delle
velette bianche di pescatori; di prati fioriti  che  scendono  con  un  declivio
dolcissimo fino all'orlo della riva; di  piccole  roccie  da  giardino  fasciate
d'edera; di piccoli cimiteri che  biancheggiano  sulla  sommità  di  alti  poggi
tagliati a picco. Improvvisamente, balza fuori sulla stessa  riva  asiatica,  il
bel villaggio di Kanlidgié, tutto vermiglio, posto su due promontorii  rocciosi,
contro i quali si rompono le onde rumorosamente, e ornato  d'una  bella  moschea
che slancia i suoi due minareti candidi fuori d'una macchia  di  cipressi  e  di
pini a ombrello.  E  qui  ricominciano  a  innalzarsi  i  giardini,  a  modo  di
belvederi, l'uno dietro l'altro, e a spesseggiare le ville, fra le quali splende
il palazzo  incantevole  di  quel  celebre  Fuad-Pascià,  diplomatico  e  poeta,
vanitoso, voluttuoso e gentile, che fu chiamato il Lamartine ottomano. Poco  più
innanzi, sulla riva europea, si mostra il villaggio amenissimo  di  Balta-Liman,
posto all'imboccatura d'una valletta, per cui scende nel porto un piccolo fiume,
e dominato da una collina sparsa di ville, fra le quali s'alza l'antico  palazzo
di Rescid-Pascià; e poi la piccola baia d'Emir-Ghian-Ogli Bagcè, tutta verde  di
cipressi, in mezzo  ai  quali  brilla  d'una  bianchezza  di  neve  una  moschea
solitaria, lambita dalle acque, e sormontata da un grande globo  irto  di  raggi
d'oro. Intanto il bastimento s'avvicina ora all'una ora all'altra riva, e allora
si vedono mille particolari del grande paesaggio: qui il vestibolo del  selamlik
d'una ricca casa turca, aperto sulla sponda, in fondo al quale  fuma  un  grosso
maggiordomo, coricato sopra un divano; là un eunuco, ritto  sull'ultimo  gradino
della scala esterna d'una villa, che aiuta due turche velate a  scendere  in  un
caicco; più oltre un  giardinetto  circondato  di  siepi,  e  quasi  interamente
coperto da un platano, ai piedi del quale riposa, a gambe incrociate, un vecchio
turco dalla barba bianca,  che  medita  sul  Corano;  famiglie  di  villeggianti
raccolte sulle terrazze; branchi di capre e di pecore che pascolano per i  prati
alti; cavalieri che galoppano lungo la riva, carovane di  cammelli  che  passano
sulla sommità delle colline, disegnando  i  loro  contorni  bizzarri  sul  cielo
sereno.

All'improvviso il Bosforo s'allarga, la scena cangia, siamo  di  nuovo  fra  due
baie, nel mezzo d'un vasto lago. A sinistra  è  una  baia  stretta  e  profonda,
intorno alla quale gira la cittadina greca d'Istenia; Sosthenios, dal  tempio  e
dalla statua alata che innalzarono là gli Argonauti, in onore del Genio tutelare
che li aveva resi vittoriosi nella lotta contro Amico, re di Bebrice.  Grazie  a
una  leggera  curva  che  descrive  il  bastimento   verso   l'Europa,   vediamo
distintamente i caffè e le casette schierate lungo la  riva,  le  piccole  ville
sparse fra gli olivi e i vigneti, la valle che sbocca nel porto, il  torrentello
che precipita  da  un'altura  e  la  famosa  fontana  moresca  di  marmo  bianco
nitidissimo, ombreggiata da un gruppo d'aceri enormi, da cui spenzolano le  reti
dei pescatori, in mezzo a un va e vieni di donnine greche, che portano le anfore
sul capo. In faccia a Istenia, sopra la baia della riva asiatica,  fa  capolino,
fra gli alberi, il villaggio turco di Cibulkú, dove c'era il  convento  rinomato
dei Vigili, che pregavano e cantavano, senza interruzione, il giorno e la notte.
Le due rive del Bosforo sono piene, da  un  mare  all'altro,  delle  memorie  di
questi cenobiti e anacoreti fanatici del  quinto  secolo,  che  erravano  per  i
colli, carichi di croci e di catene, tormentati da cilici e da collari di ferro,
o che stavano settimane e mesi, immobili sulla cima d'una colonna o d'un albero,
intorno a cui andavano a prostrarsi, a digiunare, a  pregare,  a  percotersi  il
petto principi, soldati, magistrati e pastori, invocando una  benedizione  o  un
consiglio, come una grazia di Dio. Ma è un potere singolare che ha  il  Bosforo,
quello di sviare irresistibilmente dal passato il pensiero del  viaggiatore  che
scorra per le prime volte lungo le sue rive. Tutti i ricordi, tutte le  immagini
più grandi, più belle o più tristi, che possa fornire la storia o la leggenda di
quei luoghi, rimangono offuscate, soverchiate, sto  per  dire  sepolte  da  quel
rigoglio prodigioso di vegetazione, da quello sfolgorio di  colori  festosi,  da
quella esuberanza di vita, dalla giovinezza poderosa e superba di  quella  bella
natura tutta sorriso e tutta festa. Bisogna fare uno sforzo per credere  che  in
quelle acque,  in  mezzo  a  quella  bellezza  fatata,  abbiano  potuto  urtarsi
furiosamente, ardersi e insanguinarsi, le flotte dei bulgari,  dei  goti,  degli
eruli, dei bizantini, dei russi, dei turchi. I castelli medesimi,  che  coronano
le colline, non destano nemmeno un'idea di quel sentimento di  terrore  poetico,
che ispirano in altri luoghi le rovine di quella natura; e paion  piuttosto  una
decorazione artificiale del paesaggio, che monumenti  veri  di  guerra,  che  un
giorno abbiano vomitato la morte. Tutto è come velato da una tinta di languore e
di dolcezza che non desta se non pensieri sereni e un desiderio immenso di pace.

Di là da Istenia il Bosforo s'allarga ancora, e il bastimento  arriva  in  pochi
minuti in un punto da cui si gode la più stupenda veduta di quante  se  ne  sono
offerte sinora ai nostri occhi. Voltandoci verso l'Europa,  abbiamo  davanti  la
piccola città greca ed armena di Ieni-Kioi, posta alle falde  d'un'alta  collina
coperta di vigneti e di boschetti di pini, e distesa ad arco sporgente sopra una
riva rocciosa, contro cui si rompe la corrente con grande strepito; e un po' più
in là, la bellissima baia di Kalender, piena di barchette, contornata di casette
da giardino, e inghirlandata da una vegetazione lussureggiante, sopra  la  quale
sporgono le terrazze aeree d'un chiosco imperiale. Voltandoci indietro,  abbiamo
davanti  la  riva  asiatica  che  s'incurva  in  un  grande  arco,  formando  un
meraviglioso anfiteatro di colli, di villaggi e  di  porti.  È  Indgir-Kioi,  il
villaggio dei fichi, coronato di giardini; accanto a Indgir-Kioi, Sultanié,  che
par nascosto in  un  bosco;  dopo  Sultanié,  il  grosso  villaggio  di  Beikos,
circondato di orti e di vigneti, e ombreggiato da altissimi noci,  il  quale  si
specchia nel più bel golfo del Bosforo, che è  l'antico  golfo  dove  il  re  di
Bebrice fu vinto da Polluce, e dov'era l'alloro prodigioso che faceva  impazzire
chi ne toccava le foglie; e di là da Beikos,  lontano,  il  villaggio  di  Iali,
l'antica Amea, che non par più che un mucchio di fiori gialli e  vermigli  sopra
un grande tappeto verde. Ma questo non è  che  un  abbozzo  del  grande  quadro.
Bisogna immaginare le forme indescrivibilmente gentili di  quei  colli,  che  si
vorrebbero accarezzare colla mano;  quegli  innumerevoli  piccolissimi  villaggi
senza nome, che paiono messi là dalla mano d'un pittore; quella  vegetazione  di
tutti i climi, quelle  architetture  di  tutti  i  paesi,  quelle  gradinate  di
giardini,  quelle  cascatelle  d'acqua,  quelle  ombre  cupe,   quelle   moschee
luccicanti, quell'azzurro picchiettato di vele bianche e quel cielo  rosato  dal
tramonto.

Ma arrivato là provai anch'io un senso di sazietà, come lo provan quasi tutti, a
un certo punto del Bosforo. Stanca quella  successione  interminabile  di  linee
molli e di colori ridenti. È una monotonia di gentilezza e di grazia in  cui  il
pensiero si addormenta. Si vorrebbe veder sorgere tutt'a un tratto sopra una  di
quelle rive una roccia smisurata e deforme o stendersi un lunghissimo tratto  di
spiaggia deserta e triste, sparsa degli avanzi d'un  naufragio.  E  allora,  per
distrarsi, non c'è che a fissar l'attenzione sulle acque.  Il  Bosforo  pare  un
porto continuo. Si passa accanto alle corazzate splendide dell'armata  ottomana;
in mezzo a flotte  di  bastimenti  mercantili  di  tutti  i  paesi,  dalle  vele
variopinte e dalle poppe bizzarre, affollate di  gente  strana;  s'incontrano  i
legni dalle forme antiche dei porti asiatici del Mar Nero, e le piccole corvette
eleganti delle Ambasciate;  passano,  come  saette,  le  barchette  a  vela  dei
signori, che volano a gara, sotto gli occhi  degli  spettatori  schierati  sulla
riva; barche di tutte le forme, piene di gente di tutti i colori, si spiccano  o
approdano ai mille piccoli scali  dei  due  continenti;  i  caicchi  rimorchiati
guizzano in mezzo a lunghe file di  barconi  carichi  di  mercanzie;  le  lancie
imbandierate dei marinai si incrociano colle zattere dei pescatori, coi  caicchi
dorati dei Pascià, coi piroscafi di Costantinopoli, pieni di turbanti, di fez  e
di veli, che attraversano il canale a zig zag per toccare tutte le  stazioni.  E
siccome anche il nostro bastimento va innanzi serpeggiando,  così  tutto  questo
spettacolo par che ci giri  intorno:  i  promontorii  si  spostano,  le  colline
cambiano inaspettatamente di forma, i villaggi si nascondono e  poi  ricompaiono
in un nuovo aspetto, e davanti e dietro di noi, ora il Bosforo si chiude come un
lago, ora s'apre e lascia vedere una fuga di laghi  e  di  colli  lontani;  poi,
tutt'a un tratto, le colline tornano a congiungersi davanti e di  dietro,  e  si
rimane in una conca verde da cui non si capisce come si potrà  uscire;  ma  s'ha
appena il tempo di scambiar dieci parole con un  vicino,  che  già  la  conca  è
sparita, e si vedono intorno nuove alture, nuove città, nuovi porti.

Si è fra la baia di Terapia, - Pharmacia, dei veleni di Medea -, e  la  baia  di
Hunchiar Iskelessi, scalo dei Sultani, dove fu  segnato  nel  1833  il  trattato
famoso che chiuse i Dardanelli alle flotte  straniere.  Qui  lo  spettacolo  del
Bosforo è al penultimo grado della sua bellezza.  Terapia  è  la  più  splendida
cittadina che orni le sue rive, dopo Bujukderè, e la valle che si apre dietro la
baia di Hunchiar-Iskelessi è la più verde, la più cara, la più poetica valle che
si possa ammirare fra il Mar di Marmara e il Mar  Nero.  Terapia  si  stende  in
parte sopra una riva diritta, ai piedi di una grande collina, e parte intorno  a
un seno profondo, che è il suo porto, pieno di bastimenti e di barche, sul quale
sbocca la valletta di Krio-nero, in cui un'altra parte  della  città  s'appiatta
fra la verzura. La riva del mare è  tutta  coperta  di  caffè  pittoreschi,  che
sporgono sull'acqua, di  alberghi  signorili,  di  casette  pompose,  di  gruppi
d'alberi altissimi, che  ombreggiano  piazzette  e  fontane;  di  là  dai  quali
s'alzano  i  palazzi  d'estate  delle  Ambasciate  di  Francia,  d'Italia  e  di
Inghilterra, e sopra questi, un chiosco imperiale; e tutt'intorno, e su  per  la
collina, terrazze su terrazze, giardini su giardini, ville su  ville,  boschetti
sopra boschetti; e gente vestita di vivi colori formicola nei caffè, nel  porto,
sulle rive, su per i sentieri delle alture, come in  una  piccola  metropoli  in
festa. Dalla parte dell'Asia, invece, tutto è  pace.  Il  piccolo  villaggio  di
Hunchiar-Iskelessi, soggiorno prediletto dei ricchi  armeni  di  Costantinopoli,
dorme fra i platani e i cipressi, intorno al  suo  piccolo  porto,  percorso  da
poche barchette furtive; di là dal villaggio, sulla cima d'una  vasta  scala  di
giardini, torreggia, solitario, il chiosco magnifico d'Abdul-Aziz; e di  là  dal
chiosco  svolta  e  si  nasconde,  in  mezzo  a  uno  sfarzo  indescrivibile  di
vegetazione tropicale, la valle favorita dei Padiscià, piena  di  misteri  e  di
sogni.

Ma tutta questa bellezza non par più nulla, un miglio  più  innanzi,  quando  il
bastimento è arrivato davanti al golfo di Bujuk-deré.  Qui  è  la  maestà  e  la
grazia suprema del Bosforo. Qui chi era già stanco della sua bellezza, ed  aveva
pronunciato irriverentemente il suo nome, si scopre la  fronte,  e  gli  domanda
perdono. Si è in mezzo a un vasto lago coronato di meraviglie, che ispira l'idea
di mettersi a girare, come i dervis, sulla prora del bastimento, per veder tutte
le rive e tutte le colline in un punto. Sulla riva d'Europa, intorno a un  golfo
profondo, dove va a morire la corrente in molli ondulazioni,  alle  falde  d'una
grande collina, sparsa di ville innumerevoli, s'allarga la città di  Bujuk-derè,
vasta, colorita come un'immensa aiuola di fiori,  tutta  palazzine,  chioschi  e
villette tuffate in una verzura vivissima, che par che  esca  dai  tetti  e  dai
muri, e colmi le strade e le piazze. La città si stende  a  destra  fino  ad  un
piccolo seno, che è come un golfo nel golfo, intorno a cui gira il villaggio  di
Kefele-Kioi; e dietro  a  questo  s'apre  una  larga  vallata,  tutta  verde  di
praterie, e biancheggiante di case, per la quale si va al grande  acquedotto  di
Mahmud e alla foresta di Belgrado. È la valle in cui, giusta la  tradizione,  si
sarebbe accampato nel 1096 l'esercito della prima  crociata;  e  uno  dei  sette
platani giganteschi, a cui il luogo deve la sua fama, è chiamato il  platano  di
Goffredo di Buglione. Di là da  Kefele-Kioi,  s'apre  un'altra  baia,  verde  di
cipressi e bianca di  case,  e  di  là  dalla  baia,  si  vede  ancora  Terapia,
sparpagliata ai piedi  della  sua  collina  verdecupa.  Arrivati  fin  là  collo
sguardo, ci si volta indietro, verso l'Asia, e si prova un sentimento  vivissimo
di sorpresa. Si è dinanzi al più alto monte del Bosforo, il monte  del  Gigante,
della forma d'una enorme piramide verde, dov'è il sepolcro famoso,  chiamato  da
tre leggende "letto d'Ercole, fossa  d'Amico,  tomba  di  Giosuè  giudice  degli
Ebrei;" custodito ora da due dervis e visitato dai musulmani infermi, che  vanno
a deporvi i brandelli dei loro vestiti. Il monte spinge le sue falde alberate  e
fiorite fin sulla riva, dove, fra due promontorii verdeggianti, s'apre la  bella
baia  d'Umuryeri,  macchiettata  di  cento  colori  dalle  case  d'un  villaggio
musulmano disperso capricciosamente sulle sue sponde, al quale fanno  ala  altri
branchi di villini e di casette, disseminate, come fiori  buttati  via,  per  le
praterie e per le alture vicine. Ma lo spettacolo non è tutto in questo cerchio.
Diritto in faccia a noi luccica il Mar Nero; e voltandoci verso  Costantinopoli,
si vede ancora, di là da Terapia, in una lontananza violacea e confusa, la  baia
di Kalender,  Kieni-Kioi,  Indgir-Kioi,  Sultanié,  che  paiono,  piuttosto  che
prospetti veri, vedute immaginarie d'un mondo remoto. Il sole tramonta; la  riva
d'Europa comincia a velarsi di ombre azzurrine  e  cineree;  la  riva  d'Asia  è
ancora dorata; le acque lampeggiano; sciami di barchette, cariche  di  mariti  e
d'amanti, reduci da Costantinopoli, corrono verso la riva  europea,  incontrate,
arrestate, circuite da altre barchette, cariche di signore e di  fanciulli,  che
vengono dalle ville; dai caffè di Bujukderè  ci  arrivano  suoni  interrotti  di
musiche e di canti; le aquile ruotano sopra la montagna  del  Gigante,  i  marki
bianchi svolazzano lungo la  riva,  gli  alcioni  radono  le  acque,  i  delfini
guizzano intorno al bastimento, l'aria fresca del Mar Nero ci soffia  nel  viso.
Dove siamo? Dove andiamo? È un  momento  d'illusione  e  d'ebbrezza,  in  cui  i
ricordi di tutto quello che vediamo da due ore sulle due rive  del  Bosforo,  si
confondono nella nostra mente nella immagine d'una sola prodigiosa città,  dieci
volte più grande di  Costantinopoli,  abitata  da  popoli  di  tutta  la  terra,
privilegiata di tutti i favori di Dio, e abbandonata a una festa  perpetua,  che
ci riempie di tristezza e d'invidia.

Ma questa è l'ultima visione. Il bastimento esce rapidamente fuori del golfo  di
Buiukderé. Vediamo a sinistra il villaggio di Sariyer, circondato  di  cimiteri,
dinanzi al quale s'apre una piccola baia, formata da quell'antico promontorio di
Simas, dove s'innalzava il  tempio  a  Venere  meretricia,  oggetto  d'un  culto
particolare dei naviganti greci; poi il villaggio di Jeni-Makallé; poi il  forte
di Teli-Tabia, che fa fronte a un altro piccolo forte posto sulla riva asiatica,
ai piedi del monte del Gigante; poi il castello Rumili-Cavak, che segna  i  suoi
contorni  severi  sul  cielo  rosato  dagli  ultimi  chiarori  del   crepuscolo.
Sull'altra riva, di fronte a Rumili-Kavak, s'alza un'altra  fortezza,  la  quale
corona  il  promontorio,  ove  sorgeva  il  tempio  dei  dodici  Dei,  costrutto
dall'argivo Frygos, vicino a quello di Giove "distributore dei venti  propizii",
fondato  dai  Calcedonesi,  e  convertito  poi  da  Giustiniano  in  una  chiesa
consacrata all'arcangelo Michele. È quello il punto dove il Bosforo si restringe
per l'ultima volta, fra l'estremo  contrafforte  delle  montagne  di  Bitinia  e
l'estrema punta della catena dell'Hemus; considerato sempre come la prima  porta
del canale, da difendersi  contro  le  invasioni  del  Settentrione,  e  teatro,
perciò, di lotte ostinate fra bizantini e barbari, fra veneziani e genovesi. Due
castelli genovesi, posti l'uno in faccia all'altro, fra i quali  era  stesa  una
catena di ferro che chiudeva il canale, mostrano ancora confusamente, là presso,
le loro torri e le loro mura rovinate. Da quel  punto  il  Bosforo  va  diritto,
gradatamente allargandosi, al mare; le due rive sono alte  e  ripide,  come  due
enormi bastioni, e non mostrano più che qualche gruppo di case meschine, qualche
torre solitaria, qualche rovina di monastero, qualche avanzo di moli e  d'argini
antichi. Dopo un lungo tragitto, vediamo ancora scintillare sulla riva europea i
lumi del  villaggio  di  Buiuk-Liman,  e  dall'altra  parte  la  lanterna  d'una
fortezza, che domina il promontorio dell'Elefante;  poi,  a  sinistra,  la  gran
massa rocciosa dell'antica Gipopoli, dove sorgeva il palazzo di Fineo, infestato
dalle Arpie; e a destra la fortezza del capo Poiraz, che ci appare come una vaga
macchia oscura sul cielo grigiastro. Qui le rive sono  lontanissime;  il  canale
par già un grande golfo; la notte discende, la brezza marina geme fra i  cordami
del bastimento, e il tristo mare cimmerium stende dinanzi a noi il suo  infinito
orizzonte livido e inquieto. Ma il pensiero non si può ancora staccare da quelle
rive piene di poesia e di memorie, non  più  sopraffatte  dalla  bellezza  della
natura; e vola, a sinistra, ai piedi dei piccoli Balcani,  a  cercare  la  torre
d'Ovidio esule, e la muraglia meravigliosa d'Anastasio; e vaga,  a  destra,  per
una vasta terra vulcanica, a traverso le foreste infestate dai cinghiali e dagli
sciacalli, in mezzo alle capanne d'un popolo selvaggio e malnoto, di cui ci  par
di vedere le ombre  bizzarre  affollate  sull'alta  riva,  che  c'imprechino  un
viaggio malavventurato sulle fera litora Ponti. Due punti luminosi  rompono  per
l'ultima volta l'oscurità, come gli  occhi  ardenti  di  due  ciclopi,  messi  a
guardia dello stretto fatato: l'Anaduli-Fanar, il fanale dell'Asia, a destra;  e
il Rumili-Fanar a sinistra,  ai  piedi  del  quale  le  Simplegadi  favolose  ci
mostrano ancora vagamente, nell'ombra della riva,  i  profili  tormentati  delle
loro roccie. Poi i due lidi dell'Europa e dell'Asia non son più che due striscie
nere, e poi quocumque adspicias, nihil est nisi pontus et aer, come  cantava  il
povero Ovidio. Ma la vedo ancora, la mia Costantinopoli,  dietro  a  quelle  due
rive nere scomparse; la vedo più grande e più luminosa  ch'io  non  l'abbia  mai
veduta dal ponte della Sultana Validé e dalle alture di Scutari; e le parlo e la
saluto e l'adoro come l'ultima e la più cara visione della  mia  giovinezza  che
tramonta. Ma uno spruzzo improvviso d'acqua salsa m'innaffia il volto e mi butta
in terra il cappello; - mi sveglio; - mi guardo intorno;- la prora è deserta, il
cielo è nebbioso, un vento rigido d'autunno mi agghiaccia le ossa, il  mio  buon
Yunk, preso dal mal di mare, m'ha lasciato; non sento più che il tintinnio delle
lanterne e lo scricchiolìo del bastimento che  fugge,  sballottato  dalle  onde,
nell'oscurità della notte.... Il mio bel sogno orientale è finito.

FINE.


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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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