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CUCCHI Francesco Luigi - pagina 4


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In questa stessa lettera, in data 21 maggio 1863, il Cucchi esprime al Generale il suo progetto di partire per Belgrado: i vostri ordini, prima di fare un passo qualunque con chicchessia. Tn questo frattempo io sto in corrispondenza solamente con Domenghini. Godo infinitamente sentendo che la vostra ferita sta sensibilmente migliorando. In Inghilterra 'interesse e l'ammirazione che ognuno dimostra per voi, e l'affettuosa ansietà con cui si attendono e si chiedono vostre notizie, è cosa veramente straordinaria e commovente. Valga ciò a compensarvi, almeno in parte, dell'ingratitudine e delle infamie di chi per sventura d'Italia ne regge i destini.
Vi ripeto e vi prego di disporre di me, qualora lo crediate opportuno e mi troviate buono a qualche cosa. Aggradite i sensi di rispetto ed affezione sincera con cui mi sottoscrivo ».  « Secondo lettera che ricevetti l'altro giorno, gravissimi avvenimenti stanno per succedere in Serbia. Pare che Klapka abbia colà maneggi ed aderenze. Türr da Costantinopoli si dirige a quanto sembra a quella volta. So di positivo che il nostro Governo raccomandò caldamente ad un inviato del principe Michele di Serbia, che fu qui ultimamente, di non far alcun movimento avanti il principio di giugno. Vidi lettere di alcuni tra i più influenti dei patrioti della Serbia, i quali dichiarano che se il principe Michele  intende agire senza indugio essi saranno con lui. Tutte queste  notizie mi hanno fatto prendere la risoluzione di recarmi sui luoghi  per verificare come stanno le cose. Ciò però dipendentemente dalla di Lei approvazione ».
Alla metà di giugno Garibaldi stabilisce, forse di concerto con il Re, che Cucchi parta per un lungo viaggio nella penisola balcanica per prendere contatto in luogo coi patrioti ungheresi, croati, serbi e greci.

12. - La rivoluzione del 1867 in Roma.
Tornato alla sua isola Garibaldi riprende il progetto della liberazione di Roma.
Benché molti degli amici lo dissuadessero ed il Governo Rattazzi fosse ostile a un'impresa che avrebbe potuto provocare un intervento francese, egli prepara con i suoi fidi, tra i quali il Cucchi, un piano circostanziato di invasione delle terre pontificie.
Costituisce comitati in tutta Italia per raccogliere soccorsi ed armi. In Roma venne formata una Giunta Nazionale Romana che riuniva i comitati locali ed in Firenze un Comitato Centrale di soccorso. A Caprera il Generale riceve personalità e redige indirizzi di protesta ad Ambasciatori stranieri « in nome dei diritti di un popolo oppresso: quello di Roma » ( 1 ).
Egli stesso comincia a percorrere il centro Italia per accogliere intorno a so la gioventù italiana. Il 26 agosto ad Orvieto dice: « a
Roma dobbiamo andare, senza Roma l'Italia non può costituirsi ».
Malgrado le opposizioni che incontra il suo progetto da parte anche di amici fidati egli, solo contro tutti, si assume la responsabilità morale di promuovere una spedizione punitiva contro il dominio temporale dei Papi. Lo stesso Mazzini , rivendicando a sè l'impresa, lo scongiura di desistere dall'attacco scrivendo: « per carità non v'incocciate in questo progetto: l'iniziativa in provincia rende impossibile il moto di Roma e da tempo e pretesto al doppio intervento: per carità cambiate disegno!...». «L'impresa di Roma è nostra, nostra dal 1849. A noi, liberi di ogni ipocrisia, d'ogni equivoco, spetta ridare l'iniziativa morale all'Italia in Europa, proclamando dal Campidoglio la nostra unità nazionale, proclamando dal Vaticano la santità della Coscienza, l'inviolabilità del Pensiero, la libertà dell'Animo umano » ( 2 ). Ma il Generale a Ginevra al Congresso della pace afferma chiaramente la necessità della guerra contro il Pontefice e tornato in Italia, quando praticamente l'azione era già stata iniziata dai suoi, o arrestato dal Governo a Sinalunga prima, poi chiuso ad Alessandria, poscia ricondotto a Caprera. Colà relegato tempesta di telegrammi il Cucchi affinchè accorra a liberarlo ( 3 ). Ma il Cucchi, si trovava ormai impegnato nell'azione rivoluzionaria romana e Crispi scongiurava Garibaldi a restarsene lontano per dare al moto di Roma parvenza di spontaneità ( 4 ).
Il 6 settembre la Giunta nazionale di Roma, emanazione dei Comitati locali, aveva infatti lanciato un appello agli italiani nel quale era detto, tra l'altro: « intenti ad apprestare al più presto una insurrezione romana, senza imbarazzi per il Governo d'Italia, senza improntitudini e senza strepiti precedenti, noi abbiamo bella e pronta una vasta organizzazione » ( 5 ).
In seguito a questo appello Cucchi era stato inviato a Roma, con il preciso compito di coordinare l'azione dei Comitati locali, raccogliere le loro forze e preparare un'irresistibile rivoluzione che potesse, davanti al mondo intiero, in nome del diritto di autodecisione dei popoli, giustificare una avanzata di truppe volontarie alla liberazione della città, che la tradizione e la storia designavano quale legittima capitale d'Italia.
Cucchi divenne allora l'uomo della situazione, la persona intorno a cui gravitò l'onere e l'onore di annodare le file dell'insurrezione, di scegliere il momento per richiamare attorno a sé il popolo romano e guidarlo alla riscossa. Compito quanto mai difficile, considerati gli impegni assunti dal Governo italiano con la Convenzione di settembre, non peraltro accettata dal Governo Pontificio e dalla Francia interpretata quale espresso impegno di riconoscere su Roma gli esclusivi inalterabili diritti del Papa.
Il popolo romano, inoltre, ad esclusione di pochi ardenti patrioti, era impreparato all'azione: Roma, solenne come un sepolcreto, in quei giorni, era immersa in un sonno archeologico. Tale la descrive l'Adamoli ( 6 ), che fu vicino al Cucchi e partecipò alle diverse fasi del tentativo insurrezionale e visse, con animo commosso, quelle tragiche vicende.
Dal principio di settembre al novembre il Cucchi fu sulla breccia, instancabile ed animoso, rotto a tutti i pericoli ed a tutti gli ardimenti ed espedienti, sempre sereno e padrone di so.
Soltanto un Cucchi avrebbe potuto tenere in scacco, per tanti mesi, la polizia pontificia, pur valida ed oculata, e giocare d'astuzia con la inveterata, secolare, callida esperienza delle autorità ecclesiastiche, che si trovarono di fronte un degno competitore.
La prima volta entrò in Roma con un passaporto intestato al suo nome. Mons. Randi, capo della polizia, vice Camerlengo di Santa Romana Chiesa, volle avere l'onore di conoscerlo e lo fece chiamare a Montecitorio, dove era la sede centrale della polizia.
Il colloquio tra i due fu guardingo, diplomatico, pieno di sottintesi.
Il Pandi chiese al Cucchi il motivo del suo soggiorno in Roma. Il Cucchi dissimulò di essere un amatore di antichità classica e amico di eminenti cultori fiorentini d'arte antica, ben conosciuti dal Randi. Si lasciarono in ottimi rapporti e Cucchi ricevette anche incoraggiamenti per i suoi studi con le più ampie scuse per il disturbo arrecatogli.
Però, messo sull'avviso, la seconda volta che fu chiamato a colloquio da Mons. Randi, si guardò bene dall'accettare l'invito. Essendo stato svegliato in ora piuttosto mattutina chiese di ottenere subito udienza.
Avendo avuto risposta che avrebbe dovuto attendere qualche ora addusse la necessità di dover partire subito con il primo treno per Firenze, per lasciare Roma in tutta fretta. Il galateo era salvo... ed anche il Cucchi.
Egli però non lasciò passare molto tempo che tornò in Roma, questa volta con falso passaporto, con il « visto » della legazione di Spagna a Firenze ( 7 ), incaricata degli affari della Santa Sede presso il Governo Italiano.
Antonio Oliva è il direttore della « Riforma », il giornale di battaglia della sinistra democratica. Valoroso patriota, prese parte, in gioventù, alle cinque Giornate di Milano. Nel 1849 fu in Roma e si trovò a combattere al Vascello sotto gli ordini di Medici . Nel 1850 si arruolò nei « Cacciatori delle Alpi » e nel 1806, con il grado di capitano, comandò prima una Compagnia, poi un Battaglione dei « Carabinieri Milanesi ». Fu deputato e professore universitario in Modena.
Angelo Milesi, di Gromo (Bergamo), partecipò alla difesa di Venezia
Scelse il nome che corrispondeva alle sue iniziali, quello di Cesare Filippi e recò di persona il passaporto all'ufficio di polizia, guardandosi però bene dall'andare poi a ritirarlo.
La Polizia Pontificia si mise tosto alla caccia di questo enigmatico personaggio.
Ecco come il Cucchi narra gli accorgimenti che dovette adottare per sfuggire alle ricerche: « Per oltre un mese la Polizia cercò di questo signor Cesare Filippi in tutta Roma, senza trovarlo. Molte volte dovetti correre mezza la città passando dall'una all'altra carrozza da nolo onde far perdere le mie tracce ai gendarmi, ch'erano sempre sulle mie piste. Il famigerato Eligi, colonnello degli stessi, mostrò un mio ritratto dicendo che metteva impegno di non lasciarmi uscire da Roma ne vivo ne morto. Molte volte gli passai proprio sul muso, assistetti alle riviste della guarnigione passata dal quel colonnello, che mi interessavano di molto, e sempre impunemente. L'unico mezzo per riuscire a ciò fu di non star mai nascosto. Convegni di pochi fidi e per pochi minuti nelle gallerie d'arte, i musei di antichità, nelle grandi chiese, nei pubblici teatri frequentati dai forestieri. Facendo mostra di fermarci estatici davanti a monumenti sepolcrali di Papi, oppure a dipinti di Raffaello in Vaticano, alle statue del Campidoglio, agli avanzi del Foro Romano, si scambiano fra i congiurati ordini, proposte, notizie.
Unica precauzione il cambiare di abiti, di nome, di alloggio, non rimanere più di una sola notte nella stessa casa » ( 8 ). Una volta fu lo stesso colonnello Eligi a salvarlo, inopinatamente. La caccia dei segugi della Polizia era durata più a lungo del solito. Il Cucchi non sapeva più come liberarsi.
Entrò finalmente dal libraio Spithover, in Piazza di Spagna, per cercare una via di scampo. A lungo consultò volumi, guardò opere illustrate, sperando, ma inutilmente, che i suoi inseguitori se ne andassero.
Ad un tratto vide passare per la Piazza il colonnello Eligi, in divisa: tosto si precipitò fuori dal negozio e si avvicinò al colonnello, con aria confidenziale e Io pregò di indicargli una vicina salita.
Il colonnello volle mostrargliela personalmente. Strada facendo il Cucchi, simulandosi un turista di passaggio, si lagnò persino con lui per le turbolenze di quei giorni in Roma. Ne ebbe risposta che si trattava di poca canaglia, che faceva molto chiasso, e che sarebbe stata messa tosto a dovere ( 9 ).
I gendarmi, visto il Cucchi in intimità con il loro Comandante, se ne andarono a cercare altrove, certi di aver seguito una falsa traccia.
Il Cucchi non tralasciò nulla, in quei giorni, per assumere tutte quelle informazioni che gli sarebbero state preziose per concertare un piano di insurrezione efficace. Giunse persino alla temerarietà di entrare, insieme con Giovanni Cairoli, a ispezionare Castel Sant'Angelo, travestito di sergente d'artiglieria. Durante questa visita clandestina notò che il forte era provvisto di grande quantità di munizioni, ciò che lo indusse a dissuadere i romani dal proposito di dar fuoco alla polveriera il cui scoppio avrebbe distrutto buona parte della città e causato troppe vittime ( 10 ).
Nel frattempo i volontari garibaldini avrebbero dovuto intensificare la loro azione nell'agro romano, costituendosi in bande, che, al momento opportuno, sarebbero state lanciate contro le mura di Roma.
Cucchi si trovava solo a dover accordare tra loro i vari Comitati romani e fronteggiare le forze pontificie senza armi e senza denari.
Egli era pressato continuamente dai messi del Comitato di Firenze che non vedeva l'ora che si iniziasse l'azione nella città. Si voleva, aizzando l'opinione pubblica, forzare la mano al Governo italiano che, in tanto frangente, non sapeva a quale consiglio affidarsi.
Al Cucchi venne inviato dal Comitato di Firenze anche l'Adamoli con l'incarico di stimolarlo ad agire. Ma il Cucchi non si muoveva, era troppo consapevole dell'impreparazione e dell'immaturità di un moto insurrezionale nella situazione di Roma ( 11 ).
Intanto si accelerò l'invio dei mezzi e delle armi e questa precipitazione, come vedremo, sarà la causa dell'insuccesso. Invano il Cucchi ancora il 20 ottobre telegrafava a Crispi informandolo della situazione precaria delle bande attorno a Roma. Il Comitato a Firenze aveva deciso che il 22 sarebbero cominciati i moti in Roma. Al Cucchi fu inviato il fratello Luigi con un criptogramma perentorio a firma di Fabrizi del seguente tenore : « A qualunque costo e senza perdere un istante fate. Non contatevi : le sorti del Paese dipendono da Voi. Fate fucilate anco in dieci » ( 12 ). Il Cucchi, obbidiente agli ordini ricevuti, si mise in moto con quella febbre dell'azione travolgente che prende l'uomo nelle sue ore più vive. Alla sera stessa del 22, alle ore 19, impartì gli ordini per l'inizio dell'insurrezione in città che ebbe diversi centri: il Campidoglio, Piazza Colonna, la caserma Serristori, Porta S. Paolo.

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La chiave di volta ed il segreto del successo dei moti, erano nell'espugnazione della Porta S. Paolo dalla quale avrebbero dovuto essere introdotte in Roma le armi depositate segretamente presso la villa Matteini.
Il Cucchi stesso di suo pugno aveva, con la solita chiarezza, tracciato il seguente piano: « Supposto che l'ora per cominciare sia le sette della sera, è necessario:
a) che alle sei precise la gente e le armi già cariche sopra carretti siano pronte a partire dalla villa Matteini; il convoglio così giungerà alla Porta verso le sette;
b) nei dintorni della Porta e dentro il locale del Testacelo ci devono essere una trentina d'uomini circa per impadronirsi della Porta a l'ora designata a far entrare il convoglio;
c) quando il convoglio abbia passata la porta si divida in due colonne: la prima composta di sola gente armata, non meno d'un centinaio, al passo di corsa in gran silenzio per la via della Maletta; S. Teodoro, Foro Romano, tenta salire all'improvviso la salita posteriore del Campidoglio e occuparlo prima delle truppe.
Qualora questa colonna sia colta dalle fucilate della guardia del Colosseo o dal quartiere di Campo Vaccino, continuerà, sempre alla corsa, la sua strada senza rispondere alle fucilate. Qualora invece trovasse una colonna nemica già in armi per sbarrarle la via, allora tenterà sfondarla e passar oltre. Che se fosse ributtata ripiegherebbe per Santa Prisca e S. Alessio nella Chiesa e nel Convento di Santa Sabina.
L'altra colonna del convoglio delle armi marcerà, pur in silenzio e colla massima velocità, per la Marmarata, Via Salara, Bocca della Verità e piazza Montanara, tentando di guadagnare il Campidoglio per Tor de' Specchi e vie adiacenti. Qualora siasi ostacolo, agirà come l'altra, cioè si batterà, e non potendo sostenersi si ritirerà anche sopra Santa Sabina congiungendosi all'altra.
Lungo le vie S. Paolo e Piazza Montanara, nelle chiese e vie adiacenti si troverà tu Ita la gente che sarà armata con le armi del convoglio man mano che avanza » ( 13 ).
Tulio il piano, così ben organizzato, che avrebbe dovuto insediare in
Campidoglio la rivoluzione, falli per un improvviso contrattempo.
Due ore prima dell'ora fissata, una Compagnia di zuavi e mezzo squadrone di gendarmi a cavallo avevano circondato villa Matteini, dove si trovava il deposito delle armi, affidate a pochi patrioti di guardia, che inutilmente tentarono di difenderle. Anche le squadre che avrebbero dovuto trasportare le armi fino a Roma furono arrestate alla spicciolata a Porta S. Giovanni, l'unica aperta al pubblico in quel giorno.
Così quando i valorosi che avevano assalito ed espugnato Porta S. Paolo attendevano l'arrivo delle armi e dei rinforzi esterni si trovarono invece di fronte i gendarmi a cavallo che li assalirono di carica e dovettero, di tutta fretta, trovar scampo con la fuga disperdendosi nelle vigne circostanti.
Le persone, assiepate da Porta S. Paolo fino a Bocca della Verità ed a Piazza Montanara in attesa della carretta con le armi, finirono tra i cordoni dei gendarmi che le asserragliarono in massa e le fecero prigioniere.
Francesco Cucchi, all'oscuro degli ultimi eventi, se ne stava, davanti al Campidoglio, sotto la scalinata dell'Ara Coeli, in attesa delle colonne dei rinforzi. Ma queste tardavano a venire. Allora tentò la ventura: facendo fuoco con le poche rivoltelle di cui erano provvisti gli amici appostati, sperò di non trovar resistenza. Ma si trovò di fronte una grossa Compagnia di Cacciatori esteri che stava nascosta nel Palazzo dei Conservatori che cominciò a bersagliare gli insorti con le carabine. Era già arrivato, con i suoi, in cima alla salita, presso il monumento equestre a Marco Aurelio, quando dovette retrocedere e desistere dal tentativo, dopo aver lasciato parecchi morti e feriti sul campo.
Al mattino lo vide l'Adamoli spedir messi da per tutto al fine di conoscere la sorte toccata ai Cairoli , « calmo come se avesse passata la nottata in un salotto e non ai piedi della gradinata del Campidoglio, sotto le scariche della guardia rinforzata » ( 14 ).
Anche in Piazza Colonna gli insorti, che avrebbero dovuto assalire la Polizia nei pressi di Montecitorio, fallirono l'obiettivo, essendo stato scoperto il deposito delle armi loro destinate.
Una detonazione terribile scuoteva Roma, verso le 19, proveniente da Trastevere, vicino al Vaticano: era la Caserma Serristori che, minata nei sotterranei dai popolani romani Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, saltava in aria, minando metà dell'edificio e travolgendo una trentina di zuavi. L'ordine era stato impartito direttamente dal Cucchi ( 15 ) che scrisse a tale proposito: « La mina della caserma Serristori ebbe Io scopo di richiamare verso il Vaticano la maggior parte delle truppe pontificie e quindi di tener sgombra la città.
L'intento venne perfettamente raggiunto. Infatti dalla sera del 22 fino alla vigilia di Montana, la Piazza e i porticati di San Pietro servirono notte e giorno per il bivacco. La notte del 22 Roma rimase quindi in balia di se stessa. L'arrivo dei fratelli Cairoli poteva essere decisivo per far riprendere la lotta al mattino seguente. Ma... trattenuti da ostacoli insormontabili, non poterono giungere in tempo. Il messo da loro spedito per avvisare del contrattempo potè penetrare in Roma solamente nella giornata del 23.
Il Comitato riceveva l'avviso mentre essi cadevano eroicamente ai monti Parioli » ( 16 ).
Per questo incidente Cucchi non potè aiutare gli amici carissimi che, sbarcati nella notte presso l'Acqua Acetosa con 75 compagnie, giungevano con armi e munizioni a portare man forte agli insorti romani.
Giunti sui Monti Parioli, fuori Porta del Popolo, mentre se ne stavano occultati per entrare in città al calar delle tenebre, vennero sorpresi da oltre 500 zuavi pontifici presso Villa Glori ( 17 ). Benché si difendessero leoninamente, molti caddero da eroi, tra i quali Enrico Cairoli e Antonio Mantovani , parecchi furono feriti, tra gli altri Giovanni Cairoli, e ben pochi riuscirono a scampare dall'imboscata. Molti caddero prigionieri. La sera stessa mentre i gendarmi traducevano in carcere un drappello di garibaldini i gendarmi vennero disarmati da furore di popolo e parecchi prigionieri liberati.
Nella città i tumulti continuarono per alcuni giorni tanto che si giunse a proclamare lo stato di assedio in Roma e provincia ed a intimare il disarmo della popolazione.
Il 25 avvenne l'eccidio di Casa Ajani, dove alcuni patrioti, che stavano raccogliendo armi e munizioni, furono sorpresi dalla polizia.
All'intimazione di resa dei gendarmi che circondarono in forza l'edificio i patrioti risposero con una resistenza disperata.
Per quattro lunghe ore durò la difesa finché dovettero capitolare di fronte alla superiorità numerica delle milizie pontificie.
Il nostro Cucchi era appena uscito dalla Casa Ajani per recarsi a visitare le fortificazioni di Porta S. Pancrazio quando fu raggiunto dall'eco degli spari. Raccoglie alcuni fidi e corre al soccorso, ma trova la strada sbarrata. Riesce però ad entrare in una casa attigua da dove spara sui gendarmi. Inutilmente. Deve saltare nel giardino della casa invasa e cercare riparo oltre Ponte Sisto.
Anche qui trova la strada sbarrata. Egli non si arrende. Con presenza mirabile di spirito, salta in una carrozza piena di preti francesi, e, con il pretesto di portare in salvo i prelati, ottiene il permesso di passare attraverso Io sbarramento di truppe. Appena al largo scende. Ma è fermato da poliziotti che gli richiesero i documenti.
Non si perdette d'animo e si fece passare per il commendatore Giulio Bellinzaghi, banchiere di Milano, venuto a Roma per affari. E i poliziotti lo lasciarono libero.
Che cosa operò in quei giorni il Cucchi non e possibile narrare: sempre presente dove maggiore era il pericolo, a sostenere i coraggiosi, a rincuorare i timidi, ad incitare i valorosi, primo ad intraprendere la lotta, ultimo a lasciarla.
« Checco », « il generale Checco », diventò il suo nome di battaglia, a tutti noto, da tutti rispettato ed obbedito come una consegna. Questo diminutivo del nome rimarrà poi a lui, per sempre, quale epiteto familiare, e lo legherà al popolo romano con vincoli che, cementati nell'ora del pericolo, dureranno per tutta la vita.

13. - Informatore intraprendente.
Finiti i tentativi insurrezionali del 22 e 23 ottobre, Cucchi non lascia ancora Roma, ma rimane per tenere informato Garibaldi di ciò che avviene dentro la città ( 18 ). Ormai non ha più speranza di riuscire ad eludere la sorveglianza della polizia e far penetrare armi oltre la cerchia delle mura ed anche le ultime illusioni di un intervento delle truppe italiane sono crollate. Non gli rimane pertanto che agevolare l'assalto alle mura di Roma ai volontari di Garibaldi che operano ormai vittoriosi nel Lazio. Il 26 è avvenuta l'espugnazione di Monte Rotondo. E Cucchi vede tornare le truppe pontificie lacere e peste. Ma purtroppo, una terribile minaccia si addensa sul capo dei garibaldini: l'intervento francese.
Il 30 ottobre avviene a Civitavecchia lo sbarco della Divisione francese Dumont.
Cucchi stesso si reca alla stazione ferroviaria incontro alle truppe che arrivano per prime in Roma.
Si mescola alla folla e mentre conta mentalmente il numero dei fucili ed i pezzi di artiglieria, egli, con l'aria pacifica del cittadino conformista, applaude la sfilala dei francesi ( 19 ).
E la sua audacia si accresce nella misura che aumentano i nemici. Giunse a tanto da mescolarsi tra gli ufficiali francesi che hanno preso alloggio all'Albergo della Minerva e quivi, tra i fumi del vino e delle vivande, riesce a carpir loro parecchi segreti militari.
L'undici novembre, a mezzo dei suoi informatori, riesce perfino a trafugare il piano completo di operazioni del Corpo di occupazione francese: un piano circostanziato, preciso, veridico. Lo affidò ad un buttero, trascritto su carta velina, avvolgendolo in pallottoline di carta stagnola, con la consegna di inghiottirlo nell'eventualità di una perquisizione, affinchè lo portasse al Generale in persona.
Il mattino del 3 novembre arrivò il buttero al Quartier Generale di Garibaldi con il dispaccio urgente del Cucchi. Ma il Generale non darà importanza a quelle preziose notizie che risulteranno poi fondate sino nei minuti particolari ( 20 ).
Egli o certo, in cuor suo, che i Francesi non avrebbero osalo marciare contro di lui e calpestare la sacra causa della libertà dei popoli ( 21 ).
Ma il peggio lemuto avviene: a Montana i garibaldini sono assaliti dell'Esercito francese che, con i loro fucili a retrocarica, hanno presto ragione delle baionette. Ancora una volta nella storia l'opportunità politica ha prevalso sui sostanziali interessi dei popoli. A Montana la figura di Napoleone III liberatore, o oscurata da quella del despota oppressore. La Francia ha cancellato negli Italiani, con l'ingloriosa impresa di Montana, il debito di riconoscenza contratto nella guerra del '59.
Il potere temporale dei Papi, mercè l'intervento straniero, ancora una volta, o salvo, ma la sorte dello Stato Pontificio o ormai segnata, e per sempre. Il sangue dei garibaldini ha redento Roma, e già, fin d'allora, l'ha ricongiunta al martirio secolare di un popolo sorto a rivendicare la sua libertà.
Dopo Mentana il problema di Roma, proprio in forza della reazione suscitata dall'intervento straniero, diventa un problema di capitale importanza che impegna la nazione intiera ed i suoi governi ormai decisi a ricongiungere Roma, al più presto, alla Madre Patria.
Il Cucchi, che aveva disimpegnato con bravura la sua missione entro Roma, prevedendo di non riuscire più a mantenere l'incognito dopo il ruolo principale da lui svolto nell'insurrezione, decide di lasciare la città. Riesce a procurarsi un abito talare, sacrifica barba e pizzo ( 22 ), e così camuffato, riesce ancora una volta, ad ingannare la polizia e ad allontanarsi incolume. Per Civitavecchia, Livorno e Firenze, accorre da Garibaldi . I due protagonisti delle gesta, dentro e fuori le mura di Roma, s'incontrano, vinti, ma non domi.
La lotta, persa per ora sul campo di battaglia, verrà ripresa più tardi, sul piano diplomatico, con successo, dal Cucchi. Roma però resterà ancora per alcuni anni, la mèta agognata di entrambi : l'aspirazione ideale dei loro spiriti.

14. - Generosa offerta per gli amici.
Intanto in Roma il dramma continua. Vengono processati tutti i patrioti che capitano tra le mani della polizia pontificia: Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti sono condannati alla pena capitale; nelle loro sentenze di condanna è citato anche Francesco Cucchi « Deputato al Parlamento italiano, di Bergamo, sedicente generale di Garibaldi » quale « principale motore e anima della sommossa ».
La sentenza venne emessa il 16 novembre ed eseguita la sera del 24 sulla piazza dei Cerchi. Monti e Tognetti sanno morire da prodi. Le loro teste sono gettate dal boia alla folla silenziosa.
Finito questo processo se ne inizia subito un altro contro l'Ajani e compagni clic in Transtevere avevano resistito colla forza alle truppe pontificie. Anche questo processo finisce con la pena capitale contro i colpevoli. Ma prima che la sentenza abbia esecuzione Cucchi e Guerzoni, dichiarandosi solidali con l'Ajani, esprimono il proposito di consegnarsi al Governo pontificio al fine di provocare il giudizio su la loro responsabililà per la strage del 25 ottobre 1807.
Il Deputato Asproni si affretta a portare da Firenze a Roma la notizia della nuova minaccia. Ciò che ottiene l'effetto desiderato: il Cardinale Antonelli, Segretario di Stato di Pio IX , atterrito dal pensiero di aver tra le braccia i due irrequieti parlamentari italiani ( 23 ), si decide a proporre la grazia dell'Ajani al Papa.
La grazia è concessa e l'Ajani ha così salva la vita per merito dello stratagemma del Cucchi.

15. - Il politico.
Il Cucchi non era da ascrivere tra coloro che sono convinti che il vero valore, il coraggio, si dimostri e si esaurisca nei fatti bellici.
Egli era consapevole invece che le guerre si continuano e si decidono nei periodi di pace, e che le trattative e gli accordi restano i mezzi più efficaci e più umani per conseguire e tutelare i pacifici scopi e gli interessi sostanziali delle comunità e dei popoli.
Perciò non avversò mai l'azione politica, con lo sdegno di superiorità di un uomo d'arme, ma anzi, fu uno dei pochi, pur tra i garibaldini, che seppe prodigarsi per il bene pubblico con lo stesso zelo e con lo stesso coraggio dimostrato sui campi di battaglia.
Egli, coerentemente alla sua origine di combattente garibaldino, fu uno dei più intelligenti fautori della sinistra, cioè di quel partito che, denominato « dell'azione » nei primi cimenti del Risorgimento, si proponeva una politica governativa favorevole alle aspirazioni delle classi popolari e poneva come pregiudiziale allo stesso programma sociale la realizzazione dell'unità della Patria; partito che fu sino al '76, all'opposizione della cosiddetta destra liberale che deteneva il potere al Governo e la maggioranza parlamentare. Ma nel partito della sinistra democratica, non piccoli erano i contrasti e le differenze di tendenze : si andava dalla forma rivoluzionaria più intemperante, auspicata dai mazziniani, a quella più moderata dei monarchici costituzionali.
Riteniamo che il Nostro, in queste varie gamme di tendenze, si possa assegnare, se è consentito esprimerci con terminologia moderna, all'ala destra dello schieramento della sinistra democratica.
La sinistra era essenzialmente repubblicana: Cucchi invece, come abbiamo visto, non riteneva che fosse di capitale importanza il problema istituzionale, e andò sempre più convincendosi della verità proclamata da Crispi nel '61 quando scriveva a Mazzini che « la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe ». Trovò, anzi, proprio in Francesco Crispi , la sua guida ed il suo sostegno nella politica condividendo con lui l'orientamento democratico, in senso radicale.
Egli si presentò Deputato, nella IX Legislatura per il Collegio di Zogno nelle elezioni del gennaio del 1867. Ma, appena eletto con il ballottaggio del 27 gennaio e quando si disponeva ad assumere l'incarico, avvenne lo scioglimento della Camera. Si indissero i comizi per il febbraio di quell'anno ed egli si presentò nuovamente ai suoi elettori e venne riconfermato. In quest'occasione, pubblicò ai suoi elettori un programma significativo, sia per la moderazione con cui e dettato, sia per l'alto senso di responsabilità che vi traspare: « Gravissima o la crisi nella quale versa la nazione, urgenti i provvedimenti dai quali dipende il suo avvenire. Abbiamo bisogno di un Governo, che, inspirandosi a veri princìpi di libertà, dia pegno di intelligenza, di giustizia, di operosità; di un Governo che soddisfaccia ai bisogni del Paese, tenendo conto della giuste esigenze della pubblica opinione, prima che questa si manifesti con agitazioni da costringerlo a reprimere o forzarlo a concedere, perdendo, in un modo o nell'aàltro, autorità e prestigio. Perché questo
Governo possa con efficacia iniziare e compiere tutte le opere di riordinamento interno..., abbisogna una Camera composta d'uomini nei quali àà ed indipendenza di carattere concorra la poàà  di applicarsi indefessamente alla causa pubblica, cercando e riconoscendo, senza prevenzioni di parte, il bene ed iàà dove bene e male ci sia; d'uomini deliberali tanto a combattere un Governo che violasse la nostràà e non fosse all'altezza del suo compito, quanto a sdegnare la facile pàà delle inutili declamazioni, di una appassionata opposizione..àà di Patria e ferma convinzione di un dovere da compiere saranno l'unica mia guida nel disimpegno dell'arduo mandato ».
àà il mandato, allora, lo esercitò più tra i pericoli della missione romana che sui banchi della Camera. Ma egli fu tra quelli che, colpito dal voltafaccia francese verso l'Italia, pensò che fosse necessario cambiare totalmente l'orientamento della nostra politica internazionale avviandosi ad un'alleanza con gli imperi centrali. In tal modo si sarebbe anche potuto cercare di risolvere la questione romana per via diplomatica. Bisognava però persuadere gli amici, soprattutto quelli veneti, che l'ora della liberazione del Trentino e dell'Istria era ancora lontana. Ed eccolo di nuovo darsi d'attorno e persuadere e sentire: ambasciatore autorevole dei suoi amici più influenti.
Chi più di lui idoneo — combattente dell'idea, reduce sfortunato dalle vicende romane —, peràà e per perizia, a svolgere simile compito?
Ne fa fede, ad esempio, questa lettera di Benedetto Cairoli a Giorgio Manin in Venezia, datata da Belgirate il 15 ottobre 1868 ( 24 ), che pone in evidenza la natura della peàà politica del Nostro:
« Il latore di queste poche righe è Francesco Cucchi, lo raccomanda la sua vita che è tutto un olocausto alla Patria. Fra i nostri commilitoni è uno dei più degni di affetto e di stima, e caro infatti. non solo agli amici ma a quanti avversar! lo conoscono personalmente. Egli pure desidera di essere presentato a tè, che onori un nome tanto sacro all'Italia. Non aggiungo parola; da lui saprai lo scopo della sua gita. Io però, malato, ora sto meglio ma sono ancora istupidito, affranto dalla recente sciagura. Mi sorregge la fede nell'avvenire vaticinato dal mio adorato Giovanni nella sua sublime agonia ».

16. - Ambasciatore straordinario della Sinistra presso Bismarck.
Francesco Cucchi non era uomo da rassegnarsi dello scacco subito nel 1867 in Roma. Egli attendeva l'occasione della rivincita e la sua recente esperienza politica gli aveva insegnato che l'unico mezzo per risolvere definitavamente la questione romana era quello di agire per via diplomatica preparando le condizioni di un'occupazione permanente deàà con l'appoggio del Governo. Montana era stata una lezione salutare: sarebbe stata teàà affidarsi di nuovo ad un colpo di mano che avrebbe potuto provocare un nuovo intervento francese. L'occasione si presentò propizia nel peggioramento delle relazioni internazionali tra la Francia e la Prussia. Vittorio Emanuele , ed in genere il Governo al potere, erano però francofili, ritenendo l'Italia debitrice alla Francia dell'intervento del '59, decisivo per la nostra liberazione.
Quando poi scoppiò aperto conflitto tra Francia e Prussia nel 1870, il Re, nel desiderio di portare soccorso al suo imperial commilitone del '59, esercitò vive pressioni sul Governo per un immediato intervento italiano in soccorso della Francia. In seno al Gabinetto» Quintino Sella, resistette tenacemente al desiderio del Re, chiedendo alla Francia un preventivo accordo sull'occupazione di Roma.
L'Austria fu incaricata di interporre i suoi buoni uffici verso la Francia per arrivare ad un accomodamento della questione romana; ma la Francia tergiversava, trattenuta dal partito cattolico, unico sostenitore di Bonaparte. Allora in Italia si costituì una Commissione di Deputati della Sinistra che chiese al Governo la denuncia della convenzione di settembre ed un'alleanza con la Prussia ai danni del despota napoleonico.
Bismarck non si lasciò sfuggire l'occasione di rompere qualsiasi poàà di alleanza tra Francia e Italia: spedì subito a Firenze, come inviato straordinario, il barone di Holstein, con l'incarico di sostenere il Sella contro la tendenza francofila del partito al Governo ed invitò il Comitato delle sinistre a mandare a sua volta un suo rappresentante al Quartier Generale tedesco per prendere eventuali accordi. Crispi , Cairoli , Fabrizi , e altri dei più alti esponenti del partito democratico, scelsero Francesco Cucchi, che àà avuto occasione di incontrarsi con Bismarck nel 1868, all'indomani della sfortunata impresa di Roma.
Cucchi partì in luglio per la Prussia ed il 2 di agosto raggiungeva il Quartiere Generale prussiano sul fronte francese e vi si tratteneva quale ospite d'onore fino al 19 agosto. Assistette alla battaglia di Spikeren, il 6 di agosto e a quelle accanite di Barny, Bezonville e Grovelatti S. Privat, il 14, 16 e 18 agosto, che condussero all'accerchiamento di Metz. Da esperto di guerra si capacitò subito che la sorte della Francia era segnata. Nei colloqui che ebbe con Bismarck non solo riuscì ad ottenere l'assicurazione che il Governo tedesco non si sarebbe opposto all'occupazione di Roma, ma ebbe il consiglio di suggerire al Governo italiano di approfittare del ritiro temporaneo delle truppe francesi per occupare Roma al più presto, mettendo in tal modo l'Europa di fronte al fatto compiuto ( 25 ).
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NOTE
(1) A. COMANDINI, op. cit.. Vol. IV, pag. 952.
(2) Cfr.: A. SASSI, Notizie e documenti per la storia dell'ultima insurrezione romana (1867-1869}, Roma, a cura della R.S.R. di storia patria, 1913, pag. 30 e segg.
(3) Ecco uno dei telegrammi: « Conforme avviso vostro e promesse, io son qui. Vogliate inviare vapore per condurmi continente ». Cfr.: G. GUERZONI, Garibaldi , Firenze, Barbera, 1882, pag. 504.
(4) Francesco Crispi così scrive a Garibaldi il 18 giugno 1867: « Generale,...le condizioni del Paese oggi non ci sono favorevoli; le condizioni d'Europa ci sono contrarie. Noi potremmo subire una seconda Aspromonte... ». Cfr.: G. CASTELLINI, Francesco Crispi , Pantheon, Le Monnier, Firenze, 1928, pag. 107 e seguenti.
(5) A. COMANDINI, op. cit.. Vol. IV, pag. 984.
(6) GIULIO ADAMOLI: Da San Martino a Mentano, Milano, Treves, 1892, cap. Vili, pag. 223 e seg.
(7) Da Firenze, il 5 aprile 1867, scrive al fratello Luigi informandolo sulla crisi politica, invitandolo a tenersi pronto per « una gita » a Roma.
Ed il fratello lo raàà pochi giorni dopo in Roma con le istruzioni del Comitato di Firenze. Ecco il testo della lettera, conservata nell'archivio della famiglia Cucchi in Bergamo:
« Caro Giggio,
ebbi il tuo biglietto del 4 corr. e ti rispondo subito. Anche noi siamo qui in piena crisi e senza il minimo appoggio. Sono le tre pomeridiane ed ecco le voci che corsero finora. Rattazzi , incaricato di comporre il Ministero, tentò fin da iersera di mettersi d'accordo con Sclopis affidandogli Grazia e Giustizia, ma questi rifiutò. Pure iersera vennero interpellati Crispi e Ferraris , che il Re avrebbe anche accettati, purché si mettesse come altro collega un nome che, a suo dire, doveva dare maggiori garanzie all'Europa.
Era Menabrea . Crispi e Ferraris , anche all'invito che Menabrea pare incaricato ora di comporre il Ministero, risposero che credevano la situazione troppo compromessa e che d'altronde non s'erano ancora intesi coi loro amici politici: insomma rifiutarono. In questo punto poi (sono le 3 pomeridiane) mi si vuole assicurare che Menabrea e Rattazzi intendono rassegnare il mandato.
Dirti quanto possa essersi di vero o di falso in tutte queste notizie mi è impossibile. Vedremo cosa nàà. Che confusione! O che piacere direbbe lo scellerato zingaro perseguitato dalla Benemerita.
M'immagino la desolazione e lo spavento di tutta la riviera veneta vedendolo scorrazzare impunito.
Ti racchiudo la ricevuta per il Consigliere delle famiglie.
Dirai allo zingaro che Oliva [Antonio] andò a Parma ed appena àà gli parlerò per le carabine.
Salutami lo
zingaro suddetto, Milesi [Angelo], Sirovich [Spiridione] se lo vedi. Addio di cuore.
Tuo CHECCO

P.S. —
Con Scila è rotta ogni trattativa. Egli voleva nuoveimposte per cento milioni, quasi altrettanti d'economia fra le quali la lista civile doveva subire un buon taglio, inde irae della Corte che se potessero appiccherebbero il povero Quintino. Neanche con questi 200 milioni si giungeva però a coprire il deficitàà di 250 e non di 180 come disse Depretis .
Sappi per sola, solissima tua norma, che potrebbe darsi che uno di questi giorni dovessi fare una gita a Roma. Tratterebbesi d'affare molto importante.
Un paio di giorni basterebberàà il mio passaporto della Questura e l'altro del Console di Spagna onde potermi trattenere a Roma. Quello della Questura e per Napoli passando da Roma. Tu scrivimi sempre qui. Addio.

N.B —
Lo « zingaro » a cui allude il Cucchi, con ogni pràà è un emissario ungherese, ricercato dalla Polizia.
nel '49. Si laureò in ingegneria e fu uno dei primi costruttori di ferrovia in Italia e all'estero.
Spiridione Sirovich, veneziano di famiglia dalmata, valoroso garibaldino, partecipo alle Campagne del 1859 e del 1860. Fu segretario di Garibaldi e presso di lui, per vari anni, condusse a compimento, varie delicate missioni. Passò poi al servizio del Re Vittorio Emanuele II prima e di Umberto I poi.
(8) G. LOCATELLI, op. cit., pag. 247.
(9) G. ADAMOLI, op. cit., pag. 337.
(10) G. ADAMOLI, op. cit., pag. 335.
(11) Il Cucchi rispose stizzito all'Adamoli: « Oh, ci provino un po' loro!». Cfr.: ADAMOLI: op. cit., pag. 331. Cfr. anche: R. GIOGAGNOLI, I racconti del maggiore Sigismondi, Firenze, Bemporad, 1868-1869, Vol. III pag. 396. In detto studio è affermato che i Romani che avrebbero potuto insorgere sarebbero stati non superiori agli ottomila ed erano totalmente privi di armi.
(12) Il documento autentico è conservato dalla famiglia Cucchi. L'ADAMOLI lo riporta nell'opera citata a pagina 358.
(13) ADOLFO SASSI: Notizie e documenti per la storia dell'ultima insurrezione romana (1867-1869), Roma a cara della R.S.R. di storia patria, 1913, pag. 82.
(14) G. ADAMOLI, op. cit., pag. 355.
(15) Cfr. nei Ricordi e memoria, di GIUSEPPE MONTI, pubblicata da A. Sassi, op. cit., pag. 64.
(16) Cfr.: Lettera a Gandolin, pubblicata sul « Capitan Fracassa » del 10 gennaio 1886 ed il « Giornale d'Italia » del 3 ottobre l913.
(17) Nel volume Spedizione dei Monti Parioli (23 ottobre 1867), raccontata da Giovanni Cairoti, Torino, 1868, pag. 63 e segg., si legge che il Cucchi,
inviò ad Enrico Cairoli , un biglietto datato 23 ottobre (due del pomeriggio) cosi concepito:
« Carissimo Enrico,
iersera abbiamo tentato il movimento, si combattè in vari punti, ma fummo sopraffatti. Ci troviamo in una situazione disperata. Finche il grosso delle bande àà avvicinarsi a Roma, nessuna speranza di fare con successo un nuovo tentativo. Da pochi momenti ebbi tue notizie e parlai col messo che inviasti. Ora la posizione che occupi arditamente quasi alle porte di Roma o insostenibile. Puoi aver addosso da un momento all'altro tutta la guarnigione di Roma, fa tutto il possibile per tenerti oggi nascosto.
Darò le disposizioni perché sortano tosto alla spicciolata dalle varie parti di Roma, a tè diretti, circa duecento dei migliori nostri giovani onde armarsi coi fucili che porti. Appena a sera io ed altri amici tenteremo ogni mezzo onde varcare le mura e raggiungerti. Decideremo, lungo la notte, se ci convenga unirci alle altre bande, o prendere una posizione sostenibile più vicino a Roma.
Addio ».
Questo biglietto in cui Cucchi impartiva agli amici, con freddo raziocinio, un saggio consiglio che, se attuato, avrebbe potuto risparmiare vite preziose, non venne recapitato in tempo. Parte dei patrioti che erano stati spediti a Villa Glori nell'illusione di trovare armi, che invece erano state lasciate più lontano, furono arrestati. Il Cucchi, che si era recato di furia a Piazza del Popolo per attaccare in forze il presidio, dovette desistere dall'impresa per la suàà del nemico ed ascoltare fremente, l'eco della disperata e sfortunata battaglia che si svolgeva a Villa Glori, poco lontano da lui.
(18) Riportiamo il testo di una lettera in cui il Cucchi informa Garibaldi della situazione in Roma:
29 ottobre, mezzodì
« Generale,
ecco tutte le notizie che posso darvi. Porte fortemente barricate con due pezzi di artiglieria: Porta Popolo, Pici, S. Lorenzo, S. Giovanni, Porta Cavalleggeri, Angelica. Porle chiuse ed interrate: Pinciana, Salara, Maggiore, Metronia, Latina, S. Sebastiano, S. Paolo, S. Pancrazio. Oltre l'artiglieria che sta alle porte si trova ancora alla Villa Medici, ora Accademia di Francia, al Pincio, alla Villa Ludovisi fra Porta Pinciana e Salara, alla Vigna della Basilica a S. Croce in Gerusalemme... ecc. Il grosso delle truppe ponteficie sta fuori la Porta Pia e occupando specialmente le ville Patrizi, Albani, Massimi, Torlonia, andando verso Ponte Nomentano. La Villa Torlonia che è la più fortemente occupata a avendo la scorsa notte duemila uomini ed otto pezzi di cannone. Il ponte Molle sul Tevere e ponti sul Teverone sono tutti minati, anzi quello Salario mi si assicura che saltò ieri. Le truppe pontificie sono ormai tutte concentrate attorno Roma dopo quelle di Frosinone e Velletri, giunsero questa mattinaù da Civitavecèchia quelle di Viterbo. A Nicotera mandai quattro espressi onde sollecitarlo ad avanzare. Qualora venga da Lei attaccata una porta noi faremo di tutto onde aiutare nel di dentro ad onta che ci troviamo completamente senz'armi. Uno dei punti più deboli è l'angolo » rientrante fra la Porta S. Sebastiano e S. Paolo. Stiamo vedendo se vi fosse mezzo di far saltare Porta Pinciana e speriamo combinare una mina sotto la barricata al di fuori di Porta S. Giovanni. Mando queste stesse notizie anche col mezzo di altri amici.
CUCCHI
Ebbi il di Lei biglietto di ieri sera ».
La lettera, tratta dall'archivio Cuèè pubblicata sul « Giornale d'Italia » del 3 ottobre 1013.
(19) G. ADAMOLI. op. cit., pag. 368. Cfr. anche: G. CASTELUNI, Eroi garibaldini, Zanichelli, Bologna, 1911, Vol. II, pag. 168.
(20) « Ed eccoci al mattino del 3 novembre. Un'ora dopo mezzanotte arrivò il Imiterò, con il dispaccio urgente del Comitato d'insurrezione, che il Basso svolse dalla stagnuola e portò a Garibaldi , il quale dormiva profondamente. Era il dispaccio, redatto dal Cucchi, che rendeva conto di tutto il piano stabilito nel Consiglio di guerra, tenuto la sera del 1° novembre, fra i generali alleati, sotto la presidenza del Kanzeler; della decisione presa di attaccarci il mattino del ;i; dell'ora della partenza, dell'ordine di marcia: i pontifici all'avanguardia, onore impetrato dal De Charette, i francesi in coda; insomma, di tutto ciò che era a noi opportuno sapere ». ADAMOLI: op. cit., pag. 375.
(21) « Io non avrei mai creduto —àà Garibaldi a Edgardo Quinet che i soldati di Solferino sarebbero venuti a combattere i fratelli, che avevano con il loro sangue liberati, e questa credenza mi valse una disfatta ». Cfr.: G. GUERZONI, Vita di Garibaldi . Barbera, Firenze, Vol. II, 1882, pag. 541.
(22) G. LOCATELLI, op. cit., pag. 254.
(23) G. ADAMOLI, op. cit., pag. 363.
(24) La lettera auèè conservata presso l'archivio di famiglia Cucchi in Bergamo.
Giorgio Manin , figlio di Daniele, dittatore veneto nel 1848, combatte con il padre e lo segui nell'esilio. Nel 1859 fu nell'Esercito di Toscana e nel 1860 partecipò alla Spedizione dei Mille con Garibaldi , segnalandosi nei combattimenti di Calafatimi e Palermo, dove venne ferito. Nella Campagna del '66 accorse alle armi e fu ancora ferito a Custoza. Fu nominato aiutante di campo onorario del Re.
Cfr.: P. SCHIARINI, in « Dizionario del Risorgimento Nazionale », Ed. Vallardi, Milano, 1933, Vol. III, pag. 471.
(25) Cfr. il volume di E. MAYOR DES PLANCHES, M. Crispi chez M. De Bismarck – Journal de voyage, Farzani ed. Roma, 1894, pagg. 55-57 e l'articolo di PIERRE DE QUIRIELLE su Francesco Cucchi sul « Journal des Debats » dell'8 dicembre 1913.
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continua
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