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Alessandro Manzoni - Fermo e Lucia

Alessandro Manzoni download
FERMO E LUCIA di Alessandro Manzoni

INTRODUZIONE ( PRIMA INTRODUZIONE  CONTEMPORANEA  ALLA  STESURA
DEI PRIMI CAPITOLI)

«La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte: poiché
richiamando dal sepolcro gli anni  già  incadaveriti,  gli  passa  di  nuovo  in
rassegna, e li ordina di nuovo in battaglia: onde i perspicaci  ingegni  che  in
questo arringo raccolgono palme conservano al loro nome quella  immortalità  che
agli altri conferiscono. Ma questi  nobili  campioni  della  memoria  non  fanno
all'obblio se non furti splendidi e rapiscono soltanto le spoglie le più  ricche
e brillanti, imbalsamando coi loro inchiostri i fatti dei prencipi e  potentati,
e personaggi, tessendo come in feral tela le battaglie, e  trapuntando  coll'ago
finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un perpetuo ricamo  di
azioni gloriose. Però non essendo alla debolezza del mio ingegno concesse queste
vittorie, ed  avendo  io  osservato  nel  lungo  giro  dei  miei  anni  molte  e
straordinarie vicende le quali mi sono sembrate degne di memoria, ma di  memoria
defraudate saranno e per essere avvenute in gran parte a persone meccaniche e di
bassa condizione e non avere portata  mutatione  nelle  ruote  degli  stati:  ho
stimato di lasciarne una ricordanza ai posteri o  almeno  ai  miei  discendenti,
collo scolpirle in queste carte, parendomi che le cose private di  questi  tempi
sieno meritevoli di quella osservazione che i dotti danno alle  cose  mostruose,
perché in picciolo teatro vi si veggono luttuose tragedie di calamità,  e  scene
di malvagità grandiosa. Onde  si  vede  esser  vero  quel  detto  che  il  mondo
invecchiando peggiora, ma non credo che sarà vero d'ora in poi, perché avendo il
male ormai  passato  i  termini  della  comparazione,  ha  toccato  l'apice  del
superlativo, e il pessimo non è di peggioramento capace.  Si  vedrà  anche  come
l'umana malizia ha saputo superare tutti i ritegni, e spezzare tutti i freni più
ben temprati, avendo potuto moltiplicare ogni sorta di sevizie, perfidie ed atti
tirannici a dispetto delle leggi divine ed humane.  E  considerando  che  questi
stati sieno soggetti alla Maestà del re Cattolico che è quel sole  che  mai  non
tramonta, e che sovra di essi con riflesso lume qual luna risplenda chi ne fa le
veci, e gli amplissimi senatori quali stelle fisse vi scintillino, e  gli  altri
magistrati come erranti pianeti portino la luce in ogni parte,  venendo  così  a
formare un nobilissimo cielo, si vedrà che gli atti tenebrosi che a malgrado  di
tante provvidenze si sono moltiplicati essere  altro  non  possono  che  arte  e
fattura diabolica,  poiché  l'humana  potenza  del  male  bastare  a  tanto  non
dovrebbe. Narrando adunque come fedele spettatore li accidenti singolari  da  me
osservati, tacerò per degni rispetti molti nomi di personaggi e  di  luoghi  che
potrebbero servire come di indizio e di guida a trovare i personaggi nel  covile
oscuro della dimenticanza: né per ciò si dirà che questa sia  imperfezione  alla
suddetta mia storia; a  meno  che  non  fosse  letta  da  persone  ignare  della
filosofia, e gli uomini dotti ben vedranno che nulla manca alla sostanza; perché
essendo fuori di ogni  dubitazione  che  il  nome  altro  non  è  che  purissimo
accidente...». Aveva trascritta fino a  questo  punto  una  curiosa  storia  del
secolo decimosettimo, colla intenzione di pubblicarla, quando per degni rispetti
anch'io stimai che fosse meglio conservare i fatti e rifarla  di  pianta.  Senza
fare una lunga enumerazione dei giusti motivi che mi vi determinarono, accennerò
soltanto il vero e principale. L'autore di questa storia è andato frammischiando
alla narrazione ogni sorta di  riflessioni  sue  proprie;  a  me  rileggendo  il
manoscritto ne venivano altre e diverse; paragonando imparzialmente le sue e  le
mie, io veniva sempre a trovare queste ultime molto più sensate, e per amore del
vero ho preferito lo scrivere le mie a copiare le altrui; stimando anche che chi
ha una occasione per dire il suo parere sopra che che sia non debba  lasciarsela
sfuggire. Le mezze confidenze  del  narratore  e  le  ommissioni  frequenti  dei
cognomi dei personaggi, e dei nomi dei luoghi, non fanno a  dir  vero  oscurità:
veggio nullameno per esperienza  che  sono  fastidiose  a  chi  legge,  e  avrei
desiderato trovare altrove ciò che è solamente indicato nel manoscritto, ma  non
mi venne fatto: in qualche luogo però le indicazioni di luogo sono così chiare e
moltiplici che il nome si è potuto trovare certamente e  facilmente,  ed  allora
l'ho scritto. È qui il  luogo  d'antivenire  un'accusa  la  quale  per  grave  e
pericolosa ch'ella sia, potrà leggermente esser data a questo scritto: cioè  che
non sia altrimenti fondato sopra una storia vera di  quel  tempo,  ma  una  pura
invenzione moderna. Prego coloro i quali fossero disposti  ad  ammettere  questo
sospetto, a riflettere che essi verrebbero ad accusare l'editore niente meno che
di aver fatto romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna,  la
quale ha gloria di non averne o pochissimi. E benché  questa  non  sia  la  sola
gloria  negativa  di  questa  nostra  letteratura   pure   bisogna   conservarla
gelosamente intatta, al che ben provvedono quelle migliaja di lettori e  di  non
lettori i quali per opporsi a ogni sorta d'invasioni letterarie  si  occupano  a
dar se non altro molti  disgusti  a  coloro  che  tentano  d'introdurre  qualche
novità.  Oltre  di  che  questo  genere,  quand'anche  non  sia  altro  che  una
esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati  è  altrettanto
falso e frivolo, quanto vero e importante era ed è il poema epico e  il  romanzo
cavalleresco in versi. Per queste ragioni  ognun  vede  quanta  debba  importare
all'editore di allontanare da sé questo sospetto. Certo, il migliore  espediente
sarebbe di mostrare il manoscritto, ma a questo egli non può indursi per altri e
pur degni rispetti. Il più degno dei quali si è, che  se  il  manoscritto  fosse
mostrato a pochissimi ed  amici,  l'incredulità  durerebbe,  e  se  a  molti  si
diffonderebbe l'opinione che la  vecchia  e  originale  storia  è  molto  meglio
scritta che la nuova e rifatta, che v'era in quella un certo  garbo,  una  certa
naturalezza, un sapore di verità,  un'aria  di  contemporaneità  che  è  svanita
affatto nella copia. Si direbbe che veramente il reo  gusto  del  secolo  si  fa
sentire nello stile del vecchio scrittore ma che però vi è una  certa  fragranza
(dico bene?) di lingua che ben fa vedere che di  poco  era  spirato  quell'aureo
cinquecento, quel secolo nel quale tutto era puro,  classico,  lindo,  semplice,
nel quale la buona lingua si respirava per così dire coll'aria, si attaccava  da
sé agli scritti, dimodoché, cosa incredibile e vera! fino i conti delle cucine e
gli editti pubblici erano dettati in buono stile. Che se nel secolo  susseguente
tutto si alterò, almeno almeno la corruttela non era straniera, era un lusso  un
abuso delle ricchezze patrie, una sazietà del bello o almeno  non  si  leggevano
ancora libri francesi,  perché  la  Francia  non  aveva  ancora  quegli  insigni
scrittori che per disgrazia delle  lettere  ebbe  dappoi.  Non  volendo  adunque
mostrare il manoscritto originale, ha  l'editore  pensato  un  altro  mezzo  per
convincere i lettori della realtà di questa storia.  I  dubbj  su  di  essa  non
possono nascere da altro che dal non trovare verità nel costume,  nei  fatti,  e
nei caratteri del tempo rappresentato: poiché se  si  venisse  a  concedere  che
questa verità si trova, allora il dire che la storia è inventata potrebbe  quasi
quasi parere più che un biasimo una lode, dal che bisogna  guardarsi  ben  bene.
Ora per certificare i più increduli che i  costumi  sono  veramente  quelli  del
tempo, l'editore propone loro di fare ciò ch'egli stesso ha fatto per giungere a
questo convincimento. A dir vero molte gli parevano tanto  strane,  ch'egli  non
sapeva risolversi a crederle realmente avvenute,  perloché  si  pose  a  frugare
molto nei libri e nelle memorie d'ogni genere che  possono  dare  una  idea  del
costume e della storia pubblica e privata del  Milanese  nella  prima  metà  del
secolo decimosettimo. Tutte le sue ricerche lo condussero a  risultati  talmente
somiglianti a ciò che egli aveva veduto nel manoscritto che non gli  rimase  più
dubbio della veracità della storia che vi si contiene. Per comodo di chi volesse
rifare queste ricerche egli pone  qui  una  scelta  delle  letture  opportune  a
mettere chicchessia in caso di giudicare da sé  questo  fatto.  Nota  di  libri,
memorie etc. ...... Ma di questi libri, dirà taluno;  alcuni  sono  difficili  a
ritrovarsi, e la più parte nojosi a leggersi, e scritti  in  uno  stile  tra  il
goffo e il lezioso, tra il barbaro e il pedantesco. Alcuni poi sono in latino  e
come pretendere che si leggano libri latini per convincersi se una storia è vera
o supposta? Chi non sa che le signore non imparano pur troppo il latino,  e  che
le signore appunto sono quelle che più si dilettano di leggere  storie  private?
dimodoché i mezzi di fare questa verificazione sarebbero  appunto  interdetti  a
chi più probabilmente avrà letta la storia. Rispondo anche a questa  obbiezione,
pregando il lettore a non farmene più altre per non farmi perdere  il  tempo  in
ciarle, e ritardare così quello che importa cioè il racconto.  Rispondo  dunque:
che fra i pochi lettori di questa storia, vi saranno certamente molti,  i  quali
benché virtualmente sappiano che nel passato vi sono stati gli  anni  1628-29  e
-30, non hanno però mai pensato a questi anni, e che molto meno sanno  che  cosa
in quegli anni si facesse, come si vivesse, se vi sia stato un po' di  fame,  di
guerra, e dl peste, e di quelle  altre  coserelle  che  si  vedranno  in  questa
storia. Questi ch'io dico penseranno dunque a quest'epoca  per  la  prima  volta
leggendo questa storia, e da essa ne ricaveranno  tutte  le  notizie.  E  appena
avranno letta qualche pagina cominceranno a  trovare  che  la  tal  cosa  non  è
verisimile, che la tal altra non ha il colore del tempo e simili  scoperte.  Ora
fra questi lettori scommetterei che forse non  vi  sarà  una  sola  signora.  In
generale elle non  conoscono  la  maniera  dotta  e  ingegnosa  di  leggere  per
cavillare lo scrittore, ma si prestano più facilmente a ricevere le  impressioni
di verità, di bellezza, di benevolenza che uno scritto può fare; quando  non  vi
trovino nulla di simile, chiudono il libro,  lo  ripongono  senza  gettarlo  con
rabbia, e non vi pensano più. Sicché io confido che la veracità di questa storia
esse la sentiranno senza discuterla, che non si divertiranno a sottilizzare  per
trovare il falso dove non è; e per conseguenza la  nota  riportata  di  sopra  è
affatto inutile per loro. V'è poi un'altra obbiezione che non  si  può  lasciare
senza risposta, una obbiezione che l'editore farebbe a se  stesso  quando  fosse
certo che non verrà in capo a nessuno. La pubblicazione di questa storia  non  è
cosa affatto inutile, non è una occasione di far perdere  qualche  ora  a  pochi
lettori? Lettori miei, se dopo aver letto questo libro voi non trovate di  avere
acquistata alcuna idea sulla storia dell'epoca che vi è descritta,  e  sui  mali
dell'umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può facilmente arrivare per diminuirli
e in sé e negli altri, se leggendo voi non avete in molte occasioni  provato  un
sentimento di avversione al male di ogni genere, di simpatia e di  rispetto  per
tutto ciò che è pio, nobile, umano, giusto, allora la  pubblicazione  di  questo
scritto sarà veramente inutile, l'obbiezione sarà ragionevole, e l'editore  avrà
un dispiacere reale del tempo, e che ha fatto gittare agli altri,  e  del  molto
più che egli stesso vi ha speso.


INTRODUZIONE RIFATTA DA ULTIMO

«L'Historia si può veramente chiamare una guerra meravigliosa contro  la  Morte;
perché togliendoli  di  mano  gl'anni  già  suoi  prigionieri,  anzi  già  fatti
cadaveri, li chiama in vita, li passa in rassegna, e  li  schiera  di  nuovo  in
battaglia. Ma li illustri Campioni che in tal  arringo  fanno  messe  di  palme,
rapiscono soltanto le spoglie più sfarzose e brillanti,  imbalsamando  coi  loro
inchiostri i fatti de Prencipi e Potentati e  qualificati  Personaggi,  tessendo
come in feral tela i  conflitti  di  Marte,  e  trapontando  coll'ago  finissimo
dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un perpetuo  ricamo  di  azzioni
gloriose. Però alla mia debbolezza non è lecito solleuarsi a  tal  argomenti,  e
sublimità pericolose; essendo che la Politica  rinchiusa  nelli  latiboli  delli
Gabinetti come la Dea cacciatrice negl'horrori del fonte,  secondo  che  attesta
Ouidio, se qualche Atteone spinge lo sguardo troppo  curioso  a  spiare  i  suoi
segreti, sprizzandoli l'acqua misteriosa nel fronte, lo tremuta  in  ceruo,  con
diuenir bersaglio de veltri. Solo che hauendo io hauuto notitia di  fatti  degni
di memoria, auuegnaché successi a gente  meccaniche  et  di  piccol  affare,  ho
stimato bene di lasciarne una ricordanza  a  posteri  con  scolpirli  in  queste
carte. Nelle quali si vedranno in piccol teatro luttuose Traggedie di  calamità,
et scene di malvaggità grandiosa, con intermezi di imprese  virtuose,  et  bontà
angeliche che s'oppongono all'operationi diaboliche. Et  veramente  considerando
che questi Stati sijno soggetti alla Maestà del Re Cattolico, che  è  quel  Sole
che mai non tramonta, et che sopra di essi, con riflesso lume, qual Luna non mai
calante risplenda chi ne fa le veci,  et  gl'amplissimi  Senatori  quali  Stelle
fisse vi scintillino, et gl'altri Magistrati come  erranti  Pianeti  portino  la
luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo cielo, altra  caggione
non si può dare delli fatti tenebrosi, prepotenze, sevitie ed atti tirannici che
si vanno moltiplicando, se non se arte  e  fattura  diabolica:  poiché  l'humana
malitia per se sola, forza bastante hauer non dovrebbe per deludere la vigilanza
di  tanti  Heroi,  che  vanno  continuamente  trafficandosi  per   il   pubblico
emolumento. Perloché descrivendo questo racconto auuenuto  nelli  tempi  di  mia
gioventù, abbenché la più parte delle Persone in esso nominate sijno passate  ad
altra vita, pure tacerò per degni rispetti li loro nomi, et il medemo farò delli
luoghi, solo indicando li territorij senza specificar il paese. Nè  alcuno  dirà
che questa sij imperfezzione del racconto, a meno  non  sij  persona  del  tutto
ignara della Filosofia: che quanto agl'huomini dotti, ben vedranno  nulla  manca
alla sostanza di detto racconto; perché essendo fuori d'ogni dubitatione  che  i
nomi altro non sono se non purissimi  accidenti...»  Tale  è  il  proemio  d'una
curiosa storia, che avevamo animosamente impresa a trascrivere  da  un  dilavato
autografo del secolo decimo settimo, ad intento di pubblicarla.  Ma  copiate  le
poche righe che abbiam qui poste per saggio,  il  fastidio  che  provammo  d'una
prosa così fatta ci fece avvertire a quello che ne  proverebbero  i  lettori,  e
intralasciare una fatica che sarebbe probabilmente gittata. È ben  vero  che  il
nostro anonimo dopo essersi sul principio sbizzarrito in concettini e in figure,
piglia poi nel racconto un andamento più posato e più piano, e solo di tratto in
tratto spicca qualche salterello d'ingegno, dove il soggetto lo richiede a parer
suo. Ma quando egli cessa d'esser gonfio diviene così pedestre!  così  sguaiato!
Anzi, come il lettore ha  potuto  accorgersene,  ha  l'arte  di  riunire  queste
qualità opposte in apparenza, e d'esser rozzo insieme e affettato  nella  stessa
pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo: arte  del  resto  comune  a
quasi tutti gli scrittori del suo tempo, nel paese dove egli scrisse. Ogni epoca
letteraria ha un carattere generale suo proprio, una maniera, per dir così,  che
si fa scorgere a prima vista negli  scritti  dozzinali,  e  dalla  quale  i  più
distinti e originali non vanno mai esenti del tutto. In  Italia  poi,  spesso  e
forse ad ogni epoca, oltre la  maniera  generale  v'ebbe  in  ciascuno  Stato  e
principalmente in ciascuna città capitale una maniera particolare per  dir  così
una sotto-maniera che era  una  modificazione  di  quella:  ne  riteneva  alcuni
caratteri e ne aveva altri suoi proprii. Erano come tante varietà d'una  specie.
Di tutte queste differenze si ponno trovare ad ogni  caso  molte  cagioni  nelle
varie circostanze dei diversi stati: una cagione comune è l'essere  in  ciascuno
di essi adoperato nei discorsi un dialetto  particolare  anche  tra  le  persone
colte. Ogni lingua, ogni dialetto oltre i segni d'idee per così dire semplici  e
che hanno segni sinonimi in ogni altra lingua, ha segni particolari, e ancor più
frasi che esprimono o accennano un giudizio o pongono la questione  in  un  modo
particolare. La moltitudine di questi vocaboli e di queste frasi particolari  dà
ad ogni dialetto un carattere, un colore suo proprio, e v'introduce  una  specie
di criterio individuale. Quando l'uomo che parla  abitualmente  un  dialetto  si
pone a scrivere in una lingua,  il  dialetto  di  cui  egli  s'è  servito  nelle
occasioni più attive della vita, per l'espressione più immediata e spontanea dei
suoi sentimenti, gli si affaccia da tutte le parti, s'attacca alle sue idee,  se
ne impadronisce, anzi talvolta gli somministra le idee in una formola; gli  cola
dalla penna e se egli non ha fatto uno studio particolare della lingua, farà  il
fondo del suo scritto. Di questo colore municipale si è  fatto  in  varii  tempi
rimprovero a molti scrittori: che deturpasse gli scritti non v'ha dubbio: quanto
agli scrittori, prima di rimproverarli così acremente si sarebbe dovuto  pensare
che non è cosa tanto facile prescindere da quelle formole alle quali sono  unite
per abito tutte le memorie, tutti i sentimenti, tutta la vita intellettuale. Non
è cosa facile certamente; e non è pur certo se questo sia un mezzo di far  buoni
libri.  Questa  irruzione  inevitabile  di  ciascun   dialetto   negli   scritti
generalmente parlando, ha quindi contribuito grandemente  a  dare  agli  scritti
d'ogni parte d'Italia un carattere speciale: carattere così distinto che un uomo
il quale abbia un po' frugato nelle opere buone e triste dei varii  tempi  della
letteratura italiana, potrà dal solo stile d'un'opera  argomentar  quasi  sempre
non solo il secolo ma la patria dello scrittore, e apporsi.  Lo  stile  lombardo
per esempio ha un carattere suo proprio riconoscibile in tutti i tempi, e  quasi
in tutti gli scrittori. Due classi ne ritengono meno  degli  altri:  quegli  che
hanno fatto uno studio particolare della lingua  toscana;  e  quegli  altri  che
trattando materie generali, discusse dai primi  scrittori  di  Europa,  si  sono
serviti di uno stile per dir così europeo  etc.  etc.  Nella  seconda  metà  del
secolo decimo settimo, quando scriveva il  nostro  autore,  quella  maniera  che
dominava in tutta la letteratura italiana e ha conservata  una  turpe  celebrità
sotto il nome di secentismo; e che consisteva principalmente in uno  sforzo  per
trovare il maraviglioso ebbe nei diversi paesi d'Italia diverse modificazioni, e
tendenze  principali:  dove  fu  principalmente  una  affettazione  di  sagacità
raffinata, dove una esagerazione impetuosa d'idee di sentimenti e d'immagini. In
Lombardia, dove pochissime idee erano diffuse e ventilate,  donde  nessun  libro
veramente importante era uscito fin allora, dove la lingua toscana  si  studiava
pochissimo e da pochissimi, e da nessuno per così dire le lingue  straniere,  le
quali del resto non avendo ancora opere ben pensate non potevan comunicare  idee
in Lombardia dove alcuni pochi studii erano coltivati in un modo  pedantesco,  e
molti studii trascurati anzi sconosciuti,  il  linguaggio  comune  doveva  esser
rozzo, incolto, inesatto, arbitrario, casuale;  e  lo  era  infatti  al  massimo
grado. Sur un tal fondo si ricamava poi di quelle arguzie, si  appiccava  quella
ricercatezza che era la tendenza generale di tutta la letteratura italiana; e ne
usciva quel complesso di goffaggine prosuntuosa, d'ignoranza affermativa, quella
continuità d'idee storte espresse in solecismi, lo scrivere insomma di cui si  è
dato un saggio. E il nostro autore non era uno dei peggiori del suo  tempo:  era
anzi alquanto al di sopra della proporzione media:  ma  in  verità  s'io  avessi
avuta la pazienza di trascrivere  la  sua  storia  voi  non  avreste  quella  di
leggerla. La storia però ci parve interessante, e ci sapeva male ch'ella dovesse
rimanersi sempre sconosciuta. Ci siamo quindi risoluti di  rifarla  interamente,
non pigliando dall'autore che i nudi fatti. Ma, rigettando, come  intollerabile,
lo stile del nostro autore, che stile vi abbiamo noi sostituito?  Qui  giace  la
lepre. Che giova dissimulare? Confessiamo sinceramente  che  anche  noi  abbiamo
adoperata qua e là, non solo nei dialoghi, ma  anche  nella  narrazione  qualche
parola, qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l'abbiamo  presa,
perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa  parte  d'Italia,  si
fanno intendere a prima  giunta  ad  ogni  lettore  italiano.  Se  noi  avessimo
conosciute frasi dello stesso valore, le quali fossero non  solo  intelligibili,
ma adoperate negli scritti e  nei  discorsi  per  tutta  Italia,  certamente  le
avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando  di  buona  voglia  l'imitazione
d'una verità locale alla purezza della lingua;  persuasi  come  siamo  che  quel
primo vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non  si  possa
conciliare col secondo. Oh! dirà qui taluno, è questa una giustificazione o  una
burla? Come pensate voi a scusarvi di quella picciola libertà, quando  una  così
grande e così strana ne avrete presa in ogni luogo? quando tutta  questa  vostra
dicitura è un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un  po'  toscane,  un
po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono  a  nessuna  di
queste categorie, ma sono cavate per analogia e  per  estensione  o  dall'una  o
dall'altra di esse? quando perfino conciliando, come il nostro autore, due vizii
opposti avete più d'una volta peccato di arcaismo e di  gallicismo  in  un  solo
vocabolo? dimodoché non si potrà forse nemmeno  dire  dove  specialmente  pecchi
questa lingua che adoperate, e non si può dire se non che è cattiva lingua.  Voi
fate come chi dopo aver pesto un galantuomo a furia di sassate gli chiedesse poi
scusa di avergli fatta qualche picciola macchia su l'abito. Ringrazio  prima  di
tutto, molto cordialmente il cortese che mi  fa  questa  censura;  perché  dessa
prova ch'egli ha letto o tutto  o  almeno  in  gran  parte  il  mio  scritto.  E
appresso, lo prego di scusarmi se non gli posso rispondere. Non è già ch'io  non
abbia ragioni da addurre per mia discolpa, non è nemmeno perché io  mi  vergogni
di  diffondermi  in  un  sì  frivolo  argomento  come  sarebbe  la  mia  propria
giustificazione: giacché lasciando da parte questa miserabile  applicazione,  la
questione generale è per sè vasta e importante. E questo appunto è il motivo per
cui non posso rispondere al cortese censore; perché le ragioni  son  troppe.  Ci
bisognerebbe un libro: e il cortese censore sarà d'accordo con me che  di  libri
uno per volta è sufficiente, quando non è troppo. Basta all'autore che altri non
creda avere egli scritto male per noncuranza di chi  legge,  per  dispregio  del
bello e purgato scrivere, che sia di quelli che  hanno  per  gloria  lo  scriver
male. Per gloria! quand'anche ella fosse impresa difficile, tanti  vi  hanno  sì
ben riuscito, che poca gloria ne debbe toccare a ciascuno.  Scrivo  male:  e  si
perdoni all'autore che egli parli di sè: è un privilegio  delle  prefazioni,  un
picciolo e troppo giusto sfogo concesso alla vanità di chi ha  fatto  un  libro:
scrivo male a mio dispetto; e  se  conoscessi  il  modo  di  scriver  bene,  non
lascerei certo di porlo in opera. I doni dell'ingegno non si acquistano, come lo
indica il nome stesso; ma tutto ciò che lo  studio,  che  la  diligenza  possono
dare, non istarebbe certamente per me ch'io non lo  acquistassi.  Che  cosa  poi
significhi scriver bene non credo che alcuno  possa  definirlo  in  poche
parole, e per me, anche con moltissime non ne verrei a capo.  Ecco  però  alcune
delle idee che mi sembra doversi intendere in quella formola.  A  bene  scrivere
bisogna sapere scegliere quelle parole  e  quelle  frasi,  che  per  convenzione
generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente  parlando)
hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo,  o  inventate
dagli scrittori, o derivate da un'altra lingua, quando che sia,  comunque,  sono
generalmente ricevute e usate. Parole e frasi  che  sono  passate  dal  discorso
negli scritti senza parervi basse, dagli  scritti  nel  discorso  senza  parervi
affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all'uno e all'altro
uso.  Parole  e  frasi  divenute  per  quest'uso  generale  ed  esclusivo  tanto
famigliari ad ognuno, che  ognuno  (moralmente  parlando)  le  riconosca  appena
udite; dimodoché se un parlatore o uno scrittore per  caso  adoperi  qualcheduna
che non sia di quelle, o travolga alcuna di  quelle  ad  un  senso  diverso  dal
comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella  parola
sia barbara, o inopportuna non  debba  frugare  un  vocabolario,  né  ricordarsi
(memoria negativa che debb'esser molto difficile) che quella parola non è  stata
adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria,
all'uso,  al  sentimento  degli  altri  ascoltatori,  i  quali  fossero   mille,
converranno tosto del sì o del no. Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che
il parlatore triviale e l'egregio cavino dallo stesso  fondo,  e  dopo  d'averli
uditi successivamente, un uomo colto senta fra di  loro  differenza  d'idee,  di
raziocinio, di forza etc. ma non di lingua. Parole e frasi, per  finirla,  tanto
note per uso, e immedesimate col loro  significato,  che  quando  uno  scrittore
ingegnoso, per mezzo di analogia le fa servire  ad  un  significato  pellegrino,
quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, ed  ogni  lettore  vi
senta in un punto e l'idea comune, e quel passaggio, quella estensione etc.  che
ha in quell'uso particolare. Per bene usare parole e frasi tali, cioè  per  bene
scrivere sono necessarie due condizioni. Che lo scrittore (lasciando  sempre  da
parte l'ingegno) le conosca, che abbia letto libri bene scritti, e  parlato  con
persone colte, che abbia posto studio nell'udire e nel leggere e  ne  ponga  nel
parlare. Ma questa condizione è la seconda.  La  prima  è  che  parole  e  frasi
adottate  esclusivamente  per  convenzione  generale  esistano,  che  moltissimi
scrittori e parlatori, come d'accordo, abbiano  formata  questa  lingua  ch'egli
debbe scrivere, gli abbiano preparati i materiali.  Se  in  Italia  vi  sia  una
lingua che abbia questa condizione, è una quistione su la quale non ardisco dire
il mio parere. È ben certo che v'ha molte lingue  particolari  a  diverse  parti
d'Italia, che in  una  sfera  molto  ristretta  di  idee  certamente,  ma  hanno
quell'universalità e quella purità. Io per  me,  ne  conosco  una,  nella  quale
ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva,  tanto  da
stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di  avvertire
immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza
vantarmi, è la milanese. Ve  n'ha  un'altra  in  Italia,  incomparabilmente  più
bella, più ricca di questa, e  di  tutte  le  altre,  e  che  ha  materiali  per
esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana. Se  poi  anche
questa lingua, la quale, fino ad una certa epoca bastava ad  esprimere  le  idee
più elevate etc. era al livello delle cognizioni  europee,  lo  sia  ancora,  se
possa somministrare frasi proprie alle idee che si concepiscono  ora,  se  abbia
avuto libri sempre pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è
un'altra quistione su la quale  non  ardisco  dire  il  mio  parere.  Frattanto,
desidero ardentemente che tutti gli scrittori,  e  i  parlatori  convengano  una
volta dove sia questa lingua, e  come  abbia  a  nominarsi.  Dico  tutti,  o  il
grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono aver ragione soli in
una tal materia. La ragione non è in quel che si possa,  in  quel  che  convenga
fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è: è quistione di  fatto;
e il fatto su cui si disputa è appunto se esista o no questo universale o  quasi
universale uso d'una lingua comune. E a dir vero il  solo  cercarla  è  un  gran
pregiudizio ch'ella non vi sia. Certo dove ella v'è, non si fa la  quistione,  e
se uno la proponesse, non sarebbe pure inteso.

TOMO PRIMO

CAPITOLO I 

IL CURATO DI...

Quel ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace  fra  due  catene  non
interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni e
per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si viene tutto ad un tratto a
ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia  in  un  corso  diretto  e
continuato di modo che dalla riva si può per dir così segnare il punto  dove  il
lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor
più sensibile all'occhio  ed  all'orecchio  questa  trasformazione:  poiché  gli
argini perpendicolari che lo fiancheggiano non lasciano venir le onde a  battere
sulla riva ma le avviano rapide sotto gli archi; e presso quegli argini uno  può
quasi sentire il doppio e diverso  romore  dell'acqua,  la  quale  qui  viene  a
rompersi in piccioli cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata  dalle  pile
di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale. Dalla
parte che guarda a settentrione e che a quel  punto  si  può  chiamare  la  riva
destra dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato alla estrema falda del
Monte di San Michele, il quale si bagnerebbe nel fiume se l'argine non vi  fosse
frapposto. Ma dall'opposto lato il ponte è appoggiato al lembo  di  una  riviera
che scende verso il lago con un molle pendio, sul  quale  per  lungo  tratto  il
passaggero può quasi credere di scorrere una perfetta pianura. Questa riviera  è
manifestamente formata da tre grossi torrenti i quali  spingendo  la  ghiaja,  i
ciottoli, e i massi rotolanti dal monte, hanno a poco  a  poco  spinte  le  rive
avanti nel lago, ed erano abbastanza vicini perché le ghiaje gettate da  essi  a
destra e a sinistra abbiano potuto col tempo toccarsi e formare un terreno sodo.
Allora hanno cominciato a correre in un  letto  alquanto  più  regolare,  poiché
questi stessi depositi  hanno  loro  servito  d'argine,  e  il  successivo  loro
impicciolimento cagionato dall'abbassamento dei monti, dal diboscamento, e dalla
dispersione delle acque gli ha rinchiusi  in  un  letto  più  angusto.  Così  il
terreno che li divide ha potuto essere abitato  e  coltivato  dagli  uomini.  Il
lembo della riviera che viene a morire nel lago è di nuda e grossa arena  presso
ai torrenti, e uliginoso negli intervalli, ma  appena  appena  dove  il  terreno
s'alza al disopra delle escrescenze del lago e del traripamento della  foce  dei
torrenti, ivi tutto è prati campagne  e  vigneti,  e  questo  tratto  d'ineguale
lunghezza è in alcuni luoghi forse d'un  miglio.  Dove  il  pendio  diventa  più
ripido son più frequenti, e assai più lo erano per lo  passato,  gli  ulivi;  al
disopra di questi e sulle  falde  antiche  dei  monti  cominciano  le  selve  di
castagni, e al di sopra di queste sorgono le ultime creste dei  monti  in  parte
nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli verdissimi, in parte  coperte
di carpini, di faggi, e di qualche abete. Fra questi alberi crescono pure  varie
specie di sorbi, e di dafani, il cameceraso, il rododendro ferrugigno, ed  altre
piante montane le quali rallegrano e  sorprendono  il  cittadino  dilettante  di
giardini che per la prima volta le vede in  quei  boschi,  e  che  non  avendole
incontrate che negli orti e nei giardini è avvezzo a considerarle colla fantasia
come quasi un prodotto della coltura artificiale  piuttosto  che  una  spontanea
creazione della natura. Dove però la mano dell'uomo ha potuto  portare  una  più
fruttifera coltivazione fino presso alle vette, non ha lasciato di farlo,  e  si
vedono di tratto in tratto dei piccioli vigneti posti su un rapido pendio, e che
terminano col nudo sasso del comignolo. La riviera è tutta sparsa di case  e  di
villaggi: altri alla riva del lago, anzi nel lago stesso  quando  le  sue  acque
s'innalzano per le piogge, altri sui varj punti del pendio, fino al  punto  dove
la montagna è nuda, perpendicolare, ed inabitabile. Lecco  è  la  principale  di
queste terre e dà il nome alla riviera: un grosso borgo a questi  tempi,  e  che
altre volte aveva l'onore di essere un discretamente forte  castello,  onore  al
quale andava  unito  il  piacere  di  avervi  una  stabile  guarnigione,  ed  un
comandante, che all'epoca in cui accade la storia  che  siamo  per  narrare  era
spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre, dalle montagne al  lago,  da  una
montagna  all'altra  corrono  molte  stradicciuole  ora  erte,  ora   dolcemente
pendenti, ora piane, chiuse per lo più da muri fatti  di  grossi  ciottoloni,  e
coperti qua e là di antiche edere le quali, dopo aver colle  barbe  divorato  il
cemento, ficcano le barbe stesse fra un sasso  e  l'altro,  e  servono  esse  di
cemento al muro che tutto nascondono. Di tempo in tempo invece di  muri  passano
le anguste strade fra siepi nelle quali al pruno e al biancospino s'intreccia di
tratto in tratto il melagrano, il gelsomino, il lilac e  il  filadelfo.  Una  di
queste strade percorre tutta la riviera ora abbassandosi, ora tirando più  verso
il monte, ora in mezzo alle vigne, ed ora sulla linea che divide i  colti  dalle
selve. Questa strada è talvolta seppellita fra due muri che  superano  la  testa
del passaggero, dimodoché egli non vede altro che il cielo e le vette dei monti:
ma spesso lascia un libero campo alla vista la quale quasi ad ogni passo  scopre
nuovi ampi e bellissimi prospetti. Poiché guardando verso settentrione  tu  vedi
il lago chiuso nei monti, che sporgono innanzi e rientrano, e  formano  ad  ogni
tratto seni, o ameni o tetri, finché la vista si perde in uno sfondo azzurro  di
acque e di montagne; verso mezzogiorno vedi l'Adda che appena uscita dagli archi
del ponte torna a pigliar figura di lago, e poi si  ristringe  ancora  e  scorre
come fiume dove il letto è occupato da banchi di sabbia portati da torrenti, che
formano  come  tanti  istmi:  dimodoché  l'acqua  si   vede   prolungarsi   fino
all'orizzonte come una larga e lucida  spira.  Sul  capo  hai  i  massi  nudi  e
giganteschi, e le foreste, e guardando sotto di te, e in faccia, vedi  il  lungo
pendio distinto dalle varie colture, che sembrano  strisce  di  varj  verdi,  il
ponte ed un breve tratto di fiume fra due larghi  e  limpidi  stagni,  e  poscia
risalendo collo sguardo lo arresti sul Monte Barro che ti  sorge  in  faccia,  e
chiude il lago dall'altra parte. Ma non termina quel  monte  la  vista  da  ogni
parte, poiché di promontorio in promontorio declina fino ad  una  valle  che  lo
separa dal monte vicino; e come in alcune parti la stradetta si eleva al disopra
del livello di questa valle, da quei punti il tuo occhio segue fra i  due  monti
che hai in prospetto un'apertura che dalla valle  ti  lascia  travedere  qualche
parte dell'amenissimo piano che è posto  al  mezzogiorno  del  Monte  Barro.  La
giacitura della riviera, i contorni,  e  le  viste  lontane,  tutto  concorre  a
renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo, se avendovi passata
una gran parte della infanzia e della puerizia, e  le  vacanze  autunnali  della
prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato
dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni.  Su  questa  stradetta
veniva lentamente dicendo l'ufizio, ed avviandosi verso  casa,  una  bella  sera
d'autunno dell'anno 1628, il Curato di una di quelle terre che abbiamo accennate
di sopra. (Questa è la prima reticenza del  nostro  storico).  Talvolta  tra  un
salmo e l'altro metteva l'indice nel  breviario  al  luogo  dov'era  rimasto,  e
tenendo così socchiuso il libro nella destra mano, e la  destra  nella  sinistra
dietro le spalle, continuava il suo passeggio  guardando  in  qua  e  in  là,  e
ripigliando i pensieri oziosi che erano stati sospesi così così  nel  tempo  che
aveva recitata l'ultima parte di ufizio. Uscendo poi da questa meditazione  egli
girava gli  occhi  intorno,  e  arrestava  lo  sguardo  sulle  cime  del  monte,
osservando come aveva fatto tante altre volte sul monte i riflessi del sole  già
nascosto, ma che mandava ancora la sua luce sulle alture, distendendo sulle rupi
e sui massi sporgenti come  larghi  strati  di  porpora.  Ripigliato  poscia  il
breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse ad una rivolta della strada
dov'era solito di alzar gli occhi dal libro e di guardare  quasi  macchinalmente
dinnanzi a sè, e così fece anche quel giorno. Dopo la rivolta la  strada  andava
diritta forse un centinajo di passi, e poi si divideva; a destra saliva verso il
monte, e dall'altro lato scendeva nella valle fino ad  un  torrente.  Da  questa
parte il muro non giungeva che all'anche del passaggero, e  lasciava  libera  la
vista del pendio sottoposto, fino al torrente, e ad un pezzo  di  monte  che  lo
rinchiudeva dall'altra parte. In faccia a colui che aveva voltata la  strada,  e
alla separazione delle due  strade  v'era  una  cappelletta  sulla  quale  erano
dipinte certe figure lunghe,  serpeggianti,  e  terminate  in  punta  che  nella
intenzione del pittore, e agli occhi degli abitanti del  vicinato  volevano  dir
fiamme, e fra l'una e l'altra certe altre figure da non potersi descrivere,  che
volevano dire anime del purgatorio; anime e fiamme color di mattone su un  fondo
bianco con qualche scrostatura in varie  parti.  Al  rivolgimento  dunque  della
strada alzando gli occhi verso la cappelletta il nostro Curato vide una cosa che
non si aspettava e che  non  avrebbe  voluta  vedere.  Due  uomini  stavano  uno
rimpetto all'altro ai due  capi  della  strada:  uno  seduto  a  cavalcioni  sul
muricciuolo con l'un  piede  appoggiato  sul  terreno  della  strada  e  l'altro
penzoloni giù lungo il muro, l'altro in piedi appoggiato al muro con  una  gamba
sopra l'altra, e le braccia  incrocicchiate  sotto  le  ascelle.  L'abito  e  il
portamento non lasciavano dubbio della loro professione.  Avevano  entrambi  una
reticella verde in capo la quale cadeva su  una  spalla  terminata  in  un  gran
fiocco di seta: due grandi mustacchi  inanellati  all'estremità,  il  lembo  del
farsetto coperto e avviluppato da  una  cintura  lucida  di  cuojo,  ripiena  di
cartoccini di polvere, ed alla quale erano appese due  pistole  con  uncini:  un
picciol corno ripieno di polvere appeso al collo come  i  vezzi  delle  signore:
alla parte destra delle larghe e gonfie brache una tasca donde usciva un  manico
di coltellaccio, due legacce rosse al disotto del ginocchio a un dipresso come i
cavalieri della giarrettiera: uno  spadone  dall'altro  lato  con  una  elsa  di
lamette d'ottone attorcigliate come una cifra; al primo aspetto si mostravano di
quella specie d'uomini tanto comune a quei tempi, che  avevano  nome  di  bravi,
specie che ora si è del tutto perduta come tante altre  buone  istituzioni.  Che
quei due stessero lì aspettando qualcheduno era cosa troppo evidente; ma  quello
che più spiacque al Curato fu di  accorgersi  per  certi  atti  che  quegli  che
aspettavano era egli poiché al suo apparire si erano guardati alzando la  testa,
con un moto che dava a divedere che avevan detto tutti e due a un tratto: egli è
desso: e quegli che stava a cavalcioni tirò la sua gamba sulla strada e si alzò,
l'altro si staccò dal muro; e si avvicinarono rivolti verso  il  curato.  Questi
tenendo sempre il breviario aperto dinanzi come se leggesse,  alzava  gli  occhi
per ispiare i loro movimenti e vedendoli  inviarsi  così  verso  di  lui,  mille
pensieri alla rinfusa gli corsero pel  capo.  Domandò  subito  in  fretta  a  se
stesso, se tra i bravi e lui vi fosse qualche uscita di  strada  a  dritta  o  a
sinistra, e gli sovvenne tosto di no. Pensava se avesse qualche  inimicizia,  se
potesse temere qualche vendetta, e in quel turbamento il  testimonio  consolante
della coscienza lo rassicurava alquanto; ma i bravi  si  avvicinavano.  Pose  la
mano nel collare, come per ricomporlo e intanto piegò indietro la testa e guardò
colla coda dell'occhio fin dove poteva, se qualcheduno  arrivasse,  e  non  vide
nessuno. Diede un'occhiata al disopra del muricciolo, nei campi; nessuno: guardò
sulla via che gli era dinanzi;  nessuno  fuorché  i  bravi.  Che  fare?  tornare
indietro, non era a tempo: fuggire; era lo stesso che farsi inseguire, o peggio.
Non potendo fuggire il pericolo gli corse incontro; perché i momenti  di  quella
incertezza erano allora così penosi per lui che  non  desiderava  altro  che  di
abbreviarli: allungò il passo, recitò un versetto a voce più  alta,  compose  la
faccia a tutta quella quiete ed ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare
un sorriso, e quando fu accostato dai due galantuomini,  disse  mentalmente:  ci
siamo; e si fermò sui due  piedi.  «Signor  curato»:  disse  uno  di  quei  due,
piantandogli gli occhi in faccia. «Chi mi comanda?»  rispose  subito  il  curato
alzando gli occhi dal libro e tenendolo spalancato e sospeso con ambe  le  mani.
«Ella ha intenzione», proseguì l'altro, «di  sposare  domani  Fermo  Spolino,  e
Lucia Zarella». «Non lo posso negare»: rispose il curato  col  tuono  d'un  uomo
convinto d'una trista azione; e soggiunse tosto:  «io  non  c'entro:  fanno  gli
aggiustamenti  fra  di  loro,  vengono  da  noi,  noi  siamo  i  servitori   del
pubblico...» «Bene bene», interruppe il bravo, «questo matrimonio  non  si  deve
fare, ma né domani né mai». «Ma, Signori miei», replicò  il  curato  colla  voce
d'un uomo che vuol persuadere un impaziente, «ma signori  miei,  si  degnino  di
mettersi nei miei panni: se la  cosa  dipendesse  da  me...»  «Orsù»  interruppe
ancora il bravo che pareva avesse giurato di non lasciargli compire un  periodo,
«se la cosa andasse a ciarle, ella ne avrebbe più di noi: ma noi non sappiamo né
vogliamo sapere altro: era nostro dovere d'avvisarla  e  l'abbiamo  fatto».  «Ma
loro signori son troppo giusti, e ragionevoli...» «Ma», interruppe questa  volta
quell'altro che non aveva parlato fino allora, «ma il matrimonio non si farà  e»
(qui una buona bestemmia) «chi lo farà non se ne  pentirà  perché  non  ne  avrà
tempo e...» «Zitto, zitto», ripigliò quell'altro, «il signor Curato sa  che  noi
siamo galantuomini,  e  non  vogliamo  fargli  del  male,  se  egli  opererà  da
galantuomo. Signor Curato, ci ha  intesi,  l'illustrissimo  Signor  Don  Rodrigo
nostro padrone le fa i suoi complimenti». «Se mi sapessero suggerire;...»  disse
il curato: «Oh! suggerire a lei che sa il latino!», rispose il bravo con un riso
tra lo sguajato e il feroce. «Ella troverà un mezzo, Signor curato, e sopratutto
non si lasci uscire una parola di questo avviso che  le  abbiamo  dato  per  suo
bene,  perché  altrimenti  sarebbe  per  lei  come  se  avesse  fatto  quel  tal
matrimonio. Buona notte  Signor  Curato».  Così  dicendo,  si  svilupparono  dal
curato, il quale  pochi  momenti  prima  avrebbe  dato  qualche  gran  cosa  per
isfuggirli, e allora avrebbe voluto prolungare la  conversazione,  e  avviandosi
dalla parte donde egli era venuto, presero la strada, cantando  una  canzonaccia
che non voglio trascrivere. Il povero Curato pigliò delle due strade quella  che
andava a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba  dopo  l'altra,  che  gli
parevano ingranchite, e con animo che il lettore comprenderà meglio dopo d'avere
appreso  qualche  cosa  di  più  dell'indole  di  questo  personaggio,  e  della
condizione dei tempi in cui gli era toccato di vivere.  .......  L'impunità  era
organizzata, e aveva molte altre  cause  di  simil  genere,  e  la  trepidazione
nell'eseguire le gride nata da queste cause,  e  la  sicurezza  già  antica  nei
trasgressori educati a soperchiare. Ora questa impunità minacciata ed insultata,
ma non distrutta dalle gride, doveva ad ogni minaccia e  ad  ogni  insulto  fare
nuovi sforzi per conservarsi, aumentare  la  sua  forza,  resistere,  atterrire,
tenersi unita, e così faceva difatti. Quindi la grida  al  suo  nascere  trovava
molta gente che aveva già prese le disposizioni necessarie per continuare a fare
ciò ch'ella veniva a proibire. Nessuna libertà nelle cose oneste perché col fine
di aver sotto la mano ogni uomo per prevenire e punire ogni  delitto,  le  gride
assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario di mille  magistrati,
ed esecutori d'ogni sorta. Ma chi si era messo in istato di guerra colle  gride,
e cogli ordini d'ogni specie, chi aveva già disposti  i  suoi  mezzi  di  difesa
nella forza aperta,  o  nelle  astuzie  legali,  o  nella  protezione,  o  nella
connivenza allora comune e scandalosa dei giudici, chi poteva e voleva ammazzare
o dar la mancia ad un birro, quegli era libero nelle sue operazioni,  al  sicuro
delle gride, e in caso di rivolgerle anche contro gli altri quando i suoi  mezzi
privati non fossero stati bastanti. Accadeva a taluno di costoro  di  morire  di
morte violenta, di esser sbanditi, vivevano in continuo sospetto, che vuol dire,
erano nella condizione di tutti i loro  contemporanei.  Quegli  stessi  che  non
avevano un  animo  provocatore  ed  ingiusto  si  trovavano  come  costretti  di
guardarsi e di stare sulle difese, il che teneva per dir così  una  quantità  di
forze sempre in presenza e dava a tutta  la  società  un'aria  di  sospetto,  di
offesa. Ad ogni momento tutto era pronto, per venire alle mani. L'uomo che  teme
l'offesa e che vuole offendere, cerca compagni, quindi la tendenza universale  a
quei tempi di arruolarsi per dir così, in classi, in corpi,  in  maestranze,  in
confraternite. Alcune classi già anticamente costituite avevano anche per questa
circostanza una forza preponderante e  spaventosa,  quindi  gli  altri  per  non
trovarsi sempre individui contra una società, dovevano esser contenti di trovare
un motivo per riunirsi, di avere deliberazioni, massime comuni, privilegi, e una
bandiera, e di potere, quando fossero toccati, rivolgere le  forze  solidali  di
molti a loro difesa. Il clero era geloso sostenitore delle sue immunità, e  come
ad esso stava in gran parte il  decidere  fin  dove  giungessero,  non  si  deve
domandare se le estendesse fin dove potevano, e fin dove non potevano  giungere.
Che gli ecclesiastici vuoti di spirito sacerdotale, ambiziosi,  violenti,  avari
riponessero tutta la religione in questa immunità non è da stupirsene, poiché  è
chiaro che è cosa molto comoda l'avere una scomunica da opporre ad una  ragione,
e cessare ogni pericolo con un privilegio d'inviolabilità indefinita. Ma  quello
che merita più considerazione si è come i  buoni  non  cedessero  ai  tristi  in
questa specie di zelo, come uomini  pii  e  d'una  virtù  molto  superiore  alla
onestà, uomini certamente  di  alto  ingegno,  potessero  combattere  acremente,
lungamente, mettere tutto a repentaglio per pretese, le quali non sembra che non
possano conciliarsi col minimo grado di riflessione, e con  un  grano  di  buona
fede. Per ispiegare questo fenomeno si dice che erano idee del tempo alle  quali
i migliori e più sinceri intelletti pagavano tributo come gli altri.  Ma  questa
spiegazione non ha senso se  non  si  trovano  le  cagioni  per  cui  essi  pure
dovessero affezionarsi a queste idee, quando il loro amore per la verità,  e  la
loro attitudine a trovarla dovevano condurli a  scoprire  il  debole  di  queste
idee. Le quali cagioni appariscono chiare a chi dà una occhiata allo stato della
società in quei tempi. Tante erano le volontà d'impedire  ogni  esercizio  delle
facoltà le più legittime, d'inceppare ogni diritto, e queste volontà erano  così
potenti, che il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a  malgrado
di esse, senza avere una forza propria. Quindi tribunali civili e criminali  per
assicurare ai suoi membri una giustizia imparziale o per opporre una  parzialità
ad un'altra, quindi minacce spirituali e temporali ad ogni attentato  contro  le
persone o i beni del clero, quindi forza per eseguire le sue leggi etc. Malgrado
queste immunità, le quali con nome non affatto improprio  allora  si  chiamavano
libertà,  il  Clero  si  trovava  ad  ogni  istante  inceppato  da  altre  forze
organizzate, non è quindi da maravigliarsi se i meno ambiziosi le credessero non
solo necessarie, ma insufficenti, se  cercassero  di  estenderle,  se  vedessero
nella diminuzione di  quelle,  la  diminuzione  della  religione  stessa,  e  se
gridassero  altamente  che  chi  le  intaccava,   voleva   rendere   impossibile
l'esercizio della religione stessa. Tutto questo non è  detto  per  provare  che
avessero ragione di pensare e di operare a quel modo, ma per  ridurre  il  torto
alla sua giusta misura, e per ricondurlo alle sue vere cagioni, e per riflettere
che vi hanno degli inconvenienti  che  oltre  il  male  diretto  che  fanno,  ne
producono dei grandissimi forzando quasi gli uomini a cercare dei rimedi che non
sono né ragionevoli, né perfettamente onesti, e che oltre l'effetto per cui sono
posti in opera ne producono molti altri  impreveduti  e  pessimi.  Abbondio  non
nobile, non ricco, non animoso, si era presto avveduto di essere  nella  società
come il vaso di terra cotta in compagnia di  molti  vasi  di  bronzo  sempre  in
movimento. Aveva quindi secondata assai lietamente la volontà dei  suoi  parenti
che lo avevano avviato  allo  stato  ecclesiastico.  A  dir  vero  il  suo  fine
principale non era stato quello di servire agli altri col ministero. Egli  aveva
pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe rispettata e forte,
nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite degli altri. Ma non basta
appartenere ad una classe per goderne tutti i vantaggi, come ognun  sa:  bisogna
anche che l'individuo sappia dirizzare a suo uso il più che può delle forze  che
la sua società può mettere  in  opera,  e  non  v'è  organizzazione  comune  che
dispensi l'individuo dal farsi un suo  sistema  particolare.  Don  Abbondio  non
poteva adottare un sistema nel quale fosse necessaria  una  qualunque  parte  di
risoluzione, di attività, di resistenza, e altronde alla fin fine il  pover'uomo
non domandava altro che quiete, vivere e lasciar vivere, come si  dice.  Il  suo
sistema era dunque di evitare tutti i contrasti, e di cedere in quelli  che  non
avesse potuto evitare. Se egli era assolutamente forzato a prender parte fra due
contendenti, stava  dalla  parte  più  forte,  procurando  però  di  far  vedere
all'altro ch'egli non gli era volontariamente avverso, che potendo  fare  a  suo
modo sarebbe stato neutrale: pareva che gli  dicesse:  -  Ma  perché  non  avete
saputo essere il più forte? io sarei allora  con  voi.  -  Con  queste  arti  il
pover'uomo era riuscito a poter giungere senza forti burrasche fino  all'età  di
cinquant'anni. Ma il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio  a  se
stesso di esser mosso da principj bassi e da non confessarsi; e  si  era  quindi
fatto (come accade sempre) una dottrina sua propria, secondo  la  quale  la  sua
condotta era ragionevole anzi la sola ragionevole e onesta. Quando poi  si  vide
in virtù di questa sua buona condotta, bastantemente  al  coperto  dalle  offese
altrui, pensò, come accade, ad attaccare, e  divenne  un  rigido  censore  delle
azioni e degli uomini che non tenevano la sua condotta, quando però  questa  sua
censura potesse esercitarsi senza alcuno anche lontano pericolo. Chi  era  stato
percosso e non era in caso di far vendetta era almeno almeno un  imprudente,  un
ammazzato era certamente un torbido, e se non lasciava  parenti  irritati  della
sua morte, era un birbante; ma chi aveva commesso un omicidio poteva esser certo
che Don Abbondio non gli avrebbe mai trovato un difetto. Quello poi che più  gli
dava collera era il vedere qualcuno dei suoi confratelli pigliare le parti di un
debole, difenderlo contro una soperchieria. Questo chiamava egli un comprarsi le
brighe a contanti, un volere addirizzare le gambe ai cani. I potenti, i  ricchi,
i facinorosi, i protettori, i protetti, insomma i vittoriosi d'ogni genere erano
per lui uomini d'oro, e ne parlava sempre col mele  alla  bocca.  E  se  qualche
seccatore trovava da apporre ad alcuno di questi,  mettendo  il  discorso  sopra
qualche grossa bricconeria commessa da alcuno di questi grandi galantuomini, Don
Abbondio si metteva a declamare contro quel vizio di pretendere che  gli  uomini
sieno perfetti. E quanto a quelli che avevano sofferto  di  quella  bricconeria,
egli sapeva trovar loro qualche torto, il che non è mai difficile, perché tra lo
scellerato e l'onesto, la ragione e il torto non si dividono mai con  un  taglio
così netto che l'uno stia tutto da una parte,  e  l'altro  tutto  dall'altra.  E
sigillava sempre il discorso col  suo  assioma  favorito,  proferendo  il  quale
rifletteva con compiacenza sopra di sè: e l'assioma era: che  ad  un  galantuomo
che vuol viver quieto, che sa stare nel  fatto  suo,  non  accadono  mai  brutti
incontri. S'immagini ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don
Abbondio. L'impressione di spavento per quei visi e per quelle  minacce,  l'idea
d'un pericolo associata a ogni momento dell'avvenire, il frutto di tanti anni di
studio e di politica perduto in  un  giorno,  l'unica  teoria  sulla  quale  era
fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e  un  passo  stretto,
pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita.  Poiché
se si avesse potuto mandare in pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe  stato
finito, essendo la coscienza di Don  Abbondio  bastantemente  soddisfatta  della
idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà  delle  ragioni,  e  non
istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il  mondo,  troverà
strano  questo  ritardo,  e  molto  più  una  ripulsa,  mormorerà,  e  che  cosa
rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato da questi pensieri il  nostro  Curato
per sollevarsi un poco si scatenava  in  suo  cuore  contro  chi  era  venuto  a
togliergli per sempre la sua pace. Egli non conosceva Don Rodrigo che di nome, e
di vista, e non aveva avuta altra relazione con lui che  di  fargli  una  grande
scappellata quando lo incontrava e di riceverne un mezzo saluto  di  protezione.
Gli  era  occorso  talvolta  di  difenderlo,  quando  si  parlasse  di   qualche
soperchieria da lui fatta, e aveva detto forse cento volte che Don  Rodrigo  era
un degno cavaliere. Ma ora gli diede in suo cuore tutti i titoli contro i  quali
l'aveva difeso in altre occasioni. Ma l'ira sua maggiore era forse  contro  quei
due sposi che in fondo erano  la  prima  cagione  di  una  tanta  sua  angustia.
Ragazzi, - andava ripetendo - ragazzi, non pensano che  a  maritarsi  e  non  si
fanno carico dei fastidj in cui pongono un galantuomo. Colla compagnia di questi
pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi  su  un
seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva  Vittoria  stava  parecchiando  la
tavola per la solita cena. Poche cose  a  questo  mondo  sono  più  difficili  a
nascondersi di quello che sieno i pensieri sul  volto  d'un  curato  agli  occhi
della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano così  vivamente
dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona che per  distinguerli  non
vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia Vittoria. «Ma che cosa ha, Signor
padrone?» «Niente niente». Questa risposta di formalità, Vittoria se  la  doveva
aspettare, e non la contò per una risposta, e proseguì.  «Come,  niente?  Signor
padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad intendere?...»

«Quando dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o  è  niente,  o  è
cosa che non posso dire». Vittoria, vedendolo più presso  alla  confessione  che
non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre  più  incalzando.  «Che
non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute?  Chi
rimedierà?...» «Tacete, tacete, e non parecchiate altro,  che  questa  sera  non
cenerò». Quando Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi  e
che la cosa era grave, e giurò a se stessa di non lasciare andare a  dormire  il
Curato senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi  dica  che
cosa ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?» «Sì  sì,
da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto». «Ma  io  non
dirò niente se ella mi toglie da questa inquietudine». «Non direte  niente  come
quando siete corsa a ripetere alla serva del curato nostro vicino tutti  i  miei
lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso  di  domandargli  scusa,
come quando...» Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto  un
secreto da scavare, e se non  avesse  pensato  che  nulla  allontana  da  questo
intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don Abbondio,  ma
in aria sommessa: «Oh per amor del cielo, che va  ella  mai  rimescolando:  sono
stata ben castigata, non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda  che  mi
sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...» «Via, via, non  giurate».
«Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io  non  abbia  un  povero  parere  da
darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma ella sa», e qui fece
voce da piangere, «ella sa che i misterj non li posso soffrire. Una serva fedele
ha da sapere...» In fondo il curato aveva voglia di scaricare il  peso  del  suo
cuore, onde fattigli ripetere seriamente i più grandi  giuramenti  le  narrò  il
miserabile caso,  mentre  la  buona  Vittoria,  tra  la  gioja  del  trionfo,  e
l'inquietudine del fatto che non poteva esser  lieto,  spalancò  gli  orecchi  e
ristette  colla  posata  alzata  nel  pugno  che  tenne  puntato  sulla  tavola.
«Misericordia!» sclamò Vittoria: «oh gente senza timor di Dio, oh prepotenti, oh
superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!» «Zitto  zitto,  a
che serve tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?» «Oh! vedete»,  disse  il
curato in collera, «i bei pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò,
come farò, come se fosse ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela».  «Sa
il cielo se me ne spiace, Signor  padrone,  ma  bisogna  pensarci».  «Sicuro,  e
nell'imbroglio  son  io».  «Pur  troppo»,  disse  Vittoria,  «ma  non  si  lasci
spaventare: eh! se costoro potessero aver fatti come parole,  il  mondo  sarebbe
loro: Dio lascia fare ma non strafare: e  qualche  volta  cane  che  abbaja  non
morde». «Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha  morso?...»  «Lo
conosco e so bene che...» «Zitto, zitto, questo  non  serve».  «Signor  padrone,
ella ci penserà questa notte, ma intanto non cominci a rovinarsi la  salute  per
questo: mangi un boccone». «Ma se non ho voglia». «Ma se le farà bene», e  detto
questo, si avvicinò al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto come per
dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola:
il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo  di  tempo
in tempo qualche esclamazione, come: - Una bagattella! ad un galantuomo par mio:
-  ed  altre  simili,  se  ne  andò  a  letto  colla  intenzione  di  consultare
tranquillamente, e ordinatamente sui casi suoi.

CAPITOLO II

FERMO

La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza,  e  la
paura vi si  trovavano  come  in  casa  loro,  l'astuzia  doveva  quindi  essere
invitata, e ricevere L'incarico  di  proporre  il  partito,  e  così  fu.  Senza
annojare il lettore colla relazione  di  tutte  le  fluttuazioni,  dei  ripieghi
accettati e rigettati, basterà il dire che il partito  di  fare  quello  che  si
doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu  nemmeno  discusso,  che  si
pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal tempo, ma
questo anche fu rigettato perché non v'era spazio per eseguirlo. La celebrazione
del matrimonio era stabilita  pel  giorno  vegnente,  e  una  partenza  di  buon
mattino, senza lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il colore d'una
fuga, ed esponeva a molti  impicci,  e  rendiconti.  Fu  però  riservato  questo
ripiego per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte
più debole. Don Abbondio si preparò a  questo  esperimento;  passò  in  rassegna
tutti i mezzi di superiorità e  d'influenza  che  l'autorità,  la  scienza,  (in
paragone di Fermo), e la pratica gli davano sopra quel povero giovane,  e  pensò
al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don  Abbondio  appariranno  più
chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare,  e
appena appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione,
vi andò colla lieta impazienza di un giovane che in  quel  giorno  deve  sposare
quella ch'egli ama. Era Fermo un tessitore di seta, sorta d'industria che da una
grande attività era allora in decadenza, ma non  però  al  segno  che  l'operajo
abile non potesse onestamente vivere del  suo  lavoro.  L'emigrazione  di  molti
lavoranti suppliva per così dire  alla  diminuzione  del  lavoro  lasciandone  a
sufficienza a quelli che rimanevano. In progresso di tempo crescendo a dismisura
le cause che avevano diminuita quella industria, essa fu ridotta quasi a niente.
Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo di terra che  faceva  lavorare,  e
che lavorava egli  stesso  nel  tempo  in  cui  era  disoccupato  dal  filatojo,
dimodoché non aveva a contrastare col bisogno. Era in quel giorno vestito  dalla
festa con piume di vario colore al cappello, col suo coltello dal bel manico,  e
mostrando in tutto l'abito e nel portamento un'aria  di  festa  e  nello  stesso
tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli  uomini  i  più  quieti,  come
infatti era Fermo. L'accoglimento serio, freddo, misterioso di Don Abbondio fece
un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti di Fermo. Ecco una  parte
del dialogo curioso che ebbe luogo fra quei due: «Son  venuto,  signor  Curato»,
disse il giovane, «per sapere a  che  ora  le  convenga  che  noi  veniamo  alla
Chiesa». «Di che giorno intendete?»  «Oggi,  Signor  curato;  non  siamo  intesi
così?» «Oggi?» replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta.
«Oggi, non posso». «Come non può? che cosa è accaduto?» «Prima di tutto  non  mi
sento bene, vedete». «Ma grazie al cielo il suo incomodo non è serio,  e  quello
ch'ella ha da fare è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»  «E  poi,  e
poi, e poi...» «E poi che cosa, Signor curato?» «E poi ci  sono  degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?» «Avete buon tempo voi altri,  che
non vi pigliate briga di niente, e  vi  fate  servire,  e  non  avete  conti  da
rendere. Ma io sono troppo dolce di cuore, procuro di togliere gli ostacoli,  di
facilitare tutto, di fare quello che gli  altri  vogliono,  e  trascuro  il  mio
dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio». «Ma per carità, non mi tenga
così sulla corda; mi dica che cosa c'è». «Sapete voi quante e  quante  formalità
sono necessarie per fare un matrimonio che non levi il sonno a chi lo ha fatto?»
«Ma queste formalità non si sono già fatte?» «Fatte, fatte, pare a  voi,  perché
la bestia son io che trascuro il mio dovere per non far penare la gente. Ma ora,
so io quel che dico, non posso più fare a questo modo».  «Ma  via,  quale  è  la
formalità com'ella dice, che bisogni fare? La si farà subito». «Ecco: nessuno  è
contento a questo mondo: voi stavate  bene  colla  vostra  professione,  libero,
industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un luoghetto vicino al vostro e
poi un altro, e a poco a poco vivere d'entrata: ecco che vi  salta  in  capo  di
ammogliarvi». «Ma a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un  poco
di bene voglio maritarmi; io non son venuto adesso a domandarle un parere, ma  a
sapere  quando  mi  vuol  maritare».  «Sapete  voi  quanti  sono  gl'impedimenti
dirimenti?» «Che vuole che sappia io d'impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa
manca, ed io farò tutto». «Error, conditio, votum, cognatio,  crimen,  Cultus
disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis...» «Si piglia ella
giuoco di me? Ella sa che io non so il latino». «Dunque se non sapete  le  cose,
rimettetevene a chi le sa». «Mi rimetterò alla ragione, quando ella  me  ne  dia
una, e mi dica quello che vuol da me, perché  io  non  capisco  niente».  «Tutti
questi che vi ho detti, sono impedimenti, e  non  son  tutti,  eh,  ce  n'è  una
filza». «Insomma al mio matrimonio c'è un impedimento?»  «Ve  ne  possono  esser
dieci, dodici». «Voglio sapere quale è l'impedimento a fare il mio  matrimonio».
Fermo disse queste parole con voce tranquilla ma  con  un  rovello  interno  che
cercava di contenere. Don Abbondio non si avvide dello sforzo di  Fermo,  e  tra
perché lo conosceva come giovane buono e l'aveva  provato  sempre  rispettoso  e
quieto, e tra perché il dover sempre arzigogolare  pretesti,  mentre  aveva  una
buona ragione che non poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si  abbandonò
e rispose con tuono di corruccio e d'impazienza. «Voglio, voglio,  tocca  a  voi
dir: voglio?» Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo  che
già aveva voluto scappare più volte, come  il  lettore  avrà  veduto  nel  caldo
crescente  delle  sue  risposte.  «Lo  voglio  per...»  gridò  con  una   subita
trasformazione, «e  s'ella  crede  di  farsi  beffe  di  me  perché  son  povero
figliuolo, le farò vedere che quando  mi  si  fa  torto,  so  fare  anch'io  uno
sproposito come qualunque signore». «Via via», rispose Don Abbondio  spaventato,
«non siete più quel buon giovane ch'eravate?»  «Mi  dia  ragione,  se  non  vuol
portarmi fuori di me». «Se volete  ch'io  possa  parlare  tranquillatevi».  «Son
tranquillo, e parli». «Sappiate adunque che è nostro dovere, dovere  preciso  di
fare ricerche, ricerche esatte per vedere se non ci sieno impedimenti».  «Ma  se
ve ne fosse, perché non me li sa  indicare?»  «Ma  non  basta  il  non  saperne,
bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e poi bisogna informarsi di molte altre
cose, altrimenti?... il testo è chiaro:  Antea  quam  matrimonium  denunciet,
cognoscet quales sint...» «Non voglio latino. Ma  perché  non  le  ha  fatte
prima queste ricerche?» «Ecco mi rimproverate la mia troppa bontà. Ma adesso, mi
son venute... basta, so io». «Insomma quanto tempo ci  vuole?»  «Molto,  molto».
«Quanto?» «Almeno un  mese».  «Un  mese?»  sclamò  Fermo  con  volto  burbero  e
sorpreso. «Via in quindici giorni si procurerà...»  «Signor  Curato...»  «Ebbene
voi non volete intender  ragione,  vedrò  se  in  una  settimana...»  «Or  bene,
aspetterò una settimana, mi  esporrò  alle  ciarle,  ed  ai  fastidj  di  questo
ritardo. Ma la prevengo che questo ritardo non mi  renderà  di  buon  umore,  né
disposto a contentarmi di ciance. S'ella vuol farmi una ingiustizia, si  ricordi
che tutto quello che può accadere è sulla sua coscienza. La riverisco».  E  così
detto se ne andò facendo un inchino  frettoloso,  e  molto  meno  riverente  del
solito, e lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima. Il povero sposo  che,
entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e di festa, non aveva sentito
altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla stizza che  lo  rodeva,  andava
però riflettendo sui discorsi e sul contegno del Curato, e trovava  tutto  pieno
di mistero... L'accoglimento freddo  e  imbarazzato,  l'impazienza  e  quasi  la
collera, il tuono continuo di rimbrotto senza un perché, quel  farsi  nuovo  del
matrimonio che pure era concertato per quel giorno, e non ricusando mai di farlo
quando che sia, parlare però  come  se  fosse  cosa  da  più  non  pensarvi,  le
insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da  un  canto:  il  complesso
insomma delle parole di Don Abbondio presentava un senso così incoerente, e poco
ragionevole, che a Fermo, ripensandovi così nell'uscire, non rimase  più  dubbio
che non vi fosse di più, anzi tutt'altro di quello che Don Abbondio aveva detto.
Stette Fermo in forse di ritornare  al  Curato  per  incalzarlo  a  parlare,  ma
sentendosi caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò  alla  fin
fine che una settimana non ha più di sette giorni, e si avviò per  portare  alla
sposa questa trista nuova. Sull'uscio del Curato  si  abbattè  in  Vittoria  che
andava per una sua faccenda, e tosto pensò che  forse  da  essa  avrebbe  potuto
cavar qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei: «Sperava che saremmo
oggi stati allegri insieme, Vittoria». «Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non celebrare  il
matrimonio oggi come s'era convenuto».

«Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile avvertire  che
Vittoria pronunziò queste parole come si usa quando non si vuole esser  creduto.
«Via, ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».  «Mala  cosa  nascer
povero, il mio Fermino». Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto
il dialogo, dirò soltanto che Vittoria fedele ai suoi giuramenti non disse nulla
positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei  suoi  doveri  colla
voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò  ch'ella  sapeva,  gli  fece
tante interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto  noto  a  Vittoria,  che
avrebbero messo sulla via  anche  un  uomo  meno  svegliato  di  Fermo,  e  meno
interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non s'era accorto,  che  qualche
signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi  sopra  Lucia,  etc.,parlò
dei rischj che un curato corre  a  fare  il  suo  dovere,  del  timore  che  uno
scellerato impunito può incutere ad un galantuomo, fece insomma  intender  tanto
che a Fermo non mancava più che di sapere un nome. Finalmente per timore come si
dice, di cantare, si separò da Fermo raccomandandogli caldamente  di  non  ridir
nulla di ciò che le aveva detto. «Che volete ch'io taccia», disse Fermo, «se non
mi avete voluto dir nulla». «Eh! non è vero che non vi ho  detto  nulla?  Me  ne
potrete esser testimonio, ma vi raccomando il segreto». Così dicendo si  mise  a
correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era  avviata.  Fermo  che
aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua  era  ordita  contro  di
lui, e che il Curato la sapeva, non potè più tenersi, e  tornò  in  fretta  alla
casa di quello, risoluto di non uscire prima di sapere  i  fatti  suoi  che  gli
altri sapevano così bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello stesso salotto,  e
gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che  novità  è  questa»,  disse  Don
Abbondio. «Chi è quel birbante», disse Fermo colla voce d'un uomo che non  vuole
esser più burlato, «chi è quel birbante che non vuole ch'io  sposi  Lucia?»  Don
Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per  correre  alla  porta,  Fermo  vi
balzò prima di lui, come doveva accadere, la chiuse  e  si  pose  la  chiave  in
tasca. «Ah! ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?» «Fermo, Fermino, per  amor
di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all'anima vostra». «Che pensare?
Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più
lume. E continuò: «lo voglio sapere subito, subito», e così dicendo  pose  forse
inavvertitamente  la  mano  al  coltello  che  però  non  si  cavò   di   tasca.
«Jesummaria!» sclamò Don Abbondio. «Lo voglio sapere», gridò ancor più forte  il
giovane. «Volete voi la mia  morte?»  «Voglio  sapere  ciò  che  ho  ragione  di
sapere». «Ma se parlo, io son morto. Non m'ha da premere la mia vita?»  «Ah!  le
preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in  mano  mia  in  questo  momento.
Parli». «Oh povero me! mi  promettete,  mi  giurate  di  non  dir  niente?»  «Le
prometto di fare uno sproposito se non parla subito». Di botta  in  risposta  il
volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro più  tremante,  e  l'occhio  più
stralunato. Don Abbondio vide che non poteva cavarsela  che  col  proferire  una
parola, e articolò: «Don...» «Don», replicò Fermo come per ajutare Don  Abbondio
a pronunziare il resto: «Don Rodrigo» disse finalmente il Curato. E  non  l'ebbe
appena proferita, che sentendo cessato il  pericolo  imminente,  e  vedendo  che
Fermo non aveva più pretesto da minacciarlo, la paura si  cangiò  in  collera  e
cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una bella azione. Mi avete  reso  un  bel
servizio». «Signor Curato», interruppe Fermo che  provava  una  gioja  trista  e
feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le domando scusa,
ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella  avrebbe  avuto  più
pazienza». «Sì sì, voi sarete cagione della  morte  del  vostro  Curato:  aprite
almeno, aprite». Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e  trattato  a
quel modo il Curato, e gli domandò  di  nuovo  perdono  sommessamente.  «Aprite,
aprite», replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la presentò  al
curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa  una  violenza.  Il
Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della via, mentre Fermo lo seguiva
colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo. Quando furono sulla porta: «Mi
promettete ora», disse il curato, «di non dir niente?» Fermo,  senza  rispondere
gli chiese di nuovo perdono e

da lui che molto anco volea chiedere e udir qual lume al soffio sparve.

Don Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò  in  casa,  cercò  Vittoria;
Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello  che  si  facesse.  Spesse  volte
personaggi assai  più  importanti  di  Don  Abbondio  trovandosi  in  situazioni
imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere,  e  non  avendo
nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una  buona
ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima,  e  si  posero  a  letto
colla febbre. Questo disimpegno  Don  Abbondio  non  ebbe  bisogno  d'andarlo  a
cercare perché se  lo  trovò  naturalmente.  Lo  spavento  del  giorno  passato,
l'agitazione della notte, e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono
a maraviglia. Si ripose sul seggiolone tremando del  brivido  e  guardandosi  le
unghie  e  sospirando;  giunse  finalmente  Vittoria.  Risparmio  al  lettore  i
rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di chiamare
due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della  casa,  e  di  far
sapere che il curato aveva la febbre. Dati questi ordini si pose a  letto,  dove
noi lo lasceremo senza più occuparci di lui per un lungo tratto  di  tempo,  nel
quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra storia.  Soltanto  per
prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo timido  il
quale lascia di fare il  suo  dovere  per  ispavento  merita  meno  pietà  dello
scellerato consumato il quale  cercando  il  male,  e  facendolo  spontaneamente
mostra almeno di avere una gran forza d'animo, e di sentire le alte passioni,  e
che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo  di  doverli  informare
che Don Abbondio non morì di quella febbre. Fermo toltosi in fretta dalla  vista
di Don Abbondio, uscito del  villaggio,  si  avviò  a  gran  passi  quasi  senza
avvedersene da quella parte che conduceva al palazzotto di Don Rodrigo,  ch'egli
desiderava in quel momento d'incontrare come un amico dopo una lunga assenza.  I
provocatori, i soperchianti, tutti quelli che in ogni modo  invadono  i  diritti
altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del pervertimento a cui portano
gli animi di coloro che offendono. Fermo era  come  l'abbiam  detto  un  giovane
tranquillo, ed innocuo, ma in quel punto  il  suo  cuore  non  batteva  che  per
l'omicidio. Andava dunque per affrontare lo scellerato quando pensò che a quella
casa benché discosta alquanto dall'abitato, pure era cosa insensata e  piena  di
pericolo l'avvicinarsi con mire ostili; giacch'ella era una  specie  di  picciol
forte con una guarnigione di bravi. Egli sentì tosto  che  ad  una  sola  parola
irriverente che avesse detta sarebbe stato  scacciato,  che  mostrandosi,  anche
senza parlare, intorno a quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che  i
suoi uccisori lo avrebbero dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta,
pensò che l'unico modo di eseguirla era aspettare un momento in cui per caso Don
Rodrigo uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo dietro una  macchia  o
un muricciuolo. In  questa  risoluzione  si  rivolse  quasi  macchinalmente  per
tornare a casa a prendere il  suo  archibugio.  Andando,  egli  s'immaginava  di
starsene appiattato, gli pareva di sentire una pedata, di alzare  chetamente  la
testa, di vedere Don Rodrigo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva  cadere,  gli
lanciava una maledizione, e correva verso il confine per mettersi  in  salvo.  E
mentre tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un  pensiero:  -  E
Lucia... che ne sarà? - Appena la catena delle idee feroci che  lo  dominava  in
quel punto fu interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo entrarono in folla.
Si ricordò la consolazione che aveva tante volte provata pensando di esser mondo
di sangue, gli avvisi di suo padre, le preghiere ripetute  e  sollecite  di  sua
madre moribonda, pensò all'inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò da
quel sogno di sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di  gioja  di
non aver fatto niente. - Dio mi ajuterà - disse,  e  deposto  ogni  pensiero  di
pigliar l'archibugio, continuò la sua strada per andare ad informare Lucia e  la
madre del tristo stato delle cose. In mezzo alla ripugnanza che sentiva a dovere
dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene  per  togliersi
un fiero sospetto dal cuore. La prepotenza di don Rodrigo non poteva  venire  da
altro, che da una sua brutale passione per Lucia. E Lucia ne era ella informata?
Così arrovellato giunse nel cortiletto della  casa,  e  sentì  un  gridio  nella
stanza superiore dov'era Lucia e s'immaginò che sarebbero amiche e comari, e non
si volle mostrare. Una  fanciulletta  che  si  trovava  nel  cortile  gli  corse
incontro gridando: «lo sposo, lo sposo!» «Zitto, zitto», disse Fermo,  «sali  da
Lucia, pigliala in disparte e dille all'orecchio, ma all'orecchio ve', che ho da
parlarle, e che l'aspetto nella stanza terrena, e non lo dire a  nessun  altro».
La fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza  segreta  da
eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani  della  madre.
Le amiche se la rubavano, e le facevano forza perché  si  lasciasse  vedere,  ma
ella si schermiva con quella modestia un po' guerriera delle foresi, chinando la
faccia sul busto e facendole scudo col gomito. Aveva  i  neri  capegli  spartiti
sulla fronte con una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle chiome
dietro il capo in una treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti cerchi,  e
trapunta da grossi spilli d'argento che s'aggiravano intorno alla testa in guisa
d'una diadema, come ancora usano le donne del contado  milanese.  Al  collo  una
collana di molte fila, di granate alternate con bottoni d'oro  a  filigrana.  Un
bel busto di broccato a fiori, le maniche corte  fino  al  gomito  dello  stesso
colore, allacciate sopra le spalle con nastri di seta, e terminate da  due  gran
manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta terminata  all'allacciatura
con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di seta e
ricamate sul piede. Oltre questo che era l'ornamento particolare di quel giorno,
Lucia aveva quello quotidiano di una  modesta  bellezza,  la  quale  era  allora
accresciuta e per dir così abbellita dalle varie  affezioni  dell'animo  suo  in
quel giorno. Poiché appariva nei suoi tratti una  gioja  non  senza  un  leggier
turbamento, un misto d'impazienza, e di timore e quella  specie  di  accoramento
tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose,  e  che  temperato
dalle emozioni gioconde e liete non turba la bellezza, ma l'accresce, e le dà un
carattere particolare. La picciola Santina entrò nella stanza, non fece vista di
nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era staccata dalle donne, le disse  la
sua parolina all'orecchio, e se ne andò, per timore di non lasciarsi scorgere di
quello che aveva fatto. Lucia disse, «torno», e scese in fretta  in  fretta.  La
faccia stravolta e il portamento agitato di  Fermo  la  spaventò.  «Che  c'è  di
nuovo?» gli chiese ansiosamente. «Lucia», disse Fermo, con una voce nella  quale
più non si distingueva che la tristezza, «Lucia per oggi  è  finita,  e  Dio  sa
quando saremo marito e moglie». «Perché perché?»  chiese  ancor  più  spaventata
Lucia. Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella mattina, tacendo però
il nome di Don Rodrigo. «Ah! non può essere che quel demonio in  carne»,  sclamò
Lucia pallida, e sconfortata. «Chi?» domandò Fermo. «Don Rodrigo».  «Dunque  voi
sapevate?...» «Pur troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato  per  buone
ragioni; ora vi dirò il tutto: lasciate che possiamo esser sole con  voi».  Così
detto salì in fretta  le  scale,  ritornò  nella  stanza  dove  le  donne  erano
radunate, e componendo il volto come potè meglio: «Il signor Curato», disse,  «è
ammalato, e per oggi non si fa nulla». Detto questo salutò le donne  e  ripartì.
Quando non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era abbastanza
imbarazzante in una sposa per motivare la sua subita scomparsa.  La  società  si
disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà e per curiosità di saper  tutto,
e le donne uscirono per potere verificare il fatto,  e  far  congetture.  Ma  la
verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle donne gli antecedenti
che noi racconteremo nel seguente capitolo.

CAPITOLO III

IL CAUSIDICO

I tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati  per  la  stessa  causa  ma  in
diverso modo. Fermo si trovava nello stato di un uomo  il  quale  ad  un  tratto
dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una sventura della quale non conosce
che una parte; è ansioso di sapere il di più, vuole essere informato  di  tutto,
aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne può aspettare che non accrescano il
suo rammarico, che non peggiorino la sua condizione. Al dolore, al rancore, alla
rabbia, si aggiungeva ora il martello della gelosia.  Egli  aveva  sempre  avuta
piena fede in Lucia, ma un mistero di  questo  genere,  un  silenzio  in  questa
materia lo tormentava, egli era come spaventato di conoscere che Lucia aveva una
cosa sul cuore, e ch'egli non ne aveva saputo nulla. Agnese, la madre  di  Lucia
era pure stupita, scandalizzata di essere all'oscuro d'una cosa simile: ella che
sapeva tante cose che non la  toccavano  per  nulla,  ignorare  una  cosa  tanto
importante della sua Lucia! Agnese le avrebbe fatto un rabbuffo terribile, se in
questo caso il bisogno d'ascoltare non avesse vinto d'assai quello  di  parlare.
Lucia... ma dalle sue parole il  lettore  intenderà  lo  stato  del  suo  animo.
«Parla! parla! Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia
atterrita,   costernata,   vergognosa,   singhiozzando,   arrossando,    sclamò:
«Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte  a  questo
segno! Quel senza timore di Dio di Don Rodrigo  veniva  spesso  alla  filanda  a
vederci trarre la seta. Andava da un fornello all'altro facendo  a  questa  e  a
quella mille vezzi l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista a chi una
peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo v'era
chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: "badate a fare  il
fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e  borbottava  poi:  "gli  è  un
cavaliere; gli è un uomo che può fare del male; è un uomo  che  sa  mostrare  il
viso". Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi amici,  gente  come  lui.  Un
giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me
più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: "ci vedremo":  i  suoi
amici ridevano di lui, ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non
andar più alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina,  per  avere  un
pretesto, e vi ricorderete mamma ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda
era sul finire per grazia di Dio, e per quei pochi giorni io  stetti  sempre  in
mezzo alle altre di modo ch'egli non mi potè cogliere. Ma  la  persecuzione  non
finì: colui, mi aspettava quando io andava al mercato, e  vi  ricorderete  mamma
ch'io vi dissi che aveva paura d'andar sola e non ci  andai  più:  mi  aspettava
quand'io andava a lavare, ad ogni passo: io non  dissi  nulla,  forse  ho  fatto
male. Ma pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che  quando  sarei
sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora...» Qui le  parole  della
povera Lucia  furono  tronche  da  un  violento  scoppio  di  pianto.  «Birbone!
assassino! dannato!» sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e mettendo
di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello. «Ma perché non parlarne
a tua madre?» disse Agnese: «se io l'avessi saputo prima...» Lucia  non  rispose
perché la risposta che si sentiva in mente non era da dirsi a sua  madre:  tutto
il vicinato ne sarebbe stato informato. I  singulti  di  Lucia  la  dispensavano
dall'obbligo di parlare. «Non ne hai tu fatto  parola  con  nessuno?»  ridimandò
Agnese. «Sì mamma, l'ho detto al Padre  Galdino,  in  confessione».  «Hai  fatto
bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto  il  Padre  Galdino?»
«Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi non  si  curerebbe
più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava  la  persecuzione  egli  ci
penserebbe». «Oh che imbroglio! che  imbroglio!»  riprese  la  madre.  Fermo  si
arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un  atto  di  tenerezza  accorata  e
rabbiosa, e disse: «Questa è l'ultima che fa quel birbante». «Ah  no  Fermo  per
amor del cielo!», gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per
amor del cielo, Dio c'è anche pei  poveri!  Come  volete  ch'egli  ci  ajuti  se
facciamo del male?» «No, no per amor del cielo», ripeteva Agnese. «Fermo!» disse
Lucia, «voi avete un mestiere, ed io so  lavorare,  andiamo  lontano  tanto  che
costui non senta più parlare di noi». «Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito
e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato  libero?  Non  saremo  pigliati
come vagabondi? dove andarci a porre?»  Lucia  ricadde  nel  pianto.  «Sentite!»
disse Agnese: «sentitemi che son vecchia». Era questa  una  confessione  che  la
buona Agnese faceva di rado, in caso di somma necessità, e quando si trattava di
dar fede alle  sue  parole.  «Io  ho  veduto  un  poco  il  mondo:  non  bisogna
spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi  povera
gente le cose pajono talvolta imbrogliate  imbrogliate  perché  non  abbiamo  la
pratica per uscirne. Ma, sapete, c'è della gente che  si  ride  degli  imbrogli.
Fate a modo mio Fermo. Pigliate quei  quattro  capponi,  poveretti!  che  doveva
sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per  le  gambe,
andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so  benissimo».  «Bene
andate da lui, presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può
regalare gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli  parere.  Eh
ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del  capo,  che  andando  a
consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato  tornavano
a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per  disperazione  cade
nell'acqua, e si trova in casa sua. Fate così  Fermo».  Nelle  situazioni  molto
imbrogliate il parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro
parere definitivo: ogni consiglio definitivo e  determinato  presenta  ostacoli,
difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo  di  consigliarsi  di  nuovo  e  meglio  è
semplice, non nuoce, e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata  che  per
questo mezzo si troverà una uscita. Fermo adunque abbracciò molto volentieri  il
parere. Lucia vi aggiunse la sua approvazione. Agnese  superba  di  averlo  dato
pigliò i capponi, riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori, le
avvolse e le strinse con uno spago, e consegnò la preda in  mano  a  Fermo,  che
date e ricevute parole di speranza uscì per una porticella dell'orto,  onde  non
esser veduto dai ragazzi che gli correrebbero  dietro  gridando:  lo  sposo,  lo
sposo. Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi andò a  prendere
il viottolo che guida a  Lecco,  fremendo,  ripensando  alla  sua  disgrazia,  e
ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola. Lascio poi pensare  al  lettore
come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie così legate, e  tenute  per
le zampe nella mano d'un uomo agitato da tante passioni, e che di tempo in tempo
stendendo con forza il braccio in un  momento  d'ira  o  di  risoluzione,  o  di
disperazione, dava scosse terribili a quei prigionieri e faceva balzare le  loro
quattro teste spenzolate le quali  si  andavano  beccando  l'una  l'altra,  come
succede troppo sovente fra compagni di sventura. In poco d'ora  Fermo  giunse  a
Lecco, e s'avviò alla casa del dottore. All'entrare si sentì sorpreso da  quella
timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un  signore  e  d'un
dottore, dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai
capponi, e si rincorò pensando che non  veniva  colle  mani  vuote.  Entrato  in
cucina chiese alla fantesca del signor dottore: la fantesca vide  le  bestie,  e
come avvezza a simili doni vi  pose  le  mani  sopra,  mentre  Fermo  le  andava
ritirando, perché voleva che  il  dottore  vedesse  e  sapesse  ch'egli  portava
qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e
passate nello studio». Fermo fece un grande inchino al dottore, che  lo  accolse
umanamente con un: «venite figliuolo», e lo fece entrare con  sè  nello  studio.
Era questo una stanza con un grande scaffale di libri  vecchi  e  polverosi,  un
tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno tre o  quattro
seggiole, e da un lato un seggiolone  a  bracciuoli  con  un  appoggio  quadrato
coperto di vacchetta inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle quali  cadute
da  gran  tempo  lasciavano  in  libertà  gli  angoli   della   copertura,   che
s'incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto  d'una
lurida toga che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di
apparato, quando andava a Milano per qualche  gran  causa.  Chiuse  la  porta  e
rincorò Fermo con queste parole: «Figliuolo, ditemi  il  vostro  caso».  «Vorrei
dirle una parola in confidenza», rispose Fermo. «Son qui per questo», rispose il
dottore: «parlate»; e si pose  a  sedere  sul  seggiolone.  Fermo  stette  ritto
dinnanzi al tavolo con le mani nel suo cappello. «Vorrei sapere da  lei  che  ha
studiato...» «Già», interruppe il dottore, «già  voi  altri  siete  tutti  così;
invece di contare il fatto  spiccio  a  chi  può  ajutarvi,  cominciate  a  fare
interrogazioni come se doveste esaminare il causidico. Ma via, qualche minuto di
più non fa niente: parlate a modo vostro». «Ella ha da scusarmi signor  dottore:
noi altri poveri non abbiamo studio. Vorrei dunque sapere  se  a  minacciare  un
curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale». - Ho capito (disse fra  sè
il dottore, che in verità non aveva capito) ho capito, - e pensò subito al  modo
di cavare partito da quello ch'egli aveva immaginato. Si fece dunque  serio,  ma
in guisa di chi teme per uno che vuol soccorrere: strinse fortemente  le  labbra
facendone  uscire  un  suono  inarticolato  che  accennava  il  sentimento   che
espressero più chiaramente le sue prime parole:  «Caso  serio,  figliuolo,  caso
contemplato. Avete fatto bene a venire da me. Non è mica vedete  una  di  quelle
cose che si decidono con leggi vecchie, scritte in  latino,  nelle  quali  ci  è
sempre una decisione per una parte e per l'altra. È un caso  chiaro,  deciso  in
una grida, confermata da  una  grida,  tenete,  dell'anno  scorso,  dell'attuale
signor governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo», e qui si alzò, pose
le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne prese una,  e
segnando col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche cosa,  signor  dottore».
«Orbene ecco il vostro caso».
 «...quel prete non faccia quel che è  obbligato  per  l'officio  suo:  ecco  ci
siamo: non è questo il caso vostro». «Pare che abbiano fatta la grida  per  me».
«Vedete figliuolo? ora mò sentite la penale... Mentre il dottore leggeva ad alta
voce, pronunziando distintamente  le  parole  che  risguardavano  il  caso,  per
incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il dottore aveva bisogno, Fermo
compitando lentamente, seguiva coll'occhio la  lettura  cercando  di  cavare  il
costrutto chiaro, e di vedere proprio quelle benedette parole che  gli  parevano
dover essere il suo ajuto. Il dottore alzò gli occhi intanto, squadrò  Fermo,  e
gli disse: «Ah! ah! figliuolo vi siete  fatto  radere  il  ciuffo:  avete  avuto
prudenza: ma volendo venire da me  non  faceva  bisogno:  si  vede  che  non  mi
conoscete: non sapete quello ch'io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di
questo». Per aver la ragione di questa uscita del dottore, bisogna che  l'ignaro
apprenda e il dotto si ricordi che a quei tempi coloro che facevano il  mestiere
di bravi, e che vivevano di soprusi fatti spontaneamente o per mandato,  usavano
molti ingegni per travisarsi, e non esser  riconosciuti,  e  togliere  così  una
prova materiale del delitto. L'uso più comune era quello  di  portare  un  lungo
ciuffo che ordinariamente lasciavano cadere dietro la testa, e si gettavano  poi
sul volto come una visiera al momento di affrontare qualcheduno, di far  qualche
impresa che era meglio di poter poi negare. Per togliere questo abuso  si  erano
fatte gride sopra gride, le quali proibivano che si portassero  capelli  lunghi,
sotto pena... e discendendo al particolare ordinavano al barbiere  come  dovesse
tosare uno, intimando a chi lasciasse capelli più lunghi dell'ordinario la  pena
di 100 scudi, o tre tratti di corda colla solita  estensione  di  pena  maggiore
all'arbitrio di S.E. Quale effetto producessero queste gride è  manifesto  dalle
diverse date di quelle. La grida si ristampava di tempo in tempo coll'avvertenza
che ciò era necessario perché fino allora non aveva  giovato  a  nulla:  e  come
nella medicina, si cresceva la dose. Il ciuffo era  dunque  come  un'insegna  di
bravo, e di scapestrato. Da questa foggia è nato un termine metaforico  tuttavia
in uso nel dialetto milanese: e non vi  sarà  forse  alcuno,  dei  miei  lettori
milanesi che non si ricordi di aver sentito, nella sua adolescenza,  alcuno  de'
suoi parenti, o il maestro del collegio, o il servo che lo conduceva a scuola, o
la fante dare di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un ciuffetto. Prego
il lettore di perdonarmi questa digressione e come necessaria, e in grazia della
condizione che gli ho data,  e  ripiglio  il  dialogo.  «In  verità,  da  povero
figliuolo», rispose Fermo, «ch'io non ho mai portato ciuffo in vita  mia».  «Non
facciamo niente» riprese il dottore,  scotendo  il  capo,  con  un  sorriso  tra
maligno e impaziente: «se non avete fede in me, non facciamo  niente.  Chi  dice
bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice.
Io non ho tempo da perdere. Se volete ch'io v'ajuti, voi dovete  contarmi  tutto
dall'a alla zeta, sinceramente, come al confessore. Dovete dirmi chi vi ha  dato
il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; ed allora io andrò da  lui  a
fare un atto di dovere: non gli dirò mica, vedete, ch'io sappia da voi che vi ha
mandato egli: fidatevi: gli dirò che vengo ad implorare la sua protezione per un
povero giovane calunniato. E tutto si aggiusterà a vostra soddisfazione:  capite
bene che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta  vostra,
via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio imbrogli, e pur  ché  non  abbiate
offesa persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio,  con
un po' di spesa. Basta che mi sappiate dire chi è l'avversario, che forse  forse
troveremo modo di appiccicargli qualche criminale, e forse forse lo metteremo in
panni più stretti dei vostri, e lo faremo venire a domandar grazia. Ma  come  vi
ho detto, se non avete un uomo, un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro,
e se la cosa si deve decidere fra la giustizia e voi così a quattr'occhi,  state
fresco. Io vi parlo chiaro:  le  scappate  bisogna  pagarle:  se  volete  dormir
quietamente sopra questa faccenda; denari, e sincerità,  parlare  col  cuore  in
mano, e poi obbedire, fare quello che vi  sarà  suggerito».  Mentre  il  dottore
faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando coll'attenzione d'un uomo  che
sognando, s'immagina di cercar qualche cosa, ed ora gli pare  d'averla  trovata,
di mettergli le mani sopra, e poi la vede scomparire, e ne va di nuovo in cerca:
tanto era lontano dal sospettare l'equivoco preso  dal  dottore.  Quando  questi
ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e tra un poco di collera, però quella collera
che un buon uomo di contado può avere contra un signore che sa, e tra  un  certo
orgoglio di farsi vedere  libero  da  quei  timori  che  il  dottore  supponeva,
rispose: «Oh signor dottore: la cosa non è così: io non ho  minacciato  nessuno:
io non faccio di queste azioni, e domandi  pure  a  tutto  il  mio  comune,  che
sentirà che io non ho mai avuto che fare con la giustizia.La bricconeria l'hanno
fatta a me; e vengo da lei per informarmi come io possa farmi dar ragione; e son
ben contento d'aver veduta quella grida».  «Diavolo!»  disse  il  dottore,  «che
confusione mi avete fatta? tant'è siete tutti così, possibile che  non  sappiate
farvi intendere?» «Ma signor dottore, mi scusi io non le ho contata la cosa, ora
le conterò. Deve sapere ch'io doveva sposare oggi», e qui  il  povero  Fermo  si
commosse, «doveva sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha mai dato da
dire a nessuno, e avevamo fatto tutto da galantuomini, e il  curato  che  doveva
sposarci oggi non volle  perché...  perché  gli  fu  minacciata  la  vita.  Quel
prepotente di Don Rodrigo...» Il dottore si fece serio davvero,  e  dando  sulla
voce a Fermo: «Eh!» gridò, «che mi venite a contare di queste fandonie? Fate  di
questi discorsi tra voi altri che non sapete misurare le parole, e non venite  a
farli con un galantuomo che sa che cosa vuol dire parlare. Andate,  andate;  non
sapete quel che vi diciate: io non m'impaccio con ragazzi,  non  voglio  sentire
discorsi in aria». «Lo giuro!» «Andate vi  dico,  siete  un  ragazzo,  pare  che
parliate ad un uomo che non abbia mai sentito giurare. Andate, io  non  c'entro:
imparate a parlare: non si viene così a sorprendere un galantuomo».  Con  queste
frasi spezzate, il dottore spingeva  verso  la  porta  Fermo,  il  quale  andava
ripetendo: «ma senta, ma senta». Il dottore aperta la porta chiamò  Felicita,  e
le disse: «restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io  non  voglio
niente, non voglio niente». Felicita dacché era ai servigi del dottore non aveva
mai eseguito un ordine simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch'ella non
esitò ad obbedire:  prese  le  quattro  povere  bestie,  e  le  diede  a  Fermo,
guardandolo con un'aria di  compassione  spregiante  che  pareva  volesse  dire:
costui deve stare in cattivi panni, ne ha fatta una  grossa.  Fermo  voleva  far
cerimonie, ma il dottore fu inespugnabile; e Fermo  attonito,  e  trasognato,  e
stizzito dovette ripigliarsi le vittime rifiutate, e partirsi di là senza  poter
riposare il suo pensiero in altra determinazione, che di tornarsene a casa  sua,
a riferire alle donne il tristo risultato  della  sua  consulta.  Lucia  al  suo
partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale coll'umile  abito
quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della  madre,  e  a  rispondere
singhiozzando alle minute interrogazioni ch'ella le andava facendo, mischiandole
di qualche rimprovero sul suo aver sempre taciuto. Fra questi tristi discorsi la
madre e la figlia si erano sedute insieme presso il suo arcolajo a dipanar seta.
Ma la povera sposa andava pensando a  quello  che  si  potesse  fare;  il  primo
ripiego che viene in mente ai poverelli è quello di  aver  parere  ed  ajuto,  e
Lucia si sovvenne del Padre Galdino. Andare al convento, ch'era  distante  forse
due miglia; ella non ardiva, in  questo  frangente,  e  aveva  ragione,  pensava
dunque di cercare qualche garzoncello disinvolto e fidato, per cui potesse  fare
avvertire il buon Capuccino. Mentre ella stava per informare la  madre  del  suo
disegno s'ode picchiare  all'uscio,  e  nello  stesso  momento  un  sommesso  ma
distinto «Deo gratias...» Lucia, immaginandosi chi poteva  essere,  corse
ad aprire; e  allora,  fatto  un  inchino,  entrò  infatti  un  laico  cercatore
cappuccino colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura  di
essa attorcigliata e stretta nelle due mani sul petto. «Frà Canziano» dissero le
due donne. «Il Signore sia con voi», disse il frate: «vengo per la  cerca  delle
noci; e come il raccolto è stato buono  voi  ne  darete  a  Dio  la  sua  parte,
affinché ve ne dia un altro eguale o migliore l'anno venturo; se però  i  nostri
peccati non attireranno qualche castigo». «Lucia, vanne a pigliare le  noci  pei
padri» disse Agnese. Lucia si alzò, e si avviò all'altra  stanza,  ma  prima  di
entrarvi ristette dietro le spalle di frà  Canziano  che  rimaneva  ritto  nella
medesima positura, e  ponendosi  l'indice  sulla  bocca  diede  alla  madre  una
occhiata  che  domandava  il  segreto  con  tenerezza,  con  supplicazione,  con
fierezza, e anche con una certa autorità. Partita Lucia, frà Canziano  disse  ad
Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure fare oggi: ho veduto nel paese come
una confusione, come qualche cosa che indichi una novità; che c'è?»  «Il  Signor
curato è ammalato, e  bisogna  differire»,  rispose  in  fretta  Agnese,  e  per
cangiare di discorso richiese come andasse la cerca. «Poco  bene,  buona  donna,
poco bene. Vedete tutto quello che ho. Son tutte qui», e così dicendo  si  tolse
la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli occhi di Agnese; «son tutte qui,
e per raccogliere questo ho mendicato in dieci case». «Mah! l'anno è scarso, fra
Canziano, e i poverelli mancano di pane, quando il pane è caro tutto  si  misura
più per sottile». «Perché l'anno è scarso, buona donna? pei  nostri  peccati;  e
per far tornare l'abbondanza che rimedio c'è? l'elemosina.  Eh!  quando  io  era
cercatore in Romagna, la limosina delle noci era tanto abbondante,  che  bisognò
che un benefattore ci facesse la carità d'un  asino,  perché  il  cercatore  non
poteva durare. E si faceva  tant'olio  al  convento  che  i  poveri  venivano  a
prendere ogni volta che ne avevano bisogno. Ma in quel paese avevano più  carità
perché avevano avuta una grande scuola. Sapete di quel miracolo?» «No in verità:
contate contate». «Oh! dovete dunque sapere che molti anni prima  ch'io  andassi
in quel convento v'era stato un padre che era un santo;  il  padre  Agapito.  Un
giorno d'inverno ch'egli passava  per  un  viottolo  in  un  campo  d'un  nostro
benefattore, uomo dabbene anch'egli, dunque il padre Agapito vide il benefattore
vicino ad un gran noce, e quattro contadini colle scuri al piede per gettarlo  a
terra; e avevano già fatta una fossa intorno per iscoprire le radici. - Che fate
a quella povera pianta? disse il nostro religioso. - Eh padre sono anni che  non
fa più frutto ed io penso di farne legna. - Non fate non fate, disse  il  padre;
sappiate che quest'anno la porterà più noci che foglie.  -  Il  benefattore  che
sapeva con chi parlava, ordinò subito ai lavoranti che gettassero  di  nuovo  la
terra sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che continuava la sua strada, -
Padre Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà pel convento. - Si sparse la
voce della profezia, e tutti correvano a guardare il noce: infatti a  primavera,
fiori a furia, e poi noci noci a furia. Ma, Dio non  volle  che  il  benefattore
avesse la consolazione di abbachiare quelle noci, e lo chiamò  a  sè  prima  del
raccolto. La consolazione toccò al figliuolo, ma fu corta perché era un poco  di
buono, come sentirete. Ora dunque, al raccolto il cercatore andò per  riscuotere
la metà che era dovuta al convento; e colui si fece nuovo affatto,  ed  ebbe  la
temerità di rispondere che non aveva mai inteso dire che i frati  sapessero  far
noci. Il cercatore fece la  sua  denunzia  al  convento.  Sapete  ora  che  cosa
avvenne? Un giorno dunque quello scapestrato aveva invitato  alcuni  suoi  amici
dello stesso pelo, e così gozzovigliando, egli raccontava la storia del noce,  e
rideva dei frati. Quei giovinastri ebbero  voglia  di  andare  a  vedere  quello
sterminato mucchio di noci, ed egli li condusse al granajo. Ma, sentite mò  ora;
apre la porta, va verso il cantuccio dove era il gran mucchio, e mentre dice:  -
guardate -, guarda egli stesso e vede, che cosa? un bel mucchio di foglie secche
di noce. Questo fu un castigo, e benché il fatto sia di molti anni addietro,  ad
ogni raccolto di noci se ne parla tuttavia in quel paese». Qui ricomparve  Lucia
col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i due
capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra  Canziano  si  tolse  la
bisaccia dalle spalle, la pose in terra e aprì la bocca di quella per introdurvi
l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la
sua  prodigalità;  ma  Lucia  le  diede  un'occhiata   che   voleva   dire:   mi
giustificherò. Fra Canziano proruppe  in  elogj,  in  augurj,  in  promesse,  in
ringraziamenti; e rimessa la bisaccia si avviò; ma Lucia, fermatolo: «vorrei  un
servizio da voi», disse. «Vorrei che diceste al Padre Galdino che ho bisogno  di
parlargli di somma premura,  e  che  mi  faccia  la  carità  di  venire  da  noi
poverette, subito subito, perché io non posso venire alla Chiesa».  «Non  volete
altro? non passerà un'ora che lo dirò  al  Padre  Galdino».  «Non  mi  fallate».
«State tranquilla»; e così detto partì un po' più curvo e più contento  che  non
quando era arrivato. Il Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i  suoi,  e
in tutto il contorno; eppure fra Canziano non fece nessuna osservazione a questa
specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di  venire  da  lei;  la
commissione non gli parve strana niente più che se  gli  si  fosse  commesso  di
avvertire il Padre Galdino che il  Vicario  di  provvisione  e  i  sessanta  del
consiglio  generale  della  Città  di  Milano  lo  richiedevano   per   mandarlo
ambasciatore a Don Filippo Quarto Re di Castiglia, di  Leone  etc.  Non  vi  era
nulla di troppo basso né di troppo elevato per un Cappuccino: servire gl'infimi,
ed esser servito dai potenti; entrare nei palazzi e  nei  tugurii  colla  stessa
aria mista di umiltà, e di padronanza; essere nella stessa casa un  soggetto  di
passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva  nulla,  cercare  la
limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al  convento,  a
tutto era avvezzo un  Cappuccino,  faceva  tutto  a  un  dipresso  colla  stessa
naturalezza, e non si stupiva di nulla. Uscendo dal  suo  convento  per  qualche
affare, non era impossibile che prima  di  tornarsene  si  abbattesse  o  in  un
principe che gli baciasse umilmente la punta del  cordone,  o  in  una  mano  di
ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di loro gli bruttassero la barba
di  fango.  La  parola  frate  in  quei  tempi  era  proferita  colla  più  gran
venerazione, e col più profondo  disprezzo;  era  un  elogio  e  un'ingiuria:  i
cappuccini forse più di tutti gli altri  riunivano  questi  due  estremi  perché
senza ricchezze, facendo più aperta professione di  umiliazioni,  si  esponevano
più facilmente al vilipendio, e alla venerazione che possono  venire  da  questa
condotta. La considerazione poi data generalmente al loro ordine li  poneva  nel
caso sovente di giovare e di nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi
ostacoli, e quindi anche la varietà del sentimento che  si  aveva  per  essi,  e
delle opinioni sul conto loro. Varj pure e moltiformi erano e dovevano essere  i
motivi che conducevano gli uomini ad  arruolarsi  in  un  esercito  così  fatto.
Uomini compresi della  eccellenza  di  quello  stato  che  allora  era  esaltata
universalmente, altri per acquistare una considerazione alla quale non sarebbero
mai giunti vivendo, come allora si diceva, nel secolo,  altri  per  fuggire  una
persecuzione, per cavarsi da  un  impiccio,  altri  dopo  una  grande  sventura,
disgustati del mondo, talvolta  principi  o  fastiditi,  o  atterriti  del  loro
potere; molti perché di quelli che entrano in una carriera per la  sola  ragione
che la vedono aperta; molti per un sentimento  vero  di  amor  di  Dio  e  degli
uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa  loro  intenzione
(perché quando si è persuasi d'una verità bisogna  dirla;  l'adulazione  ad  una
opinione predominante ha tutti i caratteri indegni di quella che si usa verso  i
potenti) questa loro intenzione non era una pia illusione,  l'errore  d'un  buon
cuore e d'una mente leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta  a  chi
non sa o non considera  le  circostanze  e  le  idee  di  quei  tempi:  era  una
intenzione ragionata, formata da una osservazione delle cose reali; e  in  fatti
con queste intenzioni molti abbracciando quello stato facevano del bene tutta la
loro vita; anzi molti che  sarebbero  stati  uomini  pericolosi,  che  avrebbero
accresciuti i mali della società, diventavano utili con quell'abito indosso.  Ho
fatta tutta questa tiritèra perché nessuno trovi inverisimile che fra  Canziano,
senza fare alcuna  obbiezione,  senza  stupirsi,  si  sia  incaricato  di  dire,
nullameno  che  al  Padre  Guardiano,  che  s'incomodasse  a  portarsi  da   una
donnicciuola che aveva bisogno  di  parlargli.  Partito  Fra'  Canziano:  «tutte
quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di miseria! e per noi  che  rimarrà?
sei fuor di te per la disgrazia». «Mamma», rispose Lucia, «perdonatemi;  ma  voi
vedete quanto importi di parlar subito al Padre Galdino che ci può dar parere  e
soccorso. Se io avessi fatta una elemosina come gli altri, Fra Canziano  avrebbe
dovuto girare Dio sa quanto, prima di aver la bisaccia piena, e  di  tornare  al
convento; e colle ciarle che avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe  dimenticata
la mia commissione...» «Via, hai pensato bene, e  poi  è  tutta  carità;  purché
faccia buon frutto». Mentre le donne stavano in questi ragionamenti,  Fermo,  si
avviava verso il villaggio ripassando nella sua mente gli  strani  discorsi  del
dottore, passando d'una  passione  nell'altra,  proponendo  ora  un  disegno  or
l'altro, e non potendo riposarsi in alcuno. -  Tutti  così:  siete  fatti  tutti
così: andava dicendo fra sè: oggi me lo sento dire per la  seconda  volta:  siam
fatti così: come siamo dunque fatti noi  poverelli?  che  cosa  pretendo  io  da
costoro? andava forse a domandare la carità? Pretendo la giustizia,  per  bacco,
(ommettendo molte altre più che esclamazioni, perché Fermo non aveva  mai  tanto
sagrato in tutta la sua vita, come fece in  quel  giorno).  Pretendo  alla  fine
delle fini di sposare una donna secondo la legge di Dio. Birbi tutti!  tutti  ad
un modo! tutti d'accordo per mandare gli stracci all'aria! Ma,  se  mi  riducono
alla disperazione... - Con questi pensieri giunse alla casetta delle  due  donne
ed entrando colla faccia adirata, e vergognosa nello stesso tempo per la  trista
riuscita, gittò i capponi sur un tavolo; e fu  questa  l'ultima  trista  vicenda
delle povere bestie per quel giorno. «Bel parere che mi avete dato» diss'egli ad
Agnese, «mi avete mandato da un buon galantuomo, da uno che  ajuta  veramente  i
poverelli». E qui raccontò  il  suo  abboccamento  col  dottore.  Agnese  voleva
replicare, e sostenere che il parere era buono, e che se non  aveva  avuto  buon
effetto la colpa doveva essere di Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a  Fermo
ch'ella sperava di aver trovato  un  miglior  consigliero.  Il  nome  del  Padre
Galdino diede qualche speranza a Fermo; ma Fermo accolse anche questa  speranza,
come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impaccio. «Ma, se il Padre»,
diceva, «non vi trova un ripiego, lo troverò io in un  modo  o  nell'altro».  Le
donne consigliarono la pace e la pazienza, e la prudenza. «Domani», disse Lucia,
«il Padre Galdino verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche  rimedio  che
noi poveretti non sappiamo nemmeno immaginare». «Lo spero», disse Fermo; «ma  in
ogni caso saprò farmi ragione, o farmela fare.  A  questo  mondo  c'è  giustizia
finalmente». «Addio Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non  è
lontano il tempo che potremo star sempre insieme.  Usate  prudenza,  non  fatevi
vedere, non parlate». Agnese  aggiunse  altri  consigli,  e  Fermo  partì  colle
lagrime agli occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in tempo  queste
portentose parole: «A questo mondo v'è giustizia finalmente». Tanto è  vero  che
un uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello che si dica.

CAPITOLO IV

IL PADRE GALDINO

Era un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le più
alte cime erano dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte, ma che stava
per ispuntare dietro a quella  montagna  che  dalla  sua  forma  è  chiamata  il
Resegone (segone), quando il Padre Galdino a  cui  Fra  Canziano  aveva  esposta
fedelmente l'ambasciata si avviò dal suo Convento per  salire  alla  casetta  di
Lucia. Il cielo era sereno,  e  un  venticello  d'autunno  staccando  le  foglie
inaridite del gelso le portava  qua  e  là.  Dal  viottolo  guardando  sopra  le
picciole siepi e sui muricciuoli si vedevano splendere le  viti  per  le  foglie
colorate di diversi rossi;  e  i  campi  già  seminati,  e  lavorati  di  fresco
spiccavano dall'altro terreno come lunghi strati  di  drappi  oscuri  stesi  sul
suolo. L'aspetto della terra era lieto; ma gli uomini che si vedevano pei  campi
o sulla via mostravano nel volto  l'abbattimento  e  la  cura.  Ad  ogni  tratto
s'incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti invecchiati  nel  mestiere,
fra i quali molti si conoscevano per forestieri che la fame  aveva  cacciati  da
luoghi più miserabili, dove la carità consueta non aveva mezzi per  nutrirli;  e
che passando a canto  ai  pitocchi  indigeni  del  cantone  gli  guardavano  con
diffidenza e ne erano guardati in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si
vedevano alcuni i quali dal volto dal modo e dall'abito mostravano di  non  aver
mai tesa la mano e di essere ora indotti  a  farlo  dalla  necessità.  Passavano
cheti a canto al Padre Galdino, facendogli umilmente di cappello,  senza  dirgli
nulla, perché la sola parola che indirizzavano ai passaggeri  era  per  chiedere
l'elemosina, e un capuccino, come ognun sa non aveva niente. Ma  il  buon  Padre
Galdino si volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e diceva
loro in aria di compassione: «andate al convento, fratello; finché  ci  sarà  un
tozzo per noi, lo divideremo». I contadini sparsi pei campi non rallegravano più
la scena di quello che facessero i poverelli. Salutavano essi umilmente il Padre
Galdino, e quelli a cui egli  domandava  come  l'andasse:  «Come  vuole  padre?»
rispondevano: «la va malissimo». Alcuni, che in  tempi  ordinarj  non  avrebbero
osato fermare e interrogare il Padre Guardiano, fatti più animosi per la miseria
dei tempi gli dicevano: «Come anderà questa faccenda, Padre  Galdino?»  «Sperate
in Dio che non vi abbandonerà. Povera gente! il raccolto è proprio andato male?»
«Grano non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate e il  lavoro  cessa
da tutte le bande». Questa  vista  e  questi  discorsi  crescevano  vie  più  la
mestizia del buon Capuccino, il quale  camminava  col  tristo  presentimento  in
cuore di andare ad udire una qualche sventura. Ma perché  aveva  egli  in  cuore
questo presentimento? E perché si pigliava tanto a cuore gli affari di Lucia?  E
perché al primo avviso si  era  egli  mosso  come  ad  una  chiamata  del  Padre
Provinciale? E chi era questo Padre Cristoforo?  Se  il  lettore  non  fa  tutte
queste interrogazioni  per  malevola  impazienza  né  per  cavillare  il  povero
narratore, ma per una sincera volontà d'imparare e  di  essere  informato  della
storia, legga quello che siamo per dirgli intorno al nostro buon frate,  e  sarà
soddisfatto. Il Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessant'anni; e
il suo aspetto come i suoi modi annunziavano un antico e continuo  combattimento
tra una  natura  prosperosa,  rubesta,  un'indole  pronta,  ardente,  avventata,
impetuosa, e una legge imposta alla natura e all'indole da una volontà  efficace
e costante. Il suo capo calvo e coperto all'intorno secondo il rito capuccinesco
di una corona di capelli che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di tempo  in
tempo per un movimento di spiriti inquieti, e tosto si abbassava per riflessione
di umiltà. La barba lunga e canuta che gli copriva il mento e parte delle guance
faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte  superiore  del  volto,
alle quali una antica abitudine di astinenza aveva dato più di gravità che tolto
di espressione, e due occhj vivi, pronti, che talvolta sfolgoravano con vivacità
repentina: come due cavalli bizzarri condotti a mano da un cocchiere  col  quale
sanno per costume che non si può  vincerla,  pure  fanno  di  tratto  in  tratto
qualche salto, che termina subito con una buona stirata di  briglie.  Il  signor
Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che facendosi poi frate  prese
il nome di Cristoforo)  il  Signor  Ludovico  era  figlio  d'un  ricco  mercante
cremonese, il quale negli ultimi anni suoi, vedovo, e con  questo  unico  figlio
rinunziò al commercio, comperò beni stabili si pose a vivere da  signore,  cercò
di far dimenticare che era stato mercante, e avrebbe  voluto  dimenticarlo  egli
stesso. Ma il fondaco, le balle, il braccio gli tornavano sempre  alla  fantasia
come l'ombra di Banco a Macbeth: in mezzo  ai  conviti,  e  alle  riverenze  dei
parassiti; e il pover'uomo passò gli ultimi suoi anni nella angustia, parendogli
ad ogni tratto di essere schernito, e non riflettendo mai che in verità  vendere
e comprare non è cosa turpe, e  che  egli  aveva  fatta  questa  professione  in
presenza di tutto il pubblico  senza  rimorso.  Fece  educare  signorilmente  il
figlio come s'usava in allora, cercando d'imitare, in quanto  gli  era  permesso
dalle leggi, dalle consuetudini, e dal timore del ridicolo. Gli diede maestri di
lettere, e di esercizi cavallereschi; e morì  lasciandolo  ricco  e  giovanetto.
Ludovico  aveva  contratte  nella  sua  educazione  abitudini  signorili,  e  le
ricchezze avevano attirati adulatori che lo avevano  avvezzo  ad  esigere  molti
riguardi; quando volle mischiarsi coi principali  del  paese,  l'accoglimento  o
piuttosto le ripulse che n'ebbe fecero un contrasto molto spiacevole  colle  sue
abitudini. A rendere la sua situazione più angustiosa, e ad  accrescere  il  suo
mal umore inquieto contribuiva anche non poco l'indole sua onesta ed iraconda ad
un tempo, che gli rendeva insopportabile lo  spettacolo  delle  angherie  e  dei
soprusi che commettevano alla giornata quelli ch'egli non era portato ad  amare.
Viveva egli lontano da essi, ma come non poteva  non  vederli,  e  non  sentirne
parlare, ad ogni occasione mostrava apertamente il disprezzo e  il  rancore  che
sentiva per essi. Questo sentimento unito alla bontà e all'amore della giustizia
ch'era grande in  lui,  lo  portava  ad  assumere  volentieri  le  difese  degli
oppressi; e con molte sconfitte e con qualche riuscita,  con  molte  spese,  con
molti raggiri, con molta audacia, e con qualche guajo che  aveva  corso  si  era
fatta una  riputazione  di  protettore,  ch'egli  era  sempre  più  impegnato  a
sostenere, e che gli aveva procurato il  favore  di  molti,  e  l'odio  caldo  e
risoluto di alcuni potenti. Quando un povero andava a  raccontargli  un  sopruso
che gli era stato fatto, ed a raccomandarsi alla sua protezione parlando come se
la tenesse per sicura, come se gli fosse dovuta, il signor Ludovico  si  trovava
quasi forzato a pigliare l'impegno, dal timore di perdere ad un tratto tutta  la
sua riputazione. Ma non è da domandare se in questa  sua  carriera  aveva  avuto
impicci, disgusti, e pentimenti. Oltre i contrasti fortissimi,  i  pericoli,  le
inimicizie crescenti, le spese per le  quali  aveva  molto  diffalcato  del  suo
patrimonio; egli si trovava poi spesso anche in lite  colla  sua  coscienza,  la
quale come abbiam detto era sincera e  bene  intenzionata.  Talvolta  colui  che
veniva a richiamarsi, e che bisognava torre da un  impegno,  non  valeva  niente
meglio del suo persecutore, ed esaminando ben bene i fatti dell'una e dell'altra
parte si sarebbe trovato che se uno meritava la  galea  l'altro  avrebbe  dovuto
andare a fargli compagnia: talvolta  il  caso  era  chiaro,  il  ricorrente  era
onesto, e meritava soccorso davvero; ma che? pigliata in mano la sua causa,  per
opporsi ad una batteria di raggiri, di soprusi, di violenze, di busse,  Ludovico
aveva dovuto mettere in opera tanti  raggiri,  tanti  soprusi,  tante  violenze,
menar tanto le mani egli stesso che terminato l'affare, ripensando ai casi suoi,
egli si rimaneva con un nemico potente di più, con molti quattrini  di  meno,  e
con dei rimorsi alla coscienza. Questo dopo una vittoria, non  dico  niente  poi
delle sconfitte: e furono molte. Era poi tormentato dall'idea  del  biasimo  che
gli era dato da molti d'imprudente e di accattabrighe, invece della lode ch'egli
si sarebbe aspettata. Così combattuto sempre tra  la  sua  inclinazione,  e  gli
ostacoli, rispinto sovente, urtato ad ogni passo,  stanco  ad  ogni  momento  su
questa strada ch'egli aveva scelta, più volte gli era passato per  la  mente  il
pensiero che nasce dagli imbrogli e dai contrasti, il pensiero di uscirne  e  di
attendere all'anima sua col darsi alla solitudine, cioè col  farsi  frate,  cosa
che in quei tempi si chiamava uscire dal secolo. Ma questo che non sarebbe stato
forse che un disegno per tutta la sua vita, divenne una risoluzione per  uno  di
quegli accidenti che nelle sue circostanze non gli potevano mancare. Andava egli
un giorno per una via di Cremona, accompagnato da un antico fattore  di  bottega
che suo padre aveva trasmutato in maggiordomo, e che gli era stato  fidato  fino
dall'infanzia. Aveva costui nome Cristoforo: era un uomo di circa cinquant'anni,
aveva moglie ed otto figli; e tutta  la  famiglia  sussisteva  colle  paghe  del
padre, e col di più che vi aggiungeva la liberalità di Ludovico, il quale e  per
buon cuore e per un po' di boria non avrebbe mai lasciato  mancar  nulla  ad  un
uomo che gli apparteneva. Vide Ludovico venir da  lontano  un  signor  tale  col
quale egli non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nimico,  e
ch'egli pagava della stessa moneta: caso molto comune; perché è uno dei  diletti
di questo mondo quello di potere  odiare  ed  essere  odiato  senza  conoscersi.
Costui si avanzava ritto, colla testa alta, colla bocca composta all'alterigia e
allo sprezzo, mostrando di non voler scendere verso  il  mezzo  della  via.  Ora
bisogna sapere che Ludovico aveva  il  suo  lato  destro  al  muro,  e  che  per
conseguenza aveva il diritto (bel diritto!) di passare accanto al  muro,  e  che
l'altro  doveva  dargli  il  passo,  ma  come  abbiam  detto,  costui  accennava
tutt'altro che la voglia di farlo. Anzi quando furono presso,  guardando  d'alto
in basso Ludovico, gli disse con aria di comando: «Tiratevi a basso».  «A  basso
voi», rispose Ludovico: «la strada è mia». «Coi pari vostri, la strada è  sempre
mia». «Sì s'ella appartenesse ai soperchiatori». «A basso, vile plebeo, o  ch'io
ti dò quella educazione che non ti poteva dare tuo padre».  «Voi  mentite  ch'io
sia vile: ma non è da stupire che siate così prodigo  di  quello  che  avete  in
tanta copia». «Tu menti ch'io abbia mentito», disse con furia  e  con  disprezzo
quel signore: e questa risposta era di prammatica,  come  ora  sarebbe  dire:  -
benissimo - a chi vi domanda della vostra salute: indi soggiunse; «e se tu fossi
cavaliere come son io, ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa  che  tu
sei il mentitore». «È buona sorte per voi l'esser cavaliere; così potete  essere
insolente e dispensarvi di sostenere la vostra insolenza, come vile che  siete».
Così dicendo pose mano alla spada. «Temerario», gridò quel signore, «io spezzerò
questa», e la cavò pure così dicendo «dopo che sarà macchiata del  tuo  sangue».
Così si avventarono l'uno sull'altro. Cristoforo venne in ajuto del suo  padrone
e cavò il suo coltello; e due servitori che accompagnavano il  signore  andarono
addosso a lui e a Ludovico. La gente  si  ritirava  da  ogni  parte,  e  giacché
nessuno di quelli che s'abbattevano nella via era interessato  per  amicizia,  o
per onore a pigliar parte nella disputa, la quale da  duello  divenne  tosto  un
fatto generale. Il signor Ludovico  e  il  suo  Cristoforo  dovevano  difendersi
contra tre, e il combattimento era  tanto  più  diseguale  che  Ludovico  mirava
piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico che ad  ucciderlo;  ma  il
signore voleva la vita dell'avversario. Ludovico aveva già toccata in un braccio
una pugnalata d'un servitore; e il nemico gli cadeva addosso per finirlo, quando
Cristoforo vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo s'avventò col pugnale al
signore, il quale rivolta tutta la sua ira contro di lui lo passò colla spada. A
quella vista Ludovico scordato  ogni  ritegno  cacciò  la  sua  nel  ventre  del
provocatore, il quale cadde quasi ad un punto col povero Cristoforo: i servitori
veduto il padrone sul terreno, si diedero alla fuga: e Ludovico  rimase  solo  e
ferito, e circondato dal popolo che accorreva, vedendo finita la guerra. «Che è?
che è? - Come è andata? Son due morti. - Gli ha fatto un occhiello nel ventre. -
Chi? a chi?» Grida e confusione; e il povero Ludovico, col  compagno  ucciso,  e
quel che è peggio col nemico ucciso da lui, si trovava in mezzo ad una folla che
lo stringeva d'ogni parte.  Ma,  come  è  facile  da  supporre,  il  favore  era
piuttosto per lui che per l'avversario, e tutti cercavano di salvarlo.  Il  caso
era  avvenuto  vicino  ad  una  Chiesa  di  Capuccini,  asilo,  come  ognun  sa,
impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone che
si chiamava la giustizia. Il povero ferito fu quivi  condotto  o  portato  dalla
folla, e quasi fuori di sè pel furore, pel rimorso, e  pel  dolore  i  padri  lo
accolsero dalle mani del popolo, che lo raccomandava ai suoi ospiti, dicendo: «è
un uomo dabbene, che ha fatto freddo un birbone». Ludovico non aveva  mai  prima
d'allora versato sangue; e benché l'omicidio  fosse  a  quei  tempi  cosa  tanto
comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi
a vederlo, pure l'impressione che Ludovico ricevette dal veder l'uomo morto  per
lui, e l'uomo morto da  lui,  fu  nuova  e  terribile,  fu  una  rivelazione  di
sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico, l'alterazione de'  suoi
tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore, all'abbattimento
e  alla  severa  debolezza  della  morte,  cangiarono  in   un   punto   l'animo
dell'uccisore. Strascinato al convento egli non sapeva quasi dove fosse e che si
facesse; e cominciò appena a comprendere la sua situazione, quando si  trovò  in
un letto della infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i capuccini ne avevano
sempre alcuno) che aggiustava faldelle e bende sopra due ferite leggieri ch'egli
aveva ricevute nello scontro. Un  padre  che  assisteva  più  frequentemente  ai
moribondi, e che aveva spesso reso di questi uficj sulla via, fu chiamato  tosto
sul  luogo  del  combattimento;  e  tornato  pochi  momenti  dopo,  entrò  nella
infermeria, e fattosi al letto dove Ludovico giaceva: «Consolatevi», gli  disse;
«almeno è morto bene, e mi ha incaricato di chiedere il  vostro  perdono,  e  di
portarvi il suo». Questa parola fece rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli
risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti  che  erano  confusi  e
affollati nel suo cuore, dolore per l'amico, pentimento e rimorso di ciò ch'egli
aveva fatto, e nello stesso tempo un senso forte e sincero di  commiserazione  e
di amore per l'infelice ch'egli aveva ucciso: Ludovico allora avrebbe volentieri
data la sua vita per ricuperare quella del suo nemico. «E l'altro?»  domandò  al
padre. L'altro era spirato. Frattanto le uscite e i contorni del convento  erano
affollati di popolo curioso: ma giunta la sbirraglia fece smaltire la  folla,  e
si pose in agguato a una certa distanza dalle porte;  ma  in  modo  che  nessuno
potesse uscirne inosservato. Un fratello  del  morto,  due  suoi  cugini,  e  un
vecchio zio vennero pure armati da capo a piede; e facevano  la  ronda  intorno,
guardando con aria di minaccia gli accorsi del popolo, i  quali  mostravano  nei
volti quasi una  sorta  di  trionfo  e  di  contentezza.  Appena  Ludovico  potè
riflettere più pacatamente, chiamato un frate confessore, lo pregò che andasse a
casa della moglie di Cristoforo, che l'assicurasse ch'egli non aveva fatto nulla
per cagionare la morte del suo amico, e  nello  stesso  tempo  le  desse  parola
ch'egli si riguardava come il padre della  famiglia.  Quindi  pensando  ai  casi
suoi, il pensiero di farsi frate che tante volte  come  abbiamo  detto  gli  era
passato per la mente, gli si presentò allora, e divenne tosto vera  risoluzione.
Chiamò il guardiano, e gli aperse il  suo  cuore,  e  n'ebbe  in  risposta,  che
bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate, ma che s'egli persisteva, non
sarebbe rifiutato. Allora egli fece chiamare un notajo, e fece  in  buona  forma
una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel patrimonio)
alla famiglia di Cristoforo; una somma alla madre, come se  le  costituisse  una
contraddote, e il resto ai figli. Gli ospiti di Ludovico erano impacciati assai.
Consegnarlo alla giustizia, cioè alla vendetta de' suoi nemici, oltreché l'esser
cosa vile e crudele (ragione che è più potente quando è accompagnata da  altre),
sarebbe stato lo stesso che rinunziare al privilegio  di  asilo,  screditare  il
convento presso tutto il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti i capuccini
dell'universo per aver lasciato ledere il diritto di tutti, tirarsi contra tutte
le autorità ecclesiastiche, le quali allora si  consideravano  come  tutrici  di
questo diritto. Per l'altra parte  la  famiglia  dell'ucciso  era  potentissima,
forte di aderenze, irritata, e si faceva  un  punto  d'onore  di  vendicarsi,  e
minacciava della sua indegnazione tutti quelli che mettevano  un  ostacolo  alla
vendetta. E quand'anche ai parenti fosse poco importato  della  morte  del  loro
congiunto (cosa che la storia non dice però) tutti  avrebbero  esposta  la  loro
vita per avere nelle mani l'uccisore; e come toglierlo dalle mani dei  capuccini
sarebbe stato un esempio insigne, di  cui  si  sarebbe  parlato  per  più  d'una
generazione, e che avrebbe renduta sempre più rispettabile la casa,  così  erano
tutti impegnati, accaniti a riuscirvi. La risoluzione di Ludovico era il miglior
ripiego per cavare i frati da questo viluppo.  Vestendo  l'abito  di  capuccino,
egli faceva una  specie  di  riparazione,  rinunziava  a  tutte  le  massime  di
puntiglio e di vendetta che allora si consideravano come leggi eterne e naturali
di onore, rinunziava ad ogni nimicizia, ad ogni gara, era insomma un nemico  che
depone le armi e si arrende. I parenti poi potevano anche  credere  e  dire  che
Ludovico si era indotto a ciò per disperazione e per timore; e ridurre un uomo a
rinunziare tutto il fatto suo, a tagliarsi i capelli, a crescersi  la  barba,  a
camminare a piedi nudi, a non possedere un quattrino, a dormire sulla paglia,  a
vivere di elemosina, poteva parere un castigo bastante anche all'offeso  il  più
superbo. Il Padre Guardiano andò umilmente dal fratello del morto, e dopo  mille
proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di  desiderio  di  servirla  in
tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della chiesa, parlò del  pentimento
di Ludovico (che era vero), e  della  sua  risoluzione,  come  se  chiedesse  un
consiglio o quasi un permesso. Il fratello diede nelle smanie, che il  capuccino
lasciò passare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo  giusto  dolore»:  parlò
alteramente, e il capuccino raddoppiò di umiltà e di complimenti; fece intendere
che in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una  soddisfazione;  e
il capuccino che non ne era persuaso,  non  gli  contraddisse  però;  finalmente
domandò, impose come una condizione che l'uccisore di  suo  fratello  partirebbe
tosto da Cremona. Il capuccino, che aveva già pensato di  far  così,  mostrò  di
accordar  questo  alla  deferenza  ch'egli  e   tutti   i   suoi   avevano   per
l'illustrissima casa, e tutto fu conchiuso. Contenta la famiglia per le  ragioni
che abbiam dette, contenti i frati, contenti quelli che avrebbero dovuto  punire
Ludovico, perché dopo la donazione fatta da  lui  di  tutto  il  suo  avere,  la
persecuzione che gli si sarebbe fatta non avrebbe portato che impicci e fatiche,
contento il popolo il quale vedeva salvo un uomo che amava,  dalle  persecuzioni
di prepotenti che odiava; e che nello  stesso  tempo  ammirava  un  conversione;
contento finalmente ma per motivi diversi e più  alti  il  nostro  Ludovico;  il
quale non desiderava  altro  che  di  cominciare  una  vita  di  espiazione,  di
patimenti e di servizio agli altri che potesse compensare il male ch'egli  aveva
fatto, e raddolcire il sentimento insoffribile  del  rimorso.  Così  Ludovico  a
trent'anni si avvolse, come si direbbe poeticamente, nelle ruvide lane, diede un
eterno addio al mondo ed al barbiere, e fu  novizio.  Il  sospetto  che  la  sua
risoluzione fosse attribuita al timore lo afflisse un momento; ma tosto egli  fu
lieto di poter sofferire  questa  ingiustizia.  Ognuno  sa  che  quando  uno  si
affigliava ad una regola, lasciava il nome di battesimo, e ne prendeva un altro;
Ludovico assunse quello  di  Cristoforo.  Appena  Fra  Cristoforo  ebbe  assunto
l'abito, il guardiano gl'intimò che andrebbe a fare il  noviziato  a  Modena,  e
partirebbe all'indomani. Il novizio gli si gettò allora ai piedi,  e  lo  chiese
d'una grazia. «Io parto», diss'egli, «da questa città dove ho sparso  il  sangue
d'un uomo, e vi lascio i congiunti di esso e  un  fratello,  quelli  che  io  ho
offesi, senza aver fatta una riparazione. Permettetemi che io  quanto  è  da  me
ripari almeno col fratello l'ingiuria, e tolga se si  può  il  rancore  dal  suo
cuore». Al guardiano parve che questo passo, fatto  con  tutte  le  precauzioni,
riconcilierebbe al tutto il convento colla famiglia e gli disse che gli  darebbe
risposta, e andò difilato dal fratello dell'ucciso, esponendogli la richiesta di
Fra Cristoforo. Dopo qualche sbruffo di collera, e  qualche  esitazione:  «venga
domani» diss'egli, e indicò l'ora. Il guardiano si assicurò che il  novizio  non
arrischiava nulla, e gli diede la licenza desiderata. Il signore  superbo  pensò
tosto che poteva dare molta solennità a questa riparazione, e soddisfare così in
un punto la vendetta e l'orgoglio, e crescere la sua importanza presso tutta  la
parentela, e presso il pubblico: e fece avvertire in fretta tutti i parenti  che
all'indomani al mezzo giorno restassero  serviti  (così  si  diceva  allora)  di
venire da lui per ricevere una soddisfazione comune. Al mezzogiorno la casa  era
piena di signori d'ogni età e d'ogni sesso, tutti in grande apparato, con grandi
cappe e con durlindane infinite con... Il cortile e le anticamere  e  la  strada
formicolavano di servi,  di  paggi,  e  di  bravi.  Fra  Cristoforo  vide  tutto
l'apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un picciolo contrasto fu contento  che
la riparazione fosse clamorosa. - L'ho ucciso in  pubblico,  diss'egli  fra  sè,
alla presenza dei suoi nemici: quello fu lo scandalo; questa  è  riparazione  -.
Così con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, attraversò la folla  che
lo riguardava con una curiosità poco cerimoniosa,  salì  le  scale,  e  con  una
confusione che cercava di vincere giunse di  sala  in  sala  alla  presenza  del
fratello il quale era circondato dai parenti più prossimi. Fra Cristoforo gli si
gettò ai piedi e disse: «Io sono l'omicida di vostro fratello. Sa  Iddio  se  io
vorrei restituirvelo a costo del mio sangue; ma non potendo  che  farvi  inutili
scuse, vi supplico di accettarle per Dio, e  di  perdonarmi».  Tutti  gli  occhi
erano rivolti sul povero novizio e sull'uomo a cui egli parlava, e  s'intese  un
mormorio di pietà, e di rispetto. Il signore che stava  in  atto  di  degnazione
forzata e d'ira compressa, e si preparava a goder d'un trionfo,  fu  turbato,  e
chinandosi verso l'inginocchiato: «Alzatevi», disse; «l'offesa... ma l'abito che
portate... non solo questo; anche per voi... Si alzi  padre...  Mio  fratello...
non lo posso negare; era... era un po' caldo... ma, quello che Dio ha  voluto...
Non se ne parli più... Padre si alzi per amor  del  cielo»;  e  presolo  per  le
braccia lo sollevò... Fra Cristoforo alzato quasi a forza, e tenendosi pur chino
rispose: «Se quegli che io non oso nominare ha fallato, ha avuto pur  troppo  un
severo castigo, e spero che Dio misericordioso si sarà contentato di  questo,  e
gli avrà dato il suo perdono;  ma  io  son  qui,  e  non  ho  altro  motivo  per
pretenderlo da lei che la sua bontà, e i meriti del signore».  «Perdono!»  disse
il signore: «ma padre Ella non ha bisogno... pure giacché lo vuole: certo, certo
io le perdono di cuore, in nome anche di tutti», e qui si guardò intorno, e  gli
astanti: «sì sì» gridarono ad una voce «tutti tutti». Allora  il  signore  mosso
dall'aspetto del frate, e dal sentimento di tutti gli astanti, gettò le  braccia
al collo di Cristoforo, il quale stringendolo più basso ricevette da lui  e  gli
rendette il bacio di pace. Tutti allora furono intorno a Fra  Cristoforo,  e  la
conversazione divenne generale. Il signore che aveva voluto in questa  occasione
far pompa di tutto, aveva fatto preparare un rinfresco sontuoso, e  fatto  cenno
ad un cameriere, si riavvicinò a Fra  Cristoforo  il  quale  stava  in  atto  di
accomiatarsi, e gli disse: «Padre mi dia una prova di amicizia col  gradire  una
picciola refezione, e fare  un  po'  di  festa  con  noi».  Intanto  giunsero  i
rinfreschi. Il signore volle  servire  pel  primo  il  buon  novizio:  il  quale
scusandosi con umiltà cordiale: «Queste cose» disse «non sono  più  per  me;  ma
tolga il cielo ch'io rifiuti i suoi doni: io sto per pormi in viaggio, si  degni
di farmi portare un pane, perché io possa dire di aver goduta la sua carità,  di
aver mangiato il suo pane, di aver questo segno del  suo  perdono».  Il  signore
commosso ordinò che così si facesse  e  tosto  giunse  un  cameriere  riccamente
vestito, che portando un pane sur un bacile d'argento lo presentò al  Padre,  il
quale presolo e ringraziato, lo pose nella sua bisaccia. Il signore  alzando  la
voce disse al cameriere: «si mandi pane bianco e vino al convento per  tutta  la
comunità». Dopo alcuni momenti Fra Cristoforo chiese licenza, ed abbracciato  di
nuovo il signore, e  tutti  quelli  che  lo  stringevano  e  che  volevano  pure
abbracciarlo, si sviluppò da essi a fatica, ebbe a combattere  nelle  anticamere
per isbrigarsi da quelli che gli baciavano il lembo dell'abito, il  cordone,  il
cappuccio; e si trovò nella via portato come in trionfo, ed accompagnato da  una
folla di popolo fino alla porta donde uscì cominciando il suo  pedestre  viaggio
verso il luogo del suo noviziato. Il fratello dell'ucciso e il parentado, che si
erano preparati ad assaporare quel giorno  la  trista  gioja  dell'orgoglio,  si
trovarono invece ripieni della gioja serena del perdono e della benevolenza.  La
conversazione rimase più pacata,  più  semplice,  senza  apparato,  cordiale:  e
invece di trattenersi di riparazione, di puntigli, di ricantare le storie  delle
soddisfazioni prese, e dei sopramani vendicati,  non  si  parlò  che  del  Padre
Cristoforo, e delle virtù dei capuccini; e taluno che per la cinquantesima volta
avrebbe raccontato come il Conte Muzio suo avo  aveva  saputo  fare  stare  quel
Marchese Stanislao che ognun sa che  Rodomonte  era,  parlò  invece  della  vita
penitente di un Fra Benedetto, morto molti anni prima. Sciolta  la  brigata,  il
signore, ancora tutto commosso si maravigliava di tratto in tratto fra sè di ciò
che aveva detto, di ciò che aveva sentito,  e  borbottava  fra  i  denti:  «Gran
Frate, Frate singolare! Se rimaneva ancor lì per qualche  momento,  quasi  quasi
gli avrei domandato io scusa perch'egli mi abbia ammazzato il fratello!» Però  è
da notarsi che tutti i convitati partirono di là un po' migliori di  quello  che
vi fossero andati, e ch'egli stesso fu per tutta la sua vita un po' meno superbo
e un po' più indulgente. Il Padre  Cristoforo  camminava  con  una  consolazione
quale non aveva provata mai dopo quel giorno  terribile,  ad  espiare  il  quale
tutta la sua vita doveva essere consacrata. Ai novizj era  imposto  silenzio;  e
Cristoforo serbava senza fatica questa legge, tutto assorto nel  pensiero  delle
fatiche, delle  privazioni  e  delle  umiliazioni  che  avrebbe  incontrate  per
espiazione  del  suo  fallo.  Fermandosi  all'ora  della  refezione  presso   un
benefattore, egli si mangiò con una specie di voluttà il pane del perdono: ma ne
risparmiò un tozzo, e lo ripose nella  sporta  onde  serbarlo  come  un  ricordo
perpetuo. Non è nostro disegno di narrare  la  vita  fratesca  del  nostro  buon
padre:  diremo  dunque  soltanto  ch'egli  passò  il  suo  noviziato  sostenendo
alacremente le dure discipline di quello stadio,  e  sottomettendosi  bravamente
alle prove, talvolta assai strane a  cui  erano  posti  i  novizj;  facendo  per
ragione ciò che gli appariva ragionevole, e pensando pel resto  che  un  omicida
non doveva esser trattato con molte cerimonie. Divenuto frate professo  egli  si
consacrò specialmente in quanto dipendeva  dalla  sua  scelta  a  tre  sorta  di
servizi: assistere moribondi, comporre dissidj... e proteggere gli  oppressi.  A
questa ultima occupazione era egli portato  dalla  antica  abitudine,  la  quale
operava in lui con motivi più puri, e da un resto di spirito  guerriero  che  le
umiliazioni e le macerazioni non avevano sopito. Il suo linguaggio come  le  sue
azioni mostravano a chi l'avesse attentamente  considerato  i  segni  di  questo
spirito indeboliti ad ogni momento da uno sforzo continuo, ma non mai cancellati
del tutto. Era a quei tempi comunissima a tutte le classi  di  persone  l'usanza
d'infiorare il discorso di quelle parole delle quali quando si vogliono stampare
non si pone che l'iniziale con alcuni puntini, di quelle parole che esprimono  o
ciò che vi ha di più sozzo o ciò che vi ha di più riverito, di quelle parole  le
quali quando scappano ad un signorino nella puerizia, fanno fare viso  dell'arme
alla mamma, e la fanno sclamare: «ohibò! dov'hai tu inteso questo: nella  via  o
dai servitori certamente» (e l'avrà inteso dal signor padre)  di  quelle  parole
che non sono sconosciute nelle sale fastose, e che formano la  terza  parte  dei
colloquj  del  popolo,  al  quale  dicono  alcuni   sapienti   che   converrebbe
abbandonarle; ma questi sapienti non dicono bene,  perché  comunque  gli  uomini
sieno classificati, non vi ha alcuna classe d'uomini alla quale convenga ciò che
è turpe. Quest'uso era adunque comunissimo in allora, e chi ne vuol la prova dia
una occhiata alle leggi che bestemmiavano pene atroci per impedir la  bestemmia,
guardi alla cura che i vescovi prendevano per togliere questa vergogna dal clero
stesso. Il signor Ludovico aveva fatto un tale uso di queste frasi che la lingua
del  Padre  Cristoforo  durava  fatica  a  rimandarle  tutte  le  volte  che  si
presentavano, cioè ad ogni primo impeto di passione di qualunque genere;  ma  il
Padre Cristoforo faceva stare la sua lingua. Solamente in certi casi  rari,  nei
quali la passione era tanto viva che  quasi  quasi  Cristoforo  tornava  per  un
momento Ludovico, veniva ad  un  componimento.  Si  proferivano  le  parole,  ma
trasformate:  ad  alcune  consonanti  radicali  n'erano  sostituite  altre   che
toglievano il senso ordinario alla parola, e lasciavano soltanto  travedere  una
lontana intenzione, quasi un bisogno di proferirla.  Così  mutato,  trasformato,
temperato era l'animo, in  modo  però  che  riteneva  alquanto  dell'antica  sua
natura. Abbiamo già detto che la Lucia si confessava dal Padre Cristoforo, e che
gli aveva confidate le sozze persecuzioni di Don Rodrigo. È quindi naturale  che
il Padre accorresse alla chiamata di Lucia  con  ansia  tanto  più  grande,  che
avendole egli dato consiglio di non palesar nulla, e di starsene quieta sperando
che la burasca passasse, temeva ora che il suo consiglio fosse stato cagione  di
qualche nuovo pericolo; ed alla sollecitudine di carità che gli era naturale, si
aggiungeva quello scrupolo delicato che tormenta i buoni. Ma frattanto  che  noi
siamo stati a raccontare i fatti del Padre  Cristoforo,  egli  è  giunto,  si  è
affacciato alla porta; e le donne lasciando il  manico  dell'aspo  che  facevano
girare e stridere, si sono alzate, dicendo ad una voce: «Oh Padre guardiano!»

CAPITOLO V

IL TENTATIVO

Il qual padre guardiano si fermò ritto sulla soglia,  e  vedendo  le  due  donne
sole, abbassò gli occhi, e si raccolse un momento, come era uso  a  fare  dacché
era divenuto capuccino, tutte le volte  che  si  trovava  solo  in  presenza  di
qualche persona di quel sesso terribile, che non avesse  l'età  prescritta  alle
fantesche dei curati. Rialzando poi lo sguardo, s'accorse al volto turbato delle
due donne che i suoi presentimenti non  erano  fallaci;  e  soprastato  alquanto
sulla soglia come per aspettarne la trista conferma, disse  con  quel  tuono  di
interrogazione che si risente già di  ciò  che  deve  significare  una  risposta
troppo preveduta: «E bene?» Lucia rispose con uno scoppio di  pianto.  La  madre
cominciò dal chiedere  scuse  infinite  al  padre  guardiano  dell'avere  ardito
incomodarlo, ma egli si avanzò e postosi sur un sedile contesto di alga,  troncò
tutte le scuse, e dopo aver detto a Lucia: «quetatevi povera figliuola», domandò
di essere informato di tutto brevemente. Il  buon  Padre  ben  si  accorgeva  di
mettere una condizione un po' dura e difficile; Agnese  gli  raccontò  tutta  la
trista storia del giorno antecedente fra  le  interruzioni  del  guardiano,  che
faceva abbreviare le ciarle e che chiedeva schiarimenti, e che di tempo in tempo
diceva qualche parola di compassione e di  conforto  a  Lucia  che  singhiozzava
amaramente. Quando la storia fu terminata;  «Dio  benedetto!»  sclamò  il  Padre
Cristoforo: «fino a quando li lascerai fare costoro?» Indi volgendosi tosto alle
donne: «poverette!» disse: «Dio vi  ha  visitate:  povera  Lucia!  mah!  non  vi
perdete d'animo: Dio vi ajuterà, ve lo prometto io: oh non  vi  ha  mica  creata
perché foste tormentata da costui: Dio ha i suoi fini, e al termine  delle  cose
si vede la sua mano. Ascoltate; io vi prometto di non abbandonarvi:  oh  non  vi
abbandonerò certo; mah! Dio sa quello che io potrò fare: e chi sa  che  Dio  non
voglia servirsi di un uomo da nulla come son io per cambiare  un  prepotente,  e
per sollevare dei poverelli. Lasciate ch'io pensi un momento che cosa  si  possa
fare per andare incontro al pericolo più pressante, e poi Dio provvederà».  Così
dicendo appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, e la fronte  nella  palma,  e
colla destra strinse il mento barbuto, come per concentrare e tener ferme  tutte
le forze della sua mente; Lucia stava aspettando con fiducia e con dolore, e  la
madre mandava giù giù lo sguardo quanto poteva  per  ispiare  qualche  cosa  dei
pensieri del padre, il quale fece mentalmente questo monologo:  -  Poffare,  che
quell'uomo dovesse giungere a questo segno! Eh non è il primo pur troppo! Ma non
ci sarà chi possa farlo stare? Vediamo. Quello che più importa  sarebbe  di  far
succedere subito il matrimonio. Per... dinci:  il  signor  curato  fa  una  gran
villania, e io gli parlo fuor dei denti... ciarle, ciarle: egli sa che io non dò
pugnalate, e mi lascerà dire, o mi risponderà bravamente. Ma posso fargli  paura
anch'io: se trovassi il modo di fargli venire un comando, ma un comando,  e  con
un buon rabbuffo: Monsignore illustrissimo non vuole di queste infami porcherie,
sì ma intanto, che cosa può accadere? No no bisognerebbe mettere in salvo questa
povera colomba e mettere un freno a quel birbante. Il fatto è chiaro:  la  legge
c'è; e la giustizia,... quando fosse stimolata.  Eh  qui  non  facciamo  niente:
costui gli spaventa tutti: toccare Don  Rodrigo,  già!  per  amor  di  Dio!  chi
l'oserebbe? Ma il mondo poi non finisce  qui:  costui  fa  il  tiranno  spaventa
questi poveri foresi che lo credono più potente che non è! E il cordone  di  San
Francesco ha legate altre spade che quella di costui: se potessi mettere in moto
le mie barbe a Milano... E intanto? e  poi?  e  poi?  E  chi  sa  se  non  sarei
contraddetto da alcuni dei nostri?  costui  fa  il  protettore  dei  cappuccini,
l'amico del convento: e i suoi bravi si sono ricoverati talvolta da noi... e chi
sa come si rappresenterebbe la cosa? e  quando  si  vedesse  che  si  tratta  di
soccorrere una povera figlia che non può compensare con altrettanta  protezione!
Ah! se fosse una gran signora! Ma se fosse  una  gran  signora  non  sarebbe  in
questo caso. Oh poveretti noi! Oh che tempi! Quando  io  credeva  che  facendomi
cappuccino sarei fuori di questo mondo infame! Eh non se ne va fuori che  quando
si muore. E fare un tentativo presso Don Rodrigo?  Ehn!  che  cosa  varranno  le
parole d'un povero frate su quel diavolo in carne? Eppure non c'è altro da fare.
Chi sa che adoperando preghiere, qualche minaccia lontana:  fargli  sentire  che
c'è qualcheduno che sa quel che si può fare contra uno scellerato soperchiatore?
Forse non  sarà  che  un  infame  cappriccio  venutogli  dall'aver  tanto  fatto
impunemente: e quando vedrà che l'affare può diventar serio... Sì non c'è altro,
non c'è altro. Se non altro si vedrà come giuoca costui, e si guadagnerà  tempo.
Il Padre Cristoforo si fermò in questa determinazione, pei  motivi  che  abbiamo
riferiti, e che in verità bastavano se non a  farne  sperar  molto,  a  renderla
almeno preferibile ad ogni altra: ma dietro a tutti questi motivi  ve  n'era  un
altro che dava un gran peso  a  tutti  questi,  e  che  quantunque  agisse  così
potentemente non era distintamente avvertito da lui.  Il  Padre  Cristoforo  era
portato a  cogliere  con  premura  una  occasione  di  trovarsi  a  fronte  d'un
soperchiatore, di resistergli se non altro con esortazioni, di confonderlo, e di
provargli ch'egli aveva il torto, e di combatterlo e di vincerlo come che fosse.
Mentre il buon frate stava ancor meditando, Fermo il quale per tutte le  ragioni
che ognuno può  indovinare  non  sapeva  star  lontano  da  quella  casa,  erasi
affacciato alla porta, e visto il padre assorto, e le  donne  che  gli  facevano
cenno di non disturbarlo,  sdrucciolò  per  un  angolo  della  porticella  nella
stanza, e costeggiando il muro andò a riporsi tacitamente  in  un  angolo  della
stanza. Quando il Padre si alzò  per  comunicare  alle  donne  il  suo  disegno,
s'accorse di Fermo, e gli fece un saluto che esprimeva una  affezione  resa  più
intensa dalla pietà, e Fermo ne fu commosso.  «Ha  saputo?»  disse  Fermo.  «Pur
troppo ho inteso la vostra disgrazia» rispose il Padre; «ma tu non  ti  perderai
d'animo come queste poverette, e sopra tutto aspetterai che Dio ti ajuti, e  Dio
ti ajuterà». «Benedette le sue parole», rispose Fermo: «ella non è di coloro che
danno sempre torto ai poverelli, e che rimproverano una disgrazia come se  fosse
una colpa. Ma il signor curato e il signor dottore...» «Non pensare a questo che
è inutile: io sono un povero frate, ma ti ripeto quello che ho  detto  a  queste
donne: per poco ch'io sia non vi abbandonerò». «Oh lei non è come gli amici  del
mondo. Sciaurati! dopo tante promesse  fatte  nell'allegria,  che  darebbero  il
sangue per me, che mi avrebbero sostenuto sempre, che se avessi avuto briga  con
qualcuno per cavaliere ch'ei fosse... e poi: se vedesse  come  si  ritirano:  oh
nessuno più ne  vuol  sentire  a  parlare...»  Mentre  Fermo  parlava  il  Padre
Cristoforo lo guardava coi suoi occhi scintillanti, e prendeva un'aria severa di
modo che Fermo si andava accorgendo che le parole sue non erano gradite, ed  ora
voleva lasciar cadere il discorso, ora tentando di raggiustare la  faccenda,  si
andava incespicando e pronunziava parole sconnesse... «voleva dire: cioè  Padre,
non m'intendo mica...» «E che Fermo!  dunque  tu  avevi  cominciato  a  guastare
l'opera mia, prima ch'ella fosse  intrapresa!  Tu  pensavi  a  difenderti  della
violenza colla violenza! Ringrazia il cielo che sei stato disingannato a  tempo.
Come! tu speravi soccorso da questi che tu chiami amici? Soccorso per  liberarti
dalla ingiustizia? Poveretto! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita  e
il suo riposo per sagrificarlo alla giustizia, alla giustizia  altrui?  Sì;  pel
denaro, per la vendetta, pel diletto di far male l'uomo disprezza  il  pericolo;
sì allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioja ad  affrontare  il  suo
simile: ma perché uno non sia oppresso,  ma  perché  non  s'impedisca  una  cosa
giusta, ma  perché  le  cose  vadano  come  dovrebbero  andare,  tranquillamente
ordinatamente, tu credevi che troveresti chi  si  armerebbe  con  te  contra  un
potente? Gli uomini non provano per questo quella gioja feroce che fa desiderare
di affrontarsi coll'uomo: o se ve n'ha di tali sono tanto rari...; e - a  queste
parole Fra Cristoforo strinse fortemente la mano a Fermo - e  anche  questi  han
torto. Ringrazia il cielo che non ti ha dato il tempo  di  confidare  in  questi
ajuti tanto da far qualche cosa della quale ti saresti pentito. Ascolta,  Fermo,
io son pronto a fare quello che posso per voi;  ma  vi  pongo  una  condizione».
«Comandi, padre guardiano». «Tu mi devi promettere che ti fiderai di me, che non
affronterai, che non provocherai nessuno...» «Promettete promettete», dissero le
donne. «Prometto prometto», disse  Fermo.  «E  bene»  continuò  il  buon  frate;
«importa assai che di questo  affare  si  parli  il  meno  possibile:  perché  i
discorsi potrebbero rendere inutili i miei sforzi per farlo  terminar  bene:  io
spero che quelli che tu chiamavi amici non parleranno, per la stessa ragione che
gli ha distolti dall'operare. Io andrò oggi a parlare con quell'uomo  dal  quale
viene tutto questo male, e non dispero di far tutto finire:  in  ogni  caso,  vi
prometto di nuovo  di  non  abbandonarvi  mai.  Frattanto  voi  state  ritirati,
schivate i discorsi, e sopra tutto non vi mostrate; questa sera o domani  avrete
nuove di  me».  Detto  questo  egli  interruppe  tutti  i  ringraziamenti  e  le
benedizioni, e partì inculcando di nuovo la quiete e la prudenza; e  s'avviò  al
suo convento. Ivi andò in coro a cantare terza  e  sesta,  s'assise  alla  parca
mensa, e allora più parca del solito per la  carestia  che  cominciava  a  farsi
sentire dappertutto, e dopo raccomandati al vicario gli affari del suo  picciolo
regno, si pose in via verso il covile dell'orso che si  trattava  di  ammansare;
senza riporre a dir vero, molta speranza nel suo tentativo.  Il  Castellotto  di
Don Rodrigo era posto sul  pendio  della  montagna  discosto  due  miglia  dalla
casetta di Lucia, un po' più basso e più verso  settentrione,  e  a  tre  miglia
circa dal convento il quale come abbiam detto era al  piano  del  fiume,  e  nel
paesetto posto sulla riva sinistra. Questo castellotto posto sulla cima d'uno di
quei piccioli promontorj fra i quali si dividono le grandi montagne,  era  fuori
dell'abitato. Intorno al castellotto erano tre o quattro  casette  di  contadini
che lavoravano i fondi di Don Rodrigo, e che gli  facevano  da  servitori  e  da
bravi secondo l'occorrenza: vecchj che parlavano dell'antico onore della casa  e
delle loro prodezze giovanili, e le proponevano in esempio ai  giovani:  giovani
che cercavano di emulare quei fatti gloriosi, e  donne  che  sentivano  pure  un
nobile orgoglio della loro condizione di suddite  ad  un  cavaliere  che  sapeva
farsi rispettare, e di madri e mogli d'uomini che  si  facevano  temere.  Quando
però, il che non era caso raro, alcuno degli uomini loro tornava col capo  rotto
a casa, o si trovava minacciato della vendetta di qualche offeso furibondo, o in
un altro di quegli impiccj in cui doveva farli cader sovente  il  modo  loro  di
vivere, le donne urlavano allora, mostravano con furore i ragazzi sul  volto  ai
mariti, predicavano la pace e il timor di Dio, e non si  mettevano  in  silenzio
che dopo aver toccata qualche bussa. L'aspetto delle abitazioni di costoro  dava
un indizio della vita tra il  rustico  e  l'eroico  che  essi  menavano,  poiché
guardando dalle porte si vedevano nelle loro stanze terrene appesi alla  rinfusa
gli archibugj e le zappe, la  reticella  e  il  berretto  piumato  col  cappello
pastorale di paglia. Quando il Padre giunse  dinanzi  al  Castellotto  trovò  la
porta  chiusa,  segno  che  il  padrone  stava  a  tavola  e  non  voleva  esser
frastornato. Le rade e picciole finestre che davano sulla via  erano  chiuse  da
imposte cadenti per vetustà ma difese da grosse ferriate,  e  quelle  del  piano
terreno tanto elevate che un uomo avrebbe appena  potuto  affacciarvisi  salendo
sulle spalle d'un altro. Tutto al di fuori era silenzio, e un passaggero avrebbe
potuto credere che quella casa fosse abbandonata, se quattro creature, che erano
poste in euritmia al di fuori, non avessero dato un  indizio  di  abitazione,  e
nello stesso tempo un simbolo della ospitalità di quei tempi. Due grandi avoltoj
colle ali tese erano inchiodati ciascuno sur  una  imposta;  ed  uno  già  mezzo
consumato dal tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro,  non
aveva quasi più nemmeno la figura d'un bel  cadavere:  e  due  bravi  (quei  due
medesimi che avevano messa quella bella  paura  in  corpo  al  curato)  sdraiati
ciascuno sur una delle panche di pietra poste al di qua e al di là della  porta,
facevano guardia oziosa al castello del signore aspettando di godere gli  avanzi
della sua mensa. Il Padre stava per ritirarsi ed aspettare in  qualche  distanza
che la porta si aprisse; ma uno de' bravi avendolo veduto:  «padre»  gli  disse:
«ella vuol riverire il Signor Don Rodrigo: aspetti aspetti, qui non  si  mandano
indietro i religiosi, noi siamo amici del convento», e così dicendo si  alzò,  e
senza dar retta al frate che voleva ritornarsene, battè due colpi  del  martello
sulla porta; a quel segno giunse borbottando un servo; ma quando ebbe veduto  il
Padre,  lo  fece  entrare  tosto  dicendogli  che  avvertirebbe  il  padrone,  e
attraversato un angusto cortile lo condusse per alcuni salotti quasi  fino  alla
porta della sala del convito. A misura che il frate si avvicinava col suo  duca,
sentiva un romore crescente di forchette e di  coltelli,  un  sordo  fragore  di
piatti di stagno posti l'uno sull'altro, e sopra  tutti  un  frastuono  di  voci
discordi che tutte volevano coprire le altre. Il frate desideroso allora più che
mai di attendere miglior congiuntura stava litigando sulla porta col  servo  per
ottenere di aspettare in un canto della casa  che  il  pranzo  fosse  terminato,
quando la porta si aperse, e Don Rodrigo che stava di contro veduta la  barba  e
il cappuccio, e accortosi della intenzione modesta del  buon  Frate:  «Ehi  ehi»
disse «non ci scappi Padre, avanti, avanti». Il padre, mal suo grado si  avanzò,
in mezzo ai clamori e alle dispute dei convitati, i quali accorgendosi ad un per
volta del sopravvenuto lo salutavano  con  quell'aria  di  rispetto  ironico  ed
affettato che gli amici di Don Rodrigo dovevano avere per un cappuccino. Bisogna
confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando,  è  un
più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi  s'incontrano  birboni  più
feroci,  più  diabolici,  più  colossali,  vi  si  scorgono  scelleratezze   più
raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite  che  non  nel  corso  reale
degli avvenimenti; ma vi ha pure  dei  grandi  vantaggi,  ed  uno  che  basta  a
compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli onesti, quelli  che
difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di forze, e battuti  dalla
fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio ancor che trionfante  una  sicurezza,
una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro  la  buona
coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi.
Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia senza la forza, e  vogliano
pure ottenere qualche cosa difficile in favore della giustizia sono obbligati  a
pensare ai mezzi per giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e
per porli in opera senza guastare la faccenda si incontrano tanti  ostacoli,  fa
bisogno di tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si  trovano  posti
necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela, e di studio, che gli  fa
sovente scomparire, in faccia ai loro avversarj risoluti ed  incoraggiati  dalla
forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore  o
sciocco, o perverso degli  spettatori.  L'uomo  retto  sente,  a  dir  vero  con
certezza e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua  idea  è  un
risultato, una conseguenza d'una serie di ragionamenti e di sentimenti,  per  la
quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime fa  ridere  l'avversario,  il
quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e
pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè  per  testimonio  e  per
approvatore, e che vede negli altri contraddizioni e  scherno  perde  facilmente
fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare: o almeno si trova in quello  stato
di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che
un ribaldo mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una  soddisfazione  che
si prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più  placida
e più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore, e  nell'animo
interno mostra e prova talvolta una specie  d'angustia  e  di  vergogna  che  si
crederebbe rimorso; dimodoché a poco a poco finisce per essere  soperchiato  non
solo  nei  fatti  ma  anche  nel  discorso,  e  nel  contegno,  e  sta  come  un
supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente. Si è fatta
questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo, il quale  veniva
per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della  più  stretta  giustizia,  e  la
cessazione della più vile iniquità, si rimase come confuso, e vergognoso  quando
si trovò così solo con tutte le sue  buone  ragioni  in  mezzo  ad  un  crocchio
romoroso e indisciplinato di amici di Don Rodrigo, e in sua presenza. Era questi
in capo alla tavola: alla sua destra sedeva il giovane Conte  Orazio  cugino  di
Don Rodrigo, suo compagno di libertinaggio e di soperchieria, e che  villeggiava
con lui: alla sinistra il Podestà, che Don  Rodrigo  aveva  invitato  non  senza
perché, potendo trovarsi in un impegno dal quale si sarebbe cavato meglio quando
la Giustizia fosse tutta disposta in favor suo. Il Podestà mostrava di  ricevere
l'onore di sedere famigliarmente a tavola d'un cavaliere con un  rispetto  misto
però d'una certa libertà che gli dava il suo uficio; accanto a  lui,  e  con  un
rispetto il più puro e il più sviscerato sedeva il  nostro  Dottor  Duplica,  il
quale avrebbe voluto essere il protetto di tutti quelli che eran da più di  lui,
e il protettore di tutti quelli  che  gli  erano  inferiori:  due  o  tre  altri
convitati di ancor minore importanza attendevano a mangiare e  a  sorridere  con
una adulazione ancor  più  passiva  di  quella  del  dottore:  e  quando  questi
approvava con un argomento o con una lode che voleva esser ragionata,  essi  non
sapevano dire più in là di:  «certamente».  «Da  sedere  al  padre»,  disse  Don
Rodrigo; e un cameriere avvicinò una  scranna  sulla  quale  si  pose  il  Padre
Cristoforo facendo qualche scusa al signore di esser venuto in ora  inopportuna,
a parlargli d'un affare d'importanza. «Parleremo, quanto Ella vorrà, ma  intanto
portate da bere al Padre». Il Padre voleva schermirsi, ma Don Rodrigo  in  mezzo
al trambusto dei litiganti gridava: «No per... non mi farà questo torto,  padre:
non sarà mai detto che un cappuccino si parta da questa casa senza aver  gustato
del mio vino, né un creditore insolente senza avere assaggiato della  legna  dei
miei boschi». Queste parole produssero  un  riso  universale  e  interuppero  un
momento la quistione che si  agitava  caldamente  fra  i  commensali.  Un  servo
portando sur un bacile un'ampolla, come  allora  usava,  di  vino,  e  un  lungo
bicchiero a foggia di calice, lo presentò al Padre, che non volendo resistere ad
un invito tanto pressante dell'uomo che  voleva  farsi  propizio,  non  esitò  a
mescere, e si pose a sorbire lentamente  il  vino.  «Le  torno  a  dire,  Signor
Podestà riverito, che l'autorità del Tasso non serve al suo assunto, che anzi  è
contro di lei», riprese ad urlare il Conte Orazio: «perché quel  grand'uomo  che
conosceva tutte le regole e tutti i puntigli della cavalleria più  soprafina  ha
fatto che il messo di Argante prima di esporre la sfida ai cavalieri  cristiani,
domandi licenza a Goffredo...»  «Ma  questo»,  replicava  non  meno  urlando  il
Podestà, «questo è un sopra più, un mero sopra più: giacché il messo  è  di  sua
natura inviolabile per diritto delle genti, jus gentium, e  secondo  quel
proverbio, - ella m'insegna che i proverbi sono voce di Dio secondo  quell'altro
proverbio che dice: vox populi vox Dei - quel proverbio: ambasciator  non
porta pena; dico che non avendo il messaggero detto nulla in persona propria, ma
solamente presentata la sfida in iscritto, secondo tutte le regole,  non  doveva
mai...» «Con buona licenza di questi signori», interruppe Don Rodrigo  il  quale
questa volta contra il  suo  solito  aveva  voglia  di  troncare  la  quistione:
«rimettiamola nel Padre  Cristoforo,  e  si  stia  alla  sua  sentenza».  «Bene,
benissimo», disse il Conte Orazio al quale parve  cosa  molto  graziosa  il  far
decidere una questione di cavalleria da un cappuccino; mentre il Podestà, a  cui
pareva un po' ostico l'esser sottoposto ad un giudizio mostrava  leggermente  il
suo malcontento con un suono inarticolato accompagnato da una  quasi  invisibile
mossa di spalle. «Ma, da quel che mi pare d'avere inteso», disse il Padre,  «non
sono cose di cui io mi debba intendere».  «Solite  scuse  di  modestia  di  loro
Padri», disse Don Rodrigo; «ma non mi scapperà: Eh via!  sappiamo  bene  ch'ella
non è venuta al mondo colla barba, e col cappuccio, e il mondo lo ha conosciuto.
Via via. Ecco il fatto». «Il fatto è stato...» gridò il Conte Orazio.  «Lasciate
pur dire a me che  sono  neutrale,  cugino»,  riprese  Don  Rodrigo.  «Il  fatto
accaduto in Milano è: che un Cavaliere spagnuolo mandò la sfida ad  un  cavalier
milanese: e il portatore non trovando il provocato in casa, consegnò la  lettera
ad un fratello del cavaliere; il quale, letta che l'ebbe diede alcune  bastonate
al portatore...» «Ben date, bene applicate» gridò il Conte Orazio; «fu una  vera
ispirazione...» «Del demonio», interruppe il podestà «battere  un  ambasciatore!
persona sacra! anch'Ella padre, mi dirà se questa è azione da cavaliero...»  «In
verità signor Podestà ch'io non avrei mai potuto credere che un  par  suo  desse
tanta importanza alle spalle di un mascalzone». «Ma Signor  conte,  ella  mi  fa
dire dei paradossi ai quali io non ho mai pensato. Io  parlo  dell'offesa  fatta
alla livrea del Cavaliere spagnuolo, e non delle spalle del messo:  parlo  sopra
tutto delle leggi di cavalleria. Mi dica un po' se i Feciali, che  erano  quelli
che gli antichi romani mandavano ad intimar  le  sfide  ai  popoli  con  cui  si
mettevano in guerra, domandavano il permesso di esporre l'ambasciata; e mi trovi
un po'  uno  scrittore  che  faccia  menzione  che  un  feciale  sia  mai  stato
bastonato». «Che mi parla di antichi romani, che in queste cose erano  rozzi,  e
principianti?... non v'erano stati ancora paladini  nel  vero  e  stretto  senso
della parola: ma ora che le cose si sono raffinate, che l'esperienza ha resi gli
uomini ben più delicati, e che abbiamo  scrittoroni  i  quali  hanno  immaginati
tutti i casi escogitabili, e hanno scavato  coll'acume  del  loro  ingegno  fino
all'ultimo fondo di queste questioni, ora, io dico e sostengo, che un messo  che
non domanda la licenza di esporre  una  ambasciata  di  sfida  è  un  temerario,
violabile, violabilissimo, e che a bastonarlo si acquista  indulgenza».  «Ebbene
mi risponda un po' a questo. Il  portatore  non  è  disarmato?  e  offendere  un
disarmato non è atto proditorio? Dunque il cavaliere milanese...» «Piano  piano,
che bell'equivoco mi fa ella Signor podestà?...» «Come?» «Ma  lasci  rispondere.
Atto proditorio è ferire  colla  spada  un  cavaliere  disarmato.  Confesso  che
infilzare colla spada un plebeo  senza  necessità  sarebbe  azione  tanto  vile,
quanto bastonare un cavaliere: ma qui si tratta di bastonate date ad un  plebeo;
e lei non mi troverà una regola che imponga di dire guarda che ti bastono,  come
si dice: mano alla spada... E lei Signor Dottore riverito, invece di  farmi  dei
sogghigni, per darmi ad intendere che è del mio parere, perché non  sostiene  le
mie ragioni colla sua buona tabella, per ajutarmi a fare entrare la  ragione  in
capo a questo signore?» «Io...» rispose alquanto  sconcertato  il  dottore,  «io
godo di questa dotta disputa; e benedico quel grazioso  accidente  che  ha  dato
occasione ad una guerra di ingegni sottili, e  di  labbra  eloquenti  che  serve
d'istruzione e di diletto agli  ascoltatori;  di  modo  ché  non  vorrei,  anche
potendo, metter daccordo due combattenti che fanno sì bella  mostra  delle  loro
forze. Ho detto, potendo, giacché io non m'arrogo di fare il giudice... e se non
m'inganno il nobile padrone di casa ha nominato un giudice... qui  il  padre...»
«È vero», disse Don Rodrigo, «ma come volete che il  giudice  parli  quando  gli
avvocati non vogliono tacere!» «Son muto», rispose il Conte Orazio:  il  Podestà
fece pur cenno che tacerebbe. «Ah! finalmente! A lei padre», disse  Don  Rodrigo
con una serietà beffarda. «Ho già fatte le mie scuse col  dire  che  non  me  ne
intendo», rispose Fra Cristoforo dando il bicchiere ad un servo. «Scuse  magre»,
gridarono tutti: «vogliamo la sentenza». - Mascalzoni... cioè  poveri  traviati;
pensava fra sè il Padre Cristoforo, credete voi che  starei  qui  a  sentire  le
vostre pappolate se non si trattasse di cavare una innocente  dagli  artigli  di
quel lupo che voi  accarezzate  vilmente?  Ma  come  s'insisteva  d'ogni  parte:
«Ebbene», disse, «poiché lor signori non vogliono credermi quand'io dico che non
me ne intendo, vedrò di far dire a loro la stessa cosa.  Il  mio  debole  parere
dunque in tutto questo si è, che a ben fare non vi dovrebbero essere  né  sfide,
né portatori, né bastonate». «Nè cavalieri  spagnuoli,  né  cavalieri  milanesi,
voleva forse dire padre»: rispose il Conte  Orazio:  «ed  io  aggiungo:  nemmeno
padri cappuccini. Oh vorrebb'essere un bel vivere, padre... come  si  chiama  il
padre?» «Padre Cristoforo». «Padre Cristoforo  ella  ci  vorrebbe  ricondurre  a
vivere di ghiande. Senza sfide e senza bastonate! sarebbe un bel mondo! impunità
per tutti i paltonieri, e il punto d'onore andato. Ma scommetto che il Padre  ha
voluto scherzare perché sa benissimo che la sua supposizione è impossibile». Don
Rodrigo il quale non vedeva volentieri che il suo schiamazzatore cugino  facesse
tante questioni col podestà che gli premeva di tenersi amico,  approfittò  della
sentenza del padre Cristoforo per  divertire  il  discorso  dalla  questione,  e
rivolto al dottore con aria di protezione e di scherno. «Oh» disse, «voi dottore
che siete famoso per dar ragione a tutti, vediamo un po'  come  farete  per  dar
ragione in questo  al  padre  Cristoforo».  «In  verità»,  rispose  il  dottore,
rivolgendosi al padre, «io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è
insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non abbia posto  mente  che  la
sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non  val  niente,  sia
detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca: perché ogni cosa è buona
a suo luogo: ma credo anch'io che il padre Cristoforo ha  voluto  terminare  con
uno scherzo ingegnoso  una  questione  broccardica».  Il  Padre  Cristoforo  non
rispose, e perché come è facile indovinarlo era stomacato da lungo  tempo  della
disputa e dei disputanti, e perché sapeva che il dottore non si curava di  esser
persuaso: e finalmente perché sarebbe stato  impacciato  a  rispondere;  giacché
quantunque nel suo cuore egli pensasse veramente ciò che avevano espresso le sue
parole; le ragioni della sua sentenza erano tanto lontane  dalle  idee  di  quel
tempo ch'egli stesso avrebbe durato fatica a trovarle. Il dottore il quale  vide
che i due litiganti stanchi di avere impiegata  la  bocca  in  parole  si  erano
rimessi a guadagnare sul piatto il tempo perduto, e temendo che non si valessero
delle forze riacquistate per ricominciare una guerra nella quale  egli  era  già
compromesso, pensò di toccare un'altra materia, e disse: «Del resto signori miei
giacché si  è  parlato  di  cavalieri  spagnuoli  e  di  cavalieri  milanesi,  o
viceversa, giacché ho un eguale rispetto per gli uni e per gli altri; credo  che
presto vedremo anche dei cavalieri alemanni,  se  le  notizie  che  girano  sono
fondate, cosa che loro signori sapranno meglio di me». «Le lettere ch'io  ricevo
da Milano», rispose Don Rodrigo, «mi danno che è voce comune  che  gli  alemanni
ottengono il passaggio per andar contro Mantova, e che pur troppo si  crede  che
il passaggio sarà per di qui, giacché i comaschi muovono cielo e terra per  fare
a noi questo regalo...» «Non si sturbi, non si sturbi...» rispose sorridendo  il
podestà: «non verranno alemanni né a Como, né qui». «Ed io le  dico»  ricominciò
il Conte Orazio, «che si assicura che sono già in marcia per Lindò, e si  nomina
il generale che sarà il celebre Conte di Colalto,  e  che  si  dà  la  nota  dei
reggimenti fra i quali vi è quel  rinomatissimo  reggimento  dei  più  scelti  e
forbiti diavoli in carne che abbiano mai portato moschetto,  il  reggimento  del
famoso principe di  Valdistano,  o  Vallistai  come  lo  chiamino...»  «Il  nome
legittimo in lingua alemanna», interruppe il  podestà,  «è  Vagliensteino,  come
l'ho inteso più volte proferire dal nostro signor comandante spagnuolo». «Ebbene
il reggimento di Vaglien... quello che è: e oltre di questo vi è  il  reggimento
di Galasso, del Barone Aldringhen ed altri simili, tutta gente che ha combattuto
contro i Luterani, e che non ha timor di Dio né degli uomini, e che  dove  passa
non lascia un filo d'erba». «Per me», riprese Don Rodrigo,  «non  ho  voglia  di
aspettarli qui, e» continuò sogghignando verso il Conte Orazio, «se  non  avessi
un affaruccio da sbrigare, sarei già a Milano». «Il vostro affare è  già  bell'e
disperato, e se non avete altro potete partire». «Voi vorreste  aver  guadagnata
la scommessa; ma piano, caro mio, se gli alemanni non vengono in questi  giorni,
la scommessa la pagherete». Queste parole e il sorriso infernale con  cui  furon
dette e risposte furono  un  lampo  pel  padre  Cristoforo  il  quale  s'accorse
fremendo e tremando, che l'oggetto della  scommessa  doveva  essere  l'innocente
Lucia. Il dottore intese forse quanto il padre, ma non tremò né fremè,  né  fece
vista di nulla. «Attenda a tutto bell'agio ai  suoi  affari,  sulla  mia  parola
signor Don Rodrigo e non pensi a privarci della sua  rispettabile  persona;  che
già gli alemanni non sognano nemmeno di passare per di qua. Per mettere il piede
sul nostro territorio che ha l'onore di appartenere  alla  monarchia  spagnuola,
bisogna ottenere il permesso del re Cattolico Don Filippo Quarto nostro  signore
che Dio guardi. Ora il permesso a chi tocca concederlo o  negarlo?  Niente  meno
che al Conte Duca, al gran d'Olivares, a quel modello dei politici, a quell'uomo
che si può chiamare il favorito dei principi e il  principe  dei  favoriti.  Ora
pensino le signorie loro, se un Olivares vuol permettere il passaggio...» «Ma le
dico che si radunano a Lindò...» «Appunto questo è quello che mi persuade di più
che non passeranno in Italia. Certe cose io le so dal nostro  signor  comandante
spagnuolo, il quale si degna - brav'uomo! -  di  trattenersi  meco  con  qualche
confidenza. Sapranno ch'egli è un figliuolo d'un creato del Conte Duca, e che sa
qualche cosa di questo gran ministro. Ebbene fra le strepitose  doti  del  Conte
Duca la più strepitosa forse è quella di saper nascondere  i  suoi  disegni:  di
modo che quegli stessi che lo servono più da vicino, quegli che scrivono i  suoi
dispacci non sanno mai che cosa passi in quella testa, e molte volte anche  dopo
che un affare è stato conchiuso, nessuno ha potuto indovinare quale era in  esso
l'intenzione del Conte Duca. È una volpe, col  dovuto  rispetto,  un  furbo  che
farebbe perder la traccia a chichessia; e quando accenna a destra si  può  esser
certi che batterà a sinistra, ed è perciò che nessuno può mai indovinare  quello
ch'egli sia per risolvere. Onde quand'io veggo truppe alemanne venire alla volta
d'Italia, tanto più dico, che sono destinate per altra parte; perché chi  regola
tutto anche fuori della monarchia è il Conte Duca; che ha le mani lunghe  quanto
la vista». «Ma per dove crede lei che siano destinate tutte queste truppe?» «Per
dove? non per l'Italia certo. Potrebbero esser destinate a gettarsi nella duchea
di Borgogna per far diversione ai francesi,  i  quali  (tutto  per  invidia  del
Cardinal di Riciliù contro il Conte Duca, perché  vede  benissimo  che  non  può
competere con quella testa) i quali francesi dico  per  invidia  soccorrono  gli
olandesi che si trovano all'assedio di Bolduc.  E  questa  congettura,  per  dir
tutto, la tengo dal signor comandante spagnuolo». «Ma sappia signor podestà  che
le notizie che noi abbiamo da Milano, vengono da  personaggi  in  confronto  dei
quali...» «Via via, cugino», interruppe Don Rodrigo «che  il  signor  dottore  è
impaziente di dare egli una decisione questa volta». «Io  decido  e  sentenzio»,
disse il Dottore, «che le cene di Eliogabalo sarebbero vinte  al  confronto  dei
pranzi  del  nobile  signor  Don  Rodrigo,  e  che  la  carestia   non   ardisce
approssimarsi a questa casa dove regna la  splendidezza  sua  capitale  nemica».
Tutti fecero plauso al dottore e viva a Don Rodrigo; e tutti subito si misero  a
parlare della carestia. Qui tutti furono d'una sola opinione; ma il fracasso era
forse più grande che se vi fosse  stato  disparere:  giacché  tutti  esprimevano
energicamente la stessa opinione con diverse  frasi,  ma  tutti  in  una  volta.
«Carestia!» diceva uno, «non c'è carestia sono gli accapparratori, birbanti». «I
fornaj, i fornaj» gridava un altro. «Impiccarli! dei buoni esempj, senza  pietà.
E quei birboni impostori che con un'aria pietosa hanno la sfrontatezza  di  dire
che il pane è caro perché il raccolto è stato scarso,  e  che  il  grano  manca!
Impiccarli, impiccarli! sono i peggiori: tutte  invenzioni  per  nascondere  gli
accapparramenti». «Hanno detto che non vogliono vendere finché  un  terzo  degli
abitanti non sia morto di fame e il frumento non costi cento lire al moggio.  Oh
scellerati! impiccarli!» «Il grano c'è: questo è  un  fatto  innegabile:  dunque
bisogna farlo saltar fuori: e  il  mezzo  è  pronto:  impiccare  quelli  che  lo
nascondono». «Dov'è tutto il male? nella carezza del pane: e chi lo vende  caro?
i fornaj: e per farli mutar vezzo, impiccarne uno o due». «Eh ci vuol altro  che
uno o due: sono tutti birbanti, col pelo sul cuore. Impiccarli, impiccarli!» Chi
ha mai intesa e goduta l'armonia che fa in una fiera di campagna, una troppa  di
cantambanchi, quando prima di spiegare i suoi talenti  dinanzi  al  rispettabile
pubblico, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere più forte che  può
affine di poterlo sentire in mezzo al romore degli altri,  che  procura  di  non
ascoltare, s'immagini che tale fosse la conversazione di economia  politica  dei
nostri commensali. In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense,
ricevendo e dando urtoni e gomitate: quindi si pose  sul  desco  molle  un  gran
piatto piramidale di marroni arrostiti, e  si  portarono  fiaschi  di  vino  più
prelibato di quello che in Lombardia si chiama vino  della  chiavetta,  e
del quale, per un privilegio singolare, ogni proprietario ha sempre il  migliore
del contorno. Gli elogj  del  vino,  com'era  giusto,  ebbero  una  parte  della
conversazione, senza però cangiarla del tutto: il gridio continuò per una  buona
mezz'ora: le  parole  che  si  sentivano  più  spesso  erano  ambrosia  e
impiccarli. Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la  rubiconda
brigata: e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti,  si  avvicinò  al  padre
Cristoforo, e lo condusse seco in una stanza vicina.

CAPITOLO VI

PEGGIO CHE PEGGIO

Ognuno può avere osservato che, dalla peritosa sposa di contado fino  a...  fino
all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e per  dirla  in  milanese  il  più
navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari, certi moti insignificanti dei
quali fanno uso quasi involontariamente quando,  trovandosi  con  persone  colle
quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o  aspettano  il
momento di dir cosa la quale non è attesa né sarà molto  gradevole  a  chi  deve
intenderla. La differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son costretto
a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il  quale  non  manca
d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è che i primi coi loro moti
incerti, e vacillanti e goffi mostrano sempre più il loro  imbarazzo,  e  vi  si
vanno sempre più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello stesso
tempo un esercizio di eleganza e di  superiorità.  Tutte  le  classi  hanno  una
provvisione particolare, e caratteristica di questi atti, e  questa  distinzione
era più osservabile nei tempi in cui le classi erano più distinte per abitudini,
e anche pel costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi
di questo genere. Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di questi gesti,
cominciando dai personaggi più celebri e dalle condizioni più note degli antichi
romani, o anche degli  Egizj,  ma  sarebbe  troppo  provocare  l'impazienza  del
lettore avido certamente  di  seguire  la  nostra  interessante  storia.  Diremo
soltanto che gli atti più usuali dei cappuccini per avere come dicono i francesi
une contenance, erano di accarezzarsi  la  barba,  di  fare  scorrere  il
berrettino innanzi indietro dal sincipite all'occipite, di porre la mano  destra
nella larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di  palpare
ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario che tenevano appeso alla cintola.
Questa ultima operazione appunto faceva il Padre Cristoforo quando si  trovò  da
solo a solo con Don Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta
occupazione, ma il lettore sa che il buon padre era preoccupato  da  tutt'altro.
Del contegno di Don Rodrigo non occorre parlare, giacché ognun sa che nessuno  è
tanto sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo  dopo  un  buon  desinare.
Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di  quello  che  il
padre fosse per dirgli, sospetto che il contegno un  po'  irresoluto  del  padre
aveva quasi cangiato in certezza. Gli accennò con sussiego che sedesse, si  pose
egli pure a sedere, e ruppe  il  silenzio  con  queste  parole:  «In  che  posso
obbedirla, padre?» Questo era il suono delle parole, ma il modo  con  cui  erano
proferite voleva dire chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e  a  quello  che
dirai. Il tuono insolente di quest'invito servì  mirabilmente  a  togliere  ogni
imbarazzo al padre Cristoforo; perché risvegliando  quell'uomo  vecchio  che  il
padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto quello che v'era in lui di
più franco e di più risoluto: cosicché invece di farsi animo dovett'egli frenare
l'impeto che lo spingeva a rispondere  sullo  stesso  tuono,  per  non  guastare
l'opera delicata che stava per intraprendere. Onde,  con  modesta,  ma  assoluta
franchezza, rispose: «Signor Don Rodrigo il mio sacro  ministero  mi  obbliga  a
passare un officio con Vossignoria. Io desidero  ardentemente  che  nessuna  mia
parola possa spiacerle: e per antivenire ad ogni disgusto debbo assicurarla  che
in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto  quello
di qualunque altra persona». Don Rodrigo non rispose che  allungando  il  volto,
stringendo le  labbra,  aggrottando  le  ciglia,  e  dando  ai  suoi  occhi  una
espressione ancor più minacciosa e sprezzante. Il Padre fece  le  viste  di  non
avvedersene, e continuò, con qualche esitazione, perché le parole ch'egli  stava
per proferire non esprimevano veramente quello ch'egli sentiva: «Qualche  tristi
hanno abusato del nome di Vossignoria illustrissima per minacciare  un  parroco,
ed atterrirlo dal fare il debito  suo,  e  sopraffare  indegnamente  due  poveri
innocenti.  Vossignoria  può  con  una   parola   confondere   questi   ribaldi,
disingannare quelli che potessero aver dato fede alle loro parole,  e  sollevare
quelli che ne patiscono. Lo può, e ardisco dirle, lo deve. La sua coscienza,  la
sua sicurezza, il suo onore  sono  interessati  in  questo  sciagurato  affare».
«Della mia coscienza, padre, non mi si deve parlare che per  rispondermi  quando
mi piaccia di parlarne; la mia sicurezza... ma non posso credere  ch'ella  abbia
avuta l'intenzione ardita di farmi una minaccia; e suppongo che questa parola le
sia sfuggita senza riflessione. Quanto al mio onore, io potrei esser grato a chi
ne sente premura in cuor suo, ma sappia che ne ho la cura io, e che chiunque osa
prendersi questa cura per me, io lo riguardo come  colui  che  lo  offende».  La
fredda ed altiera impudenza di Don Rodrigo avrebbe fatta  perder  la  flemma  al
Padre, se questi non ne avesse fatta una provvisione per trenta anni, e  se  non
fosse stato compreso dell'importanza del negozio che stava trattando. Con questo
pensiero, riprese: «Signor Don  Rodrigo:  sa  il  cielo  se  io  ho  disegno  di
spiacerle: ella pure lo sa: non volga in ingiurie quello che mi detta la carità,
sì una umile carità: con me ella non potrà venire a parole, io son  disposto  ad
ingojare tutto quello che le piacesse di dirmi: ma per amor del cielo, per  quel
Dio innanzi a cui dobbiamo tutti comparire (così dicendo il  padre  aveva  preso
fra le mani e poneva dinanzi agli occhi di Don Rodrigo il  teschietto  di  legno
che era appeso in capo al suo rosario, e  che  i  cappuccini  portavano  per  un
ricordo continuo della morte) per quel Dio, non si ostini a volere  una  misera,
una indegna soddisfazione a spese dell'anima sua, e delle lagrime dei poverelli:
pensi che Dio gli ha cari come  la  pupilla  dei  suoi  occhj,  e  che  le  loro
imprecazioni  sono  ascoltate  lassù:  risparmi  l'innocenza  e  la...»   «Padre
Cristoforo», interruppe bruscamente D. Rodrigo: «il rispetto ch'io porto al  suo
abito è grande; ma se qualche  cosa  potesse  farmelo  dimenticare,  sarebbe  il
vederlo in dosso ad uno che ardisse di venire a farmi la spia in  casa».  Questa
parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma  fatti  tutti  i  vezzi
d'un uomo che tranghiotte in fretta una amarissima medicina, egli  rispose:  «Lo
dica pure, purché non lo creda; e già non lo crede. Ella sa che le ingiurie  che
io posso ascoltare per questa causa non mi avviliscono, ella sa che il passo che
io faccio ora non è mosso da fini spregevoli: ella non mi  disprezza  in  questo
momento. Faccia Dio che non venga un giorno in cui ella si penta di  non  avermi
ascoltato. Non metta la sua gloria nel... Qual gloria, signor Don Rodrigo!  Qual
gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Fare il  male  è  concesso  sovente
all'ultimo degli uomini: il più vile  dei  banditi  può  far  tremare.  Non  v'è
disonore a ritrarsi dalla iniquità: la codardia sta nel fare delle azioni inique
per timore di scomparire dinanzi ai tristi. Signor Don Rodrigo, le parole  ch'io
proferisco ora dinanzi a lei sono numerate, un giorno le potrebbero esser  fatte
scontare  ad  una  ad  una  da  Colui  che  me  le  ispira».  «Sa  ella»,  disse
interrompendo con istizza ma non senza qualche  raccapriccio  Don  Rodrigo,  «sa
ella che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, io  so  benissimo
andare in chiesa come fanno gli altri? Ma in casa mia. Oh!» e  continuò  con  un
sorriso affettato, «io non posso lagnarmi di Dio che m'abbia  fatto  nascere  in
basso luogo, ma ella mi tratta per  da  più  che  io  non  sono  alla  fine.  Il
predicatore in casa! non l'hanno che i  principi  regnanti».  «E  quel  Dio  che
domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle loro  reggie,
quel Dio le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo ministro, indegno e
miserabile, ma un suo  ministro,  a  pregare  per  una  innocente...»  «Insomma,
padre», disse alzandosi dispettosamente Don Rodrigo; «io non so  quello  ch'ella
mi voglia dire: io non capisco altro se non che vi debb'essere qualche fanciulla
che le preme assai: vada a fare le sue confidenze a  chi  le  piace;  e  non  si
permetta di seccare più a lungo un gentiluomo». Il Padre Cristoforo vedendo  Don
Rodrigo alzarsi, come perduta la pazienza, temè che questi rompesse  affatto  il
discorso, e levatosi egli pure col maggior garbo che  potè,  e  con  aria  quasi
supplichevole, dissimulando quello che potevano avere di frizzante le parole che
aveva intese, rispose: «Sì la mi preme; ma non più di lei: io veggio in entrambi
dei fratelli di redenzione, e delle anime che mi sono più care del  mio  sangue.
Don Rodrigo io sono un nulla dinanzi a lei,  ma  il  mio  rispetto,  ma  la  mia
riconoscenza potranno forse valere qualche cosa per la intensità loro se non per
la mia persona. Non mi dica di no: salvi una innocente, una sua parola  può  far
tutto». «Ebbene», disse Don Rodrigo, «giacch'ella crede ch'io  possa  far  molto
per questa persona; giacché questa persona le sta tanto  a  cuore...»  «Ebbene?»
riprese ansiosamente il Padre Cristoforo al quale l'atto e il  contegno  di  Don
Rodrigo non permettevano di abbandonarsi alla speranza che  parevano  annunziare
le sue parole. «Ebbene», proseguì Don Rodrigo: «le consigli di venirsi a mettere
sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla,  e  non  son  cavaliere,  se
alcuno  ardisce  inquietarla».  «La  vostra  protezione!»   riprese   il   padre
Cristoforo, dando indietro due passi, appoggiandosi fieramente sul piede destro,
e mettendo la destra sull'anca, levando la  manca  coll'indice  teso  verso  don
Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la  vostra  protezione!
bene sta che abbiate parlato così; che abbiate fatta a  me  una  tale  proposta.
Avete colma la misura, e non vi temo più». «Come parli, frate?...»  «Parlo  come
si parla a chi è abbandonato da  Dio,  e  non  può  più  far  paura.  La  vostra
protezione! Io sapeva che Lucia era sotto la protezione di Dio: ma voi,  voi  me
lo fate sentire ora con tanta certezza, che non ho più  bisogno  di  riguardi  a
parlarvene. Lucia dico: vedete come io pronunzio questo nome colla fronte  alta,
e con gli occhi immobili». «In questa casa...» «Ho compassione di  questa  casa:
ella è segnata dalla maledizione. State a vedere che la giustizia  di  Dio  avrà
rispetto a quattro pietre e a quattro scherani! Voi avete creduto che Dio  abbia
fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! voi avete
creduto che Dio non saprebbe difenderla! Vi siete giudicato. Ne ho visti di  più
potenti, di più temuti di voi; e mentre agguatavano la loro  preda,  mentre  non
avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano  di  Dio  si  allungava  in
silenzio dietro alle loro spalle per coglierli. Lucia è sicura  di  voi,  ve  lo
dico io povero frate, e quanto a voi, ricordatevi che verrà  un  giorno...»  Don
Rodrigo che combattuto tra la rabbia,  e  il  terrore  non  trovava  parole  per
rispondere, quando sentì che una predizione stava per venirgli addosso, prese la
mano tuttavia alzata del padre, e coprendogli la voce gridò: «Levamiti  dinanzi,
plebeo  incappucciato,  poltrone   temerario».   Queste   parole   così   chiare
acquietarono in un momento il padre  Cristoforo.  All'idea  di  strapazzo  e  di
villania era nella sua mente così bene, e da tanto  tempo  associata  l'idea  di
sofferenza e di silenzio, che a quel complimento gli cadde ogni spirito d'ira  e
di entusiasmo, e non gli restò più altro da fare che  di  udire  tranquillamente
quello che piacesse a Don Rodrigo di aggiungere. Onde, ritirata placidamente  la
mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò  il  capo  e  rimase  immobile,  come
quando nel forte della  burrasca  il  vento  cade,  un'antica  pianta  ricompone
naturalmente i suoi rami e riceve la gragnuola come la manda il  cielo.  «Villan
rifatto!» proseguì Don Rodrigo: «così rimeriti accoglienze alle  quali  non  sei
avvezzo, e che non son fatte per te: ma tu adoperi da par  tuo.  Ringrazia  quel
sajo che ti copre quelle spalle di paltoniere, e ti salva dalle carezze  che  si
fanno ai pari tuoi per insegnar loro a parlare. Esci colle tue gambe per  questa
volta; e la vedremo». Così dicendo, accennò una porta opposta a quella  per  cui
erano entrati: il padre Cristoforo chinò il capo, come salutando, e se  ne  uscì
per quella, tranquillamente, lasciando don Rodrigo a misurare a passi  concitati
il campo di battaglia. Non è da credere che l'animo del buon frate fosse  pacato
come il suo aspetto; ma in mezzo al turbamento naturale nelle  sue  circostanze,
egli sentiva più di fiducia che non ne avesse prima di quell'infelice colloquio.
Le parole di sicurezza ch'egli aveva  dette  a  Don  Rodrigo,  non  erano  state
un'arte per atterrir l'avversario: esprimevano un sentimento sincero e distinto.
Gli pareva che la  superbia  e  l'iniquità  di  Don  Rodrigo  fossero  salite  a
quell'altezza, dove la provvidenza le  arresta,  e  le  rovina.  Questi  calcoli
riescono spesse volte fallaci, e l'ingiustizia a  questo  mondo  talvolta  sale,
sale, sale, quando si crede che giunta al colmo, non possa che  precipitare:  ma
Fra Cristoforo la pensava così come abbiam detto; e sperava più che mai  che  la
cosa si terminerebbe con una uscita inaspettata e favorevole  all'innocenza.  Ma
quale uscita? Non avrebbe egli saputo dirlo: ma credeva confusamente che una  se
ne troverebbe. Quand'ebbe chiusa  dietro  sè  la  portiera,  vide  nella  stanza
dov'entrava, e che riusciva nel cortile, vide una persona che si andava  tirando
pian piano dietro  la  parete  come  per  non  esser  veduta  dalla  stanza  del
colloquio; e s'accorse che era un servo il  quale  era  stato  ad  origliare,  e
continuò a camminare senza far vista di nulla, per  uscir  nel  cortile.  Ma  il
servo fattosigli vicino gli disse sottovoce:  «padre,  ho  inteso  tutto,  e  le
vorrei parlare». «Dite tosto». «Non posso qui: guai se il  padrone  o  altri  mi
sorprende. Ma io so tante cose, e non mi regge la coscienza né il cuore... Vedrò
di venir domani al suo convento». «Dio vi benedica; ma intanto?»  «Non  si  farà
nulla prima. Vada vada». «Dio vi  ricompenserà:  io  non  uscirò  domani,  e  mi
troverete certamente». «Vada vada per amor del Cielo, e  non  mi  tradisca».  Il
volto del buon frate rispose a queste parole più chiaro che non  avrebbe  potuto
qualunque discorso; il servo rimase, e il padre uscì nel cortile,  quindi  nella
via, e  respirò  più  liberamente  quando  si  vide  fuori  di  quella  caverna.
L'inaspettata proposta del servo confermò e  crebbe  la  sua  fiducia.  -  Ecco,
diss'egli tra sè, un filo che la provvidenza mi pone in mano.  -  Così  pensando
guardò in alto e vide che il sole era poco discosto dalla cima del monte; e  che
non rimaneva che un'ora e mezzo di giorno. Allora benché affaticato per  la  via
che aveva già fatto, e per quello che aveva detto  e  inteso,  studiò  il  passo
affine di poter riportare un avviso qual ch'e'  fosse  alle  donne,  come  aveva
promesso, e trovarsi al convento prima di sera. Era questa una delle  leggi  più
severe del codice fratesco: e  le  trasgressioni  erano  punite  con  rigore,  e
talvolta le recidive con crudeltà,  perché  oltre  la  disciplina,  l'onore  del
convento era interessato a prevenire delle assenze che avrebbero fatto dire  Dio
sa che. Al qual proposito si può osservare che ogni volta che gli  uomini  hanno
potuto dividersi in classi, in crocchi,  in  picciole  società,  e  farsi  leggi
particolari, per lo più invece di approfittare di questa esenzione  dalle  leggi
comuni per istabilire una certa condiscendenza utile a tutti i contraenti, hanno
aguzzati gl'ingegni per trovare  rigori  e  pene  più  raffinate:  di  modo  che
parrebbe quasi che tormentare altrui sia più dolce che assicurar se  stesso.  Ma
nella casetta di Lucia dal momento che il padre ne era partito non si era  stati
in ozio: si eran messi in campo e  ventilati  disegni  dei  quali  è  necessario
informare il lettore. Partito il padre, Fermo e Lucia stavano in silenzio osando
appena di sogguardarsi di tratto in tratto, e non si parlando che  con  sospiri:
poiché le speranze che avevano nella  spedizione  del  buon  padre  erano  tanto
leggere e indeterminate, che temevano entrambi di farle svanire col comunicarle.
Lucia andava tristamente ammanendo il  desinare,  e  Fermo  stava  in  tra  due,
volendo ad ogni momento partire per togliersi dallo  spettacolo  di  Lucia  così
accorata, e non sapendo staccarsi. Ma Agnese dopo aver meditato  un  poco,  dopo
aver più volte risposto a se stessa di sì  col  capo,  con  una  voce  piena  di
pensiero ruppe il silenzio e disse: «Sentite, figliuoli. Se  aveste  coraggio  e
destrezza quanto è di mestieri, se vi fidate di vostra madre (quel vostra
fece trasalire Lucia) io m'impegnerei a cavarvi di questo impiccio, meglio forse
e più presto del padre Cristoforo, con rispetto del suo studio». Lucia si  fermò
sui due piedi con più ansia che speranza in  una  promessa  tanto  magnifica;  e
Fermo: «Coraggio!» disse: «destrezza! dite, dite quel che si può fare».  «Non  è
vero», proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, il punto principale  sarebbe
vinto, che a tutto il rimanente  vi  sarebbe  rimedio?»  «Oh  maritati»  rispose
Fermo: «e poi quel che Dio vuole». Lucia non aperse bocca; ma un rossore che  le
velò tutta la faccia parve ripetere parola per parola ciò che Fermo aveva detto.
«Maritati che foste», continuò Agnese, «coi  pochi  risparmi  di  Fermo,  e  coi
nostri, colla nostra poca abilità, possiamo vivere anche via di qui: per me  non
ho che questa poveretta al mondo, e grazie  al  cielo  non  vi  sarei  di  peso,
giacché il pane me lo guadagno. Lontani dalla  persecuzione  di  questo  tiranno
senza timor di Dio, noi potremmo far casa, e vivere in santa pace, non  è  vero,
figliuoli?» «Sicuro»,  rispose  Fermo,  «ma  tutto  sta  nell'essere  maritati».
«Ebbene, come vi ho detto, coraggio e destrezza; fare quello che vi dirò  io,  e
la cosa è facile». «Facile!» dissero ad una voce quelli  per  cui  la  cosa  era
divenuta tanto stranamente, e dolorosamente difficile. «Facile, a saperla fare»;
replicò Agnese. «Bisogna fare un matrimonio gran  destino».  -  La  buona
donna voleva dire clandestino. «Cospetto!», disse Fermo: «mi par bene  di  avere
inteso altre volte questa parola, ma non so che cosa voglia dire. Ma  come  fare
il matrimonio se il curato non vuole? Senza il curato non si può fare». «Bisogna
che il curato ci sia, e questo è facile, ma non fa bisogno ch'egli voglia, che è
il punto». «Spiegatevi meglio». «Ecco come si fa. Bisogna  aver  due  testimoni,
destri e ben informati. Si va dal parroco.  Lo  sposo  dice:  -  Signor  curato,
questa è mia moglie: - la sposa dice: Signor curato, questo è mio marito:  -  il
parroco sente, i testimonj sentono, e il matrimonio è fatto, e  sacrosanto  come
se  lo  avesse  fatto  il  papa.  Ma  bisogna  che  il  curato  senta,  che  non
v'interrompa, perché se ha tempo di fuggire prima che tutto sia detto, non si  è
fatto niente. Bisogna dire in fretta, ma chiaro,  sentite:  come  faccio  io:  -
questa è mia moglie: questo è mio marito: - (e faceva mostra di  una  volubilità
di lingua che in verità possedeva in un modo singolare). Quando  le  parole  son
proferite, il curato può strillare, strepitare  fare  quello  che  vuole,  siete
marito e moglie». «Possibile!» sclamò Lucia. «Oh vedete», disse Agnese «che  nei
trent'anni che sono stata al mondo prima di voi altri, non avrò imparato niente.
La cosa è certa e una mia amica che voleva pigliar marito contra la volontà  dei
suoi parenti, ha fatto così. Poveretta! che arte ha usata per riuscirvi,  perché
il curato stava sull'avviso, ma ha saputo cogliere il momento, ha pigliato colui
che voleva, e se ne è pentita tre giorni dopo». «Se fosse vero, Lucia!...» disse
Fermo, riguardandola con aria di una aspettazione supplichevole. «Come! se fosse
vero», ripigliò Agnese: «Io mi cruccio per voi, e non son  creduta.  Bene  bene;
cavatevi d'impiccio come potete: io  me  ne  lavo  le  mani».  «Ah  no!  non  ci
abbandonate», disse Fermo. «No  no»:  riprese  Agnese:  «me  ne  lavo  le  mani:
sentite, io son donna che sopporto ogni cosa per quelli a cui  voglio  bene,  ma
non voler credere alle mie parole, e non voler fare quello che dico  io;  questo
non lo posso sopportare». Chi  avesse  tentato  direttamente  con  preghiere  di
smuovere Agnese irritata, avrebbe facilmente avuto da fare per molto  tempo:  ma
Lucia ottenne  l'effetto  in  un  momento,  senza  porvi  astuzia,  facendo  una
obbiezione: «Ma, perché dunque», diss'ella, «questa cosa non è venuta  in  mente
al  Padre  Cristoforo?»  Questa  interrogazione  impegnò  la  buona   Agnese   a
rispondere, e a giustificare il suo assunto. «Bisogna saper  tutto»,  diss'ella.
«Al Padre Cristoforo che ne sa molto più di me, la cosa  sarà  venuta  in  mente
prima che a me: ma io so bene perché non  ne  avrà  voluto  parlare».  «Perché?»
domandarono i due giovani. «Perché?... perché... i religiosi dicono  che  è  una
cosa che non istà bene». «Come possono dire che non istia  bene,  quando  dicono
che non si può disfare», disse Fermo. «Se non  istà  bene»,  disse  Lucia,  «non
bisogna farla». Per rispondere a Fermo era  necessario  un  ragionamento  troppo
sottile per Agnese: si volse ella adunque a Lucia, e disse: «Non  bisogna  dirla
prima di farla, perché allora sconsigliano: ma quando sarà fatta, che cosa  vuoi
che ti dica il Padre Cristoforo? - Ah figliuola è stata una scappata, non me  ne
tornate a fare una simile! - Tu gli prometterai di non tornarvi: non è vero? non
son cose che si facciano due volte. E allora il Padre Cristoforo ti  assolverà».
Lucia non si mostrava convinta di questo raziocinio; ma  Fermo  tutto  rincorato
disse: «Ebbene quand'è così la cosa è fatta. Lucia, voi non mi verrete meno, non
mi avete voi promesso d'esser mia? Non abbiamo noi  fatto  ogni  cosa  da  buoni
cristiani? E se non fosse stato questo... non  saremmo  noi  marito  e  moglie?»
«Fatta! fatta!» disse Agnese: «adagio. E i  testimonj?  E  trovare  il  modo  di
acchiappare il signor curato, che da due giorni  se  ne  sta  rincantucciato  in
letto, e che quando vi vedesse comparire a un miglio  di  distanza,  scapperebbe
come il diavolo dall'acqua santa?» «Ho trovato il  modo;  l'ho  trovato»,  disse
Fermo, battendo il pugno sulla tavola e facendo trasalire e fremere le stoviglie
apparecchiate pel desinare: «l'ho trovato. Vado, e torno.  Bisogna  ch'io  parli
con Toni; e se posso acconciare la faccenda con lui, l'è fatta; e  vengo  subito
ad  informarvene».  «Ma  ditemi  prima  quello  che  intendete  di  fare»  disse
precipitosamente Agnese, alla quale pareva pure di  dover  esser  consultata  la
prima. «Non ho un  momento  da  perdere:  bisogna  ch'io  lo  colga  in  casa  a
quest'ora: altrimenti, chi sa se potrei trovarlo. Vado e torno, per  sentire  il
vostro parere; senza il vostro parere non si farà  nulla.  Cara  Agnese,  io  vi
considero come se foste  la  madre  che  ha  patito:  sono  nelle  vostre  mani.
Persuadete Lucia». Così detto sparì. Non ci voleva meno di queste parole  perché
Agnese perdonasse a Fermo di farle aspettare una confidenza e  di  intraprendere
qualche cosa senza il suo consiglio.  «Ragazzo!»  diss'ella  quando  fu  partito
«purché non me ne faccia una e non mi guasti tutto. Basta: mi ha promesso di non
far nulla senza la mia licenza». Necessità, come si dice, assottiglia l'ingegno:
e Fermo il quale nel sentiero retto e facile di  vita  che  aveva  percorso  fin
allora non aveva mai avuto occasione di far molto uso della sua penetrazione, ne
pensò in questo caso una, che avrebbe fatto onore ad un giurisperito. Corse alla
casetta di Tonio, la quale era nel villaggio dove risiedeva il parroco, a  forse
trecento passi di distanza dalla abitazione di Lucia. Quando Fermo  entrò  nella
cucina, la moglie, la vecchia madre di Tonio stavano sedute alla mensa, e tre  o
quattro figli ritti intorno aspettando il desinare che Tonio stava cucinando. Ma
non si vedeva sui volti quell'allegria  che  ordinariamente  anche  i  poverelli
mostrano in quel momento:  la  carestia  aveva  costretti  i  poverelli  ad  una
sobrietà ancor più rigida che per l'ordinario, e tutti cogli occhi  fissi  sulla
pentola nella quale Tonio tramestava accidiosamente una bigia polenta di  fraina
(o se volete di poligonum fagopyrum ) pareva che  invece  di  rallegrarsi
della vista del desinare pensassero tristamente a quella buona parte di appetito
che rimarrebbe intatta dopo sparecchiato.  In  quel  momento  Tonio  riversò  la
polenta sulla tafferia di faggio che stava appronta a riceverla, e il largo orlo
che rimase vuoto all'intorno fece ancor più chiaramente risaltare la povertà del
convito. Nullameno le donne rivolte cortesemente a Fermo, gli dissero se  voleva
restar servito: complimento che il contadino di Lombardia non lascia  mai
di fare quando mangia  seduto  sulla  sua  porta  a  chi  s'abbatte  a  passarvi
quand'anche stesse mangiando l'ultimo boccone del suo  piatto.  «Vi  ringrazio»,
rispose Fermo: «io vengo per dire qualche cosa a Tonio; e se vuoi Tonio, per non
incomodare le tue donne vieni a  pranzar  meco  all'osteria,  e  parleremo».  La
proposta fu per Tonio tanto gradita quanto meno aspettata; e  le  donne  che  in
un'altra occasione forse avrebbero avuto che dire su questa partita  videro  con
piacere che si scemasse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. Tonio
non domandò altro, e partì con Fermo. Giunti all'osteria del villaggio, seduti a
tutto loro agio in una  perfetta  solitudine  giacché  la  miseria  aveva  fatti
sparire tutti i frequentatori di quel luogo di delizie, fatto recare  quel  poco
che si trovava, vuotato un boccale di vino, Fermo con aria di  mistero  disse  a
Tonio: «Se tu vuoi farmi un picciolo servizio;  io  posso  e  voglio  farne  uno
grande a te». «Parla, parla, comandami pure», rispose Tonio, versandosi da bere,
«oggi andrei nel fuoco per te». «Tu sei in debito di venticinque lire col signor
curato per fitto del suo campo che lavoravi  l'anno  passato».  «Tu  sei  sempre
stato un martorello, Fermo: non sai  che  all'osteria  non  si  fa  menzione  di
debiti? Ecco, io mi sentiva una voglia che sarei andato nel fuoco per te, ma con
questo discorso tu mi hai fatto passare tutta l'allegria, e quasi non ti son più
obbligato». «Se ti parlo del debito», rispose Fermo «è per  darti  il  mezzo  di
soddisfarlo. Eh! non ti farebbe piacere? saresti contento?» «Contento? per diana
se sarei contento. Non pel curato vedi: ma per togliermi  la  seccatura:  se  la
faccenda continua così non potrò più andare alla Chiesa: non mi vede  una  volta
che non me ne gitti un motto, o almeno almeno non mi faccia un cenno con  quella
sua brutta cera. E poi e poi, egli si tiene in pegno la  collana  d'oro  di  mia
moglie; e prevedo che quest'inverno se l'avessi, la cangerei in  tanta  polenta;
non in vino», e qui fece un sospiro, «in polenta. Ma...» «Ma, ma; se tu mi  vuoi
rendere un servizio, io ti darò le venticinque  lire».  «Il  servizio  è  fatto»
rispose Tonio; «non fa nemmeno bisogno che tu mi dica che cosa  è».  Fermo,  gli
fece promettere sul bicchiere il segreto,  e  continuò:  «Tu  sai  che  io  sono
promesso a Lucia Zarella. Il curato mi va cercando cento scuse magre per  tirare
in lungo: io vorrei spicciarmi. Mi hanno mò detto che  presentandomi  al  curato
con due testimonj, e dicendo io: questa è mia moglie,  e  Lucia:  questo  è  mio
marito, il matrimonio è bell'e fatto. M'hai tu inteso?» «Tu vuoi ch'io venga per
testimonio?»  «Appunto».  «Il  matrimonio  è  fatto,  è  fatto»,  rispose  Tonio
baldanzosamente, versandosi un altro bicchiere di vino. «Così vi  fossero  molti
tribolati come te, e in caso di spendere venticinque lire». «Ma bisogna  che  tu
mi trovi un altro testimonio». «Bisogna che lo trovi io ah? io  perché  son  più
destro di te. Bene è trovato. Quel martoraccio di  mio  fratello  Gervaso,  farà
quello che gli dirò io: basta che tu mi dia tanto ch'io gli possa pagar da bere;
perché, a questo mondo, niente per niente:  è  un  proverbio  che  lo  sa  anche
Gervaso, lo sanno anche quelli che non sanno dire  il  Credo».  «Farò  di
più», disse Fermo, «lo condurremo qui a stare allegro con noi». «Benone» rispose
Tonio. Fermo pagò lo scotto, ed uscirono  quindi  entrambi  pieni  di  speranza;
Fermo avvisò il compagno che si tenesse pronto  per  l'indomani  sull'imbrunire;
gli raccomandò di nuovo il segreto, quindi si avviò alla casa di Lucia, e  Tonio
alla sua cantando ad alta voce, come non aveva più fatto da molti  mesi.  Ma  in
questo frattempo Agnese aveva penato in vano a persuadere  Lucia.  In  tutto  il
tempo del desinare (il quale non era grazie a  Dio  più  scarso  dell'ordinario,
perché tanto le donne, quanto Fermo erano dei più agiati del  contorno)  e  dopo
quando le  furono  ritornate  all'aspo,  Agnese  pose  in  opera  tutta  la  sua
eloquenza, ma invano. Lucia rispondeva sempre con un dilemma senza però  saperlo
presentare in forma: «O si può fare», diceva,  «e  perché  non  dirlo  al  padre
Cristoforo? o non si può fare, e non si deve fare». Non già che  questo  rifiuto
non fosse più amaro a Lucia che lo  proferiva  che  alla  madre;  ma  Lucia  non
avrebbe voluto per nulla al mondo far contra la sua coscienza. «Abbiamo  bisogno
più che mai», diceva ancora, «dell'ajuto di Dio, e se facciamo ciò che non  istà
bene, come lo potremo sperare?» Così spesero tutto quel tempo in argomentazioni;
e uno che le avesse intese disputare, e tornar da  capo  ognuna  a  ripetere  le
stesse ragioni, avrebbe potuto credere che la fosse controversia fra due  dotti,
piuttosto che disputa fra  due  donnicciuole.  Fermo  giunse  che  si  disputava
tuttavia. Ma Agnese, alla quale allora premeva più di  sapere  che  di  parlare,
«ebbene Fermo», disse, «avete trovato il bandolo? Dite, vediamo un  po'».  Fermo
snocciolò tutto il disegno; e terminò con un  «ahn!»  interiezione  milanese  la
quale significa: sono o non sono un uomo? si poteva  trovar  di  meglio?  ve  lo
sareste aspettato? e cento altre cose simili. Agnese crollò il  capo,  e  disse:
«non avete pensato a tutto». «Che ci manca?» rispose Fermo, punto, e  spaventato
nello stesso tempo. «E Perpetua?» gridò Agnese; «e Perpetua? non avete pensato a
Perpetua. Come volete ch'ella vi lasci entrare dal curato?  Pensate  s'ella  non
avrà ordini severissimi di tenervi lontani più che un ragazzo da una  pianta  di
pomi maturi. Come farete ad ingannare Perpetua?» «Povero me! non ci ho  pensato,
io». «Sentite, se non ci fosse  altra  difficoltà,  a  Perpetua  ci  penso  io»,
rispose Agnese, la quale giacché l'iniziativa gli era stata  tolta,  era  almeno
contenta di mostrare che era necessaria la sua sanzione. «Ecco come la  cosa  si
dovrebbe fare. Sull'imbrunire, capite bene che quella è l'ora giusta,  Tonio  va
alla porta del curato, picchia, viene Perpetua, Tonio le dice  di  avvertire  il
curato ch'egli è lì per pagare. Voi altri due intanto  vi  apparecchiate  dietro
l'angolo della casa a man sinistra. Quando Perpetua torna per aprire a Tonio, io
mi trovo sulla porta, e quando Perpetua ha detto a Tonio: - andate su -,  io  mi
mostro a Perpetua, la chiamo, e le dico queste parole magiche: - ho da  parlarvi
di quel tale affare. - Con quest'amo vedete io la tiro con me dalla  destra  fin
dove voglio; ma basterà che io l'allontani tanto che voi possiate  pian  pianino
introdurvi nella porta lasciata aperta da Tonio, e tenergli dietro pian  pianino
per le scale, e poi fermarvi nella stanza vicina a quella dove sarà  il  curato,
ed essergli addosso poi nel momento opportuno». Agnese chiuse il  discorso  alla
sua volta con un «ahn?» prolungato in aria di  trionfo,  levando  il  mento,  ed
avanzando la faccia verso Fermo. «Benedetta voi...!» «Mah!»  interruppe  Agnese:
«tutto questo serve poco, perché Lucia si ostina a dire che  è  peccato».  Fermo
pos'egli pure in campo la sua eloquenza: fece mille interpellazioni a  Lucia,  e
rispose sempre egli per mostrare che i dubbj di essa erano  vani:  ma  Lucia  fu
inconcussa. «Sentite», diss'ella, «fin qui abbiamo fatto tutto col timor di Dio;
proseguiamo a questo modo, e Dio ci ajuterà. Io non capisco tutte queste  vostre
ragioni: vedo che per far questa cosa bisogna camminare a  forza  di  bugie,  di
nascondigli. No no Fermo: io voglio esser vostra, ma colla fronte  scoperta,  il
bandolo lo troverà la provvidenza». La disputa, come era  da  supporsi,  divenne
generale. Fermo insisteva rimproverando Lucia di poco amore, e ripetendo i  suoi
argomenti con una forza e  una  amarezza  sempre  crescente:  Lucia  addolorata,
tenera, ma ferma li ribatteva singhiozzando, ed Agnese predicava  all'una,  dava
sulla voce all'altro  secondo  l'occasione.  Tutt'ad  un  tratto,  un  calpestio
affrettato di sandali, e un romore di tonaca sbattuta, somigliante a quello  che
produce in una vela allentata il soffio ripetuto del vento,  annunziò  il  Padre
Cristoforo. Si fece silenzio, e Agnese ebbe appena il tempo d'imporre sotto voce
a Lucia di non dir parola del disegno contrastato.

CAPITOLO VII ...

Il Padre Cristoforo arrivava  nell'attitudine  d'un  buon  generale,  il  quale,
perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto  ma  non  iscorato,
soprappensiero, ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il bisogno
lo chiede, a premunire i luoghi che potrebbero esser minacciati, a dare  ordini,
disposizioni, avvertimenti. «La pace sia con voi»,  diss'egli,  entrando,  tutto
ansante, ma con voce ferma. «Non  v'è  nulla  a  sperare  dall'uomo:  tanto  più
bisogna confidare in Dio». Benché nessuno dei tre sperasse molto  nel  tentativo
del Padre Cristoforo, giacché il vedere un potente recedere da una  soperchieria
per preghiera e senza esser sopraffatto da una  forza  superiore  era  cosa  più
inaudita che rara, nullameno la trista certezza fu un colpo per tutti. Ma  Fermo
ne prese più sdegno che accoramento. Le  ripulse  replicate  di  Lucia,  i  suoi
disegni così ben meditati, e le sue speranze al vento, il  non  saper  più  come
uscire per  altra  via  d'impaccio,  un  lungo  diverbio,  avevano  cresciuta  e
riscaldata la stizza che egli covava già da due  giorni:  l'amore,  però,  e  il
rispetto che Lucia gli ispirava anche rifiutando ciò ch'egli bramava sopra  ogni
cosa, avevan temperata questa stizza, e  impedito  ch'ella  non  iscoppiasse  in
escandescenza. Ma quando a quella passione  compressa  si  presentò  un  oggetto
odioso per ogni parte, quello che ne era l'oggetto principale, la  passione  non
ebbe più freno. «Vorrei sapere», gridò Fermo colla bava alla bocca  e  come  non
aveva mai gridato in presenza del Padre Cristoforo, «vorrei sapere  che  ragione
ha detto quel cane, per sostenere che Lucia non ha da esser mia moglie». «Povero
Fermo!» rispose il Padre, con un accento di pietà e d'amorevolezza. «Sai tu  che
se alcuno potesse costringere quei signori a dire le loro ragioni, le  cose  non
andrebbero a questo modo». «Dunque ha detto il cane che egli non  vuole,  perché
non vuole?» «Non ha detto nemmen questo.  Piacesse  a  Dio  che  per  commettere
l'iniquità gli uomini fossero costretti di confessarla  apertamente;  l'iniquità
trionferebbe meno sulla terra». «Ma che parole ha dette quel tizzone d'inferno?»
«Io le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere. Dimmi, se tu dopo un lungo
giro uscissi da un sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini, sapresti tu
descrivere la via che hai percorsa? noverare i tuoi passi, segnare le  giravolte
e gl'inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità potente sono come il lampo
che abbaglia e fa terrore, e  non  lascia  vestigio.  Essa  può  minacciarti  di
vendetta perché tu abbi sospetto di lei, e nello stesso  tempo  farti  intendere
che il tuo sospetto è certezza: può dirti: guai a te se non mi comprendi, guai a
te se mostri di comprendermi: può insultare, e  mostrarsi  offesa,  schernire  e
chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere impudente  e  irreprensibile.  Non
cercar più altro. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo,
non ha mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di  voler  nulla;  ma...
pur troppo quello che voi mi avete rivelato, quello  che  io  non  avrei  voluto
credere, è vero. Mah!  confidenza  in  Dio  come  v'ho  detto:  questa  è  l'ora
dell'uomo, ma va passando. Voi, poverette, non vi perdete  d'animo,  e  tu,  mio
Fermo... oh! credi ch'io so pormi ne' tuoi panni, ch'io sento quello  che  passa
nel tuo cuore... ma abbi pazienza: io so che questa parola è amara: ma è la sola
che ti possa dire un uomo che non sia tuo nemico. Dio stesso, che è onnipotente,
non te ne vuol dir altra, per ora. Io parto, e vi lascio nelle mani di Dio... Oh
il sole è caduto e arriverò tardi: ma poco importa. Fatevi animo: Dio mi ha  già
dato un segno di volervi ajutare. Domani non ci vedremo: io rimango al convento;
ma per voi. Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al  convento,
alla Chiesa, e pel quale io possa farvi sapere quello  che  occorrerà:  io  sarò
avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che  colui  non  sospetta,  che
finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche protezione,  e  la  vedremo.
Sento una voce che mi dice che tutto finirà presto e  bene.  Fede,  coraggio,  e
buona sera». Detto questo s'avviava  frettolosamente,  quando  udì  Fermo  dire,
mormorare  con  voce  contenuta  dal  rispetto,  e  velata  dalla  collera,   ma
intelligibilmente: «la finirò io». La faccia  e  l'atteggiamento  di  Fermo  non
lasciava dubbio sul senso di queste parole. «Misericordia!» sclamò Agnese. Lucia
si volse  supplichevolmente  al  Padre  Cristoforo,  come  se  volesse  dire:  -
ammansatelo -. «Tu la finirai!»  disse  rivolgendosi  il  Padre  Cristoforo,  ed
appostandosi sulla porta: «no Fermo, tu non sei da tanto: non tocca  a  te.  Dio
solo può finirla, e guai a te se tu  ardisci  di  prevenire  il  suo  giudizio».
«Nasca quel che può nascere, ad ogni modo la voglio finire. Sì la voglio finire.
È di carne finalmente lo scellerato». «Fermo, in  nome  di  Dio»,  disse  Lucia.
«Dio! Dio!» disse Agnese. «Voi perdete la testa: non sapete quante braccia  egli
ha ai suoi comandi? e quand'anche... oh misericordia! contra i poveri c'è sempre
la giustizia». «Non gli parlate di questo», interruppe il Padre: «egli non se ne
cura. Ascoltami Fermo: voglio che tu mi ascolti. Io ti leggo in cuore: io so che
il tuo pericolo non ti fa terrore; so che in questo momento l'idea  della  morte
non ti spaventa né per gli altri né per te. Ma ascolta. Tu  eri  nella  gioja  e
nella speranza; un uomo ti si è parato sulla via, e ti ha gettato nella angoscia
e nella miseria: tu credi che tolto di mezzo quest'uomo, ti ritroverai al  posto
dove tu eri prima d'incontrarlo. Povero ingannato! la tua via è cangiata,  ti  è
forza intraprenderne un'altra: guai a te se ti  poni  in  quella  dell'omicidio.
Poni che tutto ti riesca a tuo grado: ebbene! che avrai tu fatto? l'odio è dolce
ora al tuo cuore: ma sai tu... sai...» e così dicendo prese la mano di  Fermo  e
la strinse a segno di dargli dolore... «sai tu come si volge il cuore  dell'uomo
che ha versato il sangue? Ve n'ha che rimangono quelli di prima; ma tu  non  sei
uno di loro: guai a te! son reprobi. Io ho perduto degli amici cari, ben cari...
ma se Dio mi concedesse di poter far rivivere un uomo, credi tu ch'io sceglierei
uno di essi? Quegli ch'io vorrei poter risuscitare col mio sangue è  un  uomo  a
cui io non aveva mai fatto il torto più leggiero, e che mi  ha  insultato.  Poni
che  tutto  ti  riesca,  poni  che  non  vi  sia   giustizia,   che   tu   sposi
tranquillamente... che la colomba si unisca allo sparviero. Ma sarai  tu  Fermo?
avrai sposato Lucia? Tu non sarai Fermo, te lo dico io:  tu  non  penserai  come
ora: in ogni tuo pensiero, per quanto importante egli sia per essere, per quanto
lieto, oltre quello che ci sarebbe per tutti, per te ci sarà sempre un morto  di
più. Avrai tu figli? Guardati dal trovarti in casa quando questa sfortunata farà
loro ripetere i comandamenti di Dio, e dirà loro: non fare omicidio.  Potrai  tu
ricordare con tua moglie, le speranze e le traversie che hanno preceduto il  tuo
matrimonio: potrete voi dire una volta: ma Dio  ci  ha  ajutati?  Quand'ella  si
sveglierà al tuo fianco, penserà tremando che è coricata con uno che ha  ucciso;
e quando la collera più leggera, un primo moto  d'impazienza  apparirà  sul  tuo
volto; ella crederà di scorgervi le prime tracce dell'omicidio. No Fermo;  vedi:
è notte; io già son colpevole di avere indugiato a tornare al  convento;  ma  io
non mi parto di qui se tu non mi giuri in faccia a quella  Vergine»  (e  accennò
una immagine attaccata al muro della stanza) «di aver deposto ogni  pensiero  di
vendetta». «Io per lei ho tutta la stima, ma colui...» «Ti parlo io per me?  Che
hai tu a perdonarmi? A colui, sì a colui tu devi perdonare. Io te l'ho detto,  e
tu non hai più scusa: la maledizione del cielo cadrebbe  sopra  di  te.  Tu  sei
giovane e più robusto di me, ma se tu non vuoi gettare a terra  un  vecchio  che
non ti ha fatto mai del male, tu non uscirai di  qui  prima  d'aver  fatto  quel
giuramento». Fermo esitava; Agnese stava attonita ed in aspettazione colla bocca
aperta. «Ebbene Fermo» disse Lucia, come costretta, ed in modo che il Padre  non
intendesse tutto il senso delle sue parole: «fate quel che  vi  dice  quest'uomo
del Signore, ed io vi prometto che io farò tutto  quello  che  si  potrà,  tutto
quello che vorrete perch'io possa esser vostra moglie». «Lo giuro», disse Fermo.
«Chiama in testimonio quella Vergine», disse il Padre Cristoforo,  «che  tu  non
attenterai alla vita del tuo nemico, che tu farai tutto per evitarlo». «Così  la
Vergine non mi abbandoni»,  disse  Fermo,  commosso,  ma  risoluto.  «E  non  ti
abbandonerà»;  rispose  il  Padre  gettandogli  le  braccia  al  collo.  «Addio:
ricordatevi del garzoncello. Dio  sia  con  voi».  Lucia  lo  salutò  piangendo.
«Padre, padre», gridò Agnese, trattenendolo, «quanto  sono  mortificata  che  in
grazia nostra Ella torni così tardi al convento». Il Padre Cristoforo pensò  che
il miglior modo di corrispondere a questo complimento era di non perder tempo in
altre parole, e partì. «Me lo avete promesso», disse Fermo  a  Lucia.  «Ve  l'ho
promesso e lo manterrò»: rispose Lucia colle lagrime  agli  occhi,  «ma  vedete,
come me lo avete fatto promettere. Dio non voglia...» «Perché  volete  farmi  un
tristo augurio, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a nessuno».  Agnese  voleva
riparlare della spedizione, e pigliare i concerti, ma Lucia pregò che  tutto  si
rimettesse all'indomani, e Fermo partì agitato lasciando le donne più agitate di
lui. Intanto il Padre Cristoforo, benché fiaccato  e  frollo  delle  corse,  dei
disagi, delle inquietudini, e delle parlate di quel giorno, aveva presa correndo
la via per giungere al più presto al convento; e andava saltelloni giù per  quel
viottolo sassoso torto, e reso ancor più difficile  dalla  oscurità;  andava  il
povero frate, parte ruminando gli accidenti della giornata, e quello che  poteva
soprastare,  parte  pensando  all'accoglienza  che   riceverebbe   al   convento
giungendovi a notte già fitta. Vi giunse pur finalmente, mezzo  sconquassato,  e
toccò modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare.  Il
frate portinajo aperse, e accolse il nostro figliuol prodigo con quel  maladetto
misto di sussiego,  di  soddisfazione,  di  clemenza,  di  commiserazione  e  di
mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia  di
colui che per qualche suo fallo o anche per qualche sventura sembra  loro  stare
in cattivi panni. «Il Padre Guardiano le vuol parlare», disse costui  al  nostro
amico, il quale seguì la  sua  scorta  pei  lunghi  corridoj  e  per  le  scale,
rassegnato a toccare una buona gridata e in angustia di ricevere  una  penitenza
la quale gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e
fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il  caso  avesse  richiesto.  Giunto
alla cella del guardiano, bussò sommessamente,  e  vista  la  faccia  seria  del
guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò la testa sul  petto
e disse: «Padre son balordo». Era questa, chi nol sapesse, la formola usata  dai
cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore.  Bisogna  sapere  che  il
guardiano era contento in  fondo  del  cuore  che  il  Padre  Cristoforo  avesse
commesso un mancamento. Un lettore di otto anni potrebbe qui  domandare,  perché
faceva il volto serio, se era contento; e gli si risponderebbe, che appunto  era
contento perché il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto di fargli il volto
serio. La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile  che  il  guardiano
non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della  sua  autorità,  voglio
dire della autorità di riprendere e di punire, e alla  prima  occasione  che  ne
aveva, gli pareva di esser daddovero il  padre  guardiano.  In  oltre  il  Padre
Cristoforo, senza fare  il  dottore,  senza  disputare,  dava  però  a  divedere
chiaramente di non approvare alcuni tratti della condotta e della  politica  dei
suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare  di
concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente,  ma  chiaramente:  dal
che veniva che i frati e il guardiano avevano per lui più rispetto che amore.  E
il rispetto veniva in parte anche dalla fama di santo che  il  padre  Cristoforo
aveva al di fuori; e che apportava al convento onore e limosine. Non è quindi da
stupirsi se il guardiano si dilettasse nel vedersi davanti  balordo  quel  padre
Cristoforo, e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui, e il sentimento della
propria autorità. «È questa  l'ora»,  diss'egli  gravemente,  «di  ritornare  al
convento?» «Padre, confesso che dovrei  esser  rientrato  da  molto  tempo».  «E
perché vi siete dunque tanto indugiato? perché  avete  violata  una  regola  che
conoscete così bene?» «Fui trattenuto da un'opera di misericordia». Il guardiano
sapeva che il reo era incapace di mentire; e vide tosto  che  se  avesse  voluto
andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al padre Cristoforo cose
che tornerebbero in suo onore: onde gli  parve  meglio  fargli  una  ammonizione
generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole. Gli disse che  preporre
le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio,  e  di
amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è  fatto  secondo
le regole: che bisogna prima fare il dovere,  e  poi  attendere  alle  opere  di
surerogazione; e altre cose di questo  genere.  Aggiunse  poi  che  egli,  padre
Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza fosse la regola da lui
infranta, e per la disciplina, e per evitare ogni scandalo;  ma  che  per  l'età
sua, e per esser questo il primo suo fallo contro la regola, e perché si  teneva
certo che non v'era altro che la violazione  della  regola,  si  contentava  per
questa volta ch'egli prima  di  coricarsi  recitasse  un  miserere  colle
braccia alzate; e così lo congedò, e si  gittò  sul  duro  suo  pagliaccio;  più
soddisfatto però che se si fosse posto sul letto il più delicato: poiché  non  è
da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro  dovere,  e
nel riprenderli quando se ne allontanano. Questa fu la  mercede  che  il  nostro
padre Cristoforo ebbe della sua giornata spesa come abbiam detto. Tristo chi  ne
aspetta altre in questo mondo. Egli recitò il suo  buon  miserere,  e  lo
concluse dicendo: «Dio, fate misericordia a me, e a  quel  poveretto  che  io...
toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete  la  mano  in  testa  al  povero  Fermo,
salvate Lucia, e benedite il Padre guardiano. Abbiate pietà dei  peccatori,  dei
penitenti, dei giusti, dei fedeli, e degli  infedeli,  degli  oppressi  e  degli
oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti  gli
ecclesiastici e di tutti i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati,  dei
giudici, dei banditi, dei ladri, dei  birri,  delle  vedove,  dei  pupilli,  dei
bravi, dei zingari, degli indemoniati, dei vivi, e dei morti. Così sia».  Quindi
si gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire; che ne ha bisogno.
Ma i nostri tre altri personaggi passarono la notte come sono tutte le notti che
precedono una giornata destinata ad una impresa scabrosa  e  di  incerto  esito.
Agnese appena levata cominciò a spiegare a Lucia tutte le parti del disegno,  ad
istruirla a puntino sul  da  farsi  e  da  evitarsi  in  ogni  operazione,  e  a
combattere di nuovo le obbiezioni che Lucia aveva fatte nel giorno  antecedente.
Ma Lucia ascoltò le istruzioni, promise di eseguirle, e non  oppose  più  nulla.
Data la sua promessa, ella stimava inutile ogni parola che tornasse a mettere in
questione ciò ch'era stabilito: e non è senza ragione che noi amiamo Lucia  come
cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie. Del resto non è ben chiaro se
nella rassegnazione di Lucia non entrasse  anche  un  po'  il  pensiero  ch'ella
sarebbe stata di Fermo, e se, giacché l'iniquità degli uomini aveva  voluto  che
questa si facesse come per forza, ella non era un po' contenta che forza  le  si
facesse.  La  poveretta  ad  ogni  modo  era  abbattuta,   piena   d'incertezza,
d'angoscia, e di tristi presentimenti: in quella agitazione insomma in cui  pone
una grande aspettazione, e che è più dolorosa che la prostrazione che nasce dopo
la sventura. Fermo non fu tardo a  lasciarsi  vedere,  e  concertò  colle  donne
l'operazioni  della  giornata,  prevedendo  ogni  contrattempo,   parando   ogni
ostacolo, e ricominciando ad ogni  tratto  a  descrivere  la  faccenda  come  si
racconterebbe una cosa fatta. Appena  partito  Fermo,  Agnese  andò  nella  casa
vicina a cercare un garzoncello suo nipote,  chiedendolo  ai  parenti  per  quel
giorno per fare un servizio. Quando l'ebbe ottenuto,  lo  introdusse  nella  sua
cucina, gli diede da colazione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico,  e  si
stesse un po' in Chiesa,  un  po'  sulla  piazza  del  convento,  ma  sempre  in
vicinanza, aspettando che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare.  «Il  Padre
Cristoforo, quel bel vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che  chiamano  il
santo...» «Ho capito», disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che
dà spesso qualche immagine». «Appunto Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto:
ma non ti sviare, ve': bada di non andare cogli altri  ragazzi  al  lago  a  far
saltellare i ciottolini nell'acqua, né a veder pescare, né a giuocare colle reti
appese al muro ad asciugare,  né...»  «No  no,  medina  mia:  non  sono  poi  un
ragazzo». «Bene, abbi  giudizio,  e  quando  tornerai  vedi,  queste  due  belle
parpagliole nuove sono per te». «Datemele ora,  che...»  «No  no,  tu  le
giuocheresti. Va' e portati bene che avrai  anche  di  più».  Nel  rimanente  di
quella lunga mattina, accaddero  alcune  cose  che  posero  in  sospetto  ed  in
agitazione l'animo già conturbato delle donne. Un mendico più rubesto e  di  più
florido viso che non fossero per l'ordinario i  suoi  confratelli,  con  qualche
cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto, entrò a domandare per Dio,  gettando
gli occhi qua e là come per ispiare. Quand'ebbe ricevuto un pezzo  di  pane,  lo
ripose con molta indifferenza lasciando quasi travedere che quello  non  era  il
suo fine principale. Si trattenne anzi con una certa impudenza  e  nello  stesso
tempo con esitazione, facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò  di
rispondere sempre il contrario di quello che era; e finalmente, congedato se  ne
andò. Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi travestiti,
di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e  giunti  dinanzi  alla  porta
allentavano il passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol guatare, e non
dar  sospetto.  Le  donne  socchiusero  la  porta,  per  togliersi   da   questa
persecuzione che dava loro molto da pensare. Ma questa precauzione fu causa  che
il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perché  avendo  Agnese  un  tratto
visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un po'  di  spiraglio,  guatò
più attentamente, e vide attraverso  la  picciola  fessura  un  uomo  che  stava
adocchiando nella stanza: ella si alzò, e l'uomo sparì. Finalmente  all'ora  del
pranzo la persecuzione cessò. Agnese rincorata non udendo più  pedate  sospette,
si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio, guardava nella via, a dritta
e sinistra; e non vide più nulla che le desse da pensare.  Nullameno  ne  rimase
alle  donne,  e  particolarmente  alla  timidetta   Lucia,   una   perturbazione
indeterminata, che le tolse una gran parte della risoluzione di che  ella  aveva
bisogno in una tale giornata. Alle ventitrè ore  tornò  Fermo,  come  era  stato
convenuto, e disse: «Tonio e Gervaso son qua fuori, noi  andiamo  all'osteria  a
cenare, come siamo intesi, e  al  tocco  dell'avemmaria,  verremo  a  prendervi.
Coraggio, Lucia, tutto dipende da un momento». Lucia sospirò, e rispose: «oh sì,
coraggio»: con una voce che smentiva la parola. Fermo e i  due  suoi  compagnoni
trovarono questa volta  l'osteria  più  popolata.  Sul  limitare  stesso,  colla
schiena appoggiata ad uno stipite, colle  mani  sotto  le  ascelle,  coll'occhio
teso, e con una faccia tra l'annojato e l'agguatante, stavasi un uomo,  che  non
aveva cera né di contadino, né di viaggiatore, né di benestante; non pareva  uno
sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che faccenda egli s'avesse.  Un
uomo più sperimentato di Fermo,  guardandolo  attentamente  l'avrebbe  detto  un
servo travestito. Questi non si mosse, e mirò fisamente Fermo, il quale si torse
entrando per fianco nella picciola apertura lasciata da quella cariatide. I suoi
compagni l'imitarono se vollero entrare. Ad  un  deschetto  stavano  seduti  due
facce di scherani, giuocando alla mora, gridando quindi tutti e due ad un  fiato
come si farebbe in una controversia fra due dotti: fra i due giuocatori stava un
gran fiasco di vino dal quale andavano essi  versando  a  vicenda.  Questi  pure
adocchiarono Fermo con una curiosità molto significante. Finalmente ad un  altro
desco erano tre vestiti da contadini, ma con un contegno che indicava  abitudini
più guerresche che casalinghe. E questi pure gli occhi addosso a  Fermo:  quindi
occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta. Fermo insospettito, e
incerto guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei  loro  aspetti
una interpretazione di questo mistero: ma quelli non  indicavano  altro  che  un
buon appetito. L'ostiere stava aspettando gli ordini dei sopravvenuti, Fermo  lo
fece venire con sè in una stanza vicina; e  comandò  da  cena.  «Chi  sono  quei
forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava stendendo sul desco
una tovaglia grossolana. «Chi sono?  Che  m'importa  chi  essi  sieno?»  rispose
l'ostiere. «Non sapete che  la  prima  regola  del  nostro  mestiere  è  di  non
impacciarsi dei fatti altrui? Tanto è vero che fino  le  nostre  donne  non  son
curiose. Quel che ci preme si è che quelli che frequentano la nostra casa  sieno
galantuomini; come sono certamente questi di cui mi chiedete».  «Ma  se  non  li
conoscete, come sapete che sieno galantuomini?» «Le azioni, caro mio: l'uomo  si
conosce alle azioni. Quegli che bevono il vino e non lo criticano, che  mostrano
sul banco la faccia del re, senza taccolare, e che non fanno questioni  con  gli
altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare  a  uno,  lo  aspettano
fuori e lontano dall'osteria per non far torto,  quelli  sono  i  galantuomini».
Fermo non ne potè cavar altro: la  cena  fu  servita,  ma  l'umore  diverso  dei
convitati fe' sì ch'ella non fosse molto lieta. I due fratelli avrebbero  voluto
assaporarne tranquillamente  e  prolungarne  le  delizie;  e  a  Fermo  parevano
mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perché la  presenza  e
gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir  meglio,
cresciuta l'inquietudine. «Che bella cosa», disse  Gervaso,  «che  Fermo  voglia
pigliar moglie, e abbia bisogno...» «Zitto, zitto», disse tosto Fermo, «per amor
del cielo». La cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci  crediamo
dispensati dal farne la descrizione. Diremo soltanto che Fermo,  osservando  per
sè una rigida sobrietà, largheggiò nel mescere ai  suoi  convitati,  per  metter
loro addosso del coraggio per ogni evento. Terminata la  cena  dovettero  i  tre
compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle  facce  sconosciute,  le  quali
tutte si rivolsero a Fermo come la prima  volta.  Quand'egli  ebbe  fatti  pochi
passi fuori dell'osteria, si volse  addietro,  e  vide  che  due  lo  seguivano:
sostette allora coi suoi compagni, piantando gli occhi in faccia a quelle ombre,
come se dicesse: - vediamo che cosa vogliono da me costoro. - Ma  i  due  quando
s'accorsero che Fermo si era  accorto  di  essi  si  fermarono  un  momento,  si
parlarono sotto voce, e tornarono indietro. Se Fermo fosse stato tanto presso da
intendere le loro parole, avrebbe inteso che uno di  essi  diceva  al  compagno:
«s'è addato di qualche cosa: torniamocene per non guastar tutto:  è  troppo  per
tempo: non vedi che il paese è pieno di gente? lasciamoli andare tutti al nido».
V'era infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente
in un villaggio al cader della sera, e che dopo  pochi  momenti  dà  luogo  alla
quiete solenne della notte. Le donne venivano dal campo portandosi  in  collo  i
bambini, e traendo per  mano  i  figliuoletti  più  adulti,  ai  quali  facevano
ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini  colle  vanghe  e  colle
zappe sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le  povere  cene:  si
udivano saluti di quelli che s'incontravano, e colloqui  brevi  e  tristi  sulla
scarsezza del ricolto e sulle sventure di quell'anno tristissimo. Frattanto,  si
udiva il tocco misurato e solenne della squilla che  annunziava  la  fine  della
giornata. Quando Fermo vide che i due indiscreti s'erano ritirati,  continuò  la
sua strada fra le tenebre crescenti, ripetendo a  bassa  voce  ai  fratelli  gli
avvertimenti sul modo di condurre a buon termine l'impresa. Quando giunsero alla
casetta di Lucia, era  notte  fatta.  Fra  il  primo  concetto  di  una  impresa
terribile e l'adempimento, ha detto un barbaro  che  non  era  privo  d'ingegno,
l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi, e di paure. La povera  Lucia  era  da
molte ore nelle angosce di questo sogno: Agnese, la stessa Agnese così risoluta,
e disposta all'operare, era sopra pensiero, e trovava a  stento  le  parole  per
rincorare la poveretta. Ma al momento in cui l'azione comincia,  e  l'animo  che
fino allora tollerava i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda,
e tornando, è costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le  azioni  del
corpo, allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio  che  lo
agitavano succede un altro terrore, e un altro coraggio: l'impresa  si  affaccia
alla mente come una apparizione nuova, inaspettata, si scoprono mezzi e ostacoli
non pensati: ciò che sembrava più difficile si trova talvolta fatto quasi da sè,
l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano  il  loro  uficio  ad  un
passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca alle  promesse  che  aveva
fatte con più sicurezza. Un matrimonio clandestino era per Lucia Zarella  quello
che l'uccisione di  un  dittatore  per  Marco  Bruto.  Quando  s'intese  bussare
sommessamente alla porta, Lucia fu presa da tanto  terrore,  che  risolvette  in
quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa  da  Fermo  piuttosto
che eseguire la risoluzione presa; ma quando  Fermo  entrato  disse:  «son  qui,
andiamo»; quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a
cosa già determinata, Lucia non ebbe spazio né cuore di  far  contrasto  e  come
strascinata, prese tremando un braccio della madre, e un  braccio  di  Fermo,  e
s'avviò senza far motto colla brigata avventurosa. Zitti, zitti, nelle  tenebre,
a passo misurato, giunsero in vicinanza della casa del nostro  Don  Abbondio  il
quale era ben  lontano,  pover'uomo!  dal  pensare  che  una  tanta  burasca  si
addensasse sul suo capo. Qui si separarono come erano convenuti: Lucia, Agnese e
Fermo presero per un viottolo tortuoso che girava attorno all'orto del curato, e
sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della  casa  vennero  a
porsi presso all'angolo di essa, Fermo e Lucia per trovarsi nel luogo più vicino
alla porta ed entrare quando il destro verrebbe, Agnese per uscire ad incontrare
Perpetua nel momento opportuno. Toni destro col disutilaccio di Gervaso che  non
sapeva far nulla  da  sè,  e  senza  il  quale  non  si  poteva  far  nulla,  si
affacciarono  bravamente  alla  porta  e  toccarono  il  martello.  «Chi  è,   a
quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in quel momento:  era  la
voce di Perpetua. «Malati non ce n'è: dovrei saperlo: è forse  accaduta  qualche
disgrazia?» «Son'io», rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo  bisogno  di
parlare col signor curato». «È  ora  da  cristiani  questa?»  rispose  agramente
Perpetua: «che discrezione? tornate domani». «Sentite: tornerò o non tornerò: mi
trovavo alcuni pochi soldi ed ero  venuto  per  pagare  al  signor  curato  quel
debituccio che sapete: ma se non si può aspetterò un'altra occasione, questi  so
come spenderli, e verrò quando ne abbia  guadagnati  degli  altri».  «Aspettate,
aspettate: vado e torno:  ma  perché  venire  a  quest'ora?»  «Se  l'ora  potete
cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete,  me  ne  vado».
«No no: aspettate un momento; torno con la risposta». Così dicendo  richiuse  la
finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e  detto  sotto  voce  a
Lucia: «coraggio: è un momento; come a far  cavare  un  dente»,  venne  a  porsi
dinanzi la fronte della casa, aspettando che Perpetua aprisse per far  vista  di
passare. Perpetua venne infatti tostamente, aperse  la  porta,  e  disse:  «dove
siete?» Quando i due fratelli si mostravano, Agnese  passò  dinanzi  a  loro,  e
salutò Perpetua fermandosi un momento sui due piedi. «Buona sera, Agnese», disse
Perpetua, «donde a quest'ora?» «Vengo dalla  filanda»,  rispose  Agnese,  «e  se
sapeste... mi sono indugiata appunto in grazia  vostra».  «Oh  perché?»  rispose
Perpetua: indi rivolta ai due fratelli:  «entrate»,  disse,  «ed  aspettate  che
vengo  anch'io».  Quegli  entrarono.  «Perché»,  ripigliò  Agnese,  «una  donna,
pettegola! non sanno le cose e voglion parlare... credereste? si ostinava a dire
che non vi siete sposata con Beppo perch'egli non vi ha voluto. Io sosteneva che
voi l'avete rifiutato...» «Certo sono stata io, ma chi è  costei?»  «Questo  non
fa... ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene  tutta
la storia per confonder colei». «Bugiarda, bugiarda»,  disse  Perpetua.  «È  una
bugiarderia, la più nera. Sentite,  come  andò  la  faccenda:  e  ho  testimonj,
vedete. Ehi, Tonio, socchiudete la porta, e salite pure ch'io verrò poi».  Tonio
rispose di dentro che sì. Perpetua cominciò la sua storia,  e  Agnese  si  avviò
passo passo verso l'angolo della casa opposto  a  quello  dietro  cui  erano  in
agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo  voltò  seguita
da Perpetua: e voltatolo tossì per dar  segno.  Il  segno  fu  inteso,  e  Fermo
traendo Lucia la quale correva come un  leprotto  inseguito,  in  punta  di  piè
vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si trovarono  nel  vestibolo
coi  due  fratelli  che  gli  stavano  aspettando.  Chiusero  sommessamente   il
chiavistello per di dentro e salirono insieme,  mentre  Agnese  moltiplicava  le
inchieste per trattenere la  fante.  I  quattro  congiurati  tutti  diversamente
commossi ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse  ad
alta voce: «Deo gratias», ed entrò col fratello, mentre  Don  Abbondio  che  gli
aspettava rispose: «Avanti». Fermo e Lucia ristettero  dietro  la  porta:  senza
moversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe potuto  ivi  intender
altro che il battito del cuore di Lucia. Toni entrato socchiuse la porta  dietro
di sè. Don Abbondio convalescente della febbre, e non guarito della paura  stava
seduto su un vecchio seggiolone, ravvolto in una  vecchia  zimarra,  coperto  il
capo d'un vecchio camauro, sotto il quale si vedeva  uno  sguardo  sospettoso  e
teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha  dopo
d'aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a  sè  una  vecchia  tavola  e
sulla tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui
dintorni, e lasciava  il  resto  nelle  tenebre.  Presso  alla  lucerna  era  il
breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale....  «Ah!  ah!»  fu  il
saluto di Don Abbondio. «Il signor Curato dirà che siamo  venuti  tardi»,  disse
Toni inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso. «Venite tardi in tutti
i modi», rispose Don Abbondio. «Basta, vediamo». «Sono venticinque buone lire di
quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni cavando un gruppetto  di  tasca.
«Vediamo», replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse  e  le  numerò,  e
furono trovate irreprensibili. «Ora signor curato mi darà  gli  orecchini  e  la
collana della mia povera Tecla». «È giusto» rispose don Abbondio; e andò  ad  un
armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per  tener  lontani  gli
spettatori,  aperse  una  parte  d'imposta,  riempì  l'apertura  colla  persona,
introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo  ritirò,
chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo,  «c'è  tutto?»
disse, indi lo consegnò a Toni. «Ora», disse Toni, «mi favorisca di una riga  di
quitanza». «Non vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio. «Ecco volete darmi
anche quest'incomodo». «Che dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla
vita alla morte...» «Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà  ch'io
ponga inchiostro nel calamajo. Perpetua, dov'è costei? Perpetua!» «Perpetua  era
da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor Curato:
cerchi il calamajo che farà più presto». Così brontolando tirò un cassettino del
tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere,  dettandosi  col
capo sulla carta ad alta voce la composizione. Frattanto Toni, e Gervaso com'era
convenuto si posero dinanzi allo scrittore in modo da togliergli la veduta della
porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio
ai di fuori di venire avanti senza essere intesi. Don Abbondio tutto  nella  sua
quitanza non badava ad altro. Al fruscio dei quattro  piedi  che  era  il  segno
convenuto, Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la  pigliò  con
sè, e pian piano  entrarono  nella  porta,  Lucia  più  morta  che  viva,  e  si
collocarono dietro i due fratelli.  Don  Abbondio  finito  ch'ebbe  di  scrivere
rilesse attentamente, da sè, quindi fatta lettura  ad  alta  voce,  e  prima  di
alzare gli occhi dalla carta: «sarete contento?» disse, e  preso  il  foglio  lo
porse a Toni. Toni allungando la mano per pigliarlo, si  ritirò  da  una  parte,
Gervaso dall'altra, e i due  sposi  apparvero  in  mezzo  come  all'alzare  d'un
sipario. Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò,
prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a  proferire  le
parole magiche: «Signor curato, in presenza di questi testimonj,  questa  è  mia
moglie». Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don  Abbondio
aveva già lasciata cadere la quitanza, fatto un salto, afferrata colla  manca  e
sollevata la lucerna, e tirato colla destra a  sè  un  tappeto  che  copriva  il
tavolo, gettando a terra il  breviale  e  il  quaresimale,  e  balzando  tra  la
seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua dolce
voce tremante aveva appena potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio gli aveva
gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto e  tenendoglielo  colle
mani ravvolto e stretto sulla bocca perch'ella non potesse proseguire, gridava a
testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento! ajuto! ajuto!» Il  lucignolo
della lucerna che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando
un ultimo chiarore, e la povera Lucia appoggiata a Fermo, coperta così  di  quel
ruvido  velo  pareva  una  statua  sbozzata  in  creta,  cui  un  rozzo  fattore
dell'artefice copre, da testa,  con  un  umido  panno.  Cessata  ogni  luce  Don
Abbondio lasciò la poveretta  la  quale  già  per  sè  non  avrebbe  più  potuto
proseguire, e pratico com'era del luogo, trovò tosto a tentone  la  porta  della
stanza vicina, v'entrò,  vi  si  chiuse,  e  continuò  a  gridare:  «tradimento!
Perpetua! accorr'uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione!  una
schioppettata! fuori di questa casa!  fuori  di  questa  casa!  Perpetua!  dov'è
costei!» Nella stanza tutto era confusione: Fermo,  inseguendo  come  poteva  il
curato, aveva trascinata con sè Lucia alla  porta,  e  bussava  gridando:  «apra
apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a terra, girava  le
mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso spiritato  gridava,  e
andava cercando la porta della scala per porsi in salvo. In mezzo a questo serra
serra, non possiamo a meno di fermarci un  istante  per  fare  una  riflessione.
Fermo  il  quale  strepitava  in  casa   altrui,   che   vi   s'era   introdotto
frodolentemente, che assediava il padrone in una stanza, pare un  soperchiatore,
un torbido; e pure gli era un poveretto a  cui  si  negava  la  ragione  la  più
limpida, la più sacra. Don Abbondio impaurito, minacciato mentre tranquillamente
attendeva ai fatti suoi pare l'oppresso, la vittima, l'uomo onesto, e  pure  era
egli in realtà il soperchiatore. Così va il mondo; o... voglio dire, così andava
nel secolo decimo settimo. Don  Abbondio,  vedendo  che  il  nimico  non  voleva
sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare accorr'uomo.
Batteva la più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del  campanile  si
disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente
con un gran mazzo di chiavi pendente  alla  mano  il  sagrista,  il  quale  dopo
suonata l'avemaria era rimasto a scopare la chiesa  e  a  governare  gli  arredi
dell'altare. «Lorenzo!» gridò il curato,  «accorrete,  gente  in  casa!  ajuto».
Lorenzo si sbigottì, ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi  urgenti,
pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso ch'egli non  chiedeva,  e  di
farlo senza suo rischio. Corse indietro alla  porta  della  chiesa,  scelse  nel
mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la
corda della più grossa campana, e tirò a martello.

CAPITOLO VIII

LA FUGA

- Ton, ton, ton, ton, - i contadini appena corcati balzano a sedere sul letto: -
che è? che è? La campana: fuoco? banditi? - Le donne  pregano  e  consigliano  i
mariti di non si muovere, di lasciar correre gli altri:  gli  uomini  si  alzano
dicendo: - vado soltanto alla finestra -: i garzoni caccian la testa dal fenile:
i più curiosi e bravi sono già nella  via  colle  forche  e  coi  fucili:  altri
gl'imitano, e  i  poltroni  come  se  si  lasciassero  vincere  dalle  preghiere
ritornano al covile. Frattanto Perpetua che nelle ciarle s'era dimenticata di se
stessa, ma che noi non abbiamo dimenticata, aveva  inteso  come  un  romore,  un
gridio, e aveva interrotto il discorso per avviarsi verso casa, cercando  invano
di rattenerla Agnese, la quale  pure  stava  sulla  corda  non  vedendo  tornare
nessuno; e all'udire quel gridìo fu pure presa da una  grande  inquietudine.  Ma
quando la campana a martello si fece udire, corsero  entrambe  verso  la  porta.
Toni aveva finalmente ricolta la quitanza, e pigliando a tentone  Gervaso  nelle
tenebre, aveva pigliata la  porta  e  scendeva  saltelloni  dalla  scala:  Lucia
pregava fievolmente Fermo di cavarla da quella caverna; e quando egli  udì  quel
tocco funesto gli parve pure mill'anni d'esserne fuori, e trovò  la  porta  come
gli altri. Perpetua correndo affannata con Agnese,  si  abbattè  in  Toni  e  il
fratello che uscivano, e gli assalì d'inchieste  alle  quali  essi  non  dierono
risposta, ed usciti nella via, s'avviarono a casa. Per buona sorte Fermo e Lucia
usciti nella via, presero la strada opposta a quella donde veniva  Perpetua,  ed
ella entrò a furia in casa senza vederli, e vi si chiuse. Agnese  che  guardando
fiso gli aveva visti uscire, gli raggiunse, e tutti e tre voltarono  in  fretta,
in silenzio, palpitando, il canto, e s'avviarono pure  verso  casa.  Intanto  la
gente traeva da tutte le parti alla chiesa: già i più lesti  erano  entrati  nel
campanile e avevano inteso da Lorenzo che la gente era in casa  del  curato.  Ma
guardando al di fuori videro le  porte  chiuse,  e  tutto  quieto:  taluni  però
osservando più per minuto s'accorsero che una finestra era  appena  socchiusa  e
intravvidero per lo spiraglio la faccia lunga di Don Abbondio, il  quale  avendo
sentita sgombrata la stanza vicina, e conoscendo cessato il pericolo, cominciava
ad essere inquieto e malcontento  del  troppo  soccorso.  «Che  cosa  è  stato?»
domandò uno degli accorsi: «Sono fuggiti», rispose il curato, «tornate  a  casa,
vi ringrazio». «Fuggiti, chi?» «Cattiva gente, cattiva gente,  tornate  a  casa,
non c'è più niente». Qui cominciarono risa di alcuni, rimbrotti di alcuni altri,
domande dei sopravvegnenti, discorsi d'ogni genere. Lorenzo lasciata  finalmente
la corda uscì dalla Chiesa, e si pose in  mezzo  ai  crocchj  a  render  ragione
dell'aver così messo a soqquadro tutto il paese.  Ma  in  mezzo  ai  paesani  si
videro passare in ordine di battaglia alcuni armati e di sinistro aspetto: erano
gli amici che abbiam già veduti all'osteria. A quelli che  li  vedevano  nasceva
sospetto che fossero banditi, e che per cagion loro si fosse suonato  a  stormo:
chi si ritirava, chi si univa in crocchio, e già da molti  si  parlamentava  del
partito da prendersi. Ma siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e  ad
ogn'uomo che vedevano parevan dire: - tu non sei quello -,  così  nessuno  volle
gittare la prima pietra, e a poco a poco la folla  svanì,  ognuno  si  ritirò  a
casa, e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua. Ma i tre  personaggi
che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non rispondendo alle  inchieste
e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla casa di Lucia; quando  un
garzoncello che andava guardando attentamente tutti  quelli  che  passavano,  al
vederli, mise un sospiro che pareva volesse dire: - gli ho trovati una volta  -;
si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel lembo della veste, e  disse  con  voce
bassa e affannata: «Tornate indietro per amor del cielo!» Era Menico, e fu tosto
riconosciuto. «Perché?» dissero tutti e tre. «Indietro, indietro,  vi  dico  non
tornate a casa, venite al convento; così mi ha detto il  padre  Cristoforo».  La
proposta parve a tutti strana, e in altri momenti udendola da un Menico  non  vi
avrebbero posto mente; ma nei momenti di confusione e di paura, tutti i consigli
pajono buoni. Quelli ristettero:  ma  Menico  continuava:  «Venite  con  me  pei
viottoli, vi condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto  per  istrada».  «Ma  la
casa...» disse Agnese. «Niente niente, venite con  me,  lo  ha  detto  il  Padre
Cristoforo: Dio vi liberi dal tornare a casa». Essi  seguirono  il  ragazzo,  il
quale in quel punto era più presente a sè che essi non fossero, ed  entrati  per
una callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di  strada
comoda, poteva condurre al convento. Quantunque il lettore possa aver facilmente
indovinato quale fosse il novo pericolo di Lucia,  e  donde  il  buon  Frate  ne
avesse avuto l'avviso, pure è dovere dello  storico  il  raccontare  per  esteso
tutta la faccenda. Per procedere ordinatamente è mestieri tornare a Don  Rodrigo
che abbiamo lasciato  solo,  avendo  noi  preferito  di  accompagnare  il  Padre
Cristoforo. Don Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala,
le pareti della quale come ora diciamo  erano  coperte  da  grandi  ritratti  di
famiglia. Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo  della  sala,  si  mirava  in
faccia un suo antenato guerriero, terrore  dei  nemici,  colle  gambiere,  colla
corazza, coi bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la  mano  manca
posta sul fianco e la destra sullo spadone  a  foggia  di  bastone.  Quando  Don
Rodrigo era sotto a  questo  antenato,  e  voltava,  ecco  in  faccia  un  altro
antenato, magistrato, terrore dei litiganti,  seduto  sur  un'alta  seggiola  di
velluto, con una lunga toga nera, tutto nero fuorché un collare  con  due  ampie
facciuole: aveva una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una
supplica, e pareva dicesse: - vedremo -: di qua una matrona  terrore  delle  sue
damigelle, di là un abate terrore dei monaci, tutta gente  insomma  che  spirava
terrore. In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo  che  un
frate avesse osato prender con  lui  il  tuono  di  Nathan,  e  ammonirlo,  anzi
minacciarlo. Formava un  disegno  di  vendetta,  lo  abbandonava,  pensava  come
soddisfare ad un  tempo  alla  passione  e  all'onore;  e  talvolta,  sentendosi
fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e quasi stava
per deporre il pensiero di  soddisfarsi.  Finalmente,  per  fare  qualche  cosa,
chiamò un servo, e ordinò che facesse le sue scuse alla brigata, dicendo ch'egli
era trattenuto da un affare urgente. Quando il servo tornò a riferire  che  quei
signori erano partiti lasciando i più umili ossequj e i più vivi ringraziamenti:
«E il conte Attilio?» domandò, sempre passeggiando, don Rodrigo. «È  uscito  con
quei signori». «Bene: sei persone di seguito pel passeggio:  la  mia  spada;  il
cappello; il pugnale di gala». Il servo partì facendo un inchino, e Don Rodrigo,
salì nella sua stanza, si cinse una ricca spada, depose il pugnale che aveva  in
cintura, e ne prese uno di gala col  fodero  a  rilievi  d'oro,  e  con  un  bel
diamante sul pomo, si gettò la cappa sulle spalle, si  coperse  col  cappello  a
grandi piume, e colla palma lo inchiodò sul capo; e si dispose ad uscire. A  dir
vero, egli non andava né per faccenda né per  diporto;  ma  sentiva  un  bisogno
indistinto e confuso di uscire in gran pompa, di circondarsi della sua forza per
mostrare agli altri ed a sè stesso ch'egli era pur sempre quel Don  Rodrigo.  Al
piede della scala trovò i sei  seguaci  tutti  armati,  i  quali  fatta  ala  ed
inchino, gli tennero dietro. Più burbero, più  superbioso,  più  accigliato  del
solito uscì egli e si pose a camminare verso Lecco ricevendo  inchini  profondi,
simili a genuflessioni  dai  contadini  in  cui  s'abbatteva:  i  bravi  che  lo
seguivano non avrebbero lasciato di punire il  contegno  poco  ossequioso  d'uno
smemorato, o d'un temerario. Don Rodrigo rispondeva con  una  leggera  mossa  di
capo. I signorotti pure facevano riverenza a colui che, senza contrasto, era  il
più potente di loro, e Don Rodrigo corrispondeva con una degnazione  contegnosa.
Quando però Don Rodrigo s'incontrava nel signor Castellano spagnuolo,  l'inchino
allora era egualmente profondo dall'una e dall'altra parte; si vedevano come due
potentati i quali non hanno fra loro nessuna relazione né di pace né di  guerra,
ma che per  convenienza  fanno  onore  al  grado  l'uno  dell'altro.  Dopo  aver
passeggiato, Don Rodrigo si presentò in una casa dove si teneva brigata, e  dove
fu accolto con quella cordialità rispettosa che è riserbata a quelli  che  fanno
paura, e finalmente a notte avanzata tornò al suo castellotto. Il Conte  Attilio
era giunto da poco; e fu servita la cena, alla quale Don Rodrigo  pareva  ancora
alquanto sopra pensiero. Il Conte ruppe il silenzio, dicendo con  aria  maligna:
«Cugino, quando pagate questa scommessa?»  «Il  giorno  di  San  Martino  non  è
venuto». «Bene; ma tanto fa che la paghiate ora; perché passeranno tutti i santi
del paradiso prima che...» «Questo è quello che si ha da vedere».  «Cugino,  voi
volete nascondervi da me: ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver vinta
la scommessa, che son pronto a farne un'altra». «Che?...» «Che il  Padre...,  il
padre... che so io? quel frate insomma vi  ha  convertito».  «Questa  pensata  è
veramente una delle vostre». «Convertito, cugino, convertito, vi dico. Io per me
ne godo: sapete che bella cosa sarebbe vedervi  tutto  compunto  e  cogli  occhi
bassi. E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa pettoruto! Non  son
mica pesci che si pigliano ogni giorno e con  ogni  rete.  Siate  certo  che  vi
citerà per esempio; e quando andrà  a  far  qualche  missione  un  po'  lontano,
parlerà dei fatti vostri. Mi par di sentirlo con quella voce nel naso, predicare
a questo modo: - In una parte di  questo  mondo,  che  per  degni  rispetti  non
nomino, viveva, uditori carissimi,  un  cavaliere  dissoluto,  amico  più  delle
femine che dei servi di Dio, il quale  avvezzo  a  far  d'ogni  erba  fascio...»
«Basta basta», interruppe Don Rodrigo mezzo sogghignando, e  mezzo  arrovellato.
«Se volete raddoppiar la scommessa, io son pronto».  «Diavolo!  che  aveste  voi
convertito il padre!» «Non  mi  parlate  di  colui:  e  quanto  alla  scommessa,
aspettate san Martino». La curiosità del Conte era  stuzzicata;  egli  non  fece
risparmio d'inchieste, ma Don Rodrigo le deluse tutte,  rimettendosi  sempre  al
giorno della prova, e non  si  arrischiando  di  comunicare  al  suo  avversario
disegni che non erano ancora  né  incamminati,  né  assolutamente  risoluti.  Ma
quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le  passioni  che
si erano combattute nel suo animo non vi rimaneva  altra  che  il  desiderio  di
soddisfarsi. Quel poco di compugnimento, che il colloquio del  padre  Cristoforo
aveva messo addosso, era svanito insieme coi sogni della  notte,  e  la  memoria
stessa di  averlo  sentito  non  serviva  che  a  raddoppiargli  la  stizza.  Le
sensazioni posteriori a quel colloquio, il passeggio coi bravi,  gl'inchini,  le
canzonature del Conte avevano ritornata......................................  e
quei tristi credendosi scoverti, si  ritirarono  in  buon  ordine  come  abbiamo
detto. Ma quel buon servo che aveva già promesso al Padre Cristoforo di  tenerlo
avvertito, seppe quello che si tramava; trovò il modo di  correre  al  convento,
informò il Padre, il quale spedì tosto Menico, come abbiamo veduto. I nostri tre
fuggitivi camminarono  qualche  tempo  in  silenzio,  dietro  il  loro  picciolo
guidatore, il quale superbo di andar così di notte, per un affare, come un uomo,
superbo di essere nella brigata, quello che dava consiglio, che avvisava  al  da
farsi, che rincorava, che aveva la mente più riposata, guardava attentamente  la
via, scegliendo i tratti più brevi, e i più fuor di mano,  e  rivolgendosi  alle
rivolte con aria d'importanza, a dire: «per di  qua».  Avevano  fatto  un  terzo
circa della via, ed erano lontani dal paese, tanto che guardando indietro non si
vedevano più i radi lumi delle lucerne che le donne  sporgevano  dalle  finestre
ponendovi la mano sopra di traverso per non esser vedute e per  mandar  la  luce
sulla via per dove tornavano a casa gli uomini a  subire  un  interrogatorio:  e
nessuno dei tre aveva ancora avuto animo di comunicare agli altri i pensieri che
lo agitavano: s'udiva solo di tempo in tempo Agnese  sclamare:  -  poveri  morti
benedetti, ajutateci -, Lucia invocare la Vergine,  e  Fermo  mormorare  qualche
esclamazione di sdegno. Fu la prima Agnese che proferì un periodo  compiuto.  «E
la casa?» diss'ella: «l'abbiamo lasciata in abbandono, senza nemmeno  porvi  una
custodia: sulla fede di questo ragazzo, che Dio  sa  come  ha  inteso».  «Come!»
rispose con un poco di stizza e di albagia, Menico: «come! sentirete,  sentirete
or ora dal Padre Cristoforo. Buon per voi che io vi abbia saputi  trovare.  Guaj
se andavate a casa: mi ha detto il Padre, che doveste uscirne subito  subito,  e
temeva ch'io non fossi in tempo». «Bembè sentiremo», rispose  Agnese.  Ma  Lucia
andava stretta al braccio  della  madre,  rifiutando  dolcemente  l'appoggio  di
Fermo, ed arrampicando la prima sui muricciuoli che avevano a superare  per  non
essere ajutata da lui, e in  mezzo  a  tutte  le  agitazioni  tremando  pure  di
trovarsi così di notte per via con lui, per quel  pudore  che  non  nasce  dalla
trista scienza del male, per quel pudore che ignora se  stesso,  e  somiglia  al
sospetto del fanciullo che trema nelle tenebre senza sapere che cosa ci  sia  da
temere. Le parole di Agnese furono il principio  d'una  conversazione  generale:
addomesticati già un poco alla loro nuova e inaspettata  situazione,  si  posero
tutti e tre a favellar sotto voce (il che spiacque  assai  a  Menico,  al  quale
pareva pure di meritar fiducia dopo la sua impresa) a favellare dell'accaduto  e
di quello che poteva soprastare. La povera Lucia parlò poco: e quello che me  la
rende più cara e più pregiata si è ch'ella non si lasciò sfuggire una parola che
rinfacciasse alla madre ed a Fermo l'ostinazione loro a volerla tirare a  quella
impresa ch'era così mal riuscita: non proferì mai quelle parole: «l'aveva  detto
io». Finalmente per viottoli di campi, e per selve  senza  sentiero  giunsero  i
viaggiatori ad un torrente che dal monte chiamato Resegone scende nell'Adda e si
chiama Bione, nome che invano altri cercherebbe in un dizionario geografico.  Il
torrente era al di là dal convento, ma non è da dir per questo che Menico avesse
fallita la strada, giacché era stato mestieri allungarla per  ischifare  la  via
comune e battuta. Scesero alcuni passi col torrente, e quindi volgendo a diritta
divennero  sulla  piazzetta  che  si  apriva  dinanzi  al   convento   ed   alla
chiesicciuola unita a quello.  «Adesso  vedrete»,  disse  Menico  sottovoce:  si
affacciò alla porta della chiesa, la sospinse dolcemente, e quella in  fatti  si
aperse, e la luna, entrando per lo spiraglio illuminò la barba d'argento,  e  la
tonaca del Padre Cristoforo, che stava ivi ritto ad aspettare. Quando egli  vide
che con Menico v'erano i tre che egli dubbiosamente  aspettava,  disse  a  bassa
voce: «Dio sia benedetto: siete fuori di pericolo», e gli fece entrare. A  canto
del nostro Padre Cristoforo si trovava un altro cappuccino. Era questi il  laico
sagrestano che egli con preghiere e con ragioni aveva determinato a vegliar  con
lui, a lasciare aperta la chiesa, e a starvi in sentinella per  accogliere  quei
poveri minacciati; e non vi voleva meno dell'autorità del  padre,  e  della  sua
fama di santo per condurre  il  laico  ad  una  condiscendenza  piena  non  solo
d'incomodo, ma di pericolo. Quando furono entrati: «Chiudete ora la porta  senza
far fracasso», disse il padre Cristoforo. Ma il laico al quale pareva già d'aver
fatto troppo, crollò la testa, e  disse:  «Chiudersi  di  notte  in  chiesa  con
donne...! mi pare...» e continuava a crollare la testa. - Vedete un po',  diceva
fra sè il padre Cristoforo: se fosse un masnadiero, Fra Fazio  non  gli  farebbe
una difficoltà al mondo, e una innocente che si vuol salvare dagli  artigli  del
lupo... «Omnia munda mundis» disse impetuosamente volgendosi a Fra Fazio,
e dimenticando che Fra Fazio non sapeva il latino.  Ma  questa  dimenticanza  fu
appunto quella che ottenne l'intento. Se il Padre avesse voluto addurre ragioni,
Fra Fazio non avrebbe mancato di ragioni da opporre, e la cosa sarebbe andata in
lungo, Dio sa anche come sarebbe finita; ma quando egli udì quelle  parole  d'un
suono così pieno e solenne, e dette così risolutamente, gli parve  che  in  esse
dovesse essere tutta la soluzione dei suoi dubbj, rispose: «Ha ragione», e volse
a bell'agio la chiave nella toppa, e i nostri profughi si trovarono  chiusi  nel
santuario in salvo da ogni pericolo. Il Padre Cristoforo si pose ginocchioni  ad
orare un momento; e tutti lo imitarono: quindi levato: «Figliuoli miei»,  disse,
«Iddio non vi  vuole  ancora  in  riposo,  ma  voi  avete  un  segno  della  sua
protezione, e un'arra ch'egli non vi abbandonerà». E qui raccontò  ai  poveretti
il pericolo a cui erano sfuggiti, e proseguì: «Vedete che per ora  è  necessario
allontanarvi di qua: vi siete nati, è casa  vostra,  non  avete  fatto  torto  a
nessuno, ma il serpente talvolta fa disertare l'uomo dalla  sua  dimora,  e  gli
uomini pure si cacciano su questa terra come se vi fossero posti  per  divorarsi
l'un altro. È una prova, figliuoli:  sopportatela  con  pazienza,  con  fiducia,
senza rancore; è il mezzo di abbreviarla e di renderla utile. Per me siate certi
che penso a voi, e che troverò più mezzi per ajutarvi che altri forse non crede.
Frattanto io ho pensato a trovarvi per qualche tempo  un  rifugio  ove  possiate
starvi in sicuro finché si trovi il modo di ritornare sicuri a casa vostra, e di
giungere all'adempimento dei vostri giusti e santi desiderj. Usciti di qui,  voi
v'incamminerete in silenzio al lago presso allo sbocco del Bione, ivi vedrete un
battello: direte: - barca: - vi sarà risposto: - per  chi?  -  replicate  -  San
Francesco -: e la barca vi accoglierà e  vi  trasporterà  all'altra  riva,  dove
troverete un baroccio, il quale vi condurrà a salvamento». Chi  domandasse  come
il Padre aveva ai suoi comandi tante persone, e le aveva potute così disporre ai
servigi dei suoi protetti,  mostrerebbe  di  non  sapere  che  cosa  potesse  un
cappuccino che aveva fama di santo. Prese quindi in disparte  Agnese,  le  diede
una lettera, le disse a chi doveva  consegnarla  assicurandola  che  con  quella
troverebbe assistenza, e le raccomandò, che  facesse  in  modo  che  Fermo  dopo
averle accompagnate al luogo della  loro  dimora  proseguisse  il  suo  viaggio.
Quindi consegnò a questo un'altra lettera colle opportune  istruzioni.  Rimaneva
da pensare alla custodia delle case, le  quali  erano  prive  dei  loro  custodi
naturali. Le chiavi furono consegnate al Padre: quelle di Agnese per esser  date
in mano d'una sua sorella, e quelle di  Fermo  per  un  suo  cognato.  Il  Padre
ricevette le commissioni d'entrambi, procurando di acquietare  la  sollecitudine
di Agnese. I viaggiatori partivano  quasi  brulli  di  denaro:  ma  avevano  dei
risparmj in casa; indicarono al Padre il luogo del deposito, ed egli promise  di
far loro tenere il tutto sicuramente e presto. Finalmente con voce  commossa,  e
contenendo le lacrime: «Dio sia con voi»,  disse:  «partite  senza  ritardo:  il
cuore mi dice che ci rivedremo presto». Certo, il cuore, chi gli  dà  retta,  ha
sempre qualche cosa da dire. Ma che sa egli il cuore? Appena un poco  di  quello
che è già accaduto.  Il  sagrestano  aperse  la  porta,  commosso  anch'egli,  i
viaggiatori partirono dando e ricevendo un addio con voce sommessa e alterata; e
la porta si richiuse. Andarono quegli pian piano com'era stato loro segnato alla
riva del lago; quivi mutate le parole, entrarono nel battello, e  il  barcajuolo
puntando il remo alla riva, lo fece staccare, e remigando a due  braccia,  prese
il largo verso la riva opposta. Il lago era sgombro, non soffiava un respiro  di
vento, e la superficie dell'acqua, illuminata dalla luna giaceva piana e  liscia
senza una increspatura, come un immenso specchio. I remi  che  tagliando  l'onda
con tonfo misurato uscivano ad un colpo grondanti, e segnando di infinite stille
lo spazio sul quale precorrevano per rituffarsi nell'acqua,  rompevano  solo  la
piana superficie del lago; l'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa
segnava  una  striscia  fuggente,  che  si  andava  allontanando  dal  lido.   I
viaggiatori silenziosi, volgendosi addietro, guardavano le montagne e  il  paese
che la luna illuminava. Si distinguevano i villaggi, i campanili, le capanne: il
castellotto di Don Rodrigo colla vecchia sua torre, alto sulle  capanne,  pareva
un feroce ritto nelle tenebre che in mezzo ad una folla di  coricati  nel  sonno
vegliasse meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio
verso il sito della sua umile casa, e vide un pezzo di muro bianco che usciva da
una macchia verde scura, riconobbe la sua casetta, e il fico che ombreggiava  la
porta: e seduta com'era sul fondo della barca, poggiò il  gomito  sulla  sponda,
chinò su quello la fronte come per dormire; e pianse segretamente. Addio,  monti
posati sugli abissi dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute  a
colui che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che  visse  fra  voi,  come
egli distingue all'aspetto l'uno dall'altro i suoi  famigliari,  valli  segrete,
ville sparse  e  biancheggianti  sul  pendio  come  branco  disperso  di  pecore
pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi  vi  conosce  dall'infanzia!
quanto è nojoso l'aspetto della pianura dove il sito a cui si aggiunge è  simile
a quello che si è lasciato  addietro,  dove  l'occhio  cerca  invano  nel  lungo
spazio, dove riposarsi e contemplare, e si ritira fastidito come dal fondo  d'un
quadro su  cui  l'artefice  non  abbia  ancor  figurata  alcuna  immagine  della
creazione. Che importa che nei piani deserti sorgano città superbe ed affollate?
il montanaro che le passeggia avvezzo alle alture di Dio, non sente  il  diletto
della maraviglia nel mirare edificj che il cittadino chiama elevati  perché  gli
ha fatti egli ponendo a fatica pietra sopra pietra. Le vie, che hanno  vanto  di
ampiezza, gli sembrano valli troppo anguste, l'afa immobile lo opprime, ed  egli
che nella vita operosa del monte non aveva forse provato  altro  malore  che  la
fatica, divenuto timido e delicato come il cittadino, si lagna del clima e della
temperie, e dice che morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col  sole,
non riposava che al mezzo giorno e al cessare delle fatiche diurne, passa le ore
intere nell'ozio malinconico  ripensando  alle  sue  montagne.  Ma  questi  sono
piccioli dolori. L'uomo sa  tormentar  l'uomo  nel  cuore;  e  amareggiargli  il
pensiero  di  modo  che  anche  la  memoria  dei  momenti   passati   lietamente
affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non  temperato  da
alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto una certa maraviglia che
abbia potuto altre volte godere, e non desidera  più  quelle  contentezze  delle
quali non gli par più capace la  sua  mente  trasformata.  Dolore  speciale:  la
contemplazione  della  perversità  d'una  mente   simile   alla   nostra:   idea
predominante in chi è afflitto dal suo simile.  Addio,  casa  natale,  casa  dei
primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze; casa nella  quale  sedendo
con un pensiero s'imparò a distinguere dal romore delle orme  comuni  il  romore
d'un'orma desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa  altrui,  nella
quale la fantasia intenta, e sicura vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna.
Addio chiesa dove nella prima puerizia  si  stette  in  silenzio  e  con  adulta
gravità, dove si cantarono colle compagne  le  lodi  del  Signore,  dove  ognuno
esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte  le  intende  e  le  può
tutte esaudire, Chiesa, dove era preparato un rito,  dove  l'approvazione  e  la
benedizione  di  Dio  doveva  aggiungere  all'ebbrezza  della  gioia  il  gaudio
tranquillo e solenne della santità. Addio! Il serpente nel suo viaggio  torto  e
insidioso, si posta talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone  il  suo
nido, vi conduce la sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce;  perché
l'uomo  il  quale  ad  ogni  passo  incontra  il  velenoso  vicino   pronto   ad
avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo  senza  sospetto,
che trema pei suoi figli, sente venirsi in  odio  la  sua  dimora,  maledice  il
rettile usurpatore, e parte. E l'uomo pure caccia talvolta  l'uomo  sulla  terra
come se gli fosse destinato per preda: allora il  debole  non  può  che  fuggire
dalla faccia del potente oltraggioso: ma  i  passi  affannosi  del  debole  sono
contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione. La barca giunta alla riva, urtando
sull'arena scosse Lucia, la quale dopo avere asciugate in segreto le lagrime, si
alzò come dal sonno. Fermo uscì il primo, porse la mano ad Agnese, questa uscita
la porse a Lucia, e tutti e tre resero  tristamente  grazie  al  barcajuolo,  il
quale rispose: «Niente, niente, siamo quaggiù per ajutarci». Fermo voleva cavare
una parte dei pochi quattrinelli che si trovava in tasca; ma  il  barcajuolo  li
rifiutò come se gli fosse proposto un furto. Trovarono il barroccio, v'ascesero,
e continuarono silenziosamente la via. La notte aveva già passato il mezzo, e la
luna illuminava tuttavia il  cammino  che  dopo  aver  seguito,  abbandonato,  e
ripreso più volte il corso dell'Adda, corse per lungo tempo di  valle  in  valle
fra monti che andavano sempre diminuendo d'altezza. L'aurora mostrò  loro  delle
colline, il cui aspetto sarebbe  stato  lieto  per  animi  lieti.  Ma  oltre  la
sventura che teneva sotto di sè i nostri viaggiatori,  la  dura  condizione  dei
tempi avrebbe impedita ogni gioja in  qualunque  viaggiatore:  giacché  sur  una
terra ridente non s'incontrava che l'uomo tristo e  squallido  dalla  fame,  che
usciva per domandare soccorso non  dovendo  trovare  quasi  che  il  suo  simile
bisognoso di soccorso. A  giorno  fatto  giunsero  al  luogo  della  fermata;  e
discesero ad una osteria dove li  condusse  la  loro  guida,  la  quale  pose  a
riposare il suo cavallo, per ritornarsene, e ricusò  pure  ogni  pagamento.  Qui
Fermo avrebbe voluto sostare almeno tutta la giornata,  ma  Agnese  e  Lucia  lo
persuasero a partire, ed egli  partì,  tutto  incerto  dell'avvenire,  ma  certo
almeno che un cuore rispondeva al suo, e viveva delle sue stesse speranze.

TOMO SECONDO

CAPITOLO I

DIGRESSIONE. ----- LA SIGNORA

Avendo posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto creder così
al lettore ch'egli troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo  in  obbligo
di avvertirlo qui, che la narrazione sarà sospesa alquanto  da  una  discussione
sopra principj; discussione la quale occuperà probabilmente  un  buon  terzo  di
questo capitolo. Il lettore che lo sa potrà saltare alcune pagine per riprendere
il filo della storia: e per me lo consiglio di far così: giacché le  parole  che
mi sento sulla punta della penna sono tali da annojarlo, o anche da fargli venir
la muffa al naso. La discussione viene all'occasione della osservazione seguente
che mi fa un personaggio ideale. - I protagonisti di questa storia, -  dic'egli,
- sono due  innamorati;  promessi  al  punto  di  sposarsi,  e  quindi  separati
violentemente dalle circostanze  condotte  da  una  volontà  perversa.  La  loro
passione è quindi passata per molti stadj, e per quelli  principalmente  che  le
danno occasione di manifestarsi e di svolgersi  nel  modo  più  interessante.  E
intanto non si vede nulla di tutto ciò: ho taciuto finora ma quando si arriva ad
una separazione secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine  del
capitolo passato, non posso lasciare di farvi una  inchiesta:  -  Questa  vostra
storia non ricorda nulla di quello che gl'infelici giovani  hanno  sentito,  non
descrive i principj, gli aumenti, le comunicazioni del loro affetto, insomma non
li dimostra innamorati? - Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e  deggio
confessare  che  sono  anzi  la  parte  la  più  elaborata  dell'opera:  ma  nel
trascrivere, e nel rifare, io salto tutti i passi  di  questo  genere.  -  Bella
idea! e perché, se v'aggrada? - Perché io sono del  parere  di  coloro  i  quali
dicono che non si deve scrivere d'amore in modo da far consentire l'animo di chi
legge a questa passione. - Poffare! nel secolo decimonono, ancora  simili  idee!
Ma i vostri riguardi sono tanto più strani, in quanto l'amore dei vostri eroi  è
il più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste descriverlo in modo
di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare altrui ad un sentimento
virtuoso. - Armatevi di pazienza, ed ascoltate. Se io potessi fare in guisa  che
questa storia non capitasse in mano ad altri che a sposi innamorati, nel  giorno
che hanno detto e inteso in presenza del parroco un  delizioso,  allora
forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali  lettori  non
potrebbe certamente aver nulla di pericoloso. Penso però,  che  sarebbe  inutile
per essi, e che troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand'anche  fosse
trattato da tutt'altri che dal mio autore e da me; perché  quale  è  lo  scritto
dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo può  sentirlo?  Ma  ponete  il
caso, che questa storia venisse alle mani per  esempio  d'una  vergine  non  più
acerba, più saggia che avvenente (non mi  direte  che  non  ve  n'abbia),  e  di
anguste fortune, la  quale  perduto  già  ogni  pensiero  di  nozze,  se  ne  va
campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll'idea dei
suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e  colle  speranze
che il mondo non può dare né torre; ditemi un  po'  che  bell'acconcio  potrebbe
fare a questa creatura una storia che le venisse a  rimescolare  in  cuore  quei
sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha  sopiti.  Ponete  il  caso  che  un
giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero,  colle  fatiche  della
carità, con la preghiera, con lo  studio,  attende  a  sdrucciolare  sugli  anni
pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere,  e
non guardando troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche  stramazzone  in
un momento di distrazione, ponete il caso che questo giovane prete  si  ponga  a
leggere questa storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro  che  un
prete non abbia da leggere: e ditemi  un  po'  che  vantaggio  gli  farebbe  una
descrizione di quei sentimenti ch'egli debbe soffocare ben bene nel  suo  cuore,
se non vuole mancare ad un impegno sacro  ed  assunto  volontariamente,  se  non
vuole porre nella sua vita una contraddizione che tutta la alteri. Vedete quanti
simili casi si potrebber fare. Concludo che l'amore è necessario a questo mondo:
ma ve n'ha quanto basta, e non  fa  mestieri  che  altri  si  dia  la  briga  di
coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne  nascere  dove
non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno,  e  che
uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli  animi:  come
sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza, l'indulgenza,  il
sacrificio di se stesso: oh di questi non v'ha mai  eccesso;  e  lode  a  quegli
scrittori che cercano di metterne un po' più nelle  cose  di  questo  mondo:  ma
dell'amore come vi diceva, ve n'ha, facendo un calcolo moderato, seicento  volte
più di quello che  sia  necessario  alla  conservazione  della  nostra  riverita
specie. Io stimo dunque opera imprudente l'andarlo fomentando cogli  scritti;  e
ne son tanto persuaso; che se un  bel  giorno  per  un  prodigio,  mi  venissero
ispirate le pagine più eloquenti d'amore che un  uomo  abbia  mai  scritte,  non
piglierei la penna per metterne una linea sulla carta: tanto son certo che me ne
pentirei. - Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali, e  peggio;
idee che tendono a soffocare ogni slancio d'ingegno, e ben  diverse  dalle  idee
grandi della vera religione... - La religione ha avuto scrittori  del  genio  il
più ardito ed elevato, pensatori profondi, e pacati ragionatori d'una  esattezza
scrupolosa, e tutti tutti questi senza una eccezione hanno disapprovate le opere
in cui l'amore è trattato nel modo che voi vorreste. Oh ditemi  di  grazia  come
mai io posso persuadermi che tutti questi non han saputo conoscere quel  che  si
voglia la vera religione, e che  voi  avete  trovata  senza  fatica  la  verità,
dov'essi con uno studio di tutta la vita non hanno saputo pescare che un  errore
grossolano? - Così voi condannate tutti gli scritti...? -  Sono  i  giudici  che
condannano: per me vi dico solo il perché io abbia esclusi tutti quei bei  passi
da questa storia. Ma se volete dei giudizj, e delle condanne, voi  ne  troverete
nei casi in cui è lecito anzi bello il condannare, cioè quando  uno  giudica  se
stesso. Vedete  quello  che  hanno  pensato  dei  loro  scritti  amorosi  quegli
scrittori (del cristianesimo intendo) i quali si sono acquistata fama di grandi,
e nello stesso tempo di più castigati. Vedete per esempio, il Petrarca e Racine.
- Il Petrarca viveva in tempi... - Non parliamo del Petrarca,  perché  io  spero
che leggeremo presto intorno a lui il giudizio  d'un  uomo  il  quale  ne  dirà,
quello che né voi né io non giungeremmo a trovare. Vi tratto, come vedete, senza
cerimonie, perché siete un personaggio ideale. - Ebbene, Racine. Non è ella cosa
convenuta fra tutti gli uomini che hanno due dita di cervello, e che non sono un
secolo indietro dagli altri, che il pentimento  che  Racine  provò  per  le  sue
tragedie è una debolezza degli ultimi  suoi  anni,  debolezza  indegna  di  quel
grande intelletto, debolezza che fa compassione? - Vi sono  stati  due  Giovanni
Racine. Uno per aver la grazia dei potenti, adulò in essi apertamente il  vizio,
ch'egli conosceva per tale, e per giustificare appunto le  sue  tragedie,  beffò
degli uomini pei quali aveva in cuor suo un rispetto  sentito,  e  sostituì  gli
scherni personali ai ragionamenti per evitare la  quistione:  punse  acerbamente
quanto potè ed umiliò con epigrammi stizzosi  certi  tali,  che  non  la  natura
certo, ma il giudizio di una gran parte del pubblico aveva fatti suoi  emoli;  e
nello stesso tempo si rose internamente, si accorò, perdette la sua pace ad ogni
critica che sentiva fare delle sue opere: tormentato e tormentatore pei meschini
interessi della letteratura, e della sua letteratura.  Questi  è  quel  Giovanni
Racine che scriveva rime d'amore. L'altro, viveva ritirato  tranquillamente  nel
seno della sua famiglia: se non si allontanò affatto dai potenti,  almeno  parlò
ad essi (caso raro, quasi unico in quei tempi) delle miserie  degli  uomini  che
essi avrebbero dovuto sollevare, o non creare: non  solo  non  cercava  più  gli
applausi, non solo non provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con  dolore:
non solo non si arrovellava ad ogni critica; ma quando un uomo non provocato  lo
fece segno ad un pubblico insulto, non se ne lagnò, e invece di ricevere  scuse,
rispose con ringraziamenti. Egli che era stato cortigiano nella sua  giovinezza,
rifiutò di sedere alla mensa di un principe per non privare i suoi  figli  della
sua compagnia. In pace con sè, col genere umano, e coi letterati, egli trascorse
vent'anni libero da quelle passioni che avevano agitata la sua prima età, e  non
si può proprio dire per questo che fosse rimbambito,  poiché  scrisse  «Atalia».
Questi è quel Giovanni Racine, che si pentiva di avere scritte rime d'amore. Che
di questi due uomini il debole fosse il secondo, si può certamente dire,  se  ne
dicono tante! ma per me, non posso persuadermene. - Dunque  secondo  voi,  aveva
ragione di pentirsi: dunque se non fosse rimasto che un esemplare delle tragedie
amorose di Racine, se questo esemplare fosse stato in vostra mano, se Racine  ve
lo avesse chiesto per abbruciarlo, per privare la posterità d'un tale  monumento
d'ingegno, voi avreste...? non ardisco quasi interrogarvi.  -  Io  glielo  avrei
dato subito perché quel brav'uomo potesse aver la soddisfazione di gettarlo  sul
fuoco. Come! voi credete che si sarebbe dovuto esitare a  togliergli  dal  cuore
questa spina? Gliel avrei dato subito, perché il  dispiacere  ragionato,  serio,
riflessivo, nobile di Racine era un sentimento più importante, che non sia stato
e non sia per essere il piacere che hanno dato  e  che  sono  per  dare  le  sue
tragedie fino alla consumazione dei secoli.  -  Queste  sono  ciarle;  ma  avete
pensato che con questi stralci voi vi andate scemando sempre più il  numero  de'
lettori; e che se avrebbero potuto essere centinaja, sa il cielo se li conterete
a dozzine? - Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non  arrivo  a  sentire  la
forza di questo inconveniente. - Ma  voi  volete  privarvi  volontariamente  dei
mezzi più potenti di dilettare, di quei mezzi che anche in mano della mediocrità
possono talvolta produrre un grande effetto? - Se le lettere dovessero aver  per
fine di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che  divertirsi,
sarebbero la più frivola, la più  servile,  l'ultima  delle  professioni.  E  vi
confesso che troverei qualche cosa di più ragionevole, di più umano,  e  di  più
degno nelle occupazioni di un montambanco che in una  fiera  trattiene  con  sue
storie una folla di contadini: costui almeno  può  aver  fatti  passare  qualche
momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie; ed  è  qualche  cosa.
Ma, per non ingannarvi, avvertite che in tutte queste ciarle  che  abbiam  fatte
finora, non abbiam detto nulla o quasi nulla sul fondo della quistione. Voi  non
lo avete toccato; ed io sono rimasto, rispondendovi, in  quella  sfera  dove  vi
siete posto: abbiam ciarlato di fuori, come si usa. Che se volete veder  qualche
cosa sul fondo della quistione, andate di  grazia  a  quegli  scrittori  di  cui
abbiam fatto cenno; o pure pensateci un po' seriamente voi stesso.  -  Pensarci?
Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a porre insieme  le  idee
di un Vandalo e d'una  donnicciuola...  -  Sparisci;  e  torniamo  alla  storia.
----------- Dove siamo? Il nostro autore non  lo  dice,  anzi  protesta  di  non
volerlo dire. Abbiam già avvertito che delle due classi fra le quali era  divisa
la società al suo tempo, di circospetti  cioè  e  di  facinorosi,  d'uomini  che
avevano, e d'uomini che facevano paura, egli  apparteneva  alla  prima.  La  sua
timida discrezione  raddoppia  però  a  questo  punto  della  narrazione:  e  il
progresso della narrazione stessa ne fa vedere il motivo. Le avventure di  Lucia
nel suo novello soggiorno si trovano implicate con intrighi tenebrosi, rematici,
misteriosi,  terribili,  di  persone  che  deggiono  essere  state  potenti,   e
imparentate  assai:  e  l'autore  si  scopre  impacciato  tra  il  desiderio  di
raccontare quello che sa, e il  terrore  di  offendere  di  quelle  famiglie  il
mormorare contra le quali era un peccato punito in questo mondo. Quindi egli  va
col calzare del piombo, e narrando i fatti, sopprime tutte  le  indicazioni  che
potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra  queste  indicazioni  anche
quella del luogo. Ma in questa parte almeno egli non è stato destro  abbastanza,
e noi possiamo annunziare senza timore d'ingannarci il luogo dove si  è  fermata
Lucia: poiché l'autore senza avvedersene ci ha dato un filo che condurrebbe alla
scoperta anche un ragazzo. Egli dice in un passo  del  suo  racconto  che  Lucia
giunse ad un borgo nobile e antico al quale di città non mancava  che  il  nome;
altrove parla del Lambro che  vi  scorre:  altrove  ancora  dice  che  v'era  un
arciprete: con queste indicazioni non v'ha in Europa uomo che sappia  leggere  e
scrivere, il quale tosto non esclami: Monza. La madre e la figlia  si  trovavano
dunque, dopo la partenza di Fermo, solette in una osteria di Monza, senza alcuna
pratica del paese, senza alcuna conoscenza, non avendo in così alto  mare  altra
bussola che la lettera del Padre Cristoforo. La lettera  era  diretta  al  Padre
Guardiano  dei  Cappuccini.  Agnese  chiese  conto  del  convento  alla   moglie
dell'albergatore; la quale non lo diede che dopo aver tentata ogni via per avere
un pagamento anticipato di un così picciol servizio, in tante informazioni,  sul
nome e sulla qualità delle donne, sui motivi del loro viaggio, sugli affari  che
potevano avere col Padre Guardiano. Ma le donne, alle quali era stato  dal  loro
protettore raccomandata la discrezione,  seppero  ingannare  le  ricerche  della
ostessa, la quale fu  obbligata  di  insegnar  loro  gratuitamente  la  via  del
convento. Si mossero quindi tosto  benché  dovessero  risentirsi  del  travaglio
della notte e del giorno antecedente: la lepre cacciata non sente la  stanchezza
che quando ha trovato un ricovero. Agnese a cui l'aspetto di Monza non era nuovo
perché v'era passata molti anni addietro, né imponente perché aveva  soggiornato
a Milano, camminava francamente guidando e incoraggiando Lucia, la quale  andava
rasente il muro tutta sospettosa. Girando di via in via, e ad  ogni  rivolta  di
canto trovando ancora vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia  mista  di
non so quale afa, come  chi  vede  una  brutta  grandiosità.  Ma  il  sentimento
predominante di accoramento e di terrore non le dava campo di  esprimere  quello
che allora provava, né di provarlo distintamente e con forza. Giunte alla  porta
del convento, tirarono il campanello, e al portinajo  che  sopravvenne  chiesero
del padre guardiano al quale avevano una lettera  da  consegnare.  Quando  Lucia
vide una tonaca cappuccinesca le parve di  essere  in  paese  conosciuto,  e  si
riebbe alquanto. Il padre guardiano non si  fece  aspettare,  salutò  le  donne,
prese la lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse  con  una
voce che annunziava la compiacenza: «Oh! il  mio  Padre  Cristoforo».  Il  Padre
Cristoforo era stato suo collega nel noviziato; e d'allora in poi  essi  avevano
contratta una amicizia da chiostro, voglio dire una  amicizia  cordiale,  intima
più che fraterna, simile a quelle  che  si  narrano  di  qualche  pajo  d'uomini
dell'antichità, di quelle che si  formano  in  tutte  le  società  separate  con
vincoli particolari dalla società  universale  degli  uomini.  Queste  frazioni,
questi  crocchj  creano  fra  tutti  i  membri  che  li  compongono  un  vincolo
particolare d'interessi, di  amor  proprio  comune  e  di  benevolenza,  vincolo
talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj  accaniti  e  mortali,  ma
forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno della picciola società,
e per dare a quegli stessi che si odiano una apparenza, e una condotta da  amici
ogni volta che essi si trovino in  contrasto  cogli  estranei.  Quando  poi  una
conformità di sentimenti e di inclinazioni, crea fra  due  individui  di  queste
società una benevolenza particolare ella è tanto più forte quanto  più  essi  si
sono scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.  Il  padre
guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhj dal  foglio  e
guardava Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento. Quand'ebbe
terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano sul  mento  barbuto,  e
quindi sulla fronte, e disse, come chi spera di aver trovato quello di che aveva
bisogno:  «Non  c'è  altri  che  la  Signora:  se  la  Signora  vuol   pigliarsi
l'impegno...» Fece quindi a bassa voce  ad  Agnese  alcune  interrogazioni  alle
quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete seguirmi? Io spero di aver  trovato
ove collocare in sicuro questa buona ragazza». Le donne si disser pronte  a  far
tutto ciò che sarebbe da lui suggerito: e  il  padre:  «venite  con  me»  disse;
«statemi soltanto alcuni passi addietro; perché, vedete, il paese è  maligno,  e
Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse il padre guardiano con una bella
giovane, voglio dire con donne per la via». Lucia arrossì, e con la madre  tenne
dietro al guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata. Giunti  al  monastero,
il guardiano si fermò sulla soglia, le aspettò, e raccomandatele alla moglie del
fattore la quale le introdusse in una stanzetta che dava sulla via, progredì nel
cortile promettendo di tornare a momenti. L'interrogatorio della fattora fu come
doveva essere, più imperioso, più astuto, più pressante d'assai  che  non  fosse
stato quello dell'albergatrice; e  Agnese  schermendosi  a  stento,  andava  già
componendo una filastrocca  nella  sua  mente,  perché  vedeva  di  non  potersi
sbrigare senza raccontar qualche cosa, quando per buona sorte, ritornò il  padre
guardiano con faccia giuliva ad annunziare alle donne che la Signora si  degnava
riceverle. La fattora le lasciò partire  guardando  con  dispetto  il  guardiano
ch'era venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel  laccio.
Attraversando il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo  da  tenersi
colla Signora: «Siate umili, e riverenti, raccomandatevi  alla  sua  protezione,
rispondete con semplicità alle interrogazioni ch'ella sarà per farvi,  e  quando
non siete interrogate, lasciate fare a me». Agnese e  Lucia  stavano  in  grande
aspettazione, mista di speranza,  e  di  pensiero  di  questa  Signora:  ma  non
ardirono nemmeno domandare al padre chi ella fosse: probabilmente un lettore  di
questi tempi non sarà così modesto, e per prevenire la sua  impazienza  è  forza
dirgli chi fosse la Signora; ma, come si usa con chi vuol  troppo  pressare,  si
potrà dargli una  risposta,  la  quale  sembrando  soddisfare  a  tutta  la  sua
inchiesta, contenga però solo quel tanto che non  si  potrebbe  tacere.  Era  la
Signora una giovane donna, uscita di sangue  principesco  che  era  stata  posta
dall'adolescenza in quel monistero, e vi aveva  assunto  il  velo,  e  fatta  la
professione. Aveva essa l'incarico di vegliare sulle  fanciulle  che  erano  nel
monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra delle educande;
ma per la sua nascita, per le parentele, e per  la  superiorità  che  queste  le
davano sulle altre sorelle, non era chiamata con altro nome che di  Signora;  ed
era da tutte riguardata, come la protettrice, la donna principe del monistero; e
con una distinzione  unica,  due  suore  erano  destinate  ai  suoi  servigi  ed
abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di  cella.  La
sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del monistero; e
i cappuccini i quali di  generazione  in  generazione,  o  per  meglio  dire  di
vestizione in vestizione, erano ab immemorabili in rapporto  di  amicizia
col monistero, godevano essi pure di questa protezione.  Ecco  perché  il  padre
guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è condotta
ora dinanzi a lei. Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e  da  questa  si
passava al parlatorio; prima di porvi il piede il guardiano, accennando la porta
aperta  disse  sottovoce  alle  donne:  «qui  è  la  Signora»,  come  per  farle
rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia non aveva  mai
veduto  un  monistero:  ponendo  tutta  timorosa  il  piede  sulla  soglia   del
parlatorio, si guardò intorno per vedere dove fosse la Signora a cui  si  doveva
fare  l'inchino,  e  non  iscorgendo  persona,  stava  come  smemorata,   quando
osservando il padre che andava ritto verso una parte, e Agnese che  lo  seguiva,
guatò, e vide un pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi  il  doppio
con una doppia grata la quale togliendo ogni passaggio alla  stanza  vicina,  la
lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla grata vide la Signora in  piedi,
e le s'inchinò profondamente come avevano già fatto  gli  altri  due.  L'aspetto
della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un  po'
conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni. Un  velo  nero  teso
orizzontalmente sopra la testa scendeva a dritta e  a  manca  dietro  il  volto,
sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al mezzo; e la parte che si
vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava  un  candido  avorio
posato in un nitido foglio di carta: ma  quella  fronte  liscia  ed  elevata  si
corrugava di tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si  riavvicinavano
per tosto separarsi  con  un  rapido  movimento.  Due  occhi  pur  nerissimi  si
fissavano talvolta nel  volto  altrui  con  una  investigazione  dominatrice,  e
talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in quegli occhi  un
non so che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea  che  annunziava
qualche cosa di più vivo, di più recondito, talvolta di  opposto  a  quello  che
suonavano le parole che quegli sguardi accompagnavano. Le  guance  pallidissime,
ma delicate scendevano con una curva dolce ed eguale ad un mento rilevato appena
come quello d'una statua greca. Le labbra regolarissime, dolcemente  prominenti,
benché colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure fra quel pallore;  e  i
loro  moti  erano,  come  quelli  degli  occhi,  vivi,  inaspettati,  pieni   di
espressione e di mistero. Una gorgiera bianca, increspata  lasciava  intravedere
una striscia di collo bianco e tornito: la nera  cocolla  copriva  il  rimanente
dell'alta persona, ma un portamento disinvolto, risoluto, rivelava  o  indicava,
ad ogni rivolgimento, forme di alta e regolare proporzione. Nel  vestire  stesso
v'era qua e là qualche cosa di studiato, o di negletto, di stranio  insomma  che
osservato in uno colla espressione del volto dava alla Signora l'aspetto di  una
monaca singolare. La stoffa della cocolla e  dei  veli  era  più  fine  che  non
s'usasse a monache, il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla
benda usciva sulla  tempia  manca  l'estremità  d'una  ciocchetta  di  nerissimi
capegli; il che mostrava o dimenticanza o  trascuraggine  di  tener  secondo  la
regola, sempre  mozze  le  chiome  già  recise  nella  cerimonia  solenne  della
vestizione. Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso
nei gesti della Signora. S'alzava ella talora con impeto a  mezzo  il  discorso,
come se temesse in quel momento di esser tenuta, e passeggiava  pel  parlatorio;
talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi,  senza  che  se  ne
intendesse una cagione,  prorompeva  in  sospiri;  talvolta  dopo  una  lunga  e
manifesta distrazione, si risentiva, ed approvava  con  negligenza  ragionamenti
che la sua mente non aveva avvertiti. Queste cose non  si  facevano  scorgere  a
Lucia non avvezza a scernere monaca da monaca, e neppure ad Agnese: l'occhio del
padre guardiano era certamente più esercitato, ma perciò appunto era avvezzo  ad
osservare senza maraviglia nei grandi sempre qualche cosa  di  straordinario;  e
quindi s'era già da molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora.
Ma ad un viaggiatore che l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe  potuto
parere non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che  nei  paesi
separati dalla comunione  cattolica  facevano  le  parti  di  monaca  in  quelle
commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata. In
quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta  in  piedi,  presso  la  grata,
appoggiata ad essa mollemente con una mano, intrecciando  le  bianchissime  dita
nei fori di quella, e colla faccia alquanto curvata  osservando  quelli  che  si
presentavano, e specialmente Lucia. «Reverenda madre, e signora  illustrissima»,
disse il padre guardiano colla fronte bassa, e con la  destra  tesa  sul  petto;
«ecco  quella  innocente  derelitta,  per  la  quale  imploro  la   valida   sua
protezione». E sulle ultime parole accennava alle donne che accompagnassero  con
atti e con inchini la sua supplicazione; la povera Agnese dopo d'aver  fatto  al
padre un cenno del volto che voleva dire: - so quel che va fatto  -  raddoppiava
gl'inchini, rannicchiandosi, e risorgendo come se una molla interna  la  facesse
muovere, e Lucia s'inchinò pure, da inesperta, ma con una certa  grazia  che  la
bellezza, la giovinezza, e la purità dell'animo danno a tutti  i  movimenti.  La
Signora curvò leggermente il capo verso il  padre  guardiano,  fece  alle  donne
cenno della mano che bastava, e ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti
cenno di sedersi, sedette e sempre rivolta al padre, rispose:  «Ho  appreso  dai
miei antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho  da
essi ereditato che il nome; e son lieta che anche  questo  possa  almeno  essere
buono a qualche cosa. È una buona ventura per me il potere  render  servizio  a'
nostri buoni amici i padri cappuccini». Queste parole furono accompagnate da  un
sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di compiacenza, ad altri di  scherno.
Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo interruppe:  «Non
mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno  con  sè  il
loro guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di  far  conto  sul
ricambio dei nostri buoni padri. Il mondo è pieno di  tristi  e  d'invidiosi:  e
nessuno può assicurarsi che non venga un momento in cui possa  aver  bisogno  di
una buona testimonianza, e d'ajuto». Il guardiano rispose premurosamente con una
frase di gesti: la prima parte  della  quale  significava  che  la  Signora  non
avrebbe mai bisogno di nessuno, e la seconda che  i  padri  avrebbero  tenuta  a
guadagno ogni occasione di far cosa grata alla  Signora.  Questa  proseguì:  «Ma
via; mi dica un po' più particolarmente il caso di questa  giovane,  e  così  si
vedrà meglio che si possa fare per essa». Lucia arrossò tutta, e chinò la faccia
sul seno. «Deve sapere, reverenda  madre»,  cominciò  Agnese,  «che  questa  mia
povera figliuola, perché io sono sua madre...» Il guardiano le gittò un'occhiata
e interruppe. «Questa giovane, signora illustrissima, mi è  raccomandata  da  un
mio confratello: essa ha bisogno per qualche tempo di un asilo nel  quale  possa
stare sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca toccarla; e questo per  sottrarsi
a dei gravi pericoli». «Pericoli!» disse la Signora. «Quali pericoli? di grazia,
padre guardiano. Mi dica la cosa per minuto: ella sa che noi altre monache siamo
vaghe d'intendere storie». «Sono», rispose il  padre,  «pericoli  dei  quali  la
reverenda madre, non  conosce  nemmeno  il  nome,  beata  lei!  e  parlarne  più
distintamente sarebbe offendere le  purissime  vostre  orecchie,  e  contristare
l'illibatezza dei vostri pensieri,  signora  illustrissima».  «Oh!  certamente!»
rispose precipitosamente la signora, senza molto badare all'aggiustatezza  della
risposta; e si fece tutta di porpora. Era verecondia? Chi avesse  osservata  una
subitanea ma viva espressione di scherno  e  di  dispetto  che  accompagnò  quel
rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se lo avesse paragonato con quello
che di tratto in tratto saliva sulle guance di Lucia.  La  Signora  si  alzò  in
fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e stava per rivolgere il discorso a
Lucia, quando il guardiano, tenendo di non aver  mal  detto,  ripigliò  così  il
discorso: «Non tutti i grandi del mondo, si servono dei doni di Dio a gloria  di
lui, e a vantaggio del prossimo, come fa la Signora illustrissima. Un  cavaliere
prepotente e senza timor di Dio, ha tentato ogni via, giacché deggio pur  dirlo,
per insidiare la castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di
lusinga  gli  andavano  falliti,  non  temè  di  ricorrere  alla  forza  aperta,
tentando... insomma di farla rapire. Ma Dio non l'ha  lasciata  cadere  in  quei
sozzi  artigli,  e  le  ha  invece  preparato   un   ricovero   sotto   le   ale
incontaminate...» «Ma voi», disse la Signora  rivolta  repentinamente  a  Lucia,
«voi che dite  di  codesto  signore?  A  voi  tocca  a  dirci  se  egli  era  un
persecutore, e se aveva gli artigli  sozzi».  «Signora,  madre,  illustrissima»,
balbettò Lucia che sarebbe stata confusa a dover rispondere su  questa  materia,
quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una persona sua pari e conosciuta. Ma
Agnese venne in soccorso: «Illustrissima signora», diss'ella, «il suo parlare  è
troppo alto per questa povera figliuola. Ma io posso far testimonio che  la  mia
Lucia aveva in orrore colui, come il diavolo  l'acqua  santa;  voglio  dire,  il
diavolo era egli; ma ella mi compatirà se parlo male, perché noi siam gente come
Dio vuole; del resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava,  un
nostro pari, timorato di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto
un po' più di giudizio; so che parlo d'un  religioso,  ma  il  padre  Cristoforo
amico intrinseco qui del  padre  guardiano,  è  religioso  al  pari  di  lui,  e
davantaggio, e potrà attestare...» «Voi siete ben pronta a  parlare  senz'essere
interrogata», disse la Signora, dando sulla voce ad Agnese. «Non so che fare dei
parenti che rispondono pei loro figliuoli». Agnese voleva  aprir  bocca,  ma  la
signora con tuono ancor più brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole  non
servono a nulla». Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so  che
di sinistro, di feroce che quasi faceva scomparire ogni bellezza,  o  almeno  la
alterava di modo che chi avesse osservato quel volto in quel  punto  ne  avrebbe
conservata una immagine disgustosa per sempre. I suoi guardi erano  fissi  sopra
Agnese, torvi e sospettosi, come  se  cercassero  a  raffigurare  un  nemico.  E
continuò: «Voi fate conto forse, che perché io  son  qui  rinchiusa,  fuori  del
mondo, senza esperienza, mi si possa dare ad  intender  qualunque  cosa.  Povera
donna! appunto perché son qui, sono men facile  ad  essere  ingannata  su  certe
materie. Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un  uomo
compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è  così  allegro!  in  così
bella situazione! così tranquillo! è un  paradiso!  Poveretti!  portano  invidia
alla loro figlia; vorrebbero anch'essi ritirarsi in quel porto di  pace,  ah!  a
far vita beata: ma... pur troppo sono legati nel  mondo.  Scusi  il  mio  caldo,
padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo  bene  come  vanno
queste cose, la menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più solenne
è quella che sta sul labbro di colui che vuole sagrificare i suoi figli,  e  far
loro violenza. Questi sono i peccati, contra i quali si  dovrebbe  predicare:  a
costoro bisognerebbe minacciare l'inferno». A queste parole, la Signora, si pose
a sedere tutta turbata, ed ognuno si sarebbe avveduto  che  un  pensiero  che  i
discorsi di Agnese avevan fatto nascere, dominava allora la sua mente, e che gli
affari di Lucia non erano che un oggetto di  considerazione  secondaria.  Agnese
intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le  avesse  tirata
addosso questa tempesta, il guardiano voleva pure animar  Lucia  a  parlare,  ma
questa animata già dalla  circostanza,  si  avvicinò  alla  grata,  e  in  tuono
modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto  la  mia  buona
madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava», e qui arrossò,  «lo  sposava
io... di mio genio, mi perdoni se parlo da sfacciata, ma  è  per  difendere  mia
madre: e quanto a quel signore...» «Buona fanciulla», interruppe la Signora  con
voce raddolcita, «credo un po' più a voi, ma non vi credo ancora del  tutto.  Vi
ha due linguaggi che si somigliano; quello che parte  dal  fondo  del  cuore,  e
quello d'una figlia oppressa che dice il falso per terrore, e protesta di  amare
ciò ch'ella abborre più  al  mondo.  Voglio  sentirvi  da  sola  a  sola.  Padre
guardiano, se ella conoscesse per testimonianza  degli  occhi  suoi  i  casi  di
questa giovane, certo ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella  non  li  conosce
che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza  fatta  ad  una
povera giovane...» «Il Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi  ha  posto
nelle mani questo affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire  una
violenza, ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi. Stimo però  cosa
molto savia, che la Signora  illustrissima,  esamini  col  suo  senno  consumato
questa faccenda, e spero che l'esame  mostrandole  la  verità  dell'esposto,  la
determinerà ad accordare il suo appoggio a questa  famiglia  perseguitata».  «Lo
spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di  far
dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò fare, prego
il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua intromissione. Per  ora
ecco quello che mi  sovviene  di  poter  fare.  La  fattora  del  monistero,  ha
collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa giovane potrà  occupare
la stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi servigj ch'ella faceva.  Ne
parlerò colla madre Badessa, ma da quest'ora, le dò la cosa  per  fatta,  sempre
che Lucia ne sia contenta». Il guardiano  proruppe  in  ringraziamenti,  che  la
Signora  troncò  gentilmente,  ma  lasciando  però  capire   che   ella   faceva
assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una delle  monache
che le facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad  Agnese
che andasse alla porta del chiostro, per intendersi  con  la  monaca  e  con  la
fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed
a Lucia. Il Padre si congedò,  promettendo  di  ritornare  ad  informarsi  della
decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e  Lucia  rimase  sola  con  la
Signora a subire l'esame.

CAPITOLO II

LA SIGNORA, TUTTAVIA

Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo  trascritto  non  annunziavano
certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata  in  tutto
quel colloquio per comparire una monaca come le altre. Ma quando ella  si  trovò
sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva  le  osservazioni
di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i suoi  discorsi
divennero sì stranj, per una monaca singolarmente,  che  prima  di  riferirli  è
necessario raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le  passioni  e  i
fatti che  rendevano  tale  il  suo  linguaggio.  Questi  fatti  sono  tristi  e
straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria fossero comuni  molte
cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità di un  anonimo  non  avrebbe
bastato a farci prestar fede a quello che siam per narrare: frugando quindi  per
vedere se altrove si  trovasse  qualche  traccia  di  questa  storia,  ci  siamo
abbattuti in una testimonianza la quale non ci  lascia  alcun  dubbio.  Giuseppe
Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di  Milano  etc.,  scrittore  di  quel
tempo, che per le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli  scritti
del quale si scorge una attenzione di osservatore non comune, e un candore quale
non si può simulare, il Ripamonti racconta di questa infelice cose più forti  di
quelle che sieno nella nostra storia; e noi  ci  serviremo  anzi  delle  notizie
ch'egli ci ha lasciate per render  più  compiuta  la  storia  particolare  della
Signora. Queste cose però,  quantunque  rese  più  che  probabili  da  una  tale
testimonianza, e quantunque essenziali al  filo  del  nostro  racconto,  noi  le
avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto  il  racconto,  se  non  avessimo
potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento  d'animo  nella  Signora,
che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che  deggiono  fare  i
primi fatti della Signora, ma deve creare una impressione  d'opposto  genere,  e
consolante. Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e ciò per
non offendere coloro ai quali il rimettere  nella  memoria  degli  uomini  certe
colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno terminate  con  un  grande
esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo inutile, comunque uno  le
esponga. Senza esaminare il valore di questo modo di  sentire,  noi  lo  avremmo
rispettato, quando ciò non costava altro che di sopprimere un libro. Che se  poi
altri volesse censurare queste scuse come  inutili,  e  ci  accusasse  di  cader
sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l'arcolajo ad
ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a  fare  un'altra  digressione,  e  a
rispondergli così: - Il manoscritto unico, in  cui  è  registrata  questa  bella
storia degli sposi promessi, è  in  mia  mano:  se  la  volete  sapere,  bisogna
lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla,
se il modo con cui è raccontata  vi  annojasse,  giacché  dagli  uomini  si  può
aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica.  Il  Padre
della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri
molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai
potuto persuadersi  che  una  figlia  dovesse  costargli  una  parte  delle  sue
ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico  giurato,  e  non  di
figlia sommessa  ed  amorosa;  superbo,  non  avrebbe  creduto  che  nemmeno  il
risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno
della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che  potesse
mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi
doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del suo stato  il  conservarne
l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano
stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno  domandato  ragione.
Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e
tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi  in
un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire. Tale fu il destino  della
Signora dal primo momento della sua vita; e quando una  donzella  della  signora
Marchesa venne con l'aria confusa di chi confessa un fallo,  a  dire  al  signor
Marchese: «è una femmina»; il signor  marchese  rispose  mentalmente:  -  è  una
monaca -. Si pose quindi a frugare il Leggendario per cercarvi alla  sua  figlia
un nome che fosse stato portato da una santa  la  quale  avesse  sortito  natali
nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che  senza  esser
volgare richiamasse al solo esser proferito l'idea  di  chiostro;  e  quello  di
Geltrude gli parve fatto apposta per la sua neonata. Bambole vestite  da  monaca
furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani; e il  padre,  facendola
saltare talvolta sulle ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa. A  misura
ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue  forme  si  svolgevano  in  modo  che
prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e  nello  stesso
tempo ne' suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande
avversione all'obbedienza,  e  una  grande  inclinazione  al  comando,  un  vivo
trasporto pei piaceri e  pel  fasto.  Di  tutte  queste  disposizioni  il  padre
favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo
considerava come una virtù della sua condizione;  egli  era  superbo  della  sua
figlia come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in  essa  gli
alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che manifestavano  un'anima
nata a governare qualunque monastero. Della bellezza né egli, né la madre, né un
fratello destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la
Signora ne fu informata dalle donzelle, alle quali prestò  fede  immediatamente.
Benché la condizione alla quale il padre l'aveva destinata fosse  conosciuta  da
tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse però mai:  -  tu  devi
esser monaca -. Era questa come una idea innata; e  quando  veniva  il  caso  di
parlare dei destini futuri della fanciulla, questa idea si dava per  sottintesa.
Accadde per esempio che alcuno della casa correggendola di qualche aria d'impero
troppo oltracotante, gli diceva: «tu sei  una  ragazzina,  questi  modi  non  ti
convengono; quando sarai la madre  badessa,  allora  comanderai,  farai  alto  e
basso». Talvolta il padre le diceva: «tu non sarai una  monaca  come  le  altre:
perché il sangue si porta da per tutto dove si va»; e simili discorsi nei  quali
la Signora apprendeva implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca. Confusa  con
questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra, che per  esser
monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa  cosa  tanto  certa
non era però fatta, e che il farla o non farla  sarebbe  dipenduto  da  una  sua
determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti si acconciavano  nella  sua
mente come potevano: perché se un uomo non  dovesse  star  tranquillo  che  dopo
d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità. A sei
anni fu posta in un monistero e per educazione, e per istradamento alla carriera
che le era prefissa. Quale coltura d'ingegno potesse riceversi a quei  tempi  in
un monastero, è facile argomentarlo dalla coltura universale, e  questa  si  può
argomentare dai libri che ci rimangono di quell'epoca. Ora  basti  il  dire  che
nella prima metà del secolo decimosettimo non uscì ch'io  sappia  in  Milano  un
libro, non dico insigne di  pensiero,  ma  scritto  grammaticalmente:  dimodoché
dalla ignoranza universale si può francamente supporre che alle giovani di  quel
tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è di più chiaro, di più certo, di
meglio digerito nelle cognizioni umane, la storia  romana.  Ma  quello  che  più
importa di dire nel caso nostro si è  che  quella  parte  di  educazione  che  i
fanciulli riuniti in comunità si danno sempre fra di loro, operò  nella  Signora
un effetto contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi. Fra le
giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate a
splendidi  matrimonj,  perché  così  voleva  l'interesse  delle  famiglie  loro.
Geltrudina nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente  dei
suoi destini futuri di badessa,  e  a  quello  splendido  che  la  fantasia  dei
fanciulli vede sempre nella condizione di quelli  che  comandano  loro,  la  sua
fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più, perché le era stato detto
tante volte: - tu non sarai una monaca come le altre -. Ma  ella  s'accorse  con
maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle sue compagne non  sentivano
punto d'invidia di questo suo avvenire; e alle immagini  circoscritte  e  scarse
che può somministrare anche  ad  una  fantasia  adolescente  il  primato  in  un
monastero, opponevano le immagini varie e luccicanti di  sposo,  di  palagi,  di
conviti, di villeggiature, di veglie, di  tornei,  di  abiti,  di  carrozze,  di
livree, di braccieri, di paggi.  Queste  immagini  produssero  nel  cervello  di
Geltrudina quel movimento, quel ronzio, quel bollore  che  produrrebbe  un  gran
paniere di fiori, appena colti, collocato davanti ad un'arnia. Sulle prime  ella
volle competere con le compagne, e sostenere la  superiorità  della  condizione,
che le era destinata; ma quanto più ella cercava di magnificare le  sue  dignità
future, tanto più le esponeva ad un terribile genere  di  offesa,  il  ridicolo;
sentimento  che  quelle  spavalducce  applicavano   più   naturalmente   e   più
saporitamente alle dignità che vantava  Geltrude,  appunto  perché  le  vedevano
esercitate dalle loro superiore; sorta di persone per le quali la puerizia prova
così facilmente l'ammirazione, come lo scherno. E quel che è peggio,  Geltrudina
non poteva rivolgere le stesse armi contro le avversarie, perché le ricchezze  e
la voluttà non sono di quelle cose delle quali si ride in questo mondo: si  ride
bensì di chi le desidera senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente;
e questo ridere mostra l'alta estimazione in cui sono  tenute  le  cose  stesse:
quei pochi che non le stimano, non esprimono il loro giudizio con la  derisione.
Geltrudina quindi per non restare al disotto non aveva altro  a  rispondere,  se
non che, ella pure avrebbe potuto  pigliarsi  uno  sposo,  abitare  un  palagio,
essere strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto,  se  lo  avesse
voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti. Quell'idea  che  le
stava rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso  era  necessario
perch'ella fosse monaca, e che  questo  assenso  dipendeva  da  lei,  si  svolse
allora, e divenne perspicua e predominante. Con questo pensiero ella  si  teneva
bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e  di  rancore
contra quelle sue compagne le quali  erano  ben  altrimenti  sicure,  e  ch'ella
avrebbe amate se la loro condizione non  le  fosse  stata  ad  ogni  momento  un
confronto doloroso. Perché questa sventurata non aveva un animo ostile,  non  si
dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue  passioni  erano  tanto  violente  e
tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò  che  poteva  essere  ad
esse  di  ostacolo,  offenderle,  contristarle,  diveniva  per  lei  oggetto  di
avversione, e sarebbe stato vittima del  suo  furore  quand'ella  avesse  potuto
impunemente sfogarlo. In questo stato di  guerra  mentale  giunse  Geltrudina  a
quella età così critica, che separa l'adolescenza  dalla  giovinezza;  a  quella
età, in cui una  potenza  misteriosa  entra  nell'animo,  solleva,  ingrandisce,
adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte  le  idee
che vi trova. Assoluta innocenza di pensiero; massime e  pratiche  di  Religione
ragionata; occupazioni utili e interessanti, esercizj  frequenti  e  dilettevoli
del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori, sono  i
mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa,  e  per  formare
una mente tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della  giovinezza  e  di
tutta la vita. Ma le circostanze della povera Geltrude erano ben diverse:  tutto
tendeva per essa  a  realizzare  ogni  pericolo  di  quella  età  e  a  renderla
turbolenta, e funesta per l'avvenire. Pochissimi lavori, e lo studio  del  canto
sopra  parole  d'una  lingua  sconosciuta,  non  erano  esercizj  che  potessero
impadronirsi della mente di Geltrude, e  trattenerla  dal  vagare  in  un  mondo
ideale. Gli esercizj corporali consistevano  in  un  giro  quotidiano  dell'orto
claustrale. La confidenza e la comunicazione delle idee era quale  può  trovarsi
con persone le quali non pensano a conoscere un animo per  dirigerlo  nella  sua
scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata. E, quanto alla Religione, ciò
che è in essa di più essenziale, di  più  intimo,  ciò  che  fa  resistere  alle
passioni, e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni
soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva  dalla  corruttela,  e  mette  in
avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato  mai  istillato
né meno insegnato alla picciola Geltrude;  anzi  il  suo  intelletto  era  stato
nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione. Non vogliamo qui parlare  di
alcuni pregiudizj, che a quei tempi  principalmente  si  ritenevano  per  verità
sacrosante, e s'insegnavano insieme con le  verità,  pregiudizj  non  del  tutto
estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj dannosi principalmente  perché
nella mente di molti associano all'idea della Religione quella della credulità e
della sciocchezza, e dei quali perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la
distruzione; ma pregiudizj che in gran parte  non  tolgono  l'essenziale,  e  si
possono combinare con un sentimento di pietà profonda e sincera, e con una  vita
non solo innocente, ma operosa nel bene, e sagrificata all'utile altrui, del che
tanti esempj hanno lasciati  i  tempi  trascorsi,  e  ne  offrono  fors'anche  i
presenti. Ma, come abbiamo veduto,  i  parenti  di  Geltrude  l'avevano  educata
all'orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad  ogni
sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il  padre  principalmente,
che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella  sarebbe
stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra  sè  e  sè  questa
obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata:  caso  difficile,
ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi. Supponendo  adunque
che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto rimanervi,  bisognava
trovar qualche cosa che la allettasse  ad  abbandonarlo,  per  non  usare  della
semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre  odioso,  e  che  poteva  lasciar
qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non  desiderava  che
la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca. Il Marchese
Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni aerei: non  aveva  perduto
il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di pratica, quel  che
si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna  prendere  gli  uomini  come
sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza
l'interesse l'uomo non si determina a nulla in questo mondo. Così per  prevenire
all'interesse che il secolo poteva offrire a Geltrude, egli si era  studiato  di
far nascere nel suo cuore quello della potenza e del  dominio  claustrale.  Egli
aveva pensato ed operato colla dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo  il
quale desse il fuoco alla casa di un nimico posta  a  canto  alla  sua,  con  la
intenzione che quella sola dovesse andare in fumo ed in  faville.  Ma  il  fuoco
appiccato ch'ei sia non si lascia guidare dalle intenzioni dell'incendiario,  va
dove il  vento  lo  spinge,  e  si  trattiene  a  divorare  dove  trova  materia
combustibile; e le passioni svegliate una volta non ricevono più la legge di chi
le ha ispirate, ma si volgono agli  oggetti  che  la  mente  apprende  come  più
desiderabili. L'orgoglio di giovane vagheggiata, adorata, supplicata  con  umili
sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi
ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di  madre  badessa,  e  in  quello
tutta s'immerse la fantasia orgogliosa di  Geltrudina.  Cominciò  dunque  a  far
castelli in aria, a figurarsi un giovane  ai  piedi,  a  levarsi  spaventata,  e
fuggire dicendo: - come ha ella ardito di venir qui? - e non ricordava  più  che
il giovane senza una sua chiamata non sarebbe certo  venuto  a  disturbarla.  Ma
quella fuga e quell'asprezza non  erano  a  fine  di  scacciarlo  daddovero:  il
giovane  non  perdeva  coraggio;  nascevano  nuovi  casi,  e  tutto  finiva  col
matrimonio, come la più parte delle commedie. Richiamava alla memoria quel  poco
che aveva veduto dei passeggi della città, e  vi  girava  in  carrozza,  innanzi
indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il  comando,  e
rifaceva tutto per suo uso,  ma  in  un  modo  più  splendido.  Questi  pensieri
l'assediavano  nel  dormitorio,  nel  refettorio,  nell'orto,  nel  coro;   ella
confrontava col brillante di essi, lo squallido  che  aveva  sott'occhio,  e  si
confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che  si  aspettava  da
lei. Le monache si accorsero di  questa  sua  risoluzione  ch'ella  non  cercava
nemmeno  di  nascondere  affatto;  poiché  malgrado  la   fermezza   di   questa
risoluzione, Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre
di sua bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte:  poiché  in
quel caso non le restava che di sopportare la collera e le  minacce  del  padre;
operazione passiva che le pareva molto più facile,  che  di  pronunziare  quelle
parole: «non voglio». La poverina faceva come colui che avendo da  dire  qualche
cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e gli manda le sue idee in un
bel foglio di carta. Ma se la determinazione traspariva, i motivi  erano  celati
alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza che  la
faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di chi comanda loro; essa
li nascondeva con quella dissimulazione profonda che è data a quella età, e  che
forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita,  e  che  appena  appena
potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come  si  dice,  gli
uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri.
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto  o  saputo
osservare, dalle materie più frequenti  del  suo  discorso,  dall'entusiasmo  al
quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola  stizza  se  non  altro  nella
quale  l'invidia  era  trasparente,  avrebbero  potuto  conoscere  qualche  cosa
dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è
una parte di stranio, di fantastico, di  individuale  che  non  si  confida,  né
s'indovina, a quel che dice il  manoscritto.  Venne  finalmente  il  momento  di
levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per qualche tempo nella casa e nel
mondo. Il passo era spiacevole assai pel Marchese Matteo, ma inevitabile, perché
una ragazza allevata in un monastero  non  poteva  far  la  domanda  di  esservi
ammessa ai voti se non dopo esserne stata fuori per qualche  tempo.  Era  questa
una formalità destinata ad assicurare alle figlie la libera scelta dello  stato;
giacché ognun vede che sarebbe  stato  troppo  facile  di  fare  abbracciare  il
monastico ad una giovane, che rinchiusa nel chiostro  dall'infanzia  non  avesse
mai avuta idea di altro modo di vivere. Nessuno ignora  che  le  formalità  sono
state inventate dagli uomini per accertare la validità  di  un  atto  qualunque;
assegnando anticipatamente i caratteri che quell'atto deve avere per  essere  un
atto daddovero. Invenzione che mostra affè molto ingegno: invenzione utile, anzi
necessaria, perché la più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono
appunto per decidere se una cosa sia fatta o non fatta. Ma tutte  le  invenzioni
dell'ingegno umano partecipando della  sua  debolezza  non  sono  senza  qualche
inconveniente: e le formalità ne hanno due. Accade talvolta che dove gli  uomini
hanno deciso che una cosa non può esser realmente fatta  che  nei  tali  e  tali
modi, la cosa si fa realmente in modi  tutti  diversi  e  che  non  erano  stati
preveduti. In questo caso, la cosa non vale, anzi non è fatta. E  non  andate  a
farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è fatta;  egli  lo
sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa stessa una distinzione
profonda; vede, e vi insegna che la cosa materialmente è fatta,  legalmente  non
è. Dall'altra parte accade pure, che dopo essere stato  dagli  uomini  predetto,
deciso, statuito che, dove si trovino i tali e tali caratteri esiste  certamente
il tal fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che  pare
impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri
senza fare la cosa stessa. In questo secondo caso  bisogna  riguardare  la  cosa
come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a riflettere,  o
di semplicità rustica affatto colui che, ostinandosi  ad  esaminare  il  merito,
volesse dimostrare che  la  cosa  non  è.  Guaj  se  si  desse  retta  a  queste
chiacchere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di  turbare  il
bell'ordine che  si  ammira  in  questo  mondo.  Ma  questi  caratteri,  se  non
infallibili,  sono  almeno  stati  scelti  dopo  accurate  osservazioni,   senza
passioni, né secondi fini, in tempi nei  quali  gli  uomini  fossero  abbastanza
esercitati nel riflettere su quello che vedevano per circostanziare i fatti  che
dovevano essere dopo di loro? Ah! qui è  la  quistione;  ma  per  trattarla  con
qualche fondamento converrebbe fare la storia  del  genere  umano;  dal  che  ci
asteniamo, e perché a dir vero, non l'abbiamo tutta sulle dita, e  perché  siamo
per ora impegnati a raccontare quella di Geltrude, in quanto ella è necessaria a
conoscere la storia ancor più vasta degli sposi promessi. Per accertare  adunque
la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era prescritto che ella ne
stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine che in questo  tempo  ella
dovesse esser condotta a vedere  spettacoli,  ad  assaggiare  divertimenti,  per
conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare per farsi monaca. E  prima  di
vestir l'abito, doveva essere  esaminata  da  un  ecclesiastico,  il  quale  con
interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se ella  non  si
faceva illusione, se il suo proposito era insomma  libero  e  ragionato.  Queste
formalità però avevano  certamente  il  secondo  inconveniente  di  cui  abbiamo
parlato; tutto poteva andare in  regola,  e  la  giovinetta  infelice  chiudersi
contra sua voglia. La cosa poteva accadere in molti modi: ch'ella  sia  talvolta
accaduta è un fatto troppo  noto,  e  troppo  vero:  chi  volesse  ostinatamente
negarlo, abbia almeno la discrezione di non affermar mai di  quelle  verità  che
sono contrastate, perché la sua affermazione  diverrebbe  un  argomento  di  più
contro di esse.  Benché  Geltrudina  sapesse  benissimo  ch'ella  andava  ad  un
combattimento, pure il giorno della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto
per  lei.  Oltrepassare  quelle  mura,  trovarsi  in  carrozza,  veder  l'aperta
campagna, e quel ch'è più entrare nella città, furono sensazioni più  forti  che
non fosse il  pensiero  dei  contrasti  che  aveva  a  sopportare.  Per  uscirne
vittoriosa aveva la poveretta composto un piano nella sua mente.  -  O  vorranno
ottenere il loro intento colle buone,  diceva  ella  tra  sè,  o  mi  parleranno
brusco. Nel primo caso io  sarò  più  buona  di  essi,  pregherò,  li  moverò  a
compassione: finalmente non domando altro che di  non  essere  sagrificata.  Nel
secondo caso, io starò ferma; il «sì» lo debbo dire io, e non  lo  dirò.  -  Ma,
come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne  né  l'una  né
l'altra cosa ch'ella aveva pensata. I  parenti  avvertiti  dalle  monache  delle
disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi;  e  non  le  fecero  per
qualche tempo nessuna proposizione né  con  vezzi,  né  con  minacce.  Solo  dal
contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea,  e  da  qualche
parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non già  di
ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno venire in capo  ad  alcuno
della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia. Così ella non trovava mai
un varco per venire alla dichiarazione che era pure  indispensabile;  e  i  modi
secchi, laconici, altieri che si usavano con lei non le davano nemmeno il  campo
di potere avviare un discorso fiduciale ed amichevole il quale di passo in passo
la conducesse a toccare il punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di
farsi intendere. Che s'ella sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava
pure a volere famigliarizzarsi con alcuno della famiglia,  se  senza  lamentarsi
implorava velatamente  un  po'  di  amore,  se  si  abbandonava  ad  espressioni
confidenziali, e affettuose, ella  si  udiva  tosto  gittar  qualche  motto  più
diretto e più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che
l'amore della famiglia non era cessato  per  lei,  ma  sospeso,  e  che  da  lei
dipendeva l'esser trattata come una figlia  di  predilezione.  Allora  ella  era
costretta a  ritirarsi,  a  schermirsi  da  quelle  tenerezze  che  aveva  tanto
ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto.  Si  accorava  e  si  andava
sempre più perdendo d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva a  qual
altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il non veder mai un  volto  amico,  ma  le
immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata la rendevano
sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e splendido che ognuno,
e i giovani particolarmente,  si  formano  nella  fantasia,  per  fuggire  dalla
considerazione di oggetti che attristano. Ritornava ella dunque più  che  mai  a
quei suoi  sogni  del  monastero,  e  si  creava  fantasmi  giocondi  coi  quali
conversare. Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata
quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti doveva venir  dopo  quella
domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di non  fare.  Rinchiusa  per
una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata dalla sala ogni volta che
una visita vi si presentasse, non mai condotta in altre case,  come  avrebb'ella
mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del monastero, che,  senza  contare
continua
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