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Edmondo De Amicis - La maestrina degli operai

Edmondo De Amicis download
LA MAESTRINA DEGLI OPERAI

di

EDMONDO DE AMICIS



Una delle più belle scuole suburbane  di  Torino,  che  son  tutte  nuove  e  di
bell'aspetto, è quella del piccolo sobborgo di  Sant'Antonio,  posto  un  miglio
fuor di porta e abitato in gran parte da contadini e da  operai  di  due  grandi
fabbriche di ferramenti e di acido solforico, che lo riempion  di  rumore  e  lo
copron di fumo. Il sobborgo è formato da una sola strada diritta,  fiancheggiata
di piccole case e d'orticelli, dalla quale si spicca un largo viale,  che  corre
nella campagna aperta: in fondo a questo v'è la chiesa, solitaria, e dall'un dei
lati, sul confine d'un campo, la scuola.  L'edifizio,  piccolo  e  grazioso,  ha
cinque stanzoni al  pian  terreno,  per  le  cinque  classi  elementari,  e  due
camerette per il cantoniere e sua moglie che servon da bidelli,  e  al  pian  di
sopra, i quartierini per le quattro maestre e un maestro, che hanno ciascuno due
camerette e una cucina. Agli  insegnanti  appartengono  cinque  orti  minuscoli,
chiusi nel muro di cinta del cortile, e coltivati dal bidello, che tien per sé i
legumi e dà al primo piano  le  fragole  e  i  fiori.  Questa  piccola  famiglia
scolastica, non visitata che rare volte dall'ispettore di Torino, se ne vive  là
come  in  una  villetta,  tranquilla  e  libera;  senonché  le   delizie   della
villeggiatura le sono molto scemate da quattro  mesi  di  freddo  e  di  nebbia,
durante i quali il luogo è uggioso e  la  solitudine  triste.  Era  appunto  una
giornata grigia e cruda della fin di novembre,  e  la  giovine  maestra  Varetti
stava guardando con maggior tristezza  del  solito,  dalla  finestra  della  sua
cameretta, i tetti bassi del sobborgo, al di sopra dei quali fumavano  i  camini
altissimi delle officine, e la vasta pianura coperta  di  neve,  chiusa  lontano
dalle Alpi bianche, velate dalla nebbia. L'uggia della stagione e del  luogo  le
era accresciuta dal pensiero molesto di dover incominciare  il  giorno  dopo  la
scuola serale degli adulti a cui l'aveva destinata la Direzione delle scuole  di
Torino, essendosi fatta dispensare da quell'ufficio, dopo un  mese  e  mezzo  di
lezioni, la moglie del  maestro  Garallo,  per  indebolimento  improvviso  della
vista. Ella non sarebbe stata così inquieta se avesse dovuto far  quella  scuola
in un altro villaggio  qualsiasi;  ma  le  davan  pensiero  quei  contadini  del
suburbio; guasti  dalla  vicinanza  della  città,  dove  andavano  a  passar  la
domenica, e donde ogni giorno di festa veniva là uno sciame di barabba a giocare
e a straviziar nelle osterie, triplicate di numero dopo che v'era il tranvai; la
intimidivano anche di più gli operai,  meno  rispettosi  dei  contadini  e  meno
maneggevoli, fra i quali si diceva che ci fossero dei socialisti; e  più  ancora
che gli uomini fatti, tutti quei ragazzi tra i dieci e i  sedici  anni,  ch'essa
vedeva uscire a frotte dalle fabbriche, maneschi, sboccati, insolenti e, a  quel
che le dicevano, più sfrontatamente corrotti e viziosi dei  grandi.  Ma  la  sua
inquietudine derivava pure da ragioni particolari della sua natura e  della  sua
vita. Figliuola d'un maggiore  di  fanteria,  di  famiglia  nobile,  morto  alla
battaglia di Custoza, vissuta fino di diciott'anni  in  un  collegio  severo  di
provincia, timida e gentile di natura, aveva avuto fin da bambina una specie  di
terrore fantastico della plebe, effetto d'una malattia grave, che le era nata da
una violenta commozione di spavento, per aver visto dalla finestra di  casa  sua
una rissa sanguinosa d'operai minatori. Essa credeva assai più numerosa, e anche
più malvagia che non sia, quella parte infima del popolo che vive in  uno  stato
di ribellione perpetua a tutte le leggi sociali, e che dà la maggior folla  alle
carceri e alle galere: questa, nella  sua  immaginazione,  era  quasi  la  plebe
intera; e il pensiero di quel vasto sotterraneo tenebroso, ch'ella  si  figurava
aperto sotto i suoi piedi, nel quale correvano rigagnoli di vino e di  sangue  e
lampeggiavan coltelli e sonavan grida d'assassinati e bestemmie orrende e  canti
osceni di malfattori e di donnacce,  l'affannava  quasi  di  continuo  come  una
visione orribile, da cui non si poteva  liberare.  Quando  qualcuno  le  passava
accanto, che le paresse di quella gente, le correva un brivido per  le  vene;  a
una frase  del  loro  gergo,  che  le  venisse  per  caso  all'orecchio,  le  si
accapponava la pelle; e al solo veder per  la  strada  un  principio  di  rissa,
impallidiva come una morta, si sentiva  fuggire  le  forze,  rientrava  in  casa
tremante da capo a piedi, sconfortata dell'umanità e della vita. Sentiva non  di
meno per quegli esseri  una  curiosità  viva  ed  inquieta,  che  la  forzava  a
guardarli; quando poteva, di nascosto, a meditar le loro  frasi  colte  a  volo,
come manifestazioni parziali del loro animo,  a  rintracciar  particolari  della
vita e della natura loro nelle cronache dei  giornali,  dov'eran  raccontate  le
loro gesta. E questo terrore morboso cercava in ogni modo di  vincerlo,  poiché,
buona e religiosa  com'era,  sentiva  che  derivava  da  fonte  impura,  da  una
insufficiente  comprensione,  da   un   sentimento   non   abbastanza   profondo
dell'ingiustizia sociale, della miseria,  dell'ignoranza  e  del  malo  esempio,
cagioni prime dell'abbrutimento e del delitto.  E  quand'era  chiusa  nelle  sue
meditazioni, capiva e sentiva tutto ciò vivamente, s'impietosiva per coloro  che
l'atterrivano, li amava d'amor cristiano, sognava anzi un'opera redentrice,  una
legione di signore missionarie di bontà e di gentilezza tra la plebe, immaginava
se stessa dedicata a quell'opera, entrava col pensiero nei luoghi più abbietti a
tentar d'aprire e di ammollire i cuori, e le pareva che ci sarebbe  riuscita,  e
si eccitava in questa immaginazione fino a piangerne di tenerezza, e  s'illudeva
d'aver acquistato, come per un miracolo, il coraggio, tanto da fermar nell'animo
di mettersi alla prova, alla prima occasione. Ma un'ora dopo, se le accadeva  di
passar davanti a una delle fabbriche del sobborgo mentre n'usciva l'onda nera  e
tumultuosa degli operai, la riprendeva con tutta  la  sua  forza  il  sentimento
consueto, e ogni sforzo ch'ella facesse per resistervi, era vano. Quando la sera
della domenica, stando alla finestra, vedeva in fondo al viale la lanterna rossa
e l'uscio illuminato dell'osteria della  Gallina,  al  primo  suono  delle  voci
sformate e minacciose che annunziavano una baruffa, all'immagine  esecrata,  che
le si presentava subito, dei coltelli branditi e d'un cadavere steso sulla  via,
le pigliava una debolezza mortale dalla nuca alle reni, un  senso  inesprimibile
d'impotenza, come una  paralisi  improvvisa  del  corpo  e  dell'anima,  che  le
lasciava appena la forza di chiudere le imposte. E non potendo far altro cercava
di fortificarsi l'animo prendendo familiarità  coi  suoi  piccoli  alunni  della
seconda classe, pensando che molti di essi, fatti grandi,  sarebbero  pur  stati
come quegli uomini che le mettevan tanto terrore, bevitori, rissosi,  pronti  al
coltello,  feroci.  E  con  questo  pensiero  li  osservava   curiosamente,   li
interrogava, s'ingegnava, di scoprire in loro i germi delle passioni violente  e
brutali che li avrebbero agitati più tardi. Ma i suoi studi le giovavan poco. La
più parte erano apatici a segno che non si cacciavan neppure le mosche dal  naso
e dagli occhi mentre leggevano, e quanto al penetrar nel loro  cuore,  l'impresa
era così difficile, che in un anno e più da che si trovava a Sant'Antonio,  essa
non era ancora riuscita a farne piangere un  solo.  La  classe  sociale  che  le
turbava l'anima rimaneva sempre davanti  alla  sua  immaginazione  misteriosa  e
terribile come prima.

Tutta compresa di quel pensiero, ella seguitava con l'occhio  un  treno  lontano
della strada ferrata, che rigava la pianura bianca, quando fu distratta  da  una
visita, che a quell'ora non s'aspettava più. Era la maestra Mazzara, arrivata da
Torino col tranvai: veniva una volta il mese a trovar la  sua  amica  suburbana,
come la chiamava, quasi sempre il dopo pranzo del giovedì. Era maggiore  di  lei
di dieci anni, alta e secca, tutta nervi, con una  carnagione  di  un  rosso  di
prosciutto crudo, e aveva due begli occhi grigi curiosissimi, scintillanti sopra
un  naso  a  falcetto,  di  sotto  al  quale  s'apriva  una  fontana  di  parole
inesauribile, che qualche volta pareva  che  s'ingorgasse  all'orifizio,  e  non
potesse uscire per la troppa furia. Baciata l'amica, le disse quello  che  aveva
già fatto nella giornata: aveva girato l'ingirabile: s'era  levata  alle  sette,
era andata a trovare una sua amica francese, monaca, maestra  nell'istituto  del
Sacré-Cœur, a chieder notizie d'un'altra, malata, maestra nell'Istituto Faconti,
a raccomandare un ragazzo a don Bosco, all'oratorio di via Cottolengo; poi aveva
portato un articolo d'un'amica alla direzione  dell'"Unione  degl'insegnanti"  e
dato una corsa, per un suo affare, alla Società del canto corale, di cui  faceva
parte. "Dopo questo" concluse "ho ancora voluto venire a veder la  mia  Enrica."
Ma, avvicinandosi per ribaciarla, s'accorse della  sua  tristezza,  e  cambiando
improvvisamente viso, voce e atteggiamento: "Che c'è?" le domandò. "Cos'hai? Che
è accaduto?". La Varetti la fece sedere davanti a sé, nel vano della finestra, e
le disse della scuola serale e dei suoi timori. "Non è altro?" domandò vivamente
l'amica, sorridendo. "Oh povera bambina! Tu dovresti  esser  contenta!  Lasciamo
andare che sono ottanta lire al mese di più... Ma tu ti crei  dei  fantasmi.  Ti
assicuro che ti troverai benissimo, invece. La gente del  popolo  è  buona;  non
bisogna badare alla scorza; ci scoprirai delle qualità  di  cui  non  hai  idea.
Vedrai, vedrai. Già, tu lo sai, io sono mezza socialista." Era anche socialista,
infatti; era  un  po'  di  ogni  cosa.  Religiosa  con  le  famiglie  religiose,
democratica con  le  famiglie  del  popolo,  aristocratica  con  l'aristocrazia,
fautrice  dell'"emancipazione"  della  donna  con  le  amiche  "emancipate",   e
affettuosamente piaggiera con tutti, aveva relazione con mezza Torino, bazzicava
cento case, dove dava lezioni e accettava  pranzi,  conosceva  preti,  deputati,
giornalisti, gente bisognosa, che raccomandava da tutte le parti;  aveva  amiche
in tutti gli istituti signorili, era confidente  di  cinque  o  sei  direttrici,
scriveva lettere d'ammirazione, per aver  degli  autografi,  a  uomini  e  donne
illustri,  andava  agli  accompagnamenti  funebri   dei   morti   ragguardevoli,
cacciandosi in mezzo ai parenti per farsi credere amica di casa, presentava  gli
uni agli altri  i  suoi  conoscenti  del  mondo  scolastico-letterario,  rendeva
servizi a tutti, risapeva tutto, s'intendeva di tutto.  Soltanto,  non  scriveva
perché le mancava il tempo; anzi non parlava mai di letteratura, che le  premeva
poco; non era nata che per l'azione, non aveva alcuna vanità letteraria; la  sua
suprema ambizione era di diventar direttrice  d'una  scuola  municipale.  Ma  la
Varetti non fu punto rassicurata dalle sue parole. Sapeva, per  esempio,  che  a
una maestra della  scuola  serale  di  Sant'Andrea  gli  alunni  avevano  perfin
disegnato delle figure oscene sulla lavagna, e fatto tali  scandali  in  classe,
ch'era stata costretta a far venire suo padre a assistere alle lezioni. Un'altra
aveva trovato una lettera piena di sudicierie sotto il calamaio, e  s'era  quasi
ammalata dallo spavento perché le avevano messo un topo vivo  nel  cassetto  del
tavolino.  Infine,  una  maestra  d'un   altro   sobborgo,   avendo   denunciato
all'autorità due alunni  grandi  che  disturbavano  la  scuola,  questi  s'erano
appostati di notte sulla strada dove doveva passare e  l'avevan  buttata  in  un
fosso. La Mazzara scrollò le spalle. Erano invenzioni, esagerazioni: le  maestre
facevano una tragedia d'ogni bazzecola. "Credi" disse  "il  popolo,  gli  operai
specialmente, son gente di buona pasta, di cui si fa quello che si vuole,  basta
saperli prendere pel loro verso; e chi ne sparla, non li  conosce.  Parlo  degli
uomini, però. Quanto alle donne... è un altro affare." E  anche  per  confortare
l'amica col proprio esempio, le prese a raccontare le fatiche che durava  lei  a
far la scuola festiva nella Sezione Norberto Rosa. "Figurati,  cinquanta  alunne
di tutte  le  età,  dai  dieci  anni  ai  cinquanta,  sartine,  serve,  operaie,
bottegaie, ostesse, giovani di negozio, piene di malizia... e di peggio. Entrano
in scuola facendo un baccano indiavolato, si disputano perfino a pugni  i  posti
vicino alle finestre, per poter vedere gli amanti nella strada. E poi,  un  amor
proprio! Le donne d'età non vogliono che io corregga i componimenti a voce alta,
e rispondono impertinenze se le rimprovero; le giovani ridono quando  faccio  la
morale; questa non vuol che imparare a far dei conti per la sua osteria,  quella
non vorrebbe che scriver lettere, per esercitarsi alle  corrispondenze  amorose;
una vuole uscir prima perché ha la cucina che l'aspetta,  un'altra  s'addormenta
perché ha passato la notte a cucire, o chi sa come. Credi, Enrica, che  è  molto
meglio aver che fare coi baffi." Mentre essa discorreva, l'amica osservò un  bel
vestito di lana bigia finissima, che non le  aveva  mai  visto,  un  po'  troppo
appariscente per lei; e le domandò quanto le costasse. Quella arrossì un poco, e
rispose di sfuggita: "Roba vecchia". Ma alla  Varetti  passò  per  la  mente  un
sospetto spiacevole: che anche quello, come già  un  altro  dell'estate  scorsa,
fosse un vestito smesso d'una  bella  ragazza  che  aveva  fatto  fortuna  senza
maritarsi, e che  prendeva  lezioni  private  d'ortografia  dalla  Mazzara,  per
"mettersi all'onore del mondo". La maestra riprese  il  suo  discorso.  "Bisogna
vederle uscire, poi. Al suono della campanella scappan tutte  con  tanta  furia,
che alle volte cadono l'una addosso all'altra, ed è un miracolo  se  non  seguon
disgrazie. Nella strada si tiran delle palle  di  neve,  si  rincorrono.  È  uno
scandalo, se tu vedessi. Ma non è il peggio. C'è sempre un branco d'uomini  alla
porta. A sentirle, son tutti fratelli e cugini. C'è anche  dei  caporali.  E  si
pigliano a braccetto senza complimenti, in faccia alla direttrice. Ce  n'è  una,
fra l'altre, una servetta, un serpente, che bisognerà finire con  cacciarla,  da
tanto che ci fa disperare. Non s'è mai visto un'impudenza simile. Ha  anche  lei
un cugino, come l'altre. Tu vedessi che bel giovane! Uno che viene di  fuori  di
Torino apposta per aspettarla, un'anima persa, uno di questi  barabba,  tu  sai,
che non han paura di nulla e che ti freddano un uomo per una parola. E il  bello
è che mentre fa all'amore con lei, è geloso anche delle altre. Lui  le  vorrebbe
tutte. Ha già attaccato lite con mezzo mondo. Ma tutti lo temono  perché  è  già
stato un anno in prigione per una coltellata. Bisogna veder  che  faccia:  degli
occhi che mettono i brividi. E quella sfrontata se ne vanta,  capisci,  vorrebbe
imporne alle compagne come una regina, e minaccia di far bucare la pelle ai loro
fratelli e amorosi. Domenica scorsa egli tirò uno  schiaffo  a  uno,  ci  fu  un
parapiglia, accorsero le guardie. Un giorno o l'altro l'ammazzano. Ma  di'  pure
un bel giovane. L'anno passato andava a far le gare di lotta all'Arena  torinese
e dicono che buttava giù tutti. Non tanto alto,  ma  forte  e  svelto,  dei  bei
capelli neri, con un ciuffo sulla fronte, una bella vita. Quand'è  impostato  là
alla cantonata, durante la lezione,  c'è  una  dozzina  d'alunne,  tutte  quelle
vicine alle finestre, che non c'è più verso di  tenerle.  Non  capisco...  A  me
farebbe paura." Ma dicendo questo, rise, e quel riso spiacque alla  Varetti,  la
quale ci vedeva sotto un sentimento discordante dalle parole, e  ne  comprendeva
il perché. Figliuola d'un brentatore tristo soggetto, cresciuta in mezzo  a  tre
fratelli discoli, legati con la peggior bordaglia di Torino e stati  in  carcere
più volte per disordini e risse, la Mazzara  s'era  levata  al  di  sopra  della
propria famiglia a forza di studio, e in grazia di una naturale bontà d'animo  e
di certe aderenze signorili; ma le era rimasta per quella gente  una  specie  di
simpatia di razza; la quale,  pur  non  osando  di  esprimersi  apertamente,  si
lasciava indovinare in una certa indulgenza sorridente, spinta talvolta fino  ad
un'ammirazione volgare delle loro gesta, che offendeva la delicatezza della  sua
amica. Questa dimenticò in quel momento la loro buona amicizia di tre anni, e un
servigio importante che le aveva reso la Mazzara in una congiuntura dolorosa,  e
s'alzò, impazientita da quei discorsi. L'amica le domandò se  aveva  da  uscire.
Essa rispose di sì, che andava alla "benedizione" come tutti  i  giorni.  Allora
quella cambiò tutt'a un tratto viso ed accento,  e  le  disse  con  dolcezza  di
divota: "Fai bene, bimba mia. Anch'io sento il bisogno d'andar  in  chiesa  ogni
giorno, a dedicare un pensiero a Dio. Dopo,  mi  sento  meglio".  D'altra  parte
doveva lei pure tornare a Torino. Doveva ancora far visita a  un'amica,  parente
d'una maestra che era stata istitutrice  in  casa  del  principe  di  Carignano,
doveva fare una commissione al  parroco  della  Consolata,  un  monte  di  cose.
"Dunque" le disse, prendendole il mento con due dita "va' di buon animo a far la
scuola serale. Son sicura che ci  troverai  della  gente  di  cuore,  rozza,  ma
schietta, e anche rispettosa. Basta  trattarli  senza  sussiego,  semplicemente,
alla loro maniera. Tu vedrai. Fra un mese t'adoreranno." La Varetti tentennò  il
capo. "Ho dei cattivi presentimenti" rispose.  "Fantasie!"  disse  l'altra.  "Il
popolo è come il diavolo; molto, ma molto meno brutto di quello che si dipinge."
Poi le espresse una sua idea: per le prime sere, avrebbe  potuto  far  assistere
alle lezioni il cantoniere. Ma la Varetti sorrise. Il cantoniere era  un  povero
vecchietto, che faceva il coraggioso, ma ch'era pien di paura, tanto che  quando
si sentivano le grida d'un alterco sul viale, non c'era più  modo  di  trovarlo:
pareva che sparisse a traverso ai muri come uno spettro. "Insomma"  concluse  la
Mazzara "tutto andrà per il meglio, te lo assicuro io. Tornerò presto a  vederti
e tu mi dirai che sei contenta." La Varetti uscì con lei per  accompagnarla  fin
sul viale, e quella, mentre scendevano, parlando a precipizio, le  diede  ancora
notizie d'una diecina di amiche. Arrivate sull'uscio del  cortile,  incontrarono
un giovanotto col cappello a cencio e con la pipa in bocca, il quale,  fissatele
tutte e due,  si  scansò  per  lasciarle  passare,  e  poi  entrò  nella  scuola
voltandosi a guardar la Varetti. La Mazzara fece un segno di gran maraviglia, ed
esclamò: "È lui!". "Chi, lui?" domandò la sua amica, turbata.  "Lui,  quello  di
cui t'ho parlato poco fa, che viene ogni domenica  a  aspettar  la  cugina.  Non
sapevo  che  stesse  a  Sant'Antonio.  Tu  lo  devi  conoscere".   La   Varetti,
balbettando, rispose che lo  conosceva  di  vista.  "Sarà  alunno  della  scuola
serale" disse l'altra. Ma la Varetti sapeva di certo che non era. "Allora" disse
la sua amica "è certo che è venuto per farsi iscrivere. Che vuoi che venga a far
qui?"  La  Varetti  impallidì.  Ma  l'amica  non  se  n'accorse,  e   le   disse
allegramente: "Toccherà dunque a te a convertirlo. Non trattenerti a pigliare il
freddo. Addio, Enrica!". E datole un bacio, scappò per la neve.

La Varetti rientrò  in  casa  col  batticuore.  Era  veramente  venuto  a  farsi
iscrivere per la scuola serale? E perché aveva aspettato che vi fosse  destinata
lei? Ebbe subito l'idea d'andare ad accertarsi della cosa dal  maestro  Garallo,
che, facendo da direttore, riceveva le iscrizioni;  ma  la  rattenne  il  timore
ch'egli indovinasse la sua inquietudine, e la tacciasse di pusillanime. Perdette
ogni dubbio un minuto dopo vedendo dalla finestra del  cortile  il  giovane  che
discorreva col maestro, il quale l'accomiatò con un cenno delle dita aperte, che
le parve volesse dire:"Alle otto." Essa conosceva colui più che di vista, poiché
nel  sobborgo  tutti  ne  parlavano.   Era   un   tal   Muroni,   soprannominato
Saltafinestra, perché, da ragazzo, per sfuggire a una furia di suo padre che  lo
voleva ammazzare, era saltato giù dalla finestra di  casa  sua,  rompendosi  una
gamba sul ciottolato della strada. Suo padre, operaio in una delle fabbriche  di
Sant'Antonio, era morto d'un colpo ricevuto da una correggia di trasmissione,  a
cui s'era cacciato sotto, essendo briaco; dopo aver fatto per dieci  anni  patir
morte e passione a sua moglie, una povera donna tutta chiesa, che lavorava a una
conceria. Il figliuolo lavorava da un fabbro  ferraio,  quando  n'aveva  voglia;
passava delle giornate intere a  Torino;  era  stato  un  anno  in  carcere  per
ferimento, e aveva fatto ammattire per un mese i carabinieri,  sguisciando  loro
di mano dieci volte; praticava la  feccia  dei  malviventi  della  città  e  dei
dintorni; giocatore,  briacone,  accattabrighe,  prepotente;  spietato  con  sua
madre, a cui strappava fino all'ultimo  centesimo  minacciando  d'andare  a  far
delle scenate in chiesa o di sfregiare le immagini sacre che  avevano  in  casa;
infine, accusato dalla voce pubblica  di  tutte  le  birbonate  e  di  tutte  le
violenze che si commettevan la notte in Sant'Antonio, delle  quali  non  fossero
scoperti i colpevoli. La maestra Varetti aveva sempre avuto  orrore  di  lui,  e
n'aveva anche di più da qualche tempo, perché, fosse per simpatia, fosse per  il
piacere di intimorirla e di confonderla col suo  sguardo,  egli  aveva  preso  a
fissarla ogni volta che la incontrava, e a  soffermarsi  per  guardarla  ancora,
dopo ch'era  passata;  e  infatti  sotto  lo  sguardo  dei  suoi  occhi  neri  e
lampeggianti di luce sinistra, ella mutava colore e perdeva il fiato. Perché era
venuto a farsi iscrivere alla scuola serale? si domandava la  maestra.  Non  per
istruirsi, certamente. E le passavan pel capo le più tristi  idee:  che,  offeso
dall'avversione ch'essa gli dimostra a malgrado suo, volesse venire alla  scuola
per vendicarsene, o che, prendendo per commozione di simpatia il suo turbamento,
le si volesse avvicinare per conquistarla; e i due sospetti la  sgomentavano  in
egual maniera. Le pareva ora irragionevole  d'essersi  tanto  inquietata  prima,
quando pure sapeva che colui non faceva parte della scolaresca.  Ora  sì,  aveva
ragione davvero d'essere in affanno. Dio mio, che cosa sarebbe accaduto? Come ne
sarebbe uscita? E agitata da questi pensieri, prese a girar per  la  camera.  Si
soffermò un momento davanti a un ritratto di suo padre in  divisa,  appeso  alla
parete, come per prender consiglio e coraggio dalla sua immagine. Poi si arrestò
davanti allo specchio, quasi per  interrogar  la  propria  persona,  se  avrebbe
imposto rispetto  o  incoraggiato  l'impertinenza,  o  frenata  questa  con  una
ispirazione di simpatia, o anche di pietà. Ma lo specchio non  le  diceva  nulla
che la confortasse. Sui ventiquattro anni, benché alta di statura, ne dimostrava
diciotto; era esile; aveva un corpo gentile di fanciulla  adolescente,  il  viso
d'una bianchezza lattea e d'una  minutezza  di  lineamenti  da  bambina,  e  una
piccola bocca scolorita, da cui usciva una voce debole e dolce  di  malata.  Che
autorevolezza  avrebbe  potuto  avere?  Perfino  quel  difetto  leggerissimo  di
strabismo che dava allo sguardo dei  suoi  occhi  celesti  una  indeterminatezza
fantastica, la quale a molti  riusciva  seducente,  le  pareva  che  si  dovesse
prestare a scherzi e a dileggi, come la sua carnagione delicata e la sua  grazia
signorile, che facevano troppo vivo contrasto con l'aspetto della scolaresca.  E
stette un po' di tempo davanti allo specchio, lisciandosi distrattamente con  la
mano lunga e bianca i capelli castagni che le scendevan sulle tempie, e cercando
con quale atteggiamento del viso avrebbe dovuto presentarsi alla classe la  sera
dopo, per guadagnarsi alla prima un po' di benevolenza. Ma si levò di là  tutt'a
un tratto, più inquieta che mai, e si avvicinò alla finestra, a fissar  l'occhio
indagatore in fondo al viale, dove a traverso alla nebbia della  sera  splendeva
già la  lanterna  rossa  di  quella  terribile  osteria,  che  la  faceva  tanto
fantasticare e tremare. Due colpi che sentì nel  muro,  dall'altra  parte  della
camera, la riscossero dai suoi pensieri.

Era la maestra Baroffi che la chiamava a desinare in  camera  sua.  Da  un  mese
desinavano insieme, loro due e la  maestra  Latti,  contentandosi  della  cucina
agreste della cantoniera, la quale le serviva qualche volta anche a tavola,  tra
una scopata e l'altra. La Varetti, desiderosa di distrazione,  corse  subito,  e
trovò le sue commensali già  sedute  a  una  piccola  tavola  rotonda,  dove  la
zuppiera e il lume a petrolio si contendevan lo spazio, fumando insieme. Ma, con
suo rammarico, la conversazione cadde immediatamente  sulla  scuola  serale.  La
Latti, passando poco prima per il paese, aveva inteso un garzone  muratore  dire
al suo compagno, strizzando un occhio: "Di', domani  abbiamo  la  maestrina".  E
scherzò con l'amica a quel proposito. Ma il suo buon umore era un'eccezione alla
regola. La piccola Latti aveva una  monomania  malinconica,  che  non  lasciavan
punto sospettare il suo corpicciolo grassotto e il suo visetto nero  e  vivo  di
gitanella: si credeva sempre malata, d'una malattia che cambiava  ogni  quindici
giorni; aveva in camera sua un'intera farmacia, portava sempre in tasca  pillole
e polveri, sapeva a mente Il medico di  se  stesso,  cercava  le  ricette  nelle
quarte pagine dei giornali, teneva corrispondenza epistolare con un  clinico  di
Torino, e, fra gli altri malanni, era tormentata da una tosse perpetua, o meglio
da un sospetto perpetuo d'aver la tosse, che le faceva far dei  continui  sforzi
d'esperimento, come un cantante che abbia perduto la voce. Alle sue alunne  dava
spesso per tema delle lettere in cui si doveva consolare dei  malati  lontani  o
parlare d'una malattia propria. Ogni  tanto,  cominciando  la  lezione,  diceva:
"Bambine, questa è  una  delle  ultime  lezioni  che  vi  dà  la  vostra  povera
maestra!". Passando con le amiche davanti al  camposanto,  sospirava:  "Lì  sono
aspettata!". Le scolare astute  non  avevan  che  a  andarle  attorno  e  dirle:
"Cos'ha, stamani, signora maestra, che è così  pallida?"  e  lei,  anche  stando
bene, era presa da un'orribile agitazione. Del  resto,  buona  come  il  pane  e
superiore a tutte le piccole miserie e passioncelle del mondo  scolastico,  come
chi crede d'esser già più di là che di qua. Era figliuola d'una guardia  civica.
La Varetti non rispose ai suoi scherzi. Allora la confortò la  maestra  Baroffi.
"Io t'invidio" le disse con la voce  grossa,  alzando  il  suo  viso  paffuto  e
sbiancato di madre nobile, coronato d'una capigliatura poeticamente scomposta, e
guardando sopra il capo all'amica, come se parlasse a una persona  ritta  dietro
di lei. "Tu potrai studiare il popolo: un bel soggetto di studio, che non fu mai
sviscerato. Potrai fare del gran bene. Io vorrei essere al tuo posto e credo che
ne farei quello che vorrei di quella classe.  La  Garallo  non  li  capiva,  non
sapeva toccare le corde... Non ha il dono della parola, insomma. Ma una  ragazza
d'ingegno e di cuore deve riuscire a dominarli in quattro lezioni."  La  Varetti
scosse il capo in atto incredulo. "Tu sei troppo teorica" le  disse.  Era  così.
Non ostante le sue trent'otto primavere, quella credeva ancora  all'operaio  dei
libri di lettura che canta le gioie della povertà onesta e  compiange  i  ricchi
affollati di cure. Tutta immersa nella letteratura, non aveva alcuna  conoscenza
pratica della vita, nessun fondamento d'osservazione  fatta  direttamente  sugli
uomini e sulle cose; ma solo un emporio disordinato e bizzarro  di  sentenze  di
libri, di concetti convenzionali e di frasi coniate, che combinava continuamente
in mosaico per le sue conferenze ideali. La conferenza era in lei un vero furore
cefalico, a cagion del quale avendo trascurato la scuola, s'era  fatta  relegare
dalla città a Sant'Antonio, dove soffriva di nostalgia letteraria,  con  l'animo
sempre rivolto a Torino, campo delle sue  piccole  glorie  passate,  come  a  un
paradiso perduto. Giungeva a tal segno  la  sua  passione,  ch'essa  non  poteva
vedere un tavolino e una seggiola senza pensar subito a una conferenza;  avrebbe
tenute delle conferenze agli alberi del viale; faceva degli esperimenti  oratori
da sé, nella sua camera; non pensava quasi ad altro; tutto quello che le entrava
nel capo dalla conversazione o dai libri vi pigliava forzatamente la forma di un
discorso accademico, come certe materie pigliano una  data  forma  in  una  data
macchina. E in questo ella  offriva  un  caso  davvero  curioso  di  cleptomania
letteraria, poiché per istinto, innocentemente, non faceva che levar la marca ai
pensieri altrui e metterci la propria, come la  cosa  più  naturale  del  mondo:
pigliava, per esempio, una conferenza d'un altro, la  rovesciava,  e  la  faceva
sua, senza metterci altro di suo che una certa tinta uniforme lirico-pedagogica,
che soleva dare a ogni cosa, e l'intonazione affannosamente drammatica  con  cui
la leggeva, quando poteva, gesticolando come un naufrago  che  chieda  soccorso.
Aveva, anni addietro, pubblicato un polpettone di libro di lettura  che  era  da
capo a fondo un vero e proprio magazzino d'oggetti di furtiva  provenienza,  sul
quale aveva fatto stampare: "diritti di proprietà riservati" ed ora, in quel suo
romitaggio, andava accumulando i frutti d'un vasto e infaticato saccheggio,  per
quando sarebbe ritornata a Torino. Era soltanto  impensierita  della  pinguedine
crescente e del raffittire  dei  capelli  grigi,  che,  secondo  lei,  avrebbero
nociuto alquanto ai suoi buoni successi avvenire. L'osservazione  della  Varetti
la punse un poco. "Non son teorica" rispose. "Ho più esperienza di te e  conosco
il  popolo  meglio  di  te,  e  ho  osservato  che  al   popolo,   agli   operai
particolarmente, non si sa insegnare. L'operaio è ingenuo perché  è  incolto,  e
buono perché lavora, e per questo è  facile  a  tutti  gli  entusiasmi.  Bisogna
dunque toccarlo nel sentimento  patrio,  nell'amore  del  bello  e  del  grande;
bisogna fargli brillare alla mente gli ideali  della  gioventù,  col  linguaggio
della fanciullezza. Ed è questo che non si sa fare, e che io farei, cara amica."
"Dio mio!" rispose con tristezza la Varetti. "Quando ti  fanno  un  insulto  sul
viso, serve di molto rispondere  con  gli  ideali!"  "A  me,"  ribatté  l'altra,
"l'insulto non lo  farebbero."  La  discussione,  che  s'inaspriva  un  po',  fu
interrotta in buon punto dalla maestra Latti, la quale dopo aver  mangiato  come
un lupicino, lasciò cadere a un tratto la forchetta esclamando:  "Quest'appetito
mi sarà fatale!". Le sue compagne sorrisero. "A proposito,"  disse  la  Baroffi,
"m'ha detto il Garallo  che  s'è  venuto  a  far  iscrivere  Saltafinestra."  Lo
conoscevan tutte di fama. La Varetti accennò che lo  sapeva.  "Eccone  uno,  per
esempio," soggiunse la conferenziera "che io mi sentirei di far piangere come un
bambino." "Ti vorrei vedere" disse la Varetti "E mi  vedresti"  rispose  quella,
scotendo la capigliatura. "Alle volte, quei demoni scatenati, che fanno paura  a
tutti, hanno dei cuori di fanciulli. Non c'è che a trovar la via d'arrivarci,  e
la parola può tutto. Guarda come li tiene il Garallo." Questi faceva la  seconda
classe della scuola serale. Ma l'esempio non calzava perché  nella  seconda  non
c'erano uomini fatti. La  Varetti,  d'altra  parte,  non  credeva  punto  c'egli
tenesse la disciplina come se ne vantava. Egli soleva dire: "Nella mia classe si
sentirebbe il volo d'una mosca," e lei, la sera, dalla sua  camera,  sentiva  un
baccano dell'altro mondo. "È un'altra cosa," entrò a dire la maestra Latti,  che
aveva ricominciato a mangiare; "il Garallo è repubblicano; gli è più  facile  di
tenerli; il popolo ha simpatia per i  repubblicani."  Ma  la  Mazzara  negò.  Il
Garallo era repubblicano di principii e di cuore; aveva in casa i  ritratti  del
Mazzini, di Aurelio Saffi e di Alberto Mario; suo padre  era  stato  mazziniano;
egli si serbava fedele agli ideali di  suo  padre;  ma  in  iscuola  non  faceva
propaganda;  si  asteneva  soltanto  dalle  adulazioni   e   dalle   bugiarderie
obbligatorie. "Già, è un repubblicano silenzioso," osservò la Varetti,  "che  si
guarda bene dal compromettersi. La propaganda non entra nei  suoi  conti."  Quel
gioco di parole involontario fece ridere le altre due. Il maestro Garallo e  sua
moglie eran  conosciuti  come  i  due  più  appassionati  computisti  del  corpo
magistrale, facevan calcoli infiniti sugli stipendi e sugli aumenti quinquennali
propri e degli altri, erano occupati di continuo  in  questioni  di  contenzioso
scolastico finanziario, studiano sui bollettini del  Monte  delle  pensioni,  su
quelli della Cassa Società degl'insegnanti, sulle relazioni della Cassa pensioni
del  Municipio,  meditando  proposte  e  osservazioni  da  far  nelle  adunanze,
registrando le "liquidazioni" dei loro  colleghi,  discutendo  il  bilancio  del
Ministero d'istruzione pubblica, movendo lamentazioni interminabili, a due voci,
sopra ogni aumento di spesa che si facesse sugli altri bilanci dello Stato.  Non
uscivan quasi mai dalla loro buca, e si diceva che impiegassero tutte le  serate
in cómputi e ragionamenti di quella natura, sgranocchiando in mezzo alle cifre i
salami e le ricotte che ricevevano in dono dai  parenti  dei  loro  scolari.  Le
maestre Latti e Baroffi celiarono per un  pezzo  su  quell'argomento  e  stavano
appunto dicendo che i due coniugi sapevano a  menadito  stipendi,  indennità  ed
incerti di tutti i maestri del mondo, da Pietroburgo alla California, quando  la
Varetti sentì nel corridoio il passo del Garallo che s'arrestò davanti all'uscio
del suo quartierino. Mentre essa s'alzava per andare da lui, sentirono picchiare
invece all'uscio della Baroffi, la quale corse  ad  aprire  e  fece  entrare  il
maestro, che aveva un gran foglio tra le mani. Era una strana figura:  poco  più
che quarantenne; piccolo di statura e tarchiato, una enorme testa con  una  gran
capigliatura nera arruffata, la faccia pallida e seria, con due  baffi  corti  e
irsuti, gli occhiali affumicati, una voce di basso. Non  volle  sedere.  Veniva,
mandato dalla moglie, a portare alla Varetti l'elenco degli  iscritti  alla  sua
scuola serale. La maestra prese il foglio e vi diede un'occhiata: eran quaranta.
Guardò l'ultimo nome. Ahimè! Era il Muroni, Saltafinestra. Il Garallo tirò fuori
un altro foglio più piccolo, nel quale eran divisi gli alunni  in  due  sezioni:
quelli  che  sapevan  già  leggere  e  scrivere  alla  meglio   e   quelli   che
incominciavano. "Saprà" disse "che c'è un nuovo iscritto."  La  maestra  rispose
che l'aveva visto. "Non se ne  dia  pensiero"  le  disse  il  maestro  con  voce
burbera, notando il suo viso inquieto; "quello lì e gli  altri  si  fanno  rigar
dritto tutti a un modo. Non bisogna far delle  frasi,  né  lasciarsi  andare  al
sentimento. Ci vuol franchezza e energia, e mostrar di  non  temer  nessuno.  Il
popolo ama i caratteri forti e franchi. Io li tengo tutti nel pugno, i  miei,  e
non rifiatano. In ogni caso, se succedesse qualche cosa, mi  mandi  a  chiamare:
non avrò che a farmi vedere." La  Varetti  lo  ringraziò,  con  un  leggerissimo
sorriso ironico; il maestro augurò la buona sera e s'avviò per uscire.  Arrivato
all'uscio, si voltò  a  dare  alle  colleghe  una  buona  notizia.  Pareva  che,
finalmente, il  Ministero  si  fosse  deciso  ad  accordare  una  riduzione  sui
biglietti ferroviari agli insegnanti elementari. "Era tempo," disse, e uscì.  La
Varetti e la Latti diedero la buona notte all'amica  e  rientrarono  nelle  loro
camere nel momento che il cantoniere sprangava l'uscio del cortile;  e  la  casa
solitaria rimase in un profondo silenzio. La  mattina  dopo,  mentre  stava  per
scendere alla scuola dei bimbi, la Varetti ricevette una visita inaspettata:  la
madre di Saltafinestra. Questa entrò  timidamente  nella  camera,  inchinandosi,
come davanti a una gran signora, e, nel girare gli  occhi  intorno  in  aria  di
curiosità rispettosa, parve un momento stupita di vedere appeso a una parete  il
ritratto d'un ufficiale. Era una piccola donna tozza, con un  fazzoletto  giallo
sul capo, che lasciava vedere i capelli grigi; vestita da contadina, pulita:  un
viso d'anima in pena, con una ruga diritta in mezzo alla  fronte,  e  due  occhi
inquieti  e  luccicanti,  in  cui  pareva  avesse  due   lacrime   fisse,   come
cristallizzate. Cominciò con una  domanda  singolare,  a  bassa  voce,  come  se
parlasse in un confessionale: domandò alla maestra se sapesse per qual motivo il
suo figliuolo si fosse deciso  ad  andar  alla  scuola  serale.  La  maestra  si
maravigliò della domanda. Che ne poteva saper lei? E il sospetto  che  la  donna
supponesse una relazione, anche solo di parole, tra lei ed il giovane,  le  fece
salire il sangue alle guance. Allora, con voce tremola, parlandole piano,  quasi
nell'orecchio, la vecchia le raccomandò il  figliuolo  caso  mai  non  si  fosse
portato bene e avesse commesso qualche... imprudenza, pregava  la  signorina  di
compatire, fin che poteva,  di  non  prenderlo  di  punta...  per  via  del  suo
carattere. Con tutte quelle ch'ei  le  aveva  fatto,  ella  mostrava  ancora  di
credere che fosse piuttosto pervertito dalle cattive compagnie,  che  tristo  di
fondo. Ma la verità le uscì di bocca a malgrado suo, quando vide  nella  ragazza
un'espressione  fuggevole  di  compassione.  "Ah!  Signora  maestra!"   esclamò,
giungendo le mani. "Se sapesse che vita è la mia! Quel figliuolo che  gli  darei
tutto il mio sangue! Santa Maria benedetta! Dire che dai tredici anni in su  non
s'è più voluto confessare né comunicare!". E si mise a piangere. Sì, le  sarebbe
parso poca cosa tutto il resto, se solamente fosse  voluto  andare  a  messa  la
domenica. Anzi, era venuta apposta per questo. Se la  signora  maestra,  facendo
lezione, così alla lontana, a poco a poco, gli avesse potuto insinuare un po' di
religione, un poco di timor di Dio, con quelle parole che  le  persone  istruite
sanno trovare, avrebbe fatto un'opera santa, e lei l'avrebbe benedetta per tutta
la vita. Qui s'interruppe per avvicinarsi alla finestra  e  guardar  sul  viale,
senza mettere il viso alla vetrata, perché  temeva  che  il  figliuolo  l'avesse
vista entrare o potesse vederla uscire. E il suo aspetto e  ogni  suo  movimento
rivelavano un affanno abituale ed antico, che  s'era  fatto  come  una  malattia
cronica in lei, e lasciava indovinare  una  storia  miseranda  di  dolori  e  di
stenti, le notti vegliate ad aspettare il figliuolo, col tremacuore di vederselo
portar ferito o cadavere, le persecuzioni e le  busse  toccate  dal  marito,  il
terrore continuo della giustizia  umana  e  divina,  venticinque  anni  di  vita
ch'erano stati un lungo martirio senza conforto e  senza  requie.  Poi  tornò  a
raccomandare il figliuolo con parole umili, dalle quali trapelava nondimeno  una
certa alterezza paurosa dell'avvenenza, del coraggio, e perfino della  celebrità
trista di lui. Cattivi compagni e cattive donne lo cercavano, lo volevano tutti,
lo tiravano a bere e a giuocare, egli era orgoglioso, s'offendeva per una  mezza
parola, non aveva paura di niente al mondo... Ma da bambino era stato buono come
gli altri. E questo ricordo la fece dare  in  pianto  un'altra  volta.  "Chi  me
l'avesse detto" esclamò, piangendo nelle mani  aperte,  "quando  lo  portavo  in
collo, che m'avrebbe straziato il cuore in questo modo!" E mentre la maestra  le
diceva qualche parola di consolazione, essa levò le mani dal  viso  e  stette  a
guardarla in atto di gratitudine e d'ammirazione, come osservando per  la  prima
volta la sua figura signorile e la sua voce soave. Espresse poi il suo  pensiero
nell'andar via, guardandola di nuovo da capo a piedi. "Ah! poverina!" disse "una
signorina così... dover far la scuola a tutti quegli indemoniati!" E se  n'andò,
dopo aver lanciato un altro sguardo sospettoso dalla finestra.

La scuola serale doveva incominciare alle otto. Un quarto d'ora prima la maestra
Varetti, guardando traverso alla vetrata, vide giù nella nebbia  del  viale  dei
gruppi neri d'operai  che  con  le  pipe  e  coi  sigari  accesi  picchiettavano
l'oscurità come di tanti occhi di fuoco. S'era messa quella sera un  vestito  di
lana color caffè, un po' grande, che le pareva il più adatto a non  attirar  gli
sguardi sulla sua persona. Dieci minuti  avanti  l'ora,  venne  a  prenderla  il
maestro  Garallo  per  presentarla  alla  scolaresca.  Passando  pel  corridoio,
incontrarono il cantoniere,  un  vecchietto  secco  e  nasuto,  con  una  faccia
petulante. Il Garallo gli ordinò di tener d'occhio la classe  della  Varretti...
"Dentro?" domandò quegli, rannuvolandosi. Il maestro gli rispose: "Di  fuori"  e
l'uomo respirò. "Dentro o fuori" disse "per me è lo stesso."  La  maestra  entrò
col Garallo nella scuola, ch'era quella dove la Baroffi faceva lezione ai bimbi,
di giorno. Non c'erano ancora, che sei o sette alunni nei banchi in  fondo;  gli
altri venivano entrando. Il maestro e la maestra salirono sul palco, dov'era  il
tavolino, e stettero in piedi davanti alla lavagna, sotto la fiammella del  gas,
assistendo all'entrata. Entravano a uno a uno, a tre,  a  cinque  in  fila,  coi
libri e coi quaderni in mano, gli uomini pestando  i  piedi  per  il  freddo,  i
ragazzi facendo un gran rumore di zoccoli, e tutti, nell'entrare, volgevano  uno
sguardo di viva curiosità alla nuova maestra; alcuni anche  si  soffermavano  un
momento; e via via che s'infilavano nei banchi,  esprimevano  a  bassa  voce  ai
vicini, sorridendo, la loro impressione. Erano alunni di ogni età, dai dodici ai
cinquant'anni:  operai  della  fabbrica  di  ferramenti  e  di  quella   d'acido
solforico, operai d'una conceria, muratori, contadini, pastori,  di  quelli  che
scendono dalle Alpi a svernare a Torino con  le  bestie,  per  vendere  latte  e
formaggi, o spalar la neve: capigliature irte o arruffate, barbe  incolte,  visi
neri, cravatte rosse, camice sudicie, rozze  giacchette  gonfiate  dalle  doppie
sottovesti e dalle grosse maglie, che uscivan fuor  dalle  maniche.  Gli  uomini
maturi, un po' vergognosi di venir a scuola, s'andavano  a  metter  quasi  tutti
negli ultimi banchi, con le schiene contro la parete,  sulla  quale  si  vedevan
delle enormi chiazze d'inchiostro, fin quasi alla vôlta. Quando furon  tutti  al
posto e quieti, il maestro Garallo fece con la sua voce di  toro,  ma  con  tono
molto  garbato,  la  presentazione:  "Vi  presento  la  vostra  nuova   maestra.
Raccomando  l'ubbidienza  e  il  rispetto".  Detto  questo,   uscì   in   fretta
senz'aggiungere altro, e la maestra rimase un momento immobile, ritta in  faccia
alla sua scolaresca, che  la  guardava  in  silenzio.  Un  osservatore  estraneo
avrebbe indovinato che facevan tutti un paragone mentale della nuova maestra con
la precedente, la signora Garallo, una piccola e grassa trentenne, che pareva la
sorella di suo marito; e avrebbe capito pure che il  paragone  tornava  tutto  a
vantaggio della prima. In quasi  tutti  gli  occhi  luccicava  un  sorriso,  che
esprimeva dei pensieri  difficili  ad  esprimersi.  La  maestra  stette  un  po'
confusa, con la vista torbida, non sapendo come principiare. Poi sedette al  suo
tavolino. In quel momento entrò Saltafinestra. S'udì un lungo mormorio, e  tutti
gli occhi si rivolsero a guardar lui e la maestra;  la  quale,  argomentando  da
quell'atto che tutti sapessero  ch'egli  veniva  a  scuola  per  lei,  impallidì
leggermente. Il giovane, disinvolto e tranquillo,  passò  davanti  al  tavolino,
dando alla maestra una rapida occhiata di sbieco, andò dinanzi al primo banco  a
destra, dov'era un posto vuoto contro il muro, e messavi una mano sopra, con una
mossa agilissima vi saltò dentro, e sedette. Per prima cosa la  maestra  avrebbe
dovuto fare un breve esame al nuovo venuto  per  accertarsi  che  potesse  stare
nella  sezione  dei  più  avanzati,  dove  s'era  messo  di  moto  proprio;   ma
l'aspettazione  appunto  di  quell'esame,  che  ella  vide  negli  occhi   della
scolaresca, le tolse il coraggio di farlo.  Incominciò  subito  la  lezione.  La
Garallo le aveva accennato il  suo  metodo  e  il  punto  a  cui  eran  rimasti.
Seguitando le sue tracce, essa si  mise  a  scrivere  sulla  lavagna,  con  mano
malferma, una serie di sillabe semplici, per farle prima leggere e poi  scrivere
alla sezione di sinistra: mentre questi scrivevano, ella avrebbe  fatto  leggere
agli altri il libro di lettura. La lezione pareva che cominciasse bene:  per  un
po' di tempo non s'intese alcun mormorio: quelli che non  stavano  attenti  alla
lettura, parevano assorti  nell'osservazione  della  sua  persona.  Timidamente,
mentre leggevano i primi a uno a uno, essa esaminò con sguardi  furtivi  i  suoi
scolari. I più grandi stavan quasi tutti alla sua sinistra, con quelli che  eran
più addietro. Le diede nell'occhio avanti gli altri, nel banco più vicino a lei,
una specie d'Ercole raccorciato e ingobbito, con una testa smisurata e  deforme,
dalla fronte bassissima e dalla bocca  di  bove:  una  faccia  stupida,  in  cui
appariva un'ostinazione di bruto, ma che, nonostante l'espressione  torva  degli
occhi, lasciava trapelare non so che  rettitudine  d'animo.  Egli  prestava  una
profonda attenzione alle sue parole e  alla  lettura  degli  altri.  La  maestra
osservò che aveva per penna una chiave, con la punta per scrivere  confitta  nel
buco. Quando venne la sua volta di leggere, gli domandò il nome. Quegli  rispose
in modo appena intelligibile: "Carlo Maggia".  Era  un  garzone  macellaio,  che
aveva trentacinque anni, e ne mostrava dieci di  più.  Alle  prime  sillabe  che
lesse, con una voce che pareva  d'un  can  mastino,  alcuni  ragazzi  dell'altra
sezione cominciavano a ridere; ma a uno sguardo  lento  ch'egli  girò  sopra  di
loro, tacquero. Attirò l'attenzione della maestra un altro alunno, della sezione
di destra,  che  doveva  essere  il  più  attempato  di  tutti:  un  uomo  sulla
cinquantina, alto, con una folta barba brizzolata, un viso benevolo e stanco  di
onesto lavoratore,  che  la  confortò.  Era  un  certo  Perotti,  operaio  della
conceria, che aveva nella stessa scuola, due banchi più sotto, un suo  figliuolo
d'undici anni, lavorante  nella  sua  fabbrica,  serio  e  simpatico  come  lui.
Scendendo con lo sguardo trovò la testa bionda d'un altro  operaio,  più  pulito
degli altri, che le fece impressione: un uomo sulla  trentina,  lunghicrinito  e
ben pettinato, con un viso signorile dal gran naso  aquilino,  e  cert'occhietti
turchini in cui brillava l'intelligenza, mista a una espressione d'orgoglio, che
si fece più viva quando i  loro  sguardi  s'incontrarono.  Da  quella  parte  il
maggior  numero  erano  ragazzi:   dei   visi   vivaci,   irrequieti,   sporchi,
impertinenti, dai quali si capiva alla prima che venivano alla  scuola  più  per
godere il caldo e per fare il chiasso che per imparare. Fra questi le destò  una
vera inquietudine un ragazzo sui  quattordici  anni,  seduto  all'estremità  del
secondo banco, un muratorino, pareva, il quale sorrise apertamente, con  un'aria
di familiarità punto rispettosa, quand'essa lo guardò.  Delle  molte  grinte  di
monelli ch'ella aveva visto uscir dalle fabbriche quella era senza dubbio la più
invetriata: aveva degli occhi in cui scintillavano tutti i vizi, un  mezzo  naso
voltato in su, che era un'insolenza incarnata, una bocca su  cui  s'indovinavano
le oscenità, senza che parlasse, la pelle cinerea, il corpo lungo e scarnito, un
po' curvo, e il sorriso cinico del ragazzo che ha già percorso un gran tratto su
tutte le vie che menano allo spedale e alla prigione. Da costui ella  scese  con
l'occhio al primo banco; ma, veduto  appena  di  sfuggita  il  Muroni,  girò  lo
sguardo dalla parte opposta, volgendo  l'attenzione  agli  alunni  che  leggevan
tutti insieme le sillabe della lavagna, compitando e cantando come  bambini  che
mettessero la voce in un imbuto. S'era intanto diffuso per  la  scuola  un  odor
forte che le cominciava a  offender  le  narici:  il  puzzo  delle  pipe  e  dei
mozziconi di sigaro spenti da poco,  un  tanfo  misto  di  vino,  di  grasso  di
macchina, di pelli conce, di stalla, di scarpe fracide. Nel coro della  lettura,
ella sentì che alcuni ragazzi forzavan la voce per far la burletta; ma finse  di
non badarvi.  Quando  ebbero  finito  ordinò  che  scrivessero  le  sillabe  sui
quaderni, e si voltò all'altra sezione. Ma prima che incominciasse, scesero  dai
banchi in fondo tre alunni grandi col quaderno in mano, fra i quali il  Perotti,
e vennero da lei, come facevano con la Garallo, a farsi chiarire dei  dubbi  sul
componimento che quella aveva assegnato.  Un  pittore  avrebbe  potuto  fare  un
quadro nuovo e bellissimo col gruppo che  formò  per  qualche  momento  il  viso
gentile di quella maestrina timida e un po' vergognosa, china sui  quaderni,  in
mezzo alle teste rozze e scapigliate dei  tre  operai,  chinati  essi  pure  per
osservare le correzioni. La maestra Garallo aveva dato per lavoro una lettera di
commiato d'un operaio al suo capo di fabbrica. Quando i tre alunni grandi  furon
tornati al loro posto, essa ne chiamò uno a caso, scorrendo  l'elenco,  per  far
leggere un componimento ad alta voce. Al nome  Lamagna  Luigi  s'alzò  l'operaio
biondo, dai capelli lunghi. Tutti fecero silenzio, anche nell'altra  sezione,  e
si voltarono a guardarlo, come se aspettassero ch'egli leggesse qualche cosa  di
singolare. Quegli cominciò a leggere con una certa correntezza e con un'aria  di
trascuranza affettata, quasi che volesse fingere di  pensare  ad  altro.  V'eran
nella sua lettera  delle  frasi  che  avevan  poco  che  fare  col  soggetto,  e
incastratevi quasi per forza, nelle quali si mostrava più aperto l'orgoglio  che
la maestra gli aveva già letto negli occhi.  Questa  gli  fece  qualche  appunto
grammaticale, a cui egli oppose delle obbiezioni, non con mal garbo, ma  con  un
tono da far capire che egli voleva esser tenuto in  un  conto  particolare,  non
messo a mazzo con altri.  La  lettera  era  sottoscritta:  "Lamagna  Luigi,  suo
eguale, non servo". Queste parole, per la maestra, furono un lampo.  Il  Lamagna
doveva essere certo quell'operaio socialista della fabbrica di  ferramenti,  del
quale essa aveva inteso parlare molte volte, come d'un giovane d'ingegno  ardito
e bizzarro, tenuto in grande stima dai suoi compagni, a cui predicava  il  verbo
nuovo nei crocchi, terminando  ogni  discorso  col  raccomandare  l'orgoglio  di
classe, come principio e fondamento necessario della emancipazione avvenire.  La
maestra gli fece ancora un appunto  sopra  una  parola  della  chiusa,  ed  egli
sedette, mormorando le sue obiezioni al vicino, con un  sorriso  dignitoso.  Fin
qui, salvo qualche leggero bisbiglio, la classe si portava bene,  e  la  maestra
prendeva animo. Fece aprire il libro di lettura, l'Artiere italiano,  che  tutti
gli alunni di destra avevano, e lesse ella prima un periodo.  Leggendo,  pensava
che avrebbe dovuto a ogni costo far legger  dopo  di  lei  il  Muroni,  sia  per
rompere il ghiaccio, sia per non destare nella classe  il  sospetto  ch'ella  ne
avesse paura: d'altra parte, prendendo dalla destra del banco più  vicino,  egli
era il primo.  Fece  dunque  uno  sforzo,  appena  ebbe  finito  di  leggere,  e
voltandosi verso di lui,  gli  disse:  "Rilegga".  Tutti  tacquero.  Il  giovane
s'alzò, col libro in mano, sorridendo con l'aria vanitosa  di  chi  sa  d'essere
oggetto di curiosità e di aspettazione. Era la prima volta ch'ella  fissava  gli
occhi sopra di lui, e n'ebbe più ripugnanza che non n'avesse mai  avuta.  Quella
piccola testa coi capelli femminilmente spartiti nel mezzo, quel viso  quasi  di
ragazzo  precoce,  di  una  pallidezza  livida,  con  due  piccoli  occhi   neri
acutissimi, d'una espressione  dura  e  risoluta,  in  cui  s'indovinava  un'ira
vendicativa senza pietà, con quella bocca stretta e senza labbra, che pareva una
ferita di coltello, non guernita che di due baffetti arricciati a punta,  avevan
qualche cosa di feroce insieme e di lezioso,  che  faceva  peggior  senso  della
faccia d'un rozzo malfattore abbrutito. Tutto il suo corpo ben  proporzionato  e
asciutto mostrava d'aver dei muscoli d'acciaio e una sveltezza  di  saltimbanco.
Alla capigliatura impomatata, alla cravatta  col  nodo  allentato  che  lasciava
scoperto il collo fino alla  fontanella  della  gola,  ai  calzoni  stretti  che
s'allargavano a campana sul piede, ai larghi  polsini  di  colore  che  coprivan
mezze  le  mani,  si  riconosceva  il  tipo  del  barabba  ambizioso,  misto  di
bellimbusto e di brigante, divorato da mille appetiti e non contenuto  da  altro
freno che da quello della povertà, pronto in qualsiasi ora a qualunque cimento e
a ogni più audace birbonata. L'atteggiamento della  sua  persona,  impostata  di
sghembo, con una spalla più alta  dell'altra,  il  balenio  intermittente  degli
occhi, l'intonazione della  voce  rauca  manifestavano  un  orgoglio  smodato  e
selvaggio, che, non trovando altra via, si sfogava in un disprezzo  beffardo  di
tutti e d'ogni cosa; di quei disprezzi di malfattori che vanno di sotto  in  su,
crescendo gradatamente, dalla polvere della via dove nascono fino  alla  sommità
d'ogni  grandezza  umana.  Leggendo  a  stento,  egli  fingeva  d'intaccare  per
capriccio, non per ignoranza, e nell'alzare il viso  dal  libro,  lanciava  ogni
tanto un'occhiata alla maestra, che non gli vedeva che il bianco degli occhi,  e
n'aveva un senso di freddo alle vene. E benché si sforzasse,  quando  lo  doveva
correggere, non osava guardarlo nel viso; non guardava che la sua  mano  destra,
con la quale ei teneva il libro, pensando con  raccapriccio  ch'era  quella  che
aveva immerso il coltello nel fianco d'un amico. Quando finita la lettura,  egli
si rimise a sedere, ella si sentì come liberata  da  un'oppressione  del  cuore.
Venuta la volta di leggere al ragazzo del secondo banco, che le aveva fatto  una
così trista impressione, ella capì dal modo  come  s'alzò  e  dal  movimento  di
curiosità dei suoi compagni ch'egli doveva esser solito a provocar  l'ilarità  e
lo scandalo nella classe; e avendo letto nell'elenco Pietro Maggia, gli domandò,
con la speranza d'ingraziarselo un poco in  quella  maniera,  se  fosse  parente
dell'altro Maggia, quella specie di grosso bruto, ch'era nell'altra sezione.  "A
l'è me barba" (è mio zio), rispose il ragazzo, con una smorfia buffa,  che  fece
ridere i vicini. Lo zio, intento a scrivere con la sua chiave, non si  voltò.  E
quegli cominciò a  leggere  con  voce  contraffatta,  ch'era  una  sua  valentia
artistica, con cui imitava la voce  d'un  povero  sciancato  del  sobborgo,  che
chiedeva l'elemosina. Tutti i ragazzi si misero a ridere. Ma tre o quattro degli
uomini fecero segno di disapprovazione; fra i quali il Perotti, dal suo banco in
fondo, gli disse aspramente: "Finiscila!". "Perché mi manca  di  rispetto?"  gli
domandò la maestra incoraggiata da quegli aiuti.  Il  ragazzo  sedette,  facendo
l'atto d'arricciarsi un baffo. La maestra passò ad un  altro.  Quando  toccò  al
Lamagna, avendogli detto: "Faccia sentir meglio la doppia t" quegli rispose  con
dignità: "Mi par d'averla fatta sentire". Gli altri si contennero  bene.  Allora
essa diede  il  periodo  da  scrivere  e  tornò  alla  prima  sezione.  Intanto,
furtivamente, guardava di tratto in tratto  il  Muroni  per  indovinar  dal  suo
contegno le sue intenzioni. Egli scriveva; ma guardando lei molto  spesso;  e  i
suoi sguardi, pure non palesandole chiaramente il suo pensiero,  la  confermavan
pur troppo nella certezza che con un pensiero egli fosse venuto, o spinto da una
simpatia brutale, o per far qualche bravata, forse per una scommessa  fatta  coi
suoi compagni, o col solo proponimento d'impaurirla e di farle  dispiacere,  per
malvagità; o chi sa che altro. Ogni volta ch'ei la  guardava,  gli  guizzava  un
sorriso su quella bocca senza labbra, come il luccichìo d'una lama,  il  sorriso
bieco, subdolo, fuggente di chi cova un proposito maligno. E a ciascuno di  quei
sorrisi ella si turbava, tanto che doveva fare uno sforzo  per  non  perdere  il
filo della lezione, e quegli se n'accorgeva, e mandava dagli occhi un  lampo  di
compiacenza trionfante, che la turbava anche peggio. Egli tenne però  per  tutta
la lezione un contegno corretto, non voltandosi mai a parlar coi vicini, come se
fosse tutto assorto nella sua idea. Quelle due lunghissime ore  passarono,  come
Dio volle. Essendovi la doppia vacanza del sabato e della domenica,  la  maestra
diede per compito alla sezione più avanzata una lettera a una  supposta  sorella
lontana. Poi raccomandò timidamente a tutti di uscire  in  silenzio.  All'ultime
sue parole il piccolo Maggia mise un fischio sottile, che,  per  fortuna,  passò
inosservato tra il suono della campanella e il  rumore  che  facevan  tutti  per
apparecchiarsi ad uscire. Uscirono in gran  disordine.  Passandole  davanti,  il
Muroni le lanciò uno sguardo, ch'essa sfuggì. Molti degli uomini la  salutarono.
Ma il maggior chiasso scoppiò di fuori. Uscivano anche gli alunni  del  Garallo.
Pareva un'uscita d'un teatro popolare una sera di martedì grasso: strilli, salve
di fischi, zufolii, urlate, un fracasso di zoccoli,  un  chiamarsi  per  nome  a
squarciagola, uno schiamazzo di domande e di risposte, in cui la  maestra  sentì
più volte il proprio nome e dei commenti sulla sua persona,  seguiti  da  risate
clamorose, da canti, da versi d'animali, da esclamazioni buffe  e  da  scaracchi
sonori; e da tutte le parti fiammelle di zolfanelli  e  di  carte  accese  sulle
pipe, che offrirono per un momento lo spettacolo d'una luminaria  nella  nebbia.
Poi il baccano s'allontanò a poco a poco, non si udirono più che grida  e  canti
nel sobborgo, e infine seguì un silenzio profondo.

La Varetti uscì dalla scuola assai tranquillata. La sua classe era  meno  peggio
di quello che si fosse immaginata; c'eran  dei  visi  di  galantuomini,  che  le
parevan disposti a tenere in briglia i ragazzacci; e la confortava  sopra  tutto
l'immagine di quel Perotti, sul cui viso  onesto  essa  aveva  visto  quasi  una
promessa di protezione paterna. Chiese  poi  notizie  di  lui  al  Garallo,  che
raggiunse per la scala, e le ebbe eccellenti. Era un buon operaio  e  un  ottimo
padre di  famiglia,  che  aveva  lavorato  da  falegname  prima  d'entrare  alla
conceria, e fatto  due  o  tre  piccoli  mobili  assai  graziosi  per  il  museo
pedagogico che il maestro si proponeva di mettere assieme.  Avevan  tanta  buona
volontà d'istruirsi, lui e il suo figliuolo, che appena  usciti  dalla  conceria
andavano alla scuola senza mangiare, restando così digiuni per dieci ore;  e  il
piccino, che aveva fatto la seconda elementare, correggeva ancora  i  lavori  al
padre, dopo cena. "Vedrà" concluse il Garallo "che col popolo si  sta  bene.  Se
poi seguiranno dei disordini, lei mi manderà a chiamare dal  cantoniere,  e  non
avrò che da affacciarmi all'uscio: tutti rientreranno nel dovere." La maestra si
ripresentò  dunque  alla  scuola,  benché   turbata   sempre   dal   timore   di
Saltafinestra, con assai miglior animo che non si fosse  presentata  tre  giorni
avanti. Ma s'accorse pur troppo fin da principio che, non  più  distratti  dalla
curiosità ch'essa aveva destata la prima sera, e anche perché avevano indovinato
la sua indole timida, i ragazzi non si sarebbero più frenati come l'altra volta.
Ella sentì delle risate represse, e capì  che  qualcuno  doveva  far  dei  gesti
sconvenienti alle sue spalle, mentre stava alla lavagna a scriver le sillabe.  I
ragazzi cominciarono a parlar forte; alcuni si addormentavano; uno russava, e lo
dovette svegliare. Fu costretta due  o  tre  volte  a  interrompersi,  sgomenta,
aspettando che i grandi, stizziti d'esser disturbati, imponessero  silenzio.  Il
piccolo Maggia distraeva i vicini con una ginnastica continua delle mani  e  dei
piedi, di sotto al banco, e quando essa lo guardava, le  fissava  gli  occhi  in
viso con una espressione di finto stupore,  così  impertinente,  che  le  faceva
voltare il capo da un'altra  parte.  Ammutolirono  tutti  quando,  terminata  la
lettura della prima sezione,  videro  Saltafinestra  uscir  dal  suo  banco  col
quaderno in mano per salir sul palco a chiedere spiegazioni sul suo  lavoro.  La
maestra tremò, presa dal presentimento di qualche atto di audacia. Il giovane le
s'avvicinò perfettamente  tranquillo,  simulando  anzi  una  grande  serietà,  e
messole davanti il quaderno aperto, le rivolse una domanda intorno a una  frase.
Vinta la ripugnanza che  sentiva  a  stargli  così  vicino,  tremando,  e  quasi
restringendosi in sé come per scansare il suo contatto, ella chinò il  viso  sul
quaderno, e lesse le prime righe del componimento: una lettera  a  una  sorella.
Tutt'a un tratto, mossa da uno sdegno  più  pronto  d'ogni  timore,  afferrò  il
foglio con due mani, lo fece in due pezzi, e respinse il quaderno da  sé.  Aveva
letto il principio d'una dichiarazione amorosa. Il giovane riprese il quaderno e
tornò al suo posto, col capo basso, sorridendo sinistramente. La maestra  rimase
qualche momento bianca come un cencio. Poi,  con  molta  fatica,  ricominciò  la
lezione. Quell'avvenimento misterioso, commentato subito da  un  vivo  mormorio,
valse  a  tenere  nella  scolaresca  un  breve  silenzio  di  curiosità   e   di
aspettazione. Ma verso la fine, mentre la  maestra  voltava  un'altra  volta  le
spalle alla classe per scrivere le sillabe col gessetto, fu riscossa  dal  colpo
d'una grossa palla di carta masticata  che  batté  nel  mezzo  della  lavagna  e
ricadde ai suoi piedi. Si  voltò  con  una  fiamma  nel  viso,  per  cercare  il
colpevole: il quale non poteva essere il Muroni, poiché la palla era venuta d'in
mezzo alla scuola. Guardò il piccolo Maggia; ma aveva  una  faccia  impassibile.
Guardò gli altri ragazzi; eran tutti come statue. "Chi  è  stato?"  domandò  con
voce commossa. Nessuno rispose. Cercò il viso  dei  tre  o  quattro  uomini  più
attempati, che credeva disposti a proteggerla; quello del Perotti fra gli altri;
ma tutti abbassarono il capo. Allora, scoraggiata, fece uno sforzo per rimandare
indietro le lacrime, e continuò la lezione. Quel nuovo affronto che le era stato
fatto in faccia a tutti le stringeva il  cuore  più  di  quell'altro,  che  pure
l'aveva offesa più addentro come donna; e la sua commozione visibilissima  giovò
a tenere in certo riserbo gli alunni, eccetto il piccolo Maggia, che tentò due o
tre volte di far rider la classe. Ma i grandi, indignati, lo zittirono.  Triste,
ella seguitò a far leggere, non guardando più il Muroni che verso la fine  della
lezione. Ma gli occhi ch'ella gli  vide  in  quel  punto,  le  rimescolarono  il
sangue: non era più lo sguardo tra curioso e beffardo della prima sera: era  uno
sguardo acuto e freddo,  lampeggiante  fra  le  palpebre  socchiuse,  nel  quale
traspariva l'orgoglio offeso, un proponimento risoluto di vendetta,  una  aperta
minaccia. Sull'atto ella si vide assalita, percossa, ferita, stesa a terra sulla
neve, e si sentì correre il sangue caldo giù per il fianco,  e  le  tremaron  le
ginocchia  come  per  febbre.  All'uscita,  vide  molti  alunni  affollarsi  nel
corridoio intorno al Muroni per domandargli  la  rivelazione  del  mistero.  Uno
degli ultimi a uscire fu il Perotti. La maestra lo chiamò. Quegli le si  accostò
in atto rispettoso, col cappello in mano. "Lei ha visto" disse la maestra con la
voce ancora tremante "l'affronto che m'hanno fatto, alla lavagna. Se non  faccio
punire il colpevole, faranno di peggio. Perché non mi dice chi è stato, lei  che
è un  galantuomo?"  Il  Perotti  abbassò  il  viso,  un  po'  vergognato,  senza
rispondere. "Perché non mi denuncia il colpevole?" ripeté la maestra. "Eh,  cara
signora" rispose francamente l'operaio "per non  buscarmi  una  coltellata."  La
maestra fece un atto di ribrezzo. "Ma non può  essere  stato  che  un  ragazzo!"
disse. "Giusto" rispose l'altro "quelli sono peggio dei grandi." La maestra  non
disse più nulla, e il Perotti se n'andò col capo basso.

Il suo primo pensiero fu di cessare le  lezioni.  Ma  poi  prevalse  in  lei  il
sentimento  della  dignità.  Sarebbe  stata  una  viltà  il  ceder  così  subito
all'insolenza d'una piccola parte, ch'era la peggiore, della classe. E decise di
persistere, non solo; ma di tenere chiusi in sé i suoi affanni e le  sue  paure.
La maestra Baroffi, peraltro, la tirò  su  quel  discorso  la  mattina  dopo,  a
colazione, lagnandosi con lei che i suoi alunni serali avessero bucato in  fondo
i calamai fissi nei  banchi,  in  modo  che  quella  mattina  era  colato  tutto
l'inchiostro sui vestiti delle ragazze. Allora la Varetti  le  parlò  delle  sue
angustie. Ma quella, con la sua voce grassa di madre nobile, ribatteva sempre lo
stesso chiodo: "Ma parla loro una volta!  Fa'  loro  un  bel  discorso,  che  li
commova! Fin che non ti farai sentire, non farai nulla. Ti  scrivo  una  parlata
io, se ti pare. Il tuo motto deve essere: Sursum corda! Ah se fossi  io  al  tuo
posto! Me li farei venire a baciarmi le  mani,  come  schiavi  riconoscenti.  La
parola è tutto, mia cara!". La Varetti, però, non le disse verbo  dell'atto  del
Muroni perché, in fondo,  sebbene  l'avesse  offesa,  l'aveva  tolta  almeno  da
un'affannosa incertezza, svelandole con che fine era venuto a scuola; e anche il
nuovo timore ch'ella aveva ora di una vendetta del suo orgoglio ferito,  essendo
qualche cosa di determinato, l'angustiava meno della paura misteriosa di  prima.
Senonché la terza lezione fu anche più burrascosa della seconda. Ella  s'accorse
fin dai primi momenti che ci doveva essere un'intesa per far del chiasso  fra  i
peggiori ragazzi della classe. Anche il contegno del Muroni le apparve mutato di
proposito fin dal principio. Egli prese nel suo banco un atteggiamento spavaldo,
con le mani nelle tasche della sottoveste e una gamba sull'altra, guardando  lei
con uno sguardo che andava senza posa dal viso ai  piedi  e  dai  piedi  in  su,
accompagnato da un dondolio del capo e da un sorriso continuo, come  se  volesse
farle capire il desiderio sensuale che gli faceva  accarezzar  così  con  occhio
insolente tutta la sua persona. Ella scoperse un accordo fra lui  e  il  piccolo
Maggia, al quale dava delle occhiate per incoraggiarlo alle impertinenze.  Resse
non di meno fin che poté, senza far rimproveri. Ma, senza volerlo, il socialista
Lamagna suscitò il disordine. Quando un alunno di destra lesse ad alta voce  una
proposizione dell'Artiere italiano  che  diceva:  "Il  galantuomo,  anche  se  è
povero, è sempre contento e onorato" il Lamagna fece un riso  ironico,  e  disse
forte: "Che pastocchie da venir a contare a noi!". E tutti i ragazzi  risero  in
coro. Ciò non  ostante,  ad  ogni  interruzione  o  monelleria  di  costoro,  la
confortava il veder la maggior parte degli uomini, e in specie i contadini  e  i
pastori, far segno di maraviglia e di riprovazione, e dare anche sulla  voce  ai
disturbatori; e alcuni di essi, dei visi onesti e  gravi,  mostrare  un  sincero
rammarico. Questo le diede coraggio fino a  minacciare  qualcuno  di  espulsione
perpetua; ma la sua voce gentile  e  tremola  dava  così  poca  forza  a  quelle
minacce, che nessuno se ne diede per inteso. A un certo punto, a un'interruzione
chiassosa del piccolo Maggia, s'alzò quella specie di bruto di suo zio, rabbioso
come un giumento molestato, e gli mostrò il pugno enorme e gli occhi bianchi; ma
la paura di quel pugno non  lo  racquetò  che  pochi  minuti.  Egli  non  faceva
propriamente nulla da potere esser colto e scacciato; la  maestra  non  riusciva
mai a prenderlo sul fatto. Con una varietà e rapidità maravigliosa di gesti,  di
smorfie e di lazzi egli eccitava e disturbava vicini e lontani,  facendo  sempre
in tempo a ricomporre la faccia ad un'espressione di stupore  buffonesco  quando
essa lo guardava. Infine, nacque uno scandalo.  Avendo  la  maestra  chiamato  a
leggere Saltafinestra, questi, finita la lettura, per rimettersi al sedere  fece
un giro sopra se stesso, voltando la schiena a lei. Stando col  viso  chino  sul
libro, essa non vide l'atto, ma a una risata di tutta  la  ragazzaglia  sospettò
l'ingiuria, e mutò colore. Scoppiarono varie voci d'indignazione, fra  le  quali
s'udì distinta quella del Perotti, che gridò: "È una vergogna!".  Il  Muroni  si
voltò di scatto verso di lui e gli fissò in viso due  occhi  terribili,  in  cui
balenava la risoluzione d'una vendetta. Poi disse fra i denti: "A  più  tardi!".
Alla maestra s'agghiacciò il sangue: le parve di veder  per  aria  un  coltello,
tutto le si oscurò dinanzi, non ebbe più la forza di pronunciare una  parola  di
rimprovero. L'aspettazione d'una rissa tenne la classe in  silenzio.  La  povera
ragazza avrebbe voluto che la lezione non finisse mai. Quando fu alla fine, ebbe
ancora tanta forza da dire  con  un  filo  di  voce:  "Escano  in  silenzio,  mi
raccomando; vadano subito a casa: non mi diano  dei  dispiaceri".  Saltafinestra
aspettò il Perotti sul viale, davanti alla scuola. Tremando come una foglia,  la
maestra mise il viso allo spiraglio dell'uscio, dopo aver  esortato  inutilmente
il cantoniere a correr fuori a intromettersi: questi diceva che sarebbe accorso,
quando fossero venuti alle mani, e non si muoveva di dietro a lei. Essa vide gli
alunni disporsi in cerchio come per assistere ad una lotta.  Il  Perotti  ed  il
Muroni si misero l'uno di fronte all'altro, al lume del lampione, coi visi alti,
che quasi si toccavano. Nel silenzio della folla, udì le loro  voci.  "Torni  un
po' a dire quello che ha detto!" disse il Muroni. In quel momento si udì la voce
piangente del figliuolo del Perotti  che  supplicava  il  padre  d'andarsene,  e
pareva che si sforzasse di tirarlo via. La maestra si  sentì  un  sudore  freddo
alla fronte. Ma alle prime parole  del  Perotti,  capì  ch'egli  dava  indietro.
Gl'intese dire confusamente: "...tra camerati... non val la pena...  quando  uno
dice  il  suo  sentimento...".  Tutta  la  ragazzaglia  mise   fuori   quell'ah!
prolungato, con cui si piglia atto d'una ritrattazione. Il Muroni  disse  forte,
fra il mormorìo: "A me non si fanno  osservazioni"  e  continuò,  senza  che  la
maestra capisse, in tono risentito, fischiando quasi  le  parole.  La  voce  del
Perotti rispose anche più  blanda  di  prima.  La  rissa  era  scansata.  I  due
contendenti e la folla si cominciarono a movere. La ragazza respirò. Ma capì che
non avrebbe più avuto nessun protettore coraggioso contro chi l'insultava.

Ora, come poteva continuare a far la scuola senza ristabilir la disciplina? E in
qual modo ristabilirla? Pensò a chiedere aiuto al Garallo; ma lo conosceva: egli
l'avrebbe esortata a pazientare ancora, ripetendole la promessa di farsi  vedere
quando le cose fossero andate più in là. Poteva ricorrere al soprintendente,  il
cavalier Sanis, proprietario della grande fabbrica  di  ferramenti;  ma  era  un
benedett'uomo irreperibile, sempre a Torino quando lo cercavano a  Sant'Antonio,
sempre qui quando lo volevano là; oltreché s'era fatta una legge comoda, di  non
mai immischiarsi con operai fuori della  fabbrica.  La  maestra  era  ancora  in
quest'incertezza la sera dopo, quando vennero a pregarla di dare  una  corsa  al
sobborgo, a visitare uno dei suoi piccoli alunni, gravemente malato.  Non  c'era
che a percorrere il viale della chiesa e fare un altro centinaio  di  passi  nel
paese, e poiché, essendo ancor giorno, non aveva nulla  da  temere  dal  Muroni,
andò subito. Ma fu trattenuta in casa del malato più  che  non  s'aspettasse,  e
quando uscì, imbruniva. Ebbe l'idea di cercar qualcuno che  l'accompagnasse;  ma
si vergognò: avrebbero riso di lei. Tirò dunque innanzi a rapidi  passi.  Quando
fu all'imboccatura del viale, vedendo che era deserto,  s'arrestò.  Poi  riprese
risolutamente il cammino per un piccolo sentiero  aperto  tra  la  neve  gelata,
volgendo lo sguardo sospettoso a destra e a sinistra. Non aveva mai  trovato  il
viale così lungo e le pareva di non arrivar mai alla metà, ch'era segnata da  un
sedile  di  pietra.  E  c'era  appena  arrivata  quando  vide  un  uomo   uscire
improvvisamente di dietro al tronco d'uno dei grandi alberi del lato sinistro, e
piantarsele davanti a cinque passi. Le corse  un  brivido  per  le  vene.  Aveva
riconosciuto ai contorni Saltafinestra. S'arrestò come paralizzata. Quegli  fece
un passo avanti; essa, inchiodata a  terra,  non  si  poté  movere.  Il  giovane
domandò con voce rauca e bassa: "Perché  mi  ha  stracciato  il  quaderno?".  La
maestra non rispose. "Non si fa una figura così ad un uomo" disse  quegli.  Ella
tacque ancora, tremando da capo a piedi. "Io la potrei  far  pentire"  soggiunse
lui. Ella tremava così forte che il  giovane  se  n'accorse.  "Perché  ha  tanta
paura?..." domandò guardandosi intorno. "Non c'è nessuno... Mi dia un bacio."  E
allungò una mano. La maestra diede in uno scoppio di  pianto.  In  quel  momento
comparve un'ombra in fondo al viale. "Ho detto per ridere" disse il  giovane.  E
soggiunse con accento di minaccia: "Non parli!". La maestra si diresse  a  passi
precipitosi verso la scuola.

Rientrò in casa così spaventata che non pensò neppure un momento a denunciare il
fatto all'autorità, e quando si fu un  poco  ricomposta,  al  pensiero  d'essere
scampata da quell'incontro con null'altro di peggio che un grande  spavento,  le
parve di dover ringraziare Iddio come d'una buona fortuna. E  decise  fermamente
di non uscir mai più di sera che accompagnata; ma cercò insieme  di  confortarsi
pensando che quegli non avrebbe più osato di affrontarla una  seconda  volta  in
quel modo, che il suo terrore e il suo pianto gli avevano forse destato  un  po'
di pietà, o eran bastati, se non altro, alla soddisfazione del  suo  rancore.  E
infatti essa notò in lui, alla lezione di quella stessa  sera,  un  cambiamento:
non provocò più disordini, non fece più alcun atto di scherno. Ma v'era nel  suo
contegno qualche cosa, che quasi le faceva desiderare che non si  fosse  mutato:
pareva ch'egli avesse fatto un ritorno ai pensieri di prima,  quando  non  aveva
ancora cominciato a tormentarla, e che in quelli fosse più raccolto  e  risoluto
d'allora. Il suo sguardo non correva più sulla sua persona con quell'espressione
di  curiosità  sensuale  e  insolente;  ma,  lungi  dall'esprimere  benevolenza,
sembrava che spirasse un odio che prima non aveva. Egli la guardava  e  pensava,
rodendosi le unghie. Pareva che macchinasse qualche cosa, una serie di cose, col
dispetto di non trovarne alcuna che lo soddisfacesse. E così fece altre sere, ma
sempre più pensieroso e accigliato. Quel  suo  aspetto  era  intollerabile  alla
maestra.  Avrebbe  voluto  qualche  volta  rivolgersi  a  lui   arditamente,   e
interrogarlo, ordinargli di spiegarsi, supplicarlo anche,  perché  la  liberasse
dall'oppressione di quella perpetua minaccia muta, parendole che qualunque  cosa
egli fosse per minacciarle, dovesse essere meno peggio di quello che le  passava
confusamente  nell'immaginazione.  E  quand'era  sola,  ragionando,  cercava  di
penetrare nei suoi pensieri con l'aiuto di quella scarsa e vaga cognizione dello
spirito della sua classe ch'ella aveva di seconda mano. Per esempio, egli doveva
ad un tempo desiderarla per brutalità, come un'altra qualsiasi,  e  odiarla  per
l'avversione ch'essa gli dimostrava; doveva odiare in lei la classe signorile, a
cui stimava che appartenesse, e del cui abborrimento pei giovani suoi pari  essa
era certo la più manifesta e viva espressione ch'egli avesse mai veduto;  doveva
desiderare di vendicarsi di quell'abborrimento facendole sfregio o violenza,  ed
essere eccitato in quel desiderio dalla sua stessa paura,  che  gli  solleticava
orgoglio della malvagità e della prepotenza;  doveva  esser  tormentato  da  una
curiosità feroce di vedere come si sarebbe dibattuta, come  avrebbe  supplicato,
chiesto grazia, gridato, singhiozzato, sofferto, inorridito sotto le  sue  mani.
Egli doveva insieme desiderarla e insultarla in cuor suo, cercar di  disonorarla
nel proprio concetto, dandole i più sconci nomi  del  suo  orribile  linguaggio,
godere a immaginarsi di percoterla e di avvilirla in presenza di  tutti.  Questo
si vedeva nei suoi occhi biechi, che divampavano alle volte, biancheggiando come
gli occhi d'una fiera, e dal modo con cui ribeveva l'aria, di tratto in  tratto,
con quella sua bocca senza labbra, come per rattenere uno scoppio - credeva  lei
- di dispetto e di rabbia. E a questo pensiero rabbrividiva, e lo scacciava,  ma
vi ricadeva, suo malgrado.

Però, non essendo più aizzati da lui, i ragazzi si contennero un po' meglio  per
alcune lezioni. La pietra dello scandalo era sempre il piccolo Maggia. Una  sera
la maestra lo dovette cacciar dalla scuola perché  aveva  messo  un'assicella  a
traverso alla corsia, per far inciampare i ragazzi che andavano alla lavagna, ed
uno, inciampandovi, era stramazzato malamente. I grandi seguitavano a non  darle
fastidio, se non in quanto s'irritavano delle canzonature  dei  piccoli,  quando
facevano grossi errori di  lettura  o  di  scrittura,  ed  essa  temeva  che  li
picchiassero fuori. Ma  questo  non  avvenne.  Il  grosso  Maggia  continuava  a
studiare con una ostinazione mulesca. I pastori si mostravano  molto  diligenti.
Essa ebbe una volta sola una breve discussione col Lamagna; il quale,  peraltro,
non  le  mancava  mai  di  rispetto:  voleva  solo  farle  comprendere  che  non
riconosceva in lei alcuna superiorità sociale, che la considerava, per  esempio,
come una popolana sua  pari,  che  invece  di  spacciar  derrate  da  un  banco,
spacciava cognizioni da un tavolino.  Essa  fu  molto  maravigliata  di  un'idea
espressa da lui in un componimento sul lavoro ricompensato  dalla  coscienza:  a
modo suo, egli aveva voluto dire che nella società, secondo  giustizia,  chi  ha
più ingegno d'un altro non dovrebbe per questo guadagnar di più,  anzi  dovrebbe
di meno, perché l'ingegno agevola il lavoro ed è  ricompensa  a  se  stesso.  La
maestra, pure comprendendo che quella non doveva essere un'idea  del  suo  capo,
gli fece con bel modo qualche obiezione, a cui egli rispose asciuttamente: "È la
mia maniera di pensare". Ma non ci fu altro. E la ragazza credette  incominciato
un periodo di quiete durevole.

Senonché, man mano che la classe pigliava  con  lei  familiarità,  essa  notava,
specialmente nei grandi, un cambiamento. Pareva che, a poco a  poco,  sentissero
l'influsso sessuale della sua persona, e che questo  s'andasse  comunicando  dai
più giovani ai più attempati. Cominciava a veder  negli  sguardi  delle  fissità
prolungate, dei bagliori  di  simpatia,  delle  espressioni  di  rispetto  e  di
sollecitudine, in cui si capiva l'intenzione di cattivarsi la sua benevolenza, e
anche  dei  lampeggiamenti  di  pensieri  amorosi  o  lubrici,  che  alcuni   si
esprimevano l'un l'altro nell'orecchio, sogghignando. Osservò in  alcuni  grandi
il manifesto proposito di entrarle in grazia fingendo di prestarle una  profonda
attenzione, acconsentendo col capo alle sue parole, facendo i lavori con  grande
diligenza; parecchi venivano a chiederle spiegazioni al tavolino,  senza  sapere
bene quello che si volessero; molti, che  l'avevan  guardata  da  principio  con
tutta indifferenza, la guardavano ora da capo a piedi,  arrestando  l'occhio  su
tutte le parti della sua persona, come per prenderle  la  misura  d'un  vestito;
altri, dei più maturi,  assumevano  con  lei  un  fare  di  protezione  benigna,
disapprovando ostentatamente i disturbatori, ed  ella  vedeva  passare  come  un
chiarore sul loro viso a certe inflessioni dolci della sua voce,  e  indovinava,
più che non vedesse in loro, qualche cosa d'insolito,  un  movimento,  quasi  la
scossa d'un pensiero improvviso, quando  s'avvicinava  al  banco  per  veder  la
scrittura. E tutti questi  segni  la  inquietavano:  titubava  ad  entrar  nella
corsia, doveva misurare i gesti e gli atteggiamenti, esitava con una timidità di
bambina a dare una lode dovuta, a pronunciar certe frasi che potevano presentare
un doppio senso, a leggere certi passi del libro che richiedevano un'intonazione
di affetto. E non di meno, in quella  medesima  espressione  di  pensieri  e  di
desideri che la turbavano, vedeva come luccicare in molti  delle  qualità  buone
dell'animo, certe delicatezze che non aveva mai immaginate, quasi un  rimescolio
lento e confuso di sentimenti gentili, nascosti abitualmente dalla rozzezza  dei
modi, dall'uso del linguaggio  grossolano,  da  una  volgarità  più  voluta  che
naturale. I soli incorreggibili erano la più parte  dei  ragazzi,  e  il  Muroni
l'unico dei grandi che le destasse una repugnanza che non poteva vincere. Questa
le fu anche accresciuta da un fatto. Una sera di domenica le  arrivò  fin  nella
camera un suono di grida lontane che uscivano dall'osteria della Gallina.  Corse
alla finestra e vide folla in fondo al viale: era una  rissa.  Da  quella  massa
nera si spiccò un uomo, come un'ombra, e prese pel viale con la rapidità di  una
freccia; un altro gli si lanciò dietro.  Quando  il  primo  passò  davanti  alla
scuola, la maestra sentì un grido acutissimo: "Aiuto! Aiuto!" che le  suonò  nel
più profondo dell'anima: l'uomo svoltò dietro la chiesa, e l'altro, velocissimo,
sulle sue tracce. Il cantoniere, che guardava  di  dietro  all'uscio,  riconobbe
nell'insecutore Saltafinestra. La ragazza rimase col sangue sossopra, aspettando
la notizia d'un delitto. Non accadde nulla; l'inseguito non era stato raggiunto.
Ma quel grido di aiuto, in cui essa aveva sentito  il  terrore  disperato  della
morte, le lasciò nell'animo un nuovo e violento orrore per il suo nemico.

Le durava ancor vivo questo sentimento quando il giorno dopo,  attraversando  il
campo coperto di neve dietro alla  scuola,  per  andar  in  paese  a  far  delle
compere, mentre pensava appunto ch'era impossibile che il Muroni la fermasse  lì
di pieno giorno, a pochi passi dalle case, se lo vide venir incontro dall'angolo
opposto del campo. Atterrita, si guardò  intorno:  non  vide  che  una  fila  di
bambini che facevan gli sdruccioloni lungo il viale, a un cento  passi  da  lei.
Non era più in tempo a tornare indietro se non correndo; ma le parve  una  viltà
disonorante. Fu presa allora da un coraggio disperato, nato  dall'eccesso  della
paura, e andò diritta verso di lui, a passi malfermi, ma col capo alto. Dovevano
incontrarsi sopra lo stretto sentiero tracciato sulla neve.  A  tre  passi  l'un
dall'altro si fermarono tutti e due. Egli si levò la pipa di bocca e se la  mise
in una tasca della giacchetta, tenendovi il pollice  su,  e  la  guardò  con  un
sorriso che la fece fremere. Pareva che cercasse una frase per incominciare.  La
maestra ebbe uno slancio d'indignazione... "Che cosa vuole, insomma?  Perché  mi
ferma? Che cosa le ho fatto?" Il giovane guardò rapidamente  intorno  al  campo:
essa temette una violenza. "Perché non mi rispetta?" gridò con voce  di  pianto,
dando  un  passo  indietro...  "Perché  offende  una  donna  che  non   si   può
vendicare?... Rispetti almeno la memoria di mio padre!... Io sono figliuola d'un
soldato, morto sul campo  di  battaglia!"  E  in  quel  momento,  sul  suo  viso
contratto da un singhiozzo, disparve il terrore sotto l'espressione dello sdegno
altero e della santa memoria invocata. Il Muroni  la  guardò  attentamente;  poi
disse a bassa voce, con un tono che pareva  tranquillissimo:  "Non  voglio  mica
farle del male." Quella risposta le scemò la paura, e le  sue  lacrime  poterono
uscire. Quegli continuava a guardarla, come stupito. "Non voglio esser fermata!"
disse la maestra. "Io  non  l'ho  fermata"  rispose  lui,  guardandosi  intorno.
"Allora mi lasci passare!" Il giovane si fece in là nella neve,  e  mentre  ella
passava, con accento più di lagnanza, che di rancore, disse piano, come tra  sé:
"Non son mica  un  assassino."  Temendo  che  il  silenzio  gli  potesse  parere
un'ingiuria, ella si voltò, e con una voce  che  aveva  ancora  il  tremito  del
pianto, e che suonò, suo malgrado, quasi supplichevole: "No" disse... "ma non mi
fermi mai più!". E nel dir questo fu stupita di non incontrare il  suo  sguardo,
che la sfuggì. Ella tirò innanzi a passi lesti, e quando fu in fondo  al  campo,
involontariamente, si girò indietro. Il giovane voltava allora  le  spalle.  Non
s'era più mosso fino a quel punto.

Insomma, tornò a casa spaurita ancora e  tremante,  ma  quasi  confortata  dalla
coscienza d'una vittoria, e più dal pensiero d'aver mostrato  un  coraggio,  che
non credeva d'avere. Il fatto ch'egli avesse sfuggito  il  suo  sguardo,  quando
s'era voltata, le parve sulle prime un segno di ravvedimento e di vergogna,  che
desse a sperar bene per l'avvenire; e si ricordò dei consigli del  Garallo,  che
diceva che col popolo ci voleva ardimento e vigore, e delle idee  della  maestra
Baroffi, secondo la quale bastava una parola nobile e appassionata ad  aprire  i
cuori più duri. Ma rinvenne ben presto da queste illusioni ripensando il passato
orrendo del giovane, la sua crudeltà con la madre, la sua cinica  scostumatezza,
quell'indimenticabile grido di aiuto di quel disgraziato che, essendo  inseguito
da lui, si sentiva alle calcagna la morte, e non vide più nel  suo  contegno  di
poc'anzi che il timore d'una resistenza vigorosa di lei, che avrebbe dato  luogo
a una lotta e chiamato gente. E nondimeno andò quella  sera  a  far  scuola  con
minor trepidazione che curiosità di vedere in qual nuovo atteggiamento  egli  se
le sarebbe presentato. L'atteggiamento fu nuovo, infatti; ma non  per  l'appunto
quale essa lo immaginava. Egli non mostrava più odio, né pareva che  rimuginasse
più dei propositi tristi; mostrava, come se la vedesse per la prima  volta,  una
certa curiosità attenta, nella quale appariva smorzato il risentimento  del  suo
orgoglio per la ripugnanza ch'ella  gli  manifestava.  E  s'ella  avesse  potuto
penetrar  nel  cervello  di  lui,  avrebbe  scoperto  ch'erano  appunto  la  sua
indignazione di poche  ore  prima,  il  suo  pianto  strozzato,  la  sua  altera
invocazione della memoria paterna, che l'avevano mutato in quel modo. Non perché
l'aspetto e le parole di lei gli avessero toccato il cuore; ma perché eran stati
per lui una cosa nuova, una rivelazione di sentimenti e  di  forze  sconosciute,
ch'egli non aveva mai visto, né immaginato nell'animo  di  una  donna.  Egli  la
guardava con curiosità come una creatura al tutto diversa da  quella  che  s'era
raffigurata, e oscura in parte  alla  sua  intelligenza;  la  guardava  come  se
capisse per la prima volta che sotto alle  ragioni,  ch'egli  poteva  spiegarsi,
della sua avversione per lui, ce ne fosse una più profonda,  più  delicata,  più
forte,  radicata  più  addentro  nell'anima,  che  non  gli  riusciva  bene   di
comprendere. Oltreché egli pure, sebbene più tardi  degli  altri,  cominciava  a
sentire 1'influsso della presenza, ch'era quasi una compagnia, di quella  donna,
tanto diversa d'aspetto, d'animo e di modi  da  tutte  le  donne  ch'egli  aveva
conosciuto fino allora. Signore, egli non ne aveva mai viste che passare per  la
strada e non gli era anche occorso di esperimentare ch'esse fossero diverse  dal
concetto che egli e i suoi pari, secondo la propria natura, se ne formavano: che
è quanto dire di creature fra le quali e quelle praticate da loro, non ci  fosse
che la differenza del vestito e delle maniere;  ché  se  un'altra  ce  ne  fosse
stata, doveva essere nelle prime un più  raffinato  pervertimento,  una,  benché
nascosta, più sfacciata corruzione dell'anima  e  della  carne,  prodotta  dalla
mollezza e dalla facilità maggiore della  vita.  Ma  questa  che  aveva  davanti
correggeva alquanto le sue idee. Era la prima signora ch'egli vedeva da vicino e
a suo agio, tutte le sere; la prima che gli discorresse sovente  e  che,  in  un
certo senso, si curasse di lui; la prima di cui egli sentiva, per dir  così,  il
soffio e il calore, e di cui poteva notare a suo agio, come in casa sua, per due
lunghe ore tutti i giorni, ogni gesto, ogni moto del viso, ogni  inflessione  di
voce. Egli cominciò a notar tutto questo,  non  appena  l'orgoglio  quetato  gli
lasciò un po' libera la facoltà dell'osservazione, e tutto questo  gli  riusciva
singolare e gli cominciava a far pensare che tutta quella gentilezza  non  fosse
soltanto vernice o artifizio d'educazione, come prima credeva. Era veramente una
creatura d'una nuova specie per lui. Nonostante il suo orgoglio selvaggio,  nato
come  quello  dei  pochi  compagni  della  sua  tempra,  da  una  prepotente   e
indeterminata ambizione, e da una  coscienza  confusa  di  facoltà  non  comuni,
soffocate  dalla  povertà  e  dall'ignoranza,  egli  principiava  a  riconoscere
vagamente in lei  qualche  cosa  di  superiore  a  sé,  che  lo  umiliava  senza
inasprirlo. Egli prese a seguitare attentamente, con l'occhio  e  col  pensiero,
tutti gli atti di lei, e le espressioni del viso, e gli accenti, quasi  cercando
il perché dell'effetto che gli facevano, come si cerca ciò  che  vuol  dire  una
musica. E gli accadeva spesso di ribellarsi  a  quell'effetto  con  lo  scherno,
ritornando al sospetto abituale d'un'arte finissima di  civetteria;  ma  non  si
poteva arrestar più a lungo in questo sospetto. Provava anche a ribellarsi a  se
medesimo, suscitandosi nella mente delle immagini oscene, mettendo l'immagine di
lei in luoghi e scene vive nella sua memoria, fra le  quali  essa  le  apparisse
come trasformata e tinta del loro sozzo colore, cercando con la fantasia  quanto
ci potesse essere in lei di meno lontano dalla natura propria,  i  pensieri  più
occulti, delle debolezze, delle  aberrazioni,  delle  vergogne.  Ma  per  quanto
facesse, la sua figura finiva sempre con sollevarsi dall'ombra e dalla  mota  in
cui si sforzava di immergerla e gli si ripresentava sempre così,  come  appariva
dietro  a  quel  tavolino,  con  quella  fronte  bianca,   con   quella   grazia
fanciullesca, con quella timidità dignitosa, con quel non so  che  di  strano  e
soggiogante, di cui non poteva comprendere la vera essenza, e  che  insieme  gli
piaceva e lo stizziva, lo maravigliava, lo avviliva, lo ammansava,  gli  faceva,
all'uscita, sputar delle bestemmie più grosse e delle oscenità più brutali, come
per rieccitare la forza della sua natura contro l'ammollimento  che  si  sentiva
entrare nel sangue.

Quest'effetto fu lento, e la maestra non se n'accorse  da  prima,  anche  perché
pareva che di tanto in tanto egli mirasse a tener viva tra la scolaresca la  sua
reputazione di rompicollo senza riguardi e senza paure con qualche  bravata  che
desse scandalo o suscitasse baccano. Ma faceva questo in una nuova maniera,  più
per chiamar l'attenzione sopra di sé, che per recare  offesa  alla  maestra;  la
quale, trapelando il suo pensiero, non si  adontava  di  quegli  atti  come  per
l'addietro. A capo di pochi giorni, peraltro, notò  in  lui  altre  novità:  una
certa  diligenza  calligrafica  nei  lavori  di  casa,  un   leggero   mutamento
d'intonazione nella  lettura,  come  s'egli  si  sforzasse  di  vincere  la  sua
raucedine e di modular meglio la voce, e un modo d'ascoltare  e  d'accettare  le
sue correzioni che non era più  quello  di  prima;  oltreché  cercava  quasi  di
prolungarle, con obbiezioni e domande monosillabiche, come avrebbe  fatto  d'una
conversazione gradita. Una sera, essendo  caduta  alla  maestra  la  penna,  che
rotolò fino a piè del  primo  banco,  egli  passò  di  sotto  con  un  movimento
rapidissimo, la raccolse e gliela porse; e questo destò nella classe un mormorio
di stupore. Le rese un altro servigio anche più cortese. Si affacciavano qualche
volta alla buca del calorifero  dei  topi  enormi,  che  venivano  dalla  vicina
concerìa, passando per i condotti d'acqua; e la scolaresca, senza che si movesse
nessuno a cacciarli, si divertiva degli atti di ribrezzo che faceva la maestra a
sentirli strepitare contro la reticella di  ferro.  Una  sera,  essendo  i  topi
ricomparsi, e mostrando la maestra il ribrezzo solito in mezzo alle  risate  dei
ragazzi, egli guizzò di sotto il banco e andò a dare un calcio nella  reticella;
dopo di che, per mascherare la cortesia dell'atto, tornò al suo posto  lanciando
alla classe una facezia in gergaccio, che provocò nuove risa. Ciò non  di  meno,
anche quell'atto fu notato e, messo insieme con gli  altri  indizi,  cominciò  a
destare un certo sospetto negli scolari più astuti. Uno dei primi a darne  segno
fu il piccolo Maggia. Egli prese a vigilare la maestra e  il  giovane,  correndo
continuamente coi suoi occhi di  faina,  con  una  rapidità  fulminea,  dall'uno
all'altra, tossendo leggermente quando essa interrogava lui, dando del gomito al
vicino e ammiccando agli altri quando gli pareva che il Muroni stesse in  troppa
attenta contemplazione della signorina: con  le  debite  cautele,  però,  perché
conosceva l'amico, e non c'era da scherzare.  Ma  la  Varetti  se  n'accorse,  e
sebbene, per istinto, ora che lo vedeva mutato, fosse  disposta  a  guardare  il
giovane con minor diffidenza e a interrogarlo più spesso, pure  faceva  l'una  e
l'altra cosa il più raramente possibile, intimidita, tormentata  dalla  continua
vigilanza di quei due occhi sorridenti e maligni del ragazzo,  che  le  frugavan
nell'anima. Ma,  insomma,  dal  peggior  tormento  era  liberata  e  viveva  più
tranquilla.

Viveva più tranquilla perché, non conoscendo  l'indole  dei  giovani  di  quella
classe e di quella fibra, pensava che il suo mutamento si sarebbe arrestato  lì.
Ma quando egli s'accorse che,  cessando  in  lei,  per  effetto  del  suo  nuovo
contegno, la paura e la ripugnanza antica, non vi sottentrava già  la  simpatia,
ma una indifferenza eguale a quella che essa mostrava per gli altri,  allora  fu
come colpito da una delusione, che lo  accese  meglio.  Nell'avversione  paurosa
ch'ella aveva prima per lui, egli trovava almeno una certa soddisfazione  d'amor
proprio, poiché gli pareva un effetto della  sua  trista  celebrità,  della  sua
reputazione d'uomo capace di ogni audacia; allora,  se  non  altro,  non  andava
confuso con gli altri; aveva, anche nella scuola, davanti ad essa, la supremazia
di cui si gloriava di fuori; infine, godeva di produrre in lei  una  impressione
forte, qualunque fosse. Ora, cessato quel  suo  potere,  egli  si  trovava  come
disarmato, senz'alcun mezzo di attirare la sua attenzione e di toccarle l'animo,
e nella sua crescente  simpatia,  sentiva  più  rabbiosamente  la  diversità  di
condizione sociale, l'inferiorità della cultura, la differenza d'educazione,  di
maniere, d'ogni cosa, che gli toglievano di sperare una corrispondenza.  E  così
si veniva insinuando in lui, a poco a poco, un nuovo e più acre fastidio del suo
stato, una nuova e confusa ambizione, volta a tutt'altre mire che  a  quelle  di
prima, quando  cercava  la  gloria  nelle  birbonate,  nella  prepotenza,  nelle
vittorie delle risse. Ma l'ambizione nuova non avendo sfogo possibile, divampava
in lui  come  una  fiamma  chiusa,  raddoppiando  l'ardore  dell'altra  passione
Nondimeno, per istinto, cercava d'avvicinarsi a lei in  qualche  maniera,  quasi
senza pensarvi. Un occhio  attento  avrebbe  osservato  in  lui,  da  un  giorno
all'altro, il ciuffo rimosso dalla fronte, la faccia e le mani più  pulite,  una
nettezza più accurata dei panni, qualche cosa nei suoi atteggiamenti in  scuola,
e perfino certe singolarità in mezzo alle grosse scorrezioni  dei  suoi  lavori,
che annunziavano un'intenzione di raffinamento della persona e  della  mente,  e
quasi l'imitazione d'un modello ideale. Di tutto questo non s'avvide la  maestra
quanto d'un cambiamento nel suo modo di guardarla, per  il  quale  essa  avrebbe
quasi sospettato in lui dei sentimenti opposti a quelli che l'animavano. Era una
guardatura accigliata, insistente, ma più rivolta a tutta la sua persona, che ai
suoi occhi, ch'egli pareva  sfuggire;  un'attenzione  dissimulata,  ma  fissa  e
indagatrice, che si appuntava anche sul più piccolo dei suoi movimenti, come  se
ciascuno avesse avuto per lui il significato  d'una  parola  scritta,  non  bene
intelligibile, di qualche lingua straniera; una visibile meditazione di tutte le
frasi, ch'ella dicesse, che uscissero per poco dal giro del consueto  linguaggio
didattico, come se  fossero  altrettanti  spiragli,  per  cui  egli  le  potesse
penetrar col pensiero nell'animo, e guardar che cosa vi  fosse  di  nuovo  e  di
strano, che mandasse fuori quei suoni,  ch'ei  non  aveva  mai  intesi.  Ma  non
crescevan punto da parte sua le manifestazioni della cortesia  e  del  rispetto:
era ancora tanto calmo da badare a non farsi scorgere apertamente. All'uscita  e
all'entrata,  però,  nei  momenti  in  cui  egli  credeva  di  poterla  guardare
senz'esser visto, la maestra incontrava il suo sguardo acuto, scintillante,  non
più audace, ma  severo,  inquieto,  avido,  scontento,  velato  da  un'ombra  di
vergogna; la quale non  era  la  vergogna  delle  insolenze  passate,  ma  della
passione nascente. Ma la maestra credeva la prima cosa, e non sospettando altro,
si rassicurava.

Eran le cose a questo punto quando una mattina, mentre passeggiava al  sole  del
cortile, durante la ricreazione dei suoi bambini,  la  Varetti  vide  affacciasi
all'uscio la madre del Muroni,  che  cercava  di  lei.  Essa  fece  un  atto  di
rincrescimento come se la soverchia familiarità di quella donna mettesse qualche
cosa di comune fra lei e il suo figliuolo. La povera vecchia venne  innanzi  con
le mani sotto il grembiule, girando in atto guardingo  i  suoi  dolci  occhi  di
vittima, in cui pareva  che  fossero  congelate  due  lagrime,  s'avvicinò  alla
signorina con un sorriso, come se fosse già avviata fra loro una buona amicizia,
e  le  disse  a  bassa  voce,  in  aria  di  mistero,  con  accento  di   timida
soddisfazione: "Va meglio, sa. Va un poco meglio da un po' di tempo. Pare che si
sia quetato un po'. Non mi tratta più male, non va più alla Gallina. Mi  par  di
sognare, in verità. La sera sta al lavoro. Io ringrazio il  buon  Dio  giorno  e
notte!". E guardò con sospetto verso l'uscio.  Essa  attribuiva  quel  mutamento
alla scuola, e veniva appunto per ringraziar la maestra, e anche per  farle  una
preghiera. "Sarebbe," le disse "mi  perdoni  tanto  la  libertà,  signorina;  ma
sarebbe di approfittare del buon  momento,  che  par  disposto  così  bene,  per
tentare quello che le ho detto il primo giorno, di fargli entrare  in  cuore  un
po' di religione, che si decidesse una buona volta a fare i suoi doveri, che son
dieci anni che non si avvicina ai Sacramenti, Dio di misericordia,  dieci  anni,
lei m'intende! E dire che gli devo dare di tanto in tanto i miei  ultimi  soldi,
per fargli recitare un pater e un ave, che non vada a letto come un cane,  e  ho
ancora nell'idea che dica tutt'altre cose, dal modo che fa con la bocca! Se  lei
volesse far quest'opera di carità, signora maestra,  già  che  gl'insegna  tante
altre belle cose, di fargli ben capire che la prima cosa è di salvar l'anima,  e
che io avessi questa consolazione,  prima  di  chiuder  gli  occhi,  di  vederlo
riconciliato col Signore! Perché se non si  prende  questo  momento,  creda,  un
altro così non ritorna più; io non l'ho visto mai così buono, dopo che  il  buon
Dio me l'ha mandato, in fede dell'anima mia!"  La  maestra  guardò  da  un'altra
parte per non mostrare la soddisfazione d'amor proprio che le  davan  le  ultime
parole. E rispose che avrebbe fatto quello che poteva, ma che  poteva  fare  ben
poco. "In ogni modo" disse la donna, dando un'altra occhiata all'uscio socchiuso
"bisogna dire che è una gran benedizione la scuola, se fa del bene anche al  mio
figliuolo. Perché è la scuola, non c'è che dire." Qui,  come  colta  da  un'idea
nuova, stette un po' pensierosa, guardando a terra; poi disse  piano,  rialzando
gli occhi: "Salvo il caso...". La maestra la guardò. "Salvo il caso" continuò la
donna, guardando a terra da capo, "che sia  qualche  simpatia  di  sentimento...
come l'anno scorso, per  la  macellarina."  La  maestra  ebbe  un  sospetto,  ma
istantaneo: si vedeva che il pensiero della madre era a  mille  miglia  da  lei.
"Eppure,"  soggiunse  questa,  riflettendo  "per  quanto  io  abbia  cercato   e
domandato, non mi son potuta accorger di nessuna." Poi tornò  tutt'a  un  tratto
alla religione. La maestra le domandò perché non ricorresse al parroco.  Signore
Iddio benedetto, quel buon vecchino, alto così, tanto alla mano con  tutti,  era
un sant'uomo; ma non se ne voleva immischiare. Ella sospettava che avesse un po'
di "suggezione" del suo figliuolo. E quella "suggezione" che voleva  dir  paura,
era una parola di ripiego, in  cui  l'amor  materno  metteva  pure  un'ombra  di
vanità. Ed era lo stesso degli altri: il cavalier Sanis, padrone della fabbrica,
il dottore, che gli avrebbero potuto far delle ammonizioni e dar  dei  consigli,
tutti quanti pareva ne avessero un po' di "suggezione"; scherzavano  perfin  con
lui, incontrandolo; nessuno lo voleva urtare. "In fine" disse "Nostro Signore mi
continuerà ad aiutare, poiché ha cominciato." E andandosene, mentre  ringraziava
la maestra con una espressione umile e affettuosa d'ammirazione, il suo  sguardo
s'arrestò e s'avviò un momento sopra di lei, come al sorgere d'un pensiero... Ma
il pensiero passò. "Vado a pregar per lei, signorina" le disse di sull'uscio,  e
voltandole la sua povera schiena corta e incurvata di vecchia  martire,  s'avviò
verso la chiesa.

"Insomma, è domato!" disse in cuor suo la maestra. Non aveva più  da  temere  né
insulti né violenze, poteva girar tranquillamente per il paese, era libera,  era
contenta, ed anche un poco altera dell'opera sua.  E  con  questi  pensieri  non
titubò un momento a uscir di casa sola il  giorno  dopo  sull'imbrunire,  quando
venne un ragazzo con le chiavi del quartierino della  maestra  Latti  e  con  un
biglietto, scritto a matita, col quale la sua amica la pregava di prender  nella
camera certi medicinali e di portarglieli subito in paese, in casa del  fornaio,
dov'era ricoverata, essendole preso male per la strada. Ella si ficcò  in  tasca
le boccette, si mise il cappellino e il mantello, e se  n'andò  a  passi  lesti,
sotto una neve che veniva giù a larghe falde, e aveva già imbiancato ogni  cosa.
Trovò la maestra Latti distesa sopra un sofà, assistita dalla moglie del fornaio
e dalle sue figliuole, che sorridevano a fior di labbra.  "Ah  Enrica!"  esclamò
quella, tendendole languidamente la mano. "Ti vedo ancora!" Il suo  viso,  però,
non giustificava la tristezza mortale di quel saluto. Avendo  mal  di  capo,  ed
essendo scivolata per la strada per aver messo un piede in falso,  essa  credeva
d'esser caduta per una portata di sangue al cervello, con la quale le si fossero
scatenati addosso, cogliendo l'occasione, tutti gli altri suoi mali. Trasportata
su, s'era indispettita col medico - un grosso biondo burlone -  che,  per  tutta
cura, le aveva consigliata l'aria di Massaua, e poi era ricaduta  in  un  grande
abbattimento... "Va" disse con voce fioca alla Varetti, dopo aver inghiottito in
furia le medicine, "non ho più bisogno di te. Questa buona gente  mi  porterà  a
casa più tardi... viva o morta." Quando  la  Varetti,  nascondendo  un  sorriso,
s'accomiatò da lei, era quasi notte. Continuava a nevicare. Sul viale c'era  già
un palmo di neve. Ella indugiò un momento  prima  d'entrarvi,  poi  affrettò  il
passo.  I  due  lampioni  del  gas,  velati  dalla  nevicata,  rompevano  appena
l'oscurità con due dischi di luce pallida;  lo  strepito  delle  macchine  degli
opifici vicini arrivava là affiacchito, come se uscisse di sotterra, e  il  suon
dell'incudine del fabbro ferraio,  ch'era  all'entrata  del  paese,  pareva  che
venisse da una gran lontananza. Arrivata  a  un  terzo  del  viale,  parve  alla
maestra di veder muovere un'ombra dietro a un albero; si soffermò,  col  respiro
oppresso; poi si fece animo e prese la corsa. A due passi dall'albero le si parò
davanti il Muroni. Ella stava per gittare  un  grido,  ma  lo  rattenne  vedendo
ch'egli si levava il cappello. "Ancora lei!" esclamò, sdegnata. "Cosa  vuole?...
Mi lasci passare." Quegli rispose con la sua voce rauca, ma in tuono rispettoso:
"C'è la neve, io le faccio la strada... se permette". "Non voglio!"  rispose  la
maestra. "Si faccia in là, o grido aiuto."  "Perché?..."  domandò  lui,  a  voce
bassa. "Mi crede proprio... Crede che non abbia anch'io un po' di cuore?...  Non
ha mica da lamentarsi di me, da un  po'  di  giorni."  E  senza  darle  tempo  a
rispondere, saltò a cinque passi davanti a lei, e si mise in  cammino  verso  la
scuola,  col  corpo  chino,  strisciando  rapidamente  i  piedi  l'uno   stretto
all'altro, per aprirle un sentiero in mezzo alla neve. La  maestra,  rassicurata
un po', gli tenne dietro per un tratto, senza perderlo d'occhio; ma poi, ripresa
da una paura improvvisa, slanciandosi avanti per fuggire, in un momento  ch'egli
rallentava il passo, l'urtò col ginocchio. Quegli perdette i lumi, e mettendo un
ah! soffocato, voltatosi bruscamente, l'afferrò a due mani per la vita  e  cercò
il suo viso con la bocca. La maestra si dibatté furiosamente sotto il suo  alito
acceso, che sentiva l'acquavite e la pipa. "Mi dia un bacio" disse lui, con voce
arrantolata, "un bacio e la lascio andare... un bacio  e  la  lascio  andare..."
Dicendo questo, furioso, le levò le mani dalla vita per afferrarle il capo: essa
gli sfuggì dalle braccia con un guizzo e si diede a correre disperatamente verso
la scuola gridando:  "Aiuto!  Aiuto!"  ma  con  voce  così  fioca,  che  nessuno
l'avrebbe   intesa.   Egli   la   inseguì,   anelando,    pronunciando    parole
incomprensibili, con voce sibilante. Nel terrore che  la  levava  di  senno,  le
parve di sentir dire: "Ca scüsa! ca scüsa!" (Mi scusi, mi scusi).  Poi  non  udì
più nulla, nemmeno il suo passo. Arrivò trafelata alla scuola, entrò barcollando
nel corridoio, e incontrando la bidella col lume, si lasciò andare con la spalla
al muro, smorta, quasi svenuta. "Cosa c'è?" domandò la  donna,  spaventata.  "Un
ladro!" rispose lei. Il cantoniere accorse. "Un ladro? un ladro?"  E,  afferrato
un randello, si slanciò fuori, attraversò il cortile... e chiuse l'uscio.

La povera maestra passò la notte con la febbre, cercando quale fosse la  miglior
via per ricorrere alla giustizia, poiché vedeva oramai la  cosa  necessaria:  se
riferire il fatto al maestro  Garallo,  come  direttore,  perché  scacciasse  il
Muroni dalla scuola e lo denunciasse ai  carabinieri,  o  andar  senz'altro  dal
cavalier Sanis, ch'era  il  personaggio  più  autorevole  del  sobborgo,  perché
provvedesse lui nel modo che avrebbe stimato più opportuno.  A  fare  un  passo,
comunque fosse, era risoluta, non reggendole l'animo  all'idea  che  le  potesse
toccare un'altra volta un affronto e uno spavento come quelli che aveva avuti, e
al cui pensiero tremava ancora. Si levò la  mattina  dopo,  decisa  d'andar  dal
soprintendente, dopo averne avvertito, per dovere di  delicatezza,  il  maestro.
Era domenica: essa contava d'andar prima alla messa  e  poi  alla  fabbrica  del
cavalier Sanis. Ma mentre stava terminando di vestirsi,  eccoti  lì  la  maestra
Mazzara, ansante e affaccendata, come sempre, col sorriso sulla bocca e un pacco
di carte fra le mani. Era già stata dalla Baroffi a chiedere un articolo per una
Strenna che volevan pubblicare varie maestre a  benefizio  d'una  loro  collega,
vedova d'una guardia daziaria. Non poteva trattenersi che pochi minuti. Aveva da
galoppare tutto il giorno a Torino per preparare una  recita  di  dilettanti  al
teatro Scribe, per la fondazione d'un asilo infantile alla Crocetta; doveva fare
una visita alla scuola d'Orticoltura in via Garibaldi,  dove  una  sua  compagna
insegnava a scrivere a quaranta giardinieri; voleva andare  ancora  all'istituto
del Buon Pastore a vedere che cosa ci fosse di vero in una voce messa in giro da
un giornale, che le maestre monache facessero apparire il diavolo di  notte  per
spaventare le ragazze riottose. Quand'ebbe detto tutto  questo,  riprese  fiato;
poi domandò notizie della scuola serale all'amica, e  si  mostrò  addolorata  di
vederla triste. "Cos'hai?  Che  c'è  stato?  Perché  sei  pallida?  Che  t'hanno
fatto?". Veramente, essa non pareva alla Varetti la confidente più opportuna per
le cose che le aveva da dire; ma non avendone altra, raccontò tutto a lei,  fino
alla scena della sera avanti. "Ma dunque l'hai innamorato!" esclamò  quella  con
grande vivacità. "... Per questo non s'è  più  visto  alle  scuole  festive!"  E
stette un po' pensando, come  per  gustare  quello  che  vi  era  di  romanzesco
nell'avventura. "E cos'hai deciso di fare?" domandò poi.  La  Varetti  le  disse
risolutamente la sua intenzione. L'amica rimase  assorta  qualche  momento.  Poi
rispose con gravità, tentennando il capo: "Io non ti darei questo consiglio".  E
richiesta del perché, spiegò il suo pensiero. "Perché tu non conosci l'animo  di
quella gente.  Tu  provocherai  una  vendetta."  "Ma  che  vendetta  vuoi  ch'io
provochi?" domandò la Varetti, scrollando una spalla. "Che cosa mi  può  far  di
peggio di quello che ha fatto?... Ammazzarmi?" "Eh, a te non farà nulla" rispose
l'altra "si capisce. Ma se non si vendicherà su di te, si vendicherà  su  quelli
che lo puniranno, di questo puoi star sicura, come se fosse già fatto.  No,  non
ti metter sulla coscienza questo rimorso." "Ma dunque" esclamò  la  Varetti  con
risentimento "io devo ingoiarmi l'affronto e starne ad aspettare  degli  altri?"
L'amica tacque un mezzo minuto. "Ma, insomma" disse "non t'ha neppure  baciata!"
La Varetti fece un atto di maraviglia e di  sdegno.  Ma  quella  non  la  lasciò
parlare. "Capisco, l'affronto  c'è  stato  egualmente.  Però...  dici  che  t'ha
chiesto scusa... Infine, devi anche considerare che uomo è, od era, piuttosto. È
già una bella vittoria d'averlo ridotto  a  quel  modo,  d'avergli  ispirato  un
sentimento... Che t'ho da dire? Nei tuoi  piedi,  io  starei  ancora  a  vedere.
Vorrei compir l'opera, finire di convertirlo... È un caso raro, davvero." E dopo
aver fissato un po' la sua amica:  "Ah!  la  mia  povera  Enrichetta"  le  disse
sorridendo  e  pigliandole  il  mento  con  due  dita  "con  quel   visetto   di
principessina!". La Varetti si asciugò due lacrime.  "Segui  il  mio  consiglio"
riprese l'altra "perdona ancora una volta. Io son  certa  che  non  accadrà  più
nulla. Tu  non  conosci  questi  giovani  del  popolo.  Basta  non  irritarli  o
avvilirli, se ne fa quello che si vuole, anche dei peggiori. Quello lì,  vedrai,
diventerà un agnello! T'ha fatto la strada coi piedi, te la farà coi  ginocchi."
La Varetti rimase perplessa. "Ah!  il  popolo!"  continuò  l'amica.  "Credi,  il
popolo è mal conosciuto. Per questo non è  amato.  E  se  par  malvagio  qualche
volta, è appunto perché non è amato. Basta. Ti  verrò  presto  a  rivedere.  Son
curiosa di sapere come andrà a finire. Cos'hai  deciso?"  "Non  so"  rispose  la
Varetti, fissando per la finestra i camini delle fabbriche, come se  fossero  un
dato del problema che la teneva in dubbio. La  Mazzara,  andandosene,  le  diede
ancora in fretta in fretta un sacco di notizie  torinesi:  c'era  un  matrimonio
nella scuola Sclopis; la  contessa  Di  Rosa  aveva  invitato  a  uno  dei  suoi
magnifici balli le due maestre delle sue figliuole: nel ritiro della Visitazione
aveva tentato di avvelenarsi una ragazza perché le  era  stata  sequestrata  una
lettera amorosa; a San Filippo, nella prossima quaresima, avrebbe predicato  don
Calandra.  E  glien'aggiunse  ancor  una  sull'uscio:  Il  Malon,  quel   famoso
socialista francese, doveva tenere una conferenza agli operai  di  Torino:  essa
sperava di potervi andare. "Animo" le disse infine sulla  via,  con  un  sorriso
adulatorio "bella domatrice!"

Dopo molta esitazione, la Varetti si decise ad aspettare ancora, e ritornò  alla
scuola serale, il lunedì sera, un po' turbata dentro, ma  tranquilla  di  fuori,
come se nulla fosse accaduto. Seduta appena a tavolino,  essa  s'accorse,  senza
guardare il Muroni, che questi stava in un atteggiamento in cui non l'aveva  mai
veduto, coi pugni appoggiati sul banco e il mento sui  pugni;  e  le  bastò,  un
minuto dopo, dargli uno sguardo di sfuggita, per riconoscere che  aveva  bevuto.
Aveva  daccapo  il  ciuffo  in  mezzo  alla  fronte,  gli  occhi  imbambolati  e
sonnolenti, la cravatta scomposta, e parve alla maestra di rivedergli a traverso
al velo denso dell'ebbrezza l'espressione trista e bieca dei primi giorni,  come
se fosse tornato al proposito di schernirla e di farle paura. Ma non fece  alcun
disordine quella sera, né mutò nemmeno l'atteggiamento, ed essa non lo interrogò
né lo fece leggere. La sera dopo venne a scuola intieramente  in  sé,  col  viso
consueto, e d'allora in poi lo rivide stare attento, guardarla,  ascoltarla  con
quell'aria d'ammirazione meditabonda e quasi cupa, ch'egli aveva mostrato  prima
dell'ultimo  incontro  sul  viale.  Soltanto  non  appariva  più   alcun   segno
d'ambizione o di vanità nella sua condotta, né  sulla  sua  persona:  tornava  a
mostrare il viso e le mani poco  puliti,  leggeva  con  trascuranza,  faceva  il
lavoro alla diavola, o non lo faceva, e pareva che  desiderasse  di  non  essere
interrogato, di  esser  lasciato  tranquillo  nel  suo  canto,  a  guardarla  in
silenzio, come un cane da caccia. Ma questa sua contemplazione, così  prolungata
alle volte che egli non seguitava più  sul  libro  la  lettura  degli  altri,  e
metteva le spalle al muro, voltandosi in pieno verso destra, per meglio vederla,
quando lei era dalla parte della prima sezione, finì con dar  nell'occhio  anche
agli alunni meno osservatori. Grandi  e  piccoli,  di  tanto  in  tanto,  se  lo
accennavan l'un l'altro col capo, e se  ne  parlavan  negli  orecchi.  Toh!  Era
dunque proprio vero: Saltafinestra era innamorato della maestrina.  Era  un  bel
caso! Questa  volta,  però,  l'avrebbe  avuta  a  far  con  la  voglia.  S'aveva
bell'avere il muso di Saltafinestra, ci voleva una buona  dose  di  pretensione.
Nessuno avrebbe mai pensato che quel lestofante lì,  che  n'aveva  già  fatte  e
provate di tutte le tinte, avrebbe dato un tuffo  nella  bambinaggine  a  quella
maniera. E gli uomini pei primi gli avrebbero dato  la  berta,  se  non  avesser
saputo che con lui c'era da correr dei rischi. Ma i ragazzi, più maligni e  meno
prudenti, non si moderavano tanto. Nondimeno, grazie al timore che incuteva, non
sarebbe nato nessun scandalo, s'egli non si fosse lasciato andare a provocarlo.

Il Muroni che, nei primi giorni,  aveva  eccitato  la  classe  alle  risa  e  al
disordine in odio alla maestra, vedeva male ora che altri le  desse  noia  o  le
facesse offesa. Cominciò a guardare a traverso quelli che facevan  del  chiasso,
prima quasi involontariamente, come un uomo frastornato in  un  pensiero  fisso;
poi col proposito manifesto di farli smettere,  fissando  l'un  dopo  l'altro  i
disturbatori. Quando costoro se ne accorsero, incoraggiandosi a poco a  poco  al
vedersi concordi, presero  a  far  peggio;  e  allora,  alla  stizza  di  prima,
s'aggiunse in lui il risentimento dell'ingiuria a  lui  diretta.  La  cosa,  per
alcune sere, non passò i termini; ma poi egli s'inasprì. I disturbatori ostinati
non eran che i ragazzi, ma tanto più egli si sentiva ferito  nell'orgoglio,  che
non riusciva a farsi temere da un pugno di monelli, lui che aveva fatto  tremare
degli  uomini.  Principiò,  quando  s'arrischiavano  a  qualche  monelleria  più
sfacciata, a dire delle impertinenze fuor dei denti, a minacciare di  saldare  i
conti  all'uscita.  E  proprio  sul  viso  nessuno  osava  di  rispondergli;  ma
rispondevan tutti insieme facendo la voce sorda del cane rugliante o il  rantolo
dei gatti che fan le fusa; il che lo metteva fuor dei gangheri. Il più  accanito
era il  piccolo  Maggia,  una  buona  stoffa  di  Saltafinestra  futuro,  capace
d'affrontare anche un uomo. Doveva essere opera sua una strofetta  in  dialetto,
che la Varetti gli udì cantare una sera coi suoi compagni, nella quale  rimavano
maestra e Saltafinestra a capo di due versi che la  fecero  arrossire.  Ella  si
trovava in un impiccio penoso e difficile, non potendo accettare in nessun  modo
né sapendo con qual mezzo far cessare quella troppo aperta protezione di chi era
in più mala fama fra i suoi scolari. Ma c'era anche  di  peggio.  Quella  aperta
passione del Muroni per lei, quella  sua  continua  ammirazione  avida  e  muta,
venivan ravvivando negli altri, per virtù di simpatia, quella fiammella mista di
sensualità e di sentimento, di cui s'era accorta dopo i primi  giorni.  Ella  si
vedeva ora, anche da vari degli uomini più seri, guardata con occhi più  intenti
e più arditi; indovinava dei commenti più liberi sulla sua persona;  coglieva  a
volo delle piccole manifestazioni di gelosia, perfin sulla faccia di  bronzo  di
quel piccolo Maggia; dal quale, passando una sera in mezzo ai banchi,  le  parve
di sentirsi strisciar la veste con la mano. I soli  che  rimanessero  immutabili
erano il Perotti, con la sua  onesta  barba  di  buon  padre  di  famiglia,  che
trattava sempre la maestra col rispetto d'un vecchio servitore; quella specie di
bruto dello zio Maggia, sempre ostinato a studiare, e curvo sul  banco  come  un
animale affamato alla greppia, e il socialista Lamagna. Questi, senza dimostrare
alcun ossequio alla maestra, che considerava  come  una  compagna  di  officina,
pareva che fosse infastidito della mala condotta dei suoi condiscepoli,  e  dava
dei segni di disgusto alle loro escandescenze più  grossolane;  perché,  secondo
lui, l'operaio avrebbe dovuto insegnar l'educazione  ai  signori,  e  invece  di
farsi disprezzare da loro con la villania, farli arrossire con la sua dignità.

Finalmente, il disordine andò tant'oltre una  sera  che  la  maestra  decise  di
ricorrere al maestro Garallo. Dieci minuti dopo la lezione, mentre si  sentivano
ancora sul viale i fischi e i canti sgangherati degli alunni, piena di tristezza
e fremente di collera, andò  a  picchiare  all'uscio  del  suo  quartierino.  Le
risposero insieme: "Avanti!" due voci gravi. Ella trovò marito e  moglie  seduti
dalle due parti d'una tavola coperta di fogli, tutti e due con le  grosse  teste
arruffate, piccoli e corpulenti, che parevan fratello e sorella.  Il  salottino,
repubblicanamente austero, non aveva altro ornamento che i  ritratti  in  stampa
del Mazzini, del Saffi e di Alberto  Mario,  appesi  a  una  parete;  dall'altra
pendeva un gran quadro calligrafico,  diviso  in  scompartimenti  colorati,  nei
quali erano segnati gli stipendi dei  maestri  elementari  di  tutti  gli  Stati
civili; la tavola era rischiarata da  un  lumino  da  cucina,  posto  sopra  una
scatola di zucchero, vuota.  "Ah!  lei  è  qui!"  disse  il  maestro,  ed  entrò
senz'altro nel suo discorso prediletto, a proposito  d'un  memoriale  che  stava
scrivendo, perché il municipio di Torino accettasse  come  validi,  pei  diritti
alla pensione, gli anni di servizio prestati dai  maestri  negli  altri  comuni.
"Perché è una sacrosanta giustizia!" esclamò. Ma la Varetti lo interruppe e, con
voce concitata, gli espose i casi suoi. Aveva pazientato  fin  allora,  per  non
dargli noia; ma non poteva più andare avanti con quella  classe  indisciplinata,
che le mancava di rispetto in  tutte  le  maniere,  e  faceva  della  scuola  un
mercato. Era assolutamente necessario che il maestro andasse la sera dopo a dare
un ammonimento solenne a tutti, e una lezione  particolare  ai  più  tristi.  Il
maestro si grattò un orecchio; parve seccato da quella domanda. "Verrò" rispose;
"ma... gliel'avevo detto che in quella scuola ci vuole energia." "Ma che energia
vuol che abbia una ragazza sola davanti a quaranta uomini?" domandò la  Varetti.
"Io li tenevo" disse con una nota di trombone la signora Garallo. "Io non ho  la
sua virtù" rispose piccata la signorina. "Lei ne  imponeva  di  più,  anche  con
l'aspetto..." La Garallo la fissò. "Io  non  riesco  a  farmi  temere"  continuò
l'altra "non so come fare, ai miei rimproveri non badano,  faccio  tutto  quello
che posso, mi riducono alla disperazione. È un supplizio a  cui  non  posso  più
reggere." "È inutile" disse il  maestro,  impazientito  "il  popolo  vuol  esser
trattato in  un  modo  particolare,  bisogna  saperlo  prendere...  Non  bisogna
presentarglisi, con maniere, non dico aristocratiche, non è il caso, ma nemmeno,
che so io? troppo signorili; non bisogna lasciargli vedere che  si  ha  quasi...
orrore di lui." La Varetti si scosse a quelle parole. "Chi le ha  detto  che  io
usi dei modi aristocratici?" domandò con risentimento. "Chi le ha detto  che  io
abbia orrore del popolo?" "Il popolo vuol essere amato!"  sentenziò  la  maestra
Garallo. "E io l'amo!" esclamò la ragazza, con uno slancio vigoroso d'affetto  e
di sdegno. "Che cosa le può far pensare il  contrario?"  "Andiamo"  concluse  il
Garallo, in tuono conciliante "faremo così. Per ora darò ordine al cantoniere di
assistere alle lezioni. La sua presenza basterà a tenere a segno i ragazzi. Lei,
dal canto suo, mi darà sera per sera i nomi dei  disturbatori.  Se  poi  seguirà
qualche cosa di grave, il cantoniere mi verrà a chiamare, e allora...  non  avrò
che da farmi vedere. Intanto, si faccia  coraggio."  La  maestra,  indispettita,
stava per rispondergli: "Se lo faccia lei" ma rattenne  la  parola  sulla  punta
delle labbra. Si contentò di fare un saluto asciutto e se n'andò.  Uscendo,  udì
la voce del maestro che diceva piano: "Non capisce il popolo; non  sa  star  col
popolo" e la curiosità la ritenne un momento  con  l'orecchio  teso.  Ma  quegli
parlava già dei maestri del Brasile i quali, oltre  alla  casa  e  al  giardino,
hanno un tanto di guadagno per ciascun alunno promosso.

Rassegnata, tornò la sera dopo alla scuola. Nevicava fitto  da  varie  ore;  gli
alunni arrivavano coi cappelli e con le spalle coperti  di  neve,  scotendosi  i
panni e pestando i piedi con grande strepito. A metà del corridoio,  la  maestra
fu fermata dal cantoniere che le domandò il permesso  di  dirle  una  parola  in
confidenza. Il maestro Garallo gli aveva ordinato di assistere alle lezioni  per
mantenere il buon ordine; ma egli aveva una proposta da  fare:  gli  pareva  più
politico di star  nel  corridoio,  con  l'orecchio  all'uscio,  e  d'entrar  poi
all'improvviso, quando avesse inteso rumore, perché, in quella maniera,  avrebbe
potuto cogliere in flagrante i colpevoli. E dicendo questo  strizzò  un  occhio,
per far comprender meglio la sua furberia. Ancora un altro che aveva  paura!  La
maestra gli diede uno sguardo di pietà, dicendogli che facesse quel che  voleva,
ed egli,  dissimulando  la  sua  soddisfazione,  prese  un'impostatura  risoluta
accanto all'uscio. Mancavano quella sera più d'una dozzina d'alunni. La  maestra
ne domandò conto e seppe che erano andati con molta  altra  gente  a  passar  la
serata in una stalla, dove un vecchio contadino reduce dall'America, uno spirito
faceto e bizzarro, aveva invitato mezzo il sobborgo a sentir la storia delle sue
avventure. Era un po' di sollievo per lei; ma della ragazzaglia, pur troppo, non
mancava un solo. Fin dai primi momenti ella s'avvide che il Muroni era più  cupo
del solito: dovevano esser corse parole fra lui e gli altri prima  dell'entrata.
E vide anche su quei dieci o quindici visi  degli  alunni  più  audaci  come  un
pensiero comune, l'apparenza d'un accordo che avessero fatto fra di loro;  forse
per sostenersi a vicenda quando  uno  di  essi,  dopo  la  scuola,  fosse  stato
assalito da Saltafinestra, che avevano deciso di provocare. Infatti, non  appena
ella si voltò alla lavagna per scrivere, si sentì dietro alle spalle un  fremito
di risa e di mormorii più impertinente dell'usato; ed ebbe una stretta al cuore,
indovinando dal suono particolare di quel riso le smorfie laide e gli atti e  le
parole licenziose che dovevan correre pei banchi. A un  certo  punto,  facendosi
più alto il rumore, il cantoniere mise  il  viso  allo  spiraglio  dell'uscio  e
disse: "Silenzio! Non è la maniera!" ma disparve con una così  comica  rapidità,
che mezza la classe fece una risata. Pochi momenti dopo,  mentre  essa  scriveva
ancora, le cadde una freccia di carta ai piedi, poi una buccia di  castagna.  Ma
quegli affronti non la ferirono più. Non  sentiva  più  sdegno  oramai,  ma  una
profonda tristezza, e insieme non so che forza nuova nell'animo, che  la  teneva
là ferma e intrepida, quasi a  una  mortificazione  meritata,  ad  un'espiazione
volontaria, come una monaca al letto d'un infermo di malattia ributtante. Voleva
resistere e soffrir fino all'ultimo, vedere fino a che segno sarebbero giunti, e
se la sua pazienza di santa non avrebbe finito con farli vergognare  della  loro
condotta. Ma a un tratto sentì un Ooooh! forte e prolungato di  molte  voci,  in
suono di scherno e di sfida, e, voltandosi, vide il Muroni ritto sul banco,  con
gli occhi fiammeggianti e i denti stretti, che mostrava il  pugno  alla  classe.
Ella aprì la bocca per gettare un grido al  cantoniere...  In  quel  momento  si
spalancò l'uscio, e un personaggio sconosciuto  entrò  nella  scuola.  Seguì  un
profondo silenzio. Era il nuovo ispettore generale di Torino, che la maestra non
aveva mai visto. Egli faceva spesso  quella  prodezza,  d'andar  a  visitare  le
scuole  dei  suburbi  nelle  serate  peggiori  dell'inverno,  quando  meno   era
aspettato. La sua carrozza s'era avvicinata senza rumore, a cagion  della  neve;
egli era entrato bruscamente nel corridoio facendo cenno al cantoniere  spaurito
di non annunziarlo, e, appeso il mantello incerato  ad  un  gancio,  dopo  esser
stato un po' all'uscio a sentire il chiasso smodato, aveva  fatto  quell'entrata
da palcoscenico. La sua alta figura di vecchio ufficiale, coi baffi e col  pizzo
bianco, vestito, di scuro, coi panni stretti come un'uniforme, ispirava simpatia
e imponeva rispetto. In una tasca sporgente del suo  fianco  si  disegnavano  le
forme d'una rivoltella. Era indignato. "Che luogo è  questo?"  domandò,  rivolto
alla scolaresca, dopo aver detto chi era. "In questo modo rispettate  la  vostra
scuola e chi v'insegna? Siete onesti operai voialtri,  o  che  cosa  siete?  Non
posso credere che siano gli  uomini  che  facciano  questo  baccano;  ma  mi  fa
maraviglia, mi fa sdegno che lo  sopportino  senza  arrossir  di  vergogna,  che
lascino insultare in così indegna maniera la scuola del popolo." Poi, voltandosi
alla maestra, con accento severo, senza abbassare abbastanza la  voce:  "E  lei,
signorina, in che modo tollera una condotta simile? Come tiene la disciplina? Ma
per dignità sua, quando non  fosse  per  dovere  d'ufficio,  ella  non  dovrebbe
permettere che le si manchi di rispetto fino a questo punto!  Mi  dica:  è  così
tutte le sere?". La povera ragazza, ritta davanti al suo giudice,  pallidissima,
mosse le labbra per discolparsi; ma la mente le si turbò, la voce non le  venne:
le venne invece un'onda di lagrime, che  non  poté  trattenere:  tirò  fuori  il
fazzoletto e si mise a piangere come una bambina. "Si ricomponga" le  disse  con
voce un po' più mite l'ispettore; "questo non giova a ridarle l'autorità che  ha
perduta." Poi rivolse daccapo alla scolaresca alcune vigorose parole, che  tutti
ascoltarono in silenzio, con quell'attenzione fissa  e  stupita  che  il  popolo
presta agli attori; eccettuato  il  socialista  Lamagna,  che  guardava  per  la
finestra, con simulata distrazione, un albero carico di  neve,  rischiarato  dal
lampione della scuola. Finita  l'intemerata,  l'ispettore  fece  un  cenno  alla
maestra, la quale, con gli occhi rossi e con  voce  tremante,  riprese  il  filo
della lezione, mentre egli vigilava gli alunni con  occhi  severi.  Tutto  a  un
tratto le domandò: "Quali sono i suoi disturbatori  abituali?".  La  maestra  li
conosceva tutti; ma per pura bontà d'animo, non per paura, non parendole  nobile
di far castigare da altri quelli ch'essa non aveva saputo contenere, rispose con
voce dolce, che pareva sincera: "Nessuno,  signor  ispettore.  Il  disordine  di
questa  sera  è  stato  un  caso".  Mentre  ella  diceva  questo,   lo   sguardo
dell'ispettore si fissò sul Muroni, attratto dal contrasto della  dura  fierezza
di quel viso col sentimento che v'era  dipinto  in  quel  punto,  e  che  pareva
ispirato dalla risposta generosa della maestra, della quale egli aveva  compreso
il pensiero gentile. "Sta bene, signorina!" disse. "L'aspetto dopo la scuola"  e
dato un ultimo avvertimento agli alunni, uscì a passi di soldato. La scolaresca,
frenata dal sospetto d'una riapparizione improvvisa del personaggio, si contenne
decentemente fino alla fine, e uscì con ordine  insolito,  non  facendo  che  un
sordo mormorio. Ma mentre assisteva all'uscita degli ultimi alunni dal  cortile,
prima d'andar a prendere il monito dall'ispettore, la maestra sentì sul viale la
voce rauca e furiosa del Muroni, che gridò: "Vigliacchi!" e altre voci, smorzate
dal nevischio fitto, che gli risposero degli insulti, di lontano.

Dopo quella sera parve che nel Muroni crescessero insieme la passione per lei  e
l'odio contro i suoi nemici, e che  meditasse  di  sfogar  questo,  non  potendo
quella. Ma la passione si manifestava in maniera tutta sua. La maestra non  vide
mai sul suo viso l'espressione propria dell'amore o della  benevolenza:  il  suo
viso non faceva che intorbidarsi sempre più, e  il  suo  sguardo  diventava  più
fisso e più sinistro, come  se  col  sentimento  ch'essa  gl'ispirava  maturasse
gradatamente in lui il proposito di un delitto. Un gran tumulto  di  idee  e  di
sentimenti seguiva nel suo piccolo cranio e nel suo cuore esasperato di  ribelle
al mondo: un fastidio crescente di sé; un disprezzo sempre più iroso dei  propri
eguali; un'acre ambizione d'essere educato, istruito,  ben  vestito,  ricco  per
effetto di un colpo di fortuna  o  d'audacia,  o  d'un  miracolo;  un  mostruoso
avvicendarsi, quand'era davanti a lei, di concupiscenze violente, di impulsi  di
pietà, di fantasie affettuose o feroci  o  lascive,  di  subitanei  rivolgimenti
dell'animo, per cui ora l'avrebbe insultata e percossa come una donna da trivio,
ora si sarebbe umiliato, avrebbe baciato, forbito con la  lingua  la  suola  dei
suoi stivaletti. Egli aveva l'aria d'un uomo a volte stupito, a volte rabbioso e
vergognoso di quello che accadeva dentro  di  sé.  Ma  qualunque  cosa  passasse
nell'animo suo, manteneva inalterate le forme del rispetto per lei. Pareva  anzi
che le rendesse più visibili per far nascere il  sospetto  d'una  corrispondenza
dissimulata, che avrebbe dato almeno un pascolo apparente al suo amor proprio. E
infatti, il sospetto nacque nella  scolaresca,  che  li  osservava  assiduamente
tutti e due. Quello studio che poneva la maestra a non guardarlo  quasi  mai,  a
mostrar di non accorgersi dello zelo iracondo con cui la proteggeva, non  pareva
naturale a molti, i quali cominciavano a pensare che fosse uno sforzo fatto  per
velare la simpatia. Del resto,  egli  era  un  bel  giovane,  noto  per  le  sue
conquiste amorose nel proprio ceto; né i suoi compagni potevan  capire  che  ciò
che principalmente attirava a lui le donne sue pari, la sua trista fama, dovesse
essere per la signorina una cagione fortissima di repugnanza, e neppure erano in
grado di comprender bene quale  distanza  mettesse  fra  di  loro  la  diversità
dell'educazione. La maestra s'avvide chiaramente di  questo  sospetto  dall'atto
improvviso e ostentato con cui tutti si voltavano verso di lei e  di  lui,  ogni
volta ch'essa lo interrogava, e dal  tossire  affettato,  dai  sogghigni,  dalle
mezze parole che si lasciavano sfuggire, guardandola con occhi ridenti, anche  i
più savi; e questo la turbò a segno, che doveva far violenza sopra di  sé  prima
di chiamarlo a leggere, e preparar quasi l'animo  e  i  nervi  a  ricacciare  il
rossore che le sarebbe salito alla fronte, s'egli le avesse rivolto una  domanda
all'improvviso. E stava in continua ansietà che non le riuscisse  una  volta  di
nascondere il suo turbamento, perché, senza dubbio, la scolaresca non  l'avrebbe
creduto effetto di timidità o di vergogna  dei  suoi  sospetti,  ma  rivelazione
d'amore. Per sua fortuna, una sera che essa più temeva egli non venne, e non  si
fece più vedere a scuola per vari giorni. Lo vide  una  mattina  dalla  finestra
gironzolare nel prato di là dal viale, col capo basso e con le  mani  in  tasca,
come chiuso nei suoi pensieri. Alcune ore dopo lo rivide ancora là, seduto sopra
un mucchio di ghiaia, coi gomiti sulle ginocchia  e  i  pugni  sotto  il  mento,
rivolto verso la scuola; ma così lontano che non gli poté distinguere  il  viso.
La sera stessa, verso notte, passando davanti all'osteria della  Gallina,  sentì
la sua voce roca e avvinazzata in mezzo a un gridìo assordante di  giocatori  di
morra, e riseppe la mattina dopo dal cantoniere che s'eran picchiati ferocemente
dopo la mezzanotte, lui e certi barabba di Torino, mettendo per aria  l'osteria,
donde perfino l'oste era fuggito;  e  si  vedevano  ancora  per  la  strada  dei
brandelli di cravatte e delle ciocche di cappelli, sparsi sulla neve. Si  diceva
anzi che il Muroni fosse a letto per una  randellata.  Infine,  la  mattina  del
terzo giorno, scendendo per la  strada  maestra,  la  Varetti  lo  vide  ad  una
cantonata, seduto sopra un paracarro,  col  cappello  rovesciato  indietro,  col
ciuffo tra gli occhi, con le mani nelle tasche dei calzoni, immobile  e  smorto,
col mento insudiciato dal sugo nero d'un mozzicone di sigaro,  che  gli  pendeva
dalle labbra, e spettorato come in piena state. Guardandolo  di  sfuggita  prima
d'esser vista, gli lesse scritti sulla faccia tre giorni  e  tre  notti  d'ozio,
d'alterchi, di gioco e d'ubbriacature, un abbrutimento che le strinse l'anima  e
la fece rabbrividire al solo pensiero di dover incontrare il  suo  sguardo.  Non
potendo tornare indietro, pensò di passar oltre senza voltare il capo; ma quando
s'accorse ch'ei l'aveva  veduta  e  che  s'alzava  lentamente,  senza  osare  di
avvicinarsi, fu vinta da un senso di compassione, e lo  guardò.  Era  briaco;  a
stento poté levar la mano al cappello, che  non  trovò  subito,  e  scoprendosi,
senza riuscire ad alzare il  viso,  le  diede  uno  sguardo  lungo  e  profondo,
accompagnato da un sorriso strano, triste, stupido,  tenero,  orribile,  che  le
fece ribrezzo e pietà, e la lasciò tutta sconvolta.  La  sera  del  dì  seguente
tornò alla scuola, sbriacato e pulito, e al primo riveder la maestra  e  più  al
risentir la sua voce, come se tutti i sentimenti che aveva addormentati per  tre
giorni gli si ravvivassero a un tratto  con  maggior  vigore,  riprese  l'antico
atteggiamento di contemplazione immobile e cupa; con la quale ricominciarono gli
scherzi e i disordini della ragazzaglia. Ma questa volta pareva  ch'egli  avesse
mutato idea. Non minacciava più: si voltava soltanto a  guardar  ora  l'uno  ora
l'altro, come per fissarsi nella memoria i nomi e gl'insulti, e in quel  momento
la sua faccia fredda e tranquilla era più sinistra e più inquietante  di  quando
minacciava. E così fece per due o tre sere. Poi  mancò  alla  scuola  altre  due
volte. Alla maestra giunse  notizia  d'una  nuova  rissa  seguita  la  notte  in
un'osteria in fondo al paese, tra lui e certi contadini  della  borgata  vicina:
s'eran viste la mattina delle tracce  di  sangue  sullo  scalino  esterno  d'una
cappella. Una notte ella riconobbe la sua voce in mezzo a quelle di vari  altri,
che passarono cantando nel campo dietro la scuola, e s'allontanarono nell'aperta
campagna; e la mattina dopo, appena levata, fu tutta stupita di  vederlo  seduto
nel fosso del viale, sotto la sua finestra, con la schiena appoggiata all'albero
e il mento sul petto, che dormiva, in mezzo al ghiaccio. Poi tornò a scuola  una
sera, ubbriaco e insonnolito, e stette per  due  ore  immobile,  con  gli  occhi
lustri, in una specie d'ammirazione stupida e infantile d'un suo  nuovo  vestito
color cinerino. Si riscosse verso la fine, furibondo contro un ragazzo che aveva
lanciato  una  pelle  di  topo  sul  palco,  ai  piedi  della  maestra.  Questa,
all'uscita, sentì un gran tumulto, e riseppe la mattina dopo ch'egli aveva preso
a schiaffi e a calci il ragazzo. Poi disparve per altri due giorni, e le dissero
ch'era stato arrestato.

Non era vero; ma non lo vedevano da un giorno e una notte: qualcuno  diceva  che
fosse a Torino. La Varetti lo seppe una mattina da sua madre,  che  la  venne  a
trovare tutta piangente, in uno stato d'agitazione febbrile,  con  un  viso  che
pareva l'immagine dello spavento. "Ah! signora maestra" esclamò, entrando, nella
camera "dove sarà il mio figliuolo che non si vede più! Cosa gli sarà  accaduto!
Come posso io durar questa vita, Dio di misericordia, quel figliuolo che  pareva
già rinsavito!" E si mise le  mani  nei  capelli,  dicendo  che  le  pareva  che
diventasse matto, che non c'era più modo di averne bene, che l'aveva  minacciata
con un martello. "Mi dica un po', signora maestra" le domandò con voce affannosa
"son nati dei guai coi compagni  della  scuola,  non  è  vero?  Cos'è  successo?
Cos'hanno con lui?"  La  povera  donna  veniva  la  sera  di  nascosto,  all'ora
dell'uscita degli alunni, ad appostarsi dietro gli alberi  del  viale,  e  varie
volte, dai gruppi che passavano, aveva sentito delle minacce, dei  propositi  di
vendetta contro il suo  figliolo.  La  maestra,  per  compassione,  credette  di
doverle dire che non sapeva nulla, e cercò di rassicurarla; ma  non  trovava  le
parole, essendo distratta da una certa espressione che vedea negli  occhi  della
donna, supplichevole e scrutatrice insieme, che non le aveva mai  visto.  Questa
ricominciò ad esclamare: "Ah! signorina,  il  cuore  mi  dice  che  deve  seguir
qualche disgrazia! Signore Iddio, se me lo avessi a veder portare una notte  con
una coltellata, mi fa sangue l'anima, mi va via la ragione a pensarci!". E nello
schianto di dolore che risentì a quel pensiero trovò il coraggio  d'aprir  tutto
l'animo suo. "L'avevo bene avuto io il sospetto" disse a bassa  voce,  prendendo
una mano alla maestra, senza osare di guardarla in viso "l'avevo ben pensato  io
che tutto fosse per motivo d'una simpatia; non m'ero ingannata..." E  tutt'a  un
tratto,  giungendo  le  mani,  con  un  accento  d'ardente  supplicazione:   "Oh
signorina" mormorò, fissandola negli occhi "se lei  volesse  far  la  carità  di
dirgli qualche buona parola, una sola buona parola...".  Ma  s'interruppe,  come
interdetta, a uno sguardo di lei. "Che  discorsi  son  questi?"  le  domandò  la
ragazza, arrossendo. "Che parte è quella  che  fate?"  La  donna  diede  in  uno
scoppio di pianto. "Ah! è vero" disse poi "mi perdoni,  signorina...  perdoni  a
una povera mamma che non sa più quello che si dica!" e le prese e  le  baciò  le
mani con uno slancio di affetto così umile e  così  doloroso,  che  la  maestra,
improvvisamente commossa, svincolò la destra e glie la mise in atto  di  carezza
pietosa sul capo bianco, da cui era caduto  il  fazzoletto,  dicendole:  "Fatevi
animo, povera donna, fatevi animo; vedrete che non seguirà nulla... E poi...  io
vedrò... gli dirò qualche  cosa...".  "Dio  la  benedica!"  rispose  la  vecchia
rialzando il viso "Dio la benedica! Anche una sola parola... alle  volte...  che
non faccia morir di disperazione sua madre, che ha già penato tanto, che non  si
metta a nessun brutto rischio, per compassione dei miei ultimi giorni, che salvi
l'anima sua!" Ma nell'andarsene fu ripresa dal suo terribile presentimento.  "Ho
paura che me lo ammazzino!" esclamò, rimettendosi a piangere. "Mi dice il  cuore
che ha da finir male, ho paura che me lo ammazzino! Che  Dio  ci  tenga  le  sue
sante mani sul capo!" Ed era già sull'uscio, quando tornò indietro con impeto  a
baciar la mano alla ragazza. Poi se n'andò, con le mani sul viso.

La Varetti, per pietà di quella povera vecchia,  decise  di  farsi  forza  e  di
mantener la sua promessa, di dare qualche ammonimento amorevole al giovane,  per
indurlo, se non altro, a non incrudelire contro sua madre. Ma non sapeva  quando
né dove parlargli, non passandole neppur per la mente, con gli umori  di  quella
scolaresca, di chiamarlo in disparte all'entrata o all'uscita. Questa incertezza
le durò tutto quel giorno. La sera Saltafinestra venne a scuola. Aveva  il  viso
più livido degli altri giorni e un'alterazione di  lineamenti  che  annunziavano
un'ubbriacatura d'acquavite non ancor svaporata. La sua entrata fu  accolta  con
un mormorìo, che egli fece cessar subito, soffermandosi in mezzo alla scuola,  e
girando lo sguardo sui banchi. Poi andò al suo posto, dove prese l'atteggiamento
solito, ma con un viso torvo, chiuso, fermo, come  se  avesse  risoluto  di  far
qualche colpo la  sera  stessa.  La  pietà  di  sua  madre,  il  timore  ch'egli
trascendesse  a  qualche  atroce  provocazione  e  la  speranza  di  prevenirla,
indussero la maestra a tentare una prova, che  a  lei  parve  arditissima.  Dopo
averci pensato un pezzo, col batticuore, colto il momento in cui  le  parve  che
tutta la classe fosse raccolta e non badasse a  lei,  ella  si  voltò  verso  il
Muroni, del quale era certa d'incontrar  sempre  lo  sguardo,  e  lo  fissò  per
qualche secondo, come non  aveva  fatto  mai,  con  una  espressione  velata  di
indulgenza, di bontà, di  preghiera.  Il  giovine  restò  un  momento  col  viso
immobile, nell'atteggiamento di chi senta all'improvviso la voce  d'una  persona
invisibile, da cui gli paia d'udir pronunziare il suo nome; poi guardò intorno e
tornò a guardar la maestra, che non lo guardava più; e si passò una  mano  sulla
fronte. E da quel punto parve che si destasse in  lui  un'agitazione  nuova,  un
nuovo ordine di pensieri. I ragazzi ricominciarono  a  fare  il  chiasso  e  gli
scherni soliti alla maestra, per offender lui. Egli non vi badò per  un  po'  di
tempo. Ma tutt'a un tratto,  avendo  udito  mormorare  dal  piccolo  Maggia  una
sconcia parola diretta a lei, che non l'intese, si voltò  di  slancio  come  una
tigre, e gli disse: "Maggia, ti taglierò la gola".  Varie  voci  risposero:  "Un
momento!" "Troppa furia!" "Vedremo!" e un vocione dall'altra parte della  scuola
muggì: "Ci sono io!". Era lo zio  Maggia,  che  s'era  alzato  col  suo  testone
deforme, tutto infiammato. Pur non avendo alcun affetto per il ragazzo,  che  lo
infastidiva  con  le  sue  monellerie,  egli  sorgeva  in  difesa  del   parente
minacciato,  senza  sapere  il  perché  della  minaccia,  senza   domandare   né
riflettere, come un bruto, perché aveva inteso il suo nome. "Bucherò anche  te!"
gli rispose il Muroni. La maestra gli fece un  cenno  di  comando.  "Sapete  chi
sono" disse ancora il giovane a tutta  la  classe,  e  risedette,  mandando  dei
baleni lividi dagli occhi. La maestra, stentando a raccoglier  la  voce,  impose
silenzio, e tutti si quetarono, non per rispetto a lei, ma pel presentimento  di
qualche cosa di grave, che annunziavano la risolutezza dei visi e  l'entrata  in
lizza dello zio Maggia, conosciuto per la sua forza e pei suoi furori  di  toro.
La Varetti stette col cuore sollevato fino alla fine, facendo lezione con un fil
di voce. Tutti uscirono in silenzio. Essa corse nel cortile, dove  cercò  invano
il cantoniere, e s'avvicinò all'uscio, tutta  tremante,  in  aspettazione  d'una
rissa terribile. Udì infatti varie voci che dicevano: "Largo! Largo!"  per  fare
spazio per la lotta; poi la voce del Muroni: "A noi!" e quella dello zio Maggia:
"Son qui!" E s'appoggiò al muro per non cadere. Ma  invece  dei  colpi  e  delle
grida che s'aspettava, sentì un bisbiglio improvviso, come un  avvertimento  che
corresse di bocca in bocca, e poi lo stropiccìo dei piedi della  folla,  che  si
sparpagliava in silenzio. In quel silenzio udì ancora la voce  del  Muroni,  già
lontana: "A rivederci domani". Varie voci ripeterono: "A domani". Ed altre,  più
vicine, in tono d'ammonimento: "A casa, giovanotti, a casa".  Era  la  pattuglia
dei carabinieri che faceva sgombrare la via.

La Varetti non s'era mai risentita così vicina come quella sera al  terrore  che
l'aveva messa a rischio di morire  nella  sua  fanciullezza,  quando  era  stata
spettatrice di quella rissa sanguinosa degli operai minatori. Essa aveva sentito
passar nell'aria il soffio d'un delitto.  E  le  durò  per  tutta  la  notte  un
ribrezzo, un affanno angoscioso, che  accumulò  nei  suoi  sogni  tutte  le  più
spaventevoli immagini che l'avevano oppressa nel corso della vita, e si  svegliò
accasciata, piena di neri presentimenti, cercando ansiosamente, senza  trovarlo,
un mezzo d'impedire quello che stava per  accadere.  Tirò  un  gran  respiro  di
consolazione vedendo apparir sull'uscio la maestra  Mazzara.  Essa  veniva  così
entusiasmata dei propri disegni che dimenticò lì per lì di chieder notizie della
scuola serale e  di  Saltafinestra,  ch'era  ciò  che  l'aveva  spinta  fin  là,
nonostante il freddo intenso e la nebbia. Voleva far scrivere  alla  Baroffi  un
articolo sul cattivo nutrimento dei bambini degli Asili, dove si faceva un abuso
di fagioli intollerabile; stava  cercando  aderenti  per  invocare  una  riforma
dell'insegnamento del canto nelle scuole elementari, dove, con la illusione  che
i ragazzi imparassero la musica, li ammaestravano  faticosamente  a  cantar  dei
cori senza ispirazione e senza vita, delle  nenie  funebri,  che  addormentavano
cantori e uditori; voleva promuovere una sottoscrizione per fare un dono d'onore
a una maestra cieca, bellissima, dell'Istituto d'Azeglio, un angelo di grazia  e
di bontà... Infine, quando si fu sfogata,  interrogò  e  stette  a  sentire  con
grande attenzione l'amica,  che  le  disse  minutamente  tutto  quello  che  era
accaduto e che essa temeva.  Ma,  ahimè!  fosse  per  una  cattiva  disposizione
segreta di lei, o per la  natura  pericolosa  dell'argomento,  la  conversazione
doveva durar poco e finir male. Quand'ebbe inteso  tutto,  ella  mise  fuori  un
consiglio, che la Varetti sospettò  fosse  preparato,  da  tanto  che  le  venne
pronto. "Mia cara" le disse, in tono  di  sorella  maggiore  "il  mio  parere  è
questo: che la cosa si deve far finire a ogni costo, e che il farla  finita  sta
in te. Tu non devi permettere che si commetta un delitto per causa tua. E c'è un
mezzo solo. Tu devi valerti dell'"ascendente" che hai su di  lui,  pigliarlo  in
disparte e ordinargli ri-so-lu-tamente di  desistere  da  qualunque  reazione  o
provocazione, di fare sacrifizio del suo orgoglio, di cedere e  di  rassegnarsi,
per l'interesse tuo. In questo modo non accadrà nulla  ed  egli  si  muterà.  Se
gliel'ordini tu, t'obbedirà. Non c'è altra via. Tu lo devi  far  per  coscienza.
Questo è il mio  sentimento.  "Ma  perché  credi  che  m'obbedirà?"  domandò  la
Varetti, non comprendendo ancora il suo pensiero. La Mazzara esitò. Poi  rispose
con franchezza: "Sta a te farlo obbedire, alla fin dei conti".  "Oh  mia  cara!"
esclamò l'amica con un sorriso altero,  levandosi  in  piedi  "per  evitare  una
disgrazia  son  disposta  a  fare  qualunque   sacrifizio,   fuor   che   quello
d'avvilirmi." La Mazzara fu punta, e sentì il suo sangue popolano  rimescolarsi,
pensando che la Varetti avrebbe dato la stessa risposta anche per uno  dei  suoi
fratelli. E, frenando il dispetto, rispose con un sorriso  forzato:  "Pregiudizi
sociali".  "Pregiudizi  sociali?"  ribatté  l'altra  con  vivacità  "Ma  sono  i
pregiudizi della dignità e dell'onore! Arrossirei davanti  al  ritratto  di  mio
padre se mi venisse solo il pensiero di mancarvi."  "Oh  Dio  mio!"  esclamò  la
Mazzara, fremendo senza farsi scorgere. "Gli uomini di tutte le  classi  sociali
si valgono, salvo che i loro vizi e le loro colpe hanno  un  diverso  colore:  i
signori bevon del vino più fino, frequentano delle male donne meglio vestite,  e
danno dei colpi di sciabola invece che dei colpi di coltello." La Varetti  frenò
un impeto d'indignazione, e le disse con alterezza: "Tu non sei in te. Mio padre
s'è battuto in duello, e tu lo metteresti a paro con  gli  accoltellatori  delle
taverne?... È un obbrobrio!". "Un obbrobrio?..." rispose  quella,  con  la  voce
soffocata dalla collera "un obbrobrio?...  Ebbene,  io  ti  dico  che  mi  vanto
d'esser figliuola del  popolo,  che  sono  altera  della  mia  famiglia,  e  che
disprezzo  i  fumi  dell'aristocrazia  e  non  so   che   farmi   delle   amiche
aristocratiche!" E detto questo, con le lacrime agli occhi, uscì a grandi passi.
La Varetti le corse dietro, chiamandola per nome, pregandola  di  rientrare.  Ma
quella si voltò irritata, e le  rispose:  "Verrò  un'altra  volta:  oggi  non  è
aria!".  E  disparve.  La  ragazza  si  lasciò  andare   sopra   una   seggiola,
profondamente scoraggita. Anche la sua amica l'abbandonava quel  giorno  in  cui
aveva tanto bisogno di distrazione e di conforto. Non potendo regger sola,  andò
a cercar la compagnia della maestra Baroffi. La trovò  a  tavolino  coi  capelli
scomposti, col suo largo viso  scialbo  di  vecchia  attrice,  curva  sopra  una
diecina ai quaderni aperti, dov'ella trascriveva frasi e sentenze di  letterati,
di giornalisti e di conferenzieri, le quali, dopo un mese  di  stagionatura  nel
suo magazzino, diventavan sue, e le teneva così coscienziosamente per  sue  che,
se le avveniva di rileggerle altrove, le credeva roba rubata a lei.  La  Varetti
le disse le sue tristezze e le sue paure. "Ah  benedetta  creatura"  le  rispose
quella con la voce grossa ed enfatica "che t'ostini a non darmi retta! Ma  parla
dunque, commovili. Leggi loro qualche bel brano  commovente  del  Thouar  o  del
Lambruschini, e te li vedrai mutare sott'occhio da così a così! Ah se  ci  fossi
io!" Ma non ostante la tristezza della sua  amica,  non  si  trattenne  in  quel
discorso.  Era  tutta  eccitata  dalla  descrizione  d'una   solennità   seguìta
all'Università di Londra, dove, nell'aula magna, in presenza del cancelliere, di
tutto il corpo  dei  professori  e  d'una  gran  folla  di  studenti  e  d'altri
cittadini, una giovine signora era stata  insignita  del  grado  di  dottore  in
scienze. Quello sarebbe stato il sogno supremo della sua  ambizione.  "Figurati,
mia cara" esclamò con entusiasmo "quella bella  signora  con  l'assisa  rossa  e
dorata di dottore, in quel luogo, davanti a  tutta  quella  gente,  in  mezzo  a
quegli applausi, e Londra intera che ne parla! Io vorrei aver  quella  gloria  e
morire un'ora dopo!" La Varetti la lasciò ai suoi sogni, più triste di prima,  e
andò a cercare la Latti. La trovò che scriveva, davanti a una specie di altarino
di ampolle e di scatolette di spezieria, e le cadevan  le  lacrime  sul  foglio.
Essa non fece misteri. Sentiva da due giorni dei sintomi così sicuri  della  sua
fine che s'era decisa a scrivere le sue disposizioni testamentarie.  La  Varetti
sorrise allora per la prima volta  nella  giornata.  Ma  se  il  testamento  era
comico, la testatrice era spaventata e afflitta davvero, e la sua compagnia  non
le poteva giovare. Essa la lasciò e tornò nella propria  camera,  a  contare  il
tempo quarto d'ora per quarto d'ora, ai rintocchi dell'orologio della chiesa. Si
riscosse verso le quattro e andò dal maestro Garallo per esporgli lo stato delle
cose e domandargli se non  credesse  opportuno  d'avvertire  i  carabinieri  che
passassero anche quella sera davanti alla scuola. Lo trovò  che  trincava  tutto
solo, un po' eccitato,  forse  meno  dal  vino  che  da  qualche  buona  notizia
finanziaria del mondo scolastico. Egli non si mostrò del suo  avviso.  "Se  noi"
disse "diamo alla scolaresca l'abitudine di  vedere  i  reali  carabinieri  alla
porta, faremo  indubbiamente  seguire  un  disordine  la  prima  volta  che  non
verranno. E poi ne andrebbe del prestigio  della  scuola.  Non  bisogna  mostrar
diffidenza del popolo." Però, non disconosceva la gravità  delle  cose.  E  dopo
cinque minuti d'incertezza, prese una risoluzione eroica.  "Questa  sera"  disse
alzandosi, e piantandosi l'indice al petto  "comparirò  io."  E  la  maestra  se
n'andò, alquanto riconfortata.

Ma sul far della notte le rinacquero l'ansietà, la tristezza  e  la  paura.  Non
poteva staccarsi dalla finestra, di dove guardava quel viale solitario, come per
domandargli che cosa sarebbe accaduto quella sera sotto  i  suoi  alberi,  e  le
pareva di mal augurio quella nebbia folta che copriva ogni cosa,  non  lasciando
che veder confusamente l'albero  più  vicino  alla  scuola.  I  rintocchi  della
campana che suonava le ore, lo strepito cupo delle macchine  degli  opifici,  il
suono lontano dell'officina del fabbro, la  lanterna  rossa  della  Gallina  che
ardeva in fondo come un occhio sanguigno, tutto le pareva tetro e minaccioso,  e
le rammentava quei paesaggi  sinistri  dei  cartelloni  dei  mercati,  dove  son
dipinte scene d'assassinio,  che  le  facevano  una  così  profonda  impressione
quand'era bambina. A una cert'ora sentì il bisogno d'andar  a  pregare.  Non  si
mise che un cappuccio, attraversò il viale a passi furtivi, entrò nella chiesa e
s'inginocchiò accanto a un pilastro. La chiesa era oscura: non luccicava che una
lampada davanti all'altar maggiore: alcune donne erano inginocchiate qua  e  là:
si sentiva in fondo il passo sonoro del  sacrestano.  Essa  pregò,  ricordò  sua
madre, invocò suo padre che le desse animo, e le  parve  che  egli  l'esaudisse.
Pensò dopo ai tanti esempi di fortezza e di coraggio, tolti  dalla  religione  e
dalla storia, che ella aveva tante volte raccontati  o  letti  ai  suoi  piccoli
alunni, con l'ardore di chi si sente capace di imitarli, e si vergognò, pensando
che era una così misera cosa appetto a quelle la virtù che a lei occorreva;  che
non aveva se non da tener con dignità il  posto  suo;  che  non  correva  nessun
pericolo nella sua persona, e che, infine, la paura era viltà in  un  insegnante
quanto  in  un  soldato.  "Coraggio!"   disse   risolutamente   rialzandosi,   e
rinfrancata, impaziente d'affrontar la paura, s'avviò per uscire. Arrivata  alla
bussola, mentre alzava la cortina pesante di quella specie  di  camerino  ch'era
tra lei e la porta, si vide davanti un uomo. Riconobbe subito il Muroni e  tremò
all'idea d'esser sola con lui in quel luogo chiuso  ed  oscuro.  Ma  si  rincorò
sull'atto, pensando ch'era impossibile ch'egli tentasse una violenza  lì,  nella
chiesa. E andò innanzi. "Signora maestra" disse il giovane  con  voce  triste  e
ferma ad un tempo "preghi per me." Essa voleva rispondere; ma non  le  venne  la
voce. Nello stesso punto si sentì prendere una mano, con riguardo, come  da  chi
non vuol altro che dare un saluto; ma nel fare uno sforzo per svincolarla,  ella
ebbe una contrazione alle dita, che strinsero quelle di lui, e le rimase  ancora
tanta chiarezza di mente da comprendere che l'atto ch'egli fece subito dopo  non
era  premeditato,  ma  imposto  da  un  improvviso  ribollimento   del   sangue,
suscitatogli dalla sua stretta. In un baleno, si sentì serrata  alla  vita,  poi
alle braccia, poi alle spalle, e respirò l'alito di quella bocca che cercava  il
suo viso: resisté con tutte le sue forze  puntandogli  le  mani  sul  petto,  si
contorse, si dibatté, cercò di sfuggirgli  inginocchiandosi,  udì  la  sua  voce
rauca: "Un bacio... un bacio... un bacio, nel nome di  Cristo!"  La  lotta  durò
qualche momento disperata, in quel buio  odorato  d'incenso,  rotta  da  aneliti
ardenti e da singhiozzi strozzati... Quando sonò  un  passo  vicino,  dentro  la
chiesa: egli la lasciò, ella si lanciò fuori. Aveva appena  infilato  il  viale,
raggiustandosi il cappuccio con le mani convulse, che risentì  la  voce  di  lui
nella nebbia, dietro di sé, una voce angosciata e  supplichevole:  "Mi  perdoni.
Sono stato un vigliacco. Non lo farò mai più; lo giuro sull'anima mia!". Ma essa
non si voltò, corse alla scuola, salì  in  furia  nella  sua  camera,  cadde  in
ginocchio davanti al ritratto di suo padre, e scoppiò in singhiozzi.

Ma un presentimento confuso che quello dovesse essere il loro ultimo incontro, e
che ci fosse per aria qualche cosa di più grave di quella nuova violenza fatta a
lei, la distolsero anche questa volta dal fare qualunque passo. Non solo, ma  al
momento di presentarsi alla scuola, ella si ritrovò assai più coraggio  che  non
avesse sperato,  forse  per  effetto  appunto  di  quel  presentimento,  che  le
annunziava una fine, qualunque fosse, dei suoi affanni.  Nel  corridoio,  mentre
gli alunni entravano, il cantoniere la fermò, e le disse con la faccia inquieta:
"Si riguardi, signora maestra, perché... ho sentito certi discorsi: ha da essere
una serataccia". Entrò: la classe era completa, nonostante il freddo e la nebbia
fittissima che copriva la campagna come un'immensa nuvola di fumo. Ella sentì un
tanfo più forte del solito di pipa, di grasso di macchina e di  liquori.  Quando
salì sul palco e si voltò verso la scolaresca, si fece un silenzio inusitato,  e
tutti la guardarono con un'espressione  nuova  di  curiosità.  E  in  fatti,  il
turbamento di tutta quella giornata, il pianto di poco prima, la stanchezza  che
da vari giorni l'opprimeva avevano affinato e ingentilito ancora il suo bel viso
di grande bambina, del quale faceva apparir più pura la bianchezza delicatissima
un vestito di lana nera; e v'era nella sua persona alta ed esile come una grazia
languida di malata, che la rendeva più  bella  delle  altre  sere.  Girando  uno
sguardo  rapido  sulla  scolaresca,  vide  che  non  mancava  nessuno  dei  suoi
tormentatori, compreso il Muroni. Era appena seduta quando s'aperse l'uscio e si
presentò il maestro Garallo. La maestra, che disperava già ch'ei  mantenesse  la
sua promessa, si rallegrò. Al modo  com'egli  entrò  scotendo  la  grossa  testa
chiomata, pestando i piedi e fulminando occhiate sui banchi, c'era da  prevedere
che avrebbe fatto alla scolaresca un'ammonizione terribile.  Salito  sul  palco,
infatti, parve per qualche momento quasi soffocato dallo sdegno e dal peso delle
parole  solenni  che  doveva  dire.  Poi  disse  col  tono  della  più  affabile
familiarità: "Cosa ho inteso dire, figliuoli,  che  ci  sono  dei  malumori  fra
voialtri? Questo mi dispiace... e non dev'essere. Che diavolo! Chi ha  da  esser
d'accordo a questo mondo, se non sono d'accordo gli operai? E poi, pare che  non
vi portiate abbastanza bene. Non capisco perché. Nella mia classe stanno  che  è
un incanto. (In quel momento si sentiva il  baccano  dei  suoi  scolari.)  Tanto
meglio vi dovreste portar voi per rispetto e per riguardo alla signora  maestra.
Andiamo dunque, state buoni e non ci date dei dispiaceri...  se  non  ne  volete
avere anche voialtri.  E  ricordatevi  bene"  concluse  con  uno  sguardo  molto
espressivo "che soltanto con la concordia e con l'istruzione la  classe  operaia
potrà maturare i suoi destini". Lanciata questa frase che nessuno capì, egli  se
n'andò con quattro salti. Qualcuno dei ragazzi rise; i grandi  rimasero  muti  e
indifferenti. La maestra, un po' delusa, incominciò la lezione. Con suo stupore,
la classe stette in un silenzio insolito e da principio essa ne fu contenta.  Ma
poco dopo  s'inquietò  appunto  di  quel  silenzio.  Vide  su  molti  visi  come
un'aspettazione meditabonda di qualche cosa che dovesse accadere tra poco, e che
fosse immancabile, il pensiero fisso d'un'azione concertata da un  certo  numero
di alunni; fra i quali e il Muroni,  più  stravolto  dell'usato,  s'incrociavano
continui  sguardi  indagatori.  Perfino  quel  bruto   di   zio   Maggia,   così
cocciutamente attento alla lezione tutte le altre sere,  le  pareva  divagato  e
inquieto. Pur troppo, dunque, i suoi presentimenti non l'avevano  ingannata.  Ma
quello che le dava più pensiero era la faccia  di  bronzo  del  piccolo  Maggia,
sulla quale appariva un'aria di sfida, il riso spavaldo  e  tristo  del  discolo
senza coscienza e senza cuore, che si sente spalleggiato e aizzato a  commettere
una cattiva azione, e che ne pregusta la gioia velenosa e la gloria infame.  Per
la prima volta egli scansava il suo  sguardo,  abbassando  gli  occhi  diabolici
quando ella lo fissava, e nascondendo il sorriso malvagio dietro la mano sporca,
con cui si tormentava la lanugine del labbro di sopra. Passò per la  mente  alla
maestra che la combriccola avesse incaricato lui di farle  a  un  certo  momento
un'offesa grave, per provocare Saltafinestra. Nondimeno, una  gran  parte  della
lezione passò senza disordini. Avevan forse fissato di fare il  colpo  verso  la
fine, perché il conflitto inevitabile potesse seguire  quasi  immediatamente  la
provocazione. Non ci  fu  che  un  incidente  notevole,  una  breve  discussione
letteraria fra la maestra e il Lamagna, a proposito d'una parola che quei  aveva
usato nel  componimento.  Aveva  scritto:  ""Entrò  in  quel  momento  un  altro
sfruttato"." Alla maestra, digiuna del linguaggio socialistico, quel  participio
buttato là come sostantivo, per esprimere il  concetto  di  "operaio  salariato,
sfruttato dal padrone" non riusciva intelligibile; e  alla  spiegazione  che  il
Lamagna le diede, ella fece  qualche  obbiezione,  puramente  grammaticale,  che
quegli accolse con un sorriso di compatimento  rispettoso.  Infine,  quando  non
mancava più che un quarto d'ora all'uscita, visto che da vari banchi si facevano
dei cenni d'incitamento al piccolo Maggia,  presa  da  timore,  ebbe  l'idea  di
prevenire quel che doveva succedere, scendendo coraggiosamente tra  i  banchi  e
avvicinandosi in aria benevola al ragazzo, per guardare il suo quaderno. Pensava
che quell'atto cortese  l'avrebbe  forse  distolto  dal  suo  proposito.  Riuscì
infatti a impedire quello che era stato disegnato, ch'era di gettare un  oggetto
indecente sul suo tavolino; ma avvenne di peggio. Mentre essa  stava  china  sul
banco, toccando quasi col capo il capo  di  lui,  questi  le  passò  un  braccio
intorno alla vita. Sonò una gran  risata  su  vari  banchi.  Ella  si  svincolò,
mettendo un leggiero grido; il Muroni balzò ritto sul banco per  avventarsi  sul
ragazzo. "Muroni!" gridò la maestra con tutta la  forza  che  poté  raccogliere.
"Stia al suo posto!" Il Muroni si rimise a sedere,  addentandosi  un  pugno.  La
maestra ordinò al ragazzo d'uscir dalla scuola. Questi prese i suoi libri, e  se
n'andò dimenando le spalle: ma si voltò ancora sull'uscio a lanciare uno sguardo
di scherno al Muroni che, digrignando i denti, gli fece un  cenno  con  la  mano
tesa: "Aspetta". La maestra tornò al suo posto, senza sangue nelle vene, e presa
da un violento tremito,  non  tanto  per  l'affronto  ricevuto,  quanto  per  le
conseguenze immediate che ne prevedeva. Un silenzio profondo,  che  la  impaurì,
succedette nella classe. Tutti  i  visi  s'eran  fatti  seri.  Il  Muroni  aveva
un'espressione d'odio e di risoluzione, da cui  si  capiva  che  nessuna  parola
umana l'avrebbe potuto rimuovere. Il rimanente della lezione passò per lei  come
un sogno angoscioso. Sentì sul viale lo zufolìo canzonatorio del piccolo Maggia,
che doveva esser poco lontano dall'uscio. Avrebbe voluto mandare il cantoniere a
chiamare i carabinieri, avrebbe voluto mandare a chiamare  il  maestro,  avrebbe
voluto ordinare al Muroni di rimanere nella scuola; ma non poté far  nessuna  di
queste cose: il suo male organico, quella terribile debolezza della spina che le
toglieva la volontà, il movimento, la voce, l'aveva presa dalla nuca alle reni e
la paralizzava e la istupidiva e le dava  il  senso  d'un'agonia.  Il  tintinnio
della campanella che annunciò la  fine  le  fece  l'effetto  d'una  squilla  che
annunciasse il momento della  sua  morte.  Si  lasciò  cader  sulla  seggiola  e
appoggiò il capo sopra una mano. Il Muroni fu il primo ad uscire o  piuttosto  a
sparire,  attraversando  la  scuola  come  un  fulmine.  Tutti  gli   altri   si
precipitarono fuori in gran disordine, gli uni per andar a difendere il  Maggia,
gli altri per andar a vedere, i più prudenti per non trovarsi sul terreno  della
lotta. La maestra vide passar fra questi, come un'ombra, il  Perotti  e  il  suo
figliuolo, ed ebbe la forza di  chiamarlo:  "Perotti!"  per  raccomandargli  che
s'intromettesse; ma quegli scappò senza rispondere, tirandosi dietro il  ragazzo
spaventato. In quel punto sentì delle grida acute sul viale, e un  momento  dopo
vide entrare nella scuola già vuota il cantoniere, col viso  bianco,  forse  per
rifugiarsi. "Cos'è stato?" domandò la maestra. "Saltafinestra ha rotto la faccia
al piccolo  Maggia"  rispose  lui,  e  scappò  via  per  non  ricevere  l'ordine
d'accorrere fuori. Si sentiva intanto sul viale un frastuono confuso di grida  e
di passi concitati. La maestra uscì dalla scuola,  tenendosi  ai  muri,  e  salì
nella sua camera, dove udì le voci di spavento della Baroffi e della Latti dalla
camera vicina. Le  grida  e  i  passi  di  fuori  pareva  che  s'allontanassero.
Riprendendo animo, corse ad aprir la finestra e s'affacciò. La nebbia fittissima
nascondeva ogni cosa. Essa vide per terra, davanti alla scuola, al chiarore  del
lampione, dei cappelli sparsi e un randello. Più in là era un'oscurità  densa  e
misteriosa, da cui uscivano delle grida come spente, che ora parevan lontane ora
vicine, come di gente  che  s'inseguisse  girando  "Di  qui!"  "Piglia  di  là!"
"Addosso!" "Boia!" "Avanti!" "Bucatelo!" Tre o quattro ombre passarono  correndo
davanti alla scuola e disparvero dietro la chiesa. La maestra  sentì  dei  colpi
secchi e sinistri come di randellate sopra un cranio; poi  un  grido  altissimo,
lamentoso, furibondo come il ruggito  d'una  belva  trafitta:  "Assassini!"  poi
altre grida affannose: "Via!" "Alla larga!" e vide altre ombre  passar  di  volo
nella nebbia, sotto la sua finestra, ed altre un momento dopo, in cui  le  parve
di distinguere i cappelli dei carabinieri. Poi non vide più nulla,  e  seguì  un
silenzio di morte. Allora si spiccò dal davanzale, senza pensare  a  chiudere  i
vetri, e barcollando e premendosi una mano sul cuore, corse al suo letto e vi si
lasciò cadere, sfinita. Un momento dopo sentì entrare la Baroffi, affannata, che
le fece con accento drammatico molte domande, a cui  essa  non  rispose.  Quella
l'aiutò ad alzarsi, e andarono insieme all'altra finestra, che dava sul cortile,
dove suonavano varie voci: apersero: udirono il maestro Garallo che incoraggiava
il cantoniere ad andar a prender notizie, ripetendogli che tutto era finito.  Ma
quegli ricalcitrava, rispondendo: "Eh sì, mi  possono  ancora  prendere...  come
testimonio." Il maestro bestemmiava, dandogli ogni specie di titoli, ma  non  il
buon esempio. Tornarono all'altra finestra. Sul viale, nella nebbia,  si  vedeva
un andare e venire di lumi, si sentiva il mormorio di molta gente. A  un  tratto
scoppiarono le grida e i singhiozzi disperati d'una donna. La Varetti  riconobbe
quella voce e s'abbandonò fra le braccia della sua amica che la portò quasi  sul
letto. Di lì a pochi minuti si rifece un gran silenzio. La maestra Baroffi tornò
alle sue domande: dovevano aver ferito o ammazzato qualcuno. "È accaduto qualche
cosa nella scuola? Come è cominciata la lite? Chi è stato?..."  "Non  so  nulla"
rispose la Varetti tremando; "non posso parlare, non mi dir nulla!" La sua amica
tornò ad affacciarsi alla finestra del viale ed esclamò: "Oh Dio  mio!...  Hanno
mandato a chiamare il parroco!". La Varetti si mise a piangere.  In  quel  punto
picchiarono all'uscio. Erano il maestro e la maestra Garallo che domandavano  il
permesso d'entrare per dare  e  chieder  notizie.  La  Baroffi  li  avvertì  che
tacessero, accennando la sua amica curva sul letto. Ma il maestro disse  con  la
sua voce di basso: "Hanno ferito  Saltafinestra.  Ci  son  vari  feriti".  Però,
udendo pianger la Varetti, si ritirarono tutti e due per andare ad  assister  la
Latti che s'era messa in letto, dicendo che  era  venuta  la  sua  ora.  Le  due
maestre rimasero un po'  di  tempo  in  silenzio.  Tre  colpi  vigorosi  battuti
sull'uscio del cortile  le  riscossero  tutte  e  due.  Sentirono  la  voce  del
cantoniere che parlamentava di dentro prima di decidersi  ad  aprire.  "Presto!"
gridò una voce di donna  impaziente.  "Una  missione  del  signor  parroco!"  La
Varetti sentì per istinto che la commissione  era  per  lei,  e  indovinò  quale
fosse, e per uno di quei rivolgimenti istantanei che seguono nelle anime buone e
nobili alla  voce  d'un  grande  dovere,  si  sentì  fuggire  tutt'a  un  tratto
debolezza, paura,  ribrezzo,  e  con  uno  slancio  generoso  gridò:  "Vado!"  e
afferrato il suo  cappuccio,  discese  correndo,  seguita  a  fatica  dalla  sua
compagna. Era quello che aveva pensato. La donna veniva da parte del  parroco  e
della madre del Muroni a supplicarla d'andare al letto del  ferito.  "Son  qui!"
rispose la ragazza, e lasciando il cantoniere stupito del  suo  coraggio,  senza
rispondere alla Baroffi che le raccomandava di  dir  qualche  bella  parola,  si
slanciò sul viale, con la donna.

Essa correva tanto, che la donna, con la lanterna alla mano, stentava a  tenerle
il passo. Correvano senza parlare. Passarono nella nebbia vicino a  vari  gruppi
di curiosi, che giravano qua e là per il viale, guardando  in  terra,  in  cerca
delle traccie di sangue, e commentando l'avvenimento. Arrivate in fondo,  videro
una  folla  davanti  all'osteria  della  Gallina,  e  svoltando  nella   strada,
capannelli alle cantonate e davanti agli usci aperti e  rischiarati.  Di  fronte
alla macelleria incontrarono due carabinieri che  conducevano  uno  ammanettato,
accompagnati da molta gente, che faceva un gran mormorio. La  Varetti  voltò  il
viso da un'altra parte; la nebbia impedì alla donna di riconoscere  l'arrestato.
"Ah! ne hanno preso un altro!" esclamò. "Assassini!  Dieci  contro  uno  si  son
messi!" La  casa  del  Muroni  era  accanto  alla  tabaccheria.  La  maestra  la
riconobbe, prima di vederla, dalla molta gente che v'era aggruppata  davanti,  e
che s'aperse in due ali,  guardandola  con  viva  curiosità,  per  lasciarle  il
passaggio. Passando, udì alcune parole che la fecero rabbrividire. "La punta del
coltello" diceva una voce "ha intaccato il midollo della spina, capisci; non c'è
più niente da fare." Messo appena il piede sulla scaletta,  essa  intese  su  al
primo piano i singhiozzi della vecchia, e fu per mancarle l'animo; ma vinse quel
momento di debolezza. Salì affrettatamente, vide un uscio  aperto  ed  un  lume,
entrò difilata. La vecchia le corse incontro come una pazza, agitando  le  mani,
singhiozzando: "Mi muore! Mi muore! Dio di misericordia! Provi lei!  Ha  buttato
via il crocifisso! Mi muore come  un  disperato!  Gli  salvi  l'anima  lei,  per
l'amore di Gesù, per l'amore dei  suoi  morti,  gli  salvi  l'anima  lei  se  la
riconosce ancora!". La maestra si slanciò in una piccola camera nuda e bassa,  e
vide il ferito sul letto, stravolto e bianco, coi segni della  morte  nel  viso,
coi capelli scarmigliati, con la  camicia  macchiata  di  sangue;  il  quale  si
dibatteva, furioso, sacrando, arrotando i denti, respingendo da  sé  il  parroco
che gli porgeva il crocifisso, vibrando i pugni per aria, trafelato,  già  preso
dalla paralisi che gli levava il respiro. In un angolo, il grosso medico  biondo
si lavava tranquillamente le mani in un secchiolino. Per tutta la  camera  v'era
un orribile disordine di coperte e  di  cenci  sanguinosi.  Il  piccolo  vecchio
prete, con un'aria rassegnata, fra un tentativo e  l'altro  di  far  baciare  la
croce al morente, l'andava ripulendo con una mano dalla polvere che  le  si  era
attaccata sull'ammattonato, dove quegli l'aveva sbattuta con un manrovescio.  La
maestra s'avvicinò arditamente al capezzale. Appena la vide, il giovane si quetò
tutt'a un tratto  e  le  fissò  in  viso  gli  occhi  già  velati  come  da  una
sottilissima foglia di vetro inumidito, e stette a guardarla con  un'espressione
di profondo stupore.  La  madre,  ritta  accanto  a  lei,  disse  singhiozzando:
"Figliuol mio! Guarda, figliuol mio: è la tua maestra. Non  la  riconosci?".  Il
parroco colse quel momento per riavvicinare il crocifisso al suo viso;  ma  egli
lo respinse con un atto iroso della mano, senza staccar gli occhi dalla maestra.
Un leggerissimo sorriso gli brillò  negli  occhi  e  sulla  bocca,  e,  ansando,
tendendo una mano incerta verso di lei, pronunciò qualche parola  confusa.  "Mio
Dio!" esclamò la madre giungendo le mani. "Ha detto mio Dio!"  Non  aveva  detto
mio Dio. La maestra sola aveva capito le sue parole perché, con tutt'altra voce,
in tutt'altri momenti, gliele aveva già udite dire più volte. "Mi dia un  bacio"
aveva voluto dire. E in quel momento la prese una immensa pietà e una  tenerezza
infinita pensando ch'egli moriva per lei. Essa pigliò con una mano la  sua  mano
sinistra, e posandogli l'altra sulla fronte, si chinò, e lo baciò  sulla  bocca.
Quando rialzò il capo, lo vide mutato.  Egli  aveva  sul  viso  una  espressione
quieta e buona di riconoscenza. Lentamente, senza lasciar la mano della maestra,
né cessar di guardarla, stese l'altra mano verso il prete, prese il  crocifisso,
se lo avvicinò alla bocca, e lo baciò; poi se lo  strinse  al  petto.  La  madre
gettò un grido di gratitudine a Dio e cadde in ginocchio, abbandonando  il  capo
sul fianco della ragazza. E il ferito, continuò a tener la mano di lei nella sua
e a fissarle gli occhi negli occhi, fin che spirò.
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