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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italiano

Ippolito Nievo download
Le confessioni d'un Italiano di Ippolito Nievo


CAPITOLO PRIMO

Ovvero breve introduzione sui motivi di queste  mie  "Confessioni",  sul  famoso
castello di Fratta dove passai la  mia  infanzia,  sulla  cucina  del  prelodato
castello, nonché sui padroni, sui servitori, sugli ospiti e  sui  gatti  che  lo
abitavano verso il 1780. Prima invasione di personaggi; interrotta qua e  là  da
molte savie considerazioni sulla Repubblica Veneta, sugli ordinamenti  civili  e
militari d'allora, e sul significato che si dava in Italia alla  parola  patria,
allo scadere del secolo scorso.


Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell'evangelista san Luca;  e
morrò per la grazia di Dio italiano  quando  lo  vorrà  quella  Provvidenza  che
governa misteriosamente il mondo. Ecco la  morale  della  mia  vita.  E  siccome
questa morale non fui io ma i tempi che l'hanno fatta, cosí mi  venne  in  mente
che descrivere ingenuamente quest'azione dei  tempi  sopra  la  vita  d'un  uomo
potesse recare qualche utilità a coloro, che da  altri  tempi  son  destinati  a
sentire le conseguenze meno imperfette di  quei  primi  influssi  attuati.  Sono
vecchio oramai piú che ottuagenario nell'anno che corre dell'era cristiana 1858;
e pur giovine  di  cuore  forse  meglio  che  nol  fossi  mai  nella  combattuta
giovinezza, e nella stanchissima virilità. Molto vissi e  soffersi;  ma  non  mi
vennero meno quei  conforti,  che,  sconosciuti  le  piú  volte  di  mezzo  alle
tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e  cascaggine  umana,
pur sollevano l'anima alla serenità della pace e della speranza  quando  tornano
poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa
fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni,  che  anziché  prender  norma
dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di
operose battaglie. La mia indole, l'ingegno, la prima educazione e le operazioni
e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di  bene  e  di
male: e se non fosse sfoggio indiscreto di modestia potrei anco  aggiungere  che
in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto  ciò  nulla
sarebbe di strano o degno da essere narrato,  se  la  mia  vita  non  correva  a
cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime
nella storia italiana. Infatti fu in questo mezzo che diedero  primo  frutto  di
fecondità  reale  quelle  speculazioni  politiche  che  dal   milletrecento   al
millesettecento traspirarono dalle opere di Dante, di Macchiavello, di Filicaia,
di Vico e di tanti altri che non soccorrono ora  alla  mia  mediocre  coltura  e
quasi ignoranza letteraria. La circostanza, altri direbbe la sventura,  di  aver
vissuto in questi anni mi ha dunque indotto nel divisamento di  scrivere  quanto
ho veduto sentito fatto e provato  dalla  prima  infanzia  al  cominciare  della
vecchiaia, quando gli acciacchi dell'età, la condiscendenza ai piú  giovani,  la
temperanza delle opinioni senili e, diciamolo anche,  l'esperienza  di  molte  e
molte disgrazie in questi ultimi anni mi ridussero  a  quella  dimora  campestre
dove aveva assistito all'ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale.  Né  il
mio semplice racconto rispetto alla storia ha diversa importanza di  quella  che
avrebbe una nota apposta da ignota  mano  contemporanea  alle  rivelazioni  d'un
antichissimo codice. L'attività privata d'un uomo che non fu né tanto  avara  da
trincerarsi in se stessa contro le miserie comuni, né tanto  stoica  da  opporsi
deliberatamente  ad  esse,  né  tanto  sapiente   o   superba   da   trascurarle
disprezzandole, mi pare in alcun modo riflettere l'attività comune  e  nazionale
che la assorbe; come il  cader  d'una  goccia  rappresenta  la  direzione  della
pioggia. Cosí l'esposizione de' casi miei sarà  quasi  un  esemplare  di  quelle
innumerevoli sorti individuali  che  dallo  sfasciarsi  dei  vecchi  ordinamenti
politici al  raffazzonarsi  dei  presenti  composero  la  gran  sorte  nazionale
italiana. Mi sbaglierò forse, ma meditando dietro essi potranno  alcuni  giovani
sbaldanzirsi dalle pericolose lusinghe, e taluni anche  infervorarsi  nell'opera
lentamente ma durevolmente avviata, e molti poi fermare in non mutabili credenze
quelle vaghe aspirazioni che fanno  loro  tentar  cento  vie  prima  di  trovare
quell'una che li conduca nella vera pratica del ministero  civile.  Cosí  almeno
parve a me in tutti i nove anni nei quali a sbalzi e come suggerivano l'estro  e
la memoria venni scrivendo queste note. Le quali incominciate con fede pertinace
alla sera d'una grande  sconfitta  e  condotte  a  termine  traverso  una  lunga
espiazione  in  questi  anni  di  rinata  operosità,  contribuirono  alquanto  a
persuadermi del maggior nerbo e delle piú legittime speranze nei presenti, collo
spettacolo delle debolezze e delle malvagità passate. Ed ora, prima di  prendere
a trascriverle, volli con queste poche righe di  proemio  definire  e  sanzionar
meglio quel pensiero che a me già vecchio e non letterato  cercò  forse  indarno
insegnare la malagevole arte dello scrivere. Ma già la chiarezza delle idee,  la
semplicità dei sentimenti, e la verità della  storia  mi  saranno  scusa  e  piú
ancora supplemento alla mancanza di retorica: la simpatia de' buoni  lettori  mi
terrà vece di gloria.  Al  limitare  della  tomba,  già  omai  solo  nel  mondo,
abbandonato cosí dagli amici che dai nemici, senza timori e senza  speranze  che
non siano eterne, libero per l'età da quelle passioni  che  sovente  pur  troppo
deviarono dal retto sentiero i miei giudizi, e dalle caduche lusinghe della  mia
non temeraria ambizione, un  solo  frutto  raccolsi  della  mia  vita,  la  pace
dell'animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa  io  addito  ai
miei fratelli piú giovani come il piú invidiabile tesoro, e  l'unico  scudo  per
difendersi contro gli adescamenti dei falsi  amici,  le  frodi  dei  vili  e  le
soperchierie dei potenti. Un'altra asseveranza deggio io  fare,  alla  quale  la
voce d'un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è,  che  la
vita fu da me sperimentata un bene; ove l'umiltà ci consenta di considerare  noi
stessi come artefici  infinitesimali  della  vita  mondiale,  e  la  rettitudine
dell'animo ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran  lunga
al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca  omai  al  suo
termine; contento del bene che operai, e sicuro  di  aver  riparato  per  quanto
stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonché essa
sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell'essere. La  pace  di  cui  godo
ora, è come quel golfo misterioso in fondo al quale l'ardito navigatore trova un
passaggio per l'oceano infinitamente calmo dell'eternità. Ma il pensiero,  prima
di tuffarsi in quel tempo che non avrà  piú  differenza  di  tempi,  si  slancia
ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad  essi  lega  fidente  le  proprie
colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i propri voti da compiere.
Io vissi i miei primi anni nel castello di Fratta, il quale adesso è  nulla  piú
d'un mucchio di rovine donde i contadini traggono a lor grado  sassi  e  rottami
per le fonde dei gelsi; ma l'era a quei tempi un gran  caseggiato  con  torri  e
torricelle, un gran ponte levatoio  scassinato  dalla  vecchiaia  e  i  piú  bei
finestroni gotici che si potessero vedere tra il Lemene  e  il  Tagliamento.  In
tutti i miei viaggi non mi è mai accaduto di veder fabbrica che  disegnasse  sul
terreno una piú bizzarra figura, né che avesse spigoli, cantoni,  rientrature  e
sporgenze da far meglio contenti tutti i punti cardinali ed intermedi della rosa
dei venti. Gli angoli poi erano combinati con sí ardita fantasia, che non n'avea
uno che vantasse il suo compagno; sicché ad architettarli o non s'era  adoperata
la squadra, o vi erano stancate tutte  quelle  che  ingombrano  lo  studio  d'un
ingegnere. Il castello stava sicuro a meraviglia tra profondissimi fossati  dove
pascevano le pecore quando non vi cantavano le rane; ma l'edera temporeggiatrice
era venuta investendolo per le sue strade coperte; e spunta di qua e inerpica di
là, avea finito col fargli addosso tali paramenti d'arabeschi e festoni che  non
si discerneva piú il colore rossigno delle muraglie di cotto. Nessuno si sognava
di por mano in quel manto venerabile dell'antica dimora signorile, e  appena  le
imposte sbattute dalla  tramontana  s'arrischiavano  talvolta  di  scompigliarne
qualche frangia cadente. Un'altra anomalia di quel fabbricato era la moltitudine
dei fumaiuoli; i quali alla lontana gli  davano  l'aspetto  d'una  scacchiera  a
mezza partita e certo se gli antichi signori  contavano  un  solo  armigero  per
camino, quello doveva essere il castello meglio guernito della Cristianità.  Del
resto i cortili dai grandi porticati pieni di fango e di  pollerie  rispondevano
col loro interno disordine alla promessa delle facciate; e perfino il  campanile
della cappella portava schiacciata la pigna dai ripetuti saluti del fulmine.  Ma
la perseveranza va in qualche modo gratificata, e siccome non  mugolava  mai  un
temporale senzaché  la  chioccia  campanella  del  castello  non  gli  desse  il
benarrivato, cosí era suo dovere il rendergli cortesia con qualche saetta. Altri
davano il merito di  queste  burlette  meteorologiche  ai  pioppi  secolari  che
ombreggiavano la campagna intorno al castello: i villani dicevano  che,  siccome
lo abitava il diavolo, cosí di tratto in tratto gli veniva  qualche  visita  de'
suoi buoni compagni; i padroni del sito avvezzi a  veder  colpito  solamente  il
campanile, s'erano accostumati a crederlo una  specie  di  parafulmine,  e  cosí
volentieri lo abbandonavano  all'ira  celeste,  purché  ne  andassero  salve  le
tettoie dei granai e la gran cappa del camino di cucina. Ma eccoci giunti ad  un
punto che richiederebbe di per sé un'assai lunga descrizione.  Bastivi  il  dire
che per me che non ho veduto né il colosso di Rodi né le piramidi  d'Egitto,  la
cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti piú solenni che abbiano mai
gravato la superficie della terra. Il Duomo di Milano e il tempio di San  Pietro
son qualche cosa, ma non hanno di gran lunga l'uguale impronta di grandezza e di
solidità: un che di simile non mi ricorda averlo veduto  altro  che  nella  Mole
Adriana; benché mutata in Castel Sant'Angelo la sembri ora di molto impiccolita.
La cucina di Fratta era un vasto locale, d'un indefinito numero  di  lati  molto
diversi in grandezza, il quale s'alzava verso il cielo  come  una  cupola  e  si
sprofondava dentro terra piú d'una voragine: oscuro anzi nero di  una  fuliggine
secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni diabolici  i  fondi  delle
cazzeruole, delle leccarde e delle guastade appese ai loro chiodi; ingombro  per
tutti i sensi da enormi credenze, da armadi colossali, da tavole  sterminate;  e
solcato in ogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita di  gatti
bigi e neri, che gli davano figura d'un laboratorio di streghe. -  Tuttociò  per
la cucina. - Ma nel canto piú buio e profondo di essa apriva  le  sue  fauci  un
antro acherontico, una caverna ancor piú tetra e  spaventosa,  dove  le  tenebre
erano  rotte  dal  crepitante  rosseggiar  dei  tizzoni,  e  da  due   verdastre
finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso,
là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte,  là  sedente  in  giro
sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi  arcigne  e
sonnolente. Quello era il focolare  e  la  curia  domestica  dei  castellani  di
Fratta. Ma non appena sonava l'Avemaria della sera, ed era cessato il  brontolio
dell'Angelus Domini, la scena cambiava ad un tratto,  e  cominciavano  per  quel
piccolo mondo tenebroso le ore della luce. La vecchia  cuoca  accendeva  quattro
lampade ad un solo lucignolo; due ne appendeva sotto la cappa  del  focolare,  e
due ai lati d'una Madonna di Loreto.  Percoteva  poi  ben  bene  con  un  enorme
attizzatoio i tizzoni che si erano assopiti nella cenere, e vi buttava sopra una
bracciata di rovi e di ginepro. Le lampade si  rimandavano  l'una  all'altra  il
loro chiarore  tranquillo  e  giallognolo;  il  foco  scoppiettava  fumigante  e
s'ergeva  a  spire  vorticose  fino  alla  spranga  trasversale  di  due   alari
giganteschi borchiati di ottone, e gli abitanti serali della  cucina  scoprivano
alla luce le loro diverse figure. Il signor Conte di Fratta era un uomo  d'oltre
a sessant'anni il quale pareva avesse svestito allor allora l'armatura, tanto si
teneva rigido e pettoruto sul suo seggiolone. Ma la  parrucca  colla  borsa,  la
lunga zimarra color cenere gallonata di scarlatto, e la tabacchiera di bosso che
aveva sempre tra mano discordavano un poco da quell'attitudine guerriera. Gli  è
vero che aveva intralciato fra le gambe un filo di spadino, ma il  fodero  n'era
cosí rugginoso che si potea scambiarlo per uno schidione; e del resto non potrei
assicurare che dentro a quel fodero vi fosse realmente una  lama  d'acciaio,  ed
egli stesso forse non s'avea presa mai la briga di sincerarsene. Il signor Conte
era sempre sbarbato con tanto scrupolo, da sembrar appena uscito dalle mani  del
barbiere; portava da mattina a sera sotto  l'ascella  una  pezzuola  turchina  e
benché poco uscisse a piedi, né mai  a  cavallo,  aveva  stivali  e  speroni  da
disgradarne un corriere di Federico II. Era questa una tacita  dichiarazione  di
simpatia al partito prussiano, e benché le guerre di Germania fossero  da  lungo
tempo quietate, egli non avea cessato dal minacciare agli imperiali il disfavore
de' suoi stivali. Quando il signor Conte  parlava,  tacevano  anche  le  mosche;
quando avea finito di parlare, tutti dicevano di sí secondo  i  propri  gusti  o
colla voce o col capo; quando egli rideva, ognuno si affrettava a ridere; quando
sternutiva anche per causa del tabacco, otto o nove voci  gridavano  a  gara:  -
viva; salute; felicità; Dio conservi il signor Conte! - quando si alzava,  tutti
si alzavano, e quando partiva dalla cucina, tutti, perfino i gatti,  respiravano
con ambidue i polmoni, come si fosse lor tolta dal petto una pietra  da  mulino.
Ma piú romorosamente d'ogni altro respirava il Cancelliere, se il  signor  Conte
non gli facea cenno di seguirlo e si compiaceva di lasciarlo ai tepidi  ozi  del
focolare. Convien però soggiungere che questo miracolo  avveniva  di  rado.  Per
solito il Cancelliere era l'ombra incarnata del signor Conte. S'alzava con  lui,
sedeva con lui, e le loro gambe s'alternavano con sí giusta  misura  che  pareva
rispondessero ad una sonata di tamburo. Nel principiare di queste  abitudini  le
frequenti diserzioni della sua ombra avevano indotto il signor Conte a  volgersi
ogni tre passi per vedere se era seguitato secondo i suoi desiderii.  Sicché  il
Cancelliere erasi rassegnato al suo destino, e occupava la  seconda  metà  della
giornata nel raccogliere la pezzuola del padrone, nell'augurargli salute ad ogni
starnuto, nell'approvare le sue osservazioni, e nel dire  quello  che  giudicava
dovesse riuscirgli gradito delle faccende giurisdizionali.  Per  esempio  se  un
contadino,  accusato  di  appropriarsi  le  primizie  del  verziere   padronale,
rispondeva  alle  paterne  del  Cancelliere  facendogli  le   fiche,   ovverosia
cacciandogli in mano un mezzo ducatone per  risparmiarsi  la  corda,  il  signor
Cancelliere riferiva al giurisdicente che  quel  tale  spaventato  dalla  severa
giustizia di Sua Eccellenza avea domandato mercé, e che era pentito del malfatto
e disposto a rimediare con qualunque  ammenda  s'avesse  stimato  opportuna.  Il
signor Conte aspirava allora tanta aria quanta  sarebbe  bastata  a  tener  vivo
Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di  Tito  deve  mescolarsi
alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi  veramente
si pentiva. Il Cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdruscito  nel
suo arnese quanto il principale era splendido  e  sfarzoso;  ma  la  natura  gli
consigliava una tale modestia perché un corpicciuolo piú  meschino  e  magagnato
del suo, non lo si avrebbe trovato cosí  facilmente.  Dicono  che  si  mostrasse
guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui  il  diritto
di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in
una volta, era un nodo gordiano di piú nasi abortiti  insieme;  e  la  bocca  si
spalancava sotto cosí minacciosa, che quel povero naso si tirava alle  volte  in
su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di  bulgaro  divergevano
ai due lati per dare la massima solidità possibile ad  una  persona  che  pareva
dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare io credo  che
detratti gli stivali la parrucca gli abiti la spada e il telaio delle  ossa,  il
peso del Cancelliere di  Fratta  non  oltrepassasse  le  venti  libbre  sottili,
contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto  un
immenso collare bianco inamidato. Cosí com'era egli aveva la felice illusione di
credersi tutt'altro che sgradevole; e  di  nessuna  cosa  egli  ragionava  tanto
volentieri come di belle donne e di  galanterie.  Come  fosse  contenta  madonna
Giustizia di trovarsi nelle sue mani io non ve lo saprei dire in  coscienza.  Mi
ricorda peraltro di aver veduto piú musi arrovesciati che allegri scendere dalla
scaletta scoperta della cancelleria. Cosí anche si buccinava sotto  l'atrio  nei
giorni d'udienza che chi aveva buoni pugni e voce altamente intonata e  zecchini
in tasca, facilmente otteneva ragione dinanzi al suo tribunale. Quello che posso
dire si è che due volte sole m'accadde veder dare  le  strappate  di  corda  nel
cortile del castello; e tutte e due  le  volte  questa  cerimonia  toccò  a  due
tristanzuoli che non  ne  aveano  certamente  bisogno.  Buon  per  loro  che  il
cavallante incaricato dell'alta e bassa giustizia  esecutiva,  era  un  uomo  di
criterio, e sapeva all'uopo sollevar la corda con tanto garbo che  le  slogature
guarivano alla peggio  sul  settimo  giorno.  Perciò  Marchetto  cognominato  il
Conciaossi era tanto amato dalla gente minuta quanto era odiato il  Cancelliere.
Quanto al signor Conte nascosto,  come  il  fato  degli  antichi,  nelle  nuvole
superiori  all'Olimpo,  egli  sfuggiva  del  pari  all'odio  che  all'amore  dei
vassalli. Gli cavavano il cappello come all'immagine d'un santo  forestiero  con
cui avessero poca confidenza; e si tiravano col carro fin giù nel  fosso  quando
lo staffiere dall'alto del suo bombay gridava loro di  far  largo  mezzo  miglio
alla lontana. Il Conte aveva un fratello che non gli somigliava per nulla ed era
canonico onorario della cattedrale di  Portogruaro,  il  canonico  piú  rotondo,
liscio, e mellifluo che fosse nella diocesi; un vero uomo di pace  che  divideva
saggiamente il suo tempo fra il breviario e la tavola, senza  lasciar  travedere
la sua maggior predilezione per questa o per quello. Monsignor Orlando  non  era
stato generato dal suo signor padre  coll'intenzione  di  dedicarlo  alla  Madre
Chiesa; testimonio il suo nome di battesimo. L'albero genealogico dei  Conti  di
Fratta vantava una gloria  militare  ad  ogni  generazione;  cosí  lo  si  aveva
destinato a perpetuare la tradizione di famiglia. L'uomo propone e Dio  dispone;
questa volta almeno il  gran  proverbio  non  ebbe  torto.  Il  futuro  generale
cominciò la vita col dimostrare un affetto straordinario alla balia, sicché  non
fu possibile slattarlo prima dei due anni. A quell'età  era  ancora  incerto  se
l'unica parola ch'egli balbettava fosse pappa o papà. Quando si riescí  a  farlo
stare sulle gambe, cominciarono a mettergli in mano stocchi di legno ed elmi  di
cartone; ma non appena gli veniva fatto, egli scappava in cappella  a  menar  la
scopa col sagrestano. Quanto al fargli prendere domestichezza colle  vere  armi,
egli aveva un ribrezzo istintivo pei coltelli da tavola e voleva ad  ogni  costo
tagliar la carne col cucchiaio.  Suo  padre  cercava  vincere  questa  maledetta
ripugnanza col farlo prendere sulle ginocchia da alcuno de'  suoi  buli;  ma  il
piccolo Orlando se ne sbigottiva tanto, che conveniva  passarlo  alle  ginocchia
della cuoca perché non crepasse di paura. La cuoca dopo la  balia  ebbe  il  suo
secondo amore;  onde  non  se  ne  chiariva  per  nulla  la  sua  vocazione.  Il
Cancelliere  d'allora  sosteneva  che  i  capitani  mangiavano  tanto,  che   il
padroncino poteva ben diventare col tempo un  famoso  capitano.  Ma  il  vecchio
Conte non si acquietava a queste speranze; e sospirava, movendo  gli  occhi  dal
viso paffutello  e  smarrito  del  suo  secondogenito  ai  mostaccioni  irti  ed
arroganti dei vecchi ritratti di famiglia. Egli avea dedicato gli ultimi  sforzi
della sua facoltà generativa all'ambiziosa lusinga d'inscrivere nei fasti futuri
della famiglia un grammaestro di Malta o un ammiraglio  della  Serenissima;  non
gli passava pel gozzo di averli sprecati per avere  alla  sua  tavola  la  bocca
spaventosa d'un  capitano  delle  Cernide.  Pertanto  raddoppiava  di  zelo  per
risvegliare e attizzare gli spiriti  bellicosi  di  Orlando;  ma  l'effetto  non
secondava l'idea. Orlando faceva altarini per ogni canto del  castello,  cantava
messa, alta bassa e solenne, colle bimbe del sagrestano;  e  quando  vedeva  uno
schioppo correva a rimpiattarsi sotto le  credenze  di  cucina.  Allora  vollero
tentare modi piú persuasivi; si cominciò a proibirgli di bazzicare in sacristia,
e di cantar vespri nel naso, come udiva fare ai coristi della parrocchia. Ma sua
madre si scandolezzò di tali violenze;  e  cominciò  dal  canto  suo  a  prender
copertamente le difese del figlio. Orlando ci trovò il suo gusto a far la figura
del piccolo martire: e siccome le chicche  della  madre  lo  ricompensavano  dei
paterni rabbuffi, la professione del prete gli parve  piucchemai  preferibile  a
quella del soldato. La cuoca e le serve di casa gli annasavano addosso un  certo
odore di santità; allora egli si diede ad ingrassare di contentezza e  a  torcer
anche il collo per mantenere la divozione delle donne. E  finalmente  il  signor
padre colla sua  ambizione  marziale  ebbe  contraria  l'opinione  di  tutta  la
famiglia. Perfino i buli  che  tenevano  dalla  parte  della  cuoca,  quando  il
feudatario non li udiva, gridavano al sacrilegio di ostinarsi a stogliere un San
Luigi dalla buona strada. Ma il feudatario era cocciuto, e soltanto dopo  dodici
anni d'inutile assedio, si piegò a levare il campo e a mettere nella cantera dei
sogni svaniti i futuri allori d'Orlando. Costui fu chiamato  una  bella  mattina
con imponente solennità dinanzi a suo padre;  il  quale  per  quanto  ostentasse
l'autorevole cipiglio del signore assoluto aveva in fondo il fare  vacillante  e
contrito d'un generale che capitola. - Figliuol mio - cominciò egli a dire -  la
professione delle armi è una  nobile  professione.  -  Lo  credo  -  rispose  il
giovinetto con una cera da santo un po' intorbidata dall'occhiata furbesca volta
di soppiatto alla madre. - Tu porti un nome  superbo  -  riprese  sospirando  il
vecchio Conte. - Orlando, come devi aver appreso dal poema dell'Ariosto  che  ti
ho tanto raccomandato di studiare... - Io leggo l'Uffizio della Madonna -  disse
umilmente il fanciullo. - Va benissimo; -  soggiunse  il  vecchio  tirandosi  la
parrucca sulla fronte - ma anche l'Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un
gran paladino che liberò dai Mori il bel regno di Francia. E di  piú  se  avessi
scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll'Uffizio  della  Madonna  ma
con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle
mani dei Saracini il sepolcro di Cristo. - Sia ringraziato Iddio!  -  sclamò  il
giovinetto. - Ora non resta nulla a che fare. - Come  non  resta  nulla?  -  gli
diede  sulla  voce  il  vecchio.  -  Sappi,  o  disgraziato,  che  gli  infedeli
riconquistarono la Terra Santa e che ora che  parliamo  un  bascià  del  Sultano
governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità. - Pregherò  il  Signore  che
cessi una tanta vergogna - soggiunse Orlando. - Che pregare! Fare, fare bisogna!
- gridò il vecchio Conte. - Scusate - s'intromise a dirgli la  Contessa.  -  Non
vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata. -
Eh via! non è piú bimbo! - rispose il Conte. -  Compie  oggi  appunto  i  dodici
anni! - Compiesse anche il centesimo - soggiunse la signora - certo non potrebbe
mettersi in capo di conquistare la Palestina. - Non la conquisteremo piú  finché
si avvezza la prole a donneggiare col rosario! -  sclamò  il  vecchio  pavonazzo
dalla bile. - Sí! ci voleva anche questa bestemmia! - riprese  pazientemente  la
Contessa. - Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea  di  far  bene
mostriamocene grati collo sconoscere i suoi  doni!  -  Bei  doni,  bei  doni!  -
mormorava il Conte. -  Un  santoccio  leccone!...  un  mezzo  volpatto  e  mezzo
coniglio! - Infine egli non ha detto questa  gran  bestialità;  -  soggiunse  la
signora - ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi  della  sua
passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito
che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e  che  la
professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine.  -
Corpo della Serenissima! - gridò il Conte. - Se Sparta avesse avuto madri simili
a voi, Serse passava le Termopili con trecento boccali di vino! - S'anco la cosa
andava a questo modo non ne avrei gran rammarico - riprese la Contessa. -  Come?
- urlò il vecchio signore - arrivate persino a negare l'eroismo di Leonida e  la
virtù delle madri spartane? - Via! stiamo nel seminato! -  disse  chetamente  la
donna - io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate
nominando troppo sovente; e tuttavia voglio  credere  ad  occhi  chiusi  che  le
fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi  a  noi
nostro figlio Orlando per illuminarci  sulla  sua  vera  vocazione,  e  non  per
litigare in sua presenza sopra queste rancide fole. - Donne, donne!... nate  per
educar i polli - borbottava il Conte. - Marito mio! sono una  Badoera!  -  disse
drizzandosi la Contessa. - Mi consentirete, spero,  che  i  polli  nella  nostra
famiglia non sono piú numerosi che nella vostra i capponi.  Orlando  che  da  un
buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel  complimento  della
signora madre; ma si ricompose  come  un  pulcino  bagnato  all'occhiata  severa
ch'ella gli volse. - Vedete? -  continuò  parlando  al  marito  -  finiremo  col
perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po' da banda i vostri capricci, giacché
Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece,  come
è dicevole a un buon padre di famiglia, l'animo di questo fanciullo. Il  vecchio
impenitente si morsicò le labbra e si volse al  figliuolo  con  un  visaccio  sí
brutto ch'egli se ne sgomentí e corse a rifugiarsi col capo sotto  il  grembiale
materno. - Dunque - cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo
si sentiva rigonfiare la bile. - Dunque, figliuol mio, voi non  volete  fare  la
vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d'oro e di velluto rosso,  con  una
lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni  alti
quattro braccia l'uno, i quali per correre a farsi  ammazzare  dalle  scimitarre
dei Turchi non aspetteranno altro che un cenno  della  vostra  bocca?  -  Voglio
cantar messa io! -  piagnucolava  il  fanciullo  di  sotto  al  grembiule  della
Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnucolosa soffocata dalle pieghe delle
vesti donde usciva, si voltò  a  vedere  cos'era;  e  mirando  il  figliuol  suo
intanato colla testa come un fagiano,  non  ebbe  piú  ritegno  alla  stizza,  e
diventò rosso piú ancor di vergogna che di collera. - Va' dunque  in  seminario,
bastardo! - gridò egli fuggendo fuori della stanza. Il cattivello si mise allora
a singhiozzare e a strapparsi i capelli e a  dar  del  capo  nelle  gambe  della
madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo  tolse  fra  le  braccia  e  lo
consolava con bella maniera dicendogli: - Sí, viscere mie; non temere; ti faremo
prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue  de'  tuoi
fratelli come Caino!... - Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo!
- strepitava Orlando. - Sí... canterai in coro, ti  faremo  canonico,  avrai  il
sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono  tribolazioni
queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre piú degni di lui -  gli
andava dicendo la mamma. Il fanciullo si consolò  a  queste  promesse;  ed  ecco
perché il conte Orlando, in onta  al  nome  di  battesimo  e  a  dispetto  della
contrarietà paterna, era divenuto monsignor Orlando.  Ma  per  quanto  la  Curia
fosse disposta a favorire la divota ambizione della  Contessa,  siccome  Orlando
non era un'aquila, cosí non ci vollero  meno  di  dodici  anni  di  seminario  e
d'altri trenta di postulazione per fargli toccare la meta de' suoi desiderii;  e
il Conte ebbe la gloria di morire molti anni  prima  che  i  fiocchi  rossi  gli
piovessero sul cappello. Peraltro non si può  dire  che  l'abate  perdesse  alla
lettera tutto quel tempo di aspettativa. Prima di tutto ci aveva  preso  intanto
una discreta pratica del messale; e poi la gorgiera gli si  era  moltiplicata  a
segno da poter reggere a paragone col piú  morbido  e  fiorito  de'  suoi  nuovi
colleghi. Un castello che chiudeva  fra  le  sue  mura  due  dignità  forensi  e
clericali come il Cancelliere e monsignor Orlando, non dovea mancare  della  sua
celebrità militare. Il capitano Sandracca voleva essere uno  schiavone  ad  ogni
costo, sebbene lo dicessero nato a Ponte di Piave. Certo era  l'uomo  piú  lungo
della giurisdizione;  e  le  dee  della  grazia  e  della  bellezza  non  aveano
presieduto alla sua nascita. Ma egli perdeva tuttavia una buona ora ogni  giorno
a farsi brutto tre volte piú che non lo avesse fatto natura; e  studiava  sempre
allo specchio qualche foggia di guardatura  e  qualche  nuovo  arricciamento  di
baffi che gli rendesse il cipiglio piú formidabile. A udirlo  lui,  quando  avea
vuotato il quarto bicchiere, non era stata guerra dall'assedio di Troia  fino  a
quello di Belgrado dove non avesse combattuto come un leone. Ma sfreddati i fumi
del vino, si riduceva colle sue pretese a piú oneste proporzioni. S'accontentava
di  raccontare  come  avesse  toccato  dodici  ferite  alla  guerra  di  Candia;
offrendosi ogni volta di calar le brache per farle contare. E Dio  sa  com'erano
queste ferite, poiché ora, ripensandoci sopra, non mi  par  verosimile  che  coi
cinquant'anni che diceva toccare appena, egli avesse  assistito  ad  una  guerra
combattutasi sessant'anni prima. Forse la  memoria  lo  tradiva,  e  gli  faceva
creder sue le gesta di qualche spaccone  udite  raccontare  dai  novellatori  di
piazza San Marco. Il buon Capitano confondeva assai facilmente le date;  ma  non
dimenticava mai ogni primo del mese di farsi pagar dal fattore venti  ducati  di
salario come comandante delle Cernide. Quel giorno era  la  sua  festa.  Mandava
fuori all'alba due tamburi i quali fino a mezzogiorno  strepitavano  ai  quattro
cantoni della giurisdizione. Poi nel dopopranzo quando la milizia  era  raccolta
nel cortile del  castello,  usciva  dalla  sua  stanza  cosí  brutto  che  quasi
solamente colla presenza sbaragliava il proprio esercito. Impugnava uno  spadone
cosí lungo che bastava a regolar il passo  d'un'intera  colonna.  E  siccome  al
minimo sbaglio egli usava batterlo spietatamente su tutte le pancie della  prima
fila; cosí quando appena accennasse di sbassarlo, la prima  fila  indietreggiava
sulla seconda la seconda sulla terza e nasceva una tal confusione che la  minore
non sarebbe avvenuta  all'avvicinarsi  dei  Turchi.  Il  Capitano  sorrideva  di
contentezza, e rassicurava la truppa rialzando la spada.  Allora  quei  venti  o
trenta contadini cenciosi coi  loro  schioppi  attraversati  sulle  spalle  come
badili, riprendevano la marcia  a  suon  di  tamburo  verso  il  piazzale  della
parrocchia. Ma siccome il Capitano camminava dinanzi con  le  gambe  piú  lunghe
della compagnia, cosí per quanto questa si affrettasse egli giungeva sempre solo
sul piazzale. Allora si rivolgeva infuriato a tempestare col suo spadone  contro
quella marmaglia indolente: ma nessuno era cosí gonzo da aspettarlo.  Alcuni  se
la davano a gambe, altri saltavano i fossati, altri sguisciavano dentro le porte
e si ascondevano sui fienili. I tamburi si difendevano  coi  loro  strumenti.  E
cosí finiva quasi sempre nella giurisdizione di Fratta la mostra  mensile  delle
Cernide. Il Capitano stendeva un lungo rapporto, il Cancelliere lo passava  agli
atti, e non se ne parlava piú fino al mese seguente. Leggere al giorno d'oggi di
cotali ordinamenti politici e militari che somigliano  buffonerie,  parrà  forse
una gran maraviglia. Ma le cose  camminavano  appunto  com'io  le  racconto.  Il
distretto di Portogruaro, cui appartiene il comune di Teglio colla  frazione  di
Fratta, forma adesso il lembo orientale della provincia  di  Venezia,  la  quale
occupa tutta la pianura contermine alle lagune, dal basso Adige in  Polesine  al
Tagliamento arginato. A' tempi di cui narro le cose stavano ancora come le  avea
fatte natura ed Attila le aveva lasciate. Il Friuli ubbidiva tuttavia a sessanta
o settanta famiglie, originarie d'oltralpi e naturate in paese da  una  secolare
dimora, alle quali era affidata nei diversi dominii la giurisdizione con misto e
mero imperio, e i loro voti  uniti  a  quelli  delle  Comunità  libere  e  delle
Contadinanze formavano il Parlamento  della  Patria  che  una  volta  l'anno  si
raccoglieva con voto consultivo allato del  Luogotenente  mandato  ad  Udine  da
Venezia. Io ho pochi peccati d'ommissione sulla coscienza, fra i quali  uno  de'
piú gravi e che piú mi rimorde è questo, di non aver assistito ad  uno  di  quei
Parlamenti. L'aveva da essere in verità uno  spettacolo  appetitoso.  Pochi  dei
signori Giurisdicenti sapevano di legge; e i deputati del contado  non  dovevano
saperne di piú. Che tutti intendessero il toscano io non lo credo; e che nessuno
lo parlasse è abbastanza provato dai loro decreti o  dalle  Parti  prese,  nelle
quali dopo un piccolo cappello di latino si precipita in un miscuglio d'italiano
di friulano e di veneziano che non è senza  bellezze  per  chi  volesse  ridere.
Tutto adunque concorda a stabilire che quando il  Magnifico  General  Parlamento
della Patria supplicava da Sua Serenità il Doge la licenza di giudicare  intorno
ad una data materia, il tenor della legge fosse già concertato  minutamente  fra
Sua Eccellenza il Luogotenente e l'Eccellentissimo Consiglio de' Dieci.  Che  in
quelle conferenze preliminari avessero  voce  anche  i  giureconsulti  del  Foro
udinese, io non m'attento di negarlo; massime se quei giureconsulti  avevano  il
buon naso  di  convenir  nei  disegni  della  Signoria.  S'intende  che  da  tal
consuetudine restava esclusa ogni materia di diritti privati, e feudali; i quali
né i castellani avrebbero forse  consentito  si  ponessero  in  disputa,  né  la
Signoria avrebbe osato di privarneli pei  suoi  imperscrutabili  motivi  che  si
riducevano spesso alla paura. Il fatto sta che ottenuto il permesso di  proporre
sopra un dato argomento, il Magnifico General Parlamento proponeva discuteva  ed
approvava tutto in un sol giorno, il quale era  appunto  l'undici  d'agosto.  Il
perché della fretta e dello aver scelto quel giorno piuttosto che un altro stava
in questo, che allora appunto cadeva la fiera di san Lorenzo e offeriva con  ciò
opportunità a tutte le voci del Parlamento di radunarsi  ad  Udine.  Ma  siccome
durante la fiera pochi avevano voglia di trasandare i proprii negozi per  quelli
del pubblico, cosí a sbrigar questi s'era stimato piucché bastevole il  giro  di
ventiquattr'ore. Il Magnifico General Parlamento implorava poi dalla Serenissima
dominante la conferma di quanto aveva discusso, proposto ed approvato; e  giunta
la conferma, il trombetta in giorno festivo gridava ad universale notizia e  per
inviolabile esecuzione la Parte presa  dal  Magnifico  General  Parlamento.  Non
viene da ciò, che tutte le leggi per tal  modo  promulgate  fossero  ingiuste  o
ridicole; giacché, come dice l'editore degli Statuti Friulani, esse  leggi  sono
un riassunto di giustizia di maturità e d'esperienza ed hanno sempre  di  fronte
oggetti commendabili e salutari; ma ne  scaturisce  un  formidabile  dubbio  sul
merito che potessero vantarne i Magnifici deputati della Patria. Nel  1672  pare
che l'Eccellentissimo Carlo Contarini riferisse al  Serenissimo  Doge  sopra  la
necessità di alcune  riforme  delle  vecchie  costituzioni.  Pertanto  Dominicus
Contareno Dei gratia Dux  Venetiarum  etc.  dopo  aver  augurato  al  nobili  et
sapienti viro  Carolo  Contareno  salutem  et  dilectionis  affectum  seguita  a
dichiarargli i limiti della concessa licenza. Avutosi riflesso  non  tanto  alle
istanze di codesta Patria e Parlamento  che  a  quanto  esprimete  nelle  vostre
giurate informazioni in proposito etc. risolvemo a consolazione degli  animi  di
codesti amati e fedelissimi sudditi di permetterle  che  possino  devenire  alla
riforma di quei capitoli che conoscessimo necessari  per  il  loro  servizio.  E
nell'anno susseguente, lette e meditate che ebbe il Serenissimo  Doge  le  fatte
riforme, cosí si piacque di permetterne la  pubblicazione  con  sue  lettere  al
nobili et sapientissimo viro Hyeronimo Ascanio Justiniano. Venendo rappresentata
qualche alterazione in alcuno dei susseguenti capitoli che volemo siano  ridotti
alla vera essenza loro  senz'altra  aggiunta  etc.  etc.  dovrà  omettersi  etc.
bastando li pubblici Decreti in tale proposito. Nel capitolo  centoquarantasette
con cui si pretende levar li pregiudicii che dalle ville e comuni sono  inferiti
ai  giurisdicenti,  vi  è  stata  aggiunta  una  pena  di  lire   cinquanta   al
giurisdicente: questa non vi era nel latino, doverà pure esser levata e lasciata
di stampare. Con tali metodi le permetterete  l'esecuzione  conforme  l'istanze,
ordinando però la conservazione de' vecchi statuti  ed  altre  costituzioni  per
tutte quelle insorgenze e  ricorsi  che  potessero  esser  fatti  alla  Signoria
nostra. Datum in nostro ducali palatio, die 20 maii  Indictione  XI  1673.  Dopo
tali formalità uscirono finalmente gli Statuti Friulani, i quali seguitarono  ad
aver corso di legge fino al cominciare del presente secolo;  e  la  ragione  del
rinnovamento è cosí espressa  dai  compilatori  in  un  solenne  proemio.  Si  è
determinato di rinnovare le costituzioni della Patria del Friuli  essendo  molte
per il lungo corso di tempo fatte impraticabili, altre dubbiose,  molti  i  casi
sopra i quali non era stato provvisto. Etc. etc. E perché in esse si  tratta  di
effetti di giustizia che non solamente  dalli  giudici  stessi  deve  esser  ben
conosciuta, ma da tutti, etc. etc. si è risoluto di scrivere il  presente  libro
di Costituzioni in lingua volgare nella piú ampia e facil forma possibile,  etc.
etc. Per dar poi un principio che sia ben fondamentato a questa  profittevole  e
lodevole opera, comincieremo colla Prima Costituzione. Si scordarono di chiarire
il motivo per cui la prima costituzione e non  la  seconda  doveva  essere  buon
fondamento a quella profittevole e lodevole opera. Ma forse sarà  stato,  perché
nella prima si statuiva intorno all'osservanza della religione cristiana, nonché
alle pratiche relative ai giudei ed  alle  bestemmie.  Se  anche  queste  ultime
debbano annoverarsi  fra  gli  oggetti  commendabili  e  salutari  che,  secondo
l'editore, stanno sempre di fronte alle leggi, io  non  potrei  crederlo,  anche
prestando la fede piú cieca all'ermeneutica  dell'editore  suddetto.  Continuano
poi gli Statuti a stabilire le Ferie  introdotte  in  onore  di  Dio,  e  quelle
introdotte per li necessarii bisogni degli uomini, perché  comodamente  e  senza
alcuna distrazione si possa raccogliere quello che  la  terra  produce  irrigata
dalla mano divina. Seguitano le disposizioni intorno ai  nodari,  sollecitatori,
patrocinatori e avvocati; a proposito dei quali avendo osservato il  legislatore
che le armi decorano e le lettere  armano  gli  Stati,  soggiunse  che,  essendo
l'ufficio loro tanto  nobile,  gli  si  devono  anche  applicare  gli  opportuni
rimedii. Pare che l'attributo di nobile sia qui usato nell'insolito  significato
d'infermo o pericoloso. Succedono poi molti capitoli di regole  processuali  nei
quali al capitolo del testimonio falso si nota la  savia  disposizione  che  chi
sarà convinto tale in causa civile debba cadere nella pena di 200  lire,  o  sia
mutilato della lingua in caso d'insolvibilità. E se la materia  fosse  criminale
gli si  applichi  la  stessa  pena  che  meriterebbe  quello  contro  cui  viene
introdotto. I contratti, le doti,  i  testamenti,  gli  escomii,  i  livelli,  i
sequestri sono argomenti dei paragrafi successivi. Il  capitolo  centoquarantuno
tratta particolarmente degli assassini, ognuno de' quali, se  capiterà  in  mano
della  giustizia  (accidente  allora  rarissimo;  il  che  mitigava  l'eccessiva
generalità della legge) è condannato ad essere appiccato per la  gola,  in  modo
che mora. Dal paragrafo concernente gli assassini, si passa alle  confiscazioni,
ai regolamenti del pascolo e della caccia, e ad uno statuto  di  buona  economia
ne' quali è inibito ai comuni il condannare i rei piú che in soldi otto per ogni
eccesso. V'è un capitolo intitolato i Castelli, nel  quale  si  rimanda  chi  ne
cercasse notizia alle leggi sopra i Feudi. E  finalmente  vi  è  l'ultimo  della
locazione  delle  case,  nel  quale,  con  paterna  provvidenza  per  la  sicura
abitazione dei sudditi, è stabilito che chi ha locazione minore d'anni cinquanta
debba avere l'intimazione dello sfratto almeno un mese avanti allo spirar  della
stessa.  Nel  quale  spazio  di  tempo  egli   possa   provvedersi   per   altri
cinquant'anni; e che il Signore gli conceda  la  vita  di  Matusalem,  acciocché
possa ripeterne molte di tali locazioni. Parrebbe ora affatto miracoloso  questo
Codice d'un centinaio di pagine che pon ordine a tante materie  cosí  disparate;
ma i giureconsulti del Magnifico Parlamento ci trovarono  tanta  agevolezza  che
ebbero agio qua e là d'inframmettervi  leggi  e  consigli  sulle  tutele,  sulle
curatele, sugli incanti, sui percussori ed inquietatori dei pubblici  officiali,
e di sancire a danno di questi la multa di soldi quarantotto  se  uomini,  e  di
soldi ventiquattro se sono donne. Vi si contiene di piú una tariffa  pei  periti
patentati ed una buona ramanzina  pei  contadini  che  osassero  carreggiare  in
giorni festivi. Savissima poi è la consuetudine seguita in tali Statuti  di  dar
sempre ragione del  partito  preso;  come  allorquando  dopo  stabilito  che  le
citazioni in luogo diverso cadenti nell'egual giorno debbano aver effetto  l'una
dopo l'altra in ragione d'anzianità, il legislatore soggiunse a motivo di questa
sua disposizione: perché una persona non può contemporaneamente  in  piú  luoghi
essere. I Codici moderni  non  sono  tanto  ragionevoli;  essi  vogliono  perché
vogliono; ma ciò non toglie che non debba esser lodata la piacevole ingenuità di
quelli d'una volta. Il ministero del legale o del giudice parrebbe dover  essere
stato assai facile colla comodità di statuti tanto sommari. Ma c'era di mezzo un
piccolo incaglio. Ove non disponevano  le  leggi  provinciali  s'intendeva  aver
vigore il Diritto veneto; e chi ha conoscenza solo del volume e della confusione
di questo, può intender di leggieri come ne fossero intralciate  le  transazioni
forensi. Per giunta v'aveano le consuetudini; ed ultimo capitava a imbrogliar la
matassa il Diritto feudale, il quale mescolato colle altre leggi e disposizioni,
in un paese ingombro di giurisdizioni e di castelli, finiva  col  trovar  sempre
quel posto che ha l'olio  mescolato  col  vino.  Gl'infiniti  dissesti  prodotti
nell'amministrazione della  giustizia  dall'arbitrario  attraversarsi  di  tante
leggi e di tanti codici, impietosirono gli animi della Serenissima Signoria,  la
quale s'accinse  a  ripararvi  colla  missione  in  terraferma  d'un  magistrato
ambulante composto di tre sindaci inquisitori; i  quali  toccando  con  mano  le
piaghe degli amatissimi sudditi e delle povere contadinanze vi mettessero valido
e pronto rimedio. Infatti i tre sindaci con minutissima coscienza cominciarono a
passeggiare per lungo e per largo la Patria del Friuli;  e  primo  frutto  della
loro peregrinazione fu un caldissimo proclama sui dazi  pubblici,  in  calce  al
quale resta eccitato lo zelo  de'  Nobiluomini  Luogotenenti  ad  incalorire  le
riscossioni e non ommetter di tempo in tempo qual si sia esecuzione de'  mobili,
affitti,  entrate  e  stabili  di  ragione  de'  pubblici  renitenti   debitori,
incamerando e vendendo gli effetti e beni medesimi a  vantaggio  della  pubblica
cassa; e ciò sian tenuti a puntualmente eseguire in  pena  della  perdita  della
carica ed altre, ad arbitrio della giustizia. Di qual giustizia io lo dimanderei
loro assai volentieri. Però dopo aver assestato convenevolmente una tale materia
con una mezza dozzina di simili proclami, gli Illustrissimi  ed  Eccellentissimi
Signori Sindaci volsero la mente ad un oggetto di piú caro e  diretto  vantaggio
degli amatissimi sudditi; e pubblicarono un altro decreto che incomincia: Noi (a
capo). In proposito dei vini d'Istria ed Isola (a capo  ancora).  Le  difficoltà
che si frappongono all'esito dei vini  di  questa  fedelissima  Patria  eccitano
l'attenzione  dei  Magistrati  etc.  etc.,  e  c'inducono  col  presente  a  far
pubblicamente sapere (a capo). Che  ferme  le  leggi  etc.  resti  assolutamente
proibito il poter introdurre in qualsiasi loco di questa Patria e Provincia  del
Friuli qualunque sorta di vini provenienti da Sottovento ed Isola, se prima  non
averanno pagato il Dacio in mano del Custode nel luogo di Muscoli  e  levata  la
bolletta. Seguitano le pene per un buon paio di facciate. - Ai  signori  sindaci
parve con quel decreto aver sufficientemente  operato  per  l'immediata  utilità
della fedelissima Patria, laonde tornarono a partorir proclami: in proposito del
Dacio Masena e Ducato per botte, in proposito dei Prestini, in proposito  d'Ogli
Sali e Tabacchi, in proposito  dei  contrabbandi;  e  non  cessarono  da  questi
propositi se non per emanarne  un  altro  affatto  paterno  e  provvidenziale  a
proposito dei corrotti, secondo il quale per  impedire  che  non  si  ecceda  in
occasione dei corrotti per morte di congionti con aggravio inutile  e  superfluo
che cagiona la rovina della famiglia e arriva a toglier il modo di  supplire  ai
proprii doveri (intendi di pagare le imposte, etc.) si statuisce fra  le  altre,
che non si possano portare i tabarri lunghi altrimenti detti gramaglie, in  pena
ai trasgressori  di  Ducati  600  da  esser  applicati  un  terzo  al  Nobiluomo
Camerlengo,  un  terzo  alla  cassa  della  Magnifica  città,  ed  un  terzo  al
denunciante. Io suppongo che in seguito a questa disposizione  tutti  color  che
avevano perduto un parente  nell'ultimo  decennio  si  facessero  accorciare  il
tabarro usuale d'un paio di quarte, per non correre il pericolo di pagarne  cosí
caro il privilegio. Ma se fu oculata ed attiva la missione del primo  Sindacato,
assai piú proficui riuscirono i susseguenti. Fra i quali merita speciale encomio
quello del 1770 che ebbe ad occuparsi del riordinamento delle Cernide o  milizie
del contado, levate dalle Comunità e dai Feudatari a  tutela  dell'ordine  nelle
singole giurisdizioni. Permettono i Signori Sindaci  Inquisitori  alle  Cernide,
Caporali e Capi di Cento (il capitano Sandracca era un Capo di Cento, o anche di
cinquanta o di venti secondo il buon volere dei subalterni, che si  arrogava  il
titolo di capitano in vista delle sue glorie passate) permettono loro, dico,  di
portare liberamente il  schioppo  scarico  per  le  città  e  terre  murate  per
transito, non mai alle chiese, feste, mercati,  né  accompagnando  cittadini.  -
Potranno inoltre, cosí gli Illustrissimi Sindaci, nei casi di Mostre,  Mostrini,
Mostroni e Pattuglie esser armati oltre al  fucile,  della  bajonetta;  restando
vietato il pugnale, proibito nelle vecchie  Parti,  e  convertito  ora  nell'uso
impudente di coltelli, arma abominevole ad ogni genere di milizia  e  condannata
da tutte le leggi. - Questo paragrafo colpiva piucché le  Cernide  i  prepotenti
castellani i quali, reclutando in esse i famosi buli, armavano fino ai  denti  i
piú arrischiati e se li tenevano intorno per le consuete  soperchierie.  Convien
però soggiungere a lode dei Conti di Fratta, che i loro buli  erano  famosi  nel
territorio per una esemplare mansuetudine, e che, se ne tenevano,  gli  era  piú
per andazzo che per tracotanza. Il capitano Sandracca, antico  eroe  di  Candia,
vedeva con raccapriccio questa genia, diceva egli, di scorribanda irregolare;  e
tanto erasi adoperato presso il Conte che gli avevano relegati in  un  camerotto
vicino alla stalla, e lo stesso Marchetto cavallante, che  all'occorrenza  n'era
il capo, non poteva entrare in cucina senza depor prima nell'andito le pistole e
il coltellaccio. Il Capitano di  questo  suo  raccapriccio  adduceva  il  motivo
stesso introdotto dai signori sindaci, cioè che cotali armi sono abbominevoli ad
ogni genere di milizia. Egli diceva di aver piú paura  d'un  coltello  che  d'un
cannone; e questo poteva esser  vero  a  Fratta  dove  non  s'erano  mai  veduti
cannoni. Accomodata un po' all'ingrosso quella difficile materia delle armi,  si
accinsero i signori sindaci a regolare quella non meno importante delle  monete;
ma la prima stava loro troppo a cuore ed era turbata da troppi disordini, perché
non vi dovessero tornar sopra tantosto. Infatti nello stesso  anno  tornarono  a
ribadir il chiodo del divieto di portar armi a chi non fosse munito della voluta
licenza, estendendolo anche a questi nelle feste sagre  o  pubbliche  solennità,
coll'avvertenza, che intorno a tali mancanze si riceveranno denunzie segrete con
promessa di segretezza e premio di ducati 20 al  denunciante.  -  Come  si  vede
questa faccenda premeva assaissimo al Maggior  Consiglio,  per  cui  autorità  i
signori sindaci buttavano fuori proclami sopra proclami. Ma l'esuberanza appunto
era indizio d'effetto mediocre. Infatti non era facile il sindacato  delle  armi
in una provincia  divisa  e  suddivisa  da  cento  giurisdizioni  soprapposte  e
intersecate le une dalle altre; contermine a paesi stranieri come il Tirolo e la
Contea di Gorizia; solcata ad ogni passo da torrenti e da  fiumane  sulle  quali
scarseggiavano, nonché i ponti, le barche; e fatta dieci volte piú vasta che ora
non sia da strade distorte, profonde, infamissime, atte piú a precipitare che ad
aiutare i passeggieri. Da Colloredo a Collalto,  che  è  il  tratto  di  quattro
miglia, mi ricorda che fino a vent'anni fa due agili e robusti cavalli  sudavano
tre ore per trascinare un cocchio tanto ben saldo  e  compaginato  da  resistere
agli strabalzi delle buche e dei macigni che s'incontravano. Piú, v'avea un buon
miglio pel quale la strada correva in un fosso o torrente; e per sormontare quel
passo richiedevasi  indispensabile  il  soccorso  d'un  paio  di  buoi.  Le  vie
carrozzabili non erano diverse da quella nel resto della provincia e  ognuno  si
può figurare qual dovesse essere la forza esecutiva delle autorità sopra persone
difese d'ogni  parte  da  tanti  ostacoli  naturali.  Fra  questi  voglio  anche
tralasciar per ora di metter in conto la pigrizia e  la  venale  complicità  dei
zaffi, dei cavallanti e  perfino  dei  cancellieri;  costretti  quasi  a  cotali
compromessi  per  rimediare  alla  soverchia  modicità  delle  tariffe  e   alla
proverbiale avarizia dei principali. Fra costoro, per esempio v'avea taluno che,
anziché retribuir d'alcuna mercede il proprio cancelliere o  nodaro,  pretendeva
far parte con lui delle tasse percepite, e mi sovviene d'un nodaro  costretto  a
condannar  la  gente  il  doppio  di  quanto  avrebbe  dovuto,  per   soddisfare
all'ingordigia del giurisdicente e insieme  cavarci  di  che  vivere.  Un  altro
castellano,  quando  era  al  verde,  costumava  denunciar  egli   stesso   alla
cancelleria un supposto delitto per leccare  la  sua  quota  sulla  paga  dovuta
all'officiale pel processo, dalla parte condannata. Certo il giurisdicente e  il
cancelliere di Fratta non erano di  tali  sentimenti;  ma  io  peraltro  non  mi
ricordo  di  aver  udito  mai  levar  a  cielo  la  loro  giustizia.  Invece  il
Cancelliere, quando era sciolto dal suo ministero di ombra, e non si  perdeva  a
ciaramellare  di  donnicciuole  e  di   tresche,   moveva   sempre   lunghissime
lamentazioni sulla strettezza delle tariffe; le quali, secondo  lui,  proibivano
assolutamente l'entrata del paradiso ad ogni  officiale  di  giustizia  che  non
provasse categoricamente a san Pietro di esser morto di fame. Con quanto diritto
egli si dolesse, io non voglio giudicare; so peraltro che l'inquisizione di  uno
o piú rei portava in tariffa la paga di lire una, equivalente a centesimi 50  di
franco. Io credo che non si potesse assicurare ai sudditi una  giustizia  piú  a
buon mercato; ma l'è della giustizia come dell'altra roba, che  chi  piú  spende
meno spende; ed i proverbi rade volte hanno torto.  Cosí  anche  avveniva  delle
lettere, che il porto di una di esse nei confini del Friuli si pagava soldi tre;
e l'era una bazza con quella diavoleria di strade. Ma cosa importa se si  doveva
scriverne dieci per farne arrivar una; ed anco questa non giungeva che per caso,
e spesse volte inutile per la tardanza? In fin dei conti, sotto un certo aspetto
che m'intendo io, non hanno torto coloro che  benedicono  San  Marco;  ma  sotto
mille aspetti diversi da  quell'uno  io  benedico  tutti  gli  altri  santi  del
paradiso e lascio in tacere il quarto evangelista col suo leone. Son vecchio  ma
non innamorato della vecchiaia; e dell'antichità venero la lunghezza ma  non  il
colore della barba. Certo, per coloro che  avevano  ereditato  molti  diritti  e
pochi doveri e intendevano continuare l'usanza, San  Marco  era  un  comodissimo
patrono. Nessun conservatore  piú  conservatore  di  lui:  neppur  Metternich  o
Chateaubriand. Quale il Friuli gli era stato legato dai  patriarchi  d'Aquileia,
tale l'aveva serbato  colle  sue  giurisdizioni,  co'  suoi  statuti,  co'  suoi
parlamenti. Fantasma di vita pubblica che covava forse dapprincipio un germe  di
vitalità, ma che sotto le ali del Leone finí  da  ultimo  a  non  altro,  che  a
nascondere una profonda indifferenza, anzi una stanca rassegnazione agli  ordini
invecchiati della Repubblica. Le effimere scorrerie dei Turchi, sul  finire  del
Quattrocento, aveano empiuto  quella  estrema  provincia  d'Italia  d'una  paura
sterminata, quasi  superstiziosa;  sicché  la  dedizione  a  Venezia  parve  una
fortuna; come antica trionfatrice che quella  era  della  potenza  ottomana.  Ma
l'astuta negoziatrice conobbe che per mantenersi senz'armi nel nuovo dominio  le
bisognava il braccio dei castellani, sorti a nuova prepotenza pel bisogno che il
contado aveva avuto di  loro  nelle  ultime  invasioni  turchesche.  Da  ciò  la
tolleranza dei vecchi ordinamenti feudali; la quale si perpetuò  come  tutto  si
perpetuava in quel corpo già infermo  e  paludoso  della  Repubblica.  I  nobili
continuarono lor dimora nei  castelli  tre  secoli  dopo  che  i  loro  colleghi
connazionali s'eran già fatti cittadini; e  le  virtù  d'altri  tempi  in  parte
diventarono vizii, quando il mutarsi delle condizioni generali tolse loro l'aria
di  cui  vivevano.  Il  valore  diventò  ferocia,  l'orgoglio  soperchieria;   e
l'ospitalità cambiossi a poco a poco nella superba  e  illegale  protezione  dei
peggiori capi da forca. San Marco sonnecchiava;  o  se  vegliava  e  puniva,  la
giustizia si faceva al buio; atroce pel mistero, e inutile pel  nessun  esempio.
Intanto il patriziato friulano cominciava a  dividersi  in  due  fazioni;  l'una
paesana, piú rozza, piú selvatica, e meno propizia alla dominazione dei  curiali
veneziani; l'altra veneziana, cittadinante, ammollita dal diuturno consorzio coi
nobili della dominante. Le antiche memorie famigliari e la vicinanza delle terre
dell'Impero attiravano la prima al partito imperiale; la seconda per somiglianza
di costumi piegavasi sempre meglio a una  pecorile  obbedienza  dei  governanti;
ribelle la prima per istinto; impecorita  la  seconda  per  nullaggine,  ambidue
piucché inutili  nocive  al  bene  del  paese.  Cosí  veggiamo  parecchi  casati
magnatizi durare per molte generazioni al servizio  della  Corte  di  Vienna,  e
molti altri invece imparentati coi nobiluomini di  Canalazzo  ed  esser  onorati
nella Repubblica da cariche cospicue. Ma i due partiti non s'aveano  diviso  fra
loro le costumanze e i favori per modo che non fosse  qualche  parte  promiscua.
Anzi alcuno fra i piú petulanti castellani fu veduto talvolta andarne a  Venezia
per far ammenda dei soprusi commessi, o comperarne dai senatori la  dimenticanza
con delle lunghe borse di zecchini. E v'avevano anche dei nobiluzzi, venezievoli
in città pei tre mesi d'inverno, che  tornati  fra  i  loro  merli  inferocivano
peggio che mai; sebbene tali gradassate  somigliassero  piú  spesso  truffe  che
violenze, e  sovente  anche  prima  di  commetterle  se  ne  fossero  assicurati
l'impunità. Quanto a giustizia io credo che la cosa stesse  fra  gatti  e  cani,
cioè che nessuno la pigliasse sul serio, eccettuati i pochi timorati di Dio  che
anco erano soggetti a pigliar di gran granchi  per  ignoranza.  Ma  in  generale
quello era il regno dei furbi;  e  soltanto  colla  furberia  il  minuto  popolo
trovava il bandolo di ricattarsi dalle sofferte prepotenze. Nel diritto  forense
friulano l'astuzia degli amministrati faceva l'uffizio dell'equitas nel  diritto
romano. L'ingordigia e l'alterezza degli  officiali  e  dei  rispettivi  padroni
segnavano i confini dello strictum jus. Comunque  la  sia,  se  al  di  qua  del
Tagliamento predominava fra i castellani  il  partito  veneziano,  al  quale  si
vantavano di appartenere da tempo immemorabile i  Conti  di  Fratta;  al  di  là
invece la fazione imperiale padroneggiava sfacciatamente, la  quale,  se  cedeva
all'emula in popolarità ed in dovizia, le era  di  gran  lunga  soprastante  per
operosità, e per audacia. Tuttavia anche in essa v'avea chi la prendeva calda  e
chi fredda; chi stava nel tiepido; e questi come sempre  erano  i  dappoco  e  i
peggiori. La giustizia sommaria esercitata spesse volte dal Consiglio dei  Dieci
sopra alcuni imprudenti, accusati di congiurare in favor  degli  imperiali  e  a
detrimento della  Repubblica,  non  era  fatta  per  incoraggiare  le  mene  dei
sediziosi. Sebbene cotali scoppii erano troppo rari perché ne durasse a lungo lo
spavento; e le trame continuavano tanto piú frivole  ed  innocue  quanto  piú  i
tempi si facevano contrari e il popolo indifferente ad artificiali e non cercate
innovazioni. Al tempo di Maria Teresa tre castellani del Pedemonte,  un  Franzi,
un Tarcentini e un Partistagno furono accusati di fomentare  l'inquietudine  del
paese e di adoperarsi a volger l'animo delle Comunità in favor dell'Imperatrice.
Il Consiglio dei Dieci li fece spiare diligentemente, e  n'ebbe  che  le  accuse
fatte non erano false. Piú di tutti il Partistagno, posto col suo castello quasi
sul confine  illirico,  parteggiava  scopertamente  per  gli  imperiali,  diceva
beffarsi di San Marco, e trincava in fin di mensa a quel giorno  che  il  signor
Luogotenente, ripeto le parole del suo brindisi,  e  gli  altri  caca  in  acqua
sarebbero stati cacciati a  piedi  nel  sedere  di  là  del  Tagliamento.  Tutti
ridevano di questi augurii; e la baldanza del feudatario era ammirata e  imitata
anche, come si poteva meglio, dai  vassalli  e  dai  castellani  all'intorno.  A
Venezia si tenne Consiglio Segreto; e fu deciso che  i  tre  turbolenti  fossero
citati a Venezia per giustificarsi; ognuno sapeva che le  giustificazioni  erano
la scala piú infallibile per salire ai piombi. Il temuto  Messer  Grande  capitò
dunque in Friuli con tre lettere sigillate, da disuggellarsi e leggersi  cadauna
in presenza del rispettivo imputato; nelle quali era contenuta l'ingiunzione  di
recarsi ipso facto a Venezia per rispondere sopra inchieste dell'Eccellentissimo
Consiglio dei Dieci. Tali ingiunzioni erano solite obbedirsi alla  cieca;  tanto
ai lontani e agli ignoranti appariva ancora formidabile la forza del Leone,  che
era stimato inutile tentar di sfuggirgli. Il Messer Grande adunque fece  la  sua
solenne imbasciata al Franzi e al Tarcentini; ambidue i quali chinarono uno  per
volta il capo e andarono spontaneamente a porsi nelle segrete degli Inquisitori.
Indi passò colla terza lettera al castello del Partistagno, il  quale  avea  già
saputo dell'umiltà dei compagni e lo attendeva rispettosamente nella  gran  sala
del pianterreno. Il Messer Grande entrò col suo gran robone rosso  che  spazzava
la polvere, e con atto solenne cavata di petto la lettera ed apertala, ne  lesse
il contenuto. Egli leggeva con voce nasale, qualmente che, il Nobile ed  Eccelso
Signore Gherardo di Partistagno fosse invitato entro sette  giorni  a  comparire
dinanzi all'Eccellentissimo Consiglio dei  Dieci,  etc.  etc.  -  Il  nobile  ed
eccelso signore Gherardo di Partistagno gli stava dinanzi colla fronte curva sul
petto e la persona tremolante, quasi ascoltasse una sentenza di morte.  La  voce
del Messer Grande si faceva sempre piú minacciosa nel vedere quell'attitudine di
sgomento; e da ultimo quando lesse le sottoscrizioni pareva che tutto il terrore
di cui si circondava il Consiglio  Inquisitoriale  spirasse  dalle  sue  narici.
Rispose il Partistagno con voce malsicura che avrebbe incontanente  obbedito,  e
volse ad un servo la  mano  con  cui  s'era  appoggiato  ad  una  tavola,  quasi
comandasse il cavallo o la lettiga. Il Messer Grande superbo di  aver  fulminato
secondo il suo solito quell'altero feudatario volse le calcagna,  per  uscire  a
capo ritto dalla sala. Ma non avea mosso un passo che sette od otto  buli  fatti
venire  il  giorno  prima  da  un  castello   che   il   Partistagno   possedeva
nell'Illirico, gli si avventarono addosso: e batti di qua e pesta di  là  gliene
consegnarono tante che il povero Messer Grande non ebbe in breve neppur voce per
gridare. Il Partistagno aizzava quei manigoldi dicendo di tratto  in  tratto:  -
Sí, da senno; son pronto ad obbedire! Dagliene, Natale! Giù, giù su quel muso di
cartapecora! Venir qui nel mio castello a portarmi cotali  imbasciate!...  Furbo
per diana!... Uh come sei conciato!... Bravi, figliuoli miei! Ora,  basta,  ora:
che gli avanzi fiato da tornare a Venezia a  recar  mie  novelle  a  quei  buoni
signori! - Ohimè! tradimento! pietà!  son  morto!  -  gemeva  il  Messer  Grande
dimenandosi sul pavimento e cercando rifarsi ritto della persona. - No, non  sei
morto, ninino - gli veniva dicendo il Partistagno. -  Vedi?...  Ti  reggi  anche
discretamente in piedi, e con qualche rattoppatura  nella  tua  bella  vestaglia
rossa non ci parrà piú un segno del brutto accidente. Or va' - e cosí dicendo lo
conduceva fuor della porta. - Va' e significa a' tuoi padroni che  il  capo  dei
Partistagno non riceve ordini da nessuno, e che se essi hanno  invitato  me,  io
invito loro a venirmi a trovare nel mio castello di Caporetto sopra Gorizia, ove
riceveranno tripla dose di quella droga che hai ricevuto tu. Con  queste  parole
egli lo aveva condotto saltellone fin sulla soglia del castello, ove  gli  diede
uno spintone che lo mandò a ruzzolare fuori dieci passi  sul  terreno  con  gran
risa degli spettatori. E poi mentre il Messer Grande palpandosi  le  ossa  e  il
naso scendeva verso Udine in una barella requisita per istrada,  egli  co'  suoi
buli spiccò un buon volo per Caporetto donde non si fece piú vedere sulle  terre
della Serenissima. I vecchi contavano che de' suoi due compagni  imbucati  nelle
segrete non si avea piú udito parlare. Queste bazzecole succedevano in Friuli or
son cent'anni e le paiono novelle dissotterrate dal Sacchetti. Cosí  è  l'indole
dei paesi montani che nelle  loro  creste  di  granito  serbano  assai  a  lungo
l'impronte degli antichi tempi; ma siccome il  Friuli  è  un  piccolo  compendio
dell'universo, alpestre piano e lagunoso in  sessanta  miglia  da  tramontana  a
mezzodí, cosí vi si  trovava  anche  il  rovescio  della  medaglia.  Infatti  al
castello di Fratta durante la  mia  adolescenza  io  udiva  sempre  parlare  con
raccapriccio dei castellani dell'alta; tanto il  venezianismo  era  entrato  nel
sangue di quei buoni conti. E son sicuro che questi furono scandolezzati piú che
gli stessi Inquisitori del rinfresco servito al  Messer  Grande  per  opera  del
Partistagno. Ma la giustizia alta,  bassa,  pubblica,  privata,  legislativa  ed
esecutiva della Patria del Friuli mi ha  fatto  uscire  di  mente  il  grandioso
focolare, intorno a cui al  lume  delle  due  lucernette  e  allo  scoppiettante
fiammeggiar del ginepro io stava ricomponendo le figure che vi solevano sedere i
lunghi dopopranzi della vernata al tempo della mia infanzia. Il Conte colla  sua
ombra, monsignor Orlando, il capitano  Sandracca,  Marchetto  cavallante  e  ser
Andreini il primo Uomo della Comune di Teglio. Questo è un nuovo personaggio  di
cui non ho ancora fatto parola, ma bisognerebbe discorrerne  a  lungo  per  dare
un'idea del cosa fosse allora questo ceto mezzano campagnuolo fra la signoria  e
il contadiname. Cosa fosse davvero, sarebbe un intruglio a  volerlo  capire;  ma
cosa volesse sembrare posso dirlo  in  due  tratti  di  penna.  Voleva  sembrare
umilissimo servitore nei castelli e confidente del castellano e  perciò  secondo
padrone in paese. Chi  aveva  buona  indole  volgeva  a  bene  questa  singolare
ambizione, e chi era invece taccagno, scroccone o cattivo, ne  era  tirato  alla
piú bassa e doppia malvagità. Ma ser Andreini andava primo fra i  primi;  poiché
se era accorto e chiacchierone, aveva in fondo la miglior pasta del mondo, e non
avrebbe cavata l'ala ad una vespa dopo esserne stato beccato. I  servitori,  gli
staffieri, il trombetta, la guattera e la cuoca erano pane e cacio  con  lui;  e
quando il Conte non gli era fra i piedi, scherzava con esso loro  e  aiutava  il
figliuolo del castaldo a spennar gli uccelletti. Ma appena capitava il Conte, si
ricomponeva per badare solamente a  lui,  quasiché  fosse  sacrilegio  occuparsi
d'altro quando si  godeva  della  felicissima  presenza  d'un  giurisdicente.  E
secondo i probabili desiderii di questo, egli era il primo a ridere,  a  dir  di
sí, a dir di no, e perfino anche a  disdirsi  se  aveva  sbagliato  colla  prima
imbroccata. C'era anche un certo Martino, antico  cameriere  del  padre  di  Sua
Eccellenza, che bazzicava sempre per cucina, come  un  vecchio  cane  da  caccia
messo fra gli invalidi:  e  voleva  ficcare  il  naso  nelle  credenze  e  nelle
cazzeruole, con gran disperazione della cuoca, brontolando sempre contro i gatti
che gli si impigliavano nelle gambe. Ma costui essendo sordo  e  non  piacendosi
troppo di ciarlare, non entrava per nulla nella conversazione. Unica sua  fatica
era quella di grattare il formaggio. Gli è vero che colla flemma naturale tirata
ancor piú a lungo dall'età, e collo straordinario consumo  di  minestra  che  si
faceva in quella cucina, una tale fatica lo occupava per molte ore  del  giorno.
Mi par ancora d'udire il romore monotono delle croste menate su  e  giù  per  la
grattugia con pochissimo rispetto delle unghie; in premio della qual  parsimonia
il vecchio Martino aveva sempre rovinate e impiastricciate di ragnateli le punte
delle dita. Ma a me non istarebbe il prendermi beffa di lui.  Egli  fu,  si  può
dire, il mio primo amico; e se io sprecai molto fiato nel volergli  scuotere  il
timpano colle mie parole, n'ebbi anche per tutti gli anni  che  visse  meco  una
tenera ricompensa d'affetto. Egli era quello che  mi  veniva  a  cercare  quando
qualche impertinenza commessa mi  metteva  al  bando  della  famiglia;  egli  mi
scusava presso Monsignore, quando invece di servirgli messa  scappava  nell'orto
ad arrampicarmi sui platani in  cerca  di  nidi;  egli  testimoniava  delle  mie
malattie, quando il Piovano davami la caccia per la lezione di dottrina; e se mi
cacciavano a letto, era anche capace di prender l'olio  o  la  gialappa  in  mia
vece. Insomma fra Martino e me eravamo come  il  guanto  e  la  mano,  e  s'anco
entrando in cucina non giungeva a discernerlo pel gran buio che  vi  regnava  in
tutta la giornata, un interno sentimento mi avvertiva  se  egli  vi  era,  e  mi
menava diritto a tirargli la parrucca o  a  cavalcargli  le  ginocchia.  Se  poi
Martino non vi era, tutti mi davano la baia perché restava cosí mogio mogio come
un pulcino lontano dalla chioccia; e finiva col darla a  gambe  indispettito,  a
menoché una raschiata del  signor  Conte  non  mi  facesse  prender  radici  nel
pavimento. Allora io stava duro  duro  che  neppur  la  befana  m'avrebbe  fatto
muovere; e soltanto dopo ch'egli era uscito riprendeva la libertà del pensiero e
dei movimenti. Io non seppi mai la ragione di  un  sí  strano  effetto  prodotto
sopra di me da quel vecchio lungo e pettoruto; ma credo che le  sue  guarnizioni
scarlatte mi dessero il guardafisso come ai polli d'India. Un'altra  mia  grande
amicizia era il cavallante che a volte mi toglieva di groppa  e  menavami  nelle
sue gite di piacere per l'affissione dei bandi e simili  faccende.  Io  poi  non
aveva pei coltelli e per le  pistole  un  odio  simile  a  quello  del  Capitano
Sandracca; e durante la via  frugava  sempre  per  le  tasche  a  Marchetto  per
rubargli il pugnale e far con esso  mille  attucci  e  disfide  ai  villani  che
s'incontravano. Una volta fra le altre che s'andava a  Ramuscello  a  recar  una
citazione al castellano di colà, e il cavallante avea  preso  seco  le  pistole,
frugandogli per le tasche ad onta delle pestate di mani  ch'egli  mi  avea  dato
poco prima, feci scattare il grilletto, e n'ebbi un dito rovinato;  e  lo  porto
ancora un po' curvo e monco nell'ultima falange in memoria delle mie  escursioni
pretoriali. Quel castigo peraltro non mi guarí punto della mia passione  per  le
armi; e Marchetto asseverava che  sarei  riescito  un  buon  soldato,  e  diceva
peccato che non dimorassi  in  qualche  paese  dell'alta  ove  si  avvezzava  la
gioventù a menar le mani, non a dar  la  caccia  alle  villane  e  a  giocar  il
tresette coi preti e colle vecchie. A Martino peraltro  non  andavano  a  sangue
quelle mie cavalcate. La gente del paese, benché non fosse rissosa e manesca  al
pari di quella del pedemonte, aveva muso franco abbastanza per imbeversi  spesse
volte delle sentenze di Cancelleria, e per dar la berta  al  cavallante  che  le
intimava. E allora col sangue caldo di Marchetto  non  si  sapeva  cosa  potesse
succedere. Questi assicurava che la mia compagnia gli imponeva dei riguardi e lo
impediva dall'uscire dai gangheri; io mi vantava  alla  mia  volta  che  ad  una
evenienza gli avrei dato  mano  ricaricando  le  pistole,  o  menando  colpi  da
disperato colla mia ronca; e cosí briciola com'era, mi  sapeva  male  che  altri
ridesse di queste spampanate. Martino crollava il capo; e  intendendo  ben  poco
dei nostri ragionamenti seguitava a borbottare che non era prudenza l'esporre un
ragazzo alle rappresaglie cui poteva andar incontro  un  cavallante,  andando  a
levar pegni o ad affiggere bandi di dazi e di confische. Al fatto  quei  villani
stessi che facevano sí trista figura nelle Cernide e tremavano nella cancelleria
ad un'occhiata dell'officiale, sapevano poi adoperar per bene  il  fucile  e  la
mannaia in casa loro o nelle campagne; e  per  me,  se  dapprincipio  mi  faceva
meraviglia una tale sconcordanza, mi  sembra  ora  di  averne  trovato  la  vera
ragione. Noi Italiani ebbimo sempre una naturale antipatia per le burattinate; e
ne ridiamo sí, assai volentieri; ma piú volentieri anco ridiamo  di  coloro  che
vogliono darci ad intendere che le sono miracoli e cose da levarsi il  cappello.
Ora quelle masnade d'uomini, attruppati come le pecore, messi in fila a suon  di
bacchetta e animati col piffero, nei quali il valore è regolato  da  una  parola
tronca del comandante, le ci parvero sempre una famosa comparsa di burattini;  e
questo accadde,  perché  tali  comparse  furono  sempre  a  nostro  discapito  e
radissime volte a vantaggio. Ma stando  cosí  le  cose  pur  troppo,  l'idea  di
entrare in quelle comparse e di farvi la figura del bambolo ci avvilisce a segno
che ogni volontà di far bene e ogni sentimento di dignità ci scappa  dal  corpo.
Parlo, s'intende, dei tempi andati; ora la coscienza d'un gran fine  può  averci
raccomodato l'indole in questo particolare. Ma anche adesso, filosoficamente non
si avrebbe forse torto a pensare come si pensava una volta; e il  torto  sta  in
questo, che si ha sempre torto a incaparsi di restar savi e di adoperare secondo
le regole di saviezza, allorché tutti gli altri son pazzi ed operano  a  seconda
della loro pazzia. Infatti l'è cosa detta e  ridetta  le  cento  volte,  provata
provatissima, che petto contro petto uno de' nostri tien fronte e fa  voltar  le
spalle a qualunque fortissimo di ogni altra nazione. Invece pur troppo  non  v'è
nazione dalla quale con piú fatica che dalla nostra si possa levare un  esercito
e renderlo saldo e disciplinato come è  richiesto  dall'arte  militare  moderna.
Napoleone peraltro insegnò a tutti, una volta per sempre, che non fallisce a ciò
il valor nazionale, sibbene la volontà e la costanza dei capi. E del  resto,  di
tal  nostra  ritrosia  ad  abdicare  dal  libero  arbitrio,   oltre   all'indole
indipendente e raziocinante abbiamo a scusa la completa mancanza  di  tradizioni
militari. Ma di ciò basta in proposito ai giurisdizionali di Fratta; e quanto al
loro tremore nel cospetto delle autorità non è nemmen d'uopo soggiungere che non
tanto era effetto di pusillanimità, quanto della secolare reverenza e del timore
che dimostra sempre  la  gente  illetterata  per  chi  ne  sa  piú  di  lei.  Un
cancelliere che con tre sgorbi di penna poteva a suo capriccio gettar  fuori  di
casa in compagnia della miseria e della fame due tre o  venti  famiglie,  doveva
sembrare a quei poveretti qualche cosa di simile ad uno  stregone.  Ora  che  le
faccende in generale camminano sopra  norme  piú  sicure,  anche  gli  ignoranti
guardano la giustizia con miglior occhio, e non ne prendono sgomento come  della
sorella della forca o dell'oppignorazione. In compagnia delle  persone  di  casa
che ho nominato fin qui, il piovano di Teglio, mio  maestro  di  dottrina  e  di
calligrafia, usava passar qualche ora sotto la cappa del gran  camino,  rimpetto
al signor Conte, facendogli delle gran riverenze ogni volta ch'esso gli  volgeva
la parola. L'era un bel pretone di montagna poco amico degli abatini d'allora  e
bucherato dal vaiuolo a segno che le sue guancie mi fecero sempre venir in mente
il formaggio stracchino, quando è ben grasso e pieno di  occhi,  come  dicono  i
dilettanti. Camminava molto adagio; parlava piú adagio ancora,  non  trascurando
mai di dividere ogni sua parlata in tre punti; e questa  abitudine  gli  si  era
ficcata tanto ben addentro nelle ossa che mangiando tossendo o sospirando pareva
sempre che mangiasse tossisse o sospirasse in tre punti. Tutti i suoi  movimenti
apparivano cosí ponderati, che se gli accadde mai di commettere qualche peccato,
ad onta della sua vita generalmente tranquilla  ed  evangelica,  dubito  che  il
Signore siasi indotto a perdonarglielo. Perfino i suoi sguardi non  si  movevano
senza qualche gran motivo; e pareva che stentatamente s'inducessero a  traforare
due siepaie di sopraccigli che proteggevano i loro agguati. Era  desso  l'ideale
della premeditazione,  sceso  ad  incarnarsi  nel  grembo  d'una  montagnola  di
Clausedo; tonsurato dal vescovo di Porto, e vestito del piú  lungo  giubbone  di
peluzzo che abbia mai combattuto coi polpacci  d'un  prete.  Egli  tremolava  un
pochino nelle mani, difetto che nuoceva alquanto alla sua qualità di calligrafo,
ma che non lo impediva dall'appoggiarsi saldamente alla sua  canna  d'India  col
pomo di vero corno di bue. Circa le sue  facoltà  morali,  per  esser  nato  nel
Settecento lo si potea vantare  per  un  modello  d'indipendenza  ecclesiastica;
giacché le riverenze profondissime che faceva al Conte  non  lo  impedivano  dal
condursi a proprio talento nella cura d'anime; e forse anco, esse equivalevano a
questo modo di dire: "Illustrissimo signor Conte, io la venero e la rispetto; ma
del resto a casa mia il padrone sono io". Il cappellano di Fratta invece era  un
salterello allibito e pusillanime che avrebbe dato la benedizione col mescolo di
cucina, nulla nulla che al Conte fosse  saltato  questo  grillo.  Non  per  poca
religione, no; ma il poveruomo si smarriva tanto al cospetto della signoria, che
non sapeva proprio piú cosa si facesse. Per questo quando gli bisognava stare in
castello pareva sempre sulle spine; e credo che  se  ora  che  è  morto  gli  si
volesse dare un vero purgatorio, non occorrerebbe altro che rimetterlo a  vivere
in corpo d'un maestro di casa. Nessuno piú di lui era capace di durare seduto le
ore colle ore senza alzar gli occhi o batter becco quando altri lo osservava; ma
del pari possedeva un'arte miracolosa di sparir via senza esser veduto, anche in
una compagnia di dieci persone. Soltanto quand'egli veniva in coda al piovano di
Teglio qualche barlume di dignità sinodale gli rischiarava la fisonomia; ma  ben
si accorgeva che era uno sforzo per tener dietro al superiore, e in quelle volte
era tanto occupato di tener a mente la sua parte che  non  ascoltava  né  vedeva
piú, ed era capace di metter in bocca bragie per nocciuole, come il fattore  per
iscomessa ne aveva fatto l'esperimento. Il signor Ambrogio Traversini, fattore e
perito del castello, era il martello del  povero  Cappellano.  E  tra  loro  due
correvano sempre quelle burle quelle farsette, che erano tanto in moda al  tempo
andato e che nei crocchi di campagna tenevano allora il posto della lettura  dei
giornali. Il Cappellano, com'era di dovere, pagava sempre  le  spese  di  cotali
trastulli; e ne veniva rimeritato con qualche invito a  pranzo,  ricompensa  piú
crudele dello stesso malanno. Senonché il piú delle volte la  preoccupazione  di
quegli inviti gli metteva addosso la quartana  doppia  ed  egli  cosí  non  avea
d'uopo di bugie per iscusarsene. Quando poi gli veniva fatto di metter piede  al
di là del ponte levatoio, nessun uomo, credo, si sentiva piú felice di  lui;  ed
era questo il compenso de' suoi martirii. Saltava  correva  si  stropicciava  le
mani il naso i ginocchi; prendeva tabacco, bisbigliava giaculatorie, passava  il
bastoncino da un'ascella all'altra, parlava, rideva, gesticolava  con  tutti,  e
accarezzava ogni persona che gli capitasse sotto mano,  fosse  un  ragazzo,  una
vecchia, un cane o una giovenca. Io pel primo ebbi la gloria e la cattiveria  di
scoprire le  strane  giubilazioni  del  Cappellano  ad  ogni  sua  scappata  dal
castello; e  fatta  ch'io  ebbi  la  scoperta,  tutti,  quand'egli  partiva,  si
affollavano alle finestre del tinello per goder lo spettacolo. Il fattore  giurò
che una volta o l'altra per la soverchia consolazione egli sarebbe saltato nella
peschiera; ma convien dire a lode del povero prete che questo accidente non  gli
avvenne mai. Il maggior segno di contentezza che diede fu una  volta  quello  di
mettersi coi birichini a scampanare a festa dinanzi la chiesa. Ma in quel giorno
l'avea scapolata bella. C'era in castello  un  prelato  di  Porto,  chiamato  il
Canonico di Sant'Andrea, grande teologo e pochissimo  tollerante  dell'ignoranza
altrui, che avea onorato in addietro e seguitava ad onorar la Contessa  del  suo
patrocinio spirituale. Costui con monsignor Orlando e il Piovano s'era impancato
vicino al focolare a dogmatizzar  di  morale.  Il  cappellanello  che  veniva  a
domandar conto della digestione del signor Conte, come voleva la  prammatica  di
ogni dopopranzo, era stato lí lí per cascare nel trabocchetto; ma a  metà  della
cucina aveva orecchiato la voce del teologo e protetto dalle tenebre  se  l'avea
data a gambe, ringraziando tutti i santi del calendario. Figuratevi se non  avea
ragione di scampanar d'allegrezza! Oltre a questi due preti e ad altri  canonici
e abati della città che venivano a visitar di sovente monsignor  di  Fratta,  il
castello era frequentato da tutti i signorotti e castellani minori del vicinato.
Una brigata mista di beoni, di  scioperati,  di  furbi  e  di  capi  ameni,  che
spassavano la loro vita in caccie  in  contese  in  amorazzi  e  in  cene  senza
termine; e lusingavano del  loro  corteo  l'aristocratico  sussiego  del  signor
Conte. Quand'essi capitavano era giorno di  gazzarra.  Si  spillava  la  miglior
botte; molti fiaschi di Picolit e di Refosco perdevano il collo;  e  le  giovani
aiutanti della cuoca  si  rifugiavano  nello  sciacquatoio.  La  cuoca  poi  non
conosceva piú né amici né nemici; correva  qua  e  là,  dava  dei  gomiti  nello
stomaco a Martino, pestava i piedi a  Monsignore,  scannava  anitre,  sbudellava
capponi; e il suo affaccendamento non era superato che da quello del girarrosto,
il quale strideva e sudava olio per tutte le carrucole nel dover menare  attorno
quattro o cinque spedate di lepri e di selvaggina. Si  imbandivano  mense  nella
sala e in due o tre camere  contigue;  e  s'accendeva  il  gran  focolare  della
galleria, il quale era tanto grande che a saziarlo per una volta  tanto  non  si
richiedeva meno d'un mezzo passo di legna. Si noti peraltro che  dopo  la  prima
vampata la comitiva doveva rifugiarsi dietro le pareti piú lontane e nei cantoni
per non rimanerne abbrustolita. Lo scalpore piú indiavolato era fatto da  questi
signori; ma le parti di spirito erano in tali  circostanze  affidate  a  qualche
dottorino, a qualche abatucolo, a qualche poeta di Portogruaro che  non  mancava
mai di accorrere all'odor della sagra. In fin di tavola  si  usava  improvvisare
qualche sonetto, di cui forse il  poeta  aveva  a  casa  lo  scartafaccio  e  le
correzioni. Ma se la memoria gli falliva non mancava mai  la  solita  chiusa  di
ringraziamenti e di scuse per la libertà che la  compagnia  s'era  permessa,  di
correre in frotta a bere il vino e a lodar i meriti infiniti del Conte  e  della
Contessa. Quello che piú di sovente cascava in questa necessità, era un avvocato
lindo e incipriato che nella sua gioventù avea  fatto  la  corte  a  molte  dame
veneziane, e viveva allora di memorie e di cavilli in compagnia  della  massaia.
Un altro giovinastro chiamato Giulio Del Ponte che capitava sempre  insieme  con
lui e si piccava di misurar versi piú pel sottile, si godeva di  fargli  perdere
la bussola empiendogli troppo sovente il bicchiere. La commedia finiva in cucina
con grandi risate alle spalle del dottore, e il giovinotto ch'era stato a Padova
se ne intendeva tanto bene che gli restava in grazia meglio di prima.  Costui  e
un giovine pallido e taciturno di Fossalta, il signor Lucilio Vianello,  sono  i
soli che fin d'allora mi rimangono in memoria di quella ciurma semiplebea. Fra i
cavalieri, un Partistagno, parente forse di quello del  Messer  Grande,  mi  sta
ancora dinanzi colla sua grande figura ardita e  robusta,  e  un  certo  altiero
riserbo di modi che assai contrastava coll'avvinazzata licenza dei  piú.  E  fin
d'allora mi ricorda aver notato fra costui e il Vianello certi sguardi di sbieco
che non dinotavano esser fra loro molto buon sangue. E tuttavia erano i due  che
meglio avrebbero dovuto intendersela fra loro, essendo tutto il  resto  un'egual
feccia di spensierati e di furbacchioni. Quand'io cominciai ad aver  ragione  di
me stesso e a far istizzire i polli nel cortile  di  Fratta,  l'unico  figliuolo
maschio del Conte era già da un anno a Venezia presso i  padri  Somaschi  ov'era
stato educato suo padre: perciò di lui non mi rimane memoria,  riguardante  quel
tempo, se non per qualche scappellotto ch'egli mi avea dato  prima  di  partire,
per farmi provare la sua padronanza; e sí che allora io era  un  bambino  che  a
stento rosicchiava il pane. Il  vecchio  Martino  pigliò  fin  d'allora  le  mie
difese; e mi sovviene ancora d'una tirata d'orecchie da lui data di soppiatto al
padroncino, per la quale questi tirò  giù  strillando  i  travi  della  casa:  e
Martino n'ebbe dal Conte una buona lavata di capo. Fortuna ch'era sordo!  Quanto
alla Contessa ella non compariva mai in cucina se non due volte il giorno  nella
sua qualità di suprema direttrice delle faccende casalinghe; la prima il mattino
a  distribuire  la  farina,  il  butirro,  la  carne  e  gli  altri  ingredienti
bisognevoli al vitto della giornata; la seconda dopo l'ultima portata del pranzo
a far la parte della servitù dalle vivande rimandate dalla mensa padronale  e  a
riporre il resto in piatti piú piccoli per la cena. Ella  era  una  Navagero  di
Venezia, nobildonna lunga arcigna e di breve discorso, che fiutava  tabacco  una
narice per volta e non si moveva mai senza il sonaglio delle sue  chiavi  appeso
al traversino. L'aveva sempre in capo una cuffietta di merlo bianco fiocchettata
di rosa alle tempie come quella d'una sposina; ma io credo non la  portasse  per
vanagloria ma unicamente per abitudine. Una smaniglia di spagnoletto le  pendeva
dal collo sul fazzoletto nero di seta, e sosteneva una crocetta di brillanti, la
quale a dir della  cuoca  avrebbe  fornito  la  dote  a  tutte  le  ragazze  del
territorio. Sul petto poi, legato in uno spillone d'oro, aveva il ritratto  d'un
bell'uomo in parrucchino ad ali di piccione, che non era  certo  il  suo  signor
marito; poiché questo aveva un nasone spropositato e quello invece un nasino  da
buffetti, un vero ninnoletto da fiutar acqua di rose ed  essenze  di  Napoli.  A
dirla schietta come l'ho saputa poi, la nobildonna non  si  era  piegata  che  a
malincuore a quel matrimonio con un castellano di terraferma; ché le sembrava di
cascare nelle mani dei barbari, avvezza com'era alle delicature ed  agli  spassi
delle zitelle veneziane. Ma obbligata a far di necessità virtù, l'aveva  cercato
rimediare a quella disgrazia col tirare di tempo in tempo suo marito a  Venezia;
e là si era vendicata del ritiro provinciale cogli sfoggi, colle  galanterie,  e
col farsi corteggiare dai piú avvenenti damerini. Il  ritratto  che  portava  al
petto doveva essere del piú avventurato fra questi; ma dicevano che quel tale le
fosse morto d'un colpo d'aria buscato di sera andando in gondola con lei; e dopo
non ne avea piú voluto sapere ed erasi ritirata per sempre a Fratta  con  grande
compiacenza del signor Conte. Quando questo atroce caso  avvenne  la  nobildonna
volgeva alla quarantina. Del  resto  la  Contessa  passava  le  lunghe  ore  sul
genuflessorio, e quando mi incontrava o sulla porta della cucina o per le scale,
mi tirava alcun poco i capelli nella cuticagna, unica gentilezza che mi  ricorda
aver ricevuto da lei. Un quarto d'ora per giorno lo impiegava  nell'assegnar  il
lavoro alle cameriere, e il restante del suo tempo  lo  passava  in  un  salotto
colla suocera  e  le  figlie,  facendo  calze  e  leggendo  la  vita  del  santo
giornaliero. La vecchia madre del Conte, l'antica dama Badoer, viveva  ancora  a
que' tempi; ma io non la vidi che quattro o cinque volte, perché la era confitta
sopra una seggiola a rotelle dalla vecchiaia e a me era inibito entrare in altra
camera che non fosse la mia ove dormiva allora colla seconda cameriera o come la
chiamavano colla donna dei ragazzi. La era  una  vecchia  di  quasi  novant'anni
piuttosto pingue e d'una fisonomia dinotante il buon senso e la  bontà.  La  sua
voce, soave e tranquilla in onta all'età, aveva  per  me  un  tale  incanto  che
spesso arrischiava di buscar qualche schiaffo per andarla  ad  udire  postandomi
coll'orecchio alla serratura della sua porta. Una volta che la cameriera  aperse
la porta mentre io era in quella positura, ella s'accorse di me e mi  fe'  cenno
di avvicinarmi. Io credo che il mio  cuore  balzasse  fuori  del  petto  per  la
consolazione, quando essa mi mise la mano sul capo dimandandomi con severità, ma
senza nessuna amarezza, cosa  io  mi  facessi  dietro  l'uscio.  Io  le  risposi
ingenuamente ma tremolando per la commozione che mi stava là, contento di udirla
parlare, e che la sua voce mi piaceva  molto  e  mi  pareva  che  non  dissimile
l'avrei desiderata a mia madre. - Bene, Carlino  -  mi  rispose  ella  -  io  ti
parlerò sempre con bontà finché meriterai di esser ben trattato pei  tuoi  buoni
portamenti; ma non istà bene a nessuno e meno che meno  ai  fanciulli  origliare
dietro le porte; e quando vuoi parlare con me, devi entrar in camera e sedermiti
vicino, ché io ti insegnerò, come posso, a pregar Iddio e a  diventare  un  buon
figliuolo. Nell'udire queste cose a me poveretto venivan giù le lagrime  quattro
a quattro per le guancie. Era la prima volta che mi parlavano proprio col cuore;
era la prima volta che mi si faceva il dono d'uno  sguardo  affettuoso  e  d'una
carezza! e un tal dono mi veniva da una vecchia che aveva veduto Luigi XIV! Dico
veduto, proprio veduto; perché lo sposo della nobildonna Badoera,  quel  vecchio
Conte cosí ghiotto dei grammaestri e degli ammiragli, pochi  mesi  dopo  il  suo
matrimonio era andato in Francia  ambasciatore  della  Serenissima  e  vi  aveva
condotto la moglie che per due anni era stata la gemma di quella  Corte!  Quella
stessa donna poi tornata a Fratta avea serbato l'eguali grazie dei  modi  e  del
parlare,  l'egual  rettitudine  di  coscienza,  l'eguale  altezza  e  purità  di
sentimenti, l'uguale spirito di moderazione e di carità, sicché anche perduto il
fiore della bellezza aveva continuato ad innamorare il cuore dei vassalli e  dei
terrazzani come prima aveva innamorato  quello  dei  cortigiani  di  Versailles.
Tanto è vero che la vera grandezza è  ammirabile  ed  ammirata  dovunque,  e  né
diventa né si sente mai piccola per cambiar che faccia di  sedile.  Io  piangeva
dunque a cald'occhi stringendo e baciando le mani di quella donna venerabile,  e
promettendomi in cuore di usare sovente della larghezza  fattami  di  salire  ad
intrattenermi con lei, quando entrò la vera Contessa,  quella  delle  chiavi,  e
diede un guizzo d'indignazione vedendomi  nel  salotto  contro  i  suoi  precisi
ordinamenti. Quella volta la strappata della cuticagna fu piú lunga del solito e
accompagnata da un rabbuffo solenne e da un divieto eterno di mai piú  comparire
in quelle stanze  se  non  chiamato.  Scendendo  le  scale  dietro  il  muro,  e
grattandomi la coppa e piangendo questa volta piú di rabbia che di dolore,  udii
ancora la voce della vecchiona  che  sembrava  insoavirsi  oltre  all'usato  per
intercedere in mio favore, ma una strillata della Contessa e  una  violentissima
sbattuta dell'uscio serratomi dietro mi tolse di capire la fine della  scena.  E
cosí scesi una gamba dietro l'altra in cucina a farmi consolar da Martino. Anche
questa mia domestichezza con Martino spiaceva alla Contessa ed  al  fattore  che
era il suo braccio destro; perché secondo loro il mio pedagogo doveva essere  un
certo Fulgenzio, mezzo sagrista e mezzo scrivano del Cancelliere,  che  era  nel
castello in odore di spia. Ma io non poteva sopportare questo  Fulgenzio  e  gli
giocava certi tiri che anche a lui  dovevano  rendermi  poco  sopportabile.  Una
volta per esempio, ma questo avvenne piú  tardi,  essendo  io  ai  mattutini  di
giovedí santo in coro dietro di lui, colsi il destro del suo  raccoglimento  per
dispiccar dalla canna con cui si accendono le candele il cerino ancor acceso,  e
glielo attortigliai  intorno  alla  coda.  Laonde  quando  il  cerino  fu  quasi
consumato il foco si appiccò alla coda e da essa alla stoppa della  perrucca,  e
Fulgenzio si mise a saltare pel coro, e i ragazzi che tenevano le ribebe in mano
a corrergli intorno gridando  acqua  acqua.  E  in  quel  parapiglia  le  ribebe
andavano attorno, e ne nacque un tal subbuglio  che  si  dovette  tardare  d'una
mezz'ora la continuazione delle funzioni. Nessuno seppe mai pel  suo  dritto  la
ragione di quello scandalo, ed  io  che  ne  fui  sospettato  l'autore  ebbi  la
furberia di far l'indiano; ma con tutto ciò mi toccò la sportula d'un giorno  di
camerino a pane ed acqua, il che non contribuí certo a farmi  entrar  in  grazia
Fulgenzio: come l'incendio della perrucca non avea contribuito a  render  costui
piú favorevole a me. Io dissi che la Contessa occupava la maggior parte del  suo
tempo facendo calze nel salotto in compagnia delle sue figlie.  Ma  l'ultima  di
queste, nei primi anni di cui mi ricordo, era  bambina  affatto,  minore  di  me
d'alcuni anni, e la dormiva nella mia stessa camera colla donna dei ragazzi  che
si chiamava Faustina. La Pisana era una bimba vispa,  irrequieta,  permalosetta,
dai begli occhioni castani e dai lunghissimi capelli, che a tre  anni  conosceva
già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e  avrebbe  dato  ragione  a
color che sostengono le donne non esser mai bambine, ma  nascer  donne  belle  e
fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili.  Non
era  sera  che  prima  di  coricarmi  io  non  mi  curvassi  sulla  culla  della
fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là  coi  suoi  occhioni
chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l'altro arrotondato  sopra  la
fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava  di  vederla
bella a quel modo, ecco ch'ella socchiudeva gli occhi e  balzava  a  sedere  sul
letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi  corbellato  col  far  le
viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l'occhio,  o
si dimenticava del precetto  avuto;  poiché  del  resto  la  Contessa  le  aveva
raccomandato di tenermi alla  debita  distanza  dalla  sua  puttina,  e  di  non
lasciarmi prender con lei eccessiva confidenza. Per me c'erano  i  figliuoli  di
Fulgenzio, i quali mi erano abbominevoli  piú  ancora  del  padre  loro,  e  non
tralasciava  mai  occasione  di  far  loro  dispetti;  massime  perché  essi  si
affaccendavano di spifferare al fattore che mi aveano veduto dar un  bacio  alla
contessina Pisana, o portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino  alla
riva della peschiera. Peraltro la fanciulletta non si curava al pari di me delle
altrui osservazioni, e seguitava a volermi bene, e cercava farsi servire  da  me
nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa,  che  era
l'altra cameriera, o la donna di chiave che or si direbbe guardarobbiera. Io era
felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile;  e
prendeva un certo piglio d'importanza quando diceva a Martino: -  Dammi  un  bel
pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana!  -  Cosí  la  chiamava  con  lui;
perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la Contessina.
Queste contentezze peraltro non  erano  senza  tormento  poiché  pur  troppo  si
verifica cosí nell'infanzia come nell'altre età il proverbio, che  non  fiorisce
rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del  vicinato  coi  loro
ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e  berrettini  colla
piuma, la Pisana lasciava da un canto me per far  con  essi  la  vezzosa;  e  io
prendeva un broncio da non dire a vederla far passettini e torcer il collo  come
la gru, e incantarli colla sua chiaccolina dolce e  disinvolta.  Correva  allora
allo specchio della Faustina a farmi bello anch'io;  ma  ahimè  che  pur  troppo
m'accorgeva di non potervi riescire. Aveva  la  pelle  nera  e  affumicata  come
quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e  di
macchie, i capelli scapigliati e irti intorno alle tempie  come  le  spine  d'un
istrice e la coda scapigliata come quella d'un merlo strappato dalle  vischiate.
Indarno mi martorizzava il cranio col pettine sporgendo anche la lingua  per  lo
sforzo e lo studio  grandissimo  che  ci  metteva;  quei  capelli  petulanti  si
raddrizzavano tantosto piú ruvidi che mai. Una volta  mi  saltò  il  ticchio  di
ungerli come vedeva fare alla Faustina; ma  la  fatalità  volle  che  sbagliassi
boccetta e invece di olio mi versai sul  capo  un  vasetto  d'ammoniaca  ch'essa
teneva per le convulsioni, e che mi lasciò intorno per  tutta  la  settimana  un
profumo di letamaio da rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime  vanità  fui
ben disgraziato e anziché rendermi aggradevole alla piccina,  e  stoglierla  dal
civettare coi nuovi ospiti, porgeva a lei e a costoro materia di riso, ed  a  me
nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d'avvilirmi. Gli è vero che  partiti
i forestieri la Pisana tornava a compiacersi  di  farmi  da  padroncina,  ma  il
malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza  sapermene  liberare,
trovava troppo varii i suoi capricci, e un po' anche dura la sua tirannia.  Ella
non ci badava, la cattivella. Avea forse odorato la pasta di cui  era  fatto,  e
raddoppiava le angherie ed io la  sommissione  e  l'affetto;  poiché  in  alcuni
esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per  chi
li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni  cotali
esseri; so che io ne sono un esemplare; e che la mia  sorte  tal  quale  è  l'ho
dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza  non  è
malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti;  almeno
a casa mia. - Devo peraltro confessare a onor del vero che per quanto  volubile,
civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni,  ella  non
mancò mai d'una certa generosità;  qual  sarebbe  d'una  regina  che  dopo  aver
schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino, intercedesse  in
suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciuzzava come il suo cagnolino,
ed entrava con me nelle maggiori confidenze; poco  dopo  mi  metteva  a  far  da
cavallo percotendo con un vincastro senza riguardo giù per la  nuca  e  traverso
alle guancie; ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad  interrompere  i
nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della Contessa,
ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo  piú  che  a
tutti gli altri, che voleva stare  con  me  e  via  via;  finché  dimenandosi  e
strillando fra le braccia di chi  la  portava,  i  suoi  gridari  si  ammutivano
dinanzi al tavolino della mamma. Quelle  smanie,  lo  confesso,  erano  il  solo
premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho  pensato  che  l'era
piú orgoglio ed ostinazione che amore  per  me.  Ma  non  mescoliamo  i  giudizi
temerari dell'età provetta colle illusioni purissime dell'infanzia. Il fatto sta
che io non sentiva le busse che mi toccavano sovente per quella mia arroganza di
volermi accomunar nei giochi alla Contessina, e che contento e beato mi riduceva
nella mia cucina a guardar Martino che  grattava  formaggio.  L'altra  figliuola
della Contessa, che avea nome Clara, era già zitella quando io apersi gli  occhi
a guardare le cose del mondo. Era dessa la primogenita,  una  fanciulla  bionda,
pallida e mesta, come l'eroina d'una ballata o  l'Ofelia  di  Shakespeare;  pure
ella non avea letto nessuna ballata e non conosceva  certo  l'Amleto  neppur  di
nome. Pareva che la lunga consuetudine colla nonna  inferma  avesse  riverberato
sul suo viso il calmo splendore di quella vecchiaia serena e  venerabile.  Certo
non mai figliuola vegliò la madre con maggior cura di quella  ch'essa  adoperava
nell'indovinar perfin le brame della nonna: e le  indovinava  sempre  perché  la
continua usanza fra di loro le aveva avvezzate ad intendersi con un sol giro  di
occhiate. La contessa Clara era bella come lo potrebbe essere  un  serafino  che
passasse fra gli  uomini  senza  pur  lambire  il  lezzo  della  terra  e  senza
comprenderne l'impurità e la sozzura. Ma agli occhi dei piú poteva parer fredda,
e questa freddezza anche scambiarsi per una tal  qual  alterigia  aristocratica.
Eppure non v'aveva anima  piú  candida,  piú  modesta  della  sua;  tantoché  le
cameriere la citavano per un modello di dolcezza e di bontà; e tutti  sanno  che
negli elogi delle padrone il suffragio di due cameriere equivale di per sé  solo
ad un volume di testimonianze giurate. Quando la nonna abbisognava d'un caffè, o
d'una cioccolata, e non era alcuno nella  stanza,  non  s'accontentava  ella  di
sonar la campanella, ma scendeva in persona alla cucina per dar gli ordini  alla
cuoca; e mentre questa approntava il bisognevole, stava pazientemente aspettando
coi ginocchi un po' appoggiati allo scalino del focolare; od anche le dava  mano
nel ritirar la cocoma dal fuoco. Vedendola starsi a  quel  modo,  la  cucina  mi
pareva allor rischiarata da una luce angelica; e non la  mi  sembrava  piú  quel
luogo triste ed oscuro di tutti i giorni. E qui mi  dimanderanno  alcuni  perché
nelle mie descrizioni io torni sempre alla cucina, e perché in essa  e  non  nel
tinello o nella sala io abbia introdotti i miei personaggi. Cosa naturalissima e
risposta facile a darsi! La cucina, essendo la dimora  abituale  del  mio  amico
Martino e l'unico luogo nel quale  potessi  stare  senza  essere  sgridato,  (in
merito forse del buio che mi  sottraeva  all'attenzione  di  tutti)  fu  il  piú
consueto ricovero della mia infanzia:  sicché  come  il  cittadino  ripensa  con
piacere ai passeggi pubblici dov'ebbe i suoi primi trastulli, io  invece  ho  le
mie prime memorie contornate dal fumo e dall'oscurità della cucina di Fratta. Là
vidi e conobbi i primi uomini; là raccolsi e rimuginai i primi affetti, le prime
doglianze, i primi giudizi. Onde avvenne che se la mia vita  corse  come  quella
degli altri uomini in varii paesi, in varie stanze, in diverse  dimore,  i  miei
sogni invece mi condussero quasi sempre a spaziare nelle cucine. È  un  ambiente
poco poetico; lo so; ma io scrivo per dire la verità, e  non  per  dilettare  la
gente con fantasie prettamente poetiche. La Pisana aveva tanto  orrore  di  quel
sitaccio scuro profondo mal selciato, e dei gatti che  lo  abitavano,  che  rade
volte vi metteva piede se non  per  inseguirmi  a  colpi  di  bacchetta.  Ma  la
contessina Clara all'incontro non ne mostrava alcun disgusto, e ci veniva quando
occorresse senza torcer la bocca o  alzar  le  gonnelle  come  facevano  persino
quelle schizzinose delle cameriere. Laonde io gongolavo tutto di vederla;  e  se
la chiedeva un bicchier d'acqua era  beato  di  porgerlelo,  e  di  udirmi  dire
graziosamente: - Grazie Carlino! - Ed  io  poi  mi  rintanava  in  un  cantuccio
pensando: "Oh come sono belle queste due parole: Grazie Carlino!".  Peccato  che
la Pisana non me le abbia mai dette con una vocina cosí buona e carezzevole!



CAPITOLO SECONDO

Dove si sa finalmente chi io mi  sia,  e  s'incomincia  a  tratteggiare  il  mio
temperamento, l'indole della contessina  Pisana,  e  le  abitudini  dei  signori
castellani di Fratta. Si dimostra di piú, come le passioni degli  uomini  maturi
si disegnino alla bella prima nei fanciulli, come io imparassi a  compitare  dal
piovano di Teglio e la contessina Clara a sorridere dal signor Lucilio.

Il maggior effetto prodotto  nei  lettori  del  capitolo  primo  sarà  stata  la
curiosità di saper finalmente, chi fosse questo  Carlino.  Fu  infatti  un  gran
miracolo il mio od una giunteria solenne  di  menarvi  a  zonzo  per  un  intero
capitolo della mia vita, parlandovi sempre di me, senza dir prima chi io mi sia.
Ma bisognando pure dirvelo una volta o l'altra, sappiate  adunque  ch'io  nacqui
figliuolo ad una sorella della Contessa di Fratta e perciò  primo  cugino  delle
contessine Clara e Pisana. Mia madre aveva fatto, com'io direi, un matrimonio di
scappata coll'illustrissimo signor Todero Altoviti, gentiluomo di Torcello; cioè
era fuggita con lui sopra una galera che andava in Levante, e  a  Corfù  s'erano
sposati. Ma parve che il gusto dei viaggi le passasse presto,  perché  di  lí  a
quattro mesi tornò senza marito, abbronzata dal sole di Smirne,  e  per  di  piú
gravida. Detto fatto, partorito che la ebbe, mi mandò senza complimenti a Fratta
in un canestro; e cosí divenni ospite della zia  l'ottavo  giorno  dopo  la  mia
nascita. Quanto gradito ognuno lo può argomentare dal modo con cui ci  capitava.
Intanto mia madre, poveretta, espulsa da Venezia  per  istanza  della  famiglia,
erasi acquartierata a Parma con un capitano svizzero; e di là tornata a  Venezia
per implorarvi la pietà di sua zia, la era morta allo spedale, senza che un cane
andasse a chiedere di lei. Queste cose me le contava  Martino  e  contandole  mi
faceva piangere, ma io non seppi mai donde le avesse sapute. Quanto a mio padre,
dicevano che fosse morto a Smirne dopo fuggitagli la moglie;  alcuni  asserivano
di crepacuore per questo abbandono; altri  di  disperazione  per  debiti;  altri
d'una infiammazione buscata col bere troppo vino di Cipro.  Peraltro  la  storia
genuina non si era ancor potuta sapere,  e  correva  anche  una  vaga  voce  nei
Levantini che prima di morire egli si fosse fatto turco. Turco o non turco  lui,
a Fratta avevano battezzato me, sul dubbio che non lo avessero fatto a  Venezia,
e siccome la cura di sortirmi il nome fu  lasciata  al  Piovano,  cosí  egli  mi
impose il nome del santo di quel giorno, che era appunto san  Carlo.  Non  aveva
predilezioni per nessun santo del paradiso quel dabben prete, e nemmen voglia di
rompersi il capo per comporre un nome di conio singolare, ed io gliene son grato
perché l'esperienza mi dimostrò in seguito che san Carlo non val  punto  dammeno
degli altri. La signora Contessa aveva abbandonato solo da qualche mese  la  sua
vita brillante di Venezia, quando le capitò il canestro; laonde figuratevi se ne
vide con poca stizza il contenuto! Con tutte quelle noie e fastidi che  l'aveva,
aggiungersele anche questo di aver un bambino da dar a balia - e per  giunta  il
bambino d'una sorella che avea disonorato sé e la famiglia; e impasticciato quel
suo matrimonio con un mezzo galeotto di Torcello,  che  non  ci  si  avea  ancor
potuto veder dentro chiaro! La signora Contessa fin dalla prima  occhiata  sentí
adunque per me l'odio piú sincero; ed io non tardai a provarne  le  conseguenze.
Primo punto si giudicò inutile per un serpentello uscito  non  si  sapeva  dove,
prender in casa od assoldare una balia. Perciò io fui consegnato alle cure della
Provvidenza, e mi facevano girare da  questa  casa  a  quella  dove  vi  fossero
mammelle da succhiare, come il porcello di sant'Antonio, o il figlio del Comune.
Io sono fratello di latte di tutti gli uomini, di tutti i vitelli e di  tutti  i
capretti che nacquero in quel torno nella giurisdizione del castello di  Fratta;
ed ebbi a balie oltre tutte le mamme, le capre e le giovenche,  anche  tutte  le
vecchie e i vecchi del circondario. Martino infatti mi raccontava che  vedendomi
qualche volta innaspato per la fame, avea dovuto compormi un certo intingolo  di
acqua burro zucchero e farina, col quale m'ingozzava finché il cibo giunto  alla
gola mi impedisse di piangere. E lo stesso mi succedeva in molte  case  dove  le
mammelle tassate per nutrirmi in  quella  giornata  erano  già  state  munte  da
qualche affamato bamboccio di diciotto mesi. Vissuto cosí nei primi anni per  un
vero miracolo,  il  portinaio  del  castello,  che  era  anche  il  registratore
dell'orologio della torre e l'armaiuolo del territorio,  aveva  partecipato  con
Martino alla gloria di farmi fare i primi passi. L'era un certo mastro  Germano,
un vecchio bulo della generazione passata che aveva  forse  sull'anima  parecchi
omicidii, ma che avea certo trovato  il  modo  di  rappaciarsi  con  Domeneddio,
perché cantava e burlava da mattino a sera raccogliendo immondizie lungo le  vie
in una sua carriuola per concimarne  un  campetto  che  teneva  in  affitto  dal
padrone. E beveva all'osteria i suoi  boccaletti  di  Ribola  con  una  serenità
veramente patriarcale. Pareva  a  vederlo  la  coscienza  piú  tranquilla  della
parrocchia. E la memoria di quell'uomo mi condusse  poi  a  conchiudere  che  la
coscienza ognuno di noi se  l'aggiusta  a  proprio  grado;  cosicché  per  molti
sarebbe un sorbir un uovo quello che pare ad altri gravissimo malefizio.  Mastro
Germano ne aveva accoppati alquanti in tempo di sua  gioventù  in  servizio  del
castellano di Venchieredo; ma  di  questa  freddura  egli  pensava  che  sarebbe
toccato al padrone sbrattarsela con Dio, e per  sé,  fatta  la  sua  confessione
pasquale, si sentiva innocente come l'acqua di fontana. Non  erano  cavilli  coi
quali tenesse quieti i rimorsi, ma una massima generale  che  gli  aveva  armato
l'anima d'una triplice corazza contro ogni malinconia. Passato ch'egli era  agli
stipendi dei castellani di Fratta come capo-sgherri, avea preso su il costume di
dir rosari, che era il distintivo principale de' suoi nuovi  satelliti,  e  cosí
avea finito di purgarsi del vecchio  lievito.  Allora  poi  che  i  settant'anni
sonati gli avevano procacciato la giubilazione colla custodia del portone, e  la
sopraintendenza delle ore, credeva fermamente che la via da  lui  battuta  fosse
proprio quella che conduce al papato. Fra Martino e lui si può credere  che  non
erano sempre della stessa opinione. Il primo nato fatto per fare il  Cappa  Nera
d'un patrizio di Rialto; il secondo educato a tutte le birberie ed i soprusi dei
zaffi d'allora; quello  cameriere  diplomatico  d'un  giurisdicente  incipriato;
questi lancia spezzata del piú prepotente castellano della Bassa. E  quando  fra
loro sorgeva qualche  disputa  se  la  prendevano  con  me,  e  ciascuno  voleva
togliermi all'avversario vantando maggiori diritti sulla  mia  persona.  Ma  piú
spesso andavano d'accordo con tacita tolleranza, ed allora  godevano  in  comune
dei progressi che vedevano fare alle mie gambette; e accosciati un di qua  e  un
di là sul ponte del castello mi facevano trottolare  dalle  braccia  dell'uno  a
quelle dell'altro. Quando la Contessa, uscendo col piovano di Teglio  e  qualche
visita di Portogruaro alla passeggiata del dopopranzo, li sorprendeva in  questi
esercizi di pedagogia, volgeva loro una per banda due occhiate da  scomunica;  e
se io le dava tra le gambe non mancava mai di favorirmi fin d'allora quella tale
squassatina nella coppa. Io poi, strillando e tremando di spavento, mi rifugiava
tra le braccia  di  Martino,  e  la  Contessa  tirava  oltre  brontolando  della
fanciullaggine di quei due vecchi matti, che per tali erano  conosciuti  i  miei
due mentori presso la gente di cucina. - Comunque la  sia,  per  opera  dei  due
vecchi matti io divenni saldo sulle gambe, e capace anche di scappar ben lontano
fin sotto il tiglio della parrocchia, quando vedeva spuntar sotto  l'androne  la
cuffietta bianca della signora zia. M'attento di chiamarla  zia,  ora  poveretta
che la è morta da un buon mezzo secolo; poiché per allora, appena fui  in  grado
di pronunciar parola mi insegnarono per  suo  comando  a  chiamarla  la  signora
Contessa e cosí seguitai sempre poscia, rimanendo per tacito accordo dimenticata
la nostra parentela. Fu in quel  tempo  che  diventando  io  grandicello  e  non
garbando alla Contessa vedermi sempre sul ponte, pensarono affidarmi a quel  tal
Fulgenzio sagrestano, del quale io  feci  sempre  quel  conto  che  voi  sapete.
Credeva la castellana disavvezzarmi cosí dalla  sua  Pisana  immischiandomi  coi
fanciulletti del santese; ma quell'istinto di contraddizione  che  è  anche  nei
fanciulli contro coloro che comandano a rovescio di ragione, mi faceva anzi star
attaccato piucchemai alla mia  estrosa  damina.  Gli  è  vero  che  andando  poi
innanzi, e trovandoci in due non abbastanza numerosi pei nostri giochi,  tirammo
entro a far lega tutta la ragazzaglia all'intorno,  con  grande  scandalo  delle
cameriere che per paura della padrona ci portavano via la Pisana non  appena  se
ne accorgevano. Questa però non si  lasciava  sbigottire;  e  siccome  tanto  la
Faustina che la Rosa avevano via il capo dietro i loro  belli,  non  le  mancava
agio di tornar loro a scappare per rimescolarsi con noi. Cresciuta la banda, era
cresciuta in lei di pari passo l'ambizioncella  di  tener  cattedra;  e  siccome
l'era una fanciulletta, come  dissi,  troppo  svegliata  e  le  piaceva  far  la
donnetta, cominciarono  gli  amoretti,  le  gelosie,  le  nozze,  i  divorzi,  i
rappaciamenti; cose tutte da ragazzetti s'intende,  ma  che  pur  dinotavano  la
qualità della sua indole. Anche non voglio dire che ci fosse  poi  tutta  questa
innocenza  che  si  crederebbe;  e  mi  maraviglio  come  la  si  lasciasse,  la
Contessina,  ruzzolar  nel  fieno  e  accavallarsi  con  questo  e  con  quello;
sposandosi per burla e facendo le viste di dormir collo sposo, e parando via  in
quelle delicate circostanze tutti i testimoni importuni. Chi le aveva  insegnato
cotali pratiche? Io non vel saprei dire di certo; ossia  per  me  credo  che  la
fosse nata colla scienza  infusa  sopra  tali  materie.  Quello  poi  che  dovea
spaventare si era ch'ella non restava mai due giorni coll'egual amante  e  collo
stesso marito, ma li cambiava secondo la luna. E  i  fanciulli  villanelli,  che
vergognosi e piú per rispetto e soggezione che per altro si  prestavano  a  tali
commedie, non se ne curavano punto. Ma io, che ci aveva la mia  idea  fissa,  ne
aveva una bile ed un crepacuore  indicibile  quando  mi  vedeva  scartato  e  mi
toccava lasciarla soletta col  figliuolino  del  castaldo  o  con  quello  dello
speziale di Fossalta. Vedete che la non era neppur tanto sottile  sulla  scelta.
Le bastava di cambiare: ed è poi anche vero che dei piú sudici o malcreati la si
stancava piú presto che d'ogn'altro. Ora che  ci  penso  freddamente  (son  cose
d'ottanta anni fa o poco meno) io dovea inorgoglirne;  ché  a  me  solo  restava
qualche volta il vanto di godere per tre giorni filati delle sue  grazie,  e  se
agli altri ragazzini il turno scadeva ogni mese, a me  esso  si  ripeteva  quasi
tutte le settimane. Altrettanto girevole che la era e arrogante  nel  congedare,
la si faceva poi negli inviti lusinghiera ed imperiosa. Bisognava ubbidirle,  ad
ogni costo, ed amarla come imponeva  lei;  e  ridere  anche  per  soprammercato,
perché se le accadeva di trovar il broncio allo sposo, era anche  sí  trista  da
percoterlo. Io credo che mai corte d'Amore sia stata governata da una sola donna
con tanta tirannia. - Se mi arresto a lungo sopra questi incidenti puerili gli è
perché ci ho le mie ragioni; e prima di  tutto  perché  non  mi  sembrano  tanto
puerili come alla comune dei moralisti. Lasciando andare, che, come accennava in
addietro, anche i ragazzi hanno la loro malizia, non mi pare  per  nessun  conto
dicevole e profittevole quella libertà fanciullesca dalla quale sovente i  sensi
vengono stuzzicati prima dei sentimenti, con sommo pericolo dell'euritmia morale
per tutta la vita. Quanti uomini e donne di gran senno ereditarono la vergognosa
necessità  del  libertinaggio  dalle  abitudini  dell'infanzia?   -   Parliamoci
schietto. - La metafora di assomigliar l'uomo ad una pianta,  che  tenerella  si
torce e si raddrizza a talento  del  coltivatore,  fu  bastantemente  adoperata,
perché possa usarla anch'io come una buona maniera di raffronto. Ma piú che  una
tale metafora varrà a spiegar la mia idea l'apologo del cauterio che aperto  una
volta non si può piú rinchiudere: gli umori concorrono a quella parte, e convien
lasciarli colare sotto pena di guastarne altrimenti tutto l'organismo.  Data  la
sveglia ai sensi come si  può  negli  anni  dell'ignoranza,  sopravverrà  sí  la
ragione a vergognarsene o a lamentarne la sozza padronanza; ma come  sopravviene
la forza di debellarli e di rimetterli al loro posto di sudditi? -  Lo  sviluppo
seguita l'avviamento che gli si diede nei principii, in  onta  all'elegie  della
ragione, e al rossore che se ne prova; e cosí si formano  quegli  esseri  mezzi,
anzi  doppi  nei  quali  la  depravazione  dei  costumi  è   unita   all'altezza
dell'intelletto, e fino ad un segno anche all'altezza dei sentimenti.  Saffo  ed
Aspasia appartengono alla storia non alla mitologia greca; e sono  due  tipi  di
quelle anime capaci di grandi passioni  non  di  grandi  affetti,  quali  se  ne
formano tante al nostro tempo per la sensuale licenza che toglie ai fanciulli di
essere innocenti prima ancora  che  possano  diventar  colpevoli.  Si  dirà  che
l'educazione cristiana distrugge  poi  i  perniciosi  effetti  di  quelle  prime
abitudini. - Ma lasciando che è tempo sprecato quello nel quale si distrugge,  e
invece si avrebbe potuto edificare, io credo che una  tal  educazione  religiosa
serva meglio a velare che  ad  estirpare  il  male.  Tutti  sanno  quali  stenti
indurassero sant'Agostino e sant'Antonio per domare gli stimoli  della  carne  e
vincere le tentazioni; ora pochi pretenderanno  esser  santi  come  loro,  eppur
quanti ne trovate che pratichino le eguali astinenze per  ottenerne  gli  uguali
effetti? - È segno che tutti si  rassegnano  a  pigliar  le  cose  come  stanno;
contenti di salvar la decenza colla furberia della gatta che copre di  terra  le
proprie immondizie, come dice e consiglia l'Ariosto. Sí, sí; ve lo dico e ve  lo
confermo; giovani e vecchi, grandi e  piccini,  credenti  o  miscredenti,  pochi
vivono adesso che  attendano  e  vogliano  combattere  le  proprie  passioni;  e
confinar i sensi nella sentina dell'anima, dove la natura civile ha segnato loro
il posto. Nato il male, non è questo il secolo de' cilici e delle mortificazioni
da sperarne il rimedio. Ma  la  educazione  potrebbe  far  molto  coltivando  la
ragione, la volontà e la forza prima che i sensi prendano il predominio. Io  non
sono bigotto: e non prèdico pel puro bene delle anime. Prèdico pel bene di tutti
e pel vantaggio della società; alla quale la sanità dei costumi è profittevole e
necessaria come la sanità degli umori al prosperare d'un  corpo.  La  robustezza
fisica, la costanza dei sentimenti, la chiarezza  delle  idee  e  la  forza  dei
sacrifizi sono suoi corollari; e queste doti  meravigliose,  saldate  per  lunga
consuetudine negli individui, e con essi portate a operare nella sfera  sociale,
tutti conoscono come potrebbero ingerminare proteggere ed affrettare i  migliori
destini d'un'intera nazione. Invece i costumi sensuali, molli, scapestrati fanno
che l'animo non possa mai affidarsi di non essere svagato da  qualche  altissimo
intento per altre basse ed indegne necessità:  il  suo  entusiasmo  fittizio  si
svampa d'un tratto o almeno diventa  un'altalena  di  sforzi  e  di  cadute,  di
fatiche e di vergogne, di lavoro e di noie. L'incancrenirsi di siffatti  costumi
sotto l'orpello luccicante della nostra civiltà è  la  sola  causa  per  cui  la
volontà è diventata aspirazione, i fatti parole, le  parole  chiacchiere;  e  la
scienza si è fatta utilitaria, la concordia impossibile, la coscienza venale, la
vita vegetativa, noiosa, abbominevole. In qual modo volete far durare uno,  due,
dieci, vent'anni in uno sforzo virtuoso, altissimo, nazionale, milioni di uomini
de' quali neppur uno è capace di reggere a quello sforzo tre mesi continui?  Non
è la concordia che manca, è la possibilità della concordia, la quale  deriva  da
forza e da perseveranza. La concordia degli inetti sarebbe  buona  da  farne  un
boccone, come fece di Venezia il caporalino di Arcole. Ora, quando sarà  bisogno
che le forze si sieno quadruplicate, troverete in quella  vece  che  la  maggior
parte si è infiacchita, sviata,  capovolta:  e  invece  d'aver  fatto  un  passo
innanzi l'avrà indietreggiato di due. - Vi parrà qui di esser  ben  lontani  col
discorso dalle piccole e ridicole lasciviette fanciullesche; ma guardate bene  e
vedrete che le si  avvicinano  ed  ingrandiscono,  come  dietro  la  lente  d'un
canocchiale le macchie del sole. Io che portai da natura  un  temperamento  meno
che tiepido, dovetti forse a questa circostanza di andar  esente  dal  disordine
che deriva nel nostro stato morale dalla precocità  dei  sensi.  Per  quanto  mi
ricorda, le battaglie dell'anima si svegliarono in  me  prima  di  quelle  della
carne; ed appresi per fortuna ad amare prima che a desiderare. Ma il merito  non
fu mio; come non fu colpa della Pisana se la caparbietà, l'arroganza, e l'ignara
malizia infantile fomentarono la sua indole impetuosa, varia, irrequieta, e  gli
istinti procaci, veementi, infedeli. Dalla vita che le si lasciò menare  essendo
bimba  e  zitella,  sorsero  delle  eroine;  non  mai  delle  donne  avvedute  e
temperanti, non delle buone madri, non delle spose caste, né delle amiche fide e
pazienti: sorgono creature che oggi sacrificherebbero la vita ad una  causa  per
cui domani non darebbero un nastro. È presso a poco la scuola dove  si  temprano
le momentanee e grandissime virtù, e i grandi e duraturi vizii delle  ballerine,
delle cantanti, delle attrici e delle avventuriere. La Pisana  mostrava  fin  da
fanciulletta una rara intelligenza; ma questa le si veniva viziando fin d'allora
fra le frivolezze e le vanità cui era lasciata in balía. La moglie del  capitano
Sandracca, la signora Veronica, che le  faceva  da  maestra,  durava  una  bella
pazienza a raccogliere per un quarto d'ora il suo cervellino nella riga  che  le
toccava compitare. Sicura d'apprendere tutto con somma agevolezza, la  ragazzina
studiava il primo pezzo della lezione e lasciava  il  resto;  ma  cosí,  anziché
fortificarsi  la  facilità  dell'imparare,  si  generava  in   lei   quella   di
dimenticare. Le lodi talvolta la spronavano a mostrarsene degna; ma poco  stante
qualche capriccio le facea porre da un canto questa breve ambizioncella. Avvezza
a  condursi  colla  sola  regola  del  proprio  talento,  la   voleva   cambiare
divertimenti ed occupazioni ogni tratto; non sapendo che questo è il vero  mezzo
per annoiarsi di tutto, per non trovar piú né requie né contento nella  vita,  e
per finire col non sentirsi mai felici appunto per volerlo  esser  troppo  e  in
cento modi diversi. La scienza della felicità è l'arte della moderazione; ma  la
piccina non potea vedere tant'oltre, e sbizzarriva cosí,  poiché  gliene  davano
ampia facoltà. Superba di comandare e d'esser la prima in tutto, e di  veder  le
cose ordinate a modo proprio, non è strano ch'ella  cercasse  accomodarle  colla
bugia, quando non le conosceva tali da indurre negli altri l'opinione  altissima
che la voleva far concepire di sé. Siccome poi tutti la  adulavano  e  fingevano
crederle, ella pigliava sul serio cotal dabbenaggine;  e  neppur  si  curava  di
render verisimili le sue fandonie. Soventi accadeva che per dar ragione  di  una
ne dovesse inventar due; e quattro poi per portar avanti queste due, e cosí  via
di seguito fino all'infinito. Ma  la  era  d'una  fecondità  e  d'una  prontezza
prodigiosa senza mai scomporsi o mostrar timore che altri non credesse o curarsi
degl'impicci che le  potessero  derivare  dalla  sua  fintaggine.  Credo  la  si
avvezzasse tanto a far la comica che a poco a poco non sapea  nemmen  discernere
in se stessa il vero dall'immaginato. Io poi, costretto  sovente  a  tenerle  il
sacco, lo teneva con tanto malgarbo che si scopriva tosto  il  marrone;  ma  mai
ch'ella perciò mostrasse dispetto  o  rincrescimento:  sembrava  che  fosse  già
disposta a non aspettarsi di meglio da me, o che si credesse tanto superiore  da
non doversi le sue asserzioni porre in dubbio per la contraria testimonianza  di
un terzo. Gli è vero che i castighi toccavano tutti  a  me;  e  che  almeno  per
questo lato la sua imperturbabilità non aveva nulla di meritorio. Mi  toccavano,
pur troppo, frequenti e salati, perché i miei spassi giornalieri con  lei  erano
una continua infrazione ai precetti della Contessa, e  senza  sindacare  di  chi
fosse il torto, la colpa punita prima  era  la  mia  perché  la  piú  patente  e
recidiva. D'altronde nessuno avrebbe osato castigare la  Contessina  all'infuori
di sua madre; e costei per  solito  non  se  ne  dava  pensiero  piú  che  d'una
figliuola altrui. Per la Pisana c'era la donna dei ragazzi; e  fino  a  che  non
l'avesse dieci anni la vigilanza materna si dovea limitare a pagar due ducati il
mese alla Faustina. Dai dieci anni ai venti il convento, e da  venti  in  su  la
Provvidenza, ecco la maniera d'educazione che secondo la Contessa dovea  bastare
per isdebitarla di ogni dovere verso la prole femminile. La Clara era uscita  di
convento ancor tenerella per far l'infermiera alla nonna;  ma  la  stanza  della
nonna le tenea vece di monastero e la differenza non istava  in  altro  che  nei
nomi. Quella cara contessa, abbandonata dalla gioventù e dalle passioni che  pur
le aveano dato sentore di qualche cosa che non fosse proprio lei, erasi talmente
riconcentrata in se stessa e  nella  cura  della  propria  salute  temporale  ed
eterna, che fuori del  rosario  e  d'una  buona  digestione  non  trovava  altre
occupazioni che le convenissero. Se agucchiava calze era per abitudine, o perché
nessuno aveva la mano tanto leggera da far maglie abbastanza floscie per la  sua
pelle dilicata. In quanto alla  sorveglianza  casalinga,  la  ci  batteva  sodo,
perché serrando gli occhi indovinava che avrebbe fatto star  troppo  allegra  la
famiglia; e l'allegria negli altri non le piaceva, quando  ne  aveva  cosí  poca
lei. L'invidia è il peccato o il castigo delle anime grette; e io  temo  che  la
mia cuticagna dovesse i suoi cotidiani martirii alla rabbia  della  Contessa  di
sentirsi vecchia e di veder me ancora fanciullo. Per questo  anche  ella  odiava
monsignor Orlando al pari di me. Quel viso  di  cuor  contento,  e  quelle  mani
incrocicchiate sulla pancia come a trattenere un soverchio  di  beatitudine,  le
davano la stizza: e non la poteva capir come si  potesse  diventar  vecchi  cosí
allegramente. Caspita! la ragion della differenza c'era. Monsignor Orlando  avea
collocato ogni sua compiacenza nei contentamenti della  gola,  la  quale  è  una
passione che può sfogarsi, e meglio forse, anche nell'età avanzata. Ed  ella  al
contrario... cosa volete? non voglio dirne di piú, ora che il suo scheletro sarà
purificato da cinquant'anni di sepoltura. Intanto si diventava grandicelli, e  i
temperamenti si profilavano meglio,  e  i  capricci  prendevano  già  figura  di
passioni, e la mente si destava a ragionarvi sopra.  Già  l'orizzonte  de'  miei
desiderii s'era allargato, poiché la cucina, il cortile, la fienaia, il ponte, e
la piazza non mi tenevano piú vece d'universo. Io voleva vedere cosa  c'era  piú
in là, e abbandonato a me stesso, ogni passo che arrischiava fuori della  solita
cerchia mi procurava quelle stesse gioie ch'ebbe a provar Colombo nella scoperta
dell'America. La mattina mi alzava per  tempissimo  e  mentre  la  Faustina  era
occupata nei fatti di casa o giù nelle  camere  della  padrona,  sguisciava  via
colla Pisana nell'orto o in riva alla peschiera. Quelle erano le ore nostre  piú
beate,  nelle  quali  la  birboncella  s'infastidiva  meno  e  ricompensava  piú
amichevolmente la mia servitù. Sovente poi ho notato che il  tempo  mattutino  è
piú propizio alla serenità dello spirito, e che in  esso  anche  le  nature  piú
artifiziose ritrovano qualche  sospiro  di  semplicità  e  di  rettitudine.  Col
crescer del giorno le abitudini e i rispetti umani ci signoreggiano sempre  piú;
e verso sera e a notte inoltrata si  osservano  le  smorfie  piú  grottesche,  i
discorsi piú bugiardi, e gli assalti piú  irresistibili  delle  passioni.  Forse
sarà anche per questo, che le ore del giorno si vivono piú comunemente  all'aria
aperta, nella quale gli uomini si sentono  meno  schiavi  di  se  stessi  e  piú
obbedienti alle leggi universali di natura che non sono mai  pessime.  Non  dirò
peraltro che la Pisana mutasse, anche standosi da sola con me, le sue maniere di
moversi e di parlare. M'accorgeva benissimo che ella apprezzava piú assai la mia
ammirazione che l'amicizia o la  confidenza;  e  che  per  quanto  ristretto  ed
abituale, io non cessava di essere per le sue pantomime una specie di  pubblico.
Tuttavia doveva scrivere che me n'accorsi poi, non che  me  n'accorgeva  allora.
Allora io godeva di quei soavi intervalli, stimando anzi che quella Pisana  cosí
premurosa di essermi gradita, fosse la vera;  e  fossero  effetto  della  trista
compagnia i cambiamenti che succedevano nelle sue maniere durante  la  giornata.
All'ora di messa (era monsignor Orlando che  la  celebrava  nella  cappella  del
castello) tutta la famiglia, padroni, servi, fattori, impiegati  ed  ospiti,  si
raccoglieva nei banchi destinati alla varia autorità delle  persone.  Il  signor
Conte occupava solo  nel  coro  un  genuflessorio  rimpetto  alla  cattedra  del
celebrante; e là riceveva con molta gravità i saluti di Monsignore quando usciva
o rientrava; nonché le tre profumate d'incenso se la messa  era  cantata.  Nelle
benedizioni solenni o negli Oremus il  celebrante  non  si  dimenticava  mai  di
benedire e nominare con un profondo  inchino  l'Eccellentissimo  e  Potentissimo
Signor Iuspatrono e Giurisdicente; e questi allora volgeva in  tutta  la  chiesa
un'occhiata a mezz'aria che sembrava quasi misurare  l'eccelsa  altezza  che  lo
divideva dal gregge dei vassalli. Il Cancelliere, il fattore,  il  Capitano,  il
portinaio e persino le cameriere e la cuoca assorbivano quel  tanto  che  veniva
loro di quella occhiata; ed abbassavano altre simili occhiate sopra la gente che
occupava nella cappella un posto  inferiore  al  loro:  il  Capitano  in  quelle
circostanze s'arricciava anche i mustacchi e poneva romorosamente la mano  sopra
l'elsa della spada. Finite le funzioni tutti restavano col capo  basso  in  gran
raccoglimento, ma volti verso l'altare del Rosario  se  la  funzione  era  stata
sull'altar maggiore, o viceversa; finché il signor Conte si alzava, si  spartiva
dinanzi un bel tratto d'aria con un gran segno di croce, e rimessi in  tasca  il
libro d'orazione, il fazzoletto e la scatola, moveva grave e isteccato verso  la
pila dell'acqua santa. Là un nuovo segno di croce; e  poi  usciva  dalla  chiesa
dopo aver salutato l'altar maggiore d'un lieve  cenno  del  capo.  Gli  venivano
dietro la Contessa colle figlie i parenti e  gli  ospiti  che  s'inchinavano  un
tantino piú; indi i servi e gli officiali che piegavano un ginocchio,  e  poi  i
contadini e la gente del paese che li piegavano  tutti  e  due.  Adesso  che  il
Signore ci sembra molto molto lontano, può anche sembrare ugualmente distante da
tutti i ranghi sociali; come il sole che non riscalda certamente piú la cima che
la base di un campanile. Ma allora ch'esso era tenuto abitar piú vicino d'assai,
le maggiori o minori distanze erano facilmente osservabili; e un feudatario  gli
si stimava tanto piú vicino di tutti gli altri, da potersi anco permettere verso
di lui qualche maggior grado di confidenza. Di solito, mezz'ora innanzi la messa
quotidiana, io era cercato per servirla a Monsignore, il quale  intendeva  darmi
con ciò un segno della sua  speciale  deferenza,  a  scapito  dei  figliuoli  di
Fulgenzio. Ma  io,  che  non  mi  sentiva  gran  fatto  riconoscente  di  questa
distinzione, sapeva prender le mie misure in modo che  chi  mi  dava  la  caccia
tornava il piú delle volte colle mani vuote alla sacristia. Di  consueto  io  mi
rifugiava presso mastro Germano e non usciva  dal  suo  buco  se  non  quand'era
sonata l'ultima campanella. In quel frattempo aveano già messo la cotta a Noni o
a Menichetto, i quali coi loro zoccoli di legno correvano sempre il pericolo  di
rompersi il naso sugli scalini nel cambiar di posto al messale; ed io entrava in
chiesa, sicuro di averla scapolata. Siccome poi queste mie arti furono in  breve
scoperte, cosí me ne toccarono molte ramanzine per parte di  Monsignore  dinanzi
al focolar di cucina; ma io mi scusava della  mia  ripugnanza  dicendo  che  non
sapeva il Confiteor. E infatti, per giustificare  questa  mia  scusa,  le  poche
volte che era beccato, aveva sempre l'accorgimento di tornar a capo,  una  volta
giunto al mea culpa; e per due tre e quattro volte ripeteva  una  tale  manovra,
finché Monsignore impazientato lo finiva lui. Quei giorni nefasti aveva  poi  la
compiacenza di star chiuso in un camerino sotto la colombaia,  col  libricciuolo
della messa, un bicchier d'acqua ed un  pane  bigio  fino  a  un'ora  innanzi  i
vespri. Io mi divertiva immollando il libro nell'acqua, e sminuzzando il pane ai
piccioni;  e  poi,  quando  Gregorio,  il  cameriere  di  Monsignore,  veniva  a
sprigionarmi, correva da Martino presso il quale era certo  di  trovare  il  mio
pranzo. Peraltro durante quelle ore aveva il dispetto  di  udir  la  voce  della
Pisana che si trastullava cogli altri ragazzotti senza darsi melanconia pel  mio
carceramento; e allora mi prendeva una tal bile  contro  il  Confiteor,  che  lo
faceva in pallottole e lo gettava giù nel cortile sopra quei birboncelli assieme
a quanti sassuoli e calcinacci potea raccattar nei canti e raspar dalla muraglia
colle unghie. Talvolta anche squassava con quanta forza poteva la  porta,  e  le
dava addosso coi gomiti coi piedi e colla testa; e  dopo  un  mezz'ora  di  tali
strepiti il fattore non mancava mai  di  venir  a  ricompensarmene  con  quattro
sonate di staffile. E questa dose si replicava la sera, quando scoprivano  ch'io
aveva tutto fradicio e guasto il mio libricciuolo. Nei giorni  comuni,  dopo  la
messa ognuno andava per le sue incombenze fino  all'ora  del  desinare;  io  poi
aveva il mio bel che fare nel difendermi contro  il  famiglio  del  Piovano  che
veniva a cercarmi per le lezioni. Corri di qua, corri di là, io davanti ed  egli
dietro, finiva coll'esser preso mezzo morto di stizza  e  di  fatica;  e  allora
doveva fare con essolui di gran trotto il miglio che corre tra Fratta  e  Teglio
per guadagnare il tempo perduto. Giunto nella canonica mi perdeva tutti i giorni
a passar in rassegna certe vedute di Udine che adornavano la parete  dell'andito
e poi a gran fatica mi confinavano in uno studiolo, ove, dopo  l'esperienza  dei
primi giorni, tutto soleva essere rigorosamente sotto chiave a cagione delle mie
petulanze. Peraltro mi divertiva nel disegnar sopra i muri la faccia del Piovano
con due boschi  di  sopracciglia  ed  un  certo  cappellone  in  testa  che  non
lasciavano alcun dubbio sulle intenzioni satiriche del pittore. Spesso,  durante
queste mie esercitazioni artistiche, udiva per l'andito il passo prudente  della
Maria, la massaia del Piovano, che veniva a vedere de'  fatti  miei  alla  toppa
della chiave. Allora io balzava allo scrittoio, e coi gomiti ben distesi  e  col
capo sulla carta arrotondava certi A e certi O che empievano mezza  facciata,  e
che, coll'aggiunta di altre  quattro  o  cinque  letteracce  piú  arabe  ancora,
fornivano ad esuberanza il mio compito giornaliero. Oppur  anche  mi  metteva  a
gridar bi a ba, be e be, bo o bo, con una voce cosí indemoniata  che  la  povera
donna scappava quasi sorda in cucina. Alle dieci e mezzo entrava il Piovano,  il
quale mi dava alquante zaffate per gli sconci che  vedeva  nel  muro,  altre  ne
aggiungeva a conto dell'infame scrittura, e me ne  amministrava  poi  una  terza
dose  per  la  pochissima  attenzione  prestata  al  suo  indice   nel   leggere
l'Abecedario. Mi sovviene che mi accadeva sovente di perder gli occhi  in  certi
libroni rossi che stavano dietro i cristalli d'uno scaffale, ed allora invece di
compitar la linea seguente saltava sempre alla riga del V: vi a va, vi e ve,  vi
o vo... A questo punto  era  interrotto  dalla  terza  correzione  accennata  in
addietro; e non ho mai potuto sapere la ragione della preferenza che  dimostrava
la mia memoria per la lettera V, se non era forse per esser quella  lettera  una
delle ultime. Gli sbadigli, le tirate di pelle o di naso e  i  versacci  che  io
faceva durante quelle lezioni mi son sempre restati in mente come un segno della
mia mala creanza e dell'esemplare pazienza del Piovano. S'io dovessi insegnar  a
leggere ad un porcellino come allora era io, son  sicuro  che  nelle  due  prime
lezioni gli caverei le due orecchie. Io invece  non  ebbi  altro  incommodo  che
quello di riportarle  a  casa  alcun  poco  allungate.  Ma  quest'incommodo  che
continuò e s'accrebbe per quattro anni, dai sei ai dieci, mi procurò peraltro il
vantaggio di poter leggere tutti i  caratteri  stampati,  e  di  scrivere  anche
abbastanza correntemente, purché non ci entrassero le maiuscole. Lo sparagno che
feci poi in tutta la mia vita di punti e di virgole lo devo tutto all'istruzione
andante e liberale dell'ottimo Piovano. Anche ora tirando giù questa mia  storia
ho dovuto raccomandarmi per la punteggiatura ad un mio  amico,  scrittore  della
Pretura; che altrimenti ella sarebbe da capo a fondo  un  solo  periodo,  e  non
sarebbe voce di predicatore capace di rilevarlo. Quando tornava a Fratta  e  non
mi perdeva dietro i fossi in caccia di sposi, o di salamandre, giungeva  proprio
sul punto che la famiglia si metteva a  tavola.  Il  tinello  era  diviso  dalla
cucina per un corritoio lungo ed oscuro che saliva un paio di braccia:  tantoché
il locale era abbastanza alto per accorgersi dalle finestre che era giorno nelle
ore di sole. Era uno stanzone vasto e quadrato, per una buona metà  occupato  da
una tavola coperta d'un tappeto verde e  grande  come  due  bigliardi.  Tra  due
cannoniere, verso i fossati del castello, un  gran  camino;  rimpetto,  fra  due
finestre che davano sul cortile, una credenza di noce  a  ribalta;  nei  quattro
canti vi erano quattro tavolini e sopra le candele  preparate  pel  gioco  della
sera. Le scranne pesavano certo cinquanta libbre l'una, ed erano  tutte  uguali,
larghe di sedere, a piede e schienale diritto, coperte di  marrocchino  nero  ed
imbottite di chiodi: almeno cosí si avrebbe giudicato dalla morbidezza. La mensa
s'imbandiva al solito per dodici coperti: quattro per parte  nei  due  lati  piú
lunghi, tre nel  lato  vicino  al  corritoio,  pel  fattore,  il  perito  ed  il
Cappellano: ed un lato libero pel signor Conte. La sua  signora  consorte  colla
contessa Clara  stavano  alla  sua  diritta,  e  Monsignore  col  Cancelliere  a
sinistra; i posti fra questi e l'altro lato  della  tavola  erano  occupati  dal
Capitano colla moglie, e dagli ospiti.  Se  non  v'eran  ospiti,  i  loro  posti
restavano disoccupati, e se crescevano i due, il Capitano e la moglie  cercavano
rifugio negli intervalli fra il perito, il fattore e il Cappellano.  Costui  del
resto, come dissi, sfuggiva quasi sempre all'onore della mensa padronale; laonde
la sua posata  il  piú  delle  volte  tornava  netta  in  cucina.  Agostino,  il
credenziere, recava le  portate  vicino  al  signor  Conte,  e  questi  dal  suo
seggiolone (egli solo aveva una specie di trono  che  gli  uguagliava  quasi  le
ginocchia al livello della  tavola)  gli  accennava  di  tagliare.  Quando  avea
finito, il signor Conte si pigliava giù il miglior boccone, e poi con  un  altro
cenno passava il piatto alla moglie; ma mentre accennava colla destra,  era  già
inteso a mangiare colla sinistra. Il cocchiere e Gregorio aiutavano il servizio,
ma questi aiutava ben poco, perché troppo  lo  occupava  il  versar  da  bere  a
Monsignore, o lo slacciargli il tovagliolo e dargli delle gran tambussate  nella
schiena quando un boccone minacciasse di strangolarlo. La Pisana, s'intende, non
pranzava in tavola, ché l'era onore serbato  alle  ragazze  dopo  gli  anni  del
monastero. Ella mangiava in una dispensa fra  il  tinello  e  la  cucina,  colle
cameriere. Quanto a me, rosicchiava gli ossi in cucina coi cani, coi gatti e con
Martino. Nessuno s'era mai sognato di dirmi dove fosse il mio posto e  quale  la
mia posata; sicché il posto lo trovava dovunque e invece di posata adoperava  le
dita. Mi ricredo. Per mangiar la minestra la cuoca mi dava una certa mestola che
ebbe il vanto di allargarmi la bocca due buone dita. Ma dicono che il sorriso ne
piglia miglior espressione, e perché io ebbi sempre denti candidi  e  sani,  non
voglio lagnarmene. Siccome io e Martino non entravamo in conto né fra  la  gente
che desinava in tinello né fra la servitù a cui la  Contessa  veniva  a  far  la
parte dopo tavola, cosí noi avevamo il privilegio  di  raspar  le  pignatte,  le
padelle ed i pentoli; e di ciò si costituiva il nostro pranzo. In cucina  appeso
ad un gancio stava sempre un cesto pieno di polenta, e quando le  raspature  non
mi  saziavano,  bastava  che  alzassi  un  braccio  verso  la  polenta.  Martino
m'intendeva: me ne faceva abbrustolire una fetta; e addio malanni! Il cavallante
e il sagrestano, che avevano moglie e  figliuoli,  non  mangiavano  di  consueto
presso i padroni; e cosí pure mastro Germano, il quale faceva cucina da per  sé,
e si condiva certe pietanze tutte sue che io non ho mai capito come palato umano
le potesse sopportare. Non era anche raro il caso ch'egli  acchiappasse  uno  di
quei moltissimi gatti che popolavano la cucina dei Conti, e ne  faceva  galloria
in umido e arrosto per una settimana. Perciò, benché egli m'invitasse sovente  a
pranzo, io mi guardava bene di accettare. Egli sosteneva che  il  gatto  ha  una
carne squisita e  saporitissima  e  che  l'è  un  ottimo  rimedio  contro  molte
malattie; ma queste cose non le diceva mai in presenza di Martino, onde ho paura
ch'egli volesse infinocchiarmi. Dopo pranzo e prima che la Contessa capitasse in
cucina, io sgambettava fuori incontro alla ragazzaglia che accorreva a quell'ora
sul piazzale del castello: e molti di loro mi seguivano poi nel cortile, dove la
Pisana sopraggiungeva poco dopo, a farvi quelle prodezze di  civetteria  che  ho
detto poco fa. Mi domanderete perché io stesso andassi a chiamare i miei  rivali
che poscia mi davano tanta noia. Ma la Contessina  era  tanto  sfacciatella  che
ella stessa andava a chiamarli se non c'era stato  io;  e  questo  m'induceva  a
fingere di fare a mio grado quello che, con doppio smacco, sarei stato costretto
a sopportare. La  tranquilla  digestione  della  Contessa,  e  le  faccende  che
occupavano alle donne tutto il dopopranzo, ci lasciavano liberi per lungo  tempo
ai nostri trastulli; e se dapprincipio la vecchia nonna cercava conto in  quelle
ore della nipotina, costei si diportava nella sua stanza con tal cattiveria, che
la Contessa finiva a congedarla come  un  pericoloso  disturbo  del  suo  chilo.
Stavamo dunque in piena libertà  di  correre,  di  strillare,  di  accapigliarci
nell'orto, nei cortili e nei porticati. Soltanto una terrazza dove guardavano le
finestre del Conte e di Monsignore ci era vietata  dall'incorruttibile  custodia
di Gregorio. Una volta che alcuni de' piú temerari si gabbarono del divieto,  il
cameriere sbucò fuori dalla porticella d'una scala secondaria col  manico  della
scopa e ne menò tante addosso di quei sussurroni che  tutti  ebbero  capito  non
esserci modo da scherzare da quella banda. Il Conte  diceva  in  quelle  ore  di
occuparsi degli affari di cancelleria; ma se ciò era, egli  godeva  d'una  vista
affatto straordinaria, poiché le sue finestre stavano sempre serrate  fino  alle
sei. In quanto a Monsignore, egli dormiva e diceva di dormire; ma  avesse  anche
voluto negarlo, russava tanto forte che tutti gli infiniti angoli  del  castello
non gli avrebbero creduto. Dalle sei alle  sei  e  mezzo,  quando  il  tempo  lo
consentiva, la Contessa usciva  pel  passeggio;  e  il  Conte  e  Monsignore  le
andavano di consueto incontro una mezz'ora dopo.  Non  dovevano  temere  di  non
incontrarla, perché ella andava invariabilmente tutte le sere  coll'egual  passo
fino alle prime case  di  Fossalta  e  poi  coll'egual  passo  tornava  indietro
impiegando  in  questo  passeggio  sessantacinque  minuti,  a  meno   d'incontri
impreveduti. Non fu bisogno ch'io dicessi che insieme al Conte usciva  anche  il
Cancelliere; questi camminava un passo dietro ai padroni, divertendosi col piede
a gettar nel fosso i sassolini del sentiero, quando non era onorato  di  nessuna
domanda. Ma piú spesso il Conte gli chiedeva conto delle faccende  del  mattino;
ed egli lo ragguagliava degli esami che aveva fatto e delle  cause  sulle  quali
aveva stesa l'informazione per Sua Eccellenza. Queste informazioni  erano  tante
sentenze alle quali Sua Eccellenza si compiaceva di apporre la firma; adoperando
a ciò  un  doppio  paio  di  occhiali  e  tutti  i  sudori  della  sua  sapienza
calligrafica. Mentre i due magistrati secolari s'intrattenevano  delle  faccende
mondane, monsignor Orlando andava innanzi leccandosi  colla  lingua  i  denti  e
accarezzandosi la pancia. Le due compagnie s'incontravano ad un passatoio ch'era
fra i due paesi sulla strada vecchia; il Cancelliere  si  fermava  col  cappello
abbassato fino a terra. Monsignore faceva ala colla  mano  alzata  in  segno  di
saluto, ed il Conte s'avanzava fino a mezzo il passatoio per porger la mano alla
Contessa. Dopo questa passava la contessina  Clara,  quando  la  vi  era  poiché
sovente rimaneva presso la nonna, e in coda o il Piovano, o il Cappellano, o  il
signor Andreini, o la Rosa, o qualunque altro  fosse  della  brigata.  Tornavano
cosí di conserva verso il castello, camminando a due a due o piú spesso  ad  uno
ad uno per la nefandità della strada. E quando vi giungevano,  Agostino  correva
ad accendere nel tinello una gran lucerna d'argento sulla quale era  inalberata,
in luogo di manico, l'arma di famiglia; un cignale fra due alberi  colla  corona
di conte a ridosso. Il cignale era piú grande  degli  alberi  e  la  corona  piú
grande di tutto. Benché il Conte annettesse una grande importanza a quel lavoro,
si conosceva a prima vista che Benvenuto Cellini non vi era immischiato. In quel
frattempo la cuoca metteva al fuoco una gran cocoma per farvi  il  caffè;  e  la
comitiva lo attendeva in tinello continuando la conversazione del passeggio.  Ma
il dopopranzo era distribuito a questo modo solo durante i bei mesi, e quando il
tempo era piucché asciutto. Del resto tanto il signor Conte che  Monsignore  non
uscivano dalle loro stanze che per impancarsi  al  fuoco  di  cucina:  e  là  si
congregava la famiglia a far loro corteggio fino all'ora del gioco. Il caffè  in
quelle circostanze essi lo prendevano al focolare, e poi movevano insieme  verso
il tinello dove i tavolini eran già preparati, e li  seguiva,  camminando  sulla
punta dei piedi, tutta la compagnia. La  Contessa  sola  era  là  ad  attenderli
perché la contessina Clara non scendeva che un'ora piú tardi dopo aver  coricato
la nonna. Qualche volta peraltro la moglie  del  Capitano  avea  la  fortuna  di
prender il caffè insieme alla Contessa, e quello era un segno che le cose  della
giornata non avrebbero potuto camminar meglio. La signora Veronica  si  mostrava
molto altiera di quell'onore, e guardava d'alto in  basso  suo  marito  se  egli
veniva dinanzi a lei, come soleva, ad  arricciarsi  i  baffi  prima  di  sedere.
Quando la conversazione non era  che  di  famiglia,  due  tavolini  di  tresette
bastavano; ma se vi erano  visite  od  ospiti,  cosa  che  non  mancava  mai  di
succedere tutte le sere d'autunno e, nel resto dell'anno, la domenica, allora si
invadeva la gran tavola col mercante in  fiera,  col  sette  e  mezzo,  o  colla
tombola. I puritani come Monsignore e il Cancelliere, che non amavano  i  giochi
di sorte, si ritraevano da un canto col tresette in tavola; e il  Capitano,  che
diceva di aver sempre contraria la fortuna, andava in cucina  a  giocar  all'oca
col cavallante o con Fulgenzio. In fondo in fondo io credo che la posta  di  due
soldi, quale la si costumava in tinello, fosse troppo arrischiata per lui; e  si
trovava meglio col bezzo e col bezzo e mezzo di cucina. Io  intanto,  dopo  aver
giocato colla Pisana fino al cader del sole, quando la Faustina la prendeva  per
metterla a letto, mi incantucciava sotto  la  cappa  a  farmi  contar  fiabe  da
Martino o da Marchetto. E cosí la tirava innanzi finché la testa  mi  ciondolava
sul petto e allora Martino mi prendeva pel braccio, e passando dal  cortile  per
non attraversar il tinello, mi conduceva su per le  scale  fino  alla  porta  di
Faustina. Lí io entrava tentennando e sfregolandomi gli occhi; e  sbottonate  le
brache, con una squassata era bell'e svestito e pronto a  coricarmi,  perché  né
scarpe né panciotto né calze né mutande né pezzuola da  collo  mi  imbrogliarono
mai fino all'età di dieci anni; e una giacchetta e un paio  di  brache  di  quel
mezzolano che tessevano in casa per la servitù componevano, insieme ad una corda
per legar la coda, ogni mio arredo personale. Aveva di piú  alcune  camicie,  le
quali  colla  loro  sovrabbondanza  pagavano  ogn'altro  difetto,   poiché   era
Monsignore che mi passava le sue quand'erano sdruscite; e nessuno si prendeva la
briga di raccorciarmele se non accorciando d'un poco la campana  e  le  maniche.
Quanto alla  testa,  un  inverno  che  gelava  molto,  credo  fossi  allora  sui
sett'anni, mastro Germano me l'aveva guernita con un berrettone di pelo  portato
da lui fin da quando era bulo a Ramuscello. Quel berrettone  mi  sarebbe  calato
fino al mento, se il Piovano non mi  avesse  già  prima  d'allora  preparato  le
orecchie a impedirgli di cedere alla forza di gravità. Per di  dietro  peraltro,
ove non aveva orecchie, esso mi cascava fino sul collo, e Martino diceva che con
quel coso in capo io gli aveva viso d'una gatta arruffata.  Ma  egli  lo  diceva
forse per far dispetto a Germano, e io son grato a questo e al  suo  berrettone;
in mercé del quale andai salvo da molte infreddature. Quanti anni lo portassi io
non ve lo potrei dire con precisione. Certo era già fatto giovane che  lo  aveva
ancora, ed anzi lo sparagnava pei giorni di festa, perché la  testa  essendomisi
ingrossata pareva a me che mi si addicesse mirabilmente alla fisonomia e che  mi
desse un certo estro da far paura. Un giorno che era  alla  sagra  di  Ravignano
oltre Tagliamento e che si ballava in piazza sul tavolato, io mi presi lo spasso
di farmi beffe di alcune Cernide dei Savorgnani che venivano a tutelare il  buon
ordine della fiera collo schioppo in una mano, e con  un  tovagliolo  nell'altra
pieno di ova, burro e salame, per fare,  come  si  dice,  la  frittata  rognosa.
Quelle Cernide coi loro sandali di legno, colle giubbe di mezzolano  spelato,  e
con certi musi che odoravano di  minchioneria  lontano  un  miglio  mi  facevano
crepare dalle grandi risate; onde tra me e qualche altro bravaccio di  Teglio  e
dei dintorni si cominciò a far loro le corna, e a domandare  se  erano  buoni  a
rivoltar le frittate, e se intendevano cuocerle colle scarpe. Allora uno di loro
ci rispose che andassimo a ballare che s'avrebbe fatto meglio; ed  io  facendomi
innanzi gli soggiunsi che avrei ballato pel primo con lui. Come difatti feci,  e
presolo per le braccia, cosí come stava collo  schioppo  ancora  in  ispalla  lo
menai attorno nella piú curiosa furlana che si fosse mai veduta. Ma siccome egli
avea posto a terra le sue provvisioni,  cosí  avvenne  che  nel  girare  andammo
addosso alle uova, e ne fu fatta la frittata prima  del  tempo.  E  allora  quei
valorosi soldati, che non si erano mossi al veder schernito un proprio  collega,
si commossero d'un subito alla rovina delle uova e mostrarono di volermi  venire
addosso colla baionetta. Ma io, tratte di tasca le  pistole  e  ributtato  verso
loro stramazzone il mio ballerino, mi posi a strillare che chi primo  si  moveva
era morto. E in  un  attimo  tutti  i  miei  compagni  mi  stavano  intorno  per
difendermi, quale col coltello sguainato e quale con pistole uguali a quelle che
aveva io. Vi fu un istante di sospensione e poi nacque un parapiglia,  che,  non
so come, ci trovammo tutti uno addosso dell'altro senza peraltro  far  fuoco  né
adoperar delle armi altro che i manichi, perché in verità la  quistione  non  ne
valeva la pena. E batti di qui e pesta di là quelle povere Cernide  erano  molto
malconcie e le loro ova del pari, quando capitò il Capo di Cento col resto della
masnada e ci tolse in mezzo costringendoci  colle  minacce  a  cessare  da  quel
tafferuglio, se no, diceva, avrebbe comandato fuoco senza riguardo né per  amici
né per nemici. Si chiamarono allora testimoni di chi fosse la  colpa;  i  quali,
come si usava sempre, diedero ragione a noi e torto  alle  Cernide,  e  cosí  ci
lasciarono andare senz'altro disturbo. Ma  mentre  io  mi  ritirava  facendo  il
gradasso fra i miei compagni di quel trionfo, quel cotale che  avea  ballato  la
furlana mi gridò dietro che guardassi bene ballando di non perdere la mia cresta
di pelo che egli ne avrebbe fatto un trofeo da metter in capo al suo  asino  pel
secondo giorno della fiera. Io gli risposi con un gesto  da  piazza  che  se  lo
prendesse, e che tra l'asino e lui avrebbero fatto sempre due, ma che mai non mi
avrebbero toccato la cresta. Lí il Capo di Cento ci fece troncar le parole e noi
n'andammo a ballare colle piú belle della sagra, mentre le Cernide accendevano i
fuochi per far le frittate, cogli ovi che  erano  rimasti.  Quella  sera  io  mi
fermai sulla festa piú forse che non avea contato nel venirci per vedere cos'era
buono a fare quel mascalzone che m'avea sfidato; e cosí  pure  alcuni  de'  miei
compagni. E poi ad un'ora di notte che faceva uno scuro d'inferno presimo  verso
la barca di Mendrisio dove sulla sponda opposta mi  aspettava  la  carretta  del
castaldo. La strada era profonda e tortuosa fra campagne piene di alberi,  e  in
qualche luogo tanto stretta da potervi  a  stento  camminar  di  fronte  quattro
persone: siccome poi ognuno di noi  per  le  abbondanti  tracannate  di  ribolla
voleva il posto per quattro, cosí s'era sempre lí lí  per  traboccar  nel  fosso
qualcuno. Ridevamo insieme cantando anche come si poteva meglio col vino che  ci
gorgogliava quasi in gola, quando ad un gomito della via io vedo come una figura
nera che scavalca il fosso di slancio e mi capita addosso a modo d'una bomba. Io
mi ritraggo d'un passo, quando quella figura mi dice - Ah! sei tu! - e mi dà una
buona insaccata nelle spalle e mi manda a ruzzolar nel pantano come un sacco  di
carne porcina. Io poi mi levo puntandomi coi gomiti sul terreno e  veggo  quella
figura che rifà il suo salto e scompar via nel buio della campagna. Allora  solo
m'accorsi che avea perduto il berretto e mi chinava sulla strada per cercarlo; e
bisogna dire che, o dalla campagna si vedesse abbastanza chiaro sulla  strada  o
che i miei occhi fossero che facevano il buio, perché quello del salto  mi  vide
curvarmi a cercare e cosí dalla lunga mi gridò che mi mettessi pure il cuore  in
pace perché la mia cresta se l'aveva portata via lui per farne bello l'asino  al
giorno dopo. Udendo queste  parole  mi  risovvenne  della  Cernida,  e  a'  miei
compagni tornò l'anima nel corpo perché a' loro  occhi  quell'apparimento  aveva
tutto l'aspetto d'una diavoleria. Conosciuto per cos'era, volevano ad ogni costo
trarne vendetta, ma il fosso era largo e nessuno si  fidò  tanto  delle  proprie
gambe da tentar il salto, segno che  avevamo  ancora  un  briciolo  di  giudizio
chiaro. Perciò tirammo innanzi promettendoci di ricattarci al domani; e cosí  fu
infatti che ci fermammo tutti a Mendrisio la notte, e il giorno dopo tornammo in
fiera facendo un esame di tutte le Cernide e di tutti gli  asini  nei  quali  ci
abbattevamo. E quando  ci  abbattemmo  in  quello  che  aveva  fra  le  orecchie
incollato sulla fronte colla pece il mio berrettone di pelo, gliene demmo  tante
e tante al suo padrone che lo si dovette poi caricare sul suo asino per mandarlo
a casa; e il mio berrettone, siccome non era piú da portarsi, glielo impegolammo
ben bene sul muso a lui dicendogli  che  glielo  lasciavamo  per  memoria.  Cosí
perdetti il regalo di mastro Germano che m'avea fatto sí buon servizio per tanti
anni; e da questa faccenda nacque poi una querela criminale che mi diede molto a
che fare come dirò a suo luogo. Intanto vi prego a non perdermi la stima, se  mi
troverete in un tratto della mia vita  far  baldoria  e  lega  con  contadini  e
bettolanti. Vi  prometto  che  mi  vedrete  con  commodo  uomo  d'importanza,  e
frattanto ritorno fanciullo per narrarvi le cose con ordine. V'ho detto  che  io
costumava andare a letto mentre ancora si giocava in tinello; ma  il  gioco  non
tirava innanzi gran fatto, perché alle otto e mezzo in punto lo si lasciava  per
intonare il rosario; e alle nove si mettevano a cena, e  alle  dieci  il  signor
Conte dava il segnale della levata ordinando ad Agostino di accendergli il lume.
La comitiva allora sfilava dalla porta  che  metteva  allo  scalone,  opposta  a
quella che conduceva in cucina. Dico scalone per modo di  dire,  ché  l'era  una
scala come tutte le altre; sul primo pianerottolo della quale  il  signor  Conte
usava sempre fermarsi e tastar il muro per trarne il pronostico  della  giornata
ventura. Se il muro era umido il signor Conte diceva: - Domani tempo cattivo  -;
e il Cancelliere dietro a lui ripeteva: - Tempo cattivo -; e tutti soggiungevano
con faccia contrita: - Cattivo tempo! - Ma se  invece  lo  trovava  asciutto  il
Conte sclamava: - Avremo una bella giornata domani -;  e  il  Cancelliere  ancor
lui: - Una bellissima giornata! -; e tutti poi giù giù fino all'ultimo  scalino:
- Una bellissima giornata. - Durante questa cerimonia la processione si  fermava
lungo la scala con grandi spasimi della  Contessa  che  temeva  di  prender  una
sciatica fra tutte quelle correnti d'aria.  Monsignore  invece  aveva  tempo  di
appiccar il primo sonno, e toccava a Gregorio  sostenerlo  e  scuoterlo,  se  no
tutte le sere egli sarebbe  rotolato  sulla  signora  Veronica  che  gli  veniva
dietro. Giunta che era tutta la schiera nella sala, succedeva la funzione  della
felice notte, dopo la quale si sparpagliavano in cerca delle rispettive  stanze;
e ve n'erano di tanto lontane da aversi comodamente il  tempo  di  recitare  tre
Pater, tre Ave e tre Gloria prima di arrivarvi. Cosí almeno diceva Martino,  cui
dopo la sua giubilazione s'era assegnato per alloggio  un  camerino  al  secondo
piano contiguo alla torre e vicino alla stanza destinata  pei  frati  quando  ne
capitava qualcheduno alla cerca. Il signor Conte occupava colla moglie la camera
che da tempo immemorabile avevano abitato tutti i  capi  della  nobile  famiglia
castellana di Fratta. Una camera  grande  ed  altissima,  con  un  terrazzo  che
d'inverno metteva i brividi solo a specchiarvisi dentro, e col soffitto di travi
alla cappuccina  dipinte  d'arabeschi  gialli  e  turchini.  Terrazzo  pareti  e
soffitto eran tutti coperti da cignali da alberi e  da  corone;  sicché  non  si
poteva buttar intorno un'occhiata senza incontrare  un'orecchia  di  porco,  una
foglia di albero o una punta di corona. Il signor Conte e  la  signora  Contessa
nel loro talamo sconfinato erano letteralmente investiti da una fantasmagoria di
stemmi e di trofei famigliari; e quel glorioso  spettacolo,  imprimendosi  nella
fantasia prima di spegnere il lume, non  potea  essere  che  non  imprimesse  un
carattere aristocratico anche nelle funzioni piú segrete e  tenebrose  del  loro
matrimonio. Certo se le pecore di Giacobbe ingravidavano di agnelli pezzati  pei
vimini di vario colore che vedevano nella fontana, la signora Contessa non dovea
concepire  altro  che  figliuoli  altamente  convinti  e   beati   dell'illustre
eccellenza del loro lignaggio. Ché se gli  avvenimenti  posteriori  non  diedero
sempre ragione a questa ipotesi, potrebbe anche esser stato per difetto piú  del
signor Conte che della signora Contessa. La contessina Clara dormiva vicino alla
nonna nell'appartamento che metteva  in  sala  rimpetto  alla  camera  de'  suoi
genitori. Aveva uno stanzino che somigliava la celletta d'una monaca; e  l'unico
cignale che vi stava intagliato nello stucco della caminiera essa,  forse  senza
pensarvi, lo aveva coperto con una pila di libri. Erano avanzi d'una  biblioteca
andata a male in una cameraccia terrena  per  l'incuria  dei  castellani,  e  la
combinata inimicizia del tarlo dei sorci e dell'umidità. La Contessina, che  nei
tre anni vissuti in convento s'era rifugiata nella lettura contro le noie  e  il
pettegolezzo delle monache, appena rimesso piede  in  casa  erasi  ricordata  di
quello stanzone ingombro di volumi sbardellati e di cartapecore;  e  si  pose  a
pescarvi entro quel poco  di  buono  che  restava.  Qualche  volume  di  memorie
tradotte dal francese, alcune storie di quelle antiche italiane che  narrano  le
cose alla casalinga e senza rigonfiature, il Tasso, l'Ariosto, e il Pastor  Fido
del Guarini, quasi tutte le commedie del Goldoni stampate pochi anni prima, ecco
a quanto si ridussero i suoi guadagni. Aggiungete a tuttociò  un  uffizio  della
Madonna e qualche manuale di divozione ed  avrete  il  catalogo  della  libreria
dietro cui si nascondeva nella stanza di Clara il cignale gentilizio.  Quando  a
piede sospeso ella si era avvicinata al letto della nonna  per  assicurarsi  che
nulla turbava la placidezza dei suoi sonni, tenendo la mano dinanzi  la  lucerna
per diminuirne il riverbero contro le pareti, si riduceva nella sua  celletta  a
squadernar taluno  di  quei  libri.  Spesso  tutti  gli  abitanti  del  castello
dormivano della grossa che il lume della lampada traluceva ancora dalle  fessure
del suo balcone; e quando poi ella prendeva in mano o la Gerusalemme Liberata  o
l'Orlando Furioso  (gli  identici  volumi  che  non  avean  potuto  decidere  la
vocazione militare di suo zio monsignore) l'olio mancava al lucignolo prima  che
agli occhi della giovine la volontà di leggere. Si perdeva con Erminia sotto  le
piante ombrose e la seguiva nei placidi alberghi dei pastori;  s'addentrava  con
Angelica e con Medoro a scriver versi d'amore sulle muscose pareti delle grotte,
e delirava anche talora col pazzo Orlando e piangeva di compassione per lui.  Ma
soprattutto le vinceva l'animo di pietà la fine  di  Brandimarte,  quando  l'ora
fatale gli interrompe sul labbro il nome dell'amante e sembra quasi che  l'anima
sua passi a  terminarlo  e  a  ripeterlo  continuamente  nella  felice  eternità
dell'amore. Addormentandosi dopo questa lettura, le pareva talvolta in sogno  di
essere ella stessa la vedova Fiordiligi. Un velo nero  le  cadeva  dalla  fronte
sugli occhi e giù fino a terra;  come  per  togliere  agli  sguardi  volgari  la
santità del suo pianto inconsolabile; un dolore soave melanconico eterno  le  si
diffondeva nel cuore come un eco lontano di flebili armonie:  e  dalla  sostanza
piú pura di quel dolore emanava come uno spirito di speranza che troppo lieve ed
etereo per divagar presso terra spaziava altissimo nel cielo. - Erano fantasie o
presentimenti? - Ella non lo sapeva; ma sapeva  veramente  che  gli  affetti  di
quella sognata Fiordiligi rispondevano appuntino ai sentimenti di  Clara.  Anima
chiusa alle impressioni del mondo, erasi ella serbata come l'aveva  fatta  Iddio
in mezzo alle frivolezze alle scurrilità alle vanaglorie che  l'attorniavano.  E
le divote credenze e i miti costumi di sua  nonna,  appurati  dalle  meditazioni
serene della vecchiaia, si rinnovavano in lei con tutta  la  spontaneità  ed  il
profumo dell'età virginale.  Nella  prima  infanzia  ell'era  sempre  rimasta  a
Fratta, fida compagna dell'antica inferma. Sembrava  fin  d'allora  il  rampollo
giovinetto di castagno che sorge dal vecchio ceppo rigoglioso  di  vita.  Quella
dimora solitaria l'aveva preservata dal  vizioso  consorzio  delle  cameriere  e
dagli insegnamenti che potevano venirle dagli esempi di sua  madre.  Viveva  nel
castello semplice tranquilla e innocente, come la passera che vi celava  il  suo
nido sotto le travature del granaio. La sua bellezza cresceva coll'età, come  se
l'aria ed il sole in cui si tuffava da mane  a  sera  colla  robusta  noncuranza
d'una campagnuola, vi si mescessero entro a ingrandirla e ad illuminarla. Ma era
una grandezza buona, una luce modesta e gradevole al pari di quella della  luna;
non il barbaglio strano e guizzante del lampo.  Regnava  e  splendeva  come  una
Madonna fra i ceri dell'altare. Infatti le sue sembianze arieggiavano una pace e
religiosa e quasi celeste; si comprendeva  appena  vedendola  che  sotto  quelle
spoglie gentili e armoniose il fervore della divozione si mescolava colla poesia
di un'immaginazione pura nascosta operosa e colle piú  ingenue  squisitezze  del
sentimento. Era il fuoco del mezzodí  riverberato  dalle  ghiacciaie  candide  e
adamantine del settentrione. Le semplici contadine dei dintorni la chiamavano la
Santa; e ricordavano con venerazione il giorno della sua prima comunione, quando
appena ricevuto il  mistico  pane  la  era  svenuta  di  consolazione  di  paura
d'umiltà; ed elleno dicevano invece che Dio  l'aveva  chiamata  in  estasi  come
degna che la era d'un piú stretto sposalizio con  essolui.  Anche  la  Clara  si
risovveniva con una gioia  mista  di  tremore  di  quel  giorno  tutto  celeste;
assaporando sempre colla memoria quei sublimi rapimenti  dell'anima  invitata  a
partecipare per la prima volta al piú alto e soave  mistero  di  sua  religione.
Tenetevi ben a mente ch'io narro d'un tempo in cui la fede era ancora di moda, e
produceva negli spiriti eletti quei  miracoli  di  carità  di  sacrifizio  e  di
distacco dalle cose mondane che saranno  sempre  meravigliosi  anche  all'occhio
miscredente del filosofo. Io non catechizzo, né pianto o difendo sistemi;  e  so
benissimo che la divozione, volta in bigottismo dalle anime  false  e  corrotte,
può viziar la coscienza peggio che ogn'altra abitudine di perversità. Vi  ripeto
ancora ch'io non sono divoto; e me  ne  duole  forse  perché  durai  grandissima
fatica a trovare un'altra via per cui salire alla vera e  discreta  stima  della
vita. Dovetti percorrere sovente, col disinganno al fianco,  e  la  disperazione
dinanzi  agli  occhi,  tutta  la  profondità  dell'abisso  metafisico;   dovetti
sforzarmi ad allargare la contemplazione d'un animo, diffidente  e  miope  sopra
l'infinita vastità e durevolezza delle cose umane; dovetti chiuder gli occhi sui
piú comuni e strazianti problemi della felicità, della  scienza  e  della  virtù
contraddicenti fra loro; dovetti io, essere  socievole  e  soggetto  alle  leggi
sociali, rinserrarmi nel baluardo della coscienza per sentire la  santità  e  la
vitalità eterna e forse l'attuazione futura di quelle leggi morali che ora  sono
derise calpestate violate per tutti i modi; dovetti infine, uomo  superbo  della
mia ragione e d'un  vantato  impero  sull'universo,  inabissarmi,  annichilirmi,
atomo invisibile, nella vita  immensa  ed  immensamente  armonica  dello  stesso
universo, per trovar una scusa a quella fatica che si chiama esistenza,  ed  una
ragione a quel fantasma che si chiama speranza. Ed  anco  questa  scusa  tremola
dinanzi alla ragione invecchiata, come una fiamma di candela sbattuta dal vento;
e tardi m'accorgo che la fede è migliore della scienza per la felicità.  Ma  non
posso pentirmi del mio stato morale; perché la necessità non ammette pentimenti;
non posso e non debbo arrossirne; perché una dottrina che nella pratica  sociale
accoppia la  fermezza  degli  stoici  alla  carità  evangelica,  non  potrà  mai
vergognar di se stessa qualunque siano i suoi fondamenti filosofici.  Ma  quanti
sudori, quanti dolori, quanti anni, quanta costanza per arrivare a ciò! Ebbi  la
pazienza della formica, che, capovolta dal vento, cento volte perde la sua  soma
e cento la riprende per compiere a passi invisibili il suo lungo cammino.  Pochi
m'avrebbero imitato e pochi m'imitano in fatti. I piú gettano a mezza strada una
bussola malfida da cui furono il piú delle volte  ingannati;  e  si  abbandonano
giorno per giorno al vento che spira. Vien poi l'ora di raccoglier le  vele  nel
porto; e il loro arrivo è necessariamente un naufragio.  O  s'affidano  a  guide
fallaci, alleate delle loro passioni, e bevono con compunzione lagrime  spremute
dagli occhi altrui: o cancellano la vita  dello  spirito,  non  sapendo  che  lo
spirito si ridesta quandochessia a patire  tutti  in  una  volta  i  dolori  che
dovevano preparargli la strada alla morte. Meglio la fede anche ignorante che il
nulla vuoto e silenzioso. Vi sono ora leggiadre donzelle e giovinotti  di  garbo
le cui mire son tutte volte ai godimenti materiali: le comodità,  le  feste,  le
pompe sono loro soli desiderii; sola cura il danaro che provvede  d'un  lauto  e
perenne pascolo quei desiderii;  perfino  il  loro  spirito  non  cerca  qualche
nutrimento  che  per  farsene  bello  agli  occhi  della  gente,  e  non  provar
l'incommodo di dover arrossire. Del  resto  la  mente  di  costoro  non  conosce
diletti che sieno veramente suoi. Domandate ad essi se vorrebbero esser stati  o
Scipioni, o Dante, o Galileo; vi risponderanno che i Scipioni e Dante e  Galileo
sono morti. Per loro la vita è  tutto.  Ma  quando  dovranno  abbandonarla?  Non
vogliono pensarci! Non vogliono; dicono essi; io soggiungo che non possono,  che
non osano. E se l'osassero avrebbero a scegliere fra la  pistola,  suicidio  del
corpo, e il fastidio della vita, suicidio dell'anima. Questo è  il  destino  dei
piú forti o dei piú sventurati. La fede a' suoi tempi era  almeno  una  idealità
una forza un conforto; e chi non  aveva  il  coraggio  di  soffrire  cercando  e
aspettando, avea la fortuna di sopportare credendo. Ora la fede se ne va,  e  la
scienza viva e completa non è venuta  ancora.  Perché  dunque  glorificar  tanto
questi tempi che i piú ottimisti chiamano di transizione? Onorate il passato  ed
affrettate il futuro; ma vivete nel presente coll'umiltà e coll'attività di  chi
sente la propria impotenza e insieme il bisogno di trovare  una  virtù.  Educato
senza le credenze del passato e senza la fede nel futuro, io cercai indarno  nel
mondo un luogo di riposo pei miei pensieri. Dopo  molti  anni  strappai  al  mio
cuore un brano sanguinoso sul quale era scritto giustizia, e conobbi che la vita
umana è un ministero di giustizia, e l'uomo un sacerdote di essa,  e  la  storia
un'espiatrice che ne registra i sagrifici a vantaggio  dell'umanità  che  sempre
cangia e sempre vive. Antico d'anni piego il mio capo sul guanciale della tomba:
e addito questa parola di fede a norma di coloro  che  non  credono  piú  e  pur
vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione. La fede non si comanda;
neppur da noi a noi. A chi compiange la mia cecità, e lagrima nella mia vita uno
sforzo virtuoso ma inutile  che  non  avrà  ricompensa  nei  secoli  eterni,  io
rispondo: Io sono padrone in faccia agli altri uomini del mio  essere  temporale
ed eterno. Nei conti fra me e Dio a voi  non  tocca  intromettervi.  Invidio  la
vostra fede, ma non posso impormela. Credete adunque, siate felici, e lasciatemi
in pace. La contessina Clara oltre all'esser credente era  devota  e  fervorosa:
perché all'anima sua non bastava  la  fede  e  le  si  voleva  inoltre  l'amore.
Peraltro la sua voce di santità non era soltanto raccomandata al fervore e  alla
frequenza delle pratiche religiose; ma anche meglio ad atti continui ed  operosi
delle piú sante virtù. Il suo portamento non mostrava l'umiltà della guattera  o
della massaia; ma quella della  contessa  che  deriva  da  Dio  le  sproporzioni
sociali e si sente dinanzi a  lui  uguale  all'essere  piú  abbietto  dell'umana
famiglia. Aveva quello che si dice il dono della seconda vista per indovinare le
afflizioni altrui; e quello della semplicità, per esserne fatta di  comun  grado
consigliera, e consolatrice. Alla ricchezza dava quel valore che le  veniva  dal
bisogno dei poveri: il vero valore, come dovrebbe stabilirlo la  sana  economia,
per diventar benemerita dell'umanità. La gente  diceva  ch'ella  aveva  le  mani
bucate; ed era vero, ma non se ne accorgeva, come di un  dovere  necessariamente
adempito; come non ci accorgiamo noi del sangue che circola e  del  polmone  che
respira. Era affatto incapace di  odio,  anche  contro  i  cattivi;  perché  non
disperava del ravvedimento. Tutti gli esseri del creato erano suoi  amici  e  la
natura non ebbe mai figliuola piú amorosa e  riconoscente.  L'andava  tant'oltre
che non voleva veder per casa trappole da sorci, e camminando  in  un  prato  si
distoglieva per non calpestar un fiore, o una zolla d'erba  rinverdita.  Eppure,
senza esagerazioni poetiche, aveva l'orma cosí leggera che il fiore non  chinava
che un momento il capo sotto il suo tallone, e l'erba non  si  accorgeva  neppur
d'esserne calpestata. S'ella teneva uccellini in gabbia, era  per  liberarli  al
venir della  primavera;  e  talvolta  s'addomesticava  tanto  con  quei  vezzosi
gorgheggiatori che le doleva il cuore nel separarsene. Ma cos'era mai per  Clara
il proprio rammarico quando ne andava di mezzo il bene  d'un  altro?  Apriva  lo
sportello della gabbia con un sorriso fatto piú bello da due lagrime; e talvolta
gli uccelletti venivano a becchettarle le dita prima di volar via;  e  restavano
anche per qualche giorno nelle vicinanze del castello visitando con sicurezza la
finestra ove avean vissuto la mala  stagione  prigionieri  e  felici.  Clara  li
riconosceva; e sapeva loro grado dell'affettuosa ricordanza  che  le  serbavano.
Allora pensava che le cose di questo mondo son  buone;  e  che  gli  uomini  non
potevano esser cattivi, se tanto grati ed amorosi le si mostravano i  cardellini
o le cinciallegre. La nonna sorrideva dalla sua poltrona  vedendo  le  tenere  e
commoventi fanciullaggini della nipote. E si guardava bene dal deriderla, perché
sapeva per esperienza, la  buona  vecchia,  che  l'abitudine  di  quei  dilicati
sentimenti fanciulleschi prepara per le altre età un'inesausta sorgente di gioie
modeste, ma purissime e non caduche né invidiate. Nei tre anni  che  dimorò  nel
convento delle Salesiane di San Vito, la fanciulla fu beffeggiata abbastanza per
queste sue moine: ma ella ebbe il buon cuore di non vergognarsene, e la costanza
di non rinnegarle. Laonde quando uscí a riprendere presso il letto  della  nonna
il suo uffizio d'infermiera,  la  trovarono  ancora  la  stessa  Clara  semplice
modesta servizievole facile al riso ed alle lagrime per qualunque  gioia  e  per
qualunque cruccio che non fosse suo  proprio.  La  Contessa,  trapiantandosi  da
Venezia a Fratta, trovatala un po' salvatica, avea inteso dirozzarla coi  soliti
dieci anni di monastero; ma dopo un  triennio  cominciò  a  dire  che  la  Clara
essendo d'indole svegliata doveva averne avuto abbastanza. Il vero si  era,  che
la cura della suocera le pesava troppo, e per non sacrificare a ciò tutto l'anno
una donna di servizio le parve un doppio sparagno quello di riprender in casa la
figlia. D'altra parte i suoi sfoggi di Venezia aveano  sbilanciato  alquanto  la
famiglia, ed essendosi allora  in  pensiero  di  provvedere  all'educazione  del
figliuol maschio, si volle stringer un po' la mano nella spesa per  le  femmine.
Le erano già due, perché  la  Contessa  portava  in  grembo  la  Pisana,  quando
deliberò di levar dalle monache la Clara, e non dubitava nemmeno  di  esser  per
partorire una bambina alla quale aveva già  scelto  fin  d'allora  il  nome,  in
ossequio della madre sua ch'era stata una Pisani. Cosí eran ite le cose mentr'io
poppava e trangugiava pappa in tutte le case di Fratta; ma quando fui  sui  nove
anni, e la Pisana ne aveva sette e  il  contino  Rinaldo  forniva  la  Rettorica
presso i reverendi padri Somaschi, la  contessina  Clara  era  già  cresciuta  a
perfetta avvenenza di giovane. Credo  la  toccasse  allora  i  diciannove  anni,
benché non li mostrava per quella sua delicatezza di tinte che le  serbò  sempre
le apparenze della gioventù. La sua mente si era arricchita di buone  cognizioni
pei libri ch'era venuta leggendo, e d'ottimi pensieri pel tranquillo svilupparsi
d'un'indole pietosa e meditativa; la sensibilità le si esercitava piú  utilmente
nei soccorsi che distribuiva alle povere  donne  del  paese,  senza  aver  nulla
perduto della sua grazia infantile. Amava ancora gli augelletti ed i  fiori,  ma
vi pensava meno, allora che il tempo le era tolto da cure piú rilevanti;  e  del
resto la sua serenità durava ancora la  stessa,  fatta  ancora  piú  incantevole
dalla coscienza che la irraggiava d'una  sicurezza  celeste.  Quando  dopo  aver
aiutato la nonna a spogliarsi ella entrava  nel  tinello,  e  sedeva  vicino  al
tavolino ove giocava sua madre, col suo  ricamo  bianco  in  una  mano  e  l'ago
nell'altra, la sua presenza attirava tutti gli sguardi e bastava a  raggentilire
per un quarto d'ora la voce ed i discorsi dei giocatori. La Contessa, che  aveva
sufficiente avvedutezza, notava questo effetto ottenuto  dalla  figlia  e  n'era
anche discretamente gelosa; colla sua cuffia di merlo e con tutta  la  boria  di
casa Navagero scolpita sulla fisonomia, ella non aveva mai ottenuto altrettanto.
Perciò se dapprima la  si  sforzava  di  moderare  la  loquacità  soventi  volte
sussurrona  e  villanesca  della  compagnia,  in  quel  momento  di  tregua   la
s'indispettiva di non udirla continuare, ed era ella la prima  a  stuzzicare  il
Capitano o l'Andreini perché ne dicessero delle loro. Il signor Conte gongolava,
vedendo la moglie prender piacere alla conversazione del castello; e  Monsignore
sbirciava la cognata di traverso non comprendendo da cosa derivassero que'  suoi
accessi affatto insoliti e un po' anche stizzosi di affabilità. Io  era  piccino
allora, eppur dal buco della serratura donde rimaneva qualche tratto  spettatore
del gioco, comprendeva benissimo la stizza o il buon umore  della  Contessa;  lo
comprendeva anche la Clara; perché mi  ricordo  ancora  che  se  il  Capitano  o
l'Andreini rispondevano di malgarbo agli inviti dell'illustrissima  padrona,  un
lieve rossore le coloriva le tempie. Mi par ancora di vederla,  quell'angelo  di
donzella, raddoppiar allora di attenzione  sul  suo  ricamo,  e  per  la  fretta
imbrogliarsi le dita nel filo. Son poi sicuro che quel rossore proveniva piucché
altro dal timore che non fosse di  pretta  superbia  il  pensiero  che  in  quei
momenti le attraversava la mente. Ma Monsignore come  avrebbe  potuto  capire  o
sospettar tutto ciò? Lo ripeto. Io aveva nove anni ed egli sessanta sonati; egli
canonico in sarrocchino e in calze rosse, io quasi trovatello scamiciato e senza
scarpe; e con tutto questo, ad onta che egli si chiamasse Orlando ed io Carlino,
io di mondo e di morale me n'intendeva piú di lui. L'era il teologo piú semplice
del clero cattolico; ne metto la mano sul fuoco. Intorno a quel tempo le  visite
al castello di Fratta, massime dei giovani di Portogruaro e del  territorio,  si
facevano piú frequenti. Non l'era piú questo un  privilegio  delle  domeniche  o
delle sere delle vendemmie, ma tutto l'anno, anche nel verno piú crudo e nevoso,
capitava a piedi o a cavallo, coll'archibugio in ispalla e il  fanaletto  appeso
in punta, qualche coraggioso visitatore. Non so se la  Contessa  si  attribuisse
l'onore di attirar quelle visite; certo si dava molto attorno per far la vispa e
la graziosa. Ma in onta alle attrattive della sua età  rispettabile  e  piú  che
matura gli occhi di quei signorini erano molto svagati finché  non  capitasse  a
concentrarli in sé il visetto geniale della Clara. Il Vianello di Fossalta  come
il piú vicino era anche il piú assiduo; ma anche il Partistagno non  gli  cedeva
di molto benché il suo castello di Lugugnana fosse sulla marina ai confini della
pineta, un sette miglia buone lontano da Fratta.  Questa  lontananza  forse  gli
dava il diritto di anticipar le sue visite; e molte volte si  combinava  ch'egli
capitasse proprio nel punto che la Clara usciva per incontrare  la  mamma  nella
passeggiata. Allora voleva la convenienza ch'egli le fosse compagno, e Clara  vi
accondiscendeva  cortesemente  benché  i  modi  aspri  e  risoluti  del  giovane
cavaliere non s'attagliassero molto a' suoi gusti. Quando finiva  il  gioco,  la
Contessa non mancava mai d'invitar il Partistagno a fermarsi a Fratta la  notte,
lamentando sempre la perfidia l'oscurità e la lunghezza della strada; ma egli si
scansava con un grazie, e buttata a Clara un'occhiatina che  era  rade  volte  e
solo per caso corrisposta, andava nella scuderia a farsi insellare il suo  saldo
corridore  furlano.  S'imbacuccava  ben  bene  nel  ferraiuolo,  imbracciava  la
coreggia del moschetto coll'indispensabile  fanale  sulla  cima,  e  balzato  in
arcione usciva di gran trotto dal ponte levatoio  assicurandosi  colla  mano  se
nelle fonde laterali v'erano  ancora  le  pistole.  Cosí  passava  via  come  un
fantasma per quelle stradaccie tenebrose e infossate, ma le piú volte si fermava
a dormire a San Mauro, due miglia discosto, dove  sopra  un  suo  podere  s'avea
accomodate per maggior comodo quattro stanze d'una casa colonica. La  gente  del
territorio aveva un profondissimo rispetto pel Partistagno, pel suo moschetto  e
per le sue pistole; ed anco pei suoi pugni, quando non aveva armi; ma quei pugni
pesavano tanto, che dopo buscatine un paio nello stomaco non si avea  d'uopo  né
di palla né di pallini per andarne al Creatore.  Il  Vianello  invece  veniva  e
partiva le sere a piedi, col suo fanaletto appeso al bastone e  proteso  davanti
come la borsa del santese durante i riposi  della  predica.  Pareva  non  avesse
armi; benché cercandogli forse nelle tasche si avrebbe trovata un'ottima pistola
a due canne, arma a quei  tempi  non  molto  comune.  Del  resto,  essendo  egli
figliuolo del medico di Fossalta, partecipava un poco dell'inviolabilità paterna
e nessuno  avrebbe  osato  molestarlo.  I  medici  d'allora  contavano,  secondo
l'opinione volgare, nel novero degli stregoni; e nessuno si sentiva tanto ardito
di provocarne le vendette. Ne fanno tante, senza saperlo, ora (delle  vendette);
al secolo passato ne facevano tre doppi piú; figuratevi poi  se  vi  si  fossero
accinti con premeditazione! - Per poco non si credevano capaci  d'appestare  una
provincia, e conosco io una famiglia  patriarcale  di  quei  paesi,  dove  anche
adesso prima di chiamar il medico si recitano alquante orazioni alla Madonna per
pregarla che ne accompagni la visita colla buona fortuna.  Il  dottor  Sperandio
(bel nome per un dottore e che dava di per sé un buon consiglio ai  malati)  non
aveva nulla nella sua figura che si opponesse alla fama stregonesca di cui  egli
e i suoi colleghi erano onorati. Portava un parruccone di lana  o  di  crine  di
cavallo, nero come l'inchiostro, che gli  difendeva  bene  contro  il  vento  la
fronte le orecchie e la nuca; e per di piú un cappellaccio  a  tre  punte,  nero
anch'esso e vasto come  un  temporale.  A  vederlo  venir  da  lontano  sul  suo
cavalluccio magro sfinito color della cenere come un asinello, somigliava piú un
beccamorti che un medico. Ma quando smontava  e  davanti  al  letto  del  malato
inforcava gli occhiali per osservargli  la  lingua,  allora  pareva  proprio  un
notaio che si preparasse a formulare un  testamento.  Per  solito  egli  parlava
mezzo latino, e mezzo friulano; ma il dopopranzo ci metteva del latino  per  tre
quarti; e verso notte, dopo aver bevuto il boccale dell'Avemaria, la dava dentro
in Cicerone a tutto pasto. Cosí se la mattina ordinava un lenitivo, la sera  non
adoperava che i drastici; e le sanguette del dopopranzo si mutavano  all'ora  di
notte in salassi. Il coraggio gli  cresceva  colle  ore;  e  dopo  cena  avrebbe
asportato la testa  d'un  matto  colla  speranza  che  l'operazione  lo  avrebbe
guarito. Nessun dottor fisico né chirurgo o flebotomo ha mai avuto lancette  piú
lunghe e rugginose delle sue. Credo le fossero proprio vere lancie di Unni o  di
Visigoti disotterrate negli scavi di Concordia; ma egli  le  adoperava  con  una
perizia singolare; tantoché nella sua lunga carriera non ebbe a  stroppiare  che
il braccio d'un paralitico; e l'unico sconcio che gli intervenisse di  frequente
era la difficoltà di stagnar il sangue tanto  erano  larghe  le  ferite.  Se  il
sangue non si fermava colla polvere  di  drago  egli  ricorreva  al  ripiego  di
lasciarlo colare, citando in latino un  certo  assioma  tutto  suo,  che  nessun
contadino muore svenato. Seneca infatti  non  era  contadino,  ma  filosofo.  Il
dottor Sperandio teneva in grandissimo conto l'arte di Ippocrate  e  di  Galeno.
Era dovere di riconoscenza: perché, oltre all'esser campato di  essa,  se  n'era
avanzato di che comperare una casa ed un poderetto contiguo in  Fossalta.  Aveva
percorso gli studi a Padova, ma nominava con maggior venerazione  la  Scuola  di
Salerno e l'Università di Montpellieri; nelle ricette poi  si  teneva  molto  ai
semplici, massime a quelli che si trovano indigeni nei paludi e lungo le  siepi,
metodo anticristiano che lo metteva in frequenti discrepanze collo speziale  del
paese. Ma il dottore era uomo di coscienza e  siccome  sapeva  che  lo  speziale
estraeva dalla flora indigena anche i medicamenti forestieri, cosí  sventava  la
frode colla abbominevole semplicità de' suoi rimedii. In quanto a teorie sociali
l'era un tantin egiziano. Mi spiego. Egli parteggiava  per  la  stabilità  delle
professioni nelle famiglie, e voleva ad ogni costo che suo figlio ereditasse  da
lui i clienti e le lancette. Il  signor  Lucilio  non  divideva  quest'opinione,
rispondendo che il diluvio c'era stato per nulla se  non  avea  sommerso  neppur
queste  rancide  dottrine  di  tirannia  ereditaria.   Però   si   era   piegato
all'obbedienza,  e  aveva  studiato  i  suoi  cinque  anni  nell'antichissima  e
sapientissima Università di Padova. Era uno scolaro molto notevole  per  la  sua
negligenza; che non solea mai sfigurare nelle rare comparse; che litigava sempre
coi nobiluomini e coi birri, e che ad ogni nevata accorreva sempre il  primo  al
parlatorio delle monache di Santa Croce per annunciare la novità. È noto  piú  o
meno che chi riusciva in questa priorità, aveva dalle reverende il regalo  d'una
bella cesta di sfogliate. Lucilio Vianello ne avea vuotate molte di queste ceste
prima di ottenere la laurea. Ma ora siamo al punto dell'eterna quistione fra lui
e il suo signor padre. Non ci avea modo che questi potesse indurlo a  conseguire
quella benedetta laurea. Gli metteva in tasca i denari del viaggio per  l'andata
ed il ritorno, piú l'occorrente per la dimora d'un mese, piú la tassa del  primo
esame; lo imbarcava a Portogruaro sulla barca postale  di  Venezia;  ma  Lucilio
partiva, stava e tornava senza denari e senza aver fatto l'esame. Sette volte in
due anni egli fu assente in questo modo ora un mese ed ora due; e  i  professori
della Facoltà medica non avevano ancora assaggiato la  sua  prima  propina.  Che
faceva egli mai durante quelle assenze? Ecco  quello  che  il  dottor  Sperandio
s'incaponiva di voler discoprire, senza venirne a capo di nulla.  Sulla  settima
scoperse finalmente che il suo signor figlio non si prendeva neppur la briga  di
arrivare fino a Padova; e che giunto a Venezia vi si trovava tanto bene  da  non
ritener opportuno di andar oltre a spendere i denari del papà. Questo  poi  egli
lo seppe da un suo patrono senatore, da un certo nobiluomo Frumier, cognato  del
Conte di Fratta, che villeggiava nella  bella  stagione  a  Portogruaro,  e  che
insieme lo ammoniva  della  condotta  alquanto  sospetta  tenuta  da  Lucilio  a
Venezia, a cagion della quale i signori  Inquisitori  lo  tenevano  paternamente
d'occhio. - Giuggiole! non ci voleva altro!  Il  dottor  Sperandio  abbruciò  la
lettera, ne scompose le ceneri colla paletta, guardò in cagnesco Lucilio che  si
asciugava rimpetto a lui le uose di bufalo; ma per lunga pezza non gli parlò piú
della laurea. Peraltro lo menava in pratica con lui per esperimentare  il  grado
della sua erudizione nella scienza d'Esculapio; e siccome s'era trovato contento
della prova, s'era messo a mandarlo qua e là per rivedere le lingue e  le  orine
d'alquanti villani visitati da lui la mattina. Lucilio apriva  sul  taccuino  le
partite di Giacomo, di Toni e di Matteo colla triplice rubrica di polso,  lingua
ed orina: poi di mano in mano che faceva  le  visite  empiva  la  tabella  colle
indicazioni richieste, e la riportava in buon ordine al  suo  signor  padre  che
talora ne strabiliava per certi cambiamenti e strabalzi repentini non soliti  ad
avvenire nelle malattie della gente di badile. - Come! lingua netta ed  umida  a
Matteo, che è a letto da ieri con una febbre mescolata di mal putrido!  Putridum
autem septimo aut quatuordecimo tantumque die in sudorem aut fluxum ventris  per
purgationes resolvitur. La lingua netta ed umida! Ma se stamattina l'aveva arida
come la lesca, e con due dita di patina sopra... - Oh veh veh! polso convulso la
Gaetana! Ma se oggi le ho contato cinquantadue battute al minuto  e  le  ordinai
anzi in pozione vinum tantummodo pepatum et infusione canellae oblungatum!  Cosa
vorrà dire?... Vedremo domani! Nemo humanae natura pars qua nervis  praestet  in
faenomenali mutatione ac subitaneitate. Andava poi la dimane  e  trovava  Matteo
colla sua lingua sporca e la Gaetana col polso arrembato in onta  al  pepe  alla
cannella ed al vino. La ragione di questi miracoli  era  che  per  quella  volta
Lucilio, non sentendosi voglia di far le visite, aveva architettato ed empiuto a
capriccio la sua tabella all'ombra d'un gelso. La rimetteva poi al signor  padre
per far disperare le sue teorie de qualitate et sintomatica morborum.  Vi  erano
peraltro certe occasioni  nelle  quali  al  giovane  non  dispiaceva  di  essere
licenziato in medicina dalla Università patavina,  quando  per  esempio,  appena
capitato, la Rosa lo  pregava  di  salire  dalla  Contessa  vecchia  che  andava
soggetta a mali di nervi e si faceva ordinar da lui qualche pozione di laudano e
d'acqua coobata per calmarli. Lucilio pareva nudrisse per  la  quasi  centenaria
signora una riverenza mista d'amore e di venerazione; laonde non vedeva cure  ed
accorgimenti che bastassero per mantener una vita cosí degna e  preziosa.  Stava
ad udirla sovente con quella attenzione che somiglia stupore e dà indizio di  un
gratissimo piacere e quasi d'un melodioso solletico  prodotto  nell'animo  dalle
parole altrui. Benché egli poi fosse d'un temperamento chiuso e  riserbato,  nel
ragionare con lei s'incaloriva per non volontaria ingenuità e  non  si  schivava
dal parlarle di sé  e  delle  proprie  cose,  come  ad  una  madre.  Nessuno,  a
credergli, soffriva al pari di lui d'esser orfano, giacché la moglie del  dottor
Sperandio gli era morta nel puerpèrio di  quell'unico  figliolo;  onde  sembrava
cercar conforto al dolore d'una tale mancanza nell'affetto quasi materno che gli
inspirava la nonna di Clara. A poco a poco la vecchia  s'avvezzò  alla  cordiale
dimestichezza di quel giovine; lo facea chiamare anche se non aveva bisogno  del
medico; ascoltava da lui volentieri le novelle della giornata, e compiacevasi di
trovarlo differente d'assai  dai  giovinastri  che  frequentavano  il  castello.
Veramente Lucilio meritava una tal distinzione; aveva letto molto,  s'era  preso
di grande amore per la storia, e siccome sapeva che ogni  giorno  è  una  pagina
negli annali dei popoli, teneva  dietro  con  premura  a  quei  primi  segni  di
sconvolgimenti che apparivano sull'orizzonte  europeo.  Gli  Inglesi  non  erano
allora troppo ben veduti dal patriziato veneziano; forse per la  stessa  ragione
che il fallito non può guardar di buon occhio i nuovi padroni  dei  suoi  averi.
Perciò egli magnificava sempre le imprese degli Americani e la civile  grandezza
di Washington che aveva sciolto dalla soggezione dei Lordi tutto un nuovo mondo.
L'inferma lo udiva volentieri narrar casi e battaglie che volgevano sempre  alla
peggio degli Inglesi, e s'univa con lui in un caldo entusiasmo  per  quel  patto
federale che avea loro tolto per sempre il  possesso  delle  colonie  americane.
Quando poi egli parlava  a  labbra  strette  delle  vicende  di  Francia  e  dei
ministeri che vi si sbalzavano l'un l'altro, e del Re che non sapeva piú a  qual
partito appigliarsi, e delle mene della  Regina  germanizzante,  allora  entrava
ella a raccontare le cose de' suoi tempi e le splendidezze della  corte,  e  gli
intrighi e la servilità dei cortigiani, e la superba e quasi lugubre  solitudine
del gran Re, sopravvissuto a tutta la gloria di cui  l'avevano  ricinto  i  suoi
contemporanei, per assistere alla frivolezza e alla turpitudine dei nipoti. Ella
discorreva con raccapriccio dei costumi sfacciatamente osceni che si  auguravano
fin d'allora dalla nuova generazione, e ringraziava il cielo che  proteggeva  la
Repubblica di San Marco contro l'invasione di quella pestilenza.  Passata  dalla
Corte di Francia al castello di Fratta, ella ricordava Venezia com'era stata nei
primordi del Settecento, non indegna ancora del  suffragio  serbatole  nel  gran
consiglio degli Stati europei; non poteva conoscere quanto in quel frattempo,  e
con qual lusinghiera orpellatura di eleganza, le sconcezze di  Versailles  e  di
Trianon venissero copiate vogliosamente a Rialto e nei palazzi del Canal Grande.
Quando la nipote le leggeva  talune  delle  commedie  di  Goldoni,  ella  se  ne
scandolezzava e le faceva saltar via qualche pagina; qualche volume  anche  avea
creduto bene di toglierselo lei e serrarlo sotto chiave; né avrebbe mai figurato
che quanto a lei sembrava sfrenatezza di  lingua  e  licenza  di  pensieri,  nei
teatri di San Benedetto o di Sant'Angelo  facesse  anzi  l'effetto  di  sferzare
costumi ancor piú rotti e sfrontati. Talvolta anche si veniva sul discorso delle
riforme già incominciate da Giuseppe II, massime nelle faccende  ecclesiastiche;
e la vecchia divota non sapeva bene se  dovesse  increscerle  di  quel  vitupero
fatto alla  religione,  o  consolarsene  di  vederlo  fatto  da  tal  nemico  ed
antagonista della Repubblica che ne sarebbe poi sicuramente punito dalla mano di
Dio. I Veneziani sentivano da  gran  tempo,  massime  nel  Friuli,  la  pressura
dell'Impero; e se aveano resistito colla forza  al  tempo  della  lor  grandezza
militare, e cogli accorgimenti  politici  al  tempo  della  perdurante  sapienza
civile, allora poi che questa e quella eransi perdute nell'ignavia universale, i
meglio  pensanti  si  accontentavano  di  fidare  nella  Provvidenza.  Ciò   era
compatibile in una vecchia, non in un senato di governanti.  Ognuno  sa  che  la
Provvidenza coi nostri pensieri coi nostri sentimenti colle nostre opere  matura
i propri disegni; e a volersi aspettar da lei la pappa fatta, l'era o  un  sogno
da disperati o una lusinga proprio da  donnicciuole.  Perciò  quando  la  Badoer
cadeva in questa bambolaggine di speranza, Lucilio  non  potea  far  a  meno  di
scuotere il capo; ma lo scoteva mordendosi le labbra e frenando un  sogghignetto
che gli scappava fuori dagli angoli, rimpiattandosi sotto due baffetti sottili e
nerissimi. Scommetto che le riforme dell'Imperatore e la malora di San Marco non
gli spiacevano tanto come voleva mostrarlo. La  conversazione  non  si  aggirava
sempre sopra questi altissimi argomenti; anzi li toccava  molto  di  rado  e  in
difetto di argomenti piú vicini. Allora i vapori i telegrafi e le strade ferrate
non avevano attuato ancora il gran dogma morale dell'unità umana; e ogni piccola
società, relegata in se stessa dalle  comunicazioni  difficilissime,  e  da  una
indipendenza  giurisdizionale  quasi  completa,  si  occupava   anzi   tutto   e
massimamente di sé, non curandosi del resto del mondo che come d'un pascolo alla
curiosità. Le molecole andavano sciolte nel caos, e la forza centrípeta  non  le
aveva condensate ancora in altrettanti sistemi ingranati gli uni negli altri  da
vicendevoli influenze attive o passive. Cosí gli abitanti di Fratta vivevano,  a
somiglianza degli dei di Epicuro,  in  un  grandissimo  concetto  della  propria
importanza; e quando la tregua de' loro negozii o  dei  piaceri  lo  consentiva,
gettavano qualche occhiata d'indifferenza o di curiosità a destra o a  sinistra,
come l'estro portava. Questo spiega il perché nel  secolo  passato  fosse  tanta
penuria di notizie statistiche e la geografia si perdesse a registrare piuttosto
le stranezze dei costumi e le favole dei viaggiatori, che non le vere condizioni
delle provincie. Piucché da imperfezione di mezzi o da  ignoranza  di  scrittori
dipendeva ciò dal talento dei lettori. Il mondo per  essi  non  era  mercato  ma
teatro. Piú sovente adunque i nostri interlocutori  parlavano  dei  pettegolezzi
del vicinato: del tal Comune che aveva usurpato i diritti  del  tal  feudatario;
della lite che se ne agitava dinanzi all'Eccellentissimo Luogotenente,  o  della
sentenza emanata, e dei soldati a piedi ed a cavallo mandati per castigo, o come
si diceva allora, in tansa presso quel Comune a  mangiargli  le  entrate.  -  Si
pronosticavano i matrimoni futuri, e si mormorava anche un tantino di quelli già
stabiliti o compiuti; e per solito i litigi le angherie le discordie dei signori
castellani tenevano un buon posto nel discorso. La vecchiona  parlava  di  tutto
con soavità e con posatezza, come se guardasse le cose dall'alto della sua età e
della sua condizione; ma questo modo di ragionare non era in lei studiato  punto
punto, e vi si frammischiava a raddolcirlo una buona dose  di  semplicità  e  di
modestia cristiana. Lucilio serbava il contegno d'un giovine che gode d'imparare
da chi ne sa piú di lui; e una cotal discrezione in un saputello  infarinato  di
lettere gli accaparrava sempre piú la stima e l'affetto della nonna.  A  vederlo
poi adoperarlesi intorno per renderle  ogni  piccolo  servigio  che  bisognasse,
s'avrebbe proprio detto che l'era un suo vero figliuolo o almeno un uomo stretto
a lei dal legame di qualche gran benefizio ricevuto. Nulla invece di tutto  ciò:
era tutto effetto di buon cuore, di bella creanza... e di furberia.  Non  ve  lo
immaginate?...  Ve  lo  chiarirò  ora  in  poche  parole.  Quando   Lucilio   si
accommiatava dalla vecchia per scendere nel tinello o tornare a Fossalta, costei
restava sola colla Clara, e non rifiniva  mai  dal  lodarsi  bonariamente  delle
compite maniere, e dell'animo gentile ed educato e del savio ragionare  di  quel
giovine. Perfino le fattezze di  lui  le  davano  materia  di  encomiarlo,  come
specchio che le sembravano della sua eccellenza interiore. Le vecchie semplici e
dabbene, quando prendono ad amare taluno, sogliono unire sopra quel solo capo le
tenerezze le cure e perfin le illusioni di tutti gli amori  che  hanno  lasciato
viva una fibra del loro cuore. Perciò non vi so dire se  un'amante  una  sorella
una sposa una madre una nonna si sarebbe stretta ad un uomo con maggior  affetto
che la vecchia Contessa a Lucilio. Giorno per giorno egli avea saputo  ridestare
una fiamma di quell'anima senile, assopita ma non morta nella propria  bontà;  e
da ultimo si era fatto voler tanto bene, che non passava  giorno  senza  ch'egli
fosse desiderato o chiamato a tenerle compagnia. La Clara, per cui erano leggi i
desiderii della nonna, aveva preso  a  desiderarlo  come  lei;  e  l'arrivo  del
giovine era per le due donne un momento di festa.  Del  resto  la  Contessa  non
sospettava nemmeno che il giovine potesse pensare ad altro che a far  una  buona
azione od a ricrearsi fors'anco  nei  loro  colloqui  dall'inutile  chiasso  del
tinello; Lucilio era il figliuol del dottor Sperandio, e  Clara  la  primogenita
del suo primogenito. Se qualche sospetto le avesse attraversato la mente in tale
proposito, ne avrebbe vergognato come d'un giudizio temerario  e  d'un  pensiero
disonesto e colpevole apposto senza ragione a quella perla di giovane. Diciamolo
pure; la era troppo buona ed aristocratica per prendersi ombra di simili  paure.
Il suo affetto per Lucilio prendeva tutti i modi  d'una  vera  debolezza;  e  in
riguardo di lui la tornava a diventar quella che era stata pel  piccolo  Orlando
allorché si trattava di difendere la libertà della sua vocazione. Che  ella  poi
non si accorgesse della piega presa mano a mano nel cuore dei due giovani  dalla
abitudine di vedersi e parlarsi sempre, non c'era da stupirsene. La Clara non se
n'accorgeva essa medesima, e  Lucilio  usava  ogni  artifizio  per  nasconderla.
M'avete capito? Egli avea cercato l'alleanza cieca della vecchia per  vincer  la
giovane. Io sarei ora molto impacciato a guidarvi con  sicurezza  nel  laberinto
che mi parve esser sempre l'animo di questo giovine, e dinotarvene  partitamente
l'indole i pregi ed i difetti. L'era una di quelle nature rigogliose e  bollenti
che hanno in sé i germi di  tutte  le  qualità,  buone  e  cattive;  col  fomite
perpetuo d'un'immaginativa sbrigliata per fecondarle e  il  ritegno  invincibile
d'una volontà ferrea e calcolatrice per guidarle e correggerle. Servo insieme  e
padrone delle proprie passioni piú che nessun altro uomo; temerario e  paziente,
come chi stima altamente la propria forza,  ma  non  vuole  lasciarne  sperperar
indarno neppur un fiato; egoista  generoso  o  crudele  secondo  l'uopo,  perché
dispregiava negli altri uomini l'obbedienza a quelle passioni  di  cui  egli  si
sentiva signore, e credeva che i minori debbano per necessità naturale cedere ai
maggiori, i deboli assoggettarsi ai forti, i vigliacchi ai magnanimi, i semplici
agli accorti. La maggioranza poi, la forza, la magnanimità, l'accortezza egli le
riponeva nel saper volere pertinacemente, e valersi di tutto e  osar  tutto  nel
contentamento della propria volontà. Di tal tempra sono gli uomini che fanno  le
grandi cose, o buone o cattive. Ma come gli si era venuta formando nel suo stato
umile e circoscritto un'indole cosí tenace e robusta, se non  in  tutto  alta  e
perfetta? - Io non ve lo dirò certamente. Forse la lettura dei vecchi storici  e
dei nuovi filosofi; e l'osservazione della società nelle varie comunanze  ov'era
vissuto gliela avevano mutata in persuasione profonda  ed  altera.  Credeva  che
piccoli o grandi si dovesse pensare a quel modo per aver  diritto  di  chiamarsi
uomini.  Grande  un  cotal  temperamento  lo  portava  al  comando;  piccolo  al
dispregio; due diverse superbie delle quali non so qual sia quella che meglio si
converrebbe all'ambizione di Lucifero. Ognuno converrà peraltro che, se  l'animo
suo era difettivo di quella parte sensibile e quasi femminile dove allignano  la
vera gentilezza e la pietà, un potente intelletto  si  richiedeva  a  sostenerlo
cosí  com'era,  superiore  affatto  per  larghezza  di  vedute  e  per   potenza
d'intenzione all'umile sorte che gli parea preparata dal caso  della  nascita  e
delle condizioni meno che modeste. La sua fronte, vasto nascondiglio  di  grandi
pensieri, saliva ancora oltre  i  capelli  finissimi  che  ne  ombreggiavano  la
sommità; gli occhi infossati e abbaglianti cercavano piú che il volto l'animo  e
il cuore della gente; il naso diritto e sottile, la bocca chiusa  e  mobilissima
dinotavano il forte proposito e il segreto e perpetuo lavorio interiore. La  sua
statura volgeva al piccolo, come del  maggior  numero  dei  veri  grandi;  e  la
muscolatura asciutta ma elastica  porgeva  gli  strumenti  del  corpo  quali  si
convenivano ad uno spirito turbolento ed operoso.  In  tutto  poteva  dirsi  bel
giovine; ma la folla ne avrebbe trovati mille piú belli di lui, o non lo avrebbe
almeno distinto fra i primi. Gli è vero che una tal qual eleganza,  e  quasi  un
presentimento di quella semplicità inglese che doveva  prender  il  posto  delle
guarnizioni e della cipria, regolava la maniera del suo vestito; e  ciò  avrebbe
supplito alle comuni fattezze per  renderlo  a  tutti  notevole.  Non  usava  né
parrucca né polvere né mai merli o scarpe fosse pur giorno di gala;  portava  il
cappello tondo alla quacquera, calzoni ingambati negli stivali prussiani, giubba
senza ornamenti né bottoni di smalto, e panciotto  d'un  sol  colore  verdone  o
cenerognolo non lungo quattro dita oltre al fianco. Cotali mode le aveva portate
da Padova; diceva che gli piacevano per esser comodissime in campagna, ed  aveva
ragione. Noi poi che s'era avvezzi a  quegli  sfoggi  alla  Pantalone  d'allora,
ridevamo assai di quella succinta vestizione, senza risalto d'oro di frangie  di
bei colori. La Pisana chiamava Lucilio il signor Merlo; e quand'ei compariva, la
ragazzaglia di Fratta gli sbatacchiava intorno quel soprannome come  per  fargli
dispetto.  Egli  non  sorrideva  come   chi   prende   piacere   delle   malizie
fanciullesche; né se ne indispettiva come lo sciocco che ne tien conto:  passava
oltre occupandosi di altro. Era questa la nostra bile. Credo che quel piglio  di
indifferenza ce lo rendesse tanto antipatico, quanto dal  vestito  ci  compariva
ridicolo. E quando poi, trovando per casa o la Pisana od anche me, ci faceva bel
viso, e ci carezzava, noi eravamo beati  di  mostrargli  che  le  sue  moine  ci
annoiavano, e gli fuggivamo via non trascurando di  buttarci  nelle  braccia  di
qualunque altro che fosse lí intorno, o di metterci a giocarellare col  cane  da
caccia  del  Capitano.  Rappresaglie  da  fanciulli!  -  Pure,  mentre  noi   ci
vendicavamo a quella guisa, egli seguitava a guardarci; ed io ricordo ancora  il
tenore e perfin la tinta di quegli sguardi. Mi pare che volessero dire:  Bambini
miei, se credessi prezzo  dell'opera  l'invaghirvi  di  me,  vorrei  farvi  miei
figliuoli prima di un'ora! - Infatti quando poi gli tornò conto, ci riescí  ogni
qualvolta  lo  volle.  -  Quando  io  ripenso  alla  lunghissima  via   da   lui
costantemente seguita per farsi ricevere nel cuore di Clara a mezzo dell'amore e
degli encomii della nonna, io non posso far a meno di strabiliare. Ma  già  egli
fu sempre cosí; e non ricordo negozio di  piccolo  o  grave  momento  nel  quale
s'imbarcasse, senza navigarci entro coll'eguale costanza, in onta alle  bonaccie
o ai venti  contrari.  La  robusta  tempra  di  quell'uomo  che  non  m'invitava
dapprincipio  a  nessuna  simpatia,  finí  coll'impormi  quell'ammirazione   che
meritano le forti cose in questi tempi di fiaccona universale. Oltracciò il  suo
amore per Clara, nato e covato da lunghi anni di silenzio,  protetto  coi  mille
accorgimenti della prudenza, e con  tutto  il  fuoco  interiore  d'una  passione
invincibile, ebbe una tal impronta di sincerità da ricomperare qualche altro men
bello sentimento dell'animo suo. Adoperò sempre da astuto nei mezzi; ma da forte
nella perseveranza: e se  fu  egoismo,  era  l'egoismo  d'un  titano.  La  nonna
intanto, che non vedeva di lui altro che quanto egli credeva utile di mostrarle,
se ne innamorava ogni dí piú. Le poche altre visite che la riceveva  durante  il
giorno non erano tali da diminuirle la graditezza di quell'una. Il signor  Conte
che veniva a domandarle come l'avea passato la notte in sulle undici del mattino
prima di recarsi  nella  cancelleria  a  firmare  tuttoché  il  Cancelliere  gli
porgesse da firmare; monsignor Orlando che dalle undici a mezzogiorno le  faceva
il quarto, colla cognata e la nipote, sbadigliando di tutta lena per  la  voglia
del pranzo; la nuora che le stava  dinanzi  le  lunghe  ore,  muta  ed  impalata
infilando maglie, e non aprendo mai la bocca che  per  sospirare  i  begli  anni
passati; Martino,  l'antico  maggiordomo  del  fu  suo  marito,  che  le  faceva
compagnia alla sua maniera, parlando poco e non rispondendo mai a  tono,  mentre
la Clara usciva alla breve passeggiata del dopopranzo; la Pisana che a volte con
grandi strilli e  graffiate  le  era  condotta  innanzi  fra  le  braccia  della
Faustina, ecco le persone che le passavano dinanzi tutti i giorni,  monotone  ed
annoiate come le figurine d'una lanterna magica. Non era dunque strano che  ella
aspettasse con impazienza il dopopranzo, quando Lucilio veniva  a  farla  ridere
colle sue barzellette e a rischiarar un pochino  d'un  barlume  di  allegria  la
serena ma grave sembianza della nipote. La gioventù è il paradiso della vita; ed
i vecchi amano l'allegria che è la gioventù eterna  dell'animo.  Quando  Lucilio
s'accorse che il buon umore  da  lui  infiltrato  nella  vecchia  passava  nella
fanciulla, e che ad un suo sorriso questa s'era accostumata a rispondere con  un
altro, la sua pazienza cominciò a sperar vicina la ricompensa. Due  persone  che
avvicinandosi prendono contentezza l'una  dall'altra,  sono  molto  proclivi  ad
amarsi;  perfino  la  simpatia  di  due  esseri   melanconici   passa   per   la
manifestazione del sorriso prima di infervorarsi in amore, e questa gioia  della
mestizia ha sua ragione nella somiglianza che si discopre  sempre  gradevolmente
fra i nostri sentimenti e gli altrui. La passione in gran  parte  è  formata  di
compassione. Lucilio sapeva tuttociò e piú assai.  Mese  per  mese,  giorno  per
giorno, ora per ora, sorriso per sorriso egli seguiva  con  occhio  premuroso  e
innamorato ma tranquillo, paziente e sicuro, gli accrescimenti di  quell'affetto
ch'egli veniva istillando nell'anima di Clara. Egli amava, ma  vedeva;  miracolo
nuovo d'amore. Vedeva la compiacenza pel piacere goduto dalla  nonna  nella  sua
compagnia mutarsi in gratitudine per lui; indi in simpatia, per le lodi  che  si
figurava dovevano  ronzarle  sempre  nelle  orecchie  delle  sue  doti  belle  e
brillanti. - La simpatia generò la confidenza, e questa il desiderio il  piacere
di vederlo e di parlargli sempre. Sicché Clara cominciò a sorridere per  proprio
conto, allorché il giovine entrava domandando alla vecchia come  la  stesse  de'
suoi nervi e cavandosi il guanto per tastarle il polso. - Questo, come  dissimo,
fu in lui il vero cominciamento delle speranze; e vide  allora  che  le  sementi
avevano fruttato e che il rampollo germogliava. Anche  nelle  prime  sue  visite
Clara gli sorrideva; ma era cosa diversa. Lucilio aveva l'occhio medico  per  le
anime piú che pel corpo.  Per  lui  il  vocabolario  delle  occhiate  dei  gesti
dell'accento dei sorrisi aveva tante parole come quello di ogni altra lingua;  e
rade volte sbagliava nell'interpretarlo. La fanciulla non s'accorgeva di  provar
dalla sua presenza maggior diletto che non ne provasse le prime volte,  ed  egli
potea già senza tema di sbagliare mandarle uno sguardo che le avrebbe detto: "Tu
mi ami!". Non lo avventurò tuttavia quello sguardo  cosí  alla  sprovveduta.  La
volontà era padrona in lui e aveva a lato la ragione;  la  passione,  potente  e
tiranna nel primo comando, aveva il buon senso di confessarsi cieca nel resto, e
di fidarsi pei  mezzi  a  quelle  oculate  operatrici.  Clara  era  divota;  non
bisognava spaventarla. Essa era figlia di conti e  di  contesse;  non  conveniva
frugare nell'animo suo prima di averlo sbrattato d'ogni superbia gentilizia. Per
questo Lucilio ristette su  quel  primo  trionfo,  come  Fabio  temporeggiatore,
fors'anco, veggente come era fino al fondo delle cose umane, godette soffermarsi
in quella prima ed  incantevole  posa  dell'amore  che  si  scopre  corrisposto.
Cionnonostante quando, venendo egli  talvolta  da  Fossalta  colla  comitiva  di
Fratta che retrocedeva dal solito passeggio, incontravano la Clara  a  mezza  la
via, egli impallidiva lievemente nelle guance. Non di rado anche avveniva che il
Partistagno fosse con lei,  superbo  di  quell'onore;  e  nell'abboccarsi  colla
brigata egli non mancava di volgere sul dottorino di Fossalta uno sguardo  quasi
di altero disprezzo. Lucilio sosteneva quello sguardo, come sosteneva  le  burle
dei ragazzi, con una indifferenza piú superba  e  sprezzante  a  tre  doppi.  Ma
l'indifferenza campeggiava sul volto; l'inno  della  vittoria  gli  cantava  nel
cuore. La fronte di Clara, immalinconita dalle sincere ma rozze  galanterie  del
giovine castellano, s'irradiava d'uno splendore di contentezza quando vedeva  da
lungi la grave ed ideale figura del figliuolo adottivo della nonna.  Partistagno
le volgeva di sbieco una lunga occhiata  d'ammirazione:  Lucilio  la  adocchiava
appena di volo, e ambidue si inebriavano l'uno d'una vana speranza l'altro d'una
ragionata certezza d'amore. Quanto al signor Conte, alla signora Contessa, e  al
buon Monsignore, essi erano  troppo  in  alto  coi  pensieri,  ovverosia  troppo
occupati della propria grandezza, per badare a simili minuzzoli. Il resto  della
comitiva non ardiva levar gli occhi tant'alto, e cosí queste  vicende  d'affetto
succedevano fra i tre giovani senza che  vi  si  ingerisse  sguardo  profano  od
importuno. Martino qualche volta mi chiedeva: - Hai veduto  capitare  il  dottor
Lucilio oggi? - (Lo chiamavano dottore benché non avesse diploma,  perché  aveva
guardate molte lingue e tastati molti polsi nel territorio). - Io gli rispondeva
gridando a piena gola: - No, non l'ho veduto! - Questo dialogo  avveniva  sempre
quando la Clara o soletta o accompagnata dal Partistagno usciva nel  dopopranzo,
meno serena ed ilare del solito. Martino forse ci vedeva piú che  ogn'altro,  ma
non ne diede mai altro indizio che questo.  Quanto  alla  Pisana  la  mi  diceva
sovente: "Se io fossi mia sorella vorrei sposare quel bel giovane che  ha  tanti
bei nastri sulla giubba  e  un  cosí  bel  cavallo,  con  una  gualdrappa  tutta
indorata; e il signor Merlo lo farei mettere in una gabbietta per regalarlo alla
nonna il giorno della sua sagra".


CAPITOLO TERZO

Confronto fra la cucina del castello di Fratta e il resto del mondo. La  seconda
parte del "Confiteor" e il girarrosto.  Prime  scorrerie  colla  Pisana,  e  mia
ardita navigazione fino al Bastione di Attila. Prime poesie, primi dolori, prime
pazzie amorose, nelle quali prevengo anche la rara precocità di Dante Alighieri.

La prima volta ch'io uscii dalla cucina di Fratta a spaziare nel  mondo,  questo
mi parve bello fuor d'ogni misura. I confronti son  sempre  odiosi;  ma  io  non
potei allora tralasciare di farne, se non col cervello, almeno  cogli  occhi;  e
deggio anche confessare che tra la cucina di Fratta ed il mondo, io  non  esitai
un momento nel dar la palma a quest'ultimo. Primo punto,  natura  vuole  che  si
anteponga la luce alle tenebre, e il  sole  del  cielo  a  qualunque  fiamma  di
camino; in secondo  luogo,  in  quel  mondo  d'erba  di  fiori  di  salti  e  di
capitomboli dove metteva  piede,  non  c'erano  né  le  formidabili  guarnizioni
scarlatte del signor Conte, né  le  ramanzine  di  Monsignore  a  proposito  del
Confiteor; né le persecuzioni di Fulgenzio; né le carezze poco aggradevoli della
Contessa; né gli scappellotti delle cameriere. Da ultimo, se nella cucina viveva
da suddito, lí fuori due passi mi sentiva padrone di respirare a mio  grado,  ed
anco di sternutire e di dirmi:  Salute,  Eccellenza!  e  di  risponder:  Grazie,
senzaché nessuno trovasse disdicevoli tante cerimonie.  I  complimenti  ricevuti
dal Conte nella fausta occasione de' suoi sternuti mi erano sempre stati cagione
d'invidia fin da piccino; perché mi pareva che una persona a cui  si  auguravano
tante belle cose dovesse essere di grande  rilievo  e  di  un  merito  infinito.
Andando poi innanzi nella vita corressi questa mia strana opinione; ma in quello
che spetta al sentimento, non posso sternutire anche adesso  in  pace,  senzaché
non mi brulichi dentro  un  certo  desiderio  d'udirmi  augurare  lunga  vita  e
felicità da una moltitudine di voci. La ragione si fa adulta e vecchia; il cuore
resta  sempre  ragazzo  e  converrebbe  dargli  scuola  a  zaffate  col   metodo
patriarcale del piovano di Teglio. Quanto al mutuo insegnamento che ora è venuto
di moda, i cuori ci avrebbero pochissimo da guadagnare e  molto  da  perdere  in
quello scambio di banconote sentimentali che corrono invece delle monete genuine
e sonanti d'una volta.  Sarebbe  un  mutuo  insegnamento  di  trappolerie  e  di
falsificazioni con nessunissimo vantaggio della buona causa, perché i piú tirano
sempre i meno, come dice il proverbio. Ma tornando al mondo che mi  parve  tanto
bello a prima giunta, come vi raccontava, vi dirò di  piú  ch'esso  non  era  un
paradiso terrestre. Un ponticello di legno sulla fossa posteriore  del  castello
che dalla corticella della scuderia metteva nell'orto; due  pergolati  di  vigne
annose e cariche nell'autunno di bei grappoli  d'oro  corteggiati  da  tutte  le
vespe del vicinato; piú in là campagne verdeggianti di rape e di  sorgoturco,  e
finalmente oltre ad un muricciuolo di cinta cadente e frastagliato, delle  vaste
e ondeggianti praterie piene di rigagnoli argentini, di fiori e di grilli!  Ecco
il mondo posteriore al castello di Fratta. Quanto a quello che gli  si  stendeva
dinanzi ed ai lati ho dovuto accontentarmi di conoscerlo piú tardi; mi  tenevano
tanto alla catena col loro Fulgenzio, col loro piovano,  col  loro  spiedo,  che
perfino nel mondo dell'aria libera e delle piante, perfino nel gran tempio della
natura, mi toccò entrarvi di  sfuggita  e  per  la  porta  di  dietro.  Ora  una
digressione in riguardo allo spiedo;  ché  da  un  pezzo  ne  ho  addebitato  la
coscienza. Nel castello di Fratta tutti facevano ogni  giorno  il  loro  dovere,
meno il girarrosto che non vi si piegava che nelle circostanze solenni.  Per  le
due pollastre usuali non si stimava conveniente incommodarlo.  Ora,  quando  Sua
Eccellenza girarrosto godeva i suoi ozii muti e polverosi, il girarrosto era io.
- La cuoca infilava le pollastre nello spiedo, indi passava la punta  di  questo
in un traforo degli alari e ne affidava a me il manico  perché  lo  girassi  con
buon metodo e con isocrona costanza fino alla perfetta doratura delle vittime. I
figli d'Adamo, forse Adamo stesso aveva fatto cosí; io, come figlio d'Adamo, non
aveva alcun diritto di lamentarmi per questa incombenza che m'era  affidata.  Ma
quante cose non si fanno non si  dicono  e  non  si  pensano  senza  una  giusta
ponderazione dei propri diritti! - A me  talvolta  pareva  financo  che,  poiché
c'era un grandissimo menarrosto sul focolare, si aveva torto marcio a  mutar  in
un menarrosto me. Non  era  martirio  bastevole  pei  miei  denti  che  di  quel
benedetto arrosto dovessi poi rodere e leccare le ossa, senza farmi  abbrustolir
il viso nel voltarlo di qua e di là, di qua e di là con una noia senza  fine?  -
Qualche volta mi toccò  girare  qualche  spiedata  di  uccelletti  i  quali  nel
volgersi a gambe in su pencolavano ad ogni giro fin quasi  sulle  bragie,  colle
loro testoline scorticate e sanguinose. - La mia testa pencolava in  cadenza  al
pencolar delle loro; e credo che vorrei essere stato uno di quei fringuelli  per
trar vendetta del mio tormento attraversandomi nella gola di chi avrebbe  dovuto
mangiarmi. Quando questi pensierucci tristarelli  mi  raspavano  nel  cuore,  io
rideva d'un gusto maligno, e mi metteva a girare lo spiedo  piú  in  fretta  che
mai. Accorreva ciabattando la cuoca, e mi pestava le mani dicendomi:  -  Adagio,
Carlino! gli uccelletti vanno trattati con delicatezza! -  Se  la  stizza  e  la
paura m'avessero permesso di parlare, avrei domandato a quella vecchiaccia  unta
perché anche Carlino non lo trattava  almeno  come  un  fringuello.  La  Pisana,
quando mi sapeva in funzione di menarrosto, vinceva la  sua  ripugnanza  per  la
cucina, e veniva a godere della mia rabbiosa umiliazione. Uh!  quante  ne  avrei
date a quella sfrontatella per ognuno de' suoi sghigni!  Ma  mi  toccava  invece
ingozzar bocconi amari, e girare il mio spiedo, mentre un furore quasi  malvagio
mi gonfiava il cuore e mi  faceva  scricchiolare  la  dentatura.  Martino,  alle
volte, credo che m'avrebbe sollevato, ma prima la cuoca non  voleva,  e  poi  il
dabbenuomo avea briga bastevole colle croste di formaggio e la grattugia. Invece
alla bollitura della minestra mi capitava l'ultimo conforto  di  Monsignore,  il
quale, stizzito di vedermi cogli occhi o lagrimosi o addormentati, mi  suggeriva
con voce melliflua di non far il gonzo o il cattivo,  ma  di  ripeter  invece  a
memoria l'ultima parte del Confiteor finché me ne capacitassi  ben  bene.  Basta
basta di ciò; solo a pensarvi mi sento colar di dosso tutti i sudori  di  quegli
arrosti, e in quanto a Monsignore lo manderei volentieri dov'è già andato da  un
pezzo, se non avessi rispetto alla memoria delle sue  quondam  calze  rosse.  Il
mondo adunque aveva per me quest'ultimo rilevantissimo vantaggio sulla cucina di
Fratta, che non vi era confitto al martirio dello spiedo. Se era solo,  saltava,
cantava, parlava con me stesso; rideva della consolazione di sentirmi  libero  e
andava studiando qualche bel garbo sul taglio di quelli della Pisana per farmene
poi l'aggraziato dinanzi a lei. Quando poi riusciva a tirare con me per solchi e
boschetti questa mia incantatrice, allora mi pareva di essere tutto  quello  che
voleva io o che ella avrebbe desiderato. Non v'era cosa che non credessi  mia  e
che io non mi tenessi capace di ottenere per contentarla; com'ella era padrona e
signora in castello, cosí là nella campagna mi  sentiva  padrone  io;  e  le  ne
faceva gli onori come d'un mio feudo. Di tanto in tanto, per rificcarmi ne' miei
stracci, ella diceva con un cipiglietto serio serio: - Questi campi sono miei, e
questo prato è mio! - Ma di cotali attucci da feudataria io non prendeva nessuna
soggezione; sapeva e sentiva che  sulla  natura  io  aveva  una  padronanza  non
concessa a lei; la padronanza dell'amore. La indifferenza di Lucilio per le alte
occhiate del Partistagno e per le burlate dei fanciulli, io la sentiva per  quei
tiri principeschi della Pisana. E lontano dai merli signorili e dall'odore della
cancelleria, mi ripullulava nel cuore quel sentimento d'uguaglianza  che  ad  un
animo sincero e valoroso fa guardar ben dall'alto perfin le teste dei re. Era il
pesce rimesso nell'acqua,  l'uccello  fuggito  di  gabbia,  l'esule  tornato  in
patria. Aveva tanta ricchezza di felicità che cercava intorno cui  distribuirne;
e in difetto d'amici ne avrei fatto presente anche agli sconosciuti o a  chi  mi
voleva male. Fulgenzio, la cuoca, e perfin la Contessa avrebbero avuto  la  loro
parte d'aria di sole se fossero venuti a domandarmela con bella maniera e  senza
battermi le mani o strapparmi la coda. La Pisana mi seguiva volentieri nelle mie
scorrerie campereccie, quando non trovava in castello il suo  minuto  popolo  da
cui farsi obbedire. In questo caso la doveva  accontentarsi  di  me,  e  siccome
nell'Ariosto della Clara ella si avea fatto mostrar  mille  volte  le  figurine,
cosí non le dispiaceva di esser  o  Angelica  seguita  da  Rinaldo,  o  Marfisa,
l'invitta donzella, od anche Alcina che  innamora  e  muta  in  ciondoli  quanti
paladini le capitano nell'isola. Per me io  m'aveva  scelto  il  personaggio  di
Rinaldo con bastevole rassegnazione; e faceva le grandi battaglie contro  filari
di pioppi affigurati per draghi, o le fughe disperate da qualche mago traditore,
trascinandomi dietro la mia bella  come  se  l'avessi  in  groppa  del  cavallo.
Talvolta immaginavamo di intraprendere un qualche lungo viaggio  pel  regno  del
Catajo o per la repubblica di Samarcanda; ma si frapponevano terribili  ostacoli
da superare: qualche siepaia che dovea essere una foresta; qualche arginello che
figurava una montagna; alcuni rigagnoli che tenevano  le  veci  di  fiumi  e  di
torrenti. Allora ci davamo conforto a  vicenda  con  gesti  di  coraggio,  o  si
prendeva consiglio sottovoce con occhio  prudente  e  col  respiro  sommesso  ed
affannoso. Veniva deciso di tentar la prova;  e  giù  allora  a  rompicollo  per
rovaie e pozzanghere saltando e gridando come due indemoniati. Gli ostacoli  non
erano insuperabili, ma non di rado  le  vesti  della  fanciulla  ne  riportavano
qualche guasto, o la si bagnava i piedi guazzando nell'acqua  colle  scarpettine
di brunello. Quanto a me la mia giacchetta era antica confidente degli spini;  e
avrei potuto star  nell'acqua  cent'anni  come  il  rovere,  prima  che  l'umido
trapassasse la scorza callosa delle mie piante. Mi dava  dunque  a  consolare  a
racconciare ed  asciugar  lei,  che  prendeva  un  po'  il  broncio  per  quelle
disgrazie; e perché non la si mettesse a piangere  o  a  graffiarmi,  la  faceva
ridere prendendola in ispalla, e saltando  del  pari  con  quella  soma  addosso
fossatelli e rigagni. Era robusto come un torello, e il contento che provava  di
sentirmela abbandonata sul collo colla  faccia  e  colle  mani  per  ridere  con
maggior espansione, mi avrebbe dato lena a giunger con quel  carico  se  non  al
Catajo o a Samarcanda certo piú in là di Fossalta. Perdendo a quel modo le prime
ore del  dopopranzo,  si  cominciò  ad  allargarci  fuori  dalle  vicinanze  del
castello, e a prender pratica delle  strade,  dei  sentieri  e  dei  luoghi  piú
discosti. Le praterie vallive dove s'erano aggirati i primi viaggi,  declinavano
a ponente verso una bella corrente di acqua che serpeggiava nella pianura qua  e
là, sotto grandi ombre di pioppi d'ontani e di salici, come  una  forosetta  che
abbia tempo da perdere, o poca voglia di lavorare. Là sotto canticchiava  sempre
un perpetuo cinguettio d'augelletti; l'erba vi  germinava  fitta  ed  altissima,
come il tappeto nel piú segreto  gabinetto  d'una  signora.  Vi  si  avvolgevano
fronzuti andirivieni di  macchie  spinose  e  d'arbusti  profumati,  e  parevano
preparare  i  piú  opachi  ricoveri  e  i  sedili  piú  morbidi   ai   trastulli
dell'innocenza o ai colloqui d'amore. Il mormorio dell'acqua rendeva armonico il
silenzio, o raddoppiava l'incanto delle nostre voci fresche ed argentine. Quando
sedevamo sulla zolla piú verde e rigonfia, il verde  ramarro  fuggiva  sull'orlo
della siepe vicina, e di là si volgeva  a  guardarci,  quasi  avesse  voglia  di
domandarci qualche cosa, o di spiare i  fatti  nostri.  Per  quelle  pose  tanto
gradevoli noi sceglievamo quasi sempre una sponda della fiumiera, dove essa dopo
un laberinto di giravolte susurrevoli e capricciose si protende diritta  per  un
buon tratto queta e silenziosa, come una  matterella  che  d'improvviso  si  sia
fatta monaca. Il meno rapido pendio la calmava dalla sua correntia, ma la Pisana
diceva che l'acqua, come lei, era stanca di  menar  le  gambe  e  che  bisognava
imitarla e sedere. Non crediate  peraltro  che  stesse  tranquilla  a  lungo  la
civettuola. Dopo avermi fatto qualche carezza od essersi arresa al mio ruzzo  di
giocarellare secondo il tenore dell'estro, si levava  in  piedi  non  curante  e
dimentica di me come la non mi avesse mai conosciuto, e si protendeva sull'acqua
a specchiarsi dentro, o vi sciaguattava entro colle braccia, o si ficcava  nella
fratta a cercarvi chiocciole da farne  braccialetti  e  collane,  senza  curarsi
allora se il guarnellino  si  sciupava,  o  se  le  maniche  o  le  scarpine  si
immollavano. Io la chiamava allora e l'ammoniva, piú  per  golaggine  di  averla
ancora a' miei trastulli che per rispetto alle sue vesti;  ma  la  non  si  dava
neppur pensiero di rispondere. Capace di  disperarsi  se  le  si  sconciava  una
maglia del collaretto nell'accondiscendere ai capricci altrui, avrebbe  rotto  e
stracciato tutto, compresi i suoi lunghi e bei capelli neri,  e  le  sue  guance
rosee e ritondette,  e  le  sue  manine  brevi  e  polpute,  se  i  capricci  da
accontentarsi erano i suoi. Qualche volta per tutto il resto  della  passeggiata
non giungeva piú a stornarla da que' suoi giochi gravi solitari  e  senza  fine.
Ella si ostinava per mezz'ora a voler  bucare  coi  denti  e  colle  unghie  una
chiocciola da infilarla in un vimine e  appendersela  alle  orecchie,  e  se  io
faceva le viste di volerla aiutare, la mi grugniva  contro,  pestando  i  piedi,
quasi piangendo e menandomi nello stomaco delle buone gomitate. Pareva ch'io  le
avessi fatto qualche gran torto; ma tutto era un gioco del suo  umore.  Volubile
come una farfalla che non può ristar due minuti sulla corolla d'un fiore,  senza
batter le ali per  succhiarne  uno  diverso,  ella  passava  d'un  tratto  dalla
dimestichezza  al  sussiego,  dalla  piú  chiassosa  garrulità  ad  un  silenzio
ostinato, dall'allegria alla stizza e quasi alla crudeltà. La cagione era che in
tutte le fasi dell'umore, l'indole  non  cangiava  mai;  la  restava  sempre  la
tirannella di Fratta, capace di render  felice  un  tale  per  esperimentare  la
propria potenza  in  un  verso,  e  di  farlo  poi  piangere  ed  infuriare  per
esperimentarla in un altro. Nei temperamenti sensuali e subitanei  il  capriccio
diventa legge e l'egoismo sistema  se  non  sono  sfreddati  da  una  educazione
preventiva ed avveduta che armi la ragione contro il continuo  sforzo  dei  loro
eccessi e munisca la sensibilità con un  serraglio  di  buone  abitudini,  quasi
riparo alle sorprese dell'istinto. Altrimenti,  per  quanto  eccellenti  qualità
s'innestino in nature siffatte, nessuno potrà fidarsene, rimanendo tutte schiave
della prepotenza sensuale. La Pisana era a quel tempo una fanciulletta;  ma  che
altro sono mai anche le bambine se non scorci e sbozzi di donne? Dipinti ad olio
o in miniatura, i lineamenti d'un ritratto stanno sempre gli stessi. Peraltro  i
nuovi orizzonti che s'aprivano all'anima mia le porgevano già un ricovero contro
la cocciutaggine di quei primi crucci infantili. Mi riposava nel gran seno della
natura; e le sue bellezze mi  svagavano  dalla  tetra  compagnia  della  stizza.
Quella vastità di  campagne  dove  scorrazzava  allora  era  ben  diversa  dallo
struggibuco dell'orto e della peschiera che dai sei  agli  otto  anni  m'avevano
dato tanto piacere. Se la Pisana mi piantava lí  per  vezzeggiare  e  tormentare
altri garzonetti, o se la mi fuggiva via a mezzo il passeggio colla speranza che
nel frattempo fosse capitata qualche visita al castello, io non  correva  piú  a
darmele in spettacolo col mio muso lungo, e le mie spalle riottose; ma  n'andava
invece a svampar l'affanno nella frescura dei prati e sulla sponda del  rio.  Ad
ogni passo erano nuovi prospetti e nuove  meraviglie.  Scopersi  un  luogo  dove
l'acqua s'allarga quasi in un laghetto, limpido  ed  argentino  come  la  faccia
d'uno  specchio.  Le  belle  treccie  di  aliche  vi  si  mescevano  entro  come
accarezzate da una magica auretta: e i sassolini del fondo tralucevano  da  esse
candidi  e  levigati  in  guisa  di  perle  sdrucciolate  per  caso  dalle  loro
conchiglie. Le anitre e le oche starnazzavano sulla riva; a volte di conserva si
lanciavano  tumultuosamente  nell'acque,  e  tornate  a  galla  dopo  il   tonfo
momentaneo prendevano remigando la calma e leggiadra ordinanza d'una flotta  che
manovra. Era un diletto vederle avanzare  retrocedere  volteggiare  senzaché  la
trasparenza dell'acque fosse altrimenti turbata che per una  lieve  increspatura
la quale moriva sulla sponda in una carezza piú lieve ancora. Tutto  all'intorno
poi era un folto di piante secolari  sui  cui  rami  la  lambrusca  tesseva  gli
attendamenti piú verdi  e  capricciosi.  Coronava  la  cima  d'un  olmo,  e  poi
s'abbandonava ai sicuri sostegni della quercia, e abbracciandola per ogni  verso
le cadeva d'intorno in leggiadri festoni. Da ramo a ramo  da  albero  ad  albero
l'andava via come danzando, e i suoi grappoletti neri e  minuti  invitavano  gli
stornelli a far merenda ed i colombi a litigare con questi per prenderne la loro
parte. Sopra a quel largo dove il laghetto tornava ruscello erano fabbricati due
o tre mulini, le cui ruote parevano corrersi dietro spruzzandosi acqua a vicenda
come tante pazzerelle. Io stava lí  le  lunghe  ore  contemplandole  e  gettando
sassolini nelle cascate dell'acqua per vederli rimbalzare, e cader  poi  ancora,
per disparire sotto il vorticoso giro della ruota. S'udiva di  dentro  il  rumor
delle macine, e il cantar dei mugnai, e lo  strepitar  dei  ragazzi,  e  fin  lo
stridore  della  catena  sul  focolare  quando  dimenavano  la  polenta.  Io  me
n'accorgeva pel fumo che cominciava a spennacchiarsi dal comignolo  della  casa,
precedendo sempre l'intervento di questo nuovo stridore nel concerto universale.
Sullo sterrato dinanzi ai mulini era un continuo avvicendarsi di  sacchi,  e  di
figure infarinate. Vi capitavano le comari di molti paesetti delle vicinanze;  e
chiacchieravano colle donne dei mulini mentre si macinava loro il grano. In quel
frattempo gli asinelli liberati dalla soma gustavano ghiottamente la semola  che
loro si imbandisce per regalo nelle  gite  al  mulino;  finito  che  avevano  si
mettevano a ragghiare d'allegria, distendendo le orecchie e le  gambe;  il  cane
del mugnaio abbaiava e correva loro intorno facendo mille finte di assalto e  di
schermo. Ve lo dico io che la era una scena animatissima, e non ci voleva  nulla
di meglio per me che della vita altro non conosceva se non quello  che  mi  eran
venuti raccontando Martino, mastro Germano e Marchetto. Allora invece  cominciai
a guardare co' miei occhi, a ragionare ed imparare colla mia  propria  mente;  a
conoscere cosa sia lavoro, e mercede;  a  distinguere  i  diversi  uffici  delle
massaie delle comari dei mugnai e degli asini. Queste cose mi  occupavano  e  mi
divertivano; e tornava poi verso Fratta col capo nelle  nuvole,  contemplando  i
bei colori che vi variavano entro pel  diverso  magistero  della  luce.  Le  mie
passeggiate si facevano sempre piú lunghe, e sempre piú lunghe  e  temerarie  le
diserzioni dalla custodia di Fulgenzio e dalla scuola del Piovano. Quando andava
attorno a cavallo con Marchetto era troppo piccino  per  poter  imprimere  nella
memoria quanto vedeva; e fattomi poi grande egli non voleva  arrischiarmi  sulla
groppa d'un ronzino che era troppo antico di senno per  esser  forte  di  gambe.
Cosí tutte le cose m'erano tornate nuove e inusitate; e non solamente i mulini e
i mugnai, ma i pescatori colle loro reti, i  contadini  coll'aratro,  i  pastori
colle capre e colle pecore, e tutto tutto  mi  dava  materia  di  stupore  e  di
diletto. Finalmente venne un giorno ch'io credetti  perder  la  testa  od  esser
caduto nella luna, tanto mi sembrarono meravigliose ed incredibili le  cose  che
ebbi sott'occhio. Voglio contarle perché quella passeggiata mi  votò  forse  per
sempre a quella religione  semplice  e  poetica  della  natura  che  mi  ha  poi
consolato d'ogni tristizia umana colla dolce e immanchevole placidità delle  sue
gioie. Un dopopranzo  capitò  alla  Pisana  la  visita  di  tre  suoi  cuginetti
figliuoli di una sorella del Conte maritata ad un castellano dell'alta. (Egli ne
aveva un'altra delle sorelle, accasata  splendidamente  a  Venezia,  ma  le  son
persone che incontreremo piú tardi). Quel dopopranzo adunque la  mi  fece  tanti
dispetti, e mi offerse con tanta barbarie allo scherno dei cugini, ch'io  me  la
svignai arrabbiatissimo, desideroso di mettere fra  me  e  lei  quella  maggiore
distanza che mi  fosse  stata  possibile.  Uscii  dunque  pel  ponticello  della
scuderia, e via a gambe traverso a seminati colla vergogna e la  stizza  che  mi
cacciavano da tergo. E cammina e cammina cogli occhi nella punta dei piedi senza
badare a nulla, ecco che quando caso volle che gli alzassi mi vidi in un luogo a
me affatto sconosciuto. Stetti un momento senza poter  pensare  o  meglio  senza
poter disvincolarmi da quei  pensieri  che  m'avevano  martellato  fino  allora.
"Possibile! pensai  quando  giunsi  a  distogliermene.  -  Possibile  che  abbia
camminato tanto!" Infatti era  ben  certo  che  il  sito  dove  mi  trovava  non
apparteneva alla solita cerchia delle mie scorrerie: spanna per spanna tutto  il
territorio che si  stendeva  per  due  miglia  dietro  il  castello  io  l'avrei
ravvisato senza tema d'errore. Quel sito invece era un luogo deserto e  sabbioso
che franava in un canale d'acqua limacciosa e stagnante; da un lato una prateria
invasa dai giunchi allargavasi per quanto l'occhio potea  correre  e  dall'altro
s'abbassava una campagna mal coltivata nella quale il  disordine  e  l'apparente
sterilità contrastavano col rigoglio dei pochi e grandi  alberi  che  rimanevano
nei filari scomposti. Io mi guardai intorno e non vidi segno che richiamasse  la
mia mente a qualche memoria. "Capperi! è un sito  nuovo!  dissi  fra  me,  colla
contentezza d'un avaro che scopre un tesoro. - Andiamo un po' innanzi a vedere!"
Ma per andar oltre c'era un piccolo  guaio,  c'era  nient'altro  che  quel  gran
canale paludoso, e tutto coperto  da  un  bel  manto  di  giunchiglia.  La  gran
prateria coll'ignoto e l'infinito si dilungava di là; al di qua  non  aveva  che
quella campagna arida e abbandonata che punto non m'invogliava a visitarla.  Che
fare in quel  frangente?  -  Era  troppo  stuzzicato  nella  curiosità  per  dar
addietro, e troppo spensierato per temere che il canale si profondasse  piú  che
non avrei desiderato. Mi rotolai su le mie  brache  fino  alla  piegatura  delle
coscie, e discesi nel pelago impigliandomi i piedi e  le  mani  nelle  ninfee  e
nelle giunchiglie che lo asserragliavano. Spingi da una banda e tira dall'altra,
mi faceva strada fra quella boscaglia nuotante, ma la strada  andava  sempre  in
giù, e le piante mi  scivolavano  sopra  una  belletta  sdrucciolevole  come  il
ghiaccio. Quando Dio volle il fondo ricominciò a salire; e  me  la  cavai  colla
paura, ma credo che talmente fossi infervorato nell'andar oltre che non mi sarei
ritratto dovessi anco affogarne. Messo il piede sull'erba  mi  parve  di  volare
come un uccello; la prateria saliva dolcemente e mi tardava l'ora di toccarne il
punto piú alto donde guardare quella mia grande conquista. Vi giunsi alla  fine,
ma tanto trafelato che mi pareva esser un cane di  ritorno  dall'aver  inseguito
una lepre. E volsi intorno gli occhi e mi ricorderò sempre l'abbagliante piacere
e quasi lo sbigottimento di  maraviglia  che  ne  ricevetti.  Aveva  dinanzi  un
vastissimo spazio di pianure verdi e fiorite, intersecate da grandissimi  canali
simili a quello che aveva passato io, ma assai piú larghi e  profondi.  I  quali
s'andavano perdendo in una stesa d'acqua assai piú grande ancora; e in  fondo  a
questa sorgevano qua e là disseminati  alcuni  monticelli,  coronati  taluno  da
qualche campanile. Ma piú in là ancora l'occhio mio non  poteva  indovinar  cosa
fosse quello spazio infinito d'azzurro, che mi pareva un pezzo di cielo caduto e
schiacciatosi in terra: un azzurro trasparente, e svariato da striscie d'argento
che si congiungeva lontano lontano coll'azzurro  meno  colorito  dell'aria.  Era
l'ultima ora del giorno; da ciò m'accorsi che io  doveva  aver  camminato  assai
assai. Il sole in quel momento, come dicono i contadini,  si  voltava  indietro,
cioè dopo aver declinato dietro un fitto tendone di nuvole,  trovava  vicino  al
tramonto un varco da mandare alla terra  un  ultimo  sguardo,  lo  sguardo  d'un
moribondo sotto una palpebra abbassata. D'improvviso i canali, e  il  gran  lago
dove sboccavano,  diventarono  tutti  di  fuoco:  e  quel  lontanissimo  azzurro
misterioso si mutò in un'iride immensa e guizzolante dei colori  piú  diversi  e
vivaci. Il cielo fiammeggiante ci si specchiava dentro, e di momento in  momento
lo spettacolo si dilatava s'abbelliva  agli  occhi  miei  e  prendeva  tutte  le
apparenze ideali e quasi impossibili d'un sogno. Volete crederlo? Io  cascai  in
ginocchio, come Voltaire sul Grütli  quando  pronunziò  dinanzi  a  Dio  l'unico
articolo del suo credo. Dio mi venne in mente anche a me: quel  buono  e  grande
Iddio che è nella natura, padre di tutti e per tutti. Adorai, piansi, pregai;  e
debbo anche confessare che l'animo mio sbattuto poscia dalle  maggiori  tempeste
si rifugiò sovente nella memoria fanciullesca di quel  momento  per  riavere  un
barlume di speranze. No, quella non fu allora la ripetizione dell'atto  di  fede
insegnatomi dal Piovano a tirate di orecchi;  fu  uno  slancio  nuovo  spontaneo
vigoroso d'una nuova fede che dormiva quieta nel mio cuore  e  si  risvegliò  di
sbalzo all'invito materno della natura! Dalla bellezza universale  pregustai  il
sentimento dell'universale bontà; credetti fino d'allora che  come  le  tempeste
del verno non potevano guastare la stupenda armonia del creato, cosí le passioni
umane non varrebbero mai ad offuscare il bel sereno  dell'eterna  giustizia.  La
giustizia è fra noi, sopra  di  noi,  dentro  di  noi.  Essa  ci  punisce  e  ci
ricompensa. Essa, essa sola è la grande unitrice  delle  cose  che  assicura  la
felicità delle anime nella grand'anima dell'umanità. Sentimenti mal definiti che
diverranno idee quando che sia; ma che dai cuori ove nacquero tralucono già alla
mente d'alcuni uomini, ed alla mia; sentimenti poetici, ma di quella poesia  che
vive, e s'incarna verso per verso negli annali  della  storia;  sentimenti  d'un
animo provato dal lungo cimento della vita, ma che già covavano in quel senso di
felicità e di religione che a me fanciullo fece piegar le ginocchia dinanzi alla
maestà dell'universo! Povero a me se avessi allor pensato  queste  cose  alte  e
quasi inesprimibili! Avrei perduto il  cervello  nella  filosofia  e  certo  non
tornava piú a Fratta per quella notte. Invece quando cominciò ad imbrunire, e mi
si oscurò dinanzi quello spettacolo di maraviglie, tornai subito fanciullo, e mi
diedi quasi a piangere temendo di non trovar piú la strada di Fratta. Avea corso
nel venire; nel ritorno corsi piú assai; e  giunsi  al  valico  del  canale  che
splendeva ancora il crepuscolo. Ma addentratomi nella campagna  la  cosa  cangiò
d'aspetto: la notte calava giù nebbiosa e nerissima ed io  ch'era  venuto,  cosí
camminando soprappensiero,  non  sapea  piú  trovarmi.  Principiò  a  mettermisi
intorno un tremore di febbre ed una voglia di correre per  arrivare  non  sapeva
nemmen io dove. Mi sembrava che per quanto fossi ito per le lunghe,  il  correre
mi avrebbe menato piú presto che l'andare adagio; ma i  conti  erano  sbagliati,
perché il precipizio della corsa mi faceva trascurare  quegli  accorgimenti  che
potevano almeno aiutarmi a non perdere affatto la tramontana.  S'aggiungeva  che
la fatica mi spossava e che avea d'uopo di tutto lo spavento che mi  metteva  in
corpo il pensiero di non poter arrivare a casa, per persuadere le mie  gambe  ad
andare innanzi. Fortuna volle che volgessi abbastanza diritto  per  non  tornare
nelle paludi ove certo mi sarei annegato, e alla fine imboccai  una  strada.  Ma
che strada, mio Dio! ora non si adopererebbe questo sostantivo per dinotarla; la
si  direbbe  un  ammazzatoio,  o  peggio.  Io  ne  ringraziai  cionullameno   la
Provvidenza e mi diedi a  camminare  piú  tranquillo,  divisando  con  bastevole
criterio di chieder contezza della via alle prime  case.  Ma  chi  doveva  esser
stato sí gonzo da piantar casa in quelle fondure?  Io  mi  ci  fidava  e  tirava
innanzi. Le prime case una volta o l'altra sarebbero venute. Non aveva fatto per
quella stradaccia un mezzo miglio che mi sentii venir  dietro  il  galoppo  d'un
cavallo. Io mi feci il segno della santa  croce  tirandomi  nel  fosso  piú  che
poteva; ma il passo era strettissimo e il cavallo  aombrando  di  me  diede  uno
strabalzo in dietro che fece  improvvisare  una  bella  filza  di  bestemmie  al
cavaliero che lo montava. - Chi è là? fammi strada, mascalzone!  -  gridò  colui
con  una  vociaccia  ruvida  che  mi  gelò  il  sangue  nelle  vene.  -  L'abbia
misericordia di me! son fanciullo smarrito e non so dove mi vada  a  finire  per
questa  strada  -  ebbi  fiato  di  rispondergli.  La  mia  voce   infantile   e
supplichevole commosse certamente colui dal cavallo, perché  lo  rattenne  colle
redini benché gli avesse già cacciate le gambe nel ventre per passarmi sopra.  -
Ah! sei un ragazzo?  -  soggiuns'egli  curvandosi  un  po'  dalla  mia  banda  e
mostrandomi una figurona nera nascosta  sotto  le  falde  d'un  cappellaccio  da
contrabbandiere o da mago. - Sí, sei un ragazzo; e dove vai? - Andrei  a  Fratta
se il signore mi aiutasse - diss'io ritraendomi per un po' di paura che aveva di
quella figura. - Ma come ti trovi in questi dintorni ove  non  passa  mai  anima
viva di notte? - domandò ancora lo sconosciuto con qualche sospetto nella  voce.
- Ecco; - risposi io - sono scappato di casa per qualche dispiacere, e  camminai
camminai, finché giunsi in un bel luogo dove  vidi  molta  acqua  molto  sole  e
moltissime belle cose che non so  cosa  le  sieno:  ma  nel  ritorno  mi  trovai
piuttosto imbrogliato, perché si faceva scuro e non mi ricordava  la  strada,  e
correndo alla ventura adesso mi vedo qui, e non so proprio dove mi  sia.  -  Sei
dietro San Mauro verso la pineta, fanciullo mio; - riprese quell'uomo -  ed  hai
quattro miglia buone per giungere  a  casa.  -  Signore,  la  è  tanto  buono  -
soggiunsi io di bel nuovo, facendo forza colla paura maggiore alla minore -  che
la mi dovrebbe insegnare qual modo debba tenere per giunger a casa  per  le  piú
spiccie. - Ah tu credi ch'io sia buono? - disse  il  cavaliere  con  un  accento
alquanto beffardo. - Sí, perdiana, che hai ragione, e voglio dartene una  prova.
Saltami in groppa, e  giacché  devo  passarci,  ti  metterò  giù  di  fianco  al
castello. - Sto nel castello appunto - ripresi io non sapendo se dovessi fidarmi
alle proferte dello  sconosciuto.  -  Nel  castello?  -  sclamò  egli  con  poco
gradevole sorpresa - e a chi appartieni tu, nel castello? - Oh bella! a  nessuno
appartengo! Sono Carlino, quello che mena lo spiedo e va a scuola dal Piovano. -
Manco male; se la è cosí, salta, ti dico;  il  cavallo  è  forte  e  non  se  ne
accorgerà. Un po' tremando un po' confortandomi io mi arrampicai fin  sul  dorso
della bestia e colui mi aiutava con una mano, dicendo che non  avessi  timor  di
cadere. Là in quei paesi si nasce, quasi, a cavallo  e  ad  ogni  ragazzotto  si
dice: - monta su quel puledro! - come gli si dicesse: va' a cavalcione di quella
stanga. Or dunque acconciato che mi fui, si diede giù in un galoppo sfrenato che
per quella strada aveva tutti i pericoli d'un continuo precipizio. Io mi  teneva
con ambe le mani al petto del cavaliero e sentiva i peli d'una barba lunghissima
che mi soffregavano le dita. "Che fosse il diavolo? - pensai. -  Potrebbe  anche
darsi!" E feci un rapido esame di coscienza dal quale mi parve rilevare  che  io
avea peccati oltre al bisogno per dargli ogni diritto di condurmi a casa sua. Ma
mi risovvenne in buon punto che il cavallo s'era impaurito della  mia  ombra,  e
siccome i cavalli del diavolo, secondo me, non dovevano avere le  debolezze  dei
nostri, cosí mi diedi un po' di pace da questo  lato.  Se  non  era  il  diavolo
poteva peraltro essere un suo luogotenente, come un ladro, un assassino, che  so
io? - Nessuna paura per questo: io non aveva denari e mi sentiva  l'uomo  meglio
armato contro ogni ladreria. Cosí, dopo aver pensato a quello che  non  era,  mi
volsi a sindacare quello che poteva essere il mio  notturno  protettore.  Peggio
che peggio! Sfido l'immaginazione d'un napoletano di giungere a conclusioni  piú
certe di quelle cui giunsi io; e per me allora io avea finito col  decidere  che
non potea  saperne  nulla.  Tutto  ad  un  tratto  il  negro  soggetto  di  tali
fantasticherie mi si volse incontro col suo  gran  barbone  e  mi  chiese  colla
solita voce poco aggraziata: - Mastro Germano ce  l'avete  ancora  a  Fratta?  -
Sissignore! - risposi dopo un guizzo di sorpresa per quella vociata repentina. -
Egli regola ogni giorno l'orologio della torre; apre  e  chiude  il  portone;  e
spazza anche il cortile dinanzi la cancelleria. Egli è molto dabbene  con  me  e
molte volte mi conduce a veder le ruote dell'orologio, insieme alla Pisana che è
proprio la figliuola della signora Contessa. - Monsignor di Sant'Andrea ci viene
spesso a trovarvi? - mi domandò ancora con una risata. -  Gli  è  il  confessore
della signora Contessa; - dissi io - ma gli è un pezzo che non lo  vedo,  perché
ora, dopo che ho incominciato a veder il mondo, sto in cucina meno che posso.  -
Bravo! bravo! la cucina è pei canonici! - continuò egli. - Adesso puoi scendere,
scoiattolo; ché siamo a Fratta. Tu sei il piú buon cavalcatore  del  territorio,
me ne congratulo con te! - S'immagini! - soggiunsi saltando a terra - ci  andava
sempre a cavallo io dietro a Marchetto. - Ah! sei tu  quel  pappagallo  che  gli
stava dietro anni sono  -  riprese  colui  ridacchiando.  -  Prendi,  prendi;  -
aggiunse dandomi una buona impalmata sulla nuca -  dagliela  per  mio  conto  al
cavallante questa focaccia; ma giacché sei suo  amico  non  dirgli  che  mi  hai
veduto da queste bande: non dirglielo, né a lui, né a nessuno, sai! In ciò  dire
l'uomo della gran barba spinse il suo cavallo alla carriera per  una  straducola
che mena a Ramuscello, ed io restai là a udire colla bocca aperta  lo  scalpitar
del galoppo. E quando il romore si fu dileguato girai intorno alle fosse, e  sul
ponte del  castello  vidi  Germano  che  guardava  intorno  come  se  aspettasse
qualcuno. - Ah birbone! ah scellerato! andar a zonzo per queste  ore!  tornar  a
casa cosí tardi? Chi te ne ha insegnate  di  tanto  belle?...  Ora  te  la  darò
io!!... Cotal fu l'intemerata con cui  Germano  mi  accolse;  ma  la  parte  piú
calorosa dell'orazione non posso tradurla in parole. Il  buon  Germano  mi  menò
avanti a sculacciate dalla porta del castello fino a quella  di  cucina.  Là  mi
saltò addosso Martino. - Furfantello! scapestrato  che  sei!  non  la  farai  la
seconda volta, te lo giuro io! arrischiarti di notte per questo buio fuori casa!
Anche  qui  la  parlata  fu  il  meno;  il  piú  si  erano   le   scoppate   che
l'accompagnavano. Se tanto mi toccava dagli amici, figuratevi poi  cosa  dovessi
aspettarmi dagli  altri!...  Il  Capitano  che  giocava  all'oca  con  Marchetto
s'accontentò di menarmi un buon pugno nella schiena dicendo che la mia era tutta
infingardaggine, e che dovevano consegnarmi a lui per averne un  buon  risultato
de' fatti miei. Marchetto mi tirò le orecchie con amicizia, la signora  Veronica
che si scaldava al fuoco tornò a ribadirmi  le  sculacciate  di  Germano,  e  la
vecchiaccia della cuoca mi menò un piede nel sedere con tanta grazia che andai a
finir col naso sul menarrosto che girava.  -  Giusto  proprio!  sei  capitato  a
tempo! - si pensò di  dire  quella  strega  -  ho  dovuto  metter  in  opera  il
menarrosto, ma giacché ci sei tu non fa piú di mestieri.  In  tali  parole  ella
avea già cavato la corda dalla carrucola e dato a me  in  mano  lo  spiedo  dopo
averlo preso fuori dalla morsa del  menarrosto.  Io  cominciai  a  voltare  e  a
rivoltare non senza essere  assalito  e  bersagliato  dalle  fantesche  e  dalle
cameriere mano a mano che capitavano in cucina: e voltando e rivoltando  pensava
al Piovano, pensava a Fulgenzio, pensava a Gregorio, a Monsignore, al Confiteor,
al signor Conte, alla signora Contessa ed alla mia cuticagna! Quella sera se  mi
avessero sforacchiato banda per banda collo spiedo non avrebbero fatto altro che
diminuirmi il martirio della paura. Certo io avrei preferito  arrostita  la  mia
cuticagna, piuttostoché  abbandonarla  per  tre  soli  minuti  alle  mani  della
Contessa; e in  quanto  alla  conciatura,  trovava  nella  mia  idea  assai  piú
fortunato san Lorenzo che san Bartolomeo. Finché tutti attendevano a malmenarmi,
nessuno avea potuto domandare cosa  m'avessi  io  fatto  in  quella  cosí  lunga
assenza; ma quando fui inchiodato allo spiedo cominciarono ad assaltarmi  d'ogni
banda di richieste e d'interrogazioni, sicché dopo essere stato  duro  sotto  le
battiture, io presi in quel frangente il partito di piangere. - Ma cos'hai  ora,
che ti sciogli in lagrime? - mi disse Martino - oh non val meglio  rispondere  a
quello che ti si domanda? - Son stato giù nel prato dei  mulini;  son  stato  là
lungo l'acqua a pigliar grilli, son stato!... Ih, ih, ih!... È venuto  scuro!...
e poi ho fatto tardi. - E dove sono questi grilli? - mi chiese il  Capitano  che
se ne immischiava un poco nelle inquisizioni criminali della cancelleria,  e  ci
aveva rubato il mestiero. - Ecco! - soggiunsi io con voce ancor piú  piagnolosa.
- Ecco che io non so!... ecco che i grilli mi saranno fuggiti di  tasca!...  Non
so nulla! io!... Sono stato sull'acqua a pigliar grilli, io!... Ih, ih, ih!... -
Avanti con quello spiedo, impostore - mi gridò la cuoca - o ti concio io per  le
feste. - Non ispaventatelo troppo, Orsola - le raccomandò Martino che dal  volto
di quella  strega  aveva  indovinato  la  minaccia  delle  parole.  -  Corpo  di
Pancrazio! - sclamò il Capitano battendo la mano sulla tavola  in  modo  che  ne
saltarono alte tutte le posate disposte per la cena della servitù. -  Tre  volte
di seguito il nove dovean portare quei maledetti dadi!... Non mi è mai  successo
un caso simile!... Che partita rovinata!... Basta, tenete a mente, Marchetto!...
Tre bezzi di domenica, e due e mezzo di stasera... - La ne ha anche sette  della
settimana passata! - soggiunse prudentemente il cavallante. - Ah sí sí! sette  e
cinque, dodici e mezzo - rispose il Capitano scomponendosi il ciuffo.  -  Giusto
manca un mezzo bezzo a fare i sei soldi. Te li  pagherò  domani.  -  Si  figuri!
s'accomodi! - disse sospirando Marchetto. - Quanto a te - continuò  il  Capitano
venendomi vicino per divertire il discorso - quanto a te,  bragia  coperta  d'un
girapolli, vorrei sí averti io fra le grinfe che ti farei mettere giudizio!  N'è
vero, Veronica, che son famoso io per far metter giudizio alla gente? -  Va  là!
volevate dire per farlo perdere! - rispose sua moglie, uscendo dal  focolare  ed
avviandosi al tinello. - Vado ora a dire alla signora Contessa che non  stia  in
angustie,  e  che  Carlino  è  tornato.  Io  non  aveva  uno  specchio  dinanzi;
contuttociò potrei giurare che a quell'annunzio mi si drizzarono i  capelli  sul
capo, come tanti parafulmini. Mi fu allora di  mestieri  una  nuova  esortazione
della cuoca per tirar innanzi collo spiedo, e poi stetti là  piú  stupidito  che
rassegnato ad aspettare gli avvenimenti. Infatti questi non mi fecero  aspettare
a lungo. Mentre la Contessa violava da una banda la sua prammatica  giornaliera,
e compariva per la terza volta  in  cucina  colla  signora  Veronica  a  latere,
dall'altra veniva dentro Fulgenzio colla sua grossa figura da santone seppellita
piú del solito nel collare della giacchetta. Mai la similitudine di Cristo fra i
due ladroni non si è appropriata cosí bene come  a  me  in  quel  caso;  ma  sul
momento non avea tempo di burlare, poiché sapeva benissimo che nessuno  di  quei
ladri si sarebbe  pentito.  La  Contessa  si  fece  innanzi  strascicando  oltre
l'usanza la coda della veste, e mi si piantò proprio sul viso; che la vampa  del
focolare le rendeva gli occhi come due bragie, e lucente al pari d'un carbonchio
la goccioletta che spesso aggiungeva vezzo al suo naso uncinato.  -  Cosí  -  mi
disse stendendo verso di me una mano  che  mi  fece  raggruzzolar  tutto  per  i
brividi che mi corsero giù per la schiena - cosí, brutto ranocchio, tu  rimeriti
la bontà di chi ti ha raccolto, allevato, nutrito, ed educato anche a leggere, a
scrivere, e a servir messa?.... Me ne consolo con te. Io ti predico fin'ora  che
la tua mala condotta ti trarrà in perdizione, che farai la mala vita  come  l'ha
fatta tuo padre, e che finirai col farti appiccare, come è vero che ne  dimostri
fin d'ora tutte le buone disposizioni! A quel punto credetti sentire  nel  collo
lo strettoio del capestro. Nulla! erano le dita della signora  Contessa  che  mi
attanagliavano al solito luogo. Io mandai due strilli cosí acuti  che  accorsero
dal tinello il  Piovano,  il  Cancelliere,  la  Clara,  il  signor  Lucilio,  il
Partistagno, e perfino, un attimo dopo, il  signor  Conte  e  Monsignore.  Tutta
questa gente, unita a quella che si trovava in cucina e alle  fantesche  e  alle
cameriere accorse pur esse, componeva un bellissimo  apparecchio  di  assistenti
alla mia passione. Lo spiedo stava  fermo,  e  la  cuoca  s'era  intromessa  per
distaccarmi le mani dalla coppa e rimettermele  al  lavoro:  ma  io  era  ancora
troppo distratto dalla rabbiosa operazione della  Contessa  perché  potessi  dar
mente a quell'altro impiastro. - Dimmi ora cos'hai fatto a zonzo fino a due  ore
di notte - riprese colei riponendosi ambe le mani sui fianchi  con  immensa  mia
consolazione. - Voglio sapere tutta la verità, e a me non la darai  a  intendere
coi tuoi grilli, e col frignare! La signora Veronica ghignò, come sanno ghignare
solo le cattive vecchie e il diavolo; io dal mio canto le buttai un'occhiata che
valeva per cento maledizioni. -  Parla  parla,  sangue  di  galera!  -  urlò  la
Contessa facendomisi questa volta addosso con ambe le  mani  uncinate  come  gli
artigli d'una gatta. - Sono stato a spasso fino al luogo dove c'era molta  acqua
rossa, e molto sole. E poi... - diss'io. - E poi? - domandò la Contessa. - E poi
sono tornato! - Ah sí che sei tornato in tanta malora! - soggiunse  ella.  -  Ti
veggo sí e non ci ha bisogno che tu me lo dica; ma se non vorrai dire quello che
hai fatto in tutte queste ore, ti prometto in fede di  gentildonna  che  tu  non
gusterai piú il sapore del sale!... Io tacqui; e poi strillai ancora un poco per
un altro scrollo che la mi diede alla zazzera con quelle sue dita di scimmia;  e
poi mi rimisi a tacere, ed anco a menare stupidamente  lo  spiedo,  perché  alla
cuoca era venuto fatto di rificcarmene il manico in una  mano.  -  Le  dirò  io,
signora Contessa, cos'ha fatto questo bel capo - prese allora a dire  Fulgenzio.
- Io era poco fa in sagristia a pulirvi i vasi e le ampolline per la Pasqua  che
è vicina, ed essendo uscito  fin  sulla  fossa  per  prender  acqua,  ho  veduto
giungere dalla banda di San Mauro  un  uomo  a  cavallo  che  mise  a  terra  il
signorino, e gli tenne anche un discorso che non ho capito punto;  e  poi  colui
seguitò col suo cavallo verso Ramuscello, e  il  signorino  girò  la  fossa  per
entrare dal portone. Ecco come sta la cosa! - E chi era  quell'uomo  a  cavallo?
eravate voi Marchetto? - richiese la Contessa. - Marchetto passò con me tutto il
dopopranzo - rispose il Capitano. - Chi  era  dunque  quell'uomo?  -  ripeté  la
Contessa volgendosi a me.  -  Era...  era...  non  era  nessuno  -  mormorai  io
ricordando il servigio resomi e la raccomandazione fattami dallo sconosciuto.  -
Nessuno, nessuno! - brontolò la Contessa - lo sapremo chi  era  questo  nessuno!
Faustina, - aggiunse ella, parlando alla donna dei ragazzi, -  porterete  subito
il letto di Carlino nel  camerottolo  scuro  tra  la  stanza  di  Martino  e  la
frateria, e menatevelo quando sarà in punto  l'arrosto.  Di  là,  carino  mio  -
continuò volgendosi a me - non uscirai piú se prima  non  avrai  detto  chi  era
quell'uomo a cavallo col quale sei venuto fin sulla scorciatoia  di  Ramuscello.
La Faustina aveva acceso il lume, ma non era partita ancora per  trasportare  il
mio covacciolo. - Vuoi dunque dire chi era quell'uomo? - domandò la Contessa. Io
volsi uno sguardo alla Faustina; e mi sentii rompere il cuore pensando che prima
di coricarmi non avrei piú potuto fisar gli occhi ed anche arrischiar  un  bacio
sulle palpebre socchiuse e sul bocchino tondetto e  rugiadoso  della  Pisana.  E
stava in me forse che la Faustina non partisse! - No! non ho veduto nessuno! non
son venuto con nessuno, io - risposi ad un tratto con maggior franchezza che non
avessi mai mostrato dapprima. - Ebbene! - soggiunse la Contessa  tornando  verso
il tinello dopo aver fatto alla Faustina un altro gesto che la indusse ad uscire
per l'eseguimento degli ordini ricevuti. - Sia fatto come tu vuoi! Mise le  mani
in tasca e uscí tirandosi dietro in codazzo tutta la comitiva; ma  ognuno  prima
di seguirla mi volgeva due occhiate che sanzionavano la  giusta  sentenza  della
castellana. Il Conte mi esorcizzò inoltre con un gesto che significava: - Costui
ha il diavolo addosso. - Monsignore andò via scrollando il capo quasi disperasse
del Confiteor; il Piovano strinse le labbra come per  dire:  -  Non  ci  capisco
nulla, - e il Partistagno voltò via allegramente perché era stufo  della  scena.
Restava la contessina Clara che in onta agli occhiacci della  signora  Veronica,
di Fulgenzio e del Capitano, mi venne  daccanto  amorevolmente  domandandomi  se
avessi proprio detto la verità. Io volsi uno sguardo in giro, e  risposi  di  sí
piegando il mento sul petto. Allora ella mi accarezzò amichevolmente sul capo, e
andò insieme cogli altri: ma prima che la fosse uscita il signor Lucilio  mi  si
era accostato proprio vicino all'orecchio per dirmi che io stessi  in  letto  il
giorno dopo e che lo facessi chiamar lui, che avremmo accomodato tutto con  poco
danno. Io alzai la testa per guardarlo e vedere se mi parlava da senno con tanta
amorevolezza; ma egli si era  già  allontanato  fingendo  non  accorgersi  d'uno
sguardo quasi di riconoscenza che la Clara  avea  tenuto  fermo  sopra  di  lui,
rivolgendosi sulla soglia della porta. - Cosa gli ha detto a  quel  poverino?  -
chiese la fanciulla. - Gli ho detto cosí e cosí - rispose  Lucilio.  La  giovane
sorrise, e tornarono poi insieme in tinello, dove  approssimandosi  l'ora  della
cena tennero loro dietro il Capitano colla  moglie.  Restavano  Fulgenzio  e  la
cuoca; ma Marchetto e Martino me ne liberarono  assicurando  che  l'arrosto  era
cotto, e consigliandomi di andarmene a dormire. Infatti Martino prese su un lume
e mi condusse al mio nuovo domicilio per quei lunghissimi giri  di  scale  e  di
corritoio che mi parvero in quella sera non dover piú finire. Egli mi  raccomodò
il letticciuolo in  un  angolo  di  quello  stanzino  che  era  nulla  piú  d'un
sottoscala; m'aiutò a svestirmi e mi compose le coltri intorno al  collo  perché
non pigliassi freddo. Io lo lasciava fare, come appunto se fossi  un  morto;  ma
quando poi fu partito, e al lume della lucernetta deposta da lui in  un  cantone
vidi le muraglie sgretolate e il soffittaccio sghembato in quel buco  da  gatti,
la disperazione di non essere nella stanza bianca ed  allegra  della  Pisana  mi
riprese con tal violenza che mi dava pugni e unghiate nella  fronte  e  non  fui
contento se prima non mi vidi le mani rosse di sangue. In mezzo a quelle  smanie
sentii grattare pian piano all'uscio, e, cosa naturalissima in  un  ragazzo,  la
disperazione cesse pel momento il luogo alla paura. - Chi è? - diss'io con  voce
malferma pei singhiozzi che mi  agitavano  ancora  il  petto.  L'uscio  s'aperse
allora e la Pisana, mezzo ignuda nella sua  camicina,  a  piedi  nudi,  e  tutta
tremante di freddo, saltò d'improvviso sul mio letto. - Tu?  cosa  hai?...  cosa
fai?... - le dissi io non rinvenendo ancora dalla sorpresa. - Oh bella! ti vengo
a trovare e ti bacio, perché ti voglio bene - mi rispose la fanciulletta.  -  Mi
sono svegliata che la Faustina disfaceva il tuo letto, e siccome seppi  che  non
volevano piú lasciarti dormire nella nostra camera, e che ti avevano  messo  con
Martino, son venuta quassù a  vedere  come  stai,  e  a  domandarti  perché  sei
scappato oggi e non ti sei piú fatto vedere. - Oh cara la mia  Pisana,  cara  la
mia Pisana! - mi misi a gridare stringendomela di tutta forza sul cuore.  -  Non
gridar tanto che ci sentano poi in cucina - rispose  ella  accarezzandomi  sulla
fronte. - Cos'hai qui? - la aggiunse sentendosi bagnata la  mano  e  guardandola
contro il chiaro del lume. - Sangue, sangue; sei tutto insanguinato!... Hai  qui
sulla fronte un'ammaccatura che ne getta fuori a zampilli!... Cos'hai fatto? sei
forse caduto o hai dato in qualche spino? - No, non fu nulla... è  stato  contro
la merletta della porta - risposi io. - Bene, bene; comunque la sia, lascia  far
a me a guarirti -  soggiunse  la  Pisana.  E  mi  mise  la  bocca  sulla  ferita
baciandomela e succiandomela, come facevano le buone  sorelle  d'una  volta  sul
petto dei loro fratelli crociati; e  io  le  veniva  dicendo:  -  Basta,  basta,
Pisana: ora sto benissimo! non mi accorgo nemmeno piú d'essermi  fatto  male!  -
No, esce ancora un poco di sangue - rispondeva ella, e mi teneva ancora la bocca
sulla fronte, serrata con tal forza che non pareva una  bambina  di  otto  anni.
Finalmente il sangue fu stagnato, e la vanerella insuperbiva  di  vedermi  tanto
beato come era di quelle sue carezze. - Sono venuta su allo  scuro  tastando  le
muraglie - la mi disse - ma dabasso sono  a  cena,  e  non  avea  paura  che  mi
scoprissero. Ora poi che ti ho guarito, mi tocca scender ancora  perché  non  mi
trovino per le scale. - E se ti trovassero? -  Oh  bella!  faccio  le  viste  di
sognare! - Sí; ma mi dispiace quasi, che tu  arrischi  cosí  di  buscarti  dalla
mamma qualche castigo. - Se dispiace a te, a me non importa,  anzi  mi  piace  -
ella  rispose  con  un  atto  di  vezzosa  superbietta,  squassando   la   testa
all'indietro per liberarsi la  fronte  dai  capelli  disciolti  che  la  avevano
ingombra. - Vedi! tu mi piaci piú di tutto, e quando poi non hai indosso  quella
giubbaccia, come sei ora il mio Carlino, che ti veggo proprio tal qual  sei,  mi
piaci tre volte tanto!... Oh! perché non ti mettono le belle cose che aveva oggi
intorno mio cugino Augusto!... - Oh me ne procurerò di quelle belle cose!  -  io
sclamai. - Le voglio ad ogni costo! - E  dove  le  prenderai?  -  mi  chiese  di
rimando. - Dove, dove!... lavorerò per guadagnar  danari,  è  coi  danari,  dice
Germano, che si può aver tutto. - Sí, sí, lavora! lavora! - mi disse la  Pisana.
- Io allora ti vorrò bene sempre piú! Ma  perché  non  ridi  ora?...  Eri  tanto
allegro poco fa! - Vedi un po' se rido? - soggiunsi io giungendo  la  mia  bocca
alla sua. - No, cosí non ti posso vedere!... Via, lasciami! Voglio guardarti  se
ridi. Hai capito che ho detto di volerti guardare.  Io  la  accontentai  e  feci
anche prova di riderle colle labbra, ma giù nel cuore andava pensando qual  bene
la m'avrebbe voluto intantoché io mi fossi guadagnati quegli arredi da  signore.
- Ora sei carino, che mi dai piacere  -  riprese  la  Pisana  canticchiando  con
quella sua vocina che mi par ancora di sentirla e mi  diletta  le  orecchie  fin
dalla memoria. - Addio Carlino; io ti saluto,  e  vado  dabasso  prima  che  non
ritorni la Faustina! - Voglio farti lume io! - No, no; - soggiunse ella saltando
giù dal letto e impedendomi di far lo stesso con una delle sue mani - son venuta
allo scuro e tornerò giù come sono venuta. - Ed io ripeto che non voglio che  ti
faccia male, e che ti farò lume fin sulla scala. - Guai a te se ti movi! - la mi
disse allora cambiando modo di voce,  e  lasciandomi  libero  di  movermi,  come
sicura che il suo cenno avrebbe bastato a farmi star quatto - mi  fai  andar  in
collera; ti dico che voglio scendere senza lume! io son coraggiosa,  io  non  ho
paura di nulla! io voglio andare come voglio io!  -  E  se  poi  ti  succede  di
inciampare, o di perderti pei corritoi!  -  Io  inciampare  o  perdermi?...  Sei
matto?... Non son mica nata ieri!... Addio, addio  Carlino.  Ringraziami  perché
sono stata buona di venirti a trovare. - Oh sí, ti ringrazio, ti ringrazio! - le
dissi io, col cuore slargato dalla consolazione. - E lascia che io ringrazi  te;
- la soggiunse, inginocchiandomisi vicino  e  baciuzzandomi  la  mano  -  perché
seguiti a volermi bene anche quando son  cattiva.  Ah  sí!  tu  sei  proprio  il
fanciullo piú buono e piú bello di quanti me ne vengono dintorno, e non  capisco
come non mi castighi mai di quelle malegrazie che ti  faccio  qualche  volta.  -
Castigarti? perché mai, Pisana? - io le andava dicendo. - Levati su piuttosto, e
lascia che ti faccia lume, che cosí al freddo puoi ammalarti! - Eh! - sclamò  la
piccoletta. - Sai pure che io non mi ammalo  mai!  Prima  di  andar  via  voglio
proprio che tu mi castighi,  e  che  mi  strappi  ben  bene  i  capelli  per  le
cattiverie che ho commesse contro di te. - E la mi prendeva le mani mettendomele
sulla sua testolina. - Ohibò! - diceva io ritraendole - piuttosto ti bacerei!  -
Voglio che tu mi strappi i capelli! - soggiunse ella riprendendomi le mani. - Ed
io invece non voglio! - risposi ancora. - Come non  vuoi?  ed  io  ti  dico  che
vorrai! - la si mise a strillare. - Strappami i capelli, strappami i capelli, se
no grido tanto che verranno qua sopra e mi farò  pestare  dalla  mamma.  Io  per
acchetarla presi con due dita una ciocca delle sue treccie e me la  attorcigliai
intorno alla mano, giocarellando. - Tira dunque, via; tirami i  capelli  -  ella
soggiunse un po' stizzita, ritraendo di furia la testa in modo che la  mia  mano
dovette seguirla per  non  farle  troppo  male.  -  Ti  dico  che  voglio  esser
castigata! - continuò pestando i suoi piedini e le ginocchia contro il pavimento
che era di pietre tutte sconnesse. - Non far  cosí,  Pisana,  che  ti  guasterai
tutta. - Or dunque strappami i capelli! Io tirai pian piano  quella  ciocca  che
aveva fra le dita. - Piú forte, piú forte! - disse la pazzerella. - Cosí  dunque
- diss'io facendo un po' piú di forza. - No cosí! piú  forte  ancora  -  riprese
ella con atto di rabbia. E mentre io non sapeva che fare, la dimenò il capo  con
tanto impeto e cosí improvvisamente che quella ciocca de' suoi capelli mi rimase
divelta fra le dita. - Vedi? - aggiunse allora tutta  contenta.  -  Cosí  voglio
esser castigata quando lo voglio!...  e  a  rivederci  dimani,  Carlino;  e  non
moverti di là se no non vengo piú a spasso con te.  Io  mi  stetti  attonito  ed
immobile con quella ciocca fra le dita mentr'ella guizzò dalla porta e  richiuse
l'uscio: e poi feci per correrle dietro col lume ma la  era  già  scomparsa  dal
corritoio. Scommetto che se la sua mamma nel castigarla le avesse strappato  uno
di quei capelli, ella ne avrebbe strepitato tanto da metter sottosopra  la  casa
ed anche ora mi maraviglia che la sopportasse quel dolore senza batter palpebra;
tanto potevano in lei la volontà e la bizzarria infin da bambina. Io poi non  so
se quei momenti mi fossero piú di piacere o di  rammarico.  Quell'eroismo  della
Pisana di venirmi a trovare a traverso gli andirivieni di quella buia  casaccia,
e ad onta delle punizioni che ne  poteano  capitarle,  m'avea  fatto  salire  al
settimo cielo; poscia la sua caparbietà s'era intromessa a tosarmi di  molto  le
ali perché sentiva (dico sentiva, perché a nove o dieci anni certe cose  non  si
capiscono ancora) sentiva,  ripeto,  che  l'immaginativa,  e  la  vanagloria  di
mostrare un piccolo portento di prodezza, c'entravano piú assai dell'affetto  in
un  tale  eroismo.  M'era  dunque  raumiliato  d'alquanto  dal   primo   bollore
d'entusiasmo, e quei capelli che m'erano rimasti testimoniavano piuttosto  della
mia servitù che del suo buon cuore verso di me.  Tuttavia  fin  da  fanciullo  i
segni materiali delle mie gioie de' miei dolori e delle  mie  varie  vicende  mi
furono sempre carissimi; e quei capelli non li avrei dati allora per tutti i bei
bottoni d'oro e di mosaico e per le altre dovizie che sfoggiava sulla persona il
signor Conte nei giorni solenni. Per me la memoria fu sempre  un  libro,  e  gli
oggetti che la richiamano a certi tratti de'  suoi  annali  mi  somigliano  quei
nastri che si mettono nel libro alle pagine piú interessanti.  Essi  ti  cascano
sott'occhio di subito; e senza sfogliazzar le carte, per trovare quel punto  del
racconto o quella sentenza che ti ha meglio colpito, non hai che  a  fidarti  di
loro. Io mi portai sempre dietro per lunghissimi anni un museo di minutaglie, di
capelli, di sassolini, di  fiori  secchi,  di  fronzoli,  di  anelli  rotti,  di
pezzuoli di carta, di vasettini, e perfino d'abiti e di pezzuole  da  collo  che
corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi  o  dolorosi,  ma
per me sempre memorabili, della mia vita.  Quel  museo  cresceva  sempre,  e  lo
conservava con tanta religione quanta ne  dimostrerebbe  un  antiquario  al  suo
medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll'anima mia, io non avrei che a  far
incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi, per tornarvi in  mente
tutta la storia della mia vita, a mo' dei geroglifici egiziani. E per me  io  la
leggo in essi tanto chiara, come Champollion lesse sulle Piramidi la storia  dei
Faraoni. Il male si è che l'anima mia non diede mai ricetto al pubblico, e cosí,
per metterlo a parte de' suoi segreti, come le ne è venuto il talento,  la  deve
sfiatarsi in ragionamenti e in parole. Me lo perdonerete voi? Io  spero  di  sí;
almeno in grazia dell'intenzione la quale è di darvi qualche utilità  della  mia
lunga esperienza; e se cotale opera mi è di alcun diletto o  sollievo,  vorreste
ch'io me ne stogliessi per una pretta mortificazione di spirito? - Lo  confesso,
non son tanto ascetico. - Il fatto si è che quei simboli del passato sono  nella
memoria d'un uomo, quello che i monumenti cittadini e  nazionali  nella  memoria
dei posteri. Ricordano, celebrano, ricompensano, infiammano: sono i sepolcri  di
Foscolo che ci rimenano col pensiero a favellare coi cari estinti: giacché  ogni
giorno passato è un caro estinto per noi, un'urna piena di fiori e di cenere. Un
popolo che ha grandi monumenti onde  inspirarsi  non  morrà  mai  del  tutto,  e
moribondo sorgerà a vita piú colma e vigorosa che mai:  come  i  Greci,  che  se
ebbero in mente le statue d'Ercole e di  Teseo  nel  resistere  ai  Persiani  di
Serse, ingigantirono poi nella guerra contro Mahmud alla vista del  Partenone  e
delle Termopili. Cosí l'uomo, religioso al  memoriale  delle  sue  fortune,  non
perde il tempo che scorre; ma riversa la gioventù nella virilità e le  raccoglie
poi ambedue nello stanco e memore  riposo  della  vecchiaia.  È  un  tesoro  che
s'accumula, non son monete che si spendono giorno per giorno. Del  resto  questa
pietosa abitudine mi parve sempre indizio d'animo dabbene; il tristo nulla ha da
guadagnare e tutto da perdere nel ricordarsi; egli s'affanna a distruggere non a
conservare le traccie delle sue azioni, perché i rimorsi pullulano da ognuna  di
esse, come gli uomini dai denti seminati da Cadmo. Alle volte io temetti che con
tale usanza si venisse a porre nella vita un soverchio affetto, e che  il  culto
del passato significasse avidità del futuro. Ma se è cosí in taluno, non è certo
sempre  né  in  tutti;  del  che  sono  io  la  prova.  Chi  raccolse  nel   suo
pellegrinaggio e tenne sol conto delle gemme e dei fiori,  si  avvicinerà  forse
tremando a quel varco dove i gabellieri inesorabili lo spoglieranno  per  sempre
dell'allegro bottino; ma se  si  affidarono  al  sacrario  delle  rimembranze  i
sorrisi e le lagrime, le rose e le spine, e tutta la varia vicenda  della  sorte
nostra ci si schiera dinanzi per via di figure e d'emblemi,  allora  lo  spirito
s'adagia rassegnato nel pensiero  dell'ultima  necessità;  e  i  gabellieri  gli
sembrano inesorabili insieme e  pietosi.  La  va  secondo  l'indole  di  chi  ha
raccolto ed ordinato il museo; poiché mio pensiero è che la fortuna  nostra  sia
scritta profeticamente nell'indole. Essa è la regola interna secondo cui le cose
esterne hanno questo o quel valore; e che dai propri modi di essere  giudica  la
vita o un ozio, o un piacere, o un sacrifizio, o una battaglia, o una  modalità.
Chi falla nel giudizio  deve  o  rimediarvi  colla  convinzione  nell'errore,  o
espiare la propria cecità col disperarsene. E molto facilmente chi stimi la vita
un'occasione di piaceri non la stimerà piú tale al momento  d'andarsene.  Quella
ciocca di capelli neri ineguali e avviluppati, che serbano ancora i segni  dello
strappamento, furono come la prima croce appesa a segnare lo spazio  vuoto  d'un
giorno nel sacrario domestico della memoria. E sovente venni poi  a  pregare,  a
meditare, a sorridere, a piangere dinanzi a quella croce,  dal  cui  significato
misto di gioia e d'affanno potevasi forse pronosticar fin d'allora il tenore  di
quei godimenti acuti, scapigliati e convulsi che mi dovevano poi logorar l'anima
e fortunatamente  rinnovarla.  Quella  ciocca  di  capelli  restò  l'A  del  mio
alfabeto, il primo mistero della mia Via Crucis, la  prima  reliquia  della  mia
felicità; la prima parola scritta insomma della  mia  vita;  varia  com'essa,  e
quasi inesplicabile come quella di tutti. Certo fin  dal  primo  istante  io  ne
presentii l'importanza perché non mi pareva aver ripostiglio  tanto  sicuro  ove
nasconderla. L'avvoltolai per allora in una  pagina  bianca  strappata  dal  mio
libro di messa e la misi fra il letto ed il  pagliericcio.  Cosa  strana  assai!
poiché mi si parò alla mente il valore inestimabile di quei pochi capelli,  essi
mi bruciavano le dita. Non so se fosse paura di perderli e di esserne privato, o
ribrezzo istintivo dalle tremende promesse che significarono poi. - Io li  aveva
già nascosti, e stava cheto cheto fingendo di dormire, quando capitò su Martino,
il quale vedendomi addormentato tolse la lucernetta per sé, e si ritrasse  nella
sua stanza. Poi a poco a poco la finta di dormire mi si volse in sonno vero,  ed
il  sonno  in  un  ghiribizzo  continuo   di   sogni,   di   fantasmagorie,   di
trasfiguramenti, che mi lasciò di quella notte l'idea  lunga  lunga  d'un'intera
vita. Che il tempo non si misurasse, come pare, dai moti  del  pendolo,  ma  dal
numero delle sensazioni? Potrebbe essere; e potrebbe esser del pari che una  tal
questione si riducesse a un gioco di parole. Io certo vissi alle volte nel sogno
di  un'ora  lunghissimi  anni;  e  mi  parve  poter  spiegare  questo   fenomeno
assomigliando il tempo ad una distanza ed il sogno ad una vaporiera. I prospetti
sono gli stessi ma passano piú rapidi; la distanza non è diminuita ma  divorata.
La mattina mi svegliai con tanta gravità addosso, che mi invogliava di  credermi
un uomo addirittura, cosí lunga età mi pareva essersi  condensata  nelle  ultime
ventiquattr'ore da me vissute: e  le  memorie  del  giorno  prima  mi  passarono
innanzi chiare ordinate e vivaci come i capitoli d'un bel  romanzo.  I  dispetti
della Pisana, le smorfie dei bei  cugini,  il  mio  abbattimento,  la  fuga,  il
risvegliarsi in riva  al  canale,  il  guazzo  periglioso  di  questo,  la  gran
prateria, il giungere sull'altura, le meraviglie di  quella  scena  stupenda  di
grandezza, di splendore, e di mistero; il cader delle tenebre, i miei timori,  e
il correre traverso la campagna, e lo scalpitarmi a tergo del cavallo, e  l'uomo
dalla gran barba che m'avea  tolto  in  groppa;  il  galoppo  sfrenato  traverso
l'oscurità e la nebbia, le sculacciate di Germano sul primo giungere  a  Fratta,
quegli altri martirii della cucina, e quello spiedo e quella Contessa, e la  mia
fermezza di non voler disobbedire alla raccomandazione di  chi  m'avea  reso  un
servigio ad onta del tremendo castigo minacciatomi; la carezza della Clara e  le
parole del signor Lucilio, le mie smanie, le disperazioni poiché fui coricato, e
l'apparimento in mezzo a queste della Pisana,  della  Pisana  umile  e  superba,
buona e crudele, sventata bizzarra e bellissima secondo il solito, non  vi  pare
che ce ne fossero troppe pel cervello d'un bambino? E  lí  in  un  foglietto  di
carta sotto il pagliericcio io aveva un talismano  che  per  tutta  la  vita  mi
avrebbe ravvivato a mio grado tutto quel giorno cosí vario cosí  pieno.  Allora,
risovvenendomi specialmente della parlata del  signor  Lucilio,  divisai  trarne
profitto, e presi a chiamar Martino con quanta voce aveva in gola. Ma il vecchio
m'avrebbe fatto squarciare, senza che il suo timpano si risolvesse ad avvertirlo
delle mie grida; balzai dunque dal letto, e andai nella sua camera  che  appunto
l'era sul finir di vestirsi, e gli dissi che io mi sentiva un gran mal di  capo,
e che per tutta la notte non avea chiuso occhio, e che mi chiamassero il dottore
perché avea gran paura di morirne. Martino mi rispose ch'era  pazzo,  e  che  mi
ricoricassi quietino e che egli andrebbe intanto pel dottore: ma prima scese  in
cucina a rubarmi un po' di brodo; impresa nella  quale,  protetto  dall'oscurità
del locale, riuscí a meraviglia; e io bevetti il brodo con gran pazienza  benché
avessi dentro una grandissima voglia di panetti, e poi m'adagiai sotto le coltri
promettendo che avrei cercato di sudare. Credo che tra le botte della testa,  la
sfinitezza della fatica e del digiuno, e il sudore promossomi da quella  bevanda
calda, io arrivai a compormi una bellissima febbre; tantoché  quando  il  signor
Lucilio capitò di lí a un'ora, la fame erami passata e le era succeduta una sete
ardentissima. Mi tastò il polso, mi guardò la  lingua,  e  mentre  mi  domandava
conto di quelle graffiature che mi screziavano la fronte, sorrise  in  modo  piú
benevolo di prima, udendo nel corritoio il fruscío d'una gonna. La  Clara  entrò
nel bugigattolo per ascoltare dal medico la ragion del mio  male  e  confortarmi
con dire che la Contessa in vista della mia malattia non si sarebbe ostinata nel
castigarmi tanto severamente, e purché dicessi a lei la verità circa  alla  sera
prima, mi avrebbe anche perdonato. Io le  risposi  che  la  verità  l'aveva  già
detta, e sarei tornato a ripeterla; e che se pareva strano a loro che andando  a
zonzo senza saper dove  avessi  passato  quasi  un'intera  giornata,  lo  stesso
sembrava anche a me, ma non sapeva che farci. La  Clara  allora  m'interrogò  su
quel luogo cosí maraviglioso e cosí pieno di luce di sole e di colori ove diceva
essere stato; e ripetutane ch'io n'ebbi  con  grand'enfasi  la  descrizione,  la
soggiunse che forse Marchetto aveva ragione e che  io  poteva  essere  stato  al
Bastione di Attila, che è un'altura presso la marina di fianco a Lugugnana  dove
la tradizione paesana vuole che venendo da Aquileia abbia tenuto suo campo il re
degli Unni prima di essere incontrato dal pontefice Leone. Peraltro da Fratta  a
là correvano  sette  buone  miglia  pei  traghetti  piú  spicci,  e  non  sapeva
capacitarsi che nel ritorno non mi fossi smarrito. E la mi disse per giunta  che
quella tal bella cosa immensa azzurra  e  di  tutti  i  colori  nella  quale  si
specchiava il cielo era per l'appunto il mare. - Il mare! - io sclamai - oh qual
felicità menar la propria vita sul mare! - Davvero? - disse il signor Lucilio. -
Eppure io ci ho un cugino che gode da molti anni di questa felicità e non  ne  è
gran fatto contento. Egli afferma che l'acqua è fatta pei pesci e  che  un  gran
controsenso fu quello dei vecchi Veneziani  di  piantarvisi  entro.  -  Sarà  un
controsenso ora; ma non lo era una volta; - soggiunse la Clara - quando al di là
del mare c'eran Candia la Morea e Cipro e tutto il  Levante.  -  Oh  per  me,  -
ripresi io - starei sempre sul mare senza occuparmi di quello che  possa  essere
di là. - Ma intanto pensa a star ben coperto e a guarire, demonietto -  aggiunse
il signor Lucilio. - Martino ti porterà dalla spezieria una boccettina  d'acqua,
buona come la conserva, e tu  la  prenderai  un  cucchiaio  per  volta  ad  ogni
mezz'ora, hai capito? - Intanto ti aggiusteremo le cose colla  mamma  pel  minor
danno, - continuò la Clara - e giacché mi hai ripetuto che quella era la  verità
come l'avevi detta ieri sera, io spero che la ti perdonerà. Lucilio e  la  Clara
uscirono, Martino uscí con loro per andarne alla spezieria; io mi rimasi col mio
sudore colla mia sete e con una voglia sfrenata di veder la Pisana,  ché  allora
non mi avrebbe piú importato se mi perdonavano o meno. Ma la fanciulletta non si
fece vedere, e soltanto nel cortile udii  la  sua  voce  e  quella  degli  altri
ragazzi che strimpellavano ne' loro giochi; e siccome io aveva  paura  di  esser
veduto o prevenuto da Martino, o denunziato da  alcuno  dei  fanciulli,  non  mi
cimentai a vestirmi e scender nel cortile come ne aveva quasi volontà. Io stetti
coll'orecchie intese e il cuore in tumulto che mi impediva  quasi  di  udire.  -
Tuttavia di lí a un'ora intesi  la  Pisana  gridare  a  perdifiato:  -  Martino,
Martino, come sta dunque Carletto? Martino dovette aver capito e le  avrà  anche
risposto, ma io non ne intesi nulla: solamente lo vidi entrar di lí a poco colla
boccetta della medicina e mi disse che la Contessa lo aveva  incontrato  per  la
scala e domandatogli se era vero che mi  fossi  spaccata  la  fronte  contro  la
parete per la disperazione. - È vero questo? - soggiunse il buon Martino. -  Non
so - io gli risposi - ma ieri sera era cosí scaldato che posso aver fatto  delle
sciocchezze senza che ora me ne ricordi.  -  Non  te  ne  ricordi?  -  soggiunse
Martino che poco m'aveva capito. - No, no, non me ne ricordo -  ripresi  io.  Ed
egli non rimase affatto contento d'una tale risposta poiché gli pareva a lui che
dopo aversi conciato il muso a quel modo per un pezzo dovesse durarne buonissima
memoria. La medicina fece il suo effetto, migliore forse e  piú  improvviso  che
nessuno si sarebbe aspettato, perché il  giorno  stesso  m'alzai;  e  quanto  al
castigo inflittomi dalla Contessa non se ne parlò piú. Gli è vero  peraltro  che
non si parlò neppure di ristabilirmi nella camera della Faustina, e che  il  mio
canile  rimase  definitivamente  nell'appartamento  di  Martino.  Come  si   può
immaginare, la voglia di riveder la Pisana dopo quell'improvvisata  della  notte
scorsa ci ebbe un gran merito nella mia repentina guarigione; e  quando  discesi
in cucina, mia prima cura fu quella di cercarla.  La  famiglia  avea  finito  il
pranzo allora allora; e Monsignore incontrandomi per la scala  mi  accarezzò  il
mento contro ogni suo solito, e mi guardò le ammaccature della fronte, le  quali
poi non erano quel gran malanno. Egli mi disse  che  non  doveva  essere  quella
peste che mi credevano se il dolore di esser reputato bugiardo mi faceva dare in
simili violenze contro me stesso; ma mi raccomandò di usar  piú  discrezione  in
avvenire, di offerire a Dio le mie tribolazioni, e di imparare la seconda  parte
del Confiteor. Nelle benigne parole di Monsignore io  riconobbi  il  buon  animo
della Clara,  la  quale  aveva  dato  quell'edificantissima  ragione  delle  mie
stramberie, e cosí, se non il  perdono  completo,  mi  fu  almeno  concessa  una
clemente dimenticanza. Seppi in seguito da Marchetto che il  signor  Lucilio  mi
aveva dipinto come  un  ragazzo  molto  timido  e  permaloso,  facile  ad  esser
abbattuto anche nelle forze e nella salute da un qualunque dispiacere; e tra lui
e la Clara tanta malleveria diedero della mia  sincerità  che  la  Contessa  non
volle insistere ad accusarmi di doppiezza. Peraltro ella si tolse  la  briga  di
interrogare Germano; ma questi, imbeccato forse da  Martino,  rispose  che  avea
bensí udito la notte prima lo scalpitar d'un cavallo, ma buona pezza dopo il mio
ritorno a Fratta, sicché non era possibile che con quel cavallo io fossi venuto.
Allora la testimonianza di Fulgenzio fu lasciata là,  ed  io  rimasi  colla  mia
pace, e non caddi piú nella  necessità  di  dover  mentire  per  delicatezza  di
coscienza. Debbo tuttavia soggiungere che quella che parrà a  taluni  frivola  e
cocciuta ostinazione di fanciullo, a me sembrò fin d'allora e la sembra tuttavia
una bella prova di fedeltà e di  gratitudine.  Fu  allora  la  prima  volta  che
l'animo mio ebbe a lottare fra piacere e dovere; né io  titubai  un  istante  ad
appigliarmi a quest'ultimo. Se  il  dovere  in  quel  caso  non  era  poi  tanto
stringente, poiché né la raccomandazione  dello  sconosciuto  pareva  fatta  sul
serio, né io avea promesso nulla, né potea capire a che gli potesse  giovare  il
mio silenzio sopra un fatto cosí comune com'è quello del passaggio d'un  uomo  a
cavallo, tuttociò  prova  a  tre  tanti  la  rettitudine  de'  miei  sentimenti.
Fors'anco quel primo sacrificio, cui mi disposi tanto volonterosamente e per  sí
frivolo motivo, diede alla mia indole quell'avviamento che non  ho  poi  cessato
dal seguir quasi sempre in circostanze  piú  gravi  e  solenni.  A  lungo  si  è
disputato se la fortuna faccia l'uomo o se l'uomo governi la fortuna.  Ma  nella
disputa non si badò forse troppo fin qui a distinguere quello che è,  da  quello
che dovrebbe essere. Certo la filosofia solleva l'uomo sopra  ogni  influsso  di
astri o di comete; ma gli astri e le comete gravitano sopra di noi  molto  tempo
innanzi che la filosofia ci insegni a difendercene. È spesso la sola fortuna che
viene apparecchiando i nutrimenti alla ragione prima ancora che questa  non  sia
nata. E cosí le circostanze dell'infanzia,  se  non  governano  l'intero  tenore
della vita, educano sovente a modo loro quelle opinioni che  formate  una  volta
diventano per  sempre  gli  incentivi  delle  opere  nostre.  Perciò  badate  ai
fanciulli, amici miei; badate sempre ai fanciulli, se vi sta a cuore  di  averne
degli uomini. Che le occasioni non diano mala piega alle loro passioncelle;  che
una sprovveduta  condiscendenza,  o  una  soverchia  durezza,  o  una  micidiale
trascuranza non li  lascino  in  bilico  di  creder  giusto  ciò  che  piace,  e
abbominevole quello che dispiace. Aiutateli, sorreggeteli, guidateli.  Preparate
loro col maggior accorgimento occasioni da trovar  bella,  santa,  piacevole  la
virtù; e brutto e spiacevole il vizio. Un grano di buona esperienza a nove  anni
val piú assai che un corso di morale a venti. Il  coraggio,  l'incorruttibilità,
l'amor della famiglia  e  della  patria,  questi  due  grandi  amori  che  fanno
legittimi tutti gli altri, somigliano allo studio delle lingue. La prima età  vi
si presta assai; ma guai a chi non li apprende. Guai a loro, e peggio che peggio
a chi avrà che fare con loro, od alla famiglia ed al paese che da  essi  attende
aiuto decoro e salvamento. Il germoglio è nel seme, e la pianta  nel  germoglio;
non mi stancherò mai nel ripeterlo; perché l'esperienza della mia vita  confermò
sempre in me ed in tanti altri la verità di questa antica osservazione.  Sparta,
la dominatrice degli uomini, e Roma, la regina del mondo, educavano dalla  culla
il guerriero e il cittadino: perciò ebbero popoli di cittadini e  di  guerrieri.
Noi che vediamo nei bimbi i vezzosi e i gaudenti, abbiamo plebaglie di  gaudenti
e di vezzosi. Ora sarò forse allucinato dall'amor proprio, ma pur non veggo  nel
mio passato memoria che piú mi sia confortevole e buona, di quel  primo  castigo
cosí valorosamente  sfidato  per  mantenere  un  segreto  raccomandatomi  e  per
mostrarmi grato d'un beneficio ricevuto. Credo che dappoi  moltissime  volte  mi
sia condotto colla stessa regola, per la vergogna che altrimenti  avrei  provato
di mostrarmi uomo piú dappoco che stato non lo fossi da ragazzo.  Ecco  in  qual
modo le circostanze fanno sovente l'opinione. Io era salito;  e  non  volli  piú
scendere. Se precipitai in qualche occorrenza, fu pronto il pentimento;  ma  non
iscrivo per iscusarmene, e la mia penna sarà sempre pronta a  riprovare  come  a
benedire le mie azioni secondo il merito. Tanto piú  colpevole  alle  volte,  in
quanto non doveva esserlo né per abitudine né per coscienza.  Però  chi  è  puro
affatto tra noi mortali? - Mi conforta la parabola dell'adultera  e  la  sublime
parola di Cristo: "Chi non ha peccato scagli la prima pietra!" Quel  dopopranzo,
come vi diceva, mia prima cura fu di andar in traccia della Pisana, ma con sommo
mio rammarico non mi venne fatto di trovarla in nessun luogo. Ne  domandai  alle
cameriere, le quali, siccome colte in fallo per la loro sprovvedutezza verso  la
fanciulla, si svelenirono contro la mia petulanza. Germano, Gregorio  e  Martino
a' quali ne chiesi conto del pari, non mi  seppero  dare  nessun  ragguaglio,  e
finalmente scorrucciato passai oltre le scuderie e interrogai l'ortolano se  non
l'avesse veduta uscire da quelle bande. Mi rispose che l'aveva veduta  in  fatti
prender verso la campagna col figliuoletto dello speziale, ma che  la  cosa  era
vecchia di due ore e probabilmente la padroncina doveva esser rientrata,  perché
il sole scottava assai  e  il  farsi  abbrustolire  non  le  piaceva.  Io  però,
conoscendo l'umor balzano della fanciulla, non mi fidai di questa  conghiettura,
ed uscii io pure nei campi. Il sole mi dardeggiava  cocentissimo  sul  capo,  la
terra mi si sfregolava sotto i piedi per la grande arsura, ed  io  di  nulla  mi
accorgeva per la grande ambascia che mi tumultuava dentro. Trovai in  riva  d'un
fosso un legacciolo da scarpe. L'era della Pisana, ed io seguitai oltre persuaso
che il gran desiderio me l'avrebbe fatta trovare in qualunque luogo.  Spiava  le
macchie, i rivali, e le ombre dove eravamo usati posare nelle nostre  scorrerie:
gli occhi miei correvano d'ogni lato sferzati  dalla  gelosia,  e  se  mi  fosse
capitato alle mani quel figliuoletto dello speziale, credo che l'avrei unto  ben
bene senza darmene un perché. Quanto alla Pisana, la conosceva a  fondo,  mi  ci
era avvezzato stupidamente, ed avea cominciato quasi ad amarla  in  ragione  de'
difetti, come appunto l'eccellente  cavallerizzo  predilige  fra'  suoi  cavalli
quello che piú s'impenna e resiste agli speroni ed alle redini.  Non  è  qualità
che tanto renda pregevole e cara alcuna cosa, come quella di  vederla  pronta  a
sfuggirci; e se cotal abitudine di timore e di sforzo affatica gli animi deboli,
essa arma e ribadisce i costanti. Si direbbe che la Pisana m'avesse stregato, se
la ragione dello stregamento io non  la  leggessi  chiara  nell'orgoglio  in  me
continuamente stuzzicato a volerla spuntare sugli altri pretendenti.  Mi  vedeva
il preferito piú di sovente e sopra tutti;  voleva  esserlo  sempre.  Quanto  al
sentimento che mi portava a voler ciò, era amore del  piú  schietto;  amore  che
crebbe poi, che mutò anche tempra e colore, ma  che  fin  d'allora  mi  occupava
l'anima con ogni sua pazzia. E l'amore a dieci anni è tanto eccessivo come  ogni
altra voglia in quella età fiduciosa che non conobbe ancora dove  stia  di  casa
l'impossibile. Sempre d'accordo che qui la carestia delle parole mi fa dir amore
in vece di quell'altro qualunque vocabolo che si dovrebbe adoperare; perché  una
passione tanto varia, che abbraccia le sommità piú pure dell'anima e i piú bassi
movimenti corporali, e che sa inchinar quelle a  questi,  o  sollevar  questi  a
quelle, e confonder tutto talvolta in un'estasi quasi divina e tal altra in  una
convulsione affatto bestiale, meriterebbe venti nomi proprii  invece  d'un  solo
generico, sospetto in bene o in male a seconda dei casi, e scelto  si  può  dire
apposta per sbigottire i pudorati e scusare gli indegni. Dissi  dunque  amore  e
non potea dir altro; ma ogniqualvolta mi avverrà di usare un  tal  vocabolo  nel
decorso della mia storia, mi terrò obbligato ad aggiungere una riga di  commento
per supplire al vocabolario. A quel tempo pertanto  io  amava  nella  Pisana  la
compagna de' miei trastulli; e poiché a quell'età i  trastulli  son  tutto,  ciò
vien a dire che la voleva tutta per me; il che se non  costituisce  amore  e  di
quel pretto, come notava piú sopra,  prendetevela  coi  vocabolaristi.  Ad  onta
peraltro del mio furore  a  cercarla,  ella  quel  dopopranzo  non  si  lasciava
trovare; e cerca di qua e guarda di là, e corri e  salta  e  cammina,  io  presi
senza avvedermene la piega che m'avea  menato  cosí  lontano  il  giorno  prima.
Quando m'accorsi  di  ciò,  mi  trovava  appunto  in  un  crocicchio  di  strade
campestri, dove sur un muricciuolo scalcinato un povero san  Rocco  mostrava  la
piaga della sua gamba ai devoti passeggieri. Il fido cane  gli  stava  a  fianco
colla coda bassa e il  muso  innalzato,  quasi  per  osservare  cos'egli  stesse
facendo. - Tutto questo io vidi nella prima alzata  d'occhi;  ma  nel  ritirarli
poi, m'addiedi d'una vecchia curva e pezzente,  che  pregava  con  gran  fervore
davanti a quel san Rocco. E la mi sembrò la  Martinella,  una  povera  accattona
cosí chiamata in quel contado, che soleva fermarsi a  prender  una  presa  dalla
scatola di Germano, ogniqualvolta la passasse dinanzi al ponte di Fratta. Me  le
accostai allora con qualche  soggezione,  perché  i  racconti  di  Marchetto  mi
avevano messo tutte le vecchie in sospetto di streghe; ma  la  conoscenza  e  il
bisogno mi spronavano a non dar addietro. Ella mi si volse incontro con una cera
fastidiosa, benché fosse per costume la poveretta piú  paziente  e  affabile  di
quante ne giravano: e mi chiese borbottando cosa facessi io in quel luogo  ed  a
quell'ora. Le risposi che andava in cerca della Pisana,  la  figliuoletta  della
Contessa, e che mi preparava appunto a domandarne a lei  se  per  avventura  non
l'avesse veduta passare col ragazzetto dello speziale. - No,  no,  Carlino;  non
l'ho veduta - rispose con molta fretta e  alquanta  stizza  la  vecchia,  benché
volesse mostrarmisi benevola. - Mentre tu la cerchi ella è già forse  tornata  a
casa da un'altra banda. Va, va in castello; son sicura che la troverai. - Ma  no
- soggiunsi io - l'ha appena finito di pranzare or ora... - Ti dico che tu  vada
là e che non puoi sbagliare di raggiungervela; - mi interruppe la vecchia - anzi
un cinque minuti fa, ora che mi ricordo, devo averla veduta che la svoltava  giù
dietro il campo dei Montagnesi. - Ma se ci son passato io cinque  minuti  fa!  -
ribattei alla mia volta. - Ed io ti dico che l'ho veduta. - Ma no, che  non  può
essere.  Mentre  io  voleva  pur  soffermarmi  a   ragionare,   e   la   vecchia
s'affaccendava a farmi dar addietro, ecco che si sentí  per  una  delle  quattro
strade il galoppo d'un cavallo che  s'avvicinava.  E  la  Martinella  allora  mi
piantò lí con una scrollata di spalle,  movendo  incontro  a  quello,  come  per
domandar la limosina. Il cavallo sbucò fuori dopo un  istante  dall'affossamento
di quella stradaccia, e l'era un puledro focoso e robusto colle nari  tremolanti
e la bocca coperta di schiuma. Sopra poi stava un uomo lacero e grande  con  una
barbaccia grigia sperperata ai quattro venti e un cappellaccio  appassito  dalle
pioggie che gli batteva il naso. Non aveva né  staffe  né  sella  né  briglia  e
solamente stringeva i capi della cavezza  coi  quali  batteva  le  spalle  della
cavalcatura per animarne la corsa. Cosí a  prima  giunta  egli  mi  svegliò  una
lontana idea di quel barbone che m'avea ricondotto a casa la sera prima;  ma  il
sospetto divenne certezza quando colla sua voce rauca e  vibrata  corrispose  al
saluto dell'accattona. Costei si volse accennando  me  dello  sguardo,  ed  egli
allora, fermato il puledro vicino alla vecchia, le si  piegò  all'orecchio,  per
bisbigliarle alcune parole. La Martinella si rasserenò tutta levando le  braccia
al cielo, e poi aggiunse a voce alta: - Dio e San  Rocco  rimeritino  voi  della
vostra buona azione. E quanto alla carità io mi fido, e ricordatevi  in  fin  di
settimana! - Sí,  sí,  Martinella!  e  non  mancatemi!  -  soggiunse  quell'uomo
stringendo colle gambe il ventre del puledro e prendendo di gran  corsa  per  la
strada della laguna. Quando fu lontano egli si volse per  far  alla  vecchia  un
segno verso la  strada  per  la  quale  era  venuto;  poi  cavallo  e  cavaliero
scomparvero nella polvere sollevata  dalle  zampe  di  quello.  Io  stava  tutto
intento a quella scena quando, togliendo gli occhi dal luogo ove  era  scomparso
il cavallo, li portai sulla campagna dirimpetto dove vidi appunto la Pisana e il
fanciullo dello speziale che correvano molto affannati alla mia volta.  Io  pure
mi diedi a correre verso di loro, e la Martinella mi gridava: -  Oh  dove  corri
ora, Carlino? - ed io a risponderle: - La è là,  la  è  là  la  Pisana!  Non  la
vedete? - Infatti raggiunsi la ragazzetta, ma la era tanto pallida  e  smarrita,
poverina, da far compassione. - Per carità, Pisana, cos'hai, ti senti male? - le
chiesi sostenendola pel braccio. - Ohimè, che paura... che correre... son là con
gli  schioppi...  che  voglion  passar  l'acqua  -  rispondeva   trafelando   la
ragazzetta. - Ma chi sono quelli là cogli schioppi che voglion passare? - Ecco -
entrò a rispondermi Donato il ragazzo dello speziale che s'era un po' rimesso da
quell'ansa spaventata - ecco come la è... Eravamo a giocare sul rio del  mulino,
quando sboccano sull'altra sponda quattro o cinque  uomini  con  certi  ceffi  e
certe pistole in mano da far paura, i quali  parevano  cercar  qualche  cosa  ed
accingersi benanco a guazzare. E la Pisana si  diede  a  correr  via,  ed  io  a
tenerle dietro con quante gambe aveva; ma due o tre di loro si misero a gridare:
"Oh non avete veduto un uomo a cavallo scappare qui a traverso!?". Ma la  Pisana
non avea voglia di rispondere ed io neppure; e continuammo a fuggire  ed  eccoci
qui; ma quegli uomini verranno anch'essi certamente, perché, quantunque  l'acqua
sia alta, il ponte del mulino non è lontano. - Oh scappiamo, scappiamo! - sclamò
tutta sbigottita la fanciulletta. - Datevi animo, signorina  -  entrò  allora  a
dire la vecchia che avea posto mente a tutti questi discorsi. -  Quelle  Cernide
non cercano di voi, ma d'un uomo a cavallo; e quando qui  io  e  Carlino  avremo
risposto che di uomini a cavallo non vidimo altro che il guardiano di  Lugugnana
che andava a guardar il fieno a Portovecchio... - No, no! voglio  andarmene!  ho
paura io! - strillava la pazzerella. Ma d'andarsene non era  omai  tempo  poiché
quattro buli sbucarono in quell'istante dalla campagna,  e,  guardatisi  intorno
per le quattro vie, si volsero alla vecchia colla  stessa  domanda  che  avevano
fatta un momento prima ai due fanciulli. - Non vidi altro che  il  guardiano  di
Lugugnana che volgeva a Portovecchio - rispose loro  la  Martinella.  -  Eh  che
guardiano di Lugugnana! sarà stato lui! -  disse  uno  della  banda.  -  Sentite
Martinella; - domandò un altro di coloro - non conoscete voi lo Spaccafumo? - Lo
Spaccafumo! - sclamò la vecchia con due occhiacci brutti brutti. - Quel ribaldo,
quel bandito che vive senza legge e senza timor di Dio, come un vero  Turco!  No
per grazia di Dio che non lo conosco: ma lo vidi  peraltro  una  domenica  sulla
berlina di Venchieredo che saranno due anni. - E oggi non lo  avete  veduto  per
questa banda? - chiese ancora colui che avea parlato il primo. - Se l'ho  veduto
oggi? ma se dicevano che fosse morto annegato fin dall'anno scorso!  -  ripigliò
la vecchia. - E poi confesso alle Loro  Eccellenze  che  patisco  un  po'  negli
occhi... - Udite pure! era lui! - tornò a dire lo sgherro. - Perché non  dircelo
prima che  sei  orba  come  una  talpa,  vecchiaccia  grinza?  Su  in  gamba,  a
Portovecchio, figliuoli! - soggiunse rivolto ai suoi. E  tutti  quattro  presero
per la strada di Portovecchio, che era l'opposta  a  quella  battuta  un  quarto
d'ora prima dal barbone. - Ma sbagliano per di là - volli dir io. - Zitto; -  mi
bisbigliò la Martinella - lascia andare quella cattiva gente, e  diciamo  invece
un pater noster a san Rocco  che  ce  ne  ha  liberati.  La  Pisana  durante  il
colloquio cogli sgherri avea riavuto tutto il suo coraggio, e mostrava da ultimo
un contegno piú sicuro di tutti noi. - No, no; - diss'ella -  prima  di  pregare
bisogna correre a Fratta ad avvertire il Cancelliere e Marchetto di quei  brutti
musi che abbiamo veduto. Oh non tocca al Cancelliere a tener lontano  dal  feudo
del papà i malviventi? - Sí certo; - risposi io  -  ed  anco  li  fa  metter  in
prigione a suo talento. - Or dunque andiamo  a  far  mettere  in  prigione  quei
quattro brutti uomini; - riprese ella trascinandomi verso Fratta -  non  voglio,
no, non voglio che mi spaventino piú. Donato ci seguiva  posto  affatto  in  non
cale  dalla  capricciosa  fanciulletta;  e  la  Martinella  erasi   rimessa   in
ginocchione dinanzi a san Rocco, come se nulla fosse stato.


CAPITOLO QUARTO

Don Chisciotte contrabbandiere e  i  signori  Provedoni  di  Cordovado.  Idillio
pastorale intorno alla fontana di Venchieredo con qualche riflessione sull'amore
e sulla creazione continua nel mondo  morale.  La  chierica  del  cappellano  di
Fratta, e un colloquio diplomatico tra due giurisdicenti.

Lo Spaccafumo era un fornaio di Cordovado, pittoresca terricciuola tra Teglio  e
Venchieredo, il quale, messosi in guerra aperta colle autorità circonvicine, dal
prodigioso correre che faceva quando lo inseguivano, avea conquistato la  gloria
d'un tal soprannome. La sua prima impresa era  stata  contro  i  ministri  della
Camera che volevano confiscare un certo sacco di sale trovato presso una vecchia
vedova che abitava muro a muro con lui. Mi pare anzi che  quella  vecchia  fosse
appunto la Martinella, che a quei  tempi  per  esser  capace  di  lavorare,  non
accattava ancora. Condannato al bando per due anni, il signor Antonio Provedoni,
Uomo di Comune, gliel'aveva accomodata colla multa di venti ducati. Ma  dopo  la
rissa  coi  doganieri  pel  sacco  di  sale,  egli  ne  appiccò   un'altra   col
Vice-capitano delle carceri, che voleva imprigionare un suo  cugino  per  averlo
trovato sulla sagra di Venchieredo colle armi in tasca. Allora gli toccarono tre
giorni di berlina sulla piazzuola del  villaggio,  e  per  giunta  due  mesi  di
carceri, e il bando di vent'otto mesi da tutta la giurisdizione della Patria. Il
fornaio piantò lí di far il pane; ed ecco a che si ridusse la sua obbedienza  al
decreto della cancelleria criminale di Venchieredo. Del  resto  continuò  a  far
dimora qua e là nel paese; ed a esercitare a pro' del pubblico il suo  ministero
di privata giustizia. La sbirraglia di Portogruaro gli era  stata  sguinzagliata
addosso due volte; ma egli sbatteva la polvere con tanta velocità e conosceva sí
bene i nascondigli e i traghetti della campagna, che di pigliarlo non  ne  avean
fatto nulla. Quanto al sorprenderlo nel covo era faccenda piú difficile  ancora:
tutti i contadini erano dalla sua, e nessuno sapeva dire ov'egli usasse  dormire
o ripararsi nei rovesci del tempo. Del resto, se la sbirraglia di Portogruaro si
moveva con troppa solennità per arrivargli improvvisa alle costole, i zaffi e le
Cernide dei giurisdicenti avevano troppo buon sangue coi paesani, per  corrergli
dietro sul serio. Alle volte, dopo settimane e settimane  che  non  s'era  udito
parlare  di  lui,  egli  compariva   tranquillo   tranquillissimo   alla   messa
parrocchiale di Cordovado. Tutto il popolo gli faceva festa; ma  egli  la  messa
non l'ascoltava che con un orecchio solo! e l'altro lo teneva ben attento  verso
la porta grande, pronto a scappare per la piccola, se si udisse venir di colà il
passo greve e misurato  della  pattuglia.  Che  questa  usasse  la  furberia  di
appostarsi alle due porte non era prevedibile, stante la perfetta buona fede  di
quella milizia. Dopo messa egli crocchiava cogli altri compari sul  piazzale,  e
all'ora di pranzo  andava  difilato  colla  sua  faccia  tosta  nella  casa  dei
Provedoni che era l'ultima del paese verso Teglio. Il signor  Antonio,  Uomo  di
Comune, chiudeva un occhio; e il resto della famiglia si  raccoglieva  con  gran
piacere in cucina dintorno a lui a farsi raccontare le sue prodezze, e a  ridere
delle facezie che infioravano il suo discorso. Fin da fanciullo egli avea tenuto
usanza di buon vicino in quella casa; e allora la continuava alla  meglio,  come
se niente fosse; tantoché il vederlo capitar ogni tanto a mangiare  daccanto  al
fuoco la sua scodella di brovada la era diventata  per  tutti  un'abitudine.  La
famiglia dei Provedoni contava in paese per  antichità  e  per  reputazione.  Io
stesso mi ricordo aver  letto  il  nome  di  ser  Giacomo  della  Provedona  nel
protocollo d'una vicinia tenuta nel 1400 e d'allora in poi l'era sempre  rimasta
principale nel Comune. Ma se la sorte delle povere Comuni non era molto  ridente
in mezzo alle giurisdizioni castellane che  le  soffocavano,  piú  meschina  era
l'importanza dei loro caporioni appetto dei feudatari. San Marco  era  popolare,
ma alla lontana, e piuttosto per pompa; e in fondo gli  stava  troppo  a  cuore,
massime in Friuli, l'ossequio della nobiltà perch'egli  volesse  alzarle  contro
questo spauracchio delle giurisdizioni comunali. Sopportava pazientemente quelle
già stabilite e pazienti a segno da non dar appiglio ad  essere  decapitate  con
soverchie pretese di stretto diritto; ma le teneva in  santa  umiltà  con  mille
vincoli, con mille restrizioni; e quanto allo stabilirne di nuove se ne guardava
bene. Se una giurisdizione gentilizia, per ragioni d'estinzione di sentenza o di
fellonia, ricadeva alla Repubblica, anziché  costituirla  in  comunale,  usavasi
infeudarne  qualche  magistratura  o,  come  si  diceva,  qualche  carica  della
Provincia. Cosí si otteneva sott'acqua il doppio scopo, di rintuzzare almeno nel
numero i signori castellani, ai quali l'appoggiarsi era necessità,  non  bramata
tuttavia; e di mantenere le  popolazioni  nell'usata  e  cieca  servitù,  aliene
piucché si poteva dai pubblici impasti. Del  resto,  se  le  Comuni  nelle  loro
contese coi castellani avevano spesso torto sul libro delle  leggi,  lo  avevano
poi sempre dinanzi ai tribunali,  e  ciò,  oltreché  pel  resto,  anche  per  la
connivenza  privata  dei  magistrati  patrizi,  mandati  anno  per  anno   dalla
Serenissima Dominante a giudicare nei Fori Supremi di Terraferma. V'avea  sí  un
mezzo ad uguagliar tutti i ceti dinanzi la santa imparzialità dei  tribunali;  e
questo era il danaro: ma se  si  ponga  mente  alla  combattività  italiana  che
congiurava in quei Comuni colla prudentissima economia friulana, è facile capire
come ben rade volte essi fossero disposti a cercare e ad ottenere giustizia  per
quella via.  Il  castellano  avea  già  pagato  lo  zecchino,  che  le  Comunità
litigavano ancora sul bezzo e  sulla  petizza;  quegli  avea  già  in  tasca  la
sentenza favorevole e queste contendevano sopra una clausola  della  risposta  o
della duplica. Cosí la taccagneria, che si è osservata abbarbicarsi quasi sempre
nel governo dei molti e piccoli, menomava d'assai quella debolissima  forza  che
era consentita ai Comuni. Perché inoltre, mentre i  castellani  tenevano  armate
alla meglio le loro Cernide e assoldavano per birri i capi  piú  arrisicati  del
territorio, le Comunità all'incontro non ricevevano che i  loro  rifiuti,  e  in
quanto alle Cernide non era raro che un drappello intero si trovasse con quattro
archibugi tarlati e sconnessi, ogni colpo dei quali era piucché altro pericoloso
per chi lo tirava. Infatti si guardavano bene dal commettere simili  imprudenze;
e nelle maggiori scalmane  di  coraggio  combattevano  col  calcio.  Quello  che
succedeva delle giurisdizioni rispetto allo Stato,  che  cioè  ognuna  faceva  e
pensava per sé, non vedendo né provando utile alcuno dal gran  vincolo  sociale,
lo stesso avveniva nelle persone singole rispetto al Comune,  che  diffidando  e
non a torto dell'autorità di questo, ognuno s'ingegnava a farsi  o  giustizia  o
autorità per sé. Da ciò rappresaglie private continue, e servilità nei Comuni ai
feudatari vicini, piú dannosa e codarda perché non necessaria; ma necessaria  in
questo, che una legge naturale fa i deboli servi dei potenti. Non sempre a torto
fummo tacciati noi  Italiani  di  dissimulazione,  d'adulazione,  e  d'eccessivo
rispetto alle opinioni e alle forze individuali. Gli ordinamenti pubblici di cui
accenno, fomentarono cotali piaghe dell'indole nazionale. Tartufi,  parassiti  e
briganti pullularono come male  erbe  in  luogo  ferace  ed  incolto.  L'ingegno
l'accortezza l'audacia volte a frodar quelle leggi da cui non era assicurato con
ugualità nessun diritto, diventavano stromenti di malizia, e di perversità; e il
suddito colla frode o col delitto s'adoperava a conseguire quello  che  gli  era
negato dalla giustizia obliqua, o ignorante o vendereccia del  giudice.  V'aveva
per esempio uno statuto che accordava piena fede in causa ai libri dei  mercanti
e dei gentiluomini; ma come dovevano afforzar gli avversari le loro prove se non
avevan la ventura di possedere tutti i quarti in regola o d'essere iscritti alla
matricola dei negozianti? - Regali e protezioni; ecco i due articoli suppletorii
che compensavano l'imperfezione dei codici. Alle volte  anco  il  giudice  dalla
multa inflitta al reo percepiva la sua porzione; e contro quei  giudici  che  si
mostrassero un po' corrivi a  tale  specie  di  entrata,  non  soccorreva  altro
rimedio che la minaccia, o diretta del reo se questi era potente, o invocata  da
un piú potente se il reo era  umile.  Spesso  anche  il  giudice  s'accontentava
d'intascar la sua parte sotto la tavola, e firmava un decreto d'innocenza, beato
di schivare fatica e pericolo. Ma questa felice abitudine,  che  colla  venalità
privata risparmiava almeno la giustizia pubblica, non  veniva  sofferta  che  da
quei giurisdicenti tagliati alla veneziana, che non erano tanto rapaci da far  a
metà coi loro ministri  della  lana  tosata  ai  colpevoli.  Il  signor  Antonio
Provedoni  era  ossequioso  alla  nobiltà  per  sentimento,  non   servile   per
dappocaggine. La sua famiglia avea camminato sempre per quella via, ed egli  non
pretendeva di cambiare  l'usanza.  Però  quel  suo  ossequio,  prestato  ma  non
profuso, lo facea guardar dalla gente con occhio di rispetto;  e  cosí  l'andava
allora, che il non far pompa di vigliaccheria  era  riputato  grande  valore  di
animo. Pure con ciò non voglio dire ch'egli  resistesse  alla  smoderatezza  dei
castellani vicini; solamente non le andava incontro colle offerte, ed era molto.
Lamentava poi fra sé quelle soperchierie come un segno secondo lui che  la  vera
nobiltà mista di grandezza e di cortesia precipitava a capitombolo: sorgevano le
avarizie e le prepotenze nuove a confonderla colla sbirraglia. Ma mai che uno di
questi lamenti  sbucasse  da  quella  sua  bocca  silenziosa  e  prudente;  egli
s'accontentava di tacere, e di chinar il capo; come fanno i contadini quando  la
Provvidenza manda loro la gragnuola. Il sole, la luna e le stelle egli e i  suoi
vecchi le avevano vedute sempre girare ad un modo, fosse l'anno umido, asciutto,
o nevoso. Dopo un anno cattivo ne eran venuti molti di buoni, e  dopo  un  buono
molti di cattivi: e l'egual ragionamento egli adoperava nel considerare le  cose
del mondo. Giravano prospere od avverse sempre pel loro verso: a lui era toccato
un brutto giro; ecco tutto. Ma aveva gran fede che le  si  sarebbero  accomodate
pei figli o pei nipoti; e bastava a lui averne procreati in buon dato perché  la
famiglia non andasse frodata nel futuro della sua parte di felicità. Soltanto il
secondogenito della sua numerosa figliuolanza, a cui gli era piaciuto imporre il
nome di Leopardo, gli dava qualche cagione di amarezza. Ma come si fa  ad  esser
docili e mansueti, con un nome simile? -  Il  buon  decano  di  Cordovado  s'era
diportato in tale faccenda con assai poco accorgimento. I nomi  de'  suoi  figli
erano tutti piú o meno eroici e bestiali,  lontani  affatto  dal  persuadere  la
pratica di quelle virtù tolleranti, mute e compiacenti che egli sapeva  convenir
meglio agli uomini del suo ceto. Il primo si chiamava Leone,  il  secondo,  come
dissimo, Leopardo: gli altri via via  Bruto,  Bradamante,  Grifone,  Mastino  ed
Aquilina. Insomma un vero serraglio; e non capiva  il  signor  Antonio  che  con
cotali nomi alle spalle la solita  dabbenaggine  paesana  diventava  burlesca  e
impossibile. Se allora come ai tempi dei  latini  s'avesse  osato  adoperare  il
prenome di Bestia, certo il suo primogenito lo avrebbe ricevuto in regalo: tanto
era egli frenetico per la zoologia. Ma nell'impossibilità di porre in  opera  il
nome generico, lo avea supplito con quello forse piú superbo e minaccioso del re
degli animali, secondo Esopo. Leone peraltro non  si  mostrava  meno  pecora  di
quanto richiedessero i tempi, o almeno  almeno  gli  esempi  paterni.  Egli  era
venuto su sopportando molto, e sospirando alquanto; e poi come suo  padre  s'era
messo a prender moglie e a far figliuoli, e n'avea già una mezza dozzina, quando
Leopardo cominciò a bazzicar colle donne. Ecco il  punto  donde  cominciarono  i
dissapori famigliari fra il signor  Antonio  e  quest'ultimo.  Leopardo  era  un
giovine di poche parole e di molti fatti; cioè anche di pochi fatti avrei dovuto
dire, ma in quei pochi si ostinava a segno che  non  c'era  verso  da  poternelo
dissuadere. Quando lo si rampognava d'alcun che, egli non rispondeva quasi  mai;
ma si volgeva contro al predicatore con un certo rugghio giù nella strozza e due
occhi cosí biechi che la predica di solito non procedeva  oltre  l'esordio.  Del
resto buono come il pane e servizievole come le cinque dita. Faceva a  suo  modo
due ore  per  giorno  e  in  quelle  avrei  sfidato  il  diavolo  ad  impiegarlo
altrimenti; le altre ventidue potevano  metterlo  a  spaccar  legna,  a  piantar
cavoli od anche a girar lo spiedo come faceva io, che non avrebbe dato segno  di
noia. Era in quelle occasioni il piú docile Leopardo che vivesse mai. Cosí  pure
attentissimo  ai  proprii  doveri,  assiduo  alle  funzioni  del  rosario,  buon
cristiano insomma come si costumava esserlo a quei tempi; e per giunta letterato
ed erudito oltre ad ogni usanza de' suoi coetanei. Ma  in  punto  a  logica,  ho
tutte le ragioni per credere che fosse un  tantino  cocciuto.  Merito  di  razza
forse; ma mentre  la  cocciutaggine  degli  altri  si  appiattava  spesso  nella
coscienza e lasciava libero il resto di compiacere fin troppo, egli invece  era,
come si dice, mulo dentro e fuori, e avrebbe scalciato nel muso, io credo, anche
al Serenissimo Doge, se questo si fosse sognato di contraddirlo nelle  sue  idee
fisse. Operoso e veemente che era nel suo fare,  spostato  da  quello  diventava
inerte e plumbeo davvero; come la  ruota  d'un  opificio  cui  si  tagliasse  la
coreggia. La sua coreggia era il convincimento, senza del quale non l'andava piú
innanzi d'un passo di formica; e quanto al lasciarsi convincere  Leopardo  aveva
tutta l'arrendevolezza d'un Turco fanatico. Ma di  cotanta  tenacità  era  forse
ragione bastevole l'essersi egli maturato nella solitudine  e  nel  silenzio:  i
pensieri nel suo cervello non  s'insaldavano  colla  fragile  commettitura  d'un
innesto ma colle mille barbe d'una radice quercina, cresciuta  lentamente  prima
di germogliare o di dar frutto. Ora, sopra un innesto sfruttato  attecchisce  un
altro innesto; ma le radici o  non  si  spiantano,  o  spiantate  disseccano:  e
Leopardo aveva la testa informata a modo che non la potea reggere sul collo  che
ad un magnanimo o ad un pazzo. O cosí o nulla. Ecco il significato formale e  il
motto araldico della sua indole. Leopardo visse beatamente fino a ventitré  anni
senza fare o soffrire interrogazioni da chicchessia. I precetti dei  genitori  e
dei maestri collimavano cosí finitamente colle  sue  viste  che  né  a  lui  era
mestier domandare a loro, né ad essi domandar nulla a lui. Ma l'origine di tutti
i guai fu la fontana di Venchieredo. Dopo che  egli  prese  a  bere  l'acqua  di
quella fontana, cominciò da parte di suo padre il martello delle  interrogazioni
dei consigli e dei rimbrotti. Siccome poi tutti questi discorsi non  secondavano
per nulla i pensieri di Leopardo, cosí egli si diede per parte sua a ruggire  ed
a guardare in cagnesco. Allora, direbbe Sterne, l'influsso bestiale del suo nome
prese il disopra; e  se  è  cosí,  al  signor  Antonio  dovrebbe  esser  costata
piuttosto cara la sua passione per le bestie. Mettiamo  ora  un  po'  in  chiaro
questo indovinello. - Tra Cordovado e Venchieredo, a un miglio  dei  due  paesi,
v'è una grande e limpida fontana che ha anche voce di contenere nella sua  acqua
molte qualità refrigeranti e salutari. Ma la ninfa della  fontana  non  credette
fidarsi unicamente alle virtù dell'acqua per adescare i devoti e  si  è  recinta
d'un cosí bell'orizzonte di prati di boschi e  di  cielo,  e  d'una  ombra  cosí
ospitale di ontani e di saliceti che è in verità un recesso degno  del  pennello
di Virgilio questo ove le piacque di porre sua stanza.  Sentieruoli  nascosti  e
serpeggianti, sussurrio di rigagnoli, chine dolci  e  muscose,  nulla  le  manca
tutto  all'intorno.  È  proprio  lo  specchio  d'una  maga,  quell'acqua   tersa
cilestrina che zampillando insensibilmente da un fondo di minuta ghiaiuolina s'è
alzata a raddoppiar nel suo grembo l'immagine  d'una  scena  cosí  pittoresca  e
pastorale. Son luoghi che fanno  pensare  agli  abitatori  dell'Eden  prima  del
peccato; ed anche ci fanno pensare senza ribrezzo al peccato ora che  non  siamo
piú abitatori  dell'Eden.  Colà  dunque  intorno  a  quella  fontana,  le  vaghe
fanciulle di Cordovado, di Venchieredo  e  perfino  di  Teglio,  di  Fratta,  di
Morsano, di Cintello e di Bagnarola, e d'altri villaggi circonvicini,  costumano
adunarsi da tempo immemorabile le sere festive. E vi stanno a lungo in canti  in
risa in conversari in merende finché la mamma l'amante e la luna le  riconducano
a casa. Non ho nemmeno voluto dirvi che colle fanciulle vi  concorrono  anche  i
giovinotti, perché già era cosa da immaginarsi. Ma quello che intendo notare  si
è che, fatti i conti a fin d'anno, io credo  ed  affermo  che  alla  fontana  di
Venchieredo si venga piú per far all'amore che  per  abbeverarsi;  e  del  resto
anche, vi si beve piú vino che acqua. Si sa; bisogna in questi casi obbedire piú
ai salsicciotti ed al prosciutto delle merende che alla superstizione dell'acqua
passante. Io per me ci fui le belle volte a quella incantevole fontana;  ma  una
volta una volta sola osai profanare colla mano il vergine  cristallo  della  sua
linfa. La caccia mi ci aveva menato, rotto dalla fatica e bruciato di  sete;  di
piú la mia fiaschetta del vin bianco non voleva piú piangere. Se ci tornassi ora
forse che ne  berrei  a  larghi  sorsi  come  per  ringiovanirmi;  ma  il  gusto
idropatico della vecchiaia non mi farebbe dimenticare le  allegre  e  turbolente
ingollate del buon vino d'una volta.  Or  dunque,  qualche  anno  prima  di  me,
Leopardo Provedoni avea stretta dimestichezza colla fontana di Venchieredo. Quel
sito romito calmo solitario gli si attagliava bene alla fantasia, come un  abito
ben fatto  alla  persona.  Ogni  suo  pensiero  vi  trovava  una  corrispondenza
naturale; o almeno nessuno di quei salici s'intrometteva a dire di no su  quanto
ei veniva pensando. Egli abbelliva, coloriva e popolava a suo  modo  il  deserto
paesaggio; e poiché, senza essere in guerra ancora con nessuno al mondo, pur  si
sentiva istintivamente differente da tutti, là gli pareva di vivere  piú  felice
che altrove per quella gran ragione che vi restava libero e solo. L'amicizia  di
Leopardo per la fontana di Venchieredo fu il primo suo  fatto  che  non  avrebbe
ammesso contraddizione; il secondo fu l'amore da lui preso, piú assai che per la
fontana, per una bella  ragazza  che  vi  veniva  sovente  e  nella  quale  egli
s'incontrò soletto una bella mattina di primavera. A udirla narrare da lui  come
fu quella scena, mi pareva di assistere ad una  lettura  dell'Aminta;  ma  Tasso
torniva i suoi versi e li leggeva poi; Leopardo  si  ricordava,  e  ricordandosi
improvvisava, che a vederlo e ad  ascoltarlo  venivano  proprio  alle  tempie  i
sudori freddi della poesia. L'era uscito di casa con un bel sole di maggio e  il
fucile ad armacollo, piú per soddisfazione alla curiosità dei viandanti che  per
ostile minaccia ai beccaccini o alle pernici. Passo dietro passo, col capo nelle
nuvole, egli si trovò in orlo  al  boschetto  che  circuisce  dai  due  lati  la
fontana, e lí  tese  le  orecchie  per  raccogliervi  il  consueto  saluto  d'un
usignuolo. L'usignuolo infatti vegliava la sua venuta  e  gorgheggiò  il  solito
trillo; ma non dal solito albero; quel giorno il suono veniva timido e  sommesso
da un ramo piú riposto: e pareva sí ch'egli salutasse, il semplice augellino, ma
un po' diffidente di quell'arnese che l'amico portava in ispalla. Leopardo porse
l'occhio tra le frasche a spiare il  nuovo  rifugio  dell'ospite  armonioso,  ma
cercando qua e là ecco che i suoi sguardi capitarono a trovare piú assai che non
cercavano. - Oh perché non fui io l'innamorato della Doretta! Vecchio come sono,
scriverei una tal pagina da abbacinare i lettori, e prendere d'assalto  uno  dei
piú alti seggi della poesia! Vorrei che la gioventù  profilasse  i  disegni,  il
cuore vi spandesse le tinte; e che gioventù e cuore splendessero per ogni  parte
della pittura con tanta magia che i buoni per tenerezza e i cattivi per  invidia
riporrebbero il libro. Povero Leopardo! tu solo saresti da  tanto;  tu  che  per
tutta la vita portasti dipinto negli occhi e scolpito in petto quello spettacolo
d'amore. Ed anche ora la vaga memoria delle tue parole mi  traluce  al  pensiero
cosí amorosa ed innocente che io non posso senza  pianto  vergar  queste  righe.
Egli cercava adunque l'usignolo e vide invece seduta sul margine del ruscelletto
che sgorga dalla  fontana  una  giovinetta  che  vi  bagna  entro  un  piede,  e
coll'altro ignudo e bianco al pari d'avorio disegnava  giocarellando  circoli  e
mezze curve intorno  alle  tinchiuole  che  guizzavano  a  sommo  d'acqua.  Ella
sorrideva, e batteva le mani di quando in quando allorché  le  veniva  fatto  di
toccar colla punta del piede e sollevar dall'acqua alcuno  di  quei  pesciolini.
Allora la pezzuola che le sventolava scomposta sul petto s'apriva  a  svelar  il
candore delle sue spalle mezzo discinte, e le sue guancie arrossavano di piacere
senza perdere lo splendore dell'innocenza. I pesciolini non ristavano perciò dal
tornarle vicini dopo una breve paura; ma ella  aveva  in  tasca  il  segreto  di
quella familiarità. Infatti poco stante tuffò cheto  cheto  nel  ruscello  anche
quel piedino sollazzevole, e cavata di sotto al grembiule una mollica  di  pane,
si diede a sfregolarne le briciole pei suoi  compagni  di  trastullo.  L'era  un
andare un venire un correre un guizzare un gareggiare e un rubarsi a vicenda  di
tutta quella famigliuola d'argento vivo; e la giovinetta  si  curvava  sopra  di
loro come a riceverne i ringraziamenti. E  poi  quando  l'imbandigione  era  piú
copiosa, diguazzava coi piedi sott'acqua per godere di quell'avidità spaurita un
momento ma presta a rifarsi temeraria per non perdere i migliori bocconi. Questo
rimescolamento piú in  su  de'  suoi  piedini  faceva  intravvedere  i  dilicati
contorni d'una gamba ritondetta e  nervosa;  e  i  capi  della  pezzuola  le  si
scomponevano affatto sulle spalle: onde il suo petto pareva  esser  contenuto  a
fatica dalla giubberella di pannolano, tanto l'allegrezza  lo  rigonfiava  e  lo
commoveva. Leopardo, di tutto orecchi ch'era  prima  nell'ascoltar  l'usignuolo,
s'era poi fatto tutt'occhi, che della  metamorfosi  non  erasi  neppur  accorto.
Quella giovinezza  innocente  semplice  e  lieta,  quella  leggiadria  ignara  e
noncurante di sé, quell'immodestia ancor fanciullesca e che ricordava la  nudità
degli angeletti che scherzano nei quadri del Pordenone, quei mille  vezzi  della
persona snella e dilicata, dei capelli castano dorati e ricciutelli sulle tempia
come fosse d'un bambino, del sorriso fresco e sincero fatto apposta per adornare
due fila di denti lucidi piccioletti ed uniti  come  i  grani  d'un  rosario  di
cristallo; tutto ciò, si dipingeva con colori di meraviglia  nelle  pupille  del
giovine. Avrebbe dato ogni cosa che gli domandassero  per  essere  uno  di  quei
pesci tanto dimestici con lei; si sarebbe accontentato di rimaner  là  tutto  il
tempo di sua vita a contemplarla. Ma egli era piuttosto sottile di coscienza,  e
quei piaceri goduti di furto, anche nel rapimento dell'estasi, gli  stuzzicarono
entro una specie di rimorso. Si diede dunque a fischiare non  so  qual  arietta,
con quanta aggiustatezza ve lo  potete  immaginare  voi  che  sapete  per  prova
l'effetto  prodotto  nella  voce  e  sulle  labbra  dai  primissimi  blandimenti
dell'amore. Fischiando senza tono e senza tempo, e movendo qua e là  le  frasche
come capitasse allora, egli giunse traballando piú  d'un  ubbriaco  sul  margine
della fontana. La giovinetta s'era assestata il fazzoletto intorno alle  spalle,
ma non avea fatto a  tempo  a  trarre  i  piedi  dall'acqua,  e  rimase  un  po'
vergognosa un po' meravigliata di quella visita inopportuna. Leopardo era un bel
giovine; di quella bellezza che è formata di avvenenza, insieme, di forza  e  di
pace; la bellezza piú grande che si possa vedere e che  meglio  riflette  l'idea
della perfezione divina. Aveva del bambino nella guardatura, del filosofo  nella
fronte  e  dell'atleta  nella  persona;  ma  la  modestia  del  vestire  affatto
contadinesco moderava di molto l'imponenza  di  quell'aspetto.  Perciò  a  prima
giunta la fanciulla non ne fu tanto turbata come se il sopraggiunto fosse  stato
un signore; e piú si rassicurò al levar gli occhi del suo volto,  che  certo  lo
riconobbe e mormorò con voce quasi di contento - Ah è  il  signor  Leopardo!  Il
giovine udí quella sommessa esclamazione e per la prima volta il  suo  nome  gli
parve non abbastanza grazioso e carezzevole per albergar  degnamente  in  labbra
tanto gentili. Peraltro gli gioí il cuore d'essere conosciuto  dalla  fanciulla,
trovandosi cosí avviato a stringer conoscenza con lei. - E voi chi siete,  bella
ragazza? - domandò egli balbettando, e guardando  nell'acqua  della  fontana  il
ritratto, ché non gli bastava ancor l'animo di  fisar  l'originale.  -  Sono  la
Doretta del cancelliere di Venchieredo - rispose la fanciulla. -  Ah  lei  è  la
signora Doretta! - sclamò Leopardo che con una doppia voglia di guardarla se  ne
trovò doppiamente impedito per la confusione di averla trattata alle  prime  con
poco rispetto. La giovinetta alzò gli occhi come  per  significare:  -  Sí,  son
proprio io quella, e  non  capisco  perché  se  ne  debba  stupire.  -  Leopardo
restrinse intorno al cuore tutta la riserva del suo coraggio  per  tornare  alla
carica; ma l'era cosí novizio lui nell'usanza delle interrogazioni, che  non  fu
meraviglia se per la prima volta vi fece una mediocrissima figura.  -  N'è  vero
che fa molto caldo oggi? - riprese egli. - Un  caldo  da  morire  -  rispose  la
Doretta. - Ma crede che continuerà? - domandò l'altro. - Eh, secondo i lunari! -
soggiunse malignamente la fanciulla. - Lo Schieson dice  di  sí,  e  il  Strolic
promette di no. - E lei mo cosa ne pronostica? -  seguitò  Leopardo  andando  di
male in peggio. - Io per me  sono  indifferente!  -  rispose  la  fanciulla  che
cominciava a  prender  qualche  sollazzo  di  quel  dialogo.  -  Il  piovano  di
Venchieredo fa i tridui tanto per l'arsura che per la brina, e a me  il  pregare
per questa o per quella non cresce minimamente l'incommodo.  "Come  è  vivace  e
piacevole!" pensò Leopardo; e questo pensiero gli distolse il cervello da quella
faticosa inchiesta d'interrogazioni cosí ben riuscita infin allora. -  Ha  preso
molto selvatico? - si decise a  dimandar  la  Doretta  vedendolo  tacere  e  non
volendo trascurare una sí peregrina occasione di trastullarsi. - Oh! - sclamò il
giovine, come accorgendosi solo in quel momento di aver il fucile ad  armacollo.
- L'avverto che ha dimenticato a casa la pietra! - continuò  la  furbetta.  -  O
sarebbe un'arma di nuovo stampo? L'archibugio di Leopardo rimontava  alla  prima
generazione delle armi da fuoco, e converrebbe averlo veduto per capire tutta la
malizia di quella finta ingenuità. - È un antico schioppo di famiglia -  rispose
gravemente il giovine che ci avea  meditato  sopra  assai  e  ne  conosceva  per
tradizione nascita vita e miracoli. -  Esso  ha  combattuto  in  Morea  col  mio
trisarcavolo; mio nonno ha ucciso col medesimo ventidue beccaccini in un giorno;
cosa che potrebbe fin sembrare incredibile, ove si osservi che  bisognano  dieci
buoni minuti a caricarlo, e che dopo l'accensione della polvere  nel  bacinetto,
lo sparo tarda mezzo minuto ad uscire.  Infatti  mio  padre  non  arrivò  mai  a
colpirne piú di dieci ed io non oltrepassai fin'ora  il  numero  di  sei.  Ma  i
beccaccini si vengono educando alla malizia, e in quel mezzo minuto che lo sparo
s'incanta, mi scappano un mezzo miglio lontano. Verrà tempo che si dovrà  correr
lor dietro colla spingarda. Intanto io tiro innanzi col mio schioppo; ma il male
si è che la morsa non stringe piú, e alle volte  prendo  la  mira  e  scocco  il
grilletto, ma dopo mezzo minuto, quando lo scoppio dovrebbe avvenire,  m'accorgo
invece che manca la pietra. Bisognerà che lo porti a Fratta  da  mastro  Germano
perché lo accomodi. È vero che potrei anche dire al papà che ne  provvedesse  un
nuovo; ma son sicuro che mi risponderebbe  di  non  mettermi  a  far  novità  in
famiglia. Infatti questa è anche la mia idea. Se lo schioppo è un po'  malandato
dopo aver fatto le campagne di Morea ed aver ucciso ventidue  beccaccini  in  un
giorno, bisogna proprio compatirlo. Tuttavia, dico, lo porterò a mastro  Germano
perché lo raccomodi. Non è vero che ho ragione io, signora Doretta? - Sí certo -
rispose la  fanciulla  ritraendo  i  suoi  piedi  dal  ruscello  e  asciugandoli
nell'erba. -  I  beccaccini  poi  gli  daranno  ragione  mille  volte.  Leopardo
frattanto guardava  amorosamente  e  ne  puliva  la  canna  colla  manica  della
giacchetta. - Per ora rimedieremo cosí -  riprese  egli  cavando  di  tasca  una
manata di pietre focaie e scegliendo la piú acconcia per metterla nella morsa. -
Vede, signora Doretta, come mi tocca munirmi contro i casi fortuiti? Devo sempre
avere una saccoccia piena di pietre;  ma  non  è  colpa  dello  schioppo  se  la
vecchiaia gli ha limato i denti. Si porta  la  fiaschetta  della  polvere  e  la
stoppa e i pallini; si possono ben portare anche le  pietre.  -  Sicuro:  lei  è
robusto e non si sgomenta per ciò - soggiunse la Doretta. - Le pare? per quattro
pietruzze? non so nemmeno d'averle - riprese il giovine riponendole in tasca.  -
Io poi potrei portar anco  lei  di  gran  corsa  fino  a  Venchieredo,  che  non
sfiaterei piú della canna del mio schioppo. Ho buone gambe, ottimi polmoni, e vo
e torno in una mattina dai paludi di Lugugnana. -  Caspita,  che  precipizio!  -
sclamò la fanciulla. - Il signor Conte quando scende colà a caccia non ci va che
a cavallo e resta fuori tre giorni. - Io poi sono piú spiccio; vo e  torno  come
un lampo. - Senza prender nulla però! - Come senza prender nulla? Le anitre  per
fortuna non impararono ancora la malizia dei  beccaccini;  e  aspetterebbero  il
comodo del mio fucile non un mezzo minuto ma una mezz'ora. Io non vengo  mai  di
là che colla bisaccia piena. Gli è vero che vado a  cercare  il  selvatico  dove
c'è; e che non mi spavento di sprofondarmi  nel  palude  fino  alla  cintola.  -
Misericordia! - sclamò la Doretta - e non ha paura di rimanervi seppellito? - Io
non ho paura altro che dei mali che mi son toccati davvero; - rispose Leopardo -
ed anco di quelli non mi prendo  gran  soggezione.  Agli  altri  poi  non  penso
nemmeno; e siccome fino ad ora non son morto mai, cosí non avrei la menoma paura
di morire, anco se mi vedessi spianata in viso  una  fila  di  moschetti!  Bella
questa di farsi paura d'un male che non si conosce! Non ci  vorrebbe  altro!  La
Doretta, che fino allora si avea preso beffa della semplicità di  quel  giovane,
cominciò a guardarlo con qualche rispetto.  Di  piú  Leopardo,  vinto  il  primo
ostacolo, si sentiva proprio in vena di aprire l'animo suo forse  per  la  prima
volta; e le confessioni che spontanee e sincere gli  venivano  alle  labbra  non
movevano meno la sua curiosità che quella della  ragazza.  Egli  non  s'era  mai
impacciato a far il sindaco di se stesso; e perciò ascoltava le  proprie  parole
come altrettante novelle molto interessanti. - La mi dica la verità; -  continuò
egli sedendo rimpetto alla giovane che ristette  allora  dal  mandar  gli  occhi
attorno in cerca dei zoccoletti - mi dica la verità, chi le ha insegnato a voler
tanto bene alla fontana di Venchieredo?  Questa  domanda  angustiò  un  poco  la
Doretta e l'imbrogliarsi toccò allora a lei. Ciarlare e scherzare  sapeva  assai
oltre al bisogno;  ma  render  conto  di  checchessia  non  poteva  che  con  un
grandissimo sforzo d'attenzione e di gravità. Tuttavia, cosa strana! appetto  di
quella buona pasta di Leopardo non le riuscí di buttarla in ridere e la  dovette
rispondergli balbettando che la vicinanza della fontana al casale di  suo  padre
l'avea adescata fin da fanciulletta a giocarvi entro; e  che  allora  continuava
perché ci prendeva gusto. - Benissimo! - riprese Leopardo ch'era troppo  modesto
per accorgersi dell'impiccio della Doretta come  era  anco  troppo  dabbene  per
essersi prima accorto delle sue beffe - ma  non  l'avrà  paura,  m'immagino,  di
scherzare coll'acqua del ruscello! - Paura!? - disse la giovane arrossendo - non
saprei il perché! - Ecco; perché sdrucciolandovi entro si  potrebbe  annegare  -
rispose Leopardo. - Oh bella! non ci penso io a questi pericoli! - soggiunse  la
Doretta. - Ed io non penso né a questi né a nessuno - riprese il giovine fisando
i suoi grandi e tranquilli occhi turchini  in  quelli  piccioletti  e  vivissimi
della zitella. - Il mondo va innanzi con me, e  potrebbe  andare  senza  di  me.
Questo è il mio conforto, e del resto il Signore pensa a tutto. Ma la  ci  viene
sovente, ella, alla fontana? - Oh spessissimo; - rispose la  Doretta  -  massime
quando ho caldo. Leopardo pensò  che  come  si  erano  incontrati  quella  volta
potevano incontrarsi altre volte ancora; ma un tal  pensiero  gli  parve  troppo
ardito e lo confinò in una lunga occhiata di desiderio  e  di  speranza.  Invece
colle labbra tornò a favellare del caldo e della stagione; e diceva che per  lui
estate inverno e primavera era tutt'uno. Non se ne accorgeva che per  le  foglie
che nascevano o cascavano. - Io poi amo soprattutto la primavera! - soggiunse la
Doretta. - Ed anch'io lo stesso! - sclamò Leopardo. - Come? ma  per  lei  non  è
tutt'uno? - disse la fanciulla. - È vero: mi pareva... ma...  Oggi  è  una  cosí
bella giornata che mi fa dar la palma a quest'età prima dell'anno. Credo poi che
dicendo che per me era tutt'uno, intendessi parlare  riguardo  al  caldo  od  al
freddo. In quanto al piacere degli occhi, sicuro che la primavera è la prima!  -
C'è quel birbo di Gaetano a Venchieredo che difende sempre l'inverno - soggiunse
la ragazza. - In verità quel Gaetano è proprio un birbo - ripeté l'altro. - Che?
lo conosce anco lei? - chiese Doretta. - Sí... cioè... oh non è il guardiano?  -
balbettò Leopardo. - Mi pare, ho un'idea confusa di averlo udito nominare! - No,
non è il guardiano; è il cavallante - soggiunse la giovane - con lui c'è  sempre
da venir ai capelli per questa inezia.  Io  non  voglio  mai  sentir  a  parlare
dell'inverno ed egli me lo porta sempre  a  cielo  per  dispetto!  -  Oh  io  lo
ridurrei a tacere! - sclamò Leopardo. - Sí?... venga dunque una volta o  l'altra
- riprese Doretta levandosi in piedi ed infilando i zoccoletti.  -  Ma  badi  di
recar seco una buona dose di pazienza perché quel Gaetano  è  testardo  come  un
asino. - Verrò, verrò - soggiunse Leopardo. - Ma lei verrà ancora alla  fontana,
n'è vero? - Sí certo; quando me ne salta l'estro, - rispose la fanciulla - e  le
feste poi non manco mai insieme alle altre zitelle dei dintorni. - Le feste,  le
feste... - mormorò il giovine. - Oh la ci venga, la ci venga - gli  diede  sulla
voce la giovine - e vedrà che  bel  paradiso  qui  tutto  all'intorno.  Leopardo
andava dietro alla Doretta che volgeva a Venchieredo, come un cagnolino che tien
dietro al padrone anche dopo esserne stato cacciato. La Doretta  si  volgeva  di
tratto in tratto a guardarlo sorridendogli: egli  sorrideva  anche  lui,  ma  il
cuore gli scappava troppo innanzi perché non si sentisse tremar sotto le  gambe;
e finalmente quando fu al cancello del casale: - A rivederlo, signor Leopardo! -
disse la giovinetta alla lontana. - A rivederla, signora Doretta! -  rispose  il
giovine con un'occhiata cosí lunga ed  immobile  che  parve  le  volesse  mandar
dietro l'anima; e si sbassò, arrossendo,  a  raccogliere  alcuni  fiori  ch'ella
aveva perduti, credo, col suo buon fine di  malizia.  Poi  quando  il  pergolato
delle viti frondose gli tolse di scernere  il  corpicciuolo  svelto  e  grazioso
della Doretta che s'affrettava verso il castello, allora quell'occhiata  ricascò
a terra cosí grave cosí profonda che parve vi si volesse seppellire  in  eterno.
Indi a un buon tratto la risollevò faticosamente con un sospiro, e riprese verso
casa, pieno il capo se non  di  nuovi  pensieri  certo  di  novissime  e  strane
fantasticherie. Quei pochi fiorellini se li pose sul cuore, e non  li  abbandonò
mai piú. Leopardo s'era innamorato di quella giovine,  ecco  tutto.  Ma  come  e
perché  se  n'era  innamorato?  Il  come   fu   certamente   col   guardarla   e
coll'ascoltarla; il perché, nessuno lo saprà mai; come non si saprà mai perché a
taluno piaccia il color aierino, ad altri lo scarlatto e il giallo d'arancio. Di
belle come la Doretta e di  belle  tre  volte  tanto,  egli  ne  avea  vedute  a
Cordovado a Fossalta e a Portogruaro;  giacché  la  figlia  del  cancelliere  di
Venchieredo era assai piú vispa che perfetta; e  pure  non  s'era  invaghito  di
quelle, benché avesse grande comodità di starsene e di conversar con loro, s'era
invece cotto di questa alla prima occhiata alla prima parola. Forse che l'usanza
e la conversazione tolgono piucché  non  aggiungano  forza  d'incanto  ai  pregi
femminili? - Io non dico ciò; farei troppo grave torto alle donne. Fra  esse  ve
n'hanno che non colpiscono alla prima; ma avvicinate  poi  con  lunga  abitudine
riscaldano appoco appoco, e mettono un  tal  incendio  nei  cuori  che  piú  non
s'estingue. Altre ne sono che abbruciano al solo vederle,  e  spesso  poi  della
fiamma cosí destata non riman che la cenere. Ma come vi sono  uomini  di  paglia
che anche scaldati lentamente finiscono in nulla; cosí si trovano cuori di ferro
che arroventati d'un subito non raffreddano piú. L'amore è una legge  universale
che ha tanti diversi corollari, quante sono le anime che soggiacciono a lui. Per
dettarne praticamente un trattato completo converrebbe  formare  una  biblioteca
nella quale ogni  uomo  ed  ogni  donna  depositasse  un  volume  delle  proprie
osservazioni. Si leggerebbero le cose piú  magnanime  e  le  piú  vili,  le  piú
celesti e le piú bestiali che possa immaginare fantasia  di  romanziero.  Ma  il
difficile sarebbe che  cotali  scritture  obbedissero  al  primo  impulso  della
sincerità; poiché molti entrano nell'amore con un buon  sistema  preconcetto  in
capo, e vogliono secondo esso, non secondo la forza dei sentimenti, spiegare  le
proprie azioni. Da ciò deriva l'abuso di quella terribile parola sempre, che  si
fa con tanta leggerezza  nei  colloqui  e  nelle  promesse  amorose.  Moltissimi
credono, e a buon diritto, che l'amore eterno e fedele sia il migliore; e perciò
solo s'appigliano a quello. Ma per  radicarsi  stabilmente  nel  petto  un  gran
sentimento, non basta saperlo e crederlo ottimo, bisogna  sentirsene  capaci.  I
piú, se ponessero mente in ciò, non porgerebbero  nei  fatti  loro  tante  buone
ragioni di calunniare la saldezza e veracità degli umani propositi. Gli  è  come
se io scrittorello di ciance pensassi: "Ecco che  il  sommo  vertice  dell'umana
sapienza è la filosofia metafisica; io dunque  sono  filosofo  come  Platone,  e
metafisico al pari di Kant". In vero bel ragionamento e proprio da schiaffi!  Ma
l'arroganza che non si permetterebbe ad alcuno negli  ordini  intellettuali,  la
permettiamo poi molto facilmente a  noi  medesimi  nella  stima  dei  sentimenti
nostri; benché la paia ancor meno  ragionevole  perché  il  sentimento  piú  che
l'intelletto sfugge al predominio della volontà. Nessuno oserebbe uguagliarsi  a
Dante nell'altezza della mente; tutti nell'altezza  dell'amore.  Ma  l'amore  di
Dante fu anche piú raro che il suo genio; e pazzi sono  gli  uomini  a  stimarlo
facile a tutti. La grandezza vera dell'anima non è piú  comune  della  grandezza
vera dell'ingegno; e per sentire e nutrire l'amore nell'esser  suo  piú  sublime
bisogna staccarsi dalla fralezza umana piú che non se ne stacchi la  mente  d'un
poeta nelle sue piú alte immaginazioni. Cessate, cessate una  volta,  o  pigmei,
dall'uguagliarvi ai giganti, e applicate l'animo alla favola della  rana  e  del
bue! Che serve adulare noi stessi, e l'umana natura, per  accrescere  le  stesse
sciagure col disdoro della falsità e coi rimorsi del tradimento? Meglio  sarebbe
picchiarsi il petto e arrossire; anziché alzar la mano a imprudenti  giuramenti.
Giurare si lasci a chi frugò se medesimo e si conobbe atto a mantenere, senzaché
a costoro giurare diventa superfluo. Quanto a quelli che  promettono  e  giurano
col fermo intento di gabbare, son troppo  frivoli  o  malvagi  perché  vi  debba
spender dietro una parola. Se è ridicolo in un matto il farla da santo,  sarebbe
sacrilegio in un tristo. Io poi ne ho conosciuti altri che scambiavano per virtù
e sentimenti proprii la forza e  l'ardore  momentaneo  instillato  in  loro  dal
contatto di qualche anima infervorata. Credono essi, come quel ragazzo,  che  la
luna sia cascata nel pozzo perché ne veggono entro  l'acqua  l'immagine.  Ma  la
luna tramonta, e l'immagine sparisce. Allora  essi  si  sbracciano  per  restare
incaloriti come prima erano, e sbruffano e sospirano con  perfetta  buona  fede.
Quell'anima infervorata guarda  compassionando  all'inutile  fatica,  e  l'amore
misto di pietà di sfiducia di memoria e di sprezzo diventa martirio.  È  inutile
tentarlo: il cielo non si scala coi superlativi, e la volontà non basta a  tener
accesa una lucerna cui vien mancando l'olio. Le anime piccole debbono  diffidare
di sé, e piú delle proprie passioni quanto sono  piú  intense;  in  esse  l'amor
tiepido può durare a lungo fausto a sé  e  ad  altrui;  l'amor  veemente  è  una
meteora è un lampo che piú infelicità  produce  quanto  maggiori  speranze  avea
suscitato. Ma la infelicità cosí prodotta è  tutta  per  gli  altri,  giacché  i
frivoli non son tali da sentirla. Per questo non si danno eglino cura alcuna  di
schivar le occasioni ond'essa deriva; e da ultimo si oppone  a  ciò  la  estrema
difficoltà di obbedire quell'antico precetto:  Conosci  te  stesso!  -  Chi  osa
confessare od anche solo creder sé piccolo di cuore? Bisogna  in  verità  uscire
con un salto da questi ragionamenti che sono un perpetuo  laberinto  di  circoli
viziosi, e dai quali null'altro è messo in chiaro, senonché per le indoli  forti
e superiori sono piú numerose e fatali le occasioni di sventura pei disinganni e
le miserie preparate loro dalla vana fiducia degli inferiori.  Pieghiamo  sí  il
capo adorando dinanzi a questi misteri dai quali  rifugge  il  sentimento  della
giustizia. Ma pensiamo che dentro  di  noi  la  giustizia  ha  un  altare  senza
misteri. La coscienza ci assicura che meglio è la generosità colla  miseria  che
la dappocaggine colla contentezza. Soffriamo adunque, ma amiamo. La  Doretta  di
Venchieredo non sembrava certamente fatta per appagare l'animo grave caloroso  e
concentrato di Leopardo. Tuttavia fu essa la prima che comandò al suo  cuore  di
vivere e di vivere tutto e sempre per essa. Altro mistero  non  meno  oscuro  né
doloroso degli altri. Perché chi meglio di lei poteva appagarlo non mosse invece
nell'animo di lui alcuno di quei desiderii che compongono  o  menano  all'amore?
Sarebbe forse cosí fatto l'ordine morale, che i simili  vi  si  fuggissero  e  i
contrari vi si cercassero a vicenda? Nemmen  questo  può  affermarsi  pei  molti
esempi che vi si oppongono. Solo si può sospettare  che  se  le  cose  materiali
vaganti confusamente nello spazio soggiacquero da  molti  secoli  ad  una  forza
ordinatrice, il mondo spirituale ed interno aspetti forse ancora nello stato  di
caos la virtù che lo incardini. Intanto è un contrasto di sentimenti di forze di
giudizi; un'accozzaglia informe e tumultuosa  di  passioni,  di  assopimenti,  e
d'imposture; un subbollimento di viltà, di ardimenti, di opere magnanime,  e  di
lordure; un vero caos di spiriti non bene sviluppati ancora dalla materia, e  di
materia premente a sbaraglio sugli spiriti. Tutto si agita, si move, si  cangia;
ma torno ancora a ripeterlo, il nocciuolo dell'ordine futuro si è già  composto,
e ad ogni giorno agglomera intorno a sé nuovi elementi, come quelle nebulose che
aggirandosi ingrandiscono, spesseggiano  e  diminuiscono  densità  e  confusione
all'atmosfera atomistica che le circonda. Quanti  secoli  bisognarono  a  quella
nebulosa per crescere da atomo a stella? Ve  lo  dicano  gli  astronomi.  Quanti
secoli ci vollero al sentimento umano per concertarsi in  coscienza?  Lo  dicano
gli antropologi. - Ma come quella stella matura forse agli  ultimi  e  scomposti
confini dell'universo un altro sistema solare, cosí  la  coscienza  promette  al
disordine interno dei sentimenti un'armonia stabile e veramente morale. Vi  sono
spazii di tempo che si confondono coll'eternità nel pensiero d'un uomo:  ma  ciò
che si toglie al pensiero non è vietato alla speranza. L'Umanità è  uno  spirito
che può sperar lungamente, e aspettar con pazienza. Ma anche il povero Leopardo,
benché non avesse dinanzi la vita dei  secoli,  dovette  aspettar  con  pazienza
primaché la Doretta mostrasse accorgersi delle sue premure e sapergliene  grado.
La vanità, io credo, fu quella che la persuase.  Prima  di  tutto  Leopardo  era
bello; poi era uno dei piú agiati partiti del territorio, e infine le dava tante
prove  di  amore  quasi  devoto  che  sarebbe  stata  vera  sciocchezza  il  non
approfittarne. Del resto se egli la divertiva assai volte colla sua  semplicità,
la ammaliava anche sovente con quel suo fare di animo valoroso e sereno.  La  si
era accorta che mite e tollerante colle donne anche quando si prendevano  giuoco
di lui, non lo era poi niente affatto verso ai giovinastri lí intorno.  Una  sua
occhiata bastava a far loro calare le ali, e a lei non era piccola gloria l'aver
pronto a' suoi cenni chi tanto facilmente frenava la caparbietà degli altri.  La
Doretta adunque si lasciò trovare sempre piú spesso alla fontana;  s'intrattenne
sempre piú amichevolmente con essolui nelle ragunanze festive, e dall'accogliere
le sue cortesie al ricambiarle, il tratto fu sí abbastanza  lungo,  ma  dàlli  e
dàlli ne vennero a capo. Allora Leopardo non si accontentò  piú  di  vederla  il
mattino quando capitava, o le feste in mezzo alla baraonda della sagra, ma tutte
le sere andava a Venchieredo e là o passeggiando nel  casale  o  sulla  scaletta
della cancelleria, s'intratteneva con  lei  fino  all'ora  di  cena.  Allora  la
salutava piú col cuore che colle labbra, e tornavasene  a  Cordovado  fischiando
con miglior sicurezza la solita arietta. Cosí si aveano  composto  fra  loro  la
vita i due giovani. Quanto ai vecchi era un altro conto. L'illustrissimo  dottor
Natalino cancelliere di Venchieredo lasciava correre la cosa, perché ce ne aveva
veduti tanti dei mosconi intorno alla sua Doretta che uno di piú uno di meno non
lo sgomentiva per nulla. Il signor  Antonio  poi,  non  appena  se  ne  accorse,
cominciò a torcer il naso e a dare cento altri segni di pessimo umore. Era  egli
di ceppo paesano e di pasta paesana affatto; né gli potea garbare quel veder suo
figlio bazzicare con gente d'altra sfera. Cominciò dunque dal  torcer  il  naso,
manovra che lasciò affatto tranquillo Leopardo; ma vedendo che non  bastava,  si
diede a star con lui sul tirato, a tenergli il broncio, e  a  parlargli  con  un
certo  sussiego  che  voleva  dire:  non  son  contento  di  te.  Leopardo   era
contentissimo di se stesso e credeva  dar  esempio  di  cristiana  pazienza  col
sopportare la burbanza di suo padre. Quando poi questi venne, come  si  dice,  a
romper il ghiaccio, e a spiattellargli netta e  tonda  la  causa  del  suo  naso
torto, allora egli si credette obbligato  a  spiattellargli  netta  e  tonda  di
rimando la sua incrollabile volontà di seguitar a fare come avea  fatto  in  fin
allora. - Come? tu,  vergognoso,  seguiterai  a  grogiolare  dietro  quei  begli
abitini? E che cosa ne  diranno  in  paese?  E  non  t'accorgi  che  i  buli  di
Venchieredo si prendono beffa di te? E come credi che andrà a finire questo  bel
giuoco? E non temi che il castellano una volta o l'altra ti faccia cacciare  dai
suoi servitori? E vorresti forse mettermi in mal sangue con quel signore che sai
già quanto sia schizzinoso?... - Con queste e simili interrogazioni il  prudente
uomo di Comune andava tentando e bersagliando  l'animo  del  suo  Assalonne;  ma
questi se ne imbeveva di cotali ciancie, com'ei le chiamava;  e  rispondeva  che
era pur un uomo come gli altri, e che se voleva bene alla Doretta non era  certo
per ridere o per piantarla lí al motteggio del primo capitato. Il signor Antonio
alzava la voce, Leopardo alzava le  spalle,  e  ognuno  rimaneva  della  propria
opinione; anzi io credo che questi diverbi stuzzicassero non  poco  l'animo  già
abbastanza incalorito del giovine. Peraltro indi a poco si venne a capire che il
vecchio scrupoloso poteva non aver torto. Se la Doretta  faceva  sempre  al  suo
damo le belle accoglienze, tutti  gli  altri  abitanti  di  Venchieredo  non  si
mostravano dell'ugual parere. Fra gli altri quel Gaetano, che capitanava i  buli
del castellano e vantava forse qualche vecchia pretesa sulla zitella, non poteva
proprio digerire il bel giovine di Cordovado e le  sue  visite  giornaliere.  Si
cominciò cogli scherzi, si venne poi agli alterchi  e  finirono  una  volta  col
misurarsi qualche pugno. Ma Leopardo era cosí calmo cosí deliberato che toccò al
bulo il voltar via colla coda bassa; e questa sconfitta  sofferta  sul  pubblico
piazzale non cooperò certo a fargli smettere la sua inimicizia.  S'aggiunga  che
la Doretta, piú vanagloriosa di sé che innamorata di Leopardo, godeva di  quella
guerra che le si accendeva intorno, e nulla certo faceva  per  sedarla.  Gaetano
soffiò tanto alle orecchie del  suo  padrone,  e  della  petulanza  del  giovine
Provedoni, e della sua poca reverenza alle persone d'alto grado e in particolare
al signor giurisdicente, che questi finalmente dovette accontentarlo col guardar
Leopardo con occhio piú bieco assai che non guardasse  la  comune  della  gente.
Quella guardatura voleva dire: "Statemi fuor dai piedi!", e la intendevano tanto
per  dieci  miglia  all'intorno,  che  un'occhiata  bieca  del   castellano   di
Venchieredo equivaleva ad una sentenza di bando almeno per  due  mesi.  Leopardo
invece fu guardato, guardò, e proseguí tranquillamente nel suo mestiero. Gaetano
non chiedeva di piú; e sapeva benissimo che quella tacita sfida avrebbe  contato
per cento delitti nell'opinione del prepotente  castellano.  Infatti  costui  si
stizzí assaissimo di veder Leopardo far cosí basso conto delle sue  occhiate;  e
dopo averlo incontrato due tre e quattro volte nel  cortile  del  castello,  una
volta lo fermò colla voce per dirgli risentitamente che egli si stava troppo  in
ozio e che quel tanto passeggiare da Cordovado a Venchieredo potea dargli il mal
delle reni. Leopardo s'inchinò, e non comprese o finse di  non  comprendere;  ma
seguitò a passeggiare come prima senza paura di ammalarne. Il signore  principiò
allora, come si dice, ad averlo proprio sulle corna, e vedendo  di  non  cavarne
nulla colle mezze misure, un bel dopopranzo lo fece chiamare a sé  e  gli  cantò
chiaramente che egli il suo castello non lo teneva per comodo dei  signorini  di
Cordovado e che, se andava in amore, cercasse guarirsene con altre donzelle  che
con quelle di Venchieredo; se poi volesse arrischiar le spalle a  qualche  buona
untata, capitasse la sera alla solita tresca e sarebbe stato servito a  piacere.
Leopardo si inchinò anche allora, e non rispose verbo; ma  la  sera  stessa  non
mancò di andare dalla Doretta la quale, bisogna pur dirlo,  superba  di  vederlo
sfidare per lei una tanta burrasca,  ne  lo  ricompensò  con  doppia  tenerezza.
Gaetano fremeva, il signorotto guardava bieco perfino i suoi cani, e tutto  dava
indizio che tramassero fra loro qualche brutto tiro.  Infatti  una  bella  notte
(quella stessa in cui io ricevetti la visita notturna della Pisana,  dopo  esser
tornato a Fratta in groppa al cavallo dello  sconosciuto),  mentre  Leopardo  si
partiva dalla sua  bella  e  scavalcava  la  siepe  del  casale  per  tornare  a
Cordovado, tre omacci scellerati  gli  si  buttarono  addosso  coi  manichi  dei
coltelli e cominciarono a  dargli  contro  a  tradimento  che  egli  sopraffatto
dall'improvviso assalto ne andò rotolone per terra e stava assai a mal  partito.
Ma in quel momento un'anima negra e disperata saltò fuori dalla siepe e cominciò
a martellar col calcio del fucile i tre sicari e a pestarli tanto, che toccò  ad
essi  difendersi,  e  Leopardo,  riavutosi  dalla  prima  sorpresa,  si  mise  a
tempestare a sua volta. - Ah cani! ve la darò io! - gridava quel nuovo  arrivato
inseguendo i tre manigoldi  che  correvano  verso  il  ponte  del  castello.  Ma
costoro, schivati i colpi dei due indemoniati, correvano tanto leggieri che  non
venne lor fatto di raggiungerli che proprio sulla porta. Per fortuna che  questa
era serrata, onde, per quanto gridassero di aprir subito, ebbero commodamente il
tempo di buscar qualche  cosa.  Appena  però  il  guardiano  ebbe  socchiuso  lo
sportello vi si  precipitarono  entro  che  sembravano  fuggiti  alle  mani  del
diavolo. - Va là! t'ho conosciuto! - disse allora volgendosi un  di  coloro  che
era proprio Gaetano. - Sei  lo  Spaccafumo,  e  me  la  pagherai  salata  questa
soperchieria, di volerti immischiare in ciò che non t'appartiene. - Sí, sí, sono
lo Spaccafumo! - urlò l'altro di fuori. - E non ho paura né di te,  né  del  tuo
malnato padrone, né di mille che ti somiglino! - Avete  udito,  avete  udito!  -
riprese Gaetano mentre si rinchiudeva la porta a gran catenacci. - Come  è  vero
Dio che il padrone lo farà impiccare! - Sí, ma prima io  appiccherò  te!  -  gli
gridò di rimando lo Spaccafumo allontanandosi con Leopardo che a  malincuore  si
partiva da quella porta serratagli in faccia. E  poi  il  contrabbandiere  tornò
dietro la siepe, vi tolse il suo puledro, e volle scortare  il  giovine  fino  a
Cordovado. - Oh com'è che sei capitato cosí in buon punto? - gli chiese Leopardo
che avea piú vergogna che piacere  di  dovere  all'altrui  soccorso  la  propria
salute. - Oh bella! io avea già avuto sentore di quello che doveva succedere,  e
stava lí alla posta! - riprese lo Spaccafumo. - Birbanti! manigoldi!  traditori!
- imprecava sbuffando il giovane. - Zitto! è  il  loro  mestiero  -  riprese  lo
Spaccafumo. - Parliamo d'altro se ti piace. Oh  che  ti  pare  di  vedermi  oggi
cavaliero? Saprai che da poco in qua ho deciso di dar riposo alle mie gambe  che
non son piú tanto giovani, e mi  valgo  per  turno  dei  puledri  di  razza  che
pascolano in laguna. Oggi toccava questo; e son venuto di sotto  a  Lugugnana  a
qui in meno di un'ora ed anco ho portato in groppa a Fratta un ragazzetto che si
era smarrito nel palude. - Mi dirai poi come hai saputo la trama - lo interruppe
Leopardo che ruminava sempre il brutto gioco che gli era toccato. - Anzi non  ti
dirò nulla; - rispose lo Spaccafumo - ed ora che sei all'uscio di  tua  casa  ti
saluto di cuore e ci rivedremo presto. - Come? non  entri,  non  dormi  in  casa
nostra? - No, no, non ci fa buon'aria qui pei  miei  polmoni.  In  ciò  dire  lo
Spaccafumo col suo cavallo era già lunge ed io non  vi  saprei  dire  dove  esso
abbia passata quella nottata. Certo al  mezzogiorno  del  dí  appresso  egli  fu
veduto entrare presso il cappellano di Fratta, che era il suo padre  spirituale,
e si diceva che lo accogliesse con molto rispetto  per  la  gran  paura  che  ne
aveva. Ma piú tardi capitarono a Fratta a chieder di  lui  quattro  sgherani  di
Venchieredo; e saputo che l'era  presso  il  Cappellano  andarono  franchi  alla
canonica. Picchia, ripicchia, chiama e richiama, finalmente il Cappellano  tutto
sonnacchioso venne ad aprire facendo il gnorri e domandando cosa chiedessero.  -
Ah cosa chiediamo! - rispose furiosamente Gaetano lanciandosi verso la  campagna
che s'apriva dietro alla canonica e nella quale si vedeva un uomo a cavallo  che
se la batteva di gran galoppo. - Eccolo chi cerchiamo! Venite, venite voi altri!
Il signor Cappellano ce la pagherà in seguito! Il povero prete cascò  sopra  una
seggiola sfinito dallo spavento e i quattro buli si diedero a correre traverso i
solchi sperando che le piantate ed i fossi rallentassero la corsa del fuggitivo.
Ma la gente era d'avviso che se lo Spaccafumo non si lasciava prendere  correndo
a piedi, meno che meno poi questa disgrazia  gli  sarebbe  avvenuta  allora  che
fuggiva a cavallo. I signori buli ci  avrebbero  rimesso  il  fiato  per  nulla.
Queste cose si sapevano già nel castello di Fratta e se ne  discorreva  come  di
gravi e misteriosi avvenimenti, quando  ci  tornammo  noi  tre,  la  Pisana,  il
figliuolo dello speziale, ed io. Il Conte ed il Cancelliere correvano su  e  giù
in cerca del Capitano e di Marchetto; Fulgenzio era volato al campanile e sonava
a stormo come se il fienile avesse preso fuoco; monsignor Orlando  sfregolandosi
gli occhi domandava cos'era stato, e la Contessa  si  affacendava  nell'ordinare
che si sbarrassero porte e finestre e si ponesse insomma la fortezza  in  istato
di difesa. Quando Dio volle il Capitano ebbe in pronto tre uomini  i  quali  con
due moschetti ed un trombone si schierarono nel cortile ad aspettar  gli  ordini
di Sua Eccellenza. Sua Eccellenza comandò andassero in piazza  a  vedere  se  la
quiete non era turbata, e a prestar man forte alle altre autorità contro tutti i
malviventi, ed in  ispecialità  contro  il  nominato  Spaccafumo.  Germano  calò
brontolando il ponte levatoio, e la prode soldatesca uscí  in  campagna.  Ma  lo
Spaccafumo non avea voglia per nulla di farsi vedere in quel giorno sulla piazza
di Fratta; e per quanto il Capitano mostrasse il brutto muso e  s'arricciasse  i
baffi sull'uscio dell'osteria, nessuno gli capitò innanzi che osasse sfidare  un
sí minaccioso cipiglio. Fu un gran vanto  pel  Capitano;  e  quando  i  buli  di
Venchieredo  tornarono  verso  sera  dalla  loro  inutile  caccia,  sfiancati  e
trafelati come cani da corsa, egli non mancò di menarne  scalpore.  Gaetano  gli
sghignazzò sul muso con pochissima creanza; tantoché le tre Cernide di Fratta ne
pigliarono sgomento e s'intanarono nell'osteria piantando il loro caporione.  Ma
costui era uomo  di  spada  e  di  toga;  per  cui  non  gli  riuscí  schermirsi
pulitamente dalle beffe di Gaetano: e finse di sapere  allora  soltanto  che  lo
Spaccafumo se l'avesse battuta a cavallo traverso i campi. A  udirlo  lui,  egli
aspettava  che  quel  disgraziato  sbucasse  di  momento  in  momento  dal   suo
nascondiglio, e allora  gliel'avrebbe  fatto  pagar  salato  lo  sfregio  recato
all'autorità  del  nobile  giurisdicente  di  Venchieredo.  Gaetano  a   codeste
smargiassate rispose che il suo padrone era piucché capace di  farsi  pagare  da
sé: e che del resto dicessero al Cappellano che per la nottata dello  Spaccafumo
essi avrebbero pensato a saldare lo scotto. In quel dopopranzo nessuno pensò  di
moversi dal castello; e io  e  la  Pisana  passammo  un'assai  brutta  e  noiosa
giornata litigando nel cortile coi figliuoli di Fulgenzio e del fattore. La sera
poi, ad ogni visita che capitava, Germano dalla  sua  camera  dava  la  voce;  e
solamente quando avevano risposto di fuori, egli  abbassava  il  ponte  levatoio
perché avanzassero. Le catene rugginose stridevano  sulle  carrucole  quasi  pel
rammarico di esser rimesse al lavoro dopo tanti anni di tranquillissimo ozio;  e
nessuno passava sullo sconnesso tavolato senza mandar prima un'occhiata di  poca
fede alle fessure che lo trapanavano. Lucilio ed  il  Partistagno  si  fermarono
quella sera al castello piú tardi del solito; e non ci  volle  meno  delle  loro
risate per metter in calma i nervi della Contessa la quale per quella inimicizia
tra lo Spaccafumo e il Conte di  Venchieredo  vedeva  già  in  fiamme  tutta  la
giurisdizione di Fratta. Il giorno dopo, che  era  domenica,  furono  ben  altre
novità in paese. Alle sette e mezza, quando la gente tornava dalla  prima  messa
di Teglio, s'udí un grande scalpito di cavalli: e  poco  stante  il  signore  di
Venchieredo con tre de' suoi buli comparve sul piazzale. L'era  un  uomo  rosso,
ben tarchiato, di mezza età; nei cui occhi non si sapea bene se prevalessero  la
furberia o la ferocia; superbo poi ed arrogante piú di tutto,  e  questo  lo  si
indovinava dal portamento e dalla voce. Fermò il cavallo di pianta, e chiese con
malgarbo ove abitasse il reverendo cappellano di  Fratta:  gli  fu  additata  la
canonica, ed egli vi entrò con piglio da padrone dopo aver affidato il palafreno
al Gaetano che gli veniva alle coste. Il Cappellano aveva finito poco  prima  di
farsi la barba; e stava allora  in  balía  della  fantesca  che  gli  radeva  la
chierica. La cucina era il loro laboratorio; e il  pretucolo,  riavuto  un  poco
dalla paura del  giorno  prima,  scherzava  colla  Giustina  raccomandandole  di
tondergli bene il cucuzzolo, non come all'ultima  festa,  che  tutta  la  chiesa
erasi messa a ridere quand'egli s'avea tolto di capo la  berretta  quadrata.  La
Giustina dal suo lato ci adoperava tanto studio che non  le  rimaneva  tempo  da
rispondere a quei  motteggi;  ma  tondi  di  qua  e  radi  di  là,  la  chierica
s'allargava come una macchia d'olio su quella povera testa da  prete;  e  benché
egli le avesse dato il precetto di non tenerla piú  grande  d'un  mezzo  ducato,
oggimai non v'avea piú moneta di zecca che bastasse a coprirla. -  Ah  Giustina!
Giustina! -- sospirava il Cappellano, palpandosi della mano i limiti della nuova
tonsura - mi pare che siamo andati un po' vicini a quest'orecchio. - Non  la  ne
dubiti! - rispondeva la Giustina che era una dabbene e  maldestra  contadinaccia
sui trent'anni, sebbene ne  dimostrava  quarantacinque.  -  Se  siamo  vicini  a
quest'orecchio andremo poco lontani anche dall'altro! -  Cospetto!  mi  vorresti
pelar tutto come un frate! - sclamò il paziente. - Eh no, che io  non  l'ho  mai
pelato! - soggiunse la fantesca - e non lo pelerò neppure  oggi.  -  No,  no  ti
dico... lascia stare, basta! - Tutt'altro... mi lasci finire... stia zitto,  non
si mova per un momento. - Eh già! voi altre donne siete il diavolo! - mormorò il
Cappellano - quando si tratta di andar innanzi a modo, ci persuadereste anche  a
lasciarci tosare... Chi sa  cosa  avrebbe  aggiunto  a  quel  verbo  tosare;  ma
s'interruppe udendo sulla porta un sussurro come di  speroni.  Balzò  allora  in
piedi, respinse la Giustina, si tolse dal collo lo  sciugamani,  e  rivolgendosi
tutto in un punto, si trovò faccia a faccia col signore di Venchieredo. Che viso
che occhi che figura facesse allora il povero prete, voi lo  potete  immaginare!
Rimase in quella malferma posizione di curiosità di paura di stupore nella quale
lo avea colto il minaccioso apparimento del castellano; il mantino gli  cascò  a
terra, e tra le falde del giubbone e le coscie  faceva  con  le  mani  un  certo
armeggio che voleva dire: - Siamo proprio fritti! -  Oh  Cappellano  amatissimo!
come va la salute? - cominciò il feudatario.  -  Eh!...  non  saprei...  anzi...
s'accomodi... il piacer è il mio - balbettò il prete. - Non pare che sia un gran
piacere - proseguí il castellano. - Ella ha il viso piú sparuto del suo collare,
reverendo. O forse, - continuò volgendo un'occhiata beffarda alla Giustina - son
io venuto a distrarlo da qualche sua occupazione canonica? - Oh,  si  figuri!  -
bisbigliò il Cappellano - io mi occupo... Giustina, metti su dunque l'acqua  pel
caffè; oppure la cioccolata? Vuole la cioccolata, signor Conte?... Eccellenza? -
Andate a curare i polli, ché ho da parlar da solo al  reverendo  -  ripigliò  il
castellano rivolto alla Giustina. Costei  non  se  lo  fece  dire  due  volte  e
sguisciò nel cortile tenendo ancora in mano il rasoio. Egli allora s'accostò  al
Cappellano, e presolo per un braccio, lo trasse fin sotto il focolare, ove senza
pur pensarvi l'abate si trovò seduto sopra una panca. - Ed ora a noi -  proseguí
il castellano, sedendogli rimpetto. - Già una fiammata appena alzati non  guasta
la pelle neppur d'estate, dicono. Mi dica in coscienza, reverendo!  Fa  ella  il
prete o il contrabbandiere? Il poveretto ebbe un brivido per tutta la persona, e
gli si torse talmente il grugno, che per quanto si racconciasse  il  collare  si
grattasse le labbra, non gli venne piú fatto di rimetterlo in sesto per tutto il
dialogo susseguente. - Son due mestieri ambidue e non faccio  confronti  -  andò
innanzi  l'altro.  -  Domando  solamente  per  mia  regola  quale  ella  intende
esercitare. Pei preti  ci  sono  le  elemosine,  i  capponi  e  le  decime:  pei
contrabbandieri le fucilate, le prigioni, e la corda. Del resto ognuno è  libero
della scelta; e nel caso io non dico che avrei fatto il prete. Solamente mi pare
che i canoni debbano proibire il far un cumulo di queste due professioni. E  lei
cosa ne dice, reverendo? - Sí, signore...  Eccellenza...  son  proprio  del  suo
parere! - balbettò il prete. - Or  dunque  mi  risponda  a  tono  -  riprese  il
Venchieredo - fa ella il prete o il contrabbandiere?  -  Eccellenza...  ella  ha
voglia di scherzare! - Di scherzare io? Si figuri, reverendo!... Mi sono  alzato
all'alba; e quando ciò mi succede, non è già per voglia di scherzare!... Vengo a
dirle netto e tondo che se il signor Conte di Fratta non è  capace  di  tutelare
gl'interessi della Serenissima, ci son qua io poco lontano, che me ne  sento  in
grado. Ella accoglie in casa  sua  contrabbandi  e  contrabbandieri...  No,  no,
reverendo!... non serve il diniegare col capo... Ci abbiamo anche i testimoni, e
all'uopo  si  potrà  citarlo  in  giudizio,  o  andare  intesi  colla  Curia.  -
Misericordia! - sclamò il Cappellano. - Or dunque -  proseguí  il  feudatario  -
siccome non mi garba per nulla a me la vicinanza di cotali combriccole, sarei  a
pregarla di cambiar aria a suo talento, prima che  si  possa  essere  indotti  a
fargliela cambiare per forza. - Cambiar aria? Cosa vuol  dire?...  cambiar  aria
io? come? si spieghi Eccellenza! - Ecco, voglio dire, che se la potesse ottenere
una prebenda in montagna, la mi userebbe una vera  finezza!  -  In  montagna?  -
continuò sempre piú stupefatto il  Cappellano.  -  Io  in  montagna?  Ma  non  è
possibile, Eccellenza! Io non so nemmeno dove sieno le montagne! - Eccole  là  -
soggiunse il signore accennando fuori dalla  finestra.  Ma  il  castellano  avea
fatto i conti senza valutar la timidità eccessiva del prete.  In  alcuni  esseri
rozzi semplici modesti ma interi e primitivi, la timidità tien luogo alle  volte
di coraggio; e allora al Cappellano quel dover incominciare una  vita  nuova  in
paese nuovo con  gente  a  lui  sconosciuta,  sembrò  una  fatica  piú  grave  e
formidabile di quella di morire. Era nato a Fratta, lí aveva  le  sue  radici  e
sentiva che a sbarbicarlo di quel paese lo si avrebbe addirittura  ammazzato.  -
No, Eccellenza - rispose egli con intonazione piú  sicura  che  non  avesse  mai
avuto per lo addietro. - Bisogna ch'io muoia a Fratta come vi  sono  vissuto;  e
quanto alla montagna se mi vi manderanno, dubito di giungervi vivo. - Or bene  -
riprese alzandosi il tirannello. - La vi arriverà morto;  ma  o  in  un  modo  o
nell'altro io  l'assicuro  che  il  manutengolo  dello  Spaccafumo  non  resterà
cappellano  a  Fratta.  Questo  le  serva  di  regola.  Ciò  dicendo  il  nobile
personaggio diede una grande scrollata di sproni sullo scalino del  focolare,  e
uscí dalla canonica seguitato a capo basso dal prete. Costui gli fece un  ultimo
inchino quando lo vide salire a cavallo, e poi tornò  dentro  a  sfogarsi  colla
Giustina che aveva origliato tutti i loro discorsi dietro la porta del  cortile.
- Oh, no, no che non la ficcheranno in montagna! - piagnucolava la  donna.  -  È
certo che gli capiterebbe male di andar tanto lontano!... E poi non sono qui  le
sue  anime?...  E  cosa  risponderebbe  poi  al  Signore  quando  gli   toccherà
rendergliene conto?... - Fatti in là  con  quel  rasoio,  figliuola  mia!  -  le
rispose il prete - e sta' pur quieta che in montagna non vi andrò di  sicuro!...
Mi metteranno in berlina, ma in un'altra canonica no per certo!...  Figurati  se
nella tenera età di  quarant'anni  voglio  trovarmi  fra  musi  tutti  nuovi,  e
ricominciar daccapo quello stento che provai a  venir  su  da  bambino  fino  ad
ora!... No, no, Giustina!... L'ho detto e lo ripeto, che io morirò a  Fratta;  e
contuttociò è una gran croce questa che mi piomba ora sul  collo;  ma  bisognerà
portarla in santa pace. Uff!... quel signor giurisdicente!... Che brutto  grugno
mi faceva!... Ma tant'è, piuttosto di muovermi sopporterò anche questo; e se  mi
giuocherà qualche brutto tiro, meno male!... Meglio esser alle  prese  coi  suoi
buli che con altri!... Almeno li conosco, e ne  prenderò  minor  soggezione  nel
farmi bastonare. - Oh cosa dice mai! - soggiunse la  fantesca.  -  I  buli  anzi
avranno soggezione di lei. Oh che, le pare, che un prete sia un capo di  chiodo?
- Poco piú, poco piú, figliuola  mia,  ai  tempi  che  corrono!...  Ma  ci  vuol
pazienza!... In quella entrò il sagrestano  ad  avvertire  che  tutta  la  gente
aspettava per la messa; e il poveruomo  risovvenendosi  di  aver  tardato  anche
troppo, corse fuori per celebrar le  funzioni  colla  chierica  mezzo  fatta.  -
Indarno la Giustina gli tenne dietro col rasoio in mano fino  sulla  piazza:  la
chierica irregolare del Cappellano  e  la  vista  del  signore  di  Venchieredo,
aggiungendosi alle vicende del giorno  prima,  diedero  materia  ai  piú  strani
commenti. Il giorno dopo capitò al Conte di Fratta un gran letterone del signore
di Venchieredo, nel quale costui senza tanti preamboli pregava il  suo  illustre
collega di dar lo sfratto al Cappellano nel piú breve spazio di tempo possibile,
accusandolo di mille birberie, fra le altre di dar mano  a  frodare  le  gabelle
della Serenissima tenendo il  sacco  ai  contrabbandieri  piú  arrisicati  della
laguna. "E quanto un tal delitto sia inviso all'Eccellentissima  Signoria  (cosí
diceva la lettera), e quanto grande il merito di  coloro  che  si  affrettano  a
punirlo, e quanto capitale il pericolo degli sconsigliati che per  mire  private
lo lasciano impunito, Ella, Illustrissimo Signor Giurisdicente, lo  deve  sapere
al pari di chiunque. Gli statuti ed i proclami degli Inquisitori parlano chiaro;
e ne può andar di mezzo la testa, perché i denari  sono  come  il  sangue  dello
Stato, ed è reo di Stato colui che colla sua negligenza cospira  a  dissanguarlo
di questo vero fluido vitale ". Come si vede, il castellano avea trovato la vera
strada; e infatti il Conte di Fratta, al sentirsi legger dal Cancelliere  questa
antifona, si dimenò tanto sul seggiolone che ne restò un pochino offesa  la  sua
solita maestà. Si vollero tener secrete le pratiche in proposito; ma la chiamata
del Cappellano, la visita ricevuta da costui  la  mattina  antecedente,  il  suo
smarrimento, le  sue  chiacchiere  colla  Giustina  diedero  contezza  in  paese
dell'avvenuto e ne successe un vero tafferuglio.  Il  Cappellano  era  amato  da
tutti come un buon compare; piú anche, la  popolazione  di  Fratta,  avvezza  al
governo patriarcale e venezianesco de' suoi giurisdicenti, avea  il  ticchio  di
non volersi lasciar mettere il piede sul  collo.  Si  fece  un  gran  sussurrare
contro la prepotenza del castellano di Venchieredo; e con grande  rammarico  del
signor Conte gli stessi abitanti del  castello  col  loro  contegno  caparbio  e
immodesto mostravano di volergli tirar addosso qualche brutto temporale. Mai  io
non avea veduto come a quei giorni il signor Conte ed  il  suo  Cancelliere  piú
appiccicati l'uno coll'altro; sembravano due travicelli malconci che si  fossero
appoggiati l'uno contro l'altro per resistere  ad  una  ventata;  e  se  uno  si
moveva, tosto l'altro si sentiva cadere e gli andava dietro  per  non  uscir  di
bilico. Furono anche messi in opera molti argomenti per sedare quella pericolosa
esasperazione di animi; ma il rimedio era peggiore del male.  Si  addentava  con
miglior gusto al frutto proibito; e le lingue, frenate in cucina, si scatenavano
piú violente sulla piazza ed all'osteria. Piú di tutti mastro Germano strepitava
contro l'arroganza del suo vecchio padrone. Egli, per  la  virulenza  delle  sue
filippiche e per l'audacia con cui difendeva il Cappellano, era diventato  quasi
il caporione del subbuglio. Ogni sera impancato alla bettola predicava  ad  alta
voce sulla necessità di non lasciarsi togliere anche quell'unico  rappresentante
della povera gente che è il prete.  E  i  prepotenti  tempestassero  pure,  egli
diceva, ché giustizia ce n'era per tutti e potrebbero saltar fuori certi peccati
vecchi che avrebbero mandato in prigione i giudici, e in trionfo  gli  accusati.
Fulgenzio, il sagrestano, barcamenava colla sua faccia  tosta  in  tutto  quello
scombuglio; e benché serbasse nel castello  un  piglio  officiale  di  prudenza,
fuori poi non si stancava dal  pizzicare  con  ogni  accorgimento  Germano,  per
sapere quanta verità si ascondesse in quelle minacciose amplificazioni. Una sera
che il portinaio avea bevuto oltre il dovere, lo tirò tanto in lingua  che  uscí
affatto dai gangheri, e cantò e gridò su tutti i toni che il  signor  castellano
di Venchieredo la mettesse via, se no egli, povero spazzaturaio,  avrebbe  messo
fuori certe storie vecchie che gli avrebbero dato la mala pasqua. Fulgenzio  non
chiedeva forse di piú. Egli si studiò allora di divertire il discorso da  quella
faccenda, tantoché le parole del cionco o non fecero caso o le parvero mattie da
ubbriacone. Egli poi si ritrasse a casa a recitar il rosario colla moglie  ed  i
bimbi. Ma il giorno seguente, essendo mercato a Portogruaro,  vi  andò  di  buon
mattino, e ne tornò piú tardi del solito.  Fu  veduto  anche  colà  entrare  dal
Vice-capitano di giustizia; ma essendo egli, come  dissi,  un  mezzo  scriba  di
cancelleria, non se ne fecero le maraviglie. Il fatto sta che otto giorni  dopo,
quando appunto s'erano incominciate  colla  Curia  le  pratiche  per  mandar  il
Cappellano a respirar l'aria montanina, la cancelleria di  Fratta  ricevette  da
Venezia ordine preciso e formale di desistere  da  ogni  atto  ulteriore,  e  di
istituire invece un processo inquisitorio e  segreto  sulla  persona  di  mastro
Germano, intorno a  certe  rivelazioni  importantissime  alla  Signoria  ch'egli
poteva e doveva fare sulla vita passata dell'illustrissimo signor  giurisdicente
di Venchieredo. Un aereolito che piombasse dalla luna ad  interrompere  le  gaie
gozzoviglie d'una brigata di  buontemponi  non  avrebbe  recato  piú  stupore  e
sgomento di quel decreto. Il Conte e il Cancelliere perdettero la bussola  e  si
sentirono mancar sotto la terra: e siccome nel  primo  sbigottimento  non  avean
pensato a rinchiudersi nel riserbo abituale, cosí la paura della Contessa  e  di
Monsignore e la gioia del resto della  famiglia  dimostrata  per  mille  modi  a
quell'annunzio, peggiorarono di tre doppi lo stato deplorabile del  loro  animo.
Pur troppo la posizione era critica. Da un lato la vicina e provata oltracotanza
d'un feudatario, avvezzo a farsi beffe d'ogni legge divina ed umana;  dall'altro
l'imperiosa inesorabile arcana  giustizia  dell'Inquisizione  veneziana:  qui  i
pericoli di una vendetta subitanea e feroce,  là  lo  spauracchio  d'un  castigo
segreto, terribile, immanchevole: a destra una visione paurosa  di  buli  armati
fino ai denti, di tromboni appostati dietro le siepi; a sinistra un  apparimento
sinistro di Messer Grande, di pozzi profondi, di piombi infocati, di  corde,  di
tanaglie e di mannaie.  I  due  illustri  magistrati  ebbero  le  vertigini  per
quarantott'ore; ma alla fin fine, com'era prevedibile, si decisero a dar  l'offa
al cane piú grosso, giacché l'accontentarli tutti e due o il  rappattumarli  non
era neppur cosa da tentarsi. Non posso neppur nascondere che gli incoraggiamenti
del Partistagno ed i savi consigli di Lucilio Vianello cooperarono assai  a  far
traboccar la bilancia da questo lato; e al postutto il signor Conte si sentí  un
tantin piú sicuro nel vedersi spalleggiato da gente cosí valorosa ed  assennata.
Ciò non tolse peraltro che il processo di Germano non si tenesse  avvolto  nelle
piú imperscrutabili ombre del mistero; come anche queste ombre non furono  tanto
imperscrutabili da impedire agli occhi piú pettegoli di volerci veder entro  per
forza. Infatti  si  buccinò  tantosto  che  il  vecchio  bulo  del  Venchieredo,
spaventato dal decreto degli Inquisitori, avea  deposto  contro  il  suo  antico
padrone certe carte di vecchia data che non provavano una specchiata fedeltà  al
governo della Serenissima; e se sopra queste ipotesi (non erano piucché ipotesi,
intendiamoci bene, perché dopo aperto il processo, il Conte,  il  Cancelliere  e
mastro Germano, che soli vi avevano parte, erano diventati  come  sordomuti)  se
sopra queste ipotesi, dico, se ne fabbricarono dei castelli in aria, lo lascio a
voi immaginare. Come si può credere, uno dei primi ad aver sentore di ciò fu  il
castellano di Venchieredo, e convien dire  che  non  si  sentisse  la  coscienza
affatto candida, perché a prima giunta mostrò aver della cosa maggior dispiacere
e spavento che non volesse dimostrarne in seguito.  Egli  pensò,  guardò,  pesò,
ripensò ancora: e finalmente un bel  giorno  che  a  Fratta  s'erano  alzati  da
tavola, fu annunciata al signor Conte la sua visita. Il Cappellano, che  era  in
cucina, credo che all'annunzio di quel nome stesse lí lí per andare in deliquio;
quanto al signor Conte,  dopo  aver  cercato  consiglio  negli  occhi  de'  suoi
commensali che non erano meno stupiti né  piú  sicuri  dei  suoi,  egli  rispose
balbettando al cameriere che introducesse pure la visita nella sala di sopra;  e
che egli col Cancelliere sarebbe salito incontanente. Erano troppe le  minaccie,
i rischi, e le spiacevolezze di quella visita perché si potesse  neppur  sperare
di ripiegarvi con una consulta preventiva; e d'altronde i due pazienti non erano
tanto aquile da sbrigare in due minuti una  tale  deliberazione.  Perciò  misero
rassegnatamente la testa nel sacco; e salirono  di  conserva  ad  affrontare  la
temuta arroganza e la non men temuta  furberia  del  prepotente  castellano.  La
famiglia rimase nel tinello coll'egual  batticuore  della  famiglia  di  Regolo,
quando si trattava nel Senato se si dovesse trattenerlo a Roma  o  rimandarlo  a
Cartagine. - Servo di Sua Signoria!  -  disse  lestamente  il  Venchieredo  come
appena il Conte e la sua ombra ebbero messo piede nella sala. E volse insieme  a
quest'ombra una certa occhiata che la rese livida e oscura a tre tanti. -  Servo
umilissimo di Vostra Eccellenza! - rispose il Conte senza alzar  gli  occhi  dal
pavimento ove pareva cercasse una buona ispirazione per cavarsela.  Poi  siccome
l'ispirazione non veniva, si volse a domandarne conto al Cancelliere, e fu molto
inquieto  di  veder  costui  indietreggiato   fino   alla   parete.   -   Signor
Cancelliere... - si provò a soggiungere. Ma il Venchieredo gli soffocò le parole
in bocca. - È inutile, - diss'egli - è inutile  che  il  signor  Cancelliere  si
distolga dalle sue solite incombenze per perdersi nelle nostre ciarle. Si sa che
egli ha per le mani processi molto importanti e che esigono pronta trattazione e
diligentissimo esame. Il bene della Serenissima Signoria prima di tutto, dovesse
anche andarne la  vita!  non  è  vero,  signor  Cancelliere?  Intanto  ella  può
lasciarci qui a  quattr'occhi,  ché  il  nostro  colloquio  non  è  null'affatto
curiale, e ce ne sbrigheremo tra noi. Il Cancelliere ebbe appena appena la forza
necessaria per trascinare le gambe fin fuori della  sala;  e  il  suo  occhietto
bieco era in quel momento cosí fuor di strada, che nell'uscire gli lasciò batter
il naso contro la merletta. Il Conte mosse verso di lui un  tacito  e  impotente
gesto di preghiera di paura e di disperazione; uno di quei gesti  che  annaspano
per aria le braccia d'un annegato prima di  abbandonarsi  alla  corrente.  Indi,
quando l'uscio fu rinchiuso, si rassettò la veste gallonata, e alzò  timidamente
gli occhi come per dire: portiamola con dignità! - Ho piacere ch'ella  mi  abbia
accolto con tanta confidenza, - riprese allora il  Venchieredo  -  ciò  dimostra
chiaro che finiremo coll'intenderci. E in fin dei conti l'ha anche  fatto  bene,
perché debbo appunto intrattenerla d'un affare di confidenza. N'è  vero  che  ci
intenderemo,  signor  Conte?  -  aggiunse  il   volpone   avvicinandosegli   per
stringergli furbescamente la mano. Il signor Conte fu discretamente consolato di
quel segno d'affetto: si lasciò stringer la mano con una leggiera impazienza,  e
non appena la sentí libera se  la  nascose  frettolosamente  nella  tasca  della
zimarra. Credo che  gli  tardasse  l'ora  di  correre  a  lavarsela,  perché  il
Vice-capitano non fiutasse da  Portogruaro  l'odore  di  quella  stretta.  -  Sí
signore; - rispose egli impiastricciando un sorrisetto che  per  la  fatica  gli
cavò dagli occhi due lagrime - sí signore,  credo...  anzi...  ci  siamo  intesi
sempre! - Ben parlato, giuraddio! - soggiunse l'altro  sedendogli  allato  sopra
una poltroncina. - Ci siamo sempre intesi e c'intenderemo anche questa volta  in
barba a chiunque. La nobiltà, per quanto diversa  di  costumi,  d'indole,  e  di
attinenze, ha pur sempre interessi comuni; e un torto  fatto  ad  uno  de'  suoi
membri ricade sopra tutti. E cosí è necessario star bene uniti e darsi mano l'un
l'altro e aiutarsi in quello  che  si  può  per  mantenere  inviolati  i  nostri
privilegi.  La  giustizia  va  bene,  anzi  benissimo...  per  quelli   che   ne
abbisognano. Io per me trovo che di giustizia ne ho il mio bisogno in casa  mia,
e chi vuol farmela a mio dispetto mi secca a tutto potere. N'è vero che anche  a
lei, signor Conte, non garba per  nulla  questa  pretesa  che  hanno  taluni  di
volersi immischiare nei fatti nostri? -  Eh...  anzi...  la  cosa  è  chiara!  -
balbettò il Conte, che s'era seduto macchinalmente anche lui, e di tutte  quelle
parole non altro aveva udito che un suono confuso, e un intronamento, come d'una
macina che gli girasse negli orecchi. - Di piú - continuò il  Venchieredo  -  la
giustizia di quei cotali non è sempre né la piú pronta, né la meglio servita;  e
chi volesse obbedire pecorilmente a lei, potrebbe trovarsi alle prese con chi  è
di diverso parere, ed ha ai  suoi  comandi  un'altra  giustizia  ben  altrimenti
spiccia ed operativa! Queste frasi pronunciate una per una,  e  sarei  per  dire
sottosegnate dall'accento fermo e riciso del parlatore,  scossero  profondamente
il timpano  del  Conte,  e  fecero  ch'egli  alzasse  un  viso  non  so  se  piú
scandolezzato  o   impaurito   dall'averle   comprese.   Siccome   peraltro   il
dimostrarsene offeso poteva esporlo a qualche spiacevole schiarimento,  cosí  fu
abbastanza diplomatico per ricorrere una seconda volta al solito sorriso che gli
ubbidí meno ritroso di prima. - Veggo  ch'ella  mi  ha  capito  -  tirò  innanzi
l'altro - ch'ella è in grado di pesare la forza delle  mie  ragioni,  e  che  il
favore ch'io vengo a chiederle non sembrerà né strano, né  soverchio.  Il  Conte
allargò bene gli occhi, e trasse una mano di tasca per mettersela sul  cuore.  -
Qualche mala lingua, qualche pettegolo sciagurato e bugiardo che io farò  punire
colle frustate, non la ne dubiti - proseguí il Venchieredo  -  mi  ha  usato  la
finezza di mettermi in mala vista della Signoria per non so  quali  freddure  di
vecchia data che non meritano nemmeno di essere ricordate.  Son  birberie,  sono
freddure, tutti lo consentono; ma a Venezia si dovette dar corso all'affare  per
non far torto al sistema. Ella mi capisce bene; se si trascurassero le  denunzie
nelle cose frivole, mancherebbero poi nelle grandi,  e,  adottata  una  massima,
bisogna accettarne tutte le conseguenze. Insomma io  lo  so  di  sicuro,  che  a
malincuore si comandò di colassù l'istituzione  di  quel  tal  processo...  ella
intende bene... quel protocollo segreto... a carico di quel mastro Germano...  -
Se fosse qui il Cancelliere... - mormorò con un raggio di speranza in  volto  il
conte di Fratta. - No, no; non voglio ora né pretendo che mi  si  spiattelli  il
processo -  riprese  il  Venchieredo.  -  Mi  basta  ricordarglielo,  e  avergli
dimostrato che non per diffidenza contro di me, né per l'entità della  cosa,  ma
che per un solo costume di buon governo si venne a quel  tal  decreto...  Già  è
inutile che mi dilunghi  di  piú.  Al  fatto,  anche  a  Venezia  non  sarebbero
malcontenti  di  veder  troncato   l'affare:   e   cosí   succede   sempre   che
nell'applicazione conviene ammorbidire e  correggere  ciò  che  v'ha  di  troppo
ruvido e generale nelle massime di Stato. Ora, signor Conte,  tocca  a  noi  tra
buoni amici interpretare le nascoste intenzioni dei Serenissimi Inquisitori.  Lo
spirito, ella lo sa meglio di me, va sopra la lettera; ed io la assicuro, che se
la lettera le comanda di andar innanzi, lo spirito invece le consiglia di dar un
frego su tutto. In confidenza ebbi anche  da  Venezia  comunicazioni  di  questo
tenore; e lei già indovina il mezzo... con un onesto compromesso... con un  buon
mezzo termine, si potrebbe... Il Conte allargava sempre  piú  gli  occhi,  e  si
stracciava colle dita i merletti della camicia; a questo punto tutto il respiro,
che gli si era compresso nel petto per la grande agitazione, uscí  romorosamente
in una sbuffata. - Oh non pigli soggezione di ciò - soggiunse l'altro. - La cosa
è piú facile ch'ella non  crede.  E  fosse  anche  difficilissima,  bisognerebbe
tentarla per ubbidire allo spirito del Serenissimo  Consiglio  dei  Dieci.  Allo
spirito, si ricordi bene, non alla lettera!... Poiché  del  resto  la  giustizia
della Serenissima non può volere che un eccellentissimo signore  com'ella  è  si
trovi quandocchessia in gravi imbarazzi  per  essere  stato  troppo  ligio  alle
apparenze d'un decreto. Si figuri! Metter un giurisdicente in lotta con tutti  i
suoi colleghi!... Sarebbe  ingratitudine,  sarebbe  una  nequizia  imperdonabile
contro di lei!... Al povero giurisdicente, che coll'acume della paura  intendeva
meravigliosamente tutti questi discorsi, i sudori freddi  venivano  giù  per  le
tempie, come gli sgoccioli d'una torcia in un giorno di  processione.  Il  dover
rispondere, il non voler dire né sí né no, era tal tormento per lui che  avrebbe
preferito di cedere tutti i suoi diritti giurisdizionali per  esserne  liberato.
Ma alla fin fine gli parve aver trovato il vero modo  di  cavarsela.  Figuratevi
che talentone!... Avea proprio trovato una gran novità!  -  Ma...  col  tempo...
vedremo... combineremo... - Eh, che tempo d'Egitto! - saltò  su  con  una  bella
stizza il Venchieredo. - Chi ha tempo non aspetti tempo, Conte carissimo! Io per
esempio se fossi in lei vorrei dire subito e per le mie buone  ragioni:  "Domani
non si potrà piú parlare di questo processo!". - Per esempio! Come è  possibile?
- sclamò il Conte di Fratta. - Ah, vedo che torniamo a raccostarci; -  soggiunse
l'altro - chi cerca il mezzo è già persuaso della massima. E il mezzo è bello  e
trovato. Tutto sta che lei, signor Conte, sia disposto ad accontentare com'è  di
dovere i desiderii segreti del Consiglio dei Dieci  ed  i  miei!  Quel  miei  fu
pronunciato in maniera che ricordò lo scoppio d'una trombonata. - Si  figuri!...
Son dispostissimo io! - balbettò il poveruomo. - Quando  ella  mi  assicura  che
anche quelli di sopra vogliono cosí!... - Sicuro pel minor male  -  proseguí  il
Venchieredo. - Sempre intesi che tutto debba succedere per  caso,  e  qui  è  il
bandolo della matassa. Una buona parola a Germano, mi capisce!... un po' di esca
e un acciarino battuto su quelle  carte,  e  non  se  ne  parla  piú.  -  Ma  il
Cancelliere? - Non parlerà, stia quieto! ho una parola anche per  lui.  Cosí  si
desidera da quelli che stanno in alto, e cosí desidero anch'io: non che la  cosa
possa  aver  conseguenze  a  mio  danno;  ma  mi  dorrebbe  dover  fare  qualche
rappresaglia a un uomo del suo merito. Il castellano  di  Venchieredo  subir  un
processo da un suo pari!... S'immagini! il decoro non me lo permette. Insterò io
stesso perché quel processo lo si istituisca altrove: a Udine, a Venezia, che so
io, allora mi purgherò, allora mi difenderò. Qui, ella vede bene, è impossibile;
io non devo sopportarlo a costo d'ammazzarne, non che uno, mille!  Il  Conte  di
Fratta tremò tutto da capo a piedi; ma oggimai si era avvezzato a quei  sussulti
importuni e trovò fiato da soggiungere: - Ebbene Eccellenza; e non  si  potrebbe
addirittura  mandarle  a  Venezia  quelle  carte  inconcludenti?...  -  Oibò   -
s'affrettò a interromperlo il Venchieredo. - Non le ho detto ch'io voglio che le
sieno abbruciate?... Cioè, m'intendeva dire, che essendo inconcludenti  non  c'è
ragione da incommodarne il messo postale. - Quand'è cosí; - rispose a voce bassa
il Conte - quand'è cosí le abbrucieremo... domani. - Le  abbrucieremo  subito  -
ripigliò alzandosi il castellano. - Subito?... subito, vuole?... - Il Conte alzò
gli occhi, ché di togliersi da sedere non si  sentí  in  quel  punto  la  benché
minima volontà. Convien supporre peraltro che la faccia  del  suo  interlocutore
fosse molto espressiva,  perché  immantinente  soggiunse:  -  Sí,  sí,  ella  ha
ragione!... Subito vanno abbruciate, subito!... E allora con gran fatica si mise
in piedi, e mosse verso l'uscio che non sapeva piú in qual mondo  si  fosse.  Ma
appunto mentre toccava il saliscendi, una voce modesta e piagnolosa  domandò:  -
Con permesso -, e l'umile Fulgenzio con un piego tra mano entrò  nella  sala.  -
Cos'hai, cosa c'è, chi ti  ha  detto  d'entrare?  -  chiese  tutto  tremante  il
padrone. - Il cavallante porta  da  Portogruaro  questa  missiva  pressantissima
della Serenissima Signoria - rispose Fulgenzio. - Eh via! affari per  domattina!
- disse il Venchieredo un po' impallidito, e movendo un passo oltre la soglia. -
Scusino le Loro Eccellenze; - rispose Fulgenzio  -  l'ordine  è  perentorio.  Da
leggersi subito! - Ohimè sí... leggerò subito - soggiunse  il  Conte  inforcando
gli occhiali e disuggellando il piego. Ma non appena vi ebbe gettati  sopra  gli
occhi, un brivido tale gli corse per la persona  che  dovette  appoggiarsi  alla
porta per non perder le gambe. Allo stesso  tempo  anche  il  Venchieredo  aveva
squadrato all'ingrosso quella cartaccia, e ne avea odorato il contenuto. - Veggo
che per oggi  non  c'intenderemo,  signor  Conte!  -  diss'egli  con  la  solita
arroganza. - Si  raccomandi  alla  protezione  del  Consiglio  dei  Dieci  e  di
sant'Antonio! Io resto col piacere di averla riverita. Cosí dicendo andò giù per
la scala lasciando il giurisdicente di Fratta  affatto  fuori  dei  sensi.  -  E
cosí?... se n'è andato? - disse costui quando rinvenne dal  suo  smarrimento.  -
Sí, Eccellenza! se n'è andato! - ripeté Fulgenzio. -  Guarda,  guarda,  cosa  mi
scrivono? - riprese egli porgendo il  piego  al  sagrestano.  Costui  lesse  con
nessuna sorpresa un mandato formale di arrestare il signor di Venchieredo ove se
ne porgesse il destro senza pericolo di far baccano. - Ora è partito, è  proprio
partito, e non è mia colpa se non posso farne il fermo - rispose il Conte. -  Tu
sei testimonio che egli se n'è ito prima  ch'io  avessi  compreso  a  dovere  il
significato dello scritto! - Eccellenza, io sarò testimonio di tutto quello  che
comanda lei! - Pure sarebbe stato meglio che il cavallante  avesse  tardato  una
mezz'ora!... Fulgenzio sorrise da  par  suo;  e  il  Conte  andò  in  cerca  del
Cancelliere per partecipargli il nuovo e piú terribile imbroglio nel quale erano
invischiati. Chi fosse Fulgenzio, e quale il suo uffizio, voi ve lo immaginerete
come me lo immagino io; ed erano frequenti simili casi, nei quali la Signoria di
Venezia adoperava il piú abietto servidorame per invigilare la fedeltà e lo zelo
dei padroni. Quanto al Venchieredo, in onta alla sua  apparente  tracotanza,  ne
ebbe una gran battisoffia dalla lettura di quella nota perocché comprese di volo
che gli si voleva far la festa senza misericordia: perciò  sulle  prime  vinsero
gli argomenti della  paura.  Poco  appresso  tornò  a  confidare  nella  propria
furberia, nelle potenti attinenze, nella mollezza  del  governo;  e  cosí  tornò
daccapo a tentare le scappatoie. La prima ispirazione sarebbe  stata  di  saltar
sull'Illirio; e vedremo in seguito se ebbe torto o ragione a non darle retta. Ma
poi pensò che non sarebbe stato sí facile il catturar  lui  senza  qualche  gran
chiasso, e alla peggio per fuggire di là dall'Isonzo ogni ora gli pareva  buona.
Il desiderio di vendicarsi ad un  colpo  di  Fulgenzio,  del  Cappellano,  dello
Spaccafumo e del Conte,  e  di  imporre  le  ragioni  della  forza  anche  sulla
Serenissima Signoria la vinse  a  lungo  andare  in  quel  suo  animo  feroce  e
turbolento. Rimase dunque, trascinato dalla paura a maggiori temerità.


CAPITOLO QUINTO

L'ultimo assedio del castello di Fratta nel 1786, e le prime mie gesta. Felicità
di due amanti, angosciose trepidazioni di due monsignori, e strano  contegno  di
due cappuccini. Germano, portinaio di Fratta,  è  ammazzato;  il  castellano  di
Venchieredo va in galera, Leopardo Provedoni prende  moglie,  ed  io  studio  il
latino. Fra tutti non mi par d'esser il piú infelice.

Gli è della storia della mia vita, come  di  tutte  le  altre,  credo.  Essa  si
diparte solitaria da una  cuna  per  frapporsi  poi  e  divagare  e  confondersi
coll'infinita moltitudine delle umane vicende, e tornar solitaria e sol ricca di
dolori e di rimembranze verso la pace del sepolcro.  Cosí  i  canali  irrigatori
della pingue Lombardia sgorgano da qualche lago alpestre o da una  fiumiera  del
piano per dividersi suddividersi  frastagliarsi  in  cento  ruscelli,  in  mille
rigagnoli e rivoletti: piú in giù l'acque  si  raccolgono  ancora  in  una  sola
corrente lenta pallida silenziosa che sbocca nel  Po.  È  merito  o  difetto?  -
Modestia vorrebbe ch'io dicessi merito; giacché i casi miei sarebbero  ben  poco
importanti a raccontarsi, e le opinioni e i mutamenti e le conversioni non degne
da essere studiate, se non si intralciassero nella storia di altri uomini che si
trovarono meco sullo stesso sentiero, e coi quali fui  temporaneamente  compagno
di viaggio per questo  pellegrinaggio  del  mondo.  Ma  saranno  queste  le  mie
confessioni? O non somiglio per cotal modo alla donnicciuola  che  in  vece  de'
proprii peccati racconta al prete  quelli  del  marito  e  della  suocera,  o  i
pettegolezzi della contrada? - Pazienza! - L'uomo è cosí legato al secolo in cui
vive che non può dichiarare l'animo suo  senza  riveder  le  buccie  anche  alla
generazione che lo circonda. Come i pensieri del tempo e dello spazio si perdono
nell'infinito, cosí  l'uomo  d'ogni  lato  si  perde  nell'umanità.  Gli  argini
dell'egoismo, dell'interesse, e della religione non bastano; la filosofia nostra
può aver ragione nella pratica; ma la sapienza inesorabile dell'India  primitiva
si vendica dei nostri sistemi arrogantelli e minuziosi nella piena verità  della
metafisica eterna. Intanto avrete notato che nel racconto della mia  infanzia  i
personaggi mi si sono moltiplicati intorno che è un vero spavento. Io stesso  ne
sono sgomentito; come quella strega che si spaventava dei  diavoli  dopo  averli
imprudentemente evocati. È una vera falange che pretende camminar di fronte  con
me, e col suo strepito e colle sue ciarle rallenta di molto quella fretta  ch'io
avrei d'andar innanzi. Ma non dubitate; se la vita non è una battaglia  campale,
è però un viluppo continuo di scaramuccie e badalucchi giornalieri.  Le  falangi
non  cadono  a  schiere  come  sotto  al  fulminar  dei  cannoni,   ma   restano
scompaginate,  decimate,  distrutte  dalle  diserzioni,  dagli  agguati,   dalle
malattie. I compagni della gioventù ci lasciano ad uno ad uno, e ci  abbandonano
alle nuove amicizie rade guardinghe interessate della  virilità.  Da  questa  al
deserto della vecchiaia è un breve passo pieno di compianti e di  lagrime.  Date
tempo al tempo, figliuoli miei! Dopo esservi  raggirati  con  me  nel  laberinto
allegro vario e popoloso  degli  anni  piú  verdi,  finirete  a  sedere  in  una
poltrona, donde il povero vecchio stenta a mover le gambe e pur s'affida a forza
di coraggio e di meditazioni al futuro che si stende al di qua e al di là  della
tomba. Ma per adesso lasciate che vi mostri il mondo  vecchio;  quel  mondo  che
bamboleggiava ancora alla fine del secolo scorso, prima  che  il  magico  soffio
della rivoluzione francese gli rinnovasse spirito e carni. La gente d'allora non
è quella d'adesso: guardatela e fatevene specchio d'imitazione nel poco bene,  e
di correzione nel molto male. Io, superstite di quella nidiata, ho il diritto di
parlar chiaro: voi avrete quello di giudicar noi e voi dopoché avrò parlato. Non
mi ricordo piú quanti,  ma  certo  pochissimi  giorni  dopo  l'abboccamento  del
castellano di Venchieredo col Conte, il paese di Fratta fu verso sera turbato da
un'improvvisa invasione. Erano  villani  e  contrabbandieri  che  scappavano,  e
dietro  a  loro  Cernide  buli  e  cavallanti  che  scorazzavano  alla  rinfusa,
sbraitando sulla piazza, percotendo malamente i  contadini  che  incontravano  e
facendo il piú gran subbuglio che si potesse  vedere.  Al  primo  sussurrare  di
quella gentaglia la Contessa, ch'era uscita  con  monsignore  di  Sant'Andrea  e
colla Rosa per la sua passeggiata del dopopranzo, s'affrettò a  rinchiudersi  in
castello, e lí fece svegliare il marito perché vedesse cos'era quella novità. Il
Conte, che da una settimana non potea dormire che  con  un  occhio  solo,  scese
precipitosamente in cucina, e in breve tempo il Cancelliere, monsignor  Orlando,
Marchetto, Fulgenzio, il fattore, il Capitano gli furono intorno colla cera  piú
spaventata del mondo. Oramai ognuno aveva capito che non sarebbero  tornati  con
tanta facilità alla calma d'una volta; e ad ogni  nuovo  segno  di  burrasca  la
paura raddoppiava come nell'animo del convalescente ai sintomi  d'una  recidiva.
Anche quella sera toccò al capitano Sandracca e a tre de' suoi  assistenti  fare
il cuor del leone, e uscire  alla  scoperta.  Ma  non  passarono  cinque  minuti
ch'essi erano già tornati colla coda fra le  gambe  e  con  nessuna  volontà  di
ritentar  l'esperimento.  Quella  masnada  che  tumultuava  in  piazza  era   la
sbirraglia di Venchieredo e non pareva disposta per nulla alla ritirata. Gaetano
dal quartier generale dell'osteria giurava e spergiurava  che  avrebbe  messo  a
pezzi i contrabbandieri  e  che  quelli  che  si  erano  rifugiati  in  castello
l'avrebbero pagata piú cara degli altri. Egli pretendeva che lí in  paese  fosse
una lega stabilita per frodar i diritti del Fisco, e che  il  Cappellano  ed  il
Conte ne fossero i  caporioni.  Ma  era  venuto  il  momento,  diceva  egli,  di
sterminare questa combriccola, e giacché chi doveva tutelare le leggi nel  paese
se ne mostrava il piú impudente nemico, a loro toccava adempiere i decreti della
Serenissima Signoria e farsi grandissimo merito con  quell'impresa.  -  Germano,
Germano, alza il ponte levatoio,  e  spranga  bene  il  portone!  -  si  mise  a
strillare il Conte, poiché ebbe udito tutta questa  tiritera  di  insulti  e  di
fandonie. - Il ponte l'ho già alzato io, Eccellenza! -  rispose  il  Capitano  -
anzi per maggior sicurezza l'ho fatto gettar nel fossato da tre dei miei  uomini
perché le carrucole non volevano girare. -  Benissimo,  benissimo!  chiudete  le
finestre, e chiudete tutti gli usci a catenaccio - soggiunse  il  Conte.  -  Che
nessuno osi muover piede fuori del castello! - Sfido io  a  moversi  ora  che  è
rovinato il ponte! - osservò il cavallante. - Mi pare che  il  ponticello  della
scuderia ci assicuri una sortita in caso di bisogno - replicò  sapientemente  il
Capitano. - No, no, non voglio sortite! - tornò a gridare il Conte - buttate giù
subito anche il ponticello della scuderia: io  metto  da  questo  punto  il  mio
castello in istato d'assedio e di difesa. - Faccio osservare  a  Sua  Eccellenza
che rotto quel ponte non si saprà piú donde  uscire  per  le  provvigioni  della
giornata - obbiettò il fattore  inchinandosi.  -  Non  importa!  dice  bene  mio
marito! - rispose la Contessa che era la piú spaventata di tutti. - Voi  pensate
ad ubbidire e a demolir tosto il ponticello delle scuderie:  non  c'è  tempo  da
perdere!  Potremmo  esser  assassinati  da  un  momento  all'altro.  Il  fattore
s'inchinò  piú  profondamente  di  prima,  e  uscí  per  adempiere  all'incarico
ricevuto. Un quarto d'ora dopo le comunicazioni del castello di Fratta col resto
del mondo erano intercettate affatto, e il Conte e la  Contessa  respirarono  di
miglior  voglia.  Solamente  monsignor  Orlando,  che  pur  non  era  un   eroe,
s'arrischiò di mostrare qualche inquietudine sulla difficoltà di procacciarsi la
solita quantità di manzo e di vitello per l'indomani. Il signor Conte, udite  le
rimostranze del fratello, ebbe campo di mostrare l'acume e la prontezza del  suo
genio amministrativo. - Fulgenzio - diss'egli con voce solenne - quanti  neonati
ha la vostra scrofa? - Dieci, Eccellenza  -  rispose  il  sagrestano.  -  Eccoci
provveduti per tutta la settimana - riprese il Conte - giacché pei due giorni di
magro  provvederà  la  peschiera.  Monsignor  Orlando  sospirò   angosciosamente
ricordando le belle orade di Marano e le anguille succolente di  Caorle.  Ohimè,
cos'erano a paragone di  quelle  i  pesciolini  pantanosi  e  i  ranocchi  della
peschiera? - Fulgenzio; - proseguí intanto il Conte - farete ammazzare  due  dei
vostri porcellini; l'uno per l'allesso e l'altro per  l'arrosto:  avete  inteso,
Margherita? Fulgenzio e la cuoca s'inchinarono  alla  lor  volta;  ma  sospirare
toccò allora  a  monsignor  di  Sant'Andrea,  il  quale  per  un  suo  incommodo
intestinale non potea digerire la carne porcina, e  quella  prospettiva  di  una
settimana d'assedio con un simile regime non gli  andava  a  sangue  per  nulla.
Senonché la Contessa, che gli lesse questo  scontento  in  viso,  s'affrettò  ad
assicurarlo che per lui si avrebbe messo a bollire una pollastra.  La  fisonomia
del canonico si rischiarò tutta d'una santa tranquillità; e con un buon  pollaio
anche una settimana d'assedio gli parve  un  moderatissimo  purgatorio.  Allora,
dato ordine al rilevantissimo negozio della cucina, la guarnigione si sparpagliò
a porre la fortezza in istato di difesa. Si appostarono alcuni vecchi  moschetti
alle feritoie; si trascinarono due disusate  spingarde  nel  primo  cortile;  si
sbarrarono le porte e le balconate. Da ultimo si sonò la campanella pel rosario,
e nessuno lo avea detto da molti anni con maggior divozione che in quella  sera.
La Contessa in quei momenti era troppo fuori di sé per badare ad altri che a  se
stessa, ma sua suocera quando cominciò ad imbrunire chiese  conto  della  Clara,
perché la tardasse tanto a portarle il suo solito  panbollito.  La  Faustina  la
Pisana ed io ci mettemmo tantosto a cercarla; chiama di qua cerca di là, non  ci
fu verso che la potessimo trovare. L'ortolano soltanto ci  disse  averla  veduta
uscire dalla parte della scuderia un paio d'ore prima; ma di  piú  egli  non  ne
sapeva, e credeva la fosse rientrata, come costumava, dalla banda  del  piazzale
colla signora Contessa. Di lí certo non l'avrebbe potuto  ripassare,  perché  il
fattore avea eseguito tanto appuntino gli ordini ricevuti,  che  del  ponticello
non rimaneva vestigio. D'altronde la notte cadeva già buia buia,  e  non  era  a
credersi che la fosse stata a zonzo in fin allora. Ci rimisimo dunque in traccia
di lei, e solo dopo un'altra ora di minute ed infruttuose indagini  la  Faustina
si decise a rientrare in cucina per dare ai  padroni  quella  tristissima  nuova
dello sparimento della Contessina. - Giurabbacco! - sclamò il Conte - certo quei
manigoldi ce l'hanno portata via! La Contessa volle affliggersene assai,  ma  la
propria inquietudine la  occupava  troppo  perché  la  vi  potesse  riescire.  -
Figuratevi - continuava il marito - figuratevi cosa son capaci  di  fare  quegli
sciagurati che danno del contrabbandiere a me per poter mettere a  soqquadro  il
paese! Ma me la pagheranno, oh sí che me la pagheranno! - soggiungeva sotto voce
per  paura  che  non  lo  udissero  fuori  del  girone.  -  Sí,   chiacchierate,
chiacchierate! - riprese la signora  -  le  chiacchiere  son  proprio  buone  da
aiutarvi a friggere! Ecco che da tre ore noi siamo chiusi in rete  e  non  avete
pensato a nessuna maniera da levarci di ragna!... Vi portano via la figlia e voi
vi sfiatate a dire che ve la pagheranno!... Già per quello che la costa  a  voi,
ben poco potreste pretendere! - Come, signora moglie?... Per quello che la costa
a me?... Cosa sarebbe a dire? - Eh se non  intendete,  aguzzatevi  il  cervello.
Voleva dire che dei figli vostri e di me stessa e della  nostra  salute  voi  vi
date tanto pensiero come di  raddrizzare  la  punta  al  campanile.  -  (Qui  la
Contessa ne fiutò rabbiosamente una presa). - Vediamo  cosa  avete  pensato  per
cavarci d'imbroglio?... In qual maniera volete andar in traccia della Clara!?  -
Siate buonina, diamine!... La Clara,  la  Clara!...  non  c'è  poi  soggetto  da
indiavolarsene tanto. Sapete come l'è bellina e costumata. Io son d'opinione che
se anche dormisse una notte fuori del castello non le  interverrà  alcun  guaio.
Quanto a noi, spero che non vorrete ridurci alle schioppettate. -  (La  Contessa
mosse un gesto di ribrezzo e di impazienza). -  Dunque  -  (seguitò  l'altro)  -
proveremo a  parlamentare!  -  Parlamentare  coi  ladri!  benone  per  diana!  -
Ladri!... chi vi dice  che  sian  ladri?...  Son  messi  di  giustizia,  un  po'
spicciativi, un po' ubbriachi se volete, ma pur sempre  vestiti  di  un'autorità
legale, e quando sarà loro passata la scalmana,  intenderanno  ragione.  S'erano
troppo infervorati nel dar la caccia a due o tre contrabbandieri; il vino li  ha
fatti stravedere, ed hanno creduto che i fuggitivi si siano ricoverati a Fratta.
Cosa  c'è  di  straordinario  in  questo?...  Se  li  persuaderemo  che  qui  di
contrabbandi non ce n'è mai stata orma, essi torneranno verso casa mansueti come
agnellini. - Eccellenza, ella si dimentica una circostanza - s'intromise a  dire
monsignore di Sant'Andrea. - Sembra che i fuggitivi fossero sgherani  essi  pure
travestiti da contrabbandieri e cacciati innanzi come pretesti a  movere  questo
gran tafferuglio. Germano pretende aver conosciuto fra loro  alcun  mustacchione
di Venchieredo.  -  Eh  cosa  c'entro  io!  cosa  ci  ho  a  far  io!  -  sclamò
disperatamente il povero Conte. - Si potrebbe intanto  mandar  fuori  alcuno  di
soppiatto che spiasse come vanno le cose, e cercasse conto  della  Contessina  -
consigliò il cavallante. - Oibò, oibò!  -  rispose  stremenzita  la  Contessa  -
sarebbe una grave imprudenza, tanto piú che in castello si scarseggia di gente e
non è questo il momento  da  allontanare  i  piú  esperti!  La  Pisana  che  era
accosciata con me fra le ginocchia di Martino, si avanzò  baldanzosamente  verso
il focolare, offrendosi ad andar lei in traccia della sorella;  ma  erano  tanto
costernati  che  nessuno  fuori  di  Marchetto  sembrò  accorgersi   di   quella
fanciullesca e commovente temerità. Peraltro l'esempio non fu  senza  frutto,  e
dopo la Pisana io pure m'offersi ad uscire in  cerca  della  Contessina.  Questa
volta  l'offerta  ebbe  la  fortuna  di  fermare  taluno.  -   Davvero   tu   ti
arrischieresti ad andar fuori per dar una occhiata? - mi domandò il  fattore.  -
Sí certo - soggiunsi io, alzando la testa e guardando fieramente la Pisana. - Ci
andremo insieme - disse la fanciulla che non volea parere dammeno di  me.  -  Eh
no, non sono affari da signorine questi, -  riprese  il  fattore  -  ma  qui  il
Carlino potrebbe trarsi d'impaccio a meraviglia. N'è vero, signora Contessa, che
la pensata è buona? - In difetto di meglio non dico di no - rispose la  signora.
- Già qui dentro un fanciullo di poco aiuto ci vorrebbe essere, e  fuori  invece
non darebbe sospetto e potrebbe metter il naso in ogni luogo. Cosí anche l'esser
malizioso e petulante come il demonio, gli avrà giovato una volta. -  Ma  voglio
andar fuori anch'io! anch'io voglio andar in traccia della Clara! -  si  mise  a
strillare la Pisana. - Lei, signorina, andrà a letto sul momento  -  riprese  la
Contessa; e fece un  cenno  alla  Faustina  perché  il  comando  avesse  effetto
tantosto. Allora fu una piccola battaglia di urli di graffiate di morsi;  ma  la
cameriera la vinse e la disperatella fu menata bellamente a dormire. - Cosa devo
poi rispondere alla Contessa vecchia in quanto alla contessina Clara? -  domandò
la donna nell'andarsene colla Pisana che  le  strepitava  fra  le  braccia...  -
Ditele che è perduta, che non la si trova, che  tornerà  domani!  -  rispose  la
Contessa. - Sarebbe meglio darle ad intendere che sua zia di Cisterna è venuta a
prenderla, se è lecito il consiglio - soggiunse il fattore. - Sí, sí! datele  ad
intendere qualche fandonia! - sclamò la signora - ché  non  la  pensi  di  farci
disperare ché dei crucci ne abbiamo anche  troppi.  La  Faustina  se  n'andò,  e
s'udirono i pianti della Pisana dileguarsi lungo il  corridoio.  -  Ora  a  noi,
serpentello - mi disse il fattore prendendomi garbatamente  per  un'orecchia.  -
Sentiamo cosa sarai buono di farci una volta uscito dal  castello!  -  Io...  io
prenderò un giro per la campagna - soggiunsi -  e  poi,  come  se  nulla  fosse,
capiterò all'osteria, dove sono quei signori, a piangere e  a  lagnarmi  di  non
poter rientrare in castello... Dirò che sono  uscito  nel  dopopranzo,  che  era
insieme colla contessina Clara e che poi mi son  perduto  a  correre  dietro  le
farfalle e non ho piú potuto raggiungerla. Allora chi ne sa me ne  darà  notizia
ed io tornerò dietro le scuderie a zufolare,  e  l'ortolano  mi  allungherà  una
tavola sulla quale ripasserò il fossato come lo avrò passato  nell'uscire.  -  A
meraviglia: tu sei un paladino! - rispose il fattore. - Di che cosa si tratta? -
mi domandò Martino che si sgomentiva di tutti quei discorsi che mi vedeva  fare,
senza poterne capire gran che. - Vado fuori in cerca della Contessina che non  è
ancora rientrata - io gli risposi con tutto il fiato dei polmoni. - Sí, sí,  fai
benissimo - soggiunse il vecchio - ma abbi gran prudenza. - Per non comprometter
noi - continuò la Contessa. - Peraltro andrà bene che tu stia un poco origliando
i discorsi degli scherani che sono all'osteria per conoscere le loro  intenzioni
- aggiunse il Conte. - Cosí potremo regolarci per le pratiche ulteriori.  -  Sí,
sí! e torna presto, piccino! - riprese la Contessa accarezzandomi quella zazzera
disgraziata cui tante volte era toccata una sorte ben diversa.  -  Va',  guarda,
osserva, e riportaci tutto fedelmente! Il Signore  ti  ha  fatto  cosí  furbo  e
risoluto per nostro maggior bene!... Va' pure, e che il Signore ti  benedica,  e
ricordati che noi stiamo qui ad attenderti col cuore sospeso! -  Tornerò  appena
abbia odorato qualche cosa - risposi io  con  piglio  autorevole,  ché  già  fin
d'allora mi sentivo uomo in quell'accolta di conigli.  Marchetto  il  fattore  e
Martino  vennero  meco,  confortandomi  e  raccomandandomi  ad   usar   prudenza
accortezza e premura. Si lanciò una tavola da  fabbrica  nel  fosso;  io  ch'era
assai destro in quella maniera di navigare, varcai felicemente all'altra sponda,
e d'un colpo di mano rimandai loro lo  scafo.  Indi,  mentre  nella  cucina  del
castello intonavano per consiglio di monsignor Orlando un  secondo  rosario,  mi
misi fra le folte ombre della notte alla mia  coraggiosa  spedizione.  La  Clara
infatti, uscita dalla  pustierla  del  castello  prima  dei  vespri,  come  avea
riferito l'ortolano, non era piú ritornata. Credeva ella incontrar la sua  mamma
lungo la strada di Fossalta, e cosí un  passo  dietro  l'altro  era  arrivata  a
questo villaggio senza imbattersi in nessuno. Allora dubitò che l'ora fosse  piú
tarda del consueto, e che la brigata del castello avesse dato  addietro  appunto
durante il giro da lei percorso nell'andare dall'orto alla  strada.  Si  rivolse
dunque frettolosamente per ridursi essa pure a casa; ma non  avea  camminato  un
trar di sasso che lo scalpito d'una pedata la sforzò a  voltarsi.  Era  Lucilio;
Lucilio calmo e pensoso come il solito, ma irraggiato in  quel  momento  da  una
gioia mal celata o fors'anche non voluta celare.  Egli  pareva  moversi  appena;
eppure in un lampo fu al fianco della donzella e ad ambidue forse quel lampo non
sembrò cosí subito come il desiderio voleva. Nessuna cosa  accontenterà  mai  la
rapidità del pensiero: la vaporiera oggimai sembra troppo lenta; l'elettrico  un
giorno parrà piú pigro e noioso d'un cavallo di vettura. Credetelo - si farà  si
farà; e in ultima analisi le proporzioni rimarranno le stesse, come  nel  quadro
ingrandito dalla lente. Gli è che  la  mente  indovina  sopra  di  sé  un  mondo
altissimo lontano inaccessibile; e ogni giro, ogni passo, ogni  spirale  che  si
mova o si agiti senza raccostarla a quel sognato paradiso non sembrerà  moto  ma
torpore e noia. Che vale andar da Milano a Parigi in trentasei ore  piuttostoché
in duecento? Che vale poter vedere in quarant'anni dieci volte, in vece che una,
le quattro parti del mondo? Né il mondo s'allarga né la vita s'allunga per  ciò;
e chi pensa troppo, correrà sempre  fuori  di  quei  limiti  nell'infinito,  nel
mistero senza luce. Alla Clara e a Lucilio parve lunghissimo quell'attimo che li
mise l'uno allato dell'altra; e il tempo all'incontro  che  camminarono  insieme
fino alle prime case di Fratta passò in un baleno. E sí  che  i  piedi  andavano
innanzi a malincuore; e senza accorgersi molte e  molte  volte  s'erano  fermati
lungo la via discorrendo della nonna, del castellano di Venchieredo, delle  loro
opinioni in proposito, e piú anche di se stessi, dei proprii  affetti,  del  bel
cielo che li innamorava e del bellissimo tramonto  che  li  fece  restare  lunga
pezza  estatici  a  contemplarlo.  -  Ecco  come  io  vorrei  vivere!  -  sclamò
ingenuamente la Clara. - Come? Oh me lo dica subito! - soggiunse  Lucilio  colla
continua
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