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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italianoIppolito Nievosua voce piú bella. - Ch'io vegga se son capace di comprendere i suoi desiderii, e di parteciparne! - Davvero ho detto che vorrei vivere cosí; - riprese la Clara - ed ora non saprei spiegare il mio desiderio. Vorrei vivere cogli occhi di questa splendida luce di cielo; colle orecchie di questa pace allegra ed armoniosa che circonda la natura quando si addormenta; e coll'anima e col cuore in quei dolci pensieri di fratellanza, in quei grandi affetti senza distinzione e senza misura che sembrano nascere dallo spettacolo delle cose semplici e sublimi! - Ella vorrebbe vivere di quella vita che la natura aveva preparato agli uomini savi, uguali, innocenti! - rispose mestamente Lucilio. - Vita che nei nostri vocabolari ha nome di sogno e di poesia. Oh sí! la comprendo benissimo; perché anch'io respiro l'aria imbalsamata dei sogni, e mi affido alle poesie della speranza, per non rispondere coll'odio all'ingiustizia e colla disperazione al dolore. Vegga un po' come siamo disposti a sproposito. Chi ha braccia non ha cervello; chi ha cervello non ha cuore; chi ha cuore e cervello non ha autorità. Dio sta sopra di noi, e lo dicono giusto e veggente. Noi, figliuoli di Dio, ciechi ingiusti ed oppressi, colla voce cogli scritti colle opere lo neghiamo ad ogni momento. Neghiamo la sua provvidenza, la sua giustizia, la sua onnipotenza! È un dolore vasto come il mondo, duraturo quanto i secoli, che ci sospinge, ci incalza, ci atterra; e un giorno alfine ci fa risovvenire che siamo eguali; tutti, ma solo nella morte!... - Nella morte, nella morte!! dica nella vita, nella vera vita che durerà sempre! - sclamò come inspirata la Clara - ed ecco dove Dio risorge, e torna ad aver ragione sulle contraddizioni di quaggiù. - Dio dev'essere dappertutto - soggiunse Lucilio con una tal voce nella quale un divoto avrebbe desiderato maggior calore di fede. Ma la Clara non ci vide entro nessun dubbio in quelle parole, ed ei ben sel sapeva che sarebbe stato cosí; giacché altrimenti non avrebbe parlato. - Sí, Dio è dappertutto! - riprese ella con un sorriso angelico, mandando gli occhi per ogni parte del cielo - non lo vede non lo sente non lo respira dovunque? I buoni pensieri, i dolci affetti, le passioni soavi donde ci vengono se non da lui?... Oh io lo amo il mio Dio come fonte di ogni bellezza e di ogni bontà! Se mai vi fu argomento che valesse a persuadere un incredulo d'alcuna verità religiosa, fu certo l'aria divina che si diffuse in quel momento sulle sembianze di Clara. L'immortalità si stampò a carattere di luce su quella fronte confidente e serena; nessuno certo avrebbe osato dire che in tanto prodigio d'intelligenza di sentimento e di bellezza, la natura avesse provveduto soltanto ad ammannir un pascolo ai vermi. Vi sono, sí, facce morte e petrigne, sguardi biechi e sensuali, persone grevi curve striscianti che possono accarezzare col loro sucido esempio le spaventose fantasie dei materialisti; e ad esse parrebbe di doversi negare l'eternità dello spirito, come agli animali o alle piante. Ma fra tanta ciurma semimorta si erge in alto qualche fronte che sembra illuminarsi d'una luce sovrumana: dinanzi a questa il cinico va balbettando confuse parole; ma non può impedire che non gli tremoli in cuore o speranza o spavento d'una vita futura. - Quale? chiedono i filosofi. - Non chiedetelo a me, se sventura vuole che non vi faccia contenti quella sapienza secolare che si è condensata nella fede. Chiedetelo a voi stessi. - Ma certo se la materia organica anche sciolta la compagine umana seguita a fermentare ed a vivere materialmente nel grembo della terra, lo spirito pensante dovrà agitarsi tuttavia e vivere spiritualmente nel pelago dei pensieri. Il moto, che non si arresta mai nel congegno affaticato delle vene e dei nervi, potrà retrocedere o acquietarsi nell'instancabile e sottile elemento delle idee? - Lucilio si fermò cogli occhi quasi estatici ad ammirare le sembianze della sua compagna. Allora un riverbero di luce gli lampeggiò sul volto, e per la prima volta un sentimento non tutto suo ma comandatogli dai sentimenti altrui si fece strada nelle pieghe tenebrose del suo cuore. Si riebbe peraltro da quella breve sconfitta per tornar tristamente padrone di sé. - Divina poesia! - diss'egli togliendo gli occhi dal bel tramonto che omai si scolorava in un vago crepuscolo - chi primo si alzò con te nelle speranze infinite fu il vero consolatore dell'umanità. Per insegnare agli uomini la felicità bisognerebbe educarli poeti, non scienziati o anatomici. La Clara sorrise pietosamente; e gli chiese: - Ella dunque, signor Lucilio, non è gran fatto felice? - Oh sí, lo sono ora come forse non potrò mai esserlo! - sclamò il giovine stringendole improvvisamente una mano. A quella stretta scomparve dal volto della fanciulla lo splendore immortale della fede, e la luce tremula e soave del sentimento vi si diffuse come un bel chiaro di luna dopo l'oscurarsi vespertino del sole. - Sí, sono felice come forse non lo sarò mai piú! - proseguí Lucilio - felice nei desiderii, perché i desiderii miei sono pieni di speranza, e la speranza mi invita da lunge come un bel giardino fiorito. Ahimè non cogliete quei fiori! non dispiccateli dal loro gracile stelo! Per cure che ne abbiate poi, dopo tre giorni intristiranno; dopo cinque non sarà piú in loro il bel colore il soave profumo! Alla fine cadranno senza remissione nel sepolcro della memoria! - No, non chiami la memoria un sepolcro! - soggiunse con forza la Clara. - La memoria è un tempio, un altare! Le ossa dei santi che veneriamo sono sotterra, ma le loro virtù splendono in cielo. Il fiore perde la freschezza e il profumo; ma la memoria del fiore ci rimane nell'anima incorruttibile ed odorosa per sempre! - Dio mio, per sempre, per sempre! - sclamò Lucilio correndo colla veemenza degli affetti dove lo chiamava l'opportunità di quegli istanti quasi solenni. - Sí, per sempre! E sia un istante, sia un anno, sia un'eternità, questo sempre bisogna riempirlo satollarlo beatificarlo d'amore per non vivere abbracciati colla morte! Oh sí, Clara, l'amore ricorre all'infinito per ogni via; se v'è parte in noi sublime ed immortale è certamente questa. Fidiamoci a lui per non diventar creta prima del tempo; per non perdere almeno quella poesia istintiva dell'anima che sola abbellisce la vita!... Sí, lo giuro ora; lo giuro, e mi ricorderò sempre di questo rapimento che mi fa maggiore di me stesso. Il desiderio è cosí potente da tramutarsi in fede; l'amor nostro durerà sempre, perché le cose veramente grandi non finiscono mai!... Queste parole pronunciate dal giovine con voce sommessa, ma vibrata e profonda, svegliarono deliziosamente i confusi desiderii di Clara. Non se ne maravigliò punto, perché trovava stampate nel proprio cuore già da lungo tempo le cose udite allora. Gli sguardi, i colloqui, le arti pazienti raffinate di Lucilio aveano preparato nell'anima di lei un posto sicuro a quell'ardente dichiarazione. E sentirsi ripetere dalla sua bocca quello che il cuore aspettava senza saperlo, fu piucché altro il risvegliarsi subitaneo d'una gioia timida e latente. Successe nell'anima di lei quello che sulle lastre del fotografo al versarsi dell'acido; l'immagine nascosta si disegnò in tutte le sue forme: e se stupí in quel momento, fu forse di non potersi stupire. Peraltro un turbamento arcano e non provato mai le vietò di rispondere alle ardenti parole del giovane; e mentre cercava ritrarre la propria mano dalla sua, fu costretta anzi a cercarvi un appoggio perché si sentiva venir meno d'un deliquio di piacere. - Clara, Clara per carità rispondi! - le veniva dicendo Lucilio sorreggendola angosciosamente e volgendo intorno gli occhi a spiare se qualcuno veniva. - Rispondimi una sola parola!... non uccidermi col tuo silenzio, non punirmi collo spettacolo del tuo dolore!.. Perdono se non altro, perdono!... Egli sembrava lí lí per cadere in ginocchio tanto pareva smarrito, ma era un'attitudine studiata forse per dar fretta al tempo. La fanciulla si riebbe in buon punto e gli volse per unica risposta un sorriso. Chi raccolse mai nelle pupille uno di quei sorrisi e non ne tenne poi conto per tutta la vita? Quel sorriso che domanda compassione, che promette felicità, che dice tutto, che perdona tutto; quel sorriso esprimente un'anima che si dona ad un'altra anima; che non ha in sé riverbero alcuno di immagini mondane, ma che splende solo d'amore e per amore; quel sorriso che comprende o meglio dimentica il mondo intero, per vivere e farti vivere di se stesso, e che in un lampo solo schiude affratella e confonde le misteriose profondità di due spiriti in un unico desiderio d'amore e d'eternità, in un unico sentimento di beatitudine e di fede! - Il cielo che si aprisse pieno di visioni divine e d'ineffabili splendori agli occhi d'un santo, non sarebbe certo piú incantevole di quella meteora di felicità che guizza raggiante e ahi spesso fugace nelle sembianze d'una donna. È una meteora; è un baleno; ma in quel baleno, piú che in dieci anni di meditazioni e di studi l'anima travede i confusi orizzonti d'una vita futura. Oh quante volte all'oscurarsi di quelle sembianze s'annuvolò dentro di noi il bel sereno della speranza, e il pensiero precipitò bestemmiando nel gran vuoto del nulla, come Icaro sfortunato cui si fondevano le ali di cera! Quali sùbiti, dolorosi trabalzi dall'etere inane dove nuotano miriadi di spiriti in oceani di luce, al morto e gelido abisso che non vedrà mai raggio di sole, che mai non darà vita per volger di secoli a una larva pensata! E la scienza, erede di cento generazioni, e l'orgoglio, frutto di quattromill'anni di storia, fuggono come schiavi colti in fallo, al tempestar minaccioso d'un sentimento. Che siamo noi, dove andiamo noi, poveri pellegrini fuorviati? Qual è la guida che ci assicura d'un viaggio non infelice? Mille voci ne suonano dintorno; cento mani misteriose accennano a sentieri piú misteriosi ancora; una forza segreta e fatale ci spinge a destra ed a sinistra; l'amore, alato fanciullo c'invita al paradiso; l'amore, demonio beffardo ci stritola nel niente. E solo la fede che il sacrifizio sarà contato a minor danno delle vittime sostenta i nostri pensieri nell'aria vitale. Ma Lucilio?... Oh Lucilio allora non pensava a ciò! I pensieri vengon dietro alle gioie, come la notte al tramonto, come il gelido verno all'autunno canoro e dorato. Egli amava da anni; da anni drizzava ogni suo consiglio, ogni sua arte, ogni sua parola a incalorire nel lontano futuro la beatitudine di quel momento; da anni camminava accorto paziente per vie tortuose e solitarie ma rischiarate qua e là da qualche barlume di speranza; camminava lento e instancabile verso quella cima fiorita, donde contemplava allora e teneva per sue tutte le gioie tutte le delizie tutte le ricchezze del mondo, come il monarca dell'universo. Era giunto a comporre una pietra filosofale; da una laboriosa miscela di sguardi di azioni di parole avea tratto l'oro purissimo della felicità e dell'amore. Alchimista vittorioso assaporava con tutti i sensi dell'anima le delizie del trionfo; artista entusiasta e passionato non finiva d'ammirare e godere l'opera propria in quel divino sorriso che spuntava come l'aurora d'un giorno piú bello sul volto di Clara. Ad altri avrebbero tremato in cuore gratitudine, divozione, e paura; a lui la superbia ritemprò le fibre d'una gioia sfrenata e tirannica. Io forse e mille altri simili a me avremmo ringraziato colle lagrime agli occhi; egli ricompensò l'ubbidienza di Clara con un bacio di fuoco. - Sei mia! sei mia! - le disse alzando la destra di lei verso il cielo. E voleva significare: Ti merito, perché ti ho conquistata! Clara nulla rispose. Senza accorgersene e senza parlare avea amato in fino allora; e il momento in cui l'amore si fa conscio di sé non è quello per lui di diventar loquace. Solamente sentí per la prima volta di essere con tutta l'anima in potere d'un altro; e ciò non fece altro che cambiare il suo sorriso dal color della gioia in quello della speranza. A primo tratto avea goduto per sé; allora godeva per Lucilio, e questo contento fu piú facile e caro a lei perché piú pietoso e pudico. - Clara; - continuò Lucilio - l'ora si fa tarda e ci aspetteranno al castello! La giovinetta si destò come da un sogno; si stropicciò gli occhi colla mano e li sentí bagnati di lagrime. - Volete che andiamo? - rispose ella con una voce soave e dimessa che non pareva la sua. Lucilio senza mover parola si ravviò per la strada; e la fanciulla gli veniva del paro docile e mansueta come l'agnella al fianco della madre. Il giovine per quel giorno non chiedeva di piú. Scoperto il tesoro, voleva goderne lungamente come l'avaro, non disperderlo all'impazzata in guisa dei prodighi per trovarsi poi misero peggio di prima e col sopraccollo delle memorie sfumate. - Mi amerai sempre? - le domandò egli dopo alcuni passi silenziosi. - Sempre! - rispose ella. La cetra d'un angelo non moverà mai un concento piú soave di questa parola pronunciata da quelle labbra. L'amore ha il genio di Paganini; egli infonde nell'armonia le virtù dello spirito. - E quando la tua famiglia ti profferirà uno sposo? - soggiunse con voce dolorosa e stridente Lucilio. - Uno sposo!? - sclamò la giovinetta chinando il mento sul petto. - Sí; - riprese il giovane - vorranno sacrificarti all'ambizione, vorranno comandarti in nome della religione un amore che la religione ti proibirà in nome della natura! - Oh io non veggo che voi! - rispose Clara quasi parlando con se stessa. - Giuralo per quanto hai di piú sacro! giuralo pel tuo Dio e per la vita di tua nonna! - soggiunse Lucilio. - Sí, lo giuro! - disse tranquillamente la Clara. Giurar quello che si sentiva costretta a fare da una forza irresistibile le parve cosa molto semplice e naturale. Allora si cominciavano a vedere fra il chiaroscuro della sera le prime case di Fratta: e Lucilio lasciò la mano della fanciulla per camminarle rispettosamente a fianco. Ma la catena era gittata; le loro due anime erano avvinte per sempre. La pertinacia e la freddezza da un lato, dall'altro la mansuetudine e la pietà s'erano confuse in un incendio d'amore. La volontà di Lucilio e l'abnegazione di Clara corrispondevano insieme, come quegli astri gemelli che s'avvicendano eternamente l'uno intorno all'altro negli spazi del cielo. Due uomini armati s'offersero loro incontro prima di entrar nel villaggio. Lucilio passava oltre avvisandoli per due guardiani campestri che aspettassero alcuno; ma uno di essi gli intimò di fermarsi, dicendo che per quella sera era vietato penetrar nel paese. Il giovine fu offeso e maravigliato d'una cosí strana tracotanza; e cominciò ad adoperare un mezzo che per molta esperienza conosceva infallibile in quegli incontri. Si mise ad alzar la voce e a strapazzarli. Indarno! I due buli lo fermarono pulitamente per le braccia rispondendo che cosí voleva il servizio della Serenissima Signoria, e che nessuno sarebbe entrato in Fratta, finché non fosse ultimata l'inchiesta d'alcuni contrabbandi che si cercavano. - M'immagino che non vorrete proibire l'ingresso in castello alla contessina Clara? - riprese Lucilio sbuffando ed additando la giovinetta, che egli proteggeva tenendosela stretta a braccio. Clara fece un moto come per trattenerlo dall'infuriar troppo; ma egli non le badò piucché tanto, e seguitò a minacciare e a voler proceder oltre. I due buli tornarono allora ad afferrarlo per le braccia, avvertendolo che l'ordine era preciso e che contro i renitenti avevano facoltà di adoperare la forza. - E questa facoltà di adoperare la forza io la ho sempre, e ne uso largamente contro i soperchiatori! - soggiunse con maggior calore Lucilio sciogliendosi con una scrollata dal pugno dei due sgherani. Ma in quella un altro moto di Clara lo avvisò del pericolo e della inopportunità di tali atti di violenza. Laonde si rimise in calma e domandò a quei due chi fossero e con qual autorità vietassero di entrare in castello alla figlia del giurisdicente. Gli scherani risposero che erano delle Cernide di Venchieredo, ma che l'inseguimento dei contrabbandieri li autorizzava ad agire anche fuori della loro giurisdizione; che i bandi dei signori Sindaci parlavano chiaro, e che del resto tale era l'ordine del loro Capo di Cento e che erano là non per altro che per farlo rispettare. Lucilio voleva resistere ancora, ma la Clara lo pregò sommessamente di cessare; ed egli s'accontentò di tornar indietro con lei minacciando i due sgherani e il loro padrone di tutte le ire del Luogotenente e della Serenissima Signoria, che egli ben sapeva quanto poco valessero. - Tacete! già sarebbe inutile - gli veniva bisbigliando all'orecchio la Clara traendolo lunge da quei due sgherri. - Mi dispiace che è notte fatta e a casa saranno inquieti per me; ma con un piccolo giro potremo entrare benissimo dalla parte delle scuderie. In fatti si sviarono per la campagna cercando il sentiero che menava alla pustierla: ma non avean camminato cento passi che trovarono l'intoppo di due altre guardie. - È un vero agguato! - sclamò indispettito Lucilio. - Che una nobile donzella debba serenare tutta notte pel capriccio di alcuni mascalzoni! - Badi alle parole, Illustrissimo! - gridò uno dei due dando per terra un furioso colpo col calcio del moschetto. Il giovine tremava di rabbia palpeggiando coll'una mano in fondo alla tasca la sua fida pistola; ma nell'altra sentiva il braccio di Clara che tremava di spavento ed ebbe il coraggio di trattenersi. - Cerchiamo d'intenderci colle buone - riprese egli fremendo ancora pel dispetto. - Quanto volete a lasciar passare qui la Contessina?... Credo che non sospetterete già ch'ella porti qualche contrabbando! - Illustrissimo, noi non sospettiamo niente: - rispose lo sgherro - ma se anche potessimo chiuder un occhio e lasciarli passare, quei del castello sono di diverso parere. Essi hanno buttato a terra tutti e due i ponti e la Contessina non potrebbe entrare che camminando sull'acqua come san Pietro. - Ohimè! ma dunque il pericolo è proprio grave! - sclamò tramortendo la Clara. - Eh nulla! un timor panico! me lo figuro! - rispose Lucilio. E voltosi ancora allo sgherro: - Dov'è il vostro Capo di Cento? - domandò. - Lustrissimo è all'osteria che beve del migliore mentre noi facciamo la guardia ai pipistrelli - rispose il malandrino. - Va bene: spero che non ci negherete di accompagnarci all'osteria per abboccarci con essolui - soggiunse Lucilio. - Ma! non abbiamo ordini in proposito - ripigliò l'altro. - Tuttavia mi pare che si potrebbe, massime se Vostra Signoria volesse pagarne un bicchiere. - Animo dunque e vieni con noi! - disse Lucilio. Lo sbirro si volse al suo compagno raccomandandogli di stare alla posta e di non addormentarsi: raccomandazioni udite con pochissimo conforto da colui che dovea restarsene a mangiar la nebbia mentre l'altro aveva in prospettiva un boccaletto di Cividino. Tuttavia si rassegnò borbottando; e Lucilio e la Clara preceduti dalla Cernida mossero di bel nuovo verso il paese. Questa volta i due guardiani li lasciarono passare, e in breve furono all'osteria dove strepitava una tal gazzarra che pareva piú un carnovale che una caccia di contrabbandi. Infatti Gaetano, dopo aver inaffiato le gole de' suoi, aveva cominciato a porger il bicchiere ai curiosi. Costoro, un po' selvatici dapprincipio, s'intesero benissimo con lui con quel muto ed espressivo linguaggio. E gli abbeverati chiamavano compagnia, e questa cresceva si rinnovava e beveva sempre piú. Tantoché, mesci e rimesci, in capo ad una mezz'ora la sbirraglia di Venchieredo era diventata una sola famiglia col contadiname del villaggio; e l'oste non rifiniva dal portare a cielo la splendidezza e la rara puntualità del degnissimo Capo di Cento delle Cernide di Venchieredo. Come si può ben credere, tanta munificenza non era né arbitraria né senza motivo. Il padrone gliel'avea suggerita per tener in quiete la popolazione, e distoglierla dal prender partito contro di loro a favore dei castellani. Gaetano adoperava da furbo; e le mire del principale erano ben servite. Se avesse voluto, avrebbe fatto gridare da trecento ubbriachi: - Viva il castellano di Venchieredo! - E Dio sa qual effetto avrebbe prodotto nel castello di Fratta il suono minaccioso di questo grido. Quando Lucilio e la Clara posero piede nell'osteria, la baldoria era al colmo. La giovine castellana avrebbe avuto il crepacuore di veder in festa coi nemici della sua famiglia i piú fidati coloni; ma la non ci badava; e la sorpresa e lo sgomento per tutto quel parapiglia le impedivano dal vederci entro chiaro. Temeva qualche grave pericolo pei suoi e le doleva di non esser con loro a dividerlo, non pensando che se pericolo c'era per essi asserragliati ben bene dietro due pertiche di fossato, piú grave doveva essere per lei difesa da un unico uomo contro quella canaglia sguinzagliata. Lucilio peraltro non era di tal animo da lasciarsi imporre da chicchessia. Egli andò difilato a Gaetano, e gli ordinò con voce discretamente arrogante di far in maniera che la Contessina potesse entrare in castello. La prepotenza del nuovo arrivato e il vino che aveva in corpo fecero che il Capo di Cento la portasse, per modo di dire, ancor piú cimata del solito. Gli rispose che in castello erano una razza perversa di contrabbandieri, che egli aveva precetto di tenerli ben chiusi finché avessero consegnati i colpevoli e le merci trafugate, e che in quanto alla Contessina ci pensasse lui giacché l'aveva a braccio. Lucilio alzò la mano per menare uno schiaffo a quell'impertinente; ma si pentí a mezzo e si torse rabbiosamente i mustacchi col gesto favorito del capitano Sandracca. Il meglio che gli restava a fare era di uscire da quel subbuglio e menare la sua compagna in qualche sicuro ricovero ove passasse la notte. La Clara si oppose dapprima a una tal deliberazione, e volle ad ogni patto giungere fin sul ponte per vedere se veramente era rotto. E Lucilio ve la accompagnò per quanto gli sembrasse pericoloso avventurarsi con una donzella fra quei manigoldi avvinazzati che gavazzavano in piazza. Ma non voleva lo si accagionasse né di aver mancato di coraggio né di aver ommesso cura alcuna per raccompagnare la Clara in casa sua. Però osservate le rovine del ponte e chiamato inutilmente Germano un paio di volte, convenne loro darsi fretta a partire, perché lo schiamazzo cresceva sempre, e la sbirraglia cominciava ad affoltarsi e a provocarli con beffe ed insulti. Lucilio sudava per la fatica durata a moderarsi; ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo la donzella, e in tal pensiero diede giù per una stradicciuola laterale del villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse a gran passi, trascinandosela dietro, sulle praterie dei mulini. Là si fermò per farle prender fiato. Ella sedette stanca e lagrimosa sul margine d'una siepe, e il giovine si curvò sopra di lei a contemplare quelle pallide sembianze sulle quali la luna appena sorta pareva specchiarsi con amore. I negri fabbricati del castello sorgevano rimpetto a loro, e qualche lume traspariva dalle fessure dei balconi per nascondersi tosto come una stella in cielo tempestoso. L'oscuro fogliame dei pioppi stormeggiava lievemente; e il baccano del villaggio, ammorzato dalla distanza, non interrompeva per nulla i trilli amorosi e sonori degli usignoli. I bruchi lucenti scintillavano fra l'erbe; le stelle tremolavano in cielo; la luna giovinetta strisciava sulle forme incerte e tenebrose con raggio obliquo e velato. La modesta natura circondava di tenebre e di silenzi il suo talamo estivo, ma l'immenso suo palpito sollevava di tanto in tanto qualche ventata di un'aria odorosa di fecondità. - Era una di quelle ore in cui l'uomo non pensa, ma sente; cioè riceve i pensieri begli e fatti dall'universo che lo assorbe. Lucilio, anima pensosa e spregiatrice per eccellenza, si sentí piccolo suo malgrado in quella calma cosí profonda e solenne. Perfino la gioia dell'amore si diffuse nel suo cuore in un lungo vaneggiamento melanconico e soave. Gli parve che i suoi sentimenti ingrandissero come la nube di polvere sperperata dal vento; ma le forme scomparivano, il colore si diradava; si sentiva piú grande e meno forte; piú padrone di tutto e meno di sé. Gli sembrò un momento che la Clara seduta dinanzi a lui s'illuminasse negli occhi d'un bagliore fiammeggiante: egli quasi folgorato dovette socchiuder le palpebre. - Donde questo prodigio? - Non lo potea capire egli stesso. Forse la solennità della notte, che stringe le anime deboli di superstiziose paure, ripiega sopra se stesso lo spirito dei forti, mostrandogli, entro il buio delle ombre, il simulacro del destino, del domatore di tutti. Forse anco il dolore della fanciulla regnava sopra di lui com'egli avea trionfato poco prima di lei per forza di volontà. Poveretta! No che gli occhi suoi non fiammeggiavano allora; se almeno lo sguardo non risplendeva pel tremolio delle lagrime. Il suo cuore riboccante una mezz'ora prima di felicità e d'amore volava, in quegli istanti, al letto di sua nonna; in quella cameretta silenziosa e bene assestata dove Lucilio avea passato con esse le lunghe ore; e quando egli non c'era ne restava viva per l'aria una cara memoria, un'immagine invisibile e ammaliatrice. Oh come avrebbe stentato ad addormentarsi la povera vecchia senza il solito bacio della nipote! Chi le avrebbe dato ragione, chi l'avrebbe consolata della sua assenza? Chi avrebbe pensato a lei nei pericoli che si minacciavano al castello per quella notte? La pietà, la divina pietà gonfiava di nuovi singhiozzi il petto della giovane, e la mano che Lucilio le stese per aiutarla a rialzarsi fu inondata di pianto. Ma rimessi che furono in via questi riebbe subito l'alacrità consueta. I sogni disparvero; i pensieri gli sprizzarono in capo risoluti e virili; la volontà piegata un momento rizzossi con miglior lena a ripigliare il comando. La storia dell'amor suo, e quella dell'amore di Clara, i casi straordinari di quella sera, i sentimenti della giovinetta ed i proprii gli si dipinsero dinanzi in un sol quadro senza confusione e senza anacronismi. Egli ne rilevò con un'occhiata da aquila il concetto generale, e decise ad ogni costo che o solo o colla fanciulla egli doveva entrare in castello prima che passasse la notte. L'amore gli imponeva questo dovere; aggiungiamo ancora che l'interesse dell'amore medesimo glielo consigliava caldamente. Clara pregava il Signore e la Madonna, Lucilio stringeva a parlamento tutte le voci del proprio ingegno e del proprio coraggio; e cosí appoggiati l'una al braccio dell'altro, camminavano silenziosamente verso il mulino. Quanta moderazione! diranno taluni pensando al caso di Lucilio. Ma se diranno cosí gli è o ch'io mi sono spiegato male o che essi non mi hanno capito a dovere quando discorreva della sua indole. Lucilio non era né un birbone né uno scavezzacollo; pretendeva soltanto di vederci a fondo nelle cose umane, di volerne il meglio e di saper conseguire questo meglio. Queste tre pretese, se temperate da un sano criterio, egli avrebbe potuto provarle coi fatti; perciò non si lasciava mai trascinare dalle passioni, ma teneva ben salde le redini e sapeva fermarle all'uopo tanto sull'orlo del precipizio quanto sulla sponda lusinghiera e traditrice d'una fondura verdeggiante. Entrarono dunque nel mulino, ma non ci trovarono alcuno benché il fuoco scoppiettasse tuttavia in mezzo alle ceneri. La polenta lasciata sul tagliere dava a vedere che tutti non aveano cenato e che alcuni degli uomini s'erano forse attardati nel villaggio a guardar la tregenda. Ma quella era forse la famiglia con cui la Contessina aveva maggior dimestichezza, onde non le dispiacque di vedersi colà ricoverata. - Ascolta, ben mio - le disse sottovoce Lucilio rattizzando il fuoco per sciuttarla dell'umido preso nei prati. - Io chiamerò ora e ti affiderò a qualcuna di queste donne, e poi o per forza per amore penetrerò in castello a recarvi le tue novelle, e a guardare come stanno là dentro. La Clara arrossí tutta sotto gli sguardi del giovane. Era la prima volta che in una stanza e alla piena del fuoco riceveva nel cuore il loro muto linguaggio d'amore. Arrossí peraltro senza rimorsi perché non le pareva di aver violato nessuno dei comandamenti del Signore; e dal volersi bene alla muta al confessarselo vicendevolmente non capiva qual differenza ci potesse essere. - Tu fa' in modo di coricarti e di riposare; - proseguí Lucilio - io penserò nel frattempo a dar la voce dell'accaduto al Vice-capitano di Portogruaro, perché si affrettino a scompigliare le trame di questi birbanti... Va là! per nulla non sono venuti e a me pare di leggerci sotto bene a tutto questo loro zelo contro i contrabbandi... È una vendetta, o una rappresaglia, fors'anco un tafferuglio ingarbugliato a bella posta per finire quell'imbroglio del processo... Ma io metterò le cose sotto la vera luce, e il Vice-capitano vedrà lui da qual parte stiano i veri interessi della Signoria. Intanto, Clara mia, sta' in pace e dormi sicura; domattina, se non saranno venuti dal castello a prenderti, verrò io stesso; e chi sa anche che non capiti durante la notte se ci son cose pressanti. - Oh ma voi!... non arrischiatevi! per carità! - mormorò la giovinetta. - Sai come sono - rispose Lucilio. - Non potrei far a meno di movermi e di tentar qualche cosa, se anche si trattasse di gente sconosciuta. Figurati poi ora che è in ballo la tua famiglia, la nostra buona vecchia! - Povera nonna! - sclamò la Clara. - Sí, va' va'; e confortala e torna subito a chiamare anche me che starò qui ad aspettare col cuore sospeso. - Ti dico che tu devi coricarti e che chiamerò qualcheduna delle donne - soggiunse Lucilio. - No, lasciale dormire, ché io non potrei - replicò la donzella. - Oh, mi maraviglio con me, e quasi mi vergogno, di poter rimaner qui e di non correre fuori anch'io! - A che fare? - soggiunse Lucilio. - No per carità, non ti muovere da questo luogo. Anzi devi rinchiuderti bene, giacché essi sono tanto sconsigliati da lasciar le porte spalancate fino a mezza notte!... Marianna, Marianna! - si mise a gridare il giovane affacciandosi alla porta della scala. Di lí a poco rispose dall'alto una voce, e poi lo scalpitare di due zoccoli, e non passò un minuto che la Marianna tutta scollata e sbracciata scese in cucina. - Dio mi perdoni! - sclamò ella raccogliendosi la camicia sul petto - credeva che fosse il mio uomo!... È lei, signor dottore?... E anche la Contessina!... Oh diavolo! cos'è stato? Da qual parte son venuti dentro? - Capperi! da quelle quattro braccia di porta spalancata! - rispose Lucilio. - Ma ora non è tempo da ciarle, Marianna: la Contessina non può entrare in castello perché là intorno c'è del subbuglio... - Come, c'è del subbuglio?... Ma i nostri uomini dunque?... Ah birbonacci! Non hanno neppur cenato!... Per andarsene a curiosare hanno lasciato aperte anche tutte le porte... - Ascoltate me ora, Marianna; - riprese Lucilio - i vostri uomini torneranno, ché non corrono nessun pericolo. - Come, non corrono nessun pericolo? Se sapesse il mio in ispecialità come è manesco e arrischiato!... È capace di appiccar briga con un esercito, colui!... - E bene! state certa! per questa sera non l'appiccherà!... Io andrò in cerca di loro e ve li manderò a casa... Ma voi intanto badate che non manchi niente alla Contessina. - Oh povera signora! cosa le deve capitare anche a lei!... Scusi, sa, se mi vede in questo arnese, ma credeva proprio che fosse il mio uomo. Birbone! scappar via senza cena lasciando la porta aperta!... Oh me la pagherà!... Mi comandi dunque, Contessina!... Mi dispiace che qui non troverà nulla da par suo!... - Dunque vi raccomando, Marianna! - disse ancora Lucilio. - Si figuri; non c'è mestieri di raccomandazioni. Mi dispiace di essere cosí scamiciata. Ma già lei, signor dottore, è avvezzo a queste scene, e la Contessina è tanto buona! La Marianna nell'affaccendarsi intorno al fuoco mostrava due bellissime spalle che meglio spiccavano per la loro candidezza dal bruno colore delle braccia e del viso. Non era forse malcontenta di mostrarle e per questo se ne scusava tanto. - Addio!... amami, amami! - mormorò Lucilio all'orecchio della Clara; indi, raccolto uno sguardo di lei tutto amore e speranza, si dileguò fuori dell'uscio nella nebbia della campagna. La Clara non poté fare a meno di seguirlo fino sulla soglia, indi perdutolo di vista, tornò a sedere in cucina, ma non presso al foco perché il caldo era grande e aveva asciutte le vesti piú del bisogno. Invece la sua testa i suoi polsi ardevano come tizzoni, e aveva le labbra e la gola riarse quasi per febbre. La Marianna voleva a tutta forza che la mandasse giù un boccone; ma la non volle a nessun patto, e si accontentò d'un bicchier d'acqua. Indi allungò il braccio sulla spalliera della seggiola e vi poggiò sopra il capo nell'attitudine di chi s'appresta a dormire; e la Marianna allora cercò persuaderla di coricarsi di sopra nel suo letto, che le avrebbe messe le lenzuola di bucato. Vedendo poi che eran parole buttate via, la vistosa mugnaia si tacque, e dati i chiavistelli alla porta sedette essa pure su uno sgabello. - Io voglio che voi andiate a coricarvi - le disse allora la Clara, che, per quanti pensieri per quanti timori avesse per sé, non avrebbe mai commesso una dimenticanza a scapito altrui. - No signora! bisogna che io stia qui per essere pronta ad aprire ai nostri uomini - rispose la Marianna - altrimenti invece di darla mi toccherebbe pigliare una gridata. La Clara tornò allora a reclinar la fronte sul braccio, e stette cosí, come si dice, sognando ad occhi aperti, mentre la Marianna dopo aver dondolato un buon pezzo col capo lo appoggiava sopra una tavola cominciando a fiatare colle tranquille e regolari battute d'una robusta campagnuola che dorme della grossa. Intanto mentre il signor Lucilio con ogni accorgimento per non esser veduto si veniva avvicinando alle fosse posteriori del castello, io mandato fuori esploratore me ne scostava con pari prudenza, volendo girar in maniera da sbucar al villaggio per un altro capo e togliere ogni sospetto di quello che era veramente. Quando ebbi camminato un tiro di schioppo verso le praterie, mi parve discernere nel buio una forma d'uomo che avanzava tra il fogliame delle viti con somma circospezione. Mi acquattai dietro il seminato; e stetti guardando, protetto contro ogni curiosità dalla mia piccolezza e dal frumento che mi stava a ridosso colle sue belle spighe già bionde e pencolanti. Guardo tra spica e spica, tra vite e vite, e in un aperto battuto dalla luna cosa mi par di vedere?... - Il signor Lucilio! - Torno ad osservar ancora; e mi torna a comparire. Mi alzo, me gli avvicino con prudenza sempre dietro il frumento, e pronto ad intanarmivi entro come una lepre al minimo bisogno. Guardo ancora: era proprio lui. Nessuna ventura al mondo potea toccarmi secondo me piú fortunata di questa in simile congiuntura. Il signor Lucilio era il confidente della vecchia Contessa, e della Clara; egli avea dimostrato volermi qualche bene nell'occasione della mia scappata in laguna; nessuno migliore di lui per aiutarmi nelle mie ricerche. E siccome egli avea fama di uomo scienziato, cosí il mio criterio prese da quell'incontro le piú belle lusinghe. Quando me gli trovai presso un dieci passi: - Signor Lucilio! signor Lucilio! - bisbigliai con quella voce sommessa sommessa che sembra voglia farsi tanto lunga quanto si fa sottile. Egli si fermò e stette in ascolto. - Sono il Carlino di Fratta! Sono il Carlino dello spiedo! - io continuai alla stessa maniera. Egli trasse di tasca un certo arnese che conobbi poi essere una pistola e mi si avvicinò guardandomi ben fiso in faccia. Siccome ero coperto dall'ombra del frumento, pareva che stentasse a riconoscermi. - E sí, sí, diavolo! son proprio io! - gli dissi con qualche impazienza. - Zitto, silenzio! - mormorò egli con un filettino di voce. - Qui presso vi ha una guardia e non vorrei che origliasse i nostri discorsi. Intendeva quella guardia ch'era rimasta sola dopoché la compagna s'era messa per guida di Lucilio e della Contessina. Ma la solitudine è alle volte una triste consigliera e la guardia, dopo una valorosa difesa durata per piú di mezz'ora, avea finito col rimaner vinta dal sonno. Perciò Lucilio ed io potevamo parlare in piena sicurezza che nessuno ci avrebbe incommodati. - Accostamiti all'orecchio, e dimmi se esci dal castello, e cosa c'è di nuovo là dentro - mi bisbigliò egli all'orecchio. - C'è di nuovo che hanno una paura da olio santo; - risposi io - che hanno buttato giù i ponti pel timore di essere ammazzati dai buli di Venchieredo, che si è perduta la signora Clara, e che dall'Avemaria ad ora hanno già detto due rosari. Ma adesso hanno mandato fuori me perché fiuti l'aria, e cerchi conto della Contessina, e torni poi a recar loro le novelle. - E cosa penseresti di fare, piccino? - Capperi! cosa penso di fare!... Andare all'osteria fingendo di essermi smarrito come mi è accaduto quell'altra volta, se ne ricorda? quella volta della febbre; e poi ascoltare quello che dicono gli sbirri, e poi domandar della Contessina a qualche contadino, e poi tornare fedelmente per dove sono venuto scavalcando il fosso sopra una tavola. - Sai che sei proprio uno spiritino! Non ti credeva da tanto. Peraltro consolati che la fortuna ti sparagna de' bei fastidi. Io sono stato all'osteria, io ho condotto in salvo al mulino la contessina Clara, e se m'insegni il modo di entrare in castello, potremo portar loro la risposta in compagnia. - Se gli insegnerò il modo? Mi basterà un fischio, e Marchetto ci butterà la tavola. Dopo lasci fare a me, che passerà l'acqua senza bagnarsi, purché abbia l'avvertenza di imitarmi e di star ben in bilico sulla tavola. - Andiamo dunque! E Lucilio mi prese per mano; e rasentando alcune folte siepaie dietro le quali è impossibile affatto l'esser veduti anche di giorno, io lo condussi in un batter d'occhio in riva alla fossa. Lí fischiai com'eravamo d'intesa, e Marchetto fu pronto ad accorrere e a buttarmi la tavola. - Cosí presto? - mi diss'egli dall'altra banda del fosso, perché la maraviglia vinse pel momento ogni altro riguardo. - Zitto! - risposi io mostrando a Lucilio il modo di adagiarsi sulla tavola. - Chi c'è? - soggiunse piú sorpreso ancora il cavallante che cominciava allora a distinguere nel buio due figure in vece di una. - Amici, e zitto! - rispose Lucilio; e poi egli stesso, come pratico del mestiere, diede una spinta che ci menò proprio a baciare pulitamente l'altra riva. - Son io, son io! - diss'egli saltando a terra - e porto buone notizie della contessina Clara!... - Davvero? Sia lodato il Cielo! - soggiunse Marchetto sgomberandogli la strada per aiutar me a ritirare la tavola dall'acqua. Quando s'entrò in cucina aveano finito allora allora di recitare il rosario; il fuoco era spento, ché del resto non avrebbero potuto reggere in quel luogo colla caldana della state; nessuno pensava alla cena e solamente monsignor Orlando gettava di tanto in tanto sulla cuoca qualche occhiata irrequieta. Anche Martino s'era messo taciturno e imperterrito a grattare il suo formaggio; ma tutti gli altri avevano tali facce da far onore ad un funerale. La comparsa di Lucilio fu un raggio di sole in mezzo ad un temporale. Un - Oh! - di maraviglia, d'ansietà, e di piacere gli risonò intorno in coro, e poi tutti si fermarono a guardarlo senza domandargli nulla, quasi dubitassero s'ei fosse un corpo, o un fantasma. Toccò dunque a lui aprir la bocca pel primo; e le parole di Mosè quando tornava dal monte non furono ascoltate con maggior attenzione delle sue. Martino avea intermesso anch'egli di grattare, ma non arrivando a capir nulla dei discorsi che si facevano, finí coll'impadronirsi di me e farsi contar a cenni una parte della storia. - Prima di tutto ho buone notizie della contessina Clara - diceva intanto il signor Lucilio. - Ella era uscita nei campi verso Fossalta incontro alla signora Contessa come costuma; e impedita di rientrare in castello dai bravacci che lo guardavano da tutte le parti, io stesso ebbi l'onore di menarla in salvo nel mulino della prateria. Quei bravacci che attorniavano il castello d'ogni lato guastarono assai la buona impressione che dovea esser prodotta dalle notizie della Clara. Tutti sorrisero colle labbra al colombo della buona nuova, ma negli occhi lo sgomento durava peggio che mai e non sorrideva per nulla. - Ma dunque siam proprio assediati come se fossero Turchi coloro! - sclamò la Contessa giungendo disperatamente le mani. - Si consoli che l'assedio non è poi tanto rigoroso se io ho potuto penetrare fin qui; - soggiunse Lucilio - gli è vero che il merito è tutto del Carlino, e che se non lo avessi incontrato lui, difficilmente avrei potuto orientarmi cosí presto e farmi gettar la tavola da Marchetto. Gli occhi della brigata si volsero allora tutti verso di me con qualche segno di rispetto. Alla fine capivano che io era buono ad altro che a girare l'arrosto, ed io godetti dignitosamente di quel piccolo trionfo. - Sei anche stato all'osteria? - mi chiese il fattore. - Vi dirà tutto il signor Lucilio - risposi modestamente. - Egli ne sa piú di me perché ha avuto che fare, credo, con quei signori. - Ah! e cosa dicono? pensano d'andarsene? - domandò ansiosamente il Conte. - Pensano di rimanere; - rispose Lucilio - per ora almeno non c'è speranza che levino il campo, e bisognerà ricorrere al Vice-capitano di Portogruaro per deciderli a metter la coda fra le gambe. Monsignor Orlando mandò un'altra e piú espressiva occhiata alla cuoca; il canonico di Sant'Andrea si accomodò il collare con un leggero sbadiglio: in ambidue i reverendi i bisogni del corpo cominciavano a gridar piú forte delle afflizioni dello spirito. Se questo è segno di coraggio, essi furono in quella circostanza i cuori piú animosi del castello. - Ma cosa ne dice lei? cos'è il suo parere in questa urgenza? - chiese con non minor ansietà di prima il signor Conte. - Dei pareri non ce n'è che uno - soggiunse Lucilio. - Son ben munite le mura? sono sprangate le porte e le finestre? ci sono moschetti e spingarde alle feritoie? V'ha per questa notte gente sufficiente per vegliare alla difesa? - A voi, a voi, Capitano! - strillò la Contessa invelenita pel contegno poco sicuro dello schiavone. - Rispondete dunque al signor Lucilio! Avete disposto le cose in maniera che si possa credersi al sicuro? - Cioè; - barbugliò il Capitano - io non ho che quattro uomini compresi Marchetto e Germano; ma i moschetti e le spingarde sono all'ordine; e ho anche distribuito la polvere... In difetto poi di palle, ho messo in opera la mia munizione da caccia. - Benissimo! credete che quei manigoldi siano passerotti! - gridò il Conte. - Freschi staremo a difendercene coi pallini! - Via, per cinque o sei ore anche i pallini basteranno; - riprese Lucilio - e quando loro signorie sappiano tener a freno quegli assassini fino a giorno, io credo che le milizie del Vice-capitano avranno campo di intervenire. - Fino a giorno! come si fa a difenderci fino a giorno, se quei temerari si mettono in capo di darci l'assalto!? - urlò il Conte strappandosi a ciocche la perrucca. - Ne uccideremo uno, agli altri il sangue andrà alla testa, e saremo tutti fritti prima che il signor Vice-capitano pensi a mettersi le ciabatte! - Non veda, no, le cose tanto scure; - replicò Lucilio - castigatone uno, creda a me che gli altri faranno giudizio. Non ci si perde mai a mostrar i denti; e giacché il signor capitano Sandracca non sembra del suo umor solito, io solo voglio incaricarmene; e dichiaro e guarentisco che io solo basterò a difendere il castello, e a mettere in iscompiglio al menomo atto tutti quei spaccamonti di fuori! - Bravo signor Lucilio! Ci salvi lei! Siamo nelle sue mani! - sclamò la Contessa. Infatti il giovane parlava con tal sicurezza che a tutti si rimise un po' di fiato in corpo; la vita tornò a muoversi in quelle figure, sbalordite dallo spavento, e la cuoca s'avviò alla credenza con gran conforto di Monsignore. Lucilio si fece raccontar brevemente l'andamento di tutto l'affare; giudicò con miglior fondamento che fosse una gherminella del castellano di Venchieredo per tagliar a mezzo il processo con un colpo di mano sulla cancelleria, e per primo atto della sua autorità fece trasportare in un salotto interno le carte e i protocolli di quella faccenda. Esaminò poi diligentemente le fosse le porte e le finestre; appostò Marchetto con Germano dietro la saracinesca; il fattore lo mise alla vedetta dalla parte della scuderia; altre due Cernide che erano il nerbo della guarnigione le dispose alle feritoie che guardavano il ponte; distribuí le cariche e comandò che irremissibilmente fosse ammazzato chi primo osasse tentare il valico della fossa. Il capitano Sandracca stava sempre alle calcagna del giovine mentre egli attendeva a questi provvedimenti; ma non aveva coraggio di fare il brutto muso, anzi gli facevano mestieri i cenni gli urtoni e gli incoraggiamenti della moglie per non accusare il mal di ventre e ritirarsi in granaio. - Cosa le pare, Capitano? - gli disse Lucilio con un ghignetto alquanto beffardo. - Avrebbe fatto anche lei quello che ho fatto io?... - Sissignore... lo aveva già fatto; - balbettò il Capitano - ma mi sento lo stomaco... - Poveretto! - lo interruppe la signora Veronica. - Egli ha faticato fin adesso; ed è suo merito se i manigoldi non son già penetrati in castello. Ma non è piú tanto giovane, la fatica è fatica, e le forze non corrispondono alla buona volontà! - Ho bisogno di riposo - mormorò il Capitano. - Sí, sí, riposi con suo comodo; - soggiunse Lucilio - il suo zelo lo ha provato bastevolmente; e ormai può mettersi sotto la piega colla coscienza tranquilla. Il veterano di Candia non se lo fece dire due volte; infilò la scala volando come un angelo, e per quanto la moglie gli stesse a' panni gridando di guardarsi bene e di non precipitarsi! in quattro salti fu nella sua stanza ben inchiavata e puntellata. Quel dover passare vicino alle feritoie gli avea dato il capogiro; e gli parve di stare assai meglio fra la coltre e il materasso. Ai pericoli futuri Dio avrebbe provveduto; egli temeva piú di tutto i presenti. La signora Veronica poi si sfogava, rimproverandogli sommessamente la sua dappocaggine; ed egli rispondeva che non era il suo mestiero quello di affrontare i ladri, ma che se si fosse trattato di vera guerra guerreggiata lo avrebbero veduto al suo posto. - Giovinastri, giovinastri! - sclamò il valentuomo stirandosi le gambe. - La trinciano da eroi perché hanno l'imprudenza di sfidar una palla facendo capolino dai merli. Eh, mio Dio, ci vuol altro!... Veronica, non uscir mica di camera sai!... Io voglio difenderti come il piú gran tesoro che abbia! - Grazie, - rispose la donna - ma perché non vi siete svestito? - Svestirmi! vorresti che mi svestissi con quella giuggiola di tempesta che abbiamo alle spalle!... Veronica, sta' sempre vicina a me... Chi vorrà offenderti dovrà prima calpestare il mio cadavere. Costei si gettò anch'essa, vestita com'era, sul letto; e da coraggiosa donna avrebbe anche pigliato sonno, se il marito ad ogni mosca che volava non fosse sobbalzato tant'alto, domandandole se aveva udito nulla, ed esortandola a confidare in lui, e a non allontanarsi dal suo legittimo difensore. Intanto da basso una discreta cena improvvisata con ova e bragiuole avea calmato gli spasimi dei due monsignori, e rimessili con tutta l'anima alla paura, s'interrogavan l'un l'altro sul numero e sulla qualità degli assalitori: eran cento, eran trecento, eran mille; tutti capi da galera, il miglior de' quali era fuggito al capestro per indulgenza del boia. Se gridavan al contrabbando, si era per trovar pretesto ad un saccheggio; a udirli urlare e cantare sulla piazza dovevan esser ubbriachi fradici, dunque non bisognava aspettarsi da essoloro né ragionevolezza né remissione. Il resto della compagnia faceva tanto d'occhi a questi ragionamenti; e peggio poi quando alcuna delle scolte veniva a riferire di qualche romore udito, di qualche movimento osservato nelle vicinanze del castello. Lucilio, dopo fatta una visita alla vecchia Contessa e aver coonestato anche lui con una panchiana l'assenza della Clara, era tornato a confortare quei poveri diavoli. Scrisse allora e fece firmare dal Conte una lunga e pressantissima lettera al Vice-capitano di Portogruaro, e domandò licenza alla compagnia d'andar egli stesso in persona a portarla. Misericordia! non lo avesse mai detto! La Contessa gli si gettò quasi ginocchione dinanzi; il Conte lo abbrancò pel vestito cosí furiosamente che gliene strappò quasi una falda; i canonici, la cuoca, le guattere, i servitori lo attorniarono d'ogni lato come ad impedirgli d'uscire. E tutti con occhiate con gesti con monosillabi o con parole s'ingegnavano di fargli capire che partir lui era lo stesso che volerli privare dell'ultima lusinga di salute. Lucilio pensò a Clara, e pur decise di rimanere. Tuttavia si richiedeva alcuno che s'incaricasse della lettera, e di nuovo gettarono gli occhi sopra di me. Giovandomi della confusione generale, io era sempre stato nella camera della Pisana sopportando i suoi rimbrotti per la fazione extra muros di cui io l'aveva defraudata. Ma appena mi chiamarono ebbi l'accortezza e la fortuna di farmi trovar sulla scala. M'empirono il capo d'istruzioni e di raccomandazioni, mi cucirono nella giacchetta il piego, mi imbarcarono sulla solita tavola, ed eccomi per la seconda volta impegnato in una missione diplomatica. Sonavano allora per l'appunto le dieci ore di notte, e la luna mi dava negli occhi con poca modestia; due cose che mi davano qualche fastidio, la prima per le streghe e le stregherie raccontatemi da Marchetto, la seconda per la facilità che ne proveniva di poter essere osservato. Con tutto ciò ebbi la fortuna di giungere sano e salvo sui prati. Tremava un pocolino dapprincipio; ma mi rassicurai strada faccendo, e nell'entrar al mulino, come volevano le mie istruzioni, assunsi una cert'aria d'importanza che mi fece onore. Rassicurai la contessina Clara e risposi con garbo a tutte le sue interrogazioni; indi detto alla Marianna che l'andasse a svegliare il maggiore de' suoi figliuoli, approfittai della sua assenza per istracciare la fodera della giacchetta; e cavatane la lettera la riposi come nulla fosse in saccoccia. Sandro era un garzoncello maggiore di me di due anni e che dimostrava un ingegno ed un coraggio non comuni; perciò il fattore m'aveva raccomandato di addrizzarmi a lui per mandar quella scritta a Portogruaro. Egli si tolse l'incarico senza neppur pensarci sopra; si buttò la giubba sulle spalle, mise la lettera nel petto, e uscí fuori zufolando come andasse ad abbeverare i buoi. La strada ch'ei dovea tenere verso Portogruaro si allontanava sempre piú da Fratta e non v'avea pericolo che fosse sorpreso e intercettato. Perciò io stava senza alcun timore, beato beatissimo di veder uscire a buon fine tutte le commissioni affidatemi, e piene le orecchie degli elogi che mi avrebbero suonato intorno nella cucina del castello. Benché mi avesse raccomandato il signor Lucilio di far compagnia alla signora Clara fino al ritorno del messo, il terreno mi bruciava sotto di rimettermi in moto; quell'andare e venire, quel mistero, quei pericoli avean dato l'abbrivo alla mia immaginazione infantile, e non potea stare senza qualche gran impresa per le mani. Mi saltò allora in capo di rientrare nel castello a darvi contezza di quella parte dell'incarico che aveva già avuto effetto; salvo sempre di rinnovare la sortita per saper la risposta del Vice-capitano di giustizia. La Clara, udita questa mia intenzione, domandò risolutamente se mi bastava l'animo di far passare la fossa anche a lei. Il mio piccolo cuore palpitò piú di superbia che d'incertezza, e risposi col volto fiammeggiante e col braccio teso che mi sarei annegato io, piuttostoché far bagnare a lei la falda della veste. La Marianna tentò attraversare con molte ragioni di prudenza questo disegno della padroncina; ma essa avea conficcato proprio il chiodo, ed io poi era cosí contento di ribadirlo che mi tardava l'ora di trovarmi con lei all'aperta. Detto fatto, lasciata la mugnaia colla sua prudenza, noi uscimmo sui prati, e di là in breve fummo senza guaio alle fosse. Il solito fischio la solita tavola; e la traversata successe a dovere come le altre volte. La Contessina gongolava tanto di fare quell'improvvisata, che il passar l'acqua a quel modo le fu quasi piacevole e rideva come una ragazzina nell'inginocchiarsi su quell'ordigno. Le feste le maraviglie la consolazione di tutta la famiglia sarebbero lunghe a ridirsi: ma il primo pensiero di Clara fu di chieder conto della nonna; o se non fu il primo pensiero, fu certo la prima parola. Lucilio le rispose che la buona vecchia, persuasa della fandonia che le avean dato a bere sul conto di lei, erasi addormentata in pace, e bene stava di non risvegliarla. Allora la giovinetta sedette cogli altri in tinello; ma mentre tutti origliavano dalle fessure delle finestre i rumori che venivano dal villaggio, ella parlava muta muta cogli occhi di Lucilio e lo ringraziava per tutto quanto egli aveva adoperato a loro vantaggio. Infatti era una voce sola che ascriveva al signor Lucilio tutto quel po' di sicurezza e di speranza, che risollevava le anime degli abitatori del castello dalla prima abiezione. Lui era stato a consolarli con qualche buon argomento, lui a munire provvisoriamente il castello contro un colpo di mano, lui a concepire quella sublime pensata del ricorso al Vice-capitano. Lí tornava in campo io. Mi si chiese conto della lettera e di chi se n'era incaricato; e tutti giubilarono di sapere che di lí a un paio d'ore io sarei tornato al mulino per recare la risposta di Portogruaro. Ognuno mi fece mille carezze, io era portato in palma di mano. Monsignore mi perdonava la mia ignoranza in punto al Confiteor, ed il fattore si pentiva di avermi posposto ad un menarrosto. Il Conte mi volgeva gli occhi dolci e la Contessa poi non finiva mai di accarezzarmi la nuca. Giustizia tarda e meritata. Mentre la brigata si sbracciava a farmi la corte, crebbe il romore di fuori improvvisamente, e Marchetto, il cavallante, col fucile in mano e gli occhi sbarrati si precipitò nel tinello. Che è che non è? - Fu un alzarsi improvviso, un gridare, un domandare, un rovesciarsi di seggiole, e di candelieri. - C'era che quattro uomini per un condotto d'acqua rimasto asciutto erano sbucati dietro la torre; che erano saltati addosso a lui e a Germano; che costui con due coltellate nel fianco doveva essere a mal partito, e che egli avea fatto appena tempo di scappare serrandosi dietro le porte. A queste notizie lo strillare, e il rimescolarsi crebbe di tre tanti; nessuno sapeva cosa si facesse; parevano quaglie insaccate allo scuro in un canestro che danno del capo qua e là alla rinfusa senza cognizione e senza scopo. Lucilio si sfiatava a raccomandare la quiete, e il coraggio; ma era un parlare ai sordi. La sola Clara lo udiva e cercava aiutarlo col persuadere la Contessa a farsi animo e a sperare in Dio. - Dio, Dio! è proprio tempo di ricorrere a Dio!... - sclamava la signora - chiamateci il confessore!... Monsignore, lei pensi a raccomandarci l'anima. Il canonico di Sant'Andrea, cui erano rivolte queste parole, non aveva piú anima per sé - figuratevi se avea intenzione o possibilità di raccomandare quella degli altri! In quel momento s'udí lo scoppio di molte schioppettate, e insieme grida e romori e minaccie di gente che sembrava azzuffarsi nella torre. Lo scompiglio non conobbe piú limiti. Le donne di cucina capitarono da un lato, le cameriere la Pisana i servi dall'altro; il Capitano entrò piú morto che vivo sostenuto dalla moglie, e gridando che tutto era perduto. S'udivano di fuori le strida e le preghiere delle famiglie di Fulgenzio e del fattore che chiedevano esser ricoverate nella casa padronale come in luogo piú sicuro. In tinello era un affacciarsi confuso e precipitoso di volti sorpresi e sparuti, un gesteggiare di preghiere e di segni di croce, un piangere di donne, un bestemmiare di uomini, un esorcizzare di monsignori. Il Conte avea perduto la sua ombra che avea stimato opportuno di ficcarsi piú ancora all'ombra sotto il tappeto della tavola. La Contessa quasi svenuta guizzava come un'anguilla, la Clara s'ingegnava di confortarla come poteva meglio. Io per me aveva presa tra le braccia la Pisana, ben deciso a lasciarmi squartare prima di cederla a chichessia: il solo Lucilio avea la testa a segno in quel parapiglia. Domandò a Marchetto, ed ai servi, se tutte le porte fossero serrate; indi chiese al cavallante se avesse veduto le due Cernide prima di scappare dalla torre. Il cavallante non le aveva vedute; ma ad ogni modo non bastavano due soli uomini a menar tutto quel gran romore che si udiva di fuori; e Lucilio giudicò tosto che qualche nuovo accidente fosse intervenuto. Avesse già avuto effetto il ricorso al Vice-capitano? - Pareva troppo presto; tanto piú che la soverchia premura non era il difetto delle milizie d'allora. Certo peraltro qualche soccorso era capitato; se pure gli assalitori non erano tanto ubbriachi da favorirsi le archibugiate fra di loro. In quella, alle querele delle donne di Fulgenzio e del fattore successe contro le finestre un tambussare di uomini, e un gridar che si aprisse e che si stesse quieti, perché tutto era finito. Il Conte e la Contessa non s'acquietavano per nulla, credendo che fosse uno stratagemma immaginato per entrar in casa a tradimento. Tutti si stringevano angosciamente intorno a Lucilio aspettando consiglio e salute da lui solo; la contessina Clara s'era messa alla porta della scala deliberata a correre dalla nonna non appena il pericolo si facesse imminente. I suoi occhi rispondevano valorosamente agli sguardi del giovane; che badasse egli pure agli altri, poiché per lei si sentiva forte e sicura contro ogni evento. Io teneva la Pisana piucchemai stretta fra le braccia, ma la fanciulletta mossa all'emulazione dal mio coraggio gridava che la lasciassi, e che si sarebbe difesa da sé. L'orgoglio poteva tanto sull'immaginazione di lei che le pareva di bastare contro un esercito. Frattanto il signor Lucilio accostatosi ad una finestra avea domandato chi fossero coloro che bussavano. - Amici, amici! di San Mauro e di Lugugnana! - risposero molte voci. - Aprite! Sono il Partistagno! I malandrini furono snidati! - soggiunse un'altra voce ben nota che sciolse si può dire il respiro a tutta quella gente trepidante tra la paura e la speranza. Un grido di consolazione fece tremare i vetri ed i muri del tinello e se tutti fossero diventati pazzi ad un punto non avrebbero dato in piú strane e grottesche dimostrazioni di gioia. Mi ricorda e mi ricorderà sempre del signor Conte, il quale al fausto suono di quella voce amica si mise le mani alla tempia, ne sollevò la perrucca, e stette con questa sollevata verso il cielo, come offrendola in voto per la grazia ricevuta. Io ne risi, ne risi tanto, che buon per me che la grandezza del contento stornasse dalla mia persona l'attenzione generale! - Finalmente le porte furono aperte, le finestre spalancate; s'accesero fanali, lucerne, lampioni, e candelabri; e al festivo splendore d'una piena illuminazione, fra il suono delle canzoni trionfali, dei Te Deum e delle piú divote giaculatorie, il Partistagno invase coll'armata liberatrice tutto il pianterreno del castello. Gli abbracciari le lagrime i ringraziamenti le meraviglie furono senza fine; la Contessa, dimenticando ogni riguardo, era saltata al collo del giovine vincitore, il Conte, monsignor Orlando, e il canonico di Sant'Andrea vollero imitarla; la Clara lo ringraziò con vera effusione d'aver risparmiato alla sua famiglia chi sa quante ore di spavento e d'incertezza, e fors'anco qualche disgrazia meno immaginaria. Il solo Lucilio non si congiunse al giubilo e all'ammirazione comune; forse lo scioglimento non gli quadrava, e l'avrebbe voluto derivare dovunque fuorché dalla parte per la quale era venuto. Tuttavia era troppo giusto ed accorto per non mascherare questi propositati sentimenti d'invidia; e fu egli il primo che richiese il Partistagno del modo e della fortuna che l'aveva menato a quella buona opera. Il Partistagno raccontò allora com'egli fosse venuto quella sera per la solita visita al castello, ma un po' piú tardi del consueto pel riparo di alcune arginature che l'ebbe trattenuto a San Mauro. Gli sgherri di Venchieredo gli avevano proibito d'entrare, ed egli avea fatto un gran gridare contro quella soperchieria, ma non ne avea cavato nulla; e alla fine vedendo che le chiacchiere non contavano un fico, ed accorgendosi che quel gridare al contrabbando era una copertina a Dio sa quali diavolerie, s'era proposto di partire e tornar alla carica con ben altri argomenti che le parole. - Perché io non sono un prepotente di mestiere; - soggiunse il Partistagno - ma all'uopo anch'io posso qualche cosa e so farmi valere. - E ciò dicendo mostrava tesi i muscoli dei polsi, e faceva digrignare certi denti acuti e sottili che somigliavano quelli del leone. Infatti l'era tornato di galoppo a San Mauro, e là, raccoltivi alcuni suoi fidati, nonché molte Cernide di Lugugnana che vi stavano ancora a lavoro sopra l'argine, s'era ravviato verso Fratta. Eravi giunto proprio nel momento che la torre veniva occupata per sorpresa da quattro bravacci; ond'egli, sgominato prima assai facilmente gli ubbriachi che armeggiavano sulla piazza e nell'osteria, si mise a guadar la fossa con parecchi de' suoi. Con qualche fatica guadagnarono l'altra riva senzaché coloro che aveano occupato la torre si dessero cura di ributtarli, intesi com'erano a scassinar gangheri e serrature per penetrare nell'archivio. E poi dopo qualche schioppettata, scambiatasi cosí tra il chiaroscuro piú per braveria che per bisogno, i quattro malandrini erano venuti nelle sue mani; e li teneva guardati nella stessa torre ove s'erano introdotti con sí sfacciata sceleraggine. Fra questi era il capobanda Gaetano. Quanto poi al portinaio del castello l'era già morto quando le Cernide di Lugugnana s'erano accorte di lui. - Povero Germano! - sclamò il cavallante. - E che non ci sia proprio piú pericolo? che tutti siano partiti? che non ci si rifacciano addosso per la rivincita? - chiese il signor Conte al quale non pareva vero che un tanto temporale si fosse squagliato per aria senza qualche grande fracasso di fulmini. - I capi sono bene ammanettati e saranno savi come bambini fino al momento che li regoli meglio il boia; - rispose il Partistagno - quanto agli altri scommetto che non si sovvengono piú di qual odor sappia l'aria di Fratta, e che lor non cale niente affatto di fiutarla ancora. - Dio sia lodato! - sclamò la Contessa - signor Barone di Partistagno, noi tutti e le cose nostre ci facciamo roba sua in riconoscenza dell'immenso servigio che ci ha prestato. - Ella è il piú gran guerriero dei secoli moderni! - gridò il Capitano asciugandosi sulla fronte il sudore che vi avea lasciato la paura. - Pare peraltro che anche lei avesse pensato ad una buona difesa - rispose il Partistagno. - Finestre e porte erano cosí tappate che non ci sarebbe passata una formica. Il Capitano ammutolí, s'avvicinò col fianco alla tavola per non far vedere ch'egli era senza spada e della mano accennò a Lucilio, come per riferir a lui tutto il merito di tali precauzioni. - Ah è stato il signor Lucilio!? - sclamò Partistagno con un lieve sapore d'ironia. - Bisogna confessare che non si poteva usare maggior prudenza. Il panegirico della prudenza in bocca di chi avea vinto coll'audacia somigliava troppo ad un motteggio perché Lucilio non se ne accorgesse. L'anima sua dovette sollevarsi ben alto per rispondere con un modesto inchino a quelle ambigue parole. Il Partistagno, che credeva di averlo subissato o poco meno, si volse per vedere sulla fisonomia della Clara l'effetto di quel nuovo trionfo sul piccolo e infelice rivale. Si maravigliò alquanto di non vederla, perocché la fanciulla era già corsa di sopra ad usciolare dietro la porta della nonna. Ma la buona vecchia dormiva saporitamente, protetta contro le archibugiate da un principio di sordità; ed ella tornò indi a poco in tinello, contentissima della sua esplorazione. Il Partistagno la adocchiò allora gustosamente, e n'ebbe un'occhiata di pura benevolenza che lo confermò viemmeglio nella sua compassione pel povero dottorino di Fratta. In mezzo a ciò gli piovevano d'ogni lato domande sopra questo e sopra quello; e sul numero dei malandrini, e sul modo da lui adoperato nel passar la fossa, e come sempre avviene dopo il pericolo, tutti godevano d'immaginarlo grandissimo e di ricordarne le emozioni. Lo stato d'animo di chi è o si crede sfuggito ad un rischio mortale somiglia a quello di chi ha ricevuto risposta favorevole ad una dichiarazione d'amore. L'istessa giocondità, l'istessa loquacia, l'istessa prodigalità di ogni cosa che gli venga domandata, l'istessa leggerezza di corpo e di mente; e per dirla meglio, tutte le grandi gioie si somigliano nei loro effetti, a differenza dei grandi dolori che hanno una scala di manifestazioni molto variata. Le anime hanno un centinaio di sensi per sentir il male, ed uno solo pel bene; e la natura rileva alcun poco dell'indole di Guerrazzi che ha maggior immaginativa per le miserie che pei pregi della vita. Il primo cui venne in mente che ai nuovi arrivati potesse abbisognare qualche rinfresco, fu monsignor Orlando; io penso sempre che lo stomaco piú ancora della riconoscenza lo facesse accorto di tale bisogno. Dicono che l'allegria è il piú attivo dei succhi gastrici, ma Monsignore avea digerito la cena durante la paura; e l'allegria non avea fatto altro che stimolare vieppiù il suo appetito. Due ova e mezza bragiuola! Ci voleva altro per farlo tacere, l'appetito d'un monsignore!... Subito si misero all'opera; e si fece man bassa sui porcellini di Fulgenzio. Il timore d'un lungo assedio era svanito; la cuoca lavorava per tre; le guattere e i servi avevano quattro braccia per uno; il fuoco sembrava disporsi a cuocere ogni cosa in un minuto; Martino lagrimando per la morte di Germano, comunicatagli allora allora dal cavallante, grattava in tre colpi mezza libbra di formaggio. Io e la Pisana facevamo gazzarra contenti e beati di vederci dimenticati nel tripudio universale; per noi avremmo desiderato ogni mese un assalto al castello per goderne poi un simile carnovale. Ma la memoria del povero Germano s'intrometteva sovente ad abbuiare la mia contentezza. Era la prima volta che la morte mi passava vicina dopo che era venuto in età di ragione. La Pisana mi svagava col suo chiacchierio, e mi rampognava del mio umore ineguale. Ma io le rispondeva: - E Germano? - La piccina allungava il broncio; ma poco stante tornava a ciarlare, a dimandarmi contezza delle mie spedizioni notturne, a persuadermi che ella avrebbe fatto anche meglio, e a congratularsi meco che la cuoca si fosse degnata di porre in opera il menarrosto senza ficcar me a far le sue veci. Io mi svagava del mio dolore in questi colloqui; e la superbietta di essere stimato qualche cosa mi teneva troppo occupato di me e della mia importanza per permettermi di pensar troppo al morto. Era già passata la mezzanotte di qualche mezz'ora quando la cena fu in pronto. Non si badò a distinzione di quarti o di persone. In cucina in tinello in sala nella dispensa ognuno mangiò e bevve, come e dove voleva. Le famiglie del fattore e di Fulgenzio furono convitate al banchetto trionfale; e soltanto fra un boccone ed un brindisi la morte di Germano e la sparizione del sagrista e del Cappellano richiamarono qualche sospiro. Ma i morti non si movono e i vivi si trovano. Di fatti il pretucolo e Fulgenzio capitarono non molto dopo, cosí pallidi e sformati che parevano essere stati rinchiusi fin allora in un cassone di farina. Uno scoppio di applausi salutò il loro ingresso, e poi furono invitati a contare la loro storia. La era in verità molto semplice. Ambidue, dicevano, senza farsi motto l'uno dell'altro, al primo giungere dei nemici erano corsi a Portogruaro per implorar soccorso; e di là infatti capitavano col vero soccorso di Pisa. - Che? sono lí fuori i signori soldati? - sclamò il signor Conte che non si era ancora accorto di aver perduto la perrucca. - Fateli entrare!... Su dunque, fateli entrare! I signori soldati erano sei di numero compreso un caporale, ma in punto a stomaco valevano un reggimento. Essi giunsero opportuni a spazzar i piatti degli ultimi rimasugli dei porcellini arrostiti e a ravvivar l'allegria che cominciava già a maturarsi in sonno. Ma poi ch'essi furono satolli e il canonico di Sant'Andrea ebbe recitato un Oremus in rendimento di grazie al Signore del pericolo da cui eravamo scampati, si pensò sul serio a coricarsi. Allora, chi chiappa chiappa, uno qua ed uno là, ognuno trovò il proprio covo, la gente di rilievo nella foresteria, gli altri chi nella frateria, chi nelle rimesse, chi sul fienile. Il giorno dopo soldati, Cernide e sbirri ebbero per ordine del signor Conte una grossa mancia; e ognuno tornò a casa sua dopo aver ascoltato tre messe, in nessuna delle quali io fui seccato perché recitassi il Confiteor. Cosí si tornò dopo quella furia di burrasca alla solita vita; il signor Conte per altro aveva raccomandato che portassimo il trionfo con fronte modesta perché non gli garbava per nulla di andar incontro ad altre rappresaglie. Con simili disposizioni d'animo vi figurerete che il processo instituito sulle rivelazioni di Germano non andò innanzi con molta premura; e neppure pareva che vi avesse volontà di castigare davvero quei quattro sgherani che erano rimasti prigioni di guerra del Partistagno. Il Venchieredo, fatto accortamente palpare a loro riguardo, rispose che egli veramente li avea mandati sull'orme di alcuni contrabbandieri che si dicevano rifugiati nelle vicinanze di Fratta, che se poi le sue istruzioni erano state da loro oltrepassate in modo punibile criminalmente, ciò non riguardava lui ma la cancelleria di Fratta. Il Cancelliere del resto non mostrava gran volontà di veder a fondo nelle cose, e sfuggiva di condurre i detenuti a pericolose confessioni. L'esempio di Germano parlava troppo chiaro; e l'accorto curiale era uomo da pigliar le cose di volo. Lasciava dunque dormire il processo principale, e in quell'altra inquisizione dell'assalto dato alla torre era felicissimo di aver provato la perfetta ubbriachezza dei quattro imputati. Cosí sperava lavarsene le mani, e che la polvere dell'obblio si sarebbe accumulata provvidenzialmente su quei malaugurati protocolli. Le cose tentennavano in questo modo da circa un mese, quando una sera due cappuccini chiesero ospitalità nel castello di Fratta. Fulgenzio che conosceva tutte le barbe cappuccinesche della provincia non affigurò per nulla quelle due; ma avendo essi dichiarato che venivano dall'Illirio, circostanza provata vera dall'accento, furono accolti cortesemente. Fossero poi venuti dal mondo della luna, nessuno avrebbe arrischiato di respingere due cappuccini colla magra scusa che non si conoscevano. Essi si scusarono colla santa umiltà dall'entrare in tinello, ove c'era in quella sera piena conversazione; ed edificarono invece la servitù con certe loro santocchierie e certi racconti della Dalmazia e di Turchia ch'erano le consuete parabole dei frati di quelle parti. Indi domandarono licenza d'andare a coricarsi; e Martino li guidò e li introdusse nella stanza della frateria che era divisa dal mio covacciolo con un semplice assito e nella quale io li vidi entrare per una fessura di questa. Il castello poco dopo taceva tutto nella quiete del sonno; ma io vegliava alla mia fessura perché i due cappuccini avevano certe cose addosso da stuzzicar propriamente la curiosità. Appena entrati nella stanza si assicurarono essi con due buone spanne di catenaccio; indi li vidi trarre di sotto alla tonaca arnesi, mi parevano, da manovale, ed anche due solidi coltellacci, e due buone paia di pistole, che non son solite a portarsi da frati. Io non fiatava per lo spavento, ma la curiosità di sapere cosa volessero dire quegli apparecchi mi faceva durare alla vedetta. Allora uno di loro cominciò con uno scalpello a smovere le pietre del muro dirimpetto che s'addossava alla torre; e un colpo dopo l'altro cosí alla sordina fu fatto un bel buco. - La muraglia è profonda - osservò sommessamente quell'altro. - Tre braccia e un quarto; - soggiunse quello che lavorava - ne avremo il bisogno per due ore e mezzo prima di poterci passare. - Ma se qualcuno ci scopre in questo frattempo! - Sí eh?... peggio per lui!... sei mila ducati comprano bene un paio di coltellate. - Ma se non possiamo poi svignarcela perché si svegli il portinaio? - E cosa sogni mai?... Gli è un ragazzaccio, il figliuolo di Fulgenzio!... Lo spaventeremo e ci darà le chiavi per farci uscire comodamente, altrimenti... "Povero Noni!" pensai io al vedere il gesto minaccioso con cui il sicario interruppe il lavoro. Quella bragia coperta di Noni non mi era mai andato a sangue, massime per lo spionaggio ch'egli esercitava malignamente a danno mio e della Pisana; ma in quel momento dimenticai la sua cattiveria, com'anche avrei dimenticato la chietineria invidiosa e maligna di suo fratello Menichetto. La compassione fece tacere ogni altro sentimento; d'altronde la minaccia toccava anche me, se avessero sospettato che li osservava pei fori dell'assito; e avvezzo già alle spedizioni avventurose sperai anche in quella notte di darmi a divedere un personaggio di proposito. Apersi pian pianino l'uscio del mio buco, e penetrai a tentone nella camera di Martino. Non volendo né arrischiando parlare, spalancai le finestre in modo che entrasse un po' di luce perché la notte era chiarissima: indi mi avvicinai al letto, e presi a destarlo. Egli saltava su di soprassalto gridando chi era, e cosa fosse, ma io gli chiusi la bocca colla mano e gli feci cenno di tacere. Fortuna che egli mi conobbe subito; laonde cosí a cenni lo persuasi di seguirmi e condottolo fin giù sul pianerottolo della scala gli diedi contezza della cosa. Il povero Martino faceva occhi grandi come lanterne. - Bisogna destare Marchetto, il signor Conte, e il Cancelliere - diss'egli pieno di sgomento. - No, basterà Marchetto; - osservai io con molto giudizio - gli altri farebbero confusione. Infatti si destò il cavallante il quale entrò nel mio disegno che bisognava far le cose alla muta senza baccani e senza molta gente. Il foro dietro cui lavoravano i cappuccini dava nell'archivio della cancelleria, che era una cameraccia scura al terzo piano della torre, piena di carte di sorci e di polvere. Il meglio era appostar colà due uomini fidati e robusti che abbrancassero uno per uno i due frati mano a mano che passavano e li imbavagliassero e li legassero a dovere. E cosí si fece. I due uomini furono lo stesso Marchetto e suo cognato che stava in castello per ortolano. Essi penetrarono pian piano nell'archivio adoperando la chiave del Conte che restava sempre nelle tasche delle sue brache in anticamera; e stettero lí uno a destra ed uno a sinistra del luogo ove si sentivano sordi i colpi dei due scalpelli. Dopo mezz'ora penetrò nell'archivio un raggio di luce, e i due uomini fermi al loro posto. Per ogni buon conto s'erano armati di mannaie e di pistole, ma speravano di farne senza perché i signori frati lavoravano sicuri e privi di qualunque timore. - Io passo col braccio - mormorò uno di questi. - Ancora due colpi e il difficile è fatto - rispose l'altro. Con poco lavoro s'allargò il buco siffattamente, che vi potea passare con qualche stento una persona; e allora uno dei due frati, quello che sembrava il caporione, allungò la testa indi un braccio indi l'altro e strisciando innanzi colle mani sul pavimento dell'archivio s'ingegnava di tirarsi addietro le gambe. Ma quando meno se lo aspettava sentí una forza amica aiutarlo a ciò, e nel tempo stesso un pugno vigoroso gli afferrò il mento, e sbarrategli le mascelle gli cacciò in bocca un certo arnese che gli impediva quasi di respirare nonché di gridare. Una buona attortigliata ai polsi e una pistola alla gola fornirono l'opera e persuasero colui a non moversi dal muro cui lo avevano addossato. Il frate compagno parve un po' inquieto del silenzio che successe al passaggio del suo principale; ma poi si rassicurò credendo che non fiatasse per paura di farsi udire, e fece animo egli pure di sporger la testa dal buco. Costui fu trattato con minor precauzione del primo. Appena impadronitosi della testa, Marchetto la tirò tanto che quasi gliel'avrebbe cavata se lo stesso paziente non avesse smosso colle spalle alcune pietre della muraglia. Imbavagliato e legato anche questo, lo si frugò ben bene unitamente al compagno; si tolsero loro le armi e furono condotti in un luoguccio umido, appartato, e ben riparato dall'aria dov'ebbero posto cadauno in una celletta come due veri frati. Li lasciarono cosí in preda alle loro meditazioni per destar la famiglia e propalare la gran novella. Figuratevi qual maraviglia, che batticuore, che consolazione! Era certo che anche quel nuovo tiro veniva dalla parte di Venchieredo. Laonde si decise di serbare piucché fosse possibile il segreto finché si desse notizia dell'accaduto al Vice-capitano di Portogruaro. Fulgenzio fu incaricato di ciò. La missione ebbe effetto cosí pieno che il castellano aspettava ancora il ritorno dei due frati, quando una compagnia di Schiavoni attorniò il castello di Venchieredo, s'impadroní della persona del signor giurisdicente, e lo trasse legato in tutta regola a Portogruaro. Certamente Fulgenzio avea trovato argomenti molto decisivi per indurre la prudenza del Vice-capitano a una sí forte e subitanea risoluzione. Il prigioniero pallido di bile e di paura si mordeva le labbra per esser caduto da sciocco in una trappola, e con tardiva avvedutezza pensava indarno ai bei feudi che possedeva oltre l'Isonzo. Le carceri di Portogruaro erano molto solide e la fretta della sua cattura troppo significante perché si lusingasse di poterla scapolare. Gli abitanti di Fratta dal canto loro furono alleggeriti d'un gran peso: e tutti si scatenarono allora contro la temerità di quel prepotente; e piccoli e grandi si facevano belli di quel colpo di mano come se il merito fosse appunto loro e non del caso. Un ordine venuto qualche giorno dopo di consegnare i quattro imputati d'invasione a mano armata, nonché i due finti cappuccini e le carte del processo di Germano ad un messo del Serenissimo Consiglio dei Dieci mise il colmo alla gioia del Conte e del Cancelliere. Essi respirarono di aver nette le mani di quella pece, e fecero cantare un "Te Deum " per motivi moventi l'animo loro quando dopo due mesi si venne a sapere di sottovento che i sei malandrini eran condannati alle galere in vita, e il castellano di Venchieredo a dieci anni di reclusione nella fortezza di Rocca d'Anfo sul Bresciano come reo convinto di alto tradimento e di cospirazione con potentati esteri a danno della Repubblica. Le lettere deposte da Germano erano appunto parte d'una corrispondenza clandestina, tenuta in addietro dal Venchieredo con alcuni feudatari goriziani, nella quale si parlava d'indurre Maria Teresa ad appropriarsi il Friuli veneto assicurandole il favore la cooperazione della nobiltà terrazzana. Rimasta in potere di Germano parte di questa corrispondenza per le difficoltà di porto e di recapito spesse volte incontrate, egli si era schivato dal restituirla accusando di aver distrutto quelle carte per paura di chi lo inseguiva o per altra urgente cagione. Cosí pensava egli apparecchiarsi una buona difesa contro il padrone nel caso che questi, come usava, avesse cercato sbarazzarsi di lui; e il destino volle che quanto egli aveva preparato per difendersi valesse invece ad offendere un uomo prepotente ed iniquo. Dopo il processo criminale del Venchieredo s'agitò in Foro civile la causa di fellonia. Ma fosse accorgimento del Governo di non toccar troppo sul vivo la nobiltà friulana, o valentia degli avvocati, o bontà dei giudici, fu deciso che la giurisdizione del castello di Venchieredo continuerebbe ad esercitarsi in nome del figliuolo minorenne del condannato, il quale era alunno nel collegio dei padri Scolopi a Venezia. In una parola la sentenza di fellonia pronunciata contro il padre si giudicò non dovesse recar effetto a pregiudizio del figlio. Allora fu che, tolto di mezzo Gaetano e ogni altro impiccio, Leopardo Provedoni ottenne finalmente in isposa la Doretta. Il signor Antonio se ne dovette accontentare; come anche di vedere lo Spaccafumo in onta ai bandi e alle sentenze assistere e far grande onore al pranzo di nozze. Gli sposi furono stimati i piú belli che si fossero mai veduti nel territorio da cinquant'anni in poi; e i mortaretti che si spararono in loro onore nessuno si prese la briga di contarli. La Doretta entrò trionfalmente in casa Provedoni: e i vagheggini di Cordovado ebbero una bellezza di piú da occhieggiare durante la messa delle domeniche. Se la forza erculea e la severità del marito sgomentiva i loro omaggi, li incoraggiava invece continuamente la civetteria della moglie. E tutti sanno che in tali faccende son piú ascoltate le lusinghe che le paure. Il cancelliere di Venchieredo, rimasto padrone quasi assoluto in castello durante la minorennità del giovane giurisdicente, rifletteva parte del suo splendore sopra la figlia: e certo nei giorni di sagra ella preferiva il braccio del padre a quello del marito, massime quando andava a pompeggiare nelle festive radunanze intorno alla fontana. Anche la mia sorte in quel frattempo s'era cambiata di molto. Non era ancora in istato di pigliar moglie, ma aveva dodici anni sonati, e la scoperta dei finti cappuccini mi avea cresciuto assai nell'opinione della gente. La Contessa non mi aspreggiava piú, e qualche volta sembrava vicina a ricordarsi della nostra parentela benché si ravvedesse tosto da quegli slanci di tenerezza. Però non si oppose al marito quando egli si mise in capo di avviarmi alla professione curiale, aggiungendomi intanto come scrivano al signor Cancelliere. Finalmente ebbi la mia posata alla tavola comune, proprio vicino alla Pisana, perché le strettezze della famiglia, che continuavano con una pessima amministrazione, aveano fatto smettere l'idea del convento anche riguardo alla piccina. Io seguitava a taroccare a giocare e a martoriarmi con lei; ma già la mia importanza mi compensava degli smacchi che ancor mi toccava sopportare. Quando poteva passarle dinanzi recitando la mia lezione di latino, che doveva ripetere al Piovano la dimane, mi sembrava di esserle in qualche cosa superiore. Povero latinista! come la sapeva corta!... CAPITOLO SESTO Nel quale si legge un parallelo fra la Rivoluzione francese e la tranquillità patriarcale della giurisdizione di Fratta. Gli Eccellentissimi Frumier si ricoverano a Portogruaro. Crescono la mia importanza, la mia gelosia, la mia sapienza di latino, sicché mi mettono per graffiacarte in cancelleria. Ma la comparsa a Portogruaro del dotto padre Pendola e del brillante Raimondo di Venchieredo mi mette in maggior pensiero. Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l'uno uguale all'altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell'umanità resteranno come i segni d'uno de' suoi principali rivolgimenti. Nessuno crede ora che la Rivoluzione francese sia stata la pazzia d'un sol popolo. La Musa imparziale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà, che dopo avere lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile. Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un'idea. Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina all'esperimento: fu essa chiamata il capo dell'umanità, e non ne è che la mano; mano ardita, destreggiatrice, che sovente distrusse l'opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne matura piú saldo il disegno. A Venezia come in ogni altro stato d'Europa cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia piú vasta dei negozi civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s'accorgevano del legame dei doveri. Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall'altro. Ma a Venezia meno che altrove gli animi eran disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord capitatovi in quel torno ebbe a dire d'averci trovato non uno stato ma una famiglia. Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica; le differenze di età e d'esperienza che inducono l'obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d'altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora, giunge il momento che i figlioli cresciuti di forza di ragione e d'età hanno diritto d'uscir di tutela: quella famiglia, nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il piú santo dei diritti umani, la libertà. Venezia era una famiglia cosifatta. L'aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell'ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sé al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro. Ma chi non conosce queste isole fortunate, sorrise dal cielo, accarezzate dal mare, dove perfino la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull'acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto piú delizioso della vita. Cosí nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnovali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare. Al 18 febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua morte non si pubblicò fino al dí secondo di marzo, perché il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa. Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre. Viva e muoia a suo grado purché non turbi l'allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto; cotali erano i sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con piú sicurezza. Con l'uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di marzo Lodovico Manin: si affrettarono forse, perché le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima. L'ultimo doge salí il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata. Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sí marcia inettitudine, non avea mancato chi, prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii. Fors'anco i rimedi proposti non furono né opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perché altri pensasse a farmaci migliori. Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d'una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l'infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità piú pericolose dove manca perfin la vita del dolore. Non molti anni prima l'Avogadore di Comune, Angelo Querini, avea sofferto due volte la prigionia d'ordine del Consiglio dei Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali con cui si accaparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio. La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l'indipendenza di una autorità semi-tribunizia, e tanto il valore e l'affetto consentitole; nessuno s'accorse o tutti finsero non s'accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di imitarlo. Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza. Nel 1779 a tanto era scaduta l'amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva. Primo Carlo Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu cosí stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessari cambiamenti. Si nota in quelle discussioni che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell'ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s'era concentrato nella Signoria e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine. Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l'eseguire: in ogni occasione si ricordava non aver questa che un'autorità demandata. I partigiani dell'oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugi per tirar la cosa in lungo. La Signoria fingeva di piegarsi all'obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l'esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque correttori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito. Il Renier parlò a lungo delle monarchie d'Europa, fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità. "Io stesso", aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano "io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii piú volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi. Se v'ha Stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo." Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere piú cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l'inerzia, e il silenzio. Gli era un dire: "Se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso". Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un'ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessari negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perché i posteri compiangessero l'impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri. Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del Doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani. Quando poi sopito quel momentaneo fermento gli Inquisitori di Stato vennero alle vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per dieci anni il Pisani nel castello di Verona, mandarono il Contarini a morir esule alle Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita voce di biasimo o di pietà. Fu veduto, esempio unico nella storia, un magistrato di giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica avea giudicato utile, opportuno, decoroso. E questo sopportare senza risentirsi lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell'esiglio e nelle carceri coloro ai quali avea commesso l'esecuzione dei proprii decreti. Cotale era l'ordinamento politico, tale la pazienza del popolo veneziano. In verità, piuttostoché vivere a questo modo, o per accidente, come diceva il Serenissimo Doge, sarebbe stata opera piú civile, prudente insieme e generosa, l'arrischiar di morire in qualunque altra maniera. Di questo passo si toccò finalmente il giorno nel quale la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che colla debole voce di alcuni oratori casalinghi. Il dí medesimo che fu decretata a Parigi la convocazione degli Stati generali, il 14 luglio 1788, l'ambasciatore Antonio Cappello ne significò al Doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere, e i modi piú opportuni da governarla. Ma gli Eccellentissimi Savi gettarono il dispaccio nella filza delle comunicazioni non lette; né il Senato ne ebbe contezza. Bensí gli Inquisitori di Stato raddoppiarono di vigilanza; e cominciò allora un tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni, di bandi che senza diminuire il pericolo ne faceva accorgere l'imminenza, e manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio. Il conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d'Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti. Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l'Adda e l'Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile. Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro. Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti governanti avevano in cuore l'indifferenza della disperazione. In tali condizioni molti vi furono che piú accorti degli altri si cavarono d'impiccio, partendo da Venezia. E cosí rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti. L'Eccellentissimo Almorò Frumier, cognato del Conte di Fratta, possedeva moltissime terre, e una casa magnifica a Portogruaro. Egli era fra quelli che senza vederci chiaro in quel subbuglio ne fiutavano da lontano il cattivo odore, e avevano pochissima volontà di scottarsene le mani. Perciò d'accordo con la moglie, che non rivedeva malvolentieri i paesi dove la sua famiglia godeva privilegi quasi sovrani, si trapiantò egli a Portogruaro nell'autunno del 1788. La salute della gentildonna che per ristabilirsi avea bisogno dell'aria nativa serví di pretesto all'andata; giunti una volta, s'erano ben proposti di non rimetter piede a Venezia finché l'ultima nuvoletta del temporale non fosse svanita. Due figliuoli che il nobiluomo aveva, tutelavano abbondevolmente in Venezia gli interessi e il decoro della casa; quanto a lui l'ossequio degli illustrissimi provinciali e di tutta una città lo compensava ad usura del pericoloso onore di perorare in Senato. Con gran corredo di casse, di cassoni, di poltrone, e di suppellettili, i due maturi sposini s'erano imbarcati in una corriera; e sofferto angosciosamente il lungo martirio della noia e delle zanzare, in cinquanta ore di tragitto per paludi e canali erano sbarcati sul Lemene alla loro villeggiatura. Cosí i Veneziani costumavano chiamare ogni lor casa di terraferma, fosse a Milano o a Parigi nonché a Portogruaro. Il fiume bagnava appunto il margine del loro giardino; e colà appena giunti ebbero la consolazione di trovar raccolto quanto di meglio aveva la città in ogni ordine di persone. Il Vescovo, monsignor di Sant'Andrea, e molti altri canonici, e preti e professori del Seminario, il Vice-capitano con sua moglie, e altri dignitari del Governo; il Podestà e tutti i magistrati del Comune, il Soprintendente dei dazi, il Custode della Dogana colle loro rispettive consorti, sorelle e cognate; da ultimo la nobiltà in frotta; e in cinquemila abitanti che sommava la terra, ve n'era tanta, da potersene fornire tutte le città della Svizzera che per disgrazia ne mancano. Da Fratta era venuto il Conte con la signora Contessa e le figlie, il fratello monsignore e l'indivisibile Cancelliere. Io poi, che nel frattempo avea dato di me grandi speranze con rapidissimi progressi nel latino, aveva ottenuto la grazia segnalata di potermi arrampicare in coda alla carrozza; e cosí da un cantone, inosservato, mi fu concesso di godere lo spettacolo di quel solenne ricevimento. Il nobile patrizio si diportò colla proverbiale affabilità dei Veneziani. Dal Vescovo all'ortolano nessuno fu fraudato del favore d'un suo sorriso; al primo baciò l'anello, al secondo diede uno scappellotto coll'uguale modestia. Si volse poi per raccomandare i barcaiuoli che nello scaricare la mobilia si usassero particolari riguardi alla sua poltrona; ed entrò in casa dando il braccio alla cognata, mentre sua moglie lo seguiva accompagnata dal fratello. Serviti i rinfreschi nella gran sala di cui il vecchio patrizio lamentò i terrazzi troppo freschi, si venne ai soliti riconoscimenti, ai soliti dialoghi. Belle e ben cresciute le figliuole, la cognata ringiovanita, il cognato fresco come una rosa, il viaggio lungo caldo fastidioso, la città piú fiorente che mai, carissima degnissima la società, gentile l'accoglimento; a queste cerimonie bisognò una buona ora. Dopo la quale le visite si accomiatarono; e rimasero in famiglia a dir molto bene di sé, e qualche piccolo male di coloro che erano partiti. Anche in questo peraltro si adoperavano l'innocenza e la discrezione veneziana che s'accontenta di tagliar i panni senza radere le carni fino all'osso. Verso l'Avemaria quelli di Fratta tolsero congedo; ben intesi che le visite si sarebbero replicate molto sovente. Il nobiluomo Frumier aveva estremo bisogno di compagnia; e diciamolo, anche l'illustrissimo Conte di Fratta non era poco superbo di esser parente e mostrarsi famigliare ed intrinseco d'un senatore. Le due cognate si baciarono colla punta delle labbra; i cognati si strinser la mano; le donzelle fecero due belle reverenze; e Monsignore e il Cancelliere si scappellarono fino alla predella della carrozza. Essi vi furono insaccati dentro alla bell'e meglio; io mi nicchiai al mio solito posto; e poi quattro cavalli di schiena ebbero un bel che fare a trascinar sul ciottolato il pesante convoglio. L'Eccellentissimo Senatore rientrò in sala abbastanza soddisfatto del suo primo ingresso nella villeggiatura. Portogruaro non era l'ultima fra quelle piccole città di terraferma nelle quali il tipo della Serenissima Dominante era copiato e ricalcato con ogni possibile fedeltà. Le case, grandi spaziose col triplice finestrone nel mezzo, s'allineavano ai due lati delle contrade, in maniera che soltanto l'acqua mancava per completare la somiglianza con Venezia. Un caffè ogni due usci, davanti a questo la solita tenda, e sotto dintorno a molti tavolini un discreto numero d'oziosi; leoni alati a bizzeffe sopra tutti gli edifici pubblici; donnicciuole e barcaiuoli in perpetuo cicaleccio per le calli e presso ai fruttivendoli; belle fanciulle al balcone dietro a gabbie di canarini o vasi di garofani e di basilico; su e giù per la podesteria e per la piazza toghe nere d'avvocati, lunghe code di nodari, e riveritissime zimarre di patrizi; quattro Schiavoni in mostra dinanzi le carceri; nel canale del Lemene puzzo d'acqua salsa, bestemmiar di paroni, e continuo rimescolarsi di burchi, d'ancore e di gomene; scampanio perpetuo delle chiese, e gran pompa di funzioni e di salmodie; madonnine di stucco con fiori festoni e festoncini ad ogni cantone; mamme bigotte inginocchiate col rosario; bionde figliuole occupate cogli amorosi dietro le porte; abati cogli occhi nelle fibbie delle scarpe e il tabarrino raccolto pudicamente sul ventre: nulla nulla insomma mancava a render somigliante al quadro la miniatura. Perfino i tre stendardi di San Marco avevano colà nella piazza il loro riscontro: un'antenna tinta di rosso, dalla quale sventolava nei giorni solenni il vessillo della Repubblica. Ne volete di piú?... I veneziani di Portogruaro erano riesciti collo studio di molti secoli a disimparare il barbaro e bastardo friulano che si usa tutto all'intorno, e ormai parlavano il veneziano con maggior caricatura dei veneziani stessi. Niente anzi li crucciava piú della dipendenza da Udine che durava a testificare l'antica loro parentela col Friuli. Erano come il cialtrone nobilitato che abborre lo spago e la lesina perché gli ricordano il padre calzolaio. Ma purtroppo la storia fu scritta una volta, e non si può cancellarla. I cittadini di Portogruaro se ne vendicavano col prepararne una ben diversa pel futuro, e nel loro frasario di nuovo conio l'epiteto di friulano equivaleva a quelli di rozzo, villano, spilorcio e pidocchioso. Una volta usciti dalle porte della città (le avean costruite strette strette come se stessero in aspettativa delle gondole e non delle carrozze e dei carri di fieno) essi somigliavano pesci fuori d'acqua, e veneziani fuori di Venezia. Fingevano di non conoscere il frumento dal grano turco, benché tutti i giorni di mercato avessero piene di mostre le saccoccie; e si fermavano a guardar gli alberi come i cani novelli, e si maravigliavano della polvere delle strade, quantunque sovente le loro scarpe accusassero una diuturna dimestichezza con essolei. Parlando coi campagnuoli per poco non dicevano: - voi altri di terraferma! - Infatti Portogruaro era nella loro immaginativa una specie di isola ipotetica, costruita ad immagine della Serenissima Dominante non già in grembo al mare, ma in mezzo a quattro fossaccie d'acqua verdastra e fangosa. Che non fosse poi terraferma lo significavano alla lor maniera le molte muraglie e i campanili e le facciate delle case che pencolavano. Credo che per ciò appunto ponessero cura a piantarle sopra deboli fondamenti. Ma quelle che erano proprio veneziane di tre cotte erano le signore. Le mode della capitale venivano imitate ed esagerate con la massima ricercatezza. Se a San Marco i toupé si alzavano di due oncie, a Portogruaro crescevano un paio di piani; i guardinfanti vi si gonfiavano tanto, che un crocchio di dame diventava un vero allagamento di merletti di seta e di guarnizioni. Le collane, i braccialetti, gli spilloni, le catenelle innondavano tutta la persona; non voglio guarentire che le gemme venissero né da Golconda né dal Perù, ma cavavano gli occhi e bastava. Del resto quelle signore si alzavano a mezzodí, impiegavano quattro ore alla teletta, e nel dopopranzo si facevano delle visite. Siccome a Venezia le gran conversazioni erano di teatri, d'opere buffe e di tenori, esse si tenevano obbligate a discorrere di questi stessi argomenti; cosí il teatro di Portogruaro, che stava aperto un mese ogni due anni, godeva il raro privilegio di far parlare di sé un centinaio di bocche gentili per tutti i ventitré mesi intermedi. Esaurita questa materia si calunniavano a vicenda con un'ostinazione veramente eroica. Ognuna, ci s'intende, aveva il suo cicisbeo, e cercava di rubarlo alle altre. Taluna portava questa moda tant'oltre che ne aveva due e perfino tre; con diritti variamente distribuiti. Chi porgeva la ventola, chi l'occhialetto, il fazzoletto, o la scatola; uno aveva la felicità di scortar la dama a messa, l'altro di condurla al passeggio. Ma di quest'ultimo divertimento erano di stile molto parche; non potendo godere le divine mollezze della gondola, e facendole raccapricciare la sola vista del barbaro movimento della carrozza, si vedevano costrette di uscir a piedi, fatica insopportabile a piedini veneziani. Qualche villanzone del contado, qualche zotico castellano del Friuli osava dire che l'era un'ultima edizione della favola della volpe e dell'uva non matura, e che già di carrozza, anche a volerla con tutte le forze dell'anima, non ne avrebbero potuto beccare. Io non saprei a chi dar ragione; ma la gran ragione del sesso mi decide a favore di quelle signore. Infatti ora vi sono a Portogruaro molte carrozze; e sí che gli scrigni nostri non godono una gran fama appetto a quelli dei nostri bisnonni. Gli è vero che a que' tempi una carrozza era cosa proprio da re; quando capitava quella dei Conti di Fratta era un carnovale per tutta la ragazzaglia della città. La sera, quando non s'andava a teatro, il giuoco produceva la notte ad ora tardissima; anche in ciò si correva dietro alla moda di Venezia, e se questa passione non distruggeva le casate come nella capitale, il merito apparteneva alla prudente liberalità dei mariti. Sui tappeti verdi invece dei zecchini correvano i soldi; ma questo era un segreto municipale; nessuno lo avrebbe tradito per oro al mondo, e i forestieri all'udir ricordare le vicende, i batticuori, e i trionfi della sera prima potevano benissimo credere che si avesse giocato la fortuna di una famiglia per ogni partita e non già una petizza da venti soldi. Soltanto presso la moglie del Correggitore si passava questo limite per giungere fino al mezzo ducato; ma l'invidia si vendicava di questa fortuna coll'accusar quella dama di avidità e perfino di trufferia. Alcune veneziane maritate a Portogruaro o accasatevi cogli sposi per ragioni d'uffizio, facevano causa comune colle signore del luogo contro il primato della signora Correggitrice. Ma costei aveva la fortuna di esser bella, di saper mover la lingua da vera veneziana, e di dardeggiare le occhiate piú lusinghiere che potessero desiderarsi. I giovani le si affollavano intorno in chiesa, al caffè, in conversazione; ed io non saprei dire se gli omaggi di questi le fossero piú graditi dell'invidia delle rivali. La moglie del Podestà, che gesticolava sempre colle sue manine bianche e profilate, pretendeva che le mani di lei fossero proprio da guattera; la sorella del Soprintendente asseriva che l'aveva un occhio piú alto dell'altro; e ciò dicendo allargava certi occhioni celesti che volevano essere i piú belli della città e non rimanevano che i piú grandi. Ognuno notava nell'emula comune brutte e difettose quelle parti che in sé credeva perfette: ma la bella calunniata, quando la cameriera le riportava queste gelose mormorazioni, si sorrideva nello specchio. Aveva due labbra cosí rosee, trentadue denti cosí piccioletti candidi e bene aggiustati, due guancie cosí rotonde e vezzeggiate da due fossettine tanto amorose, che solo col sorriso pigliava la rivincita di quelle accuse. Potete figurarvi che la nobildonna Frumier appena arrivata ebbe subito intorno una gran ressa di queste leziose. Come donna era dessa in vero d'età piú che matura; come veneziana aveva dimenticato la fede di nascita, e nelle maniere nelle occhiate nell'acconciatura ostentava la perpetua gioventù che è il singolar privilegio delle sue concittadine. Di veneziane, come dissi, ne viveva a Portogruaro un buon numero; ma tutte appartenenti o al ceto mezzano o alla minuta nobiltà. Una gran dama, una gentildonna di gran levatura esercitata in tutti gli usi in tutti i raffinamenti della conversazione, mancava in fino allora. Perciò furono beate di possederne alla fine un esemplare; di poterlo contemplare, idoleggiare, e copiare a loro grado; di poter dire infine: - Guardate! io parlo, io rido, io vesto, io cammino come la senatoressa Frumier. - Costei, furba come il diavolo, si prese grande spasso da tali disposizioni. Una sera chiacchierava piú di una gazza; e il giorno dopo aveva il divertimento di veder quelle signore giocar tra loro a chi dicesse piú parole in un minuto. Ogni crocchio si cambiava in un vero passeraio. Un'altra volta faceva la languida la patita: non parlava che a voce sommessa e a singulti; tosto le ciarliere diventavano mutole; e pigliavano il contegno d'altrettante puerpere. Un giorno ella scommise con un gentiluomo venuto da Venezia di far metter in capo alle principali di quelle dame penne di cappone. Infatti ella si mostrò in pubblico con questo bizzarro adornamento sul toupé, e il giorno stesso la podestaressa spiumò tutto un pollaio per ornarsi la testa a quel modo. Però fu essa tanto clemente verso i capponi della città da non insistere in quella moda; altrimenti in capo a tre giorni non ve ne sarebbe rimasto uno col vestimento che mamma natura gli diede. La conversazione della gentildonna Frumier eclissò di colpo e attirò a sé tutte le altre. Queste non restarono che premesse o corollari di quella. Vi si preparavano i bei motti, le occhiatine ed i gesti per la gran comparsa; o vi si ripeteva quello che la sera prima avevano detto e fatto in casa Frumier. Aggiungiamo che in questa casa il caffè vi si sorseggiava assai migliore che nelle altre, e che di tanto in tanto qualche bottiglia di maraschino, e qualche torta delle monache di San Vito variavano i divertimenti della brigata. Anche il nobiluomo dal canto suo aveva trovato pane pe' suoi denti. Senza mostrarsi in pratica diverso da' suoi nonni, egli era intinto accademicamente della filosofia moderna: e sapeva citare all'uopo col suo largo accento veneziano qualche frase di Voltaire e di Diderot. Tra i curiali e nel clero della città non mancavano spiriti curiosi ed educati come il suo, che dividevano scrupolosamente la dottrina dalla realtà, e cosí conversando non temevano di porre in questione ed anco di negare quello che, se occorreva poi per ragion di mestiero, avrebbero professato certo e indubitabile. Si sa come erano larghe le consuetudini del secolo scorso su questo capitolo; a Venezia eran piú larghe che altrove; a Portogruaro larghissime fuori d'ogni misura, perché anche gli uomini come le donne non si accontentavano di seguir soltanto l'esempio della capitale, ma andavano oltre coraggiosamente. Per citarne uno, monsignor di Sant'Andrea, il piú sillogistico teologo del Capitolo, una volta uscito dalla Curia e seduto a ragionare in confidenza coi pari suoi, non si vergognava di ritorcer la punta a molti de' proprii sillogismi. E fra gli abatini piú giovani ve n'avea taluno che in fatto di opinioni arrischiate si lasciava forse addietro tutti i medici della città. I medici, fra parentesi, non erano nemmeno allora in gran voce di spiritualisti. Peraltro, fra i lavoranti della vigna del Signore, v'era un partito rozzo incorruttibile tradizionale che si opponeva colla pesante forza dell'inerzia all'invasione di questo scetticismo elegante ciarliero e un po' anche scapestrato. Infatti se qualche vecchio sacerdote di manica larga pegli altri, serbava nella propria vita la semplicità e l'integrezza dei costumi sacerdotali, era proprio un caso raro; in generale vecchi o giovani chi sdrucciolava nell'anarchia filosofica non dava grandi esempi né di pietà, né di castità, né delle altre virtù comandate specialmente al clero. Un cotale rilassamento delle discipline canoniche e l'indifferenza dogmatica che lo cagionava non potevano garbare ai veri preti; dico a coloro che avevano studiato con cieca fiducia la Somma di san Tommaso, ed erano usciti di seminario colla ferma persuasione della verità immutabile della fede, e della santità del proprio ministero. Costoro, meno proprii per la loro rigidezza di coscienza e per l'austerità delle maniere al consorzio della gente signorile e ai destreggiamenti morali della città, si adattavano mirabilmente al patriarcale governo delle cure campagnuole. La montagna è il solito semenzaio del clero forese e questo partito ch'io chiamerei tradizionale si afforzava e si rinnovava massimamente nelle frequenti vocazioni della gioventù di Clausedo, che è un grosso paese alpestre della diocesi. I secolareschi invece (cosí dagli avversari venivano designati quelli che per opinioni e costumi si accostavano alla sbrigliatezza secolare) uscivano dalle comode famiglie della città e della pianura. Nei primi la gravità il riserbo la credenza se non l'entusiasmo e l'abnegazione sacerdotale si perpetuavano da zio in nipote, da piovano in cappellano; nei secondi la coltura classica, la libertà filosofica, l'eleganza dei modi, e la tolleranza religiosa erano instillate dai liberi colloqui nei crocchi famigliari; si facevano preti o spensieratamente per ubbidienza, o per golaggine d'una vita commoda e tranquilla. Sí i primi che i secondi avevano i loro rappresentanti i loro difensori nel Seminario, nella Curia e nel Capitolo; a volte quelli, a volte questi aveano soverchiato; ed ogni vescovo che si succedeva nella diocesi era accusato di favorire o i secolareschi o i clausetani. Clausetani e secolareschi si osteggiavano a vicenda; gli uni accusati d'ignoranza, di tirannia, di nepotismo, di taccagneria; gli altri di scostumatezza, di miscredenza, di cattivo esempio, di mondanità. La città parteggiava in genere per questi, il contado per quelli; ma i clausetani, per indole propria e delle massime che difendevano, erano piú concordi fra loro o meglio regolati. Mentre invece nei loro antagonisti la petulanza e la leggerezza individuale escludevano qualunque ordine, qualunque metodo di condotta. Ciò non toglie peraltro che le dissenzioni del clero non alimentassero piú del bisogno il pettegolezzo delle conversazioni; e i vivaci abatini di bella vita, se non si compensavano, si vendicavano almeno coll'impertinenza e colla mordacità della maggiore influenza che gli avversari s'avevano acquistata con secoli e secoli d'austerità, e di perseveranza. Le giovani signore erano disposte a favorire le loro parti; soltanto qualche vecchia paralitica teneva pei rigoristi; effetto d'invidia piú che di persuasione. Insomma voleva dire che il nobile Senatore trovò anche nel clero un crocchio sceltissimo di conversatori, i quali, tagliati sul suo stampo, avvezzi al suo stesso modo di vedere e uguali a lui di studi e di coltura, potevano fargli passare delle ore molto piacevoli. Gli piaceva conversare, ragionare, discutere alla libera; raccontare e udir raccontare novelle e burlette piuttosto leste; e infiorar il discorso di barzellette e di proverbia senzaché qualche schizzinosa torcesse il naso. Lí trovò gente a suo modo. Neppur le pallottole di mercurio si corrono dietro e si fondono con tanta pertinacia, come i simili e i consenzienti in una società. Perciò nella conversazione del Senatore un crocchio si formò a poco a poco, si divise dagli altri e prese posto intorno al padrone di casa. Tutti è vero avrebbero avuto voglia di entrarvi; ma non tutti hanno il coraggio di assistere ad una disputa senza intenderla, di ridere quando gli altri ridono, senza capire il perché, di pigliar un pestone sui piedi seguitando a mostrar il viso allegro, e di restar in mezzo ad un numero di brave persone senza essere interrogato né arrischiare una parola. Gli ignoranti adunque, gli sciocchi, gli ipocriti, i costumati se ne ritrassero bentosto; e rimase l'oro purissimo della classe raffinata, dotta, motteggiatrice. Rimasero il canonico di Sant'Andrea, l'avvocato Santelli, altri due o tre curiali, il dottorino Giulio Del Ponte, il professor Dessalli, e qualche altro professore di belle lettere, un certo don Marco Chierini, riputato il tipo piú perfetto dell'abate elegante, e tre o quattro conti e marchesi che aveano saputo unire l'amore dei libri a quello delle donne, e lo studio dell'antichità colle costumanze moderne. Anzi giacché ci son cascato gioverà notare che non si poteva allora esser educati e compiti senza aver su per le dita le costituzioni di Sparta e d'Atene. Le parlate di Licurgo di Socrate di Solone e di Leonida erano i temi consueti delle esercitazioni ginnasiali: curiosissima contraddizione in tanta servilità e cecità d'obbedienza, in tanta noncuranza di virtù e di libertà. Il fatto sta che, mentre le dame ed il resto della comitiva trinciavano mazzi di carte ai tavolini del tresette e del quintilio, la piccola accademia del Senatore si raccoglieva in un angolo del salone a cianciar di politica, e a motteggiare sulle novelle piú scandalose della città. Era una musica la piú variata, una vera opera semiseria, piena di motivi ridicoli e sublimi, buffi e serii, allegri e maligni; un intralciarsi di contese, di frizzi, di reticenze e di racconti che somigliava un mosaico di parole; vero capo d'opera dell'ingegno veneziano che coll'arte di Benvenuto Cellini sa farsi ammirare perfino nelle minuzie. Si parlava delle cose di Germania e di Francia nella maniera piú liberale; si commentavano i viaggi di Pio VI, le mire di Giuseppe II, le intenzioni della Russia, e i movimenti del Turco. Si portavano in mezzo le autorità piú disparate di Macchiavelli, di Sallustio, di Cicerone e dell'Aretino; si raffrontavano le vicende d'allora coi capitoli di Tito Livio; e a cosí gravi ragionamenti non si cessava dall'alternare lo scherzo, e la risata. Ogni appiglio per burlare era buono. Chi ha cercato in Inghilterra i creatori dell'umorismo non visse mai certamente a Venezia, né mai passò per Portogruaro. Vi avrebbe trovato, frutto di lunghi ozii secolari, di ottimi stomachi e d'ingegni pronti allegri svegliati, quell'umorismo meridionale che tanto si distingue dal settentrionale quanto la nebbia notturna del palude dall'orizzonte lucente e vaporoso d'un bel tramonto d'estate. La vita e le cose che sono in essa, disprezzate ugualmente; ecco la parentela; ma perciò appunto volte tutte alla spensieratezza alla gioia; ecco la diversità. In Inghilterra invece danno in melanconie, si rodono, si appassionano, si ammazzano. Sono due immoralità, o due pazzie diverse; ma non voglio decidermi per nessuna delle due. Il cervello forse correrebbe da un parte e il cuore dall'altra secondoché s'apprezza meglio o la dignità o la felicità umana. Intanto io vi assicuro che per quei capi ameni il saltare dagli scandali di Caterina II alle avventure della tal dama, e del tal cavaliere era uno scambietto da nulla. Il nome d'una persona ne tirava in ballo altre due; e queste quattro e cosí innanzi sempre. Non si rispettavano né i lontani né i presenti; e questi avevano il buon gusto di sopportare lo scherzo e di non ricattarsene tosto ma di aspettare il momento opportuno che già arrivava o presto o tardi. Molta cultura, piuttosto superficiale se volete, ma vasta e niente affatto pedantesca, moltissimo brio, grande snellezza di dialogo e soprattutto un'infinita dose di tolleranza componevano la conversazione di quel piccolo areopago di buontemponi, come io ho voluto descriverla. Badate che adopero la parola buontemponi non sapendo come tradurre meglio quella francese di viveurs che prima m'avea balenato in mente. Avendo vissuto assai con francesi questo incommodo mi disturba sovente; e non ho sempre tanta conoscenza della mia lingua da disimpacciarmene bene. Qui per esempio scrissi buontemponi, per significar coloro che fanno lor pro' della vita come la porta il caso; pigliando cosí da essa come dalla filosofia la parte allegra e godibile. Del resto se per buontempone s'intende un ozioso un gaudente materiale, nessuno di quei signori era tale. Tutti avevano le loro occupazioni, tutti davano all'anima la sua parte di piaceri; soltanto li pigliavano per piaceri, non per obblighi e vantaggi morali. D'accordo sempre che spiritoso e spirituale sono epiteti piú contrari che sinonimi. I signori di Fratta, liberati finalmente da quello spauracchio del Venchieredo, s'erano rimessi alla solita vita. Il Cappellano avea serbato la sua cura, e non cessava dall'accogliere in casa almeno una volta al mese il suo vecchio amico e penitente, Spaccafumo. Il Conte e il Cancelliere chiudevano un occhio; il piovano di Teglio gliene faceva qualche ramanzina. Ma lo sparuto pretucolo, che non poteva balbettar risposta alle intemerate d'un superiore, sapeva imbeversene ottimamente e seguitar a suo modo non appena il superiore avesse voltato le spalle. Intanto per ragioni d'ufficio e di vicinanza il dottor Natalino di Venchieredo s'era accostato al Conte ed al cancelliere di Fratta. Il signor Lucilio, amicissimo di Leopardo Provedoni, avea fatto conoscenza con sua moglie; e cosí un passo dopo l'altro anche la vispa Doretta comparve qualche volta alle veglie del castello. Ma oggimai due sere per settimana c'era ben altro che veglia! Si doveva andarne a passar la sera a Portogruaro nella conversazione di Sua Eccellenza Frumier. Impresa pericolosissima con quelle strade che c'erano allora; ma pur la Contessa ci teneva tanto di non mostrarsi dammeno della cognata, che trovò coraggio di tentarla. Una delle figliuole era già da marito, l'altra cresceva su come la mala erba; la prima intinta appena, la seconda vergine affatto di qualunque educazione, bisognava condurle nel mondo perché pigliassero qualche disinvoltura. E poi bisognava farsi avanti perché gli sposatori ragionano anzi tutto cogli occhi e quelle due pettegole non ci perdevano nulla ad esser guardate. Questi furono gli argomenti messi in campo dalla signora per persuadere il marito ad avventurarsi colla carrozza due volte per settimana sulla strada di Portogruaro. Prima peraltro il prudentissimo Conte mandò una dozzina di lavoratori che riattassero la strada nei passaggi piú scabrosi e nelle buche piú profonde; e volle che il cocchiere guidasse i cavalli di passo, e che due lacchè coi lampioni precedessero il legno. I due lacchè furono Menichetto figliuolo di Fulgenzio e Sandro del mulino, ai quali si buttò addosso per pompa una veste scarlatta ritagliata da due vecchie gualdrappe di gala. Io montava sulla predella di dietro e per tutta la strada che era di tre buone miglia mi divertiva a guardar la Pisana pel finestrino del mantice. Per cosa poi dovessi accompagnarli anch'io in quelle visite durante le quali io restava a dormicchiare nella cucina del Frumier, ve lo spiegherò ora. Come il Conte si tirava dietro il Cancelliere, cosí il Cancelliere si tirava dietro me. Io era, in poche parole, l'ombra dell'ombra; ma in questo caso il farla da ombra non mi spiaceva gran fatto poiché mi porgeva il pretesto di seguitar la Pisana fra la quale e me gli amori continuavano di gran cuore interrotti e variati dalle solite gelosie, rannodati sempre dalla necessità e dall'abitudine. Fra un giovinetto di tredici anni e una fanciulla di undici, cotali intrighetti non son piú cosa da prendersi a gabbo. Ma io ci pigliava gusto, ella del pari in difetto di meglio, i suoi genitori non si davano fastidio di nulla, e le cameriere e le fantesche dopo le mie gesta memorabili e il mio tramutamento in alunno di cancelleria aveano preso a riverirmi come un piccolo signore, e a lasciarmi fare il piacer mio d'ogni cosa. I giochetti continuavano dunque facendosi seri sempre piú: ed io andava già architettando certi romanzi che se li volessi contar ora, queste mie confessioni andrebbero all'infinito. Comunque la sia, anche ne' miei sentimenti qualche cambiamento era succeduto; ché mentre una volta le carezze della Pisana mi sembravano tutta bontà sua, allora invece, sentendomi cresciuto d'importanza, ne dava la loro parte anche ai miei meriti. Capperi! Dal piccolo Carletto dello spiedo, vestito coi rifiuti della servitù e coi cenci di Monsignore, allo scolare di latino ben pettinato con un bel codino nero sulle spalle, ben calzato con due piccole fibbie di ottone, e ben vestito con una giubberella di velluto turchino, e le brache color granata, ci correva la gran differenza! - Cosí pure la mia pelle non rimanendo piú esposta al sole e alle intemperie s'era di molto incivilita. Scopersi che la era perfino bianca, e che i miei grandi occhi castani valevano quanto quelli di qualunque altro; la corporatura mi cresceva alta e svelta ogni giorno piú; aveva una bocca non disaggradevole, e dentro una bella fila di denti, che se non stavano troppo vicino per non darsi noia, splendevano tuttavia come l'avorio. Soltanto quelle maledette orecchie, colpa le tirate del Piovano, prendevano troppo spazio nella mia fisonomia; ma tentava di correggere il difetto dormendo una notte su un fianco e una notte sull'altro per dar loro una piega piú estetica. Basta! me le palpo ora e m'accorgo di esservi riescito mediocremente. Martino peraltro non si stancava dall'ammirarmi dicendomi: - È proprio vero che la bellezza per isbocciare vuol essere strapazzata. Va' che tu sei il piú bel Carlino di tutti i dintorni, e sí che sei nato dalla cenere del focolare e la piú parte del latte te l'ho data io. - Il pover'uomo diventava gobbo mano a mano che io m'ingrandiva; oramai le forze gli mancavano; grattava il formaggio stando seduto e non ci udiva piú a sbarrargli i cannoni nell'orecchio. Niente importava; io e lui seguitavamo a intendercela a cenni e credo che il restar solo al mondo e il viverci senza di me sarebbe stata per lui uguale disgrazia. Quanto alla padrona vecchia egli saliva sí a tenerle compagnia durante le assenze della Clara, ma la diversità di abitudini, la lontananza in cui vivevano, negavano loro lo aver comuni quei segni d'intelligenza con cui si arriva a farsi capire dai sordi. Intanto la comparsa dei nobili signori di Fratta e massime della contessina Clara nella conversazione di casa Frumier aveva introdotto in questa il nuovo elemento dei castellani e dei signorotti campagnuoli. Non mancò di accorrer prima il Partistagno, il quale, dopo il soccorso portato al castello contro l'assalto del Venchieredo, era divenuto per la famiglia una specie di angelo custode. Egli poi, convien dirlo, portava abbastanza superbamente l'aureola di questa gloria; ma i fatti stavano per lui, e si poteva riderne non negargliene il diritto. Lucilio ci pativa molto di questo altiero contegno del giovine cavaliere, ma i suoi patimenti erano piú d'invidia che di gelosia. Gli doleva piucchealtro che il servigio prestato dal Partistagno ai Conti di Fratta non lo si dovesse invece a lui. Del resto viveva sicuro della Clara: ogni occhiata di lei lo confortava di nuove speranze; perfino la serenità colla quale essa accettava le cortesie del Partistagno gli era caparra che giammai un pericolo lo avrebbe minacciato da quella parte. Come non affidarsi interamente a quel cuore cosí puro, a quella coscienza cosí retta e fervorosa? Molte volte egli le aveva parlato da solo a sola, o nel tinello o nelle passeggiate, dopo la prima dichiarazione del loro amore; quasi tutti i giorni aveva passato un'ora con lei nella camera della nonna, e sempre piú si era invaghito di quella bellezza innocente ed angelica, di quel cuore verginale e fervoroso nella sua muta tranquillità. Quell'indole focosa e tirannica avea bisogno di un'anima ove riposarsi colla quieta sicurezza d'un affetto. L'aveva trovata, l'aveva amata, come il cappuccino morente ama la sua parte di cielo; e col cuore e coll'ingegno e colle mille arti d'uno spirito immaginoso e d'una volontà onnipotente, s'adoperava di legare a sé con modi sempre nuovi quell'altra parte necessaria di se stesso che viveva in Clara. Costei cedeva deliziosamente a tanta forza d'amore; amava, la giovinetta, con quanta forza aveva nell'anima; e non pensava piú in là, perché Dio proteggeva la sua innocenza, la sua felicità, ed ella era abbastanza felice di non temer nulla di non dover arrossire di nulla. Quella massima tetra e bugiarda che vieta alle zitelle l'amore, come una perversità ed una colpa, non era mai entrata negli articoli della sua religione. Amare anzi era la sua legge; e le aveva ubbidito e le ubbidiva santamente. Cosí non si dava ella nessuna cura di nascondere quel dolce sentimento che Lucilio le aveva inspirato; e se il Conte e la Contessa non se n'accorsero, fu forse solamente perché la cosa, secondo loro, era tanto fuori d'ogni verisimiglianza da non consentir nemmeno il sospetto. D'altronde alle zitelle d'allora non era assolutamente proibito d'innamorarsi di chichessia: bastava che la passione non andasse oltre. La gente di casa bisbigliava già che quando la Contessina sarebbe maritata il dottor Lucilio sarebbe stato il suo cavalier servente. Ma un giorno che la Rosa disse al giovine qualche scherzo sopra questo soggetto, mi ricordo averlo veduto impallidire e mordersi i mustacchi colla peggior bile del mondo. Anche la vecchia Contessa, a mio credere, aveva scoperto il mistero della Clara; ma la era essa troppo incapricciata del giovine per torselo dattorno a vantaggio della nipote. Forse anche l'immaginazione sua, ancella inconsapevole dell'interesse, la facea trovare mille argomenti per escludere quelle paure. Al postutto Lucilio, pensava ella, mostravasi tanto guardingo, che la Clara si sarebbe calmata. Conosceva ella o credeva di conoscere, la buona vecchia, quelle belle nuvole dorate che attraversano la fantasia delle ragazze. - Ma son nuvole, - diceva ella, - nuvole che passano al primo soffio di vento! - Il soffio di vento sarebbe stata l'offerta d'un buon partito, e il comando dei parenti. Ma quanto ella conoscesse l'indole della Clara e la somiglianza di questa colla propria lo vedremo in seguito. Certo peraltro il riservato contegno di Lucilio giovò ad addormentarla nella sua commoda sicurezza; e se le si fosse lasciato veder bene a fondo nelle cose, forse che ella non avrebbe creduto cosí facilmente alla docile fuggevolezza di quelle nuvole, e sarebbe giunta a privarsi delle ultime delizie che le rimanevano, per togliere nei due giovani i primi fondamenti a quei castelli in aria affatto impossibili. Ma restando le cose come erano ella godeva di potersi fidare nella discrezione e nel calmo temperamento di Clara, e di dire anco fra sé quando costei usciva dalla stanza per far lume a Lucilio: "Oh il giovane prudente e dabbene! Non si direbbe che egli ha paura di alzar gli occhi perché non si creda che gli stia a cuore mia nipote? Se li alza gli è solamente per guardar me, e alla sua età!! Basta! è veramente miracoloso!" Ma Lucilio aveva altri momenti, per lasciar l'anima sua spiccar il volo a sua posta; e in quei momenti bisogna confessarlo, quei suoi occhi cosí discreti e dabbene commettevano non pochi peccati d'infedeltà a danno della nonna. In tinello quando tutti giocavano ed egli sembrava attentissimo a sorvegliar il tresette di Monsignore, o intento ad accarezzare Marocco, il cane del Capitano, tra lui e la Clara era un dialogo continuo d'occhiate, che faceva l'effetto di una voce angelica che cantasse in cuore mentre ci ferisce l'orecchio un tumulto di campane rotte. Oh cari e sempre cari quei divini concenti che beatificano le anime senza incommodare il rozzo tamburo dei timpani! La religione delle cose insensibili e quella delle eterne si sposano nella mente come il colore e la luce nel raggio del sole. Il sentimento nel pensiero è il piú bel trionfo sulla sensazione nel corpo; esso prova che l'anima vive fuori di sé anche senza il ministero delle cose materiali. L'amore che principia nello spirito non può finir colla carne; esso vince la prova della fragilità umana per tornar puro ed eterno nell'immenso amore del Dio universale. E Lucilio sentiva la divina magia di questi pensieri senza farsene ragione nel suo criterio di medico. Gli parevano fenomeni fuori di natura; e tornava a rivolgerli e a studiarli senza guadagnarne altro che un nuovo fervore e una piú ostinata tenacia di passione. Quando la Clara fu condotta da' suoi alla conversazione della zia, il dottorino di Fossalta trovò assai facilmente il modo di penetrare colà. Il galateo veneziano non fu mai cosí ingiusto da vietare l'ingresso delle aule patrizie alla buona educazione, al giocondo brio ed al vero merito, se anche uno stemma inquartato non dava risalto a queste buone qualità. Lucilio era molto stimato a Portogruaro, e godeva il favore e l'intrinsichezza di alcuni giovani professori del Seminario. Fu dunque da loro presentato all'illustre Senatore; e questi in breve ebbe campo a ringraziarli di ciò come d'un segnalato favore. Egli conosceva del resto da molti e molti anni il dottor Sperandio, che ricorreva a lui in ogni cosa che gli abbisognasse a Venezia. Si lamentò adunque garbatamente col figlio del suo vecchio amico perché avesse creduto necessaria la malleveria di terze persone a potersi presentare in sua casa. Nel dargli commiato, la prima sera, si congratulò secolui che il bene dettogli di lui fosse un nulla in confronto a quello che egli stesso ne avrebbe dovuto dire in seguito. Il giovane s'inchinò modestamente fingendo di non trovar parole per rispondere a tanta gentilezza. La conversazione di Lucilio era per verità cosí vivace cosí amabile e variata, che pochi davano piacere quanto lui soltanto ad udirli parlare; il solo professor Dessalli lo vinceva d'erudizione, e fra esso e Giulio Del Ponte si poteva star in sospeso per la palma del brio e dell'arguzia. Se quest'ultimo lo sorpassava talvolta in prontezza, e in abbondanza, Lucilio prendeva tosto la rivincita colla profondità e l'ironia. Egli piaceva agli uomini come senno maturo; Giulio aveva la gioventù dello spirito e incantava le simpatie. Ma il far pensare lascia negli animi tracce piú profonde che il far ridere; e non v'è simpatia che non si scolori ad un solo raggio d'ammirazione. Questa, anziché essere come la prima un dono grazioso da eguale ad eguale, è un vero tributo imposto dai grandi ai piccoli, e dai potenti ai deboli. Lucilio sapeva imporlo valorosamente, ed esigerlo con discrezione. Laonde erano costretti a pagarlo di buona moneta e ad essergli per giunta riconoscenti. Il crocchio particolare del Senatore per la presenza di Lucilio si ravvivò d'una subita fiamma d'entusiasmo. Egli animava accendeva trascinava tutti quegli spiriti azzimati cincischiati, ma tiepidi e cascanti. Al suo contatto quanto v'era di giovane e di vivo in loro fermentò d'un bollore insolito. Si dimenticavano quello ch'erano stati e quello che erano, per torre a prestanza da lui un ultimo sogno di giovinezza. Ridevano ciarlavano motteggiavano disputavano non piú come gente intesa ad uccider il tempo, ma come persone frettolose di indovinarlo, di maturarlo. Pareva che la vita di ciascuno di essi avesse trovato uno scopo. Una bocca sola nelle cui parole respirava una speranza eccelsa e misteriosa, una sola fronte sulla quale splendeva la fede di quell'intelligenza che mai non muore, avean potuto cotanto. Il Senatore rimasto solo e ricaduto nella solita indifferenza stupiva a tutto potere di quei caldi intervalli d'entusiasmo, di quel furor battagliero di contese e di alterchi da cui si sentiva trasportato come uno scolaretto. Accagionava di ciò l'esempio e la vicinanza dei piú giovani; era invece la fiamma della vita, che rattizzata in lui da un potente prestigiatore, non potendo scaldargli le fibre già agghiacciate del cuore, gli empiva il capo di fumo e gli infervorava la lingua. "Si crederebbe quasi ch'io prendessi sul serio le sofisticherie che s'impasticciano per passar l'ora", andava egli pensando mentre aspettava la cena nella classica poltrona "e sí che da quarant'anni io non ho odorato la polvere venerabile del collegio! Sarà forse vero che gli uomini non son altro che eterni fanciulli!". - Eterni, eterni! - mormorava il vecchio accarezzando le guance flosce e grinzose - volesse il Cielo! Dopoché Lucilio era sopraggiunto a sbraciare l'entusiasmo dei cortigiani del Senatore, coloro che sedevano ai tavolini del giuoco, le signore principalmente, soffrivano delle frequenti distrazioni. Quel chiasso continuo di domande, di risposte, di accuse e di difese, di scherzi, di risate, di esclamazioni e di applausi moveva un poco la curiosità, e, diciamolo, anche l'invidia dei giocatori. I divertimenti del quintilio e le commozioni del tresette erano di gran lunga meno vibrate; quando un cappotto aveva originato le solite ironiche congratulazioni, le solite minacce di rivincita, tutto finiva lí, e si tornava come rozze di vettura al monotono andare e venire della partita. Invece di quel cantone della sala la conversazione s'avvicendava sempre varia allegra generale animata. Gli orecchi cominciarono a tendersi verso colà, e gli occhi ad invetrarsi sulle carte. - Ma signora, tocca a lei. Ma dunque non ha capito la sfida! - Scusi, ho un po' di mal di capo; - ovvero: - Non ho badato; aveva la testa via! - Cosí si bisticciavano da un lato all'altro dei tavolini, e le colpevoli si rimettevano, sospirando a giocare. Lucilio ci entrava non poco in tutti quei sospiri, ed egli lo sapeva. Sapeva l'effetto da lui prodotto sulla conversazione del Senatore, e se ne riprometteva di rimbalzo una generosa gratitudine da parte della Clara. L'amore ha un orgoglio tutto suo. Da un lato si cerca d'ingrandire per piacere di piú, dall'altro s'insuperbisce di veder piacere a molti quello che piace e si studia solamente di piacere a noi. Giulio Del Ponte, che forse al pari di Lucilio aveva fra le signore qualche motivo per voler rendersi piacevole, aguzzava il proprio ingegno per tener bordone al compagno. E il resto della compagnia rimorchiata dai due giovani gareggiava di prontezza e di brio, nei piú gravi ragionamenti che si potessero instituire sopra alcune frasi della "Gazzetta di Venezia", la mamma anzi l'Eva di tutti i giornali. Infatti i Veneziani di quel tempo dovevano inventare e inventarono la Gazzetta: essa fu un parto genuino e legittimo della loro immaginazione, e solamente ad essi si stava ad aprire la biblioteca delle chiacchiere. Il Senatore riceveva ogni settimana la sua gazzetta sulla quale si facevano grandi commenti; ma anche in questo lavorio di finitura e d'intarsio Lucilio si lasciava indietro tutti gli altri di molto. Né alcuno sapeva come lui cercar le ragioni all'un capo del mappamondo di ciò che succedeva all'altro capo. - Che colpo d'occhio avete, caro dottore! - gli dicevano meravigliati. - Per voi l'Inghilterra e la China sono a tiro di canocchiale, e ci trovate tra esse tante relazioni quanto fra Venezia e Fusina! - Lucilio rispondeva che la terra è tutta una palla, che la gira e la corre tutta insieme, e che dopo che Colombo e Vasco de Gama l'avevano rifatta come era stata creata, non si doveva stupirsi che il sangue avesse ripreso la sua vasta circolazione per tutto quel gran corpo dal polo all'equatore. Quando si navigava per cotali discorsi il Senatore chiudeva un occhio socchiudeva l'altro e cosí osservava Lucilio rimuginando certi giorni passati quando quel giovinastro avea lasciato qualche macchia nera sul libro degli Inquisitori di Stato. Forse allo scrupoloso veneziano passavano allora pel capo dei lontani timori; ma d'altra parte era qualche anno che Lucilio non si moveva da Fossalta; la sua vita era quella d'un tranquillo benestante di campagna; gli Inquisitori dovevano essersi dimenticati di lui ed egli di loro e delle ubbie giovanili. Il dottor Sperandio, in visita diplomatica all'eccellentissimo patrono, lo aveva rassicurato confessandogli che egli non erasi mai lusingato per l'addietro di trovare nel figliolo la docilità e la calma che dimostrava infatti colla sua vita modesta e laboriosa. - Oh, se volesse consentire a laurearsi! - sclamava il vecchio dottore. - Senza fermarsi a Venezia, intendiamoci bene! - soggiungeva con frettoloso pentimento. - Ma, dico io, se giungesse a laurearsi, qual clientela bella e pronta gli avrei preparato! - Non mancherà tempo, non mancherà tempo! - rispondeva il Senatore. - Ella intanto provveda che suo figlio si assodi bene, che dia un calcio a tutte le bizzarrie, che conservi sí il buon umore e la vivacità, ma non pigli sul serio le fantasie letterarie degli scrittori. La laurea verrà un giorno o l'altro, e di ammalati non ne mancheranno mai ad un dottore che dia ad intendere di saperli guarire. - Morbus omnis, arte ippocratica sanatur aut laevatur - soggiungeva il dottore. E se la conversazione successe di dopopranzo, aggiunse certamente una mezza dozzina di testi; ma non lo so di sicuro e voglio sparagnarne l'interpretazione ai lettori. Lucilio era adunque diventato, come dice la gente bassa, il cucco delle donne. Queste vanerelle, in onta alle capricciose leggi d'amore, si lasciano facilmente accalappiare da chi fa in qualche maniera una prima figura. Nessun piacere sopravanza forse quello di essere da tutti invidiate. Ma Lucilio un cotal piacere non lo permetteva a nessuna di loro. Era gaio estroso brillante nelle sue rade escursioni fra le tavole del giuoco; indi tornava a capitanare la conversazione del Senatore senza aver fatto vedere neppur la punta del fazzoletto ad alcuna di quelle odalische. Soltanto, passando o ripassando, trovava modo d'inondare tutta la persona di Clara con una di quelle occhiate che sembrano circondarci, come le salamandre, di un'atmosfera di fuoco. La giovinetta tremava in ogni sua fibra a quell'incendio repentino e soave; ma l'anima serena ed innocente seguitava a parlarle negli occhi col suo sorriso di pace. Pareva che una corrente magnetica lambisse co' suoi mille pungiglioni invisibili le vene della donzella, senzaché potesse turbare il profondo recesso dello spirito. Piú insormontabile d'un abisso, piú salda d'una rupe s'interponeva la coscienza. La modestia, piú che il luogo inosservato ove costumava sedere, proteggeva la Clara dalle curiose indagini delle altre signore. Sapeva ella farsi dimenticare senza fatica; e nessuno poteva sospettare che il cuore di Lucilio battesse appunto per quella che meno di tutte si affaccendava per guadagnarselo. La signora Correggitrice non usava tanta discrezione. Fino dalle prime sere le sue premure, le sue civetterie, le sue leziosaggini pel desiderato giovine di Fossalta aveano dato nell'occhio alla podestaressa, e alla sorella del Sopraintendente. Ma queste due alla lor volta s'eran fatte notare per la troppa stizza che ne dimostravano: insomma Paride frammezzo alle dee non dovette essere piú impacciato che Lucilio fra quelle dame; egli se ne spicciava col non accorgersi di nulla. V'avea peraltro un'altra signorina che forse piú di ogni altra e della Correggitrice stessa teneva dietro ai gloriosi trionfi di Lucilio, che non distoglieva mai gli occhi da lui, che arrossiva quand'egli se le avvicinava, e che non aveva riguardo di avvicinarsi a lui essa medesima per toccar il suo braccio, sfiorar la sua veste, e contemplarlo meglio negli occhi. Questa sfacciatella era la Pisana. Figuratevi! una civettuola di dodici anni non ancora maturi, un'innamorata non alta da terra quattro spanne! - Ma la era proprio cosí; e io dovetti persuadermene coll'onniveggenza della gelosia. La terza e la quarta volta che s'andò in casa Frumier io ebbi ad osservare un maggior studio nella piccina di adornarsi d'arricciarsi di cincischiarsi. Nessun abito le pareva bello abbastanza; nessun vezzo soverchio; nessuna diligenza bastevole per la lisciatura dei capelli e delle unghie. Siccome questa smania non l'aveva avuta né la prima né la seconda volta, cosí io m'immaginai subito che non fosse né per la solita vanità femminile né per essere ammirata dalle signore. Qualche altro motivo vi dovea covar sotto, ed io, sciocco allora come sempre in queste faccende, deliberai di chiarirmene tosto. Il martirio della certezza mi parea già fin d'allora meno formidabile dei tormenti del dubbio; ma sempreché acquistai poscia quelle crudeli certezze, mi toccò ogni volta rimpiangere la sdegnata felicità di poter tuttavia dubitare. Il fatto sta che quando i servitori salirono a portare il caffè, io scivolai con essi nella sala, e mezzo nascosto dietro la portiera mi posi alla vedetta di quanto succedeva. Vidi la Pisana fisa sempre cogli occhi a guardare Lucilio, come volesse mangiarlo. La sua testolina girava con lui come quella del girasole: quand'egli parlava con maggior calore, o si volgeva dalla sua banda, vedeva il suo piccolo seno gonfiarsi arrogantemente come quello d'una vera donna. Non parlava, non fiatava, non vedeva altro; non si moveva e non sorrideva che per lui. Tutti i segni dell'amore piú intenso e violento erano espressi dal suo contegno; solamente l'età cosí tenera salvava lei dai commenti e dai sospetti delle signore, come la modestia avea salvato sua sorella. Io tremava tutto, sudava come per febbre, digrignava i denti, e mi aggrappava colle mani alla portiera quasi mi sentissi vicino a morte. Allora mi balenò alla mente perché la Pisana mi avesse serbato il broncio in quegli ultimi giorni, e perché non la parlasse e non la ridesse piú come il solito, e perché si mostrasse pensosa e stizzita e amica dei luoghi solitari e della luna. "Ah, traditrice!" gridò con un gemito il mio povero cuore. Sopra un tanto affanno di amore sventurato sentii crescere e gonfiarsi l'odio come una consolazione. Avrei voluto stringere in mano un fascio di fulmini per saettarne quella fronte alta e abborrita di Lucilio: avrei voluto che l'anima mia fosse un veleno per penetrare tutti i suoi pori, per dissolvere ogni sua fibra, e tormentare i suoi nervi fino alla morte. Di me non mi importava né punto né poco: poiché allora per la prima volta provava l'amarezza della vita; e la odiava quasi al pari di Lucilio, come occasione se non causa ch'essa era d'ogni mio male. Allora mi toccò vedere la vanerella valendosi dei privilegi dell'età toglier di mano al servo la tazzina del caffè e presentarla essa stessa al giovine. La fanciulla era rossa come una bragia, aveva gli occhi splendenti piú dei rubini, quali io non avea mai veduti; sembrava in quel momento non già una bambina, ma una ragazza piacevole perfetta e quel che peggio innamorata. Quando Lucilio prese la tazza dalla mano di lei, ella traballò sulle ginocchia e si versò sull'abito alcune gocce di caffè; il giovine le sorrise amorevolmente e si abbassò a pulirla col fazzoletto. Oh se l'aveste veduta allora quella fanciulletta appena alta da terra! - Il suo volto aveva l'espressione piú voluttuosa che mai scultore greco abbia dato alla statua di Venere o di Leda; una nebbia umida e beata le avvolse le pupille, e la sua personcina s'accasciò con tanta mollezza che Lucilio dovette circondarla con un braccio per sostenerla. Io mi morsi le mani e le labbra, mi graffiai il petto e le guance; sentiva nel petto un impeto che mi spingeva a gettarmi rabbiosamente su quello spettacolo odioso, e una forza misteriosa che mi teneva confitti i piedi nel pavimento. Quando Dio volle, Lucilio tornò a suoi discorsi, e la Pisana a sedere vicino alla mamma. Ma il soave turbamento ch'era rimasto nelle sue sembianze continuò a tormentarmi, finché i servitori uscirono colle guantiere. - Olà, Carlino! che ci fai qui? - mi disse uno di costoro. - Fammi largo e torna in cucina ché non è qui il tuo posto. Tali parole, che pareva dovessero metter il colmo al mio dolore, furono invece come un veleno provvido e gelato che lo calmarono. - Sí! - dissi fra me con cupa disperazione. - Questo non è il mio posto! E tornai in cucina barcollando come un ubbriaco; e colà stetti cogli occhi fitti nelle bragie del focolare, finché mi avvertirono che i cavalli erano attaccati e che si stava per partire. Allora ebbi a vedere un'altra volta lungo la scala la Pisana che seguiva ostinatamente Lucilio, come un cagnolino tien dietro al padrone. Indifferente a tutto il resto, montò in carrozza guardando sempre lui; e la vidi sporgersi dallo sportello a guardar il posto ch'egli aveva occupato, anche dopo che fu partito. Io intanto stava appeso al mio solito posto da quel povero diseredato che era: e quali furono i miei pensieri per tutta quella buona ora che s'impiegò a tornarsene a casa, Dio solo lo sa!... Pensieri forse non erano; bensí delirii, bestemmie, pianti, maledizioni. Quella sottil parete di cuoio che divideva il mio posto dal suo, io sapeva benissimo cosa mi presagisse pel futuro. Mille volte avea pensato che giorno verrebbe quando la maledetta forza delle cose umane me l'avrebbe tolta per sempre a datala ad un altro; ma ad un altro non desiderato, non amato, appena forse sofferto. E mi era conforto il figurarmela inondata di pianto e pallida di dolore sotto il bianco velo di sposa, andarne all'altare come una vittima; e poi nelle tenebre del talamo nuziale offrirsi fredda, tremante, avvilita, senza amore e senza desiderii, al padrone cui l'avrebbero venduta. Il suo cuore sarebbe rimasto mio, le anime nostre avrebbero continuato ad amarsi; io sarei stato felicissimo di vederla passare alcuna volta frammezzo a' suoi bambini: sarebbe stata la mia una beatitudine di impadronirsi d'alcuno fra questi quand'ella non mi avesse osservato, di stringermelo sul cuore, di baciarlo, di adorarlo, di cercare nelle sue fattezze la traccia delle sue; e di illudermi e di pensare che la parte misteriosa del suo spirito che s'era transfusa in quel bambino aveva appartenuto anche a me, quando ella amava me solo con tutte le potenze dell'anima. Garzoncello di non ancora quattordici anni io la sapeva lunga delle cose di questo mondo; lo sbrigliato cicaleccio dei servi e delle cameriere me ne aveva insegnato oltre il bisogno; eppure giungeva a debellare il confuso tumulto dei sensi, a frenare lo slancio d'un'immaginazione innamorata, e a desiderare un'esistenza non d'altro ricca che di soavi dolori, e di gioie melanconiche. Premio de' miei sforzi, della mia devozione, raccoglieva invece la dimenticanza e l'ingratitudine. E neppure si scordava di me per un altro amore; ché allora almeno avrei avuto il conforto della lotta, dell'odio, della vendetta. No, mi gettava via come un arnese disutile, per correr dietro a un vano splendore di superbia, per invaghirsi pazzamente d'un sogno mostruoso e impossibile. L'abborrimento contro Lucilio che in principio avea concepito, era caduto a poco a poco in un rabbioso disprezzo per la Pisana. Lucilio per lei era un vecchio, egli non le avea sembrato mai né bello né amabile: ci erano voluti gli omaggi delle altre perché ella apprezzasse i suoi pregi troppo alti e virili al suo criterio ancor fanciullesco. Io mi vedeva sacrificato senza rimorso alla vanità. - No, ella non ha un briciolo di cuore, né un barlume di memoria, né un avanzo di pudore! Sí, la disprezzo come merita, la disprezzerò sempre! - gridava dentro di me. Povero fanciullo! Io cominciava infin d'allora a disprezzare e ad amare: tormento terribile fra quanti la crudele natura ne ha preparato a' suoi figliuoli; battaglia e pervertimento d'ogni principio morale; servitù senza compenso e senza speranza nella quale l'anima, che pur vede il bene e lo ama, è costretta a curvarsi a pregare a supplicare dinanzi all'idolo del male. Io aveva troppo cuore e troppa memoria. Le rimembranze dei primi affetti infantili mi perseguitavano senza misericordia. Io fuggiva indarno; indarno mi volgeva a combatterle colla ragione; piú antiche della ragione esse conoscevano tutte le pieghe, tutti i nascondigli dell'anima mia. Al loro soffio fatale una tempesta si sollevava dentro di me; una tempesta di desiderii, di rabbia, di furori, di lagrime. Oh meditatele bene queste due parole nelle quali si racchiude tutta la storia delle mie sciagure e delle mie colpe! Meditatele bene e poi dite se con tutta l'eloquenza della passione, con tutto il sentimento dei dolori sofferti, con tutta la sincerità del ravvedimento, potrei spiegarne l'orribile significato!... Io disprezzava ed amava! Riderete forse anco di questi due fanciulli che nel mio racconto la pretendono ad uomini: ma ve lo giuro una volta per sempre: io non vi ricamo di mio capo un romanzo: vo semplicemente riandando la mia vita. Ricordo a voce alta; e scrivo quello che ricordo. Scommetto anzi che se tutti vorrete tornar daccapo colla memoria agli anni della puerizia, molti fra voi troveranno in essi i germi e quasi il compendio delle passioni che poscia inorgoglirono. Credetelo a me; quello che si disse delle bambine che nascono piccole donne, si può dirlo anche degli uomini. La sferza del precettore e la cerchia obbligata delle occupazioni li tien domati generalmente fino ad una certa età. Ma lasciateli andare fare e pensare a lor grado; e tosto vedrete animarsi in essi, come nello spazio ristretto d'uno specchio ottico, tutta la varia movenza delle passioni piú mature. Io e la Pisana fummo lasciati crescere come Dio voleva, e come si costumava a que' tempi se pur non si ricorreva alla scappatoia del collegio. Da una cotal educazione circondata di esempi tristissimi, si formava quel gregge impecorito di uomini, che senza fede, senza forza, senza illusioni giungeva semivivo alle soglie della vita; e di colà fino alla morte si trascinava nel fango dei piaceri e dell'oblio. I vermi che li aspettavano nel sepolcro potevano servir loro da compagni anche nel mondo. Io per mia parte, o per fortuna di temperamento o per merito delle avversità che mi afforzarono l'animo fin dai primi anni, potei rimaner diritto e non insudiciarmi tanto in quel pantano da esservi invischiato sempre. Ma la Pisana, tanto meglio di me fornita di belle doti e di ottime inclinazioni, andava sprovvista per disgrazia di tutti i ripari che potevano salvarla. Perfino il suo ingegno tanto vivace, pieghevole, svegliato s'offuscò e s'insterilí in quella smania di piacere che la invase tutta, in quell'incendio dei sensi nel quale fu lasciata ardere e consumarsi la parte piú eletta dell'anima sua. Il coraggio, la pietà, la generosità, l'immaginazione, sanissimi frutti della sua indole, tralignarono in altrettanti strumenti di quelle brame sfrenate. O se risplendevano talora, nei momenti di tregua, erano lampi passeggieri, moti bizzarri e subitanei d'istinto, non atti consci e meritori di vera virtù. Un guasto sí lagrimevole cominciò nella prima infanzia; nel tempo di cui narro ora, l'era già ito tanto innanzi che sarebbe stato possibile forse l'arrestarlo, non distruggerne gli effetti; quando poscia io fui in grado di toccarlo con mano e di riconoscer in esso la causa per cui la Pisana era venuta sempre peggiorando cogli anni ne' suoi difetti infantili, allora non v'avea piú forza alcuna nel mondo che potesse rinnovarla. Oh con quante lagrime di disperazione e di amore non rimpiansi io allora i secoli dei prodigi e delle conversioni miracolose!... Con quanto ardore di speranza non divorai quei libri dove s'insegnava a rigenerare le anime coll'affetto, colla pazienza, coi sacrifici!... Con quanta umiltà, con quanto coraggio non offersi parte a parte tutto me stesso in olocausto perché quell'angelo decaduto, di cui io aveva contemplato sull'alba della vita gli allegri splendori, riavesse la pompa della sua luce!... - O i libri mentiscono, o la Pisana era fatta omai tale che potenza d'uomo non bastava a cangiarla. Il cielo s'aperse dinanzi a lei una volta e io vidi quello che la mia ragione non vuol credere, ma che il cuore ha collocato nel piú puro tesoro delle sue gioie. Come mi sembra vicino quest'ultimo giorno di ricompensa e di dolore infinito!... Ma quando viveva al castello di Fratta ne era ben lontano: e la mia mente avrebbe inorridito di credere che l'amor mio avrebbe ricevuto il premio piú certo dalle mani della morte. Nei giorni susseguenti a quella sera che tanto mi avea fatto patire, io parvi a tutti cosí fiacco e sparuto che si temeva di qualche malattia. Volevano ad ogni costo che mi lasciassi tastar il polso dal signor Lucilio; ma io mi vi rifiutai ostinatamente, e finché il male non cresceva, mi lasciarono stare persuasi che fosse caponaggine di ragazzo. Vedevano bene le cameriere che gli affetti tra me e la Pisana s'erano raffreddati di molto, ma eran ben lontane dal credere che questa fosse la causa della mia sparutezza. Prima di tutto erano avvezze a questi intervalli di raffreddamento, e poi non davano alla cosa maggior importanza che non meritasse una fanciullaggine. Dopo un paio di giorni anche la Pisana s'accorse del mio pallore, e delle mie astinenze; sicché, quasi indovinandone il segreto, si sforzò a raccostarmisi per farmi bene. Io era già passato dal furore della disperazione alla stanchezza del dolore e la accolsi con aspetto melanconico e quasi pietoso. Quest'ultimo colore della mia fisonomia non le piacque per nulla; finse di credere ch'io le avessi dimostrato che non bisognava di lei e mi piantò lí come un cane. Oh se la mi avesse buttato le braccia al collo! Io sarei stato abbastanza credulo o codardo per stringermela al cuore, e dimenticare i crudeli momenti che la mi aveva fatto passare. Fu forse meglio cosí; poiché al giorno dopo il dolore mi si sarebbe presentato come nuovo, e m'avrebbe sorpreso piú debole di prima. Ad onta della mia inferma salute, tutte le volte che la famiglia andò a Portogruaro io non mancai di accompagnarla; e colà ogni sera io assaporava con amara voluttà la certezza della mia sventura. Mi rinforzava nell'anima; ma il corpo ne soffriva mortalmente, e certo non avrei potuto continuar un pezzo quella vita. Martino mi domandava sempre cosa avessi da sospirar tanto; il Piovano si maravigliava di non trovare i miei latinetti cosí corretti come per l'addietro, ma non aveva coraggio di rimproverarmene, tanto la mia sfinitezza lo moveva a compassione; la contessina Clara mi stava sempre dietro con carezze e con premure. Io dimagriva a vista d'occhio, e la Pisana fingeva di non accorgersene, o se lasciava cadere sopra di me uno sguardo pietoso lo ritirava tosto. Ella intendeva punirmi cosí della mia superbia. Ma era forse superbia? Io moriva di crepacuore e pur compiangeva lei cagione della mia morte. La compiangeva e l'amava, mentre avrei dovuto odiarla, disprezzarla, punirla. Dicano tutti se era superbia la mia. In quel torno accadde per fortuna che la signora Contessa ammalasse; dico per fortuna, perché cosí rimasero interrotte le gite a Portogruaro e questa fu la ragione perché io non morii. Lucilio seguitava a praticare in castello, ora tanto piú che ve lo chiamava il suo ministero di medico; ma la Pisana non era di gran lunga cosí incantata di lui a Fratta, come a Portogruaro. Una volta o due gli usò una qualche attenzione, poi se ne astenne senza sforzo e a poco a poco tornò appetto a lui nella solita indifferenza. Mano a mano che Lucilio usciva dal suo cuore vi rientrava io; e non debbo nascondere che la mia gioia di questo pentimento fu cosí veemente, cosí piena come se io fossi tornato alla prima fiducia dei nostri affetti. Io era fanciullo, io le credeva ciecamente. Come ad onta delle sue passeggiere civetterie mi fidava di lei un tempo, sicuro che in fondo al cuore non ci stava che io, cosí allora tornava a persuadermi che i frutti di quel ravvedimento dovessero essere eterni. Giungeva quasi a trovare in quelle apparenti infedeltà e in quelle pronte pacificazioni una prova di piú ch'ella non poteva amare che me né vivere senza di me. Io non le mossi adunque parola delle mie torture, schivai di rispondere alle sue dimande, indovinando quasi che la confessione d'una gelosia è il piú caldo incentivo di nuove infedeltà. Accusai una bizzarria d'umore, un malessere inesplicabile, e chiusi il varco ad altre inchieste col lasciar libero campo alla mia gioia e allo sfogo d'un cuore chiuso in se stesso da tanto tempo. La Pisana folleggiava con me da vera pazzerella: pareva che quel suo ghiribizzo momentaneo non avesse lasciato traccia alcuna né nella memoria né nella coscienza; io mi consolai di ciò, mentre se fossi stato ben avveduto, avrei dovuto spaventarmene. Mi abbandonai dunque con piena sicurezza a quella corrente di felicità che mi trasportava; tanto piú sicuro e beato, che la fanciulla mi sembrò a que' giorni docile amorosa e fin'anco umile e paziente quale non era mai stata. Era un tacito compenso, offerto senza saperlo, dei torti fattimi? Non lo saprei dire. Forse anche la timorosa adorazione di Lucilio aveva svezzato per poco l'anima sua dai moti violenti e tirannici; a me dunque toccava raccogliere quello che un altro aveva seminato. Ma questo dubbio che adesso mi avvilirebbe, allora non mi passava nemmeno pel capo. Bisogna aver vissuto e filosofeggiato a lungo per imparar a dovere la scienza di tormentarsi squisitamente. La Contessa benché lievemente indisposta migliorava assai a rilento. Era cosí piena di scrupoli e di smorfie che non bastavano l'eloquenza italiana e latina del dottor Sperandio, la pazienza di Lucilio, i conforti di monsignor di Sant'Andrea, le cure del marito e della Clara e quattro pozioni al giorno, per calmarla un poco. Soltanto un giorno che le fu annunziata la visita della cognata Frumier, si riebbe subitamente e dimenticò l'infinita caterva dei suoi mali per pettinarsi, pulirsi, mettersi in capo la piú bella e rosea cuffietta della guardaroba, e farsi addobbar il letto con cuscini e coperte orlate di merlo. Da quel momento la sua convalescenza fu assicurata, e si poté cantare un Te Deum nella cappella per la ricuperata salute dell'eccellentissima padrona. Monsignor Orlando cantò quel Te Deum con tutta l'effusione del cuore, perché non si avea mangiato mai cosí male a Fratta come durante la malattia di sua cognata. Tutti erano occupati a lambiccar decotti, a preparar panatelle, a portar brodi e scodelle; e le pignatte intanto rimanevano vuote e ad ora di pranzo si doveva accontentarsi di pietanze improvvisate. Per ripristinar la famiglia nei soliti uffici e cambiare in ferma salute la lunga convalescenza della Contessa, ci vollero non meno di quattro o cinque visite della cognata; in fin delle quali eravamo giunti al cuor dell'inverno, ma la floridezza di quelle guance preziose era assicurata per altri trent'anni. Monsignor Orlando rivide con piacere il campo del focolare ripopolarsi a poco a poco dei larghi tegami e delle brontolanti pignatte. Se fosse ancora continuato quel regime di mezza astinenza egli avrebbe pagato colla propria vita la guarigione della cognata. Io e la Pisana intanto ci avevamo guadagnato alcuni mesi di buon accordo e di pace. Buon accordo lo dico, cosí per dire; perché in sostanza si era tornati alla vita di prima: agli amoruzzi cioè, ai dispetti, alle gelosie, ai rappaciamenti d'una volta. Donato, il figliuoletto dello speziale, e Sandro del mulino mi facevano talvolta crepare di bile. Ma l'era una cosa tutta diversa. A questi attucci io era abituato da molto tempo, e d'altronde la Pisana, se era duretta e caparbia nelle sue tenerezze per me, lo era a tre doppi sopra gli altri fanciulli. Né vedeva farsi in lei a vantaggio di loro quel cambiamento che la rendeva cosí umile, cosí tremante, cosí impensierita al cospetto di Lucilio nella sala della zia. Le angoscie sofferte allora non avevano lasciato per verità traccia alcuna nel mio cuore; ma ne ricordava la causa e molte volte erami venuto sulla punta della lingua di muoverne cenno alla Pisana per vedere quanto ne ricordasse ella, ed in che modo. Peraltro titubava sempre e non sarei forse venuto mai ad effettuare un tal desiderio, se ella non me ne porgeva un giorno l'occasione. Lucilio scendeva le scale dopo aver visitato la Contessa già quasi ristabilita e la vecchia Badoer, e s'avviava verso il ponticello della scuderia, riedificato con tutti gli accorgimenti d'una buona difesa, sotto la direzione del capitano Sandracca; la Clara gli veniva del paro per passar nell'orto a cogliervi quattro foglie d'erba luisa, e qualche geranio che lottava ancora contro le punture della brina. Erano corsi parecchi giorni senzaché si potessero vedere; le loro anime tumultuavano, piene di quei sentimenti che di tempo in tempo vogliono essere espressi con ardore, con libertà per non ritorcersi dentro di noi in alimento velenoso. Aspiravano all'aria libera, alla solitudine; e già, varcato il ponte e sicuri di esser soli, pregustavano la beatitudine di potersi ripetere quelle dolci dimande e quelle eterne risposte dell'amore che devono bastare ai colloqui di due che si vogliono bene. Parole mille volte ripetute, ed udite, sempre con significato e con piacere diverso; le quali basterebbero a provare che l'anima sola possiede la magica virtù del pensiero, e che il moto delle labbra non è altro che un vano balbettio di suoni monotoni senza il suo interno concento. Lucilio stava già per aprire il varco a tutto quell'amore che da tanti giorni lo soffocava, quando udí dietro di sé il passo saltellante e la vocina acuta della Pisana che gridava: - Clara, Clara, aspettami dunque, che vengo anch'io a farmi un mazzetto! - Lucilio si morse le labbra e non poté o non credette necessario celare il proprio dispetto; la Clara invece, che si era volta colla solita bontà a guardar la sorella, ebbe bisogno di osservare l'addolorato volto del giovine per rattristarsi anch'essa. Quanto a sé, il contento procurato alla fanciulletta da un mazzo di fiori l'avrebbe forse pagata delle mancate delizie d'un colloquio tanto sospirato coll'amante. Era buona, buona anzi tutto; e in anime cosí fatte perfino la violenza delle passioni s'attuta alla considerazione dei piaceri altrui. Ma al giovine non garbava forse questa facile rassegnazione, e il suo dispetto se ne accrebbe di molto. Si volse egli dunque con viso un po' arrovesciato alla Pisana, e le domandò se avesse lasciato sola la nonna. - Sí, ma ella stessa mi ha permesso di venire a coglier fiori colla Clara - rispose la Pisana stizzosamente, perché non consentiva a Lucilio l'autorità di sindacarla a quel modo. - Quando si ha cuore e gentilezza di animo, bisogna saper non usare di certi permessi; - soggiunse Lucilio - una vecchia malata e bisognevole di compagnia non va piantata lí senza ragione, per quanto essa sembri permetterci di farlo. La Pisana sentí venirsi agli occhi le lagrime della rabbia; volse dispettosamente le spalle e non rispose nemmeno alla Clara che le diceva di fermarsi e di non essere cosí permalosa. La fanciulletta corse difilato nell'anticamera della cancelleria dov'io aveva il mio studio, e rossa di sdegno e di vergogna mi saltò colle braccia al collo. - Cos'è stato? - io sclamai gettando la penna, e alzandomi da sedere. - Oh, me la pagherà il signor Merlo!... sí che me la pagherà! - balbettava fremente la Pisana. Io mi era svezzato dall'udirla adoperare questo soprannome, e non intendeva di chi volesse parlare. - Ma chi è questo signor Merlo, cosa ti ha fatto? - le chiesi io. - Eh!... il signor Merlo di Fossalta, che vuol intricarsi de' fatti miei, e interrogarmi, e correggermi, come se fossi una sua servetta!... E sí ch'io sono una contessa ed egli un cavasangue, buono al piú pei miserabili e pei villani! Io sorrisi per molte idee che mi traversarono il capo a quelle parole; e seppi poi piú chiaramente la cagione precisa di quella gran ira. Intanto approfittai dell'opportunità per tirar la fanciulla ad altri schiarimenti. - Sulle prime - le dissi - io non aveva capito a chi tu volessi alludere con quel tuo signor Merlo!... Infatti era un gran pezzo che non chiamavi il signor Lucilio a questo modo. - Hai ragione - mi rispose la Pisana - gli era proprio un secolo. E guarda che stupida!... Ci fu anche un tempo ch'egli mi piaceva; e massimamente a Portogruaro in casa della zia restava incantata a udirlo parlare. Caspita! come stavano mogi e attenti ad ascoltarlo tutti quegli altri signori! Io avrei dato non so che cosa per essere in lui a fare quella gran figura. - Gli volevi proprio bene - osservai io con un segreto tremore. - Cioè... bene...? - mormorò la Pisana pensandovi sopra sinceramente - non saprei... A questo punto vidi la bugia montarle a cavallo del naso; e capii che se non prima, almeno certamente allora, essa conosceva di qual indole fosse la sua ammirazione per Lucilio. Ebbe vergogna e rabbia di una tal confessione fatta a se medesima e rincarò poi sul biasimarlo per vendicarsene. - È brutto, è orgoglioso, è cattivo, è vestito come Fulgenzio! - Gli trovò addosso tutte le piaghe, tutti i peccati; e da molto tempo io non avea udito la Pisana parlare cosí a lungo e con tanta enfasi come in quella sua filippica contro Lucilio. Da questa banda mi tenni dunque sicuro. Ma quella virulenza stessa, se bene avessi avvisato, mi dava piú cagione di timore che di fiducia in un temperamento cosí bizzarro ed eccessivo come il suo. Infatti, ripresa che si ebbe la usanza delle due gite settimanali a Portogruaro, la Pisana tornò a raffreddarsi verso di me e ad allocchirsi nel contemplare e nell'ascoltare Lucilio. Quei discorsi, quelle proteste in odio di lui furono come non fatte; ella tornò ad adorar quello che giorni prima avea calpestato, senza vergognarsene o meravigliarsene. Stavolta il mio dolore fu meno impetuoso ma piú profondo: poiché compresi a quale altalena di speranze e di disinganni avessi affidato la fortuna dell'anima mia. Cercai di dimostrare il mio rincrescimento alla Pisana e farla ripiegare sopra se stessa a pensare cosa e quanto male faceva; ma non mi dié retta per nulla. Solamente m'accorsi che nella sua divozione per Lucilio si era anche infiltrata una dose di gelosia. Ella si era avveduta di esser posposta alla Clara, e la ne pativa acerbamente; ma per questo non s'inveleniva né contro la sorella né contro Lucilio; pareva che si tenesse contenta di amare o sicura di amar tanto, che un giorno o l'altro avrebbe dovuto avere la preferenza. Tutti questi sentimenti che le leggeva negli occhi erano ben lontani dal consolarmi. Non sapendo con chi prendermela, non con Lucilio, perché non s'accorgeva di ciò, non colla Pisana, perché non la mi badava piucché al muro, finii come l'altra volta col prendermela con me stesso. Ma il dolore, come vi diceva, se piú profondo, fu anche piú ragionevole; venni a patti con essolui, e lo persuasi che, anziché cercar fomento nell'ozio e nella noia, piú saggio partito era domandar distrazioni al lavoro ed allo studio. Mi misi di tutta schiena sopra Cicerone, sopra Virgilio, sopra Orazio: ne traduceva de' gran brani, li commentava a mio modo, e scriveva di mio capo sopra temi analoghi. Insomma posso dire che pe' miei studi classici quel secondo peccato della Pisana mi fu piucchealtro giovevole. Il Piovano si diceva contentissimo di me; si congratulava col Conte e col Cancelliere del mio amore per lo studio, e insomma tutti godevano, tutti meno io, di quei rapidi progressi. E non crediate mica che la fosse faccenda di ore e di giorni; la fu addirittura di mesi e di anni. Solamente vi si frapponevano i soliti respiri, le solite tregue. Ora la stagione rotta, ora le strade disfatte, ora il soverchio caldo e la brevità delle sere, ora le gite dei Frumier ad Udine, sospendevano la frequenza dei Conti di Fratta a Portogruaro. Allora risorgeva l'amore della Pisana per me, col solito corredo delle lusingherie per Sandro e per Donato: da ultimo ella sembrava accorgersi del mio malumore anche durante la sua fase di furore per Lucilio, e la mi compativa e la mi dava in elemosina qualche occhiata e perfino anche qualche bacio. Io pigliava quello che mi davano come un vero accattone; il dolore mi aveva uguagliato al pavimento, come dice quel salmo; e mi avrei lasciato pestare, premere e sputacchiare senza risentirmene. Ciò non toglie che non diventassi ogni giorno piú un latinista di vaglia; e sudava e impallidiva tanto sui libri, che Martino alle volte mi diceva che gli avrebbe quasi piaciuto di piú il vedermi girare lo spiedo come agli anni addietro. Non importa. Io aveva scoperto da per me quel gran aiuto a vivere che si ha nel lavoro, e checché ne pensasse Martino, credo che sarei stato piú misero di gran lunga se avessi svagato i miei dolori nella dissipazione o accresciutili coll'ozio. Almeno ne guadagnai che di poco oltrepassati i quindici anni io potei sostenere al Seminario di Portogruaro un esame di grammatica, di latino, di composizione, di prosodia, di rettorica e di storia antica; dal quale me la cavai con una gloria immortale. Figuratevi che in tre anni scarsi io aveva imparato quello che gli altri in sei!... Dopo un sí pieno trionfo fu deciso in famiglia che mi avrebbero mandato a Padova a prendervi i gradi di dottore; ma intanto ebbi un posto fisso come vice-officiale in cancelleria col soldo annuo di sessanta ducati, che equivalevano a quattordici soldi il giorno. Poco, pochissimo certo; ma io fui molto contento d'intascare alcune monete dicendo: "Queste qui son proprio mie, perché me le son guadagnate io!". La nuova dignità a cui era salito fece anche sí che avessi un posto alla tavola dei padroni, e che potessi entrare nella sala di casa Frumier stando seduto vicino al Cancelliere a guardarlo giocare il tresette. Questa occupazione mi quadrava pochissimo; ma altrettanto mi garbava l'aver sempre sott'occhio la Pisana, e rodermi continuamente degli attucci che ella faceva per dimostrar il suo amore a Lucilio. Davvero che a ripensarvi ora, devo riderne a piena gola; ma in quel tempo la cosa era diversa. Me ne piangeva il cuore a lagrime di sangue. La Pisana intanto era cresciuta anch'essa una vera zitella. Non la toccava i quattordici anni che la parea già perfetta e matura. Non molto grande, no; ma di forme perfettissime, ammirabile soprattutto nelle spalle e nel collo: un vero torso da Giulia, la nipote di Augusto: la testa un po' grande ma corretta con un bellissimo ovale; e poi capelli alla dirotta, occhi umidi sempre e languenti come di fuoco nascosto, sopracciglia sottilissime, e un bocchino poi, un bocchino da dipingere o da baciare. Voce rotonda e sonora, di quelle che non tintinnano dal capo, ma prendono i loro suoni dal petto, dove batte il cuore; un andare, ora quieto ed uguale come di persona che discerna poco, ora saltellante e risoluto come d'una scolaretta in vacanza; adesso muta, chiusa, pensierosa, di qui a poco aperta, ridente, se volete anche, ciarliera; ma già le ciarle essa le avea perdute e ben presto: si vedeva già a quattordici anni che altri pensieri la preoccupavano tanto da farle restar torpida la lingua. Cosí stava da vera donnetta in conversazione; uscita poi, e sciolta dai rispetti umani, i diritti, dell'età si impadronivano di quel corpicciuolo ben tornito e gli facevano fare le piú gran capriole, i piú bizzarri contorcimenti del mondo. Allora aveva del ragazzaccio piú del bisogno; come invece in sala si atteggiava a donnina languida e leziosa. A questo modo me la ricordo in quegli anni di transizione, ora bambina affatto ed ora donna matura; ma in quanto all'animo, al temperamento, i difetti della bambina si disegnavano cosí esatti nella donna che non mi accorsi certamente del punto in cui questi supplirono a quelli. Gli uni forse non furono che la continuazione degli altri, e il loro sviluppo naturale. Eccomi ora ad un punto, dal quale ebbe a cominciare un mio nuovo tormento, o meglio ad accrescersi uno già incominciato. Circa a quel tempo uscí di collegio il signor Raimondo di Venchieredo e venne ad abitare nel suo castello vicino a Cordovado; ma siccome non toccava ancora gli anni della maggiore età, cosí un suo zio materno di Venezia, che gli era tutore, lo affidò alla sorveglianza d'un precettore, d'un certo padre Pendola, che, venuto a Venezia non si sapeva donde, erasi acquistato una grandissima opinione di erudito. Questo abate misterioso ebbe certo le sue ottime ragioni per accettare l'incarico: e in confidenza io credo che fosse di soppiatto un beniamino degli Inquisitori di Stato. Lo si diceva romagnuolo di nascita, ma viaggiava con passaporto russo; si sa che i RR. PP. Gesuiti dopo la soppressione dell'ordine loro s'erano ricoverati a Pietroburgo e che la Repubblica di Venezia non s'era mai professata loro protettrice. Ad ogni modo le massime politiche della Signoria non erano piú quelle di fra Paolo Sarpi quando il padre Pendola si stabilí col suo alunno a Venchieredo; e tanto egli, come il giovane castellano, fecero grandissimo colpo nella società di Portogruaro che s'era affrettata ad invitarli e a festeggiarli. La Pisana, dopo la prima comparsa di questo giovine nelle sale Frumier, si dimenticava sovente di Lucilio per badare a lui; io poi seduto vicino al Cancelliere mi rodeva l'anima, e gettava le mie occhiate al vento. CAPITOLO SETTIMO Contiene il panegirico del padre Pendola e del suo alunno. Due matrimoni andati in fumo senza un perché. La contessa Clara e sua madre si trapiantano a Venezia, dove le segue il dottor Lucilio, e diventa assai famigliare della Legazione francese. Perché io mi stancassi della Pisana, e mi mettessi a vagheggiare tutto il bel sesso dei dintorni: perché finissi col vagheggiare la giurisprudenza all'Università di Padova, dove rimasi fino all'agosto del 1792 odorando da lontano la rivoluzione di Francia. Le lusinghe della signora Contessa pel collocamento della Clara parve sulla prime che non dovessero andar deluse. Tutti, si può dire, i giovani di Portogruaro e dei dintorni le morivano cogli occhi addosso; non l'avrebbe avuto che a scegliere per essere subito impalmata da quello fra essi che meglio le fosse piaciuto. Primo di tutti il Partistagno la riguardava come cosa sua; anzi quando osservava che altri la contemplasse con troppa devozione, permetteva alla propria fisonomia certi atti di malcontento, che dichiaravano apertamente le intenzioni dell'animo. Nella sua entrata in casa Frumier erasi egli imprudentemente accostato al crocchio del padrone di casa; ma poi avea dovuto sloggiare, perché non era tanto gonzo da non vedere la meschina figura che vi faceva. Allora avea preso posto fra due vecchie ed un monsignore ad un tavolino di tresette, e di là seguitava la antica usanza di onorare continuamente la Clara delle sue occhiate conquistatrici. Quest'abitudine non talentava gran fatto a' suoi compagni di gioco; laonde a quel tavoliere era un eterno brontolio di richiami e di rimproveri. Ma il bel cavaliero restava imperturbabile; pagava le partite perdute, le faceva pagare al compagno, e non si scomponeva per nulla. Fortuna che era giovine e bello: per cui le vecchiette gli perdonavano le sue distrazioni, e il monsignore, essendo padre spirituale di una fra queste, doveva di necessità perdonargli anche lui. Il marchesino Fessi, il Conte Dall'Elsa e qualche altro aristocratico zerbino della città corteggiavano essi pure la Clara. Ma l'assedio galante di questi signori era meno discreto; le occhiate erano il meno; si sbracciavano in inchini, in complimenti, in lodi, in profferte. Facevano gli scherzosi col braccio arrotondato sul fianco e la gamba protesa; quando poi indossavano il vestito gallonato delle domeniche, il loro brio non aveva piú freno. Giravano fra le seggiole delle signore, si curvavano su questa e su quella, consigliavano ora un giocatore ed ora un altro; ma ponevano somma cura di non restar invischiati in nessuna partita. I giovani abati e il professor Dessalli in particolare, sedevano assai volentieri qualche quarto d'ora vicino alla Clara: il loro abito li proteggeva dalle maligne calunnie, e il contegno della zitella era tale che molto si affaceva colla gravità sacerdotale. Insomma la bionda castellana di Fratta avea messo in subbuglio tutte le teste della conversazione; ed ella ebbe la strana modestia di non accorgersene. Giulio Del Ponte, che non era il meno infervorato, si maravigliava e si stizziva di tanto riserbo; egli andava anzi piú oltre, e benché non ne parasse nulla, avea concepito qualche sospetto sopra Lucilio. Infatti soltanto un cuore già occupato da un grande affetto poteva resistere freddamente a tutta quella giostra d'amore che torneava per lui. E chi mai poteva aver fatto breccia colà, se non il dottorino di Fossalta? - Cosí la pensava il signor Giulio; e dal pensare al bisbigliarne qualche cosa, il tratto fu piú breve d'un passo di formica. Cominciavano a pigliar fiato cotali mormorazioni, quando il padre Pendola presentò il giovine Venchieredo in casa Frumier. Il Conte di Fratta ne rimase un po' imbarazzato; perché non si dimenticava che se non per opera, certo per tolleranza sua, il padre di quel cavalierino mangiava il pane bigio nella Rocca della Chiusa. Ma la Contessa, che era donna di talento, trascorse un bel tratto innanzi coll'immaginazione, e architettò di sbalzo un disegno che poteva togliere fra le due case ogni ruggine. Il Partistagno, nel quale aveva posto grandi speranze dapprincipio, non dava sentore di volersi muovere; adunque qual male sarebbe stato di tirare il Venchieredo ad un buon matrimonio colla Clara?... Riuniti cosí gli interessi delle due famiglie, si avrebbe avuto il diritto di adoperarsi per la liberazione del condannato; allora la riconoscenza e la felicità avrebbero dato di frego alle brutte memorie del tempo trascorso; e che si potesse giungere a sí lieta conclusione ne dava caparra la protezione validissima del senatore Frumier. Il padre Pendola era un sacerdote di coscienza e un uomo di molto garbo; capacitatolo una volta della convenienza di questo maritaggio, egli ne avrebbe persuaso certamente il suo alunno; dunque bisognava cominciare per di là, e l'accorata dama si pose immantinente all'opera. Il reverendo padre non era di coloro che vedono una spanna oltre al naso, e vogliono dar ad intendere di vederci lontano un miglio; anzi tutt'altro; vedeva lontanissimo e portava gli occhiali con una cera rassegnatissima di minchioneria. Ma io credo che non gli bisognarono due alzate d'occhi per leggere nel cervello della Contessa; e contento d'essere accarezzato corrispose alle premure di lei con una modestia veramente edificante. "Poveretto! - pensava la signora - crede che lo vezzeggi pel suo raro merito! È meglio lasciarglielo credere; ché ci servirà con miglior volontà". Il giovine Venchieredo intanto correva incontro di gran lena agli onesti divisamenti della Contessa. Si può dire che di colpo egli restò innamorato della Clara. Innamorato proprio come un asino, o come un giovinetto appena uscito di collegio. Cercava tutte le maniere di piacerle, si studiava di sederle piú vicino che potesse per toccar se non altro col ginocchio le pieghe del suo abito, la guardava sempre e delle sue poche e timorose parole non facea dono che a lei sola. La provvida mamma era al colmo della consolazione; precettore e scolaro calavano innocentemente alle vischiate che con tanta accortezza ella avea saputo disporre. Ma il padre Pendola non si sgomentiva di quelle scalmane amorose del giovine; egli conosceva il suo alunno meglio della Contessa, e lasciava correr l'acqua alla china finché gli tornava comodo. A dirla schietta il signor Raimondo (cosí chiamavasi il figlio del castellano di Venchieredo) piú assai della Clara amava all'ingrosso il sesso gentile. Appena messo piede nel territorio della sua giurisdizione egli avea dato indizio di questa parte principalissima del suo temperamento con una caccia furibonda a tutte le bellezze dei dintorni. I padri, i fratelli, i mariti avevano tremato di questi preludii guerrieri, e le nonne barbogie ricordarono palpitando sotto la cappa del camino i tempi del suo signor padre. Il focoso puledro non rispettava né fossi né siepi, varcava quelli d'un salto, sforacchiava queste senza misericordia, e senza badare né a tirate di redini né a minaccie di voci, menava calci a dritta ed a sinistra per penetrare nel pascolo che piú gli piaceva. La sua autorità peraltro non era ancora tanto formidabile da impedire che a qualcheduno non saltasse la mosca al naso per tali soperchierie. Qualche padre, qualche fratello, qualche marito cominciò a menar rumore, a minacciar rappresaglie, vendette, ricorsi. Ma allora capitava col suo collo torto, colla sua faccia compunta il reverendo padre: - Cosa volete!... Sono castighi della Provvidenza, sono cose spiacevoli ma che bisogna sopportarle come ogni altro male, per la maggior gloria di Dio!... Anche a me, vedete, anche a me sanguina il cuore di vedere queste mariuolerie!... Ma mi confido al Signore, ne piango dinanzi a lui, mi consolo con lui. Se egli vorrà, spero che non siano nulla piú che ragazzate; ma bisogna meritarselo colla pazienza il bene che egli vorrà concederci!... Unitevi con me, figliuoli miei! Piangiamo e soffriamo insieme, ché ne avremo anche insieme la ricompensa in un mondo migliore di questo. E i dabbenuomini piangevano con quella perla d'uomo, e soffrivano con lui; egli era l'angelo custode delle loro famiglie, il salvatore delle loro anime. Guai se egli non ci fosse stato! Chi sa quanti scandali, quanti processi avrebbero turbato il paese. Fors'anche si sarebbe sparso del sangue, perché proprio lo sdegno toccava l'ultimo segno. Ma il buon padre li consolava, li calmava, e tornavano agnellini a lasciarsi pelare e, peggio, con rassegnazione. Egli poi, dopo averli ridotti a dovere, pigliava a quattr'occhi il giovine scapestrato e gli impartiva una gran satolla di ottimi consigli. - No, non era quello il modo di guadagnarsi l'affetto della gente, e di serbare il decoro e le dovizie della casa! Anche fra i suoi vecchi ce n'erano stati di giovani, di peccatori; ma almeno si comportavano con prudenza, non menavano in pompa le loro colpe, non si esponevano stoltamente all'ira degli altri, evitavano il cattivo esempio, e non aizzavano il prossimo a quel peccataccio turco e scomunicato che è la vendetta! Oh benedetta la prudenza degli avi! - Il giovinastro, com'era ben naturale, pigliò di questi consigli la parte che gli quadrava meglio; si diede a pensar le cose prima di farle, e a nasconderle bene dopo averle fatte. La gente non gridò piú tanto; le spose e le ragazze del paese beccarono qualche spillone, qualche grembiule di seta; il padre Pendola era benedetto da tutti, e il nuovo castellano dovette forse a lui, se non la salute dell'anima, certo quella del corpo. Infatti la fama che lo avea dipinto sulle prime come il vero flagello della castità si tacque improvvisamente; Raimondo ebbe voce di giovine discreto e gentile; gli piaceva sí scherzare, ma non fuori dei limiti; e non si schivava dall'usar cortesia a qualunque genere di persone. Per esempio egli adorava tutti i mariti che avevano mogli giovani e leggiadre; fossero benestanti o mandriani non fu mai caso che egli usasse loro il benché minimo malgarbo. Ascoltava pazientemente le loro filastrocche, li raccomandava al Cancelliere, al fattore; e portava loro fino a casa la risposta di un'istanza esaudita, o d'un conto saldato. Se anche poi il galantuomo si trovava per avventura assente, egli pazientava aspettandolo, e la moglie poi si lodava assaissimo al marito dell'urbanità e della modestia del padrone. In verità il solo padre Pendola sapeva fare di tali conversioni; e in tutta la popolazione e nel clero dei dintorni fu una voce generale a proclamarlo una specie di taumaturgo. La Doretta Provedoni era stata fra le prime ad attirare i pronti omaggi di Raimondo; ma a Leopardo non andavano a' versi la smancerie del cavaliere, e con grandi strepiti della moglie avea trovato modo di cavarselo dai piedi. A udir la donna, il signorino usava de' suoi diritti; erano fratelli di latte, avean giocato insieme da bambini, e non era strano ch'egli le serbasse ancora qualche affettuosa ricordanza. Il vecchio, i fratelli, le cognate, paurosi d'inimicarsi il giurisdicente, tenevano per lei, e censuravano Leopardo come un orso geloso ed intrattabile. Ma finché Raimondo continuò nella sua vita scapestrata egli aveva ragioni bastevoli da opporre alle loro; e la Doretta rimase col suo grugno senza poterla spuntare. Venne poi il momento della conversione: si cominciò a parlare del miracolo operato dal padre Pendola e del meraviglioso ravvedimento del giovine signore. Allora tutti furono addosso con grandi rimproveri a Leopardo; la Doretta non vociava, non strepitava, ma si fingeva offesa dai sospetti ingiuriosi del marito. Questi, sincero, e credenzone e avvezzo ad arrendersi a lei in ogni altra cosa pel cieco affetto che le portava, confessò di essere stato ingiusto; e pur di non vederla patire, consentí che l'andasse a trovar suo padre a Venchieredo, com'era stata sua usanza prima che Raimondo fosse uscito di collegio. Il giovine castellano accolse con molta umanità la sua sorella di latte; si stupí di non averla mai trovata in casa le molte volte che era stato a Cordovado per salutarla; e andò anche in collera perché non gli avesse ancora fatto conoscere suo marito. Leopardo fu persuaso alla fine che le apparenze lo avevano ingannato sulle mire di Raimondo; innamorato della moglie com'era, se ne lasciò dir tante, che finí col domandarle scusa; e poi s'affrettò a far visita con lei al castellano, e tornò a casa edificato di tanta affabilità, di tanto riserbo, benedicendo anche lui il padre Pendola, e permettendo alla moglie d'andare a stare a Venchieredo quanto piú la piacesse. Cosí s'era venuto perfezionando Raimondo nelle sue arti di feudatario; e di pari passo anche la sua idolatria per la Clara aveva imparato modi piú discreti ed accorti. La Contessa temendo ch'egli si raffreddasse credette giunto il momento di tastare il padre Pendola. Lo invitò parecchie volte a pranzo, lo volle seco alla partita della sera; dimenticò monsignore di Sant'Andrea per andarsi a confessare da lui; e infine quando credette il terreno apparecchiato a dovere, pose mano a seminare. - Padre - gli disse ella una sera in casa Frumier, dopo aver abbandonato il gioco per non so qual pretesto, ed essersi ritirata con lui su un cantone della sala - padre, ella è ben fortunato di aver un allievo che le fa onore! La Contessa volse un'occhiata quasi materna a Raimondo che ritto dinanzi a Clara aspettava ch'ella avesse finito di prendere il caffè per ricevere la tazzina. Il reverendo padre posò sul giovane una simile occhiata, raggiante in pari proporzioni di affetto e di umiltà. - La ha ragione, signora Contessa - rispose egli - son proprio fortune; poiché del resto il precettore ha ben poca parte nei meriti dell'allievo. Terra buona dà buon frumento solo volerlo raccogliere; e terra magra non dà nulla, quantunque si voglia inaffiarla con secchie di sudore. - Oibò, padre; non dirò mai questo! - ripigliò la Contessa - la invidiava giusto appunto perché ella si è trovata in grado di meritare e di procurarsi una tale fortuna. Secondo me la buona educazione d'un giovine collocato in cosí buon punto per far del bene, è il merito piú grande che si possa vantare verso la società! - Quello d'una nobildonna che educa e forma delle ottime madri di famiglia non è certo minore - rispose il reverendo. - Oh, padre! noi ci mettiamo poco studio. Se il Signore ce le dà belle e buone, la grazia è sua. Del resto una saggia economia, un buon ordine di casa, una buona dose di timor di Dio, e la dote della modestia sono tutti i pregi delle nostre figliole. - E lei ci dice niente, lei?... Economia, buon ordine, timor di Dio, modestia!... Ma c'è tutto qui, c'è tutto!... Sarei anche per dire che ce n'è d'avanzo; perché già il buon ordine insegna gli sparagni, e il timor di Dio conduce all'umiltà. Mi creda, signora Contessa, fossero donne cosifatte sui piú gran troni della terra, ancora ci farebbero una degna figura! Il cuore della Contessa si slargò come una rosa a una lavata di pioggia. Corse collo sguardo dal buon padre Pendola alla Clara, dalla Clara a Raimondo, e da questo ancora all'ottimo padre. Questa giratina d'occhi fu come il tema della sinfonia che si apprestava a suonare. - Mi ascolti, padre reverendo - continuò, tirandosegli ben vicina all'orecchio benché monsignore di Sant'Andrea la fulminasse con due occhi di basilisco dal suo tavolino di picchetto. - Non è vero che al primo comparire del signor Raimondo, da queste parti si mormoravano contro di lui... certe cose... certe cose... La Contessa balbettava, quasi sperando che l'ottimo padre le porgesse quella parola che le mancava; ma questi stava, come si dice, in guardia, e rispose a quel balbettamento con un'attitudine di maraviglia. - La mi capisce; - continuò la Contessa - io non accuso già nessuno, ma ripeto quello che diceva la gente. Pareva che il signor Raimondo non dimostrasse inclinazioni molto esemplari... Già ella sa che a questo mondo i giudizi si precipitano; e che sovente le sole apparenze... - Pur troppo, pur troppo, cara Contessa; - la interruppe con un sospirone il reverendo - crederebbe ella che né io né lei siamo al sicuro contro questo orco maledetto della calunnia? La signora si pizzicò le labbra coi denti, e palpò se i nastrini della cuffia erano al loro posto. Avrebbe anche voluto diventar rossa; ma per ottener questo effetto convenne che la si decidesse a tossire. - Cosa dice mai, padre reverendo? - continuò ella sommessamente - la mi creda che da centomila bocche una voce sola s'accorda a celebrare la sua santità... Quanto a me poi son troppo piccola e brutta cosa perché... - Eh, Contessa, Contessa!... ella vuol burlarsi di me. Una gran dama nei tempi che corrono compera agli occhi del mondo un intero seminario di preti, ed esse sole hanno il privilegio di far parlare o in bene o in male le intere città. Quanto a noi, è troppo se degnano renderci il saluto. La Contessa, troppo boriosa per lasciar cadere un complimento senza raccoglierlo, e poco accorta per tagliar di botto tutte queste frasche inutili del discorso, andò via colla lingua dove la menava il reverendo padre, sempre allontanandosi dalla meta che s'era prefissa nel cominciare. Ma il buon padre non era un allocco; prima d'ingarbugliarsi in certi fastidi volea capire qual pro' ne avrebbe cavato, e chi era quella gente con cui doveva accomunarsi. Per quel giorno non giudicò opportuno toccar l'argomento, e barcamenò cosí bene che quando si alzarono dal gioco per andarsene, la Contessa narrava, credo, le sue delizie giovanili, e i bei tempi di Venezia, e Dio sa quali altri vecchiumi. Accorgendosi che era venuto il momento di partire, si morsicò un poco le unghie; ma quell'ora le era scappata via cosí premurosa, il buon padre l'aveva trattenuta con sí interessanti discorsi, che proprio il discorso principale le era rimasto a mezza gola. Quanto al sospettare che l'ottimo padre l'avesse condotta, come si dice, in cerca di viole, la Contessa ne era lontana le cento miglia. Piuttosto si stizzí colla propria loquacia, e fece proponimento di esser piú sobria un'altra volta, e di scordar il passato per curare il presente. Ma la seconda volta fu come la prima, e la terza come la seconda; e non era a dirsi che il padre la schivasse o che dimostrasse di conversar con lei a malincuore. No, ché anzi la cercava, la visitava sovente, e non era mai il primo ad accomiatarsi, se il pranzo imbandito o l'ora tarda non lo costringevano a ritirarsi. Soltanto o l'occasione non si presentava mai di intavolar quel discorso, o il caso voleva che la Contessa se ne smemorasse, quando avrebbe potuto accoccarlo meglio a proposito. Bensí il padre Pendola non rimaneva ozioso nel frattempo; studiava il paese, la gente, le magistrature, il clero; si addentrava nelle grazie di quel signore o di quella dama; si piegava ai vari gusti delle persone per esser gradito ovunque e da tutti; soprattutto poi cercava ogni via di entrar in favore a Sua Eccellenza Frumier. Ma in questa faccenda l'andava da marinaio a galeotto; e il padre lo sapeva, e preferiva andar sicuro per le lunghe al precipitarsi sul primo passo. Dopo un paio di settimane egli diventò un essere necessario nel crocchio del Senatore. In fino allora vi avea regnato una vera anarchia di opinioni; egli intervenne ad accordare, a regolare, a conchiudere. Gli è vero che le conclusioni zoppicavano, e che sovente un epigramma di Lucilio le aveva fatte capitombolare con grandi risate della compagnia. Ma il pazientissimo padre tornava a rialzarle, ad assodarle con nuovi puntelli; infine stancheggiava tanto gli amici e gli avversari che finivano col dargli ragione. Il Senatore ci pigliava gusto in queste esercitazioni dialettiche. Egli era di sua natura metodico; e avvezzo per lunga pratica alle tornate accademiche, gli piacevano quelle dispute che dopo aver divertito qualche mezz'ora creavano se non altro un qualche fantasma di verità. Il padre Pendola riesciva a quello che egli non avea mai potuto ottenere da quei cervelli briosi e balzani che gli faceano corona. Perciò gli concesse una grande stima di logico perfetto; il che nella sua opinione era il piú grand'onore che potesse concedere a chichessia. Non indagava poi se il padre Pendola fosse logico con se stesso, o se la sua logica cambiasse gambe ogni tre passi per andar innanzi. Gli bastava di vederlo arrivare: non importava se colle grucce di Lucilio, o con quelle del professor Dessalli. Sia detto una volta per sempre che quell'ottimo padre aveva un occhio tutto suo per discerner l'animo delle persone; e perciò in un paio di sere non solamente aveva capito che l'affetto del nobiluomo Frumier voleva essere conquistato a suon di chiacchiere, ma aveva anche indovinato la qualità delle chiacchiere bisognevoli a ciò. Lucilio, che in fatto d'occhi non istava meno bene del reverendo, s'accorse tantosto che gatta ci covava; ma aveva un bel che fare di schiudersi un finestrello nell'animo di lui. La tonaca nera era d'un tessuto cosí fitto, cosí fitto, che gli sguardi ci spuntavano contro; e il giovinotto si vedeva costretto a lavorare coll'immaginazione. Finalmente venne il giorno che il padre Pendola lasciò spiegare alla Contessa quel suo disegno cosí a lungo accarezzato. Egli avea saputo quanto gli occorreva sapere; avea preparato ciò che bisognava preparare; non temeva piú, anzi bramava che la Contessa ricorresse a lui per poterle con bel garbo rispondere: "Signora mia, questo io prometto a lei, se ella promette quest'altro a me!" - Ora, domanderete voi, cosa desiderava l'ottimo padre? - Una minuzia, figliuoli, una vera minuzia! Siccome maritando il signor Raimondo colla contessina Clara, il precettore diventava una bocca inutile nel castello di Venchieredo, cosí egli aspirava al posto di maestro di casa presso il Senatore. La dama Frumier aveva fama di divota; egli l'aveva toccata sopra questo tasto e il tasto aveva corrisposto bene: restava alla cognata il compir l'opera, se pure voleva vedere accasata la figlia in modo tanto onorevole. Il povero padre era stanco, era vecchio, era amante dello studio; quello era un posto di riposo che gli sarebbe sembrato la vera anticamera del paradiso; il prete che lo occupava allora desiderava una cura d'anime; potevano accontentarlo e insieme accontentar lui che non si sentiva piú né lena né sapienza bastevoli per lavorare operosamente nella vigna del Signore. S'intende sempre che l'ottimo padre insinuò queste cose in maniera da sembrare che la Contessa gliele strappasse dalle labbra, e non che egli ne la pregasse lei. - Oh, santi del paradiso! - sclamò la signora - qual consolazione per mio cognato! che aiuto di spirito per la cognata! che, padre reverendo! lei vorrebbe proprio adattarsi alla vita meschina d'un maestro di casa? - Sí, quando il mio alunno si maritasse - rispose il padre Pendola. - Oh, si mariterà, si mariterà! non li vede? paiono proprio fatti l'uno per l'altra. - Infatti se io dicessi una parola... Raimondo... Basta! mi lasci studiare i loro temperamenti, che li osservi un pochino anch'io... - Eh, cosa serve mai studiarli questi cuori di vent'anni? Non li vede, no!? basta una squadrata negli occhi... i loro pensieri, i loro affetti sono là. E poi si fidi di me!... Sono tre mesi, sa, ch'io li studio tutte le sere. Si figurerebbe lei, padre reverendo, che da sei settimane io meditava di farle questo discorso e che me ne è sempre mancato il coraggio? - Davvero, signora Contessa?... Oh cosa la mi conta! Mancare il coraggio a lei di chiamarmi a parte di un'opera di tanta carità e di tanto utile e di tanto lustro per due intere famiglie! - Non è vero, padre, che la pensata è buona?... E non sarà un bel regalo di nozze se si otterrà dall'Inquisitore di veder graziato del resto della pena quell'altro poveretto?... Cosí finirà una lunga serie di dissidi, di malanni, di sciagure che affliggeva tutte le anime buone dei nostri paesi! - Oh sí, certo! e io mi ritirerò contento, se potrò affidare la felicità del mio figliuolo d'anima a una sí compita sposina; ma son cose, Contessa mia, che vanno ponderate a lungo. Appunto perché io posso molto sull'animo di Raimondo... - Sí, giusto per questo la prego di volergli chiarire tutti i vantaggi che verrebbero ad ambedue le case da questo sposalizio... - Voleva dire, signora Contessa, che appunto per la responsabilità che mi pesa addosso mi bisognerà camminare coi calzari di piombo. - Eh via! a lei, padre, basta un'occhiata per veder tutto!... Oh quanto mi tarda di veder stabilito questo ottimo patto di alleanza!... E mio cognato come sarà contento di poter avere in casa un uomo del suo calibro!... Domani subito penseranno a provvedere d'una prebenda il cappellano attuale. Giacché lo desidera, nulla di meglio! - Pure, signora Contessa... - No, padre, non faccia obbiezioni... la mi prometta di far questa grazia a mio cognato! giacché gli è scappata una parola non la ritiri... - Io non dico di ritirarla, ma... - Ma, ma, ma... non ci sono ma!... Guardi guardi un po' ora il signor Raimondo e la mia Clara! Come si guardano!... Non sembrano proprio due colombini... - Se il Signore vorrà, non vi sarà mai stata un coppia piú perfetta. - Ma i disegni del Signore bisogna aiutarli, padre, e a lei tocca prima degli altri che è un suo degnissimo ministro... - Indegno, indegnissimo, signora Contessa! - Insomma io li aspetto domani a pranzo... me ne dirà qualche cosa del suo Raimondo. - Accetto le sue grazie, signora Contessa; ma non so... cosí a precipizio... Insomma non prometto nulla... Basta, mi costerà assai dividermi da quel buon figliolo. - Le assicuro che i miei cognati la compenseranno ad usura di quanto ella sarà per perdere. - Oh sí, lo credo, lo spero; ma... - Insomma, padre, a domani. Parleremo, ci concerteremo; io ne butterò un cenno stasera al Senatore, giacché appunto restiamo con lui a cena. - Oh, per carità, signora Contessa, non mi esponga, non mi comprometta troppo. È proprio per me un sacrificio che... - Oh bella! vorrebbe dunque per egoismo lasciar senza sposa quel caro figliuolo! Che precettore cattivo! A domani, a domani, padre; e venga per tempo che discorreremo mentre bolliranno i risi. - Servo umilissimo della signora Contessa, non mancherò certamente, e Dio meni a buon fine le nostre intenzioni. Il buon padre infatti, uscito che fu di casa Frumier con Raimondo e sprofondato nei comodi sedili d'un bombé, cominciò subito a lodarlo della vita ch'egli menava e del buon uso fatto de' suoi consigli. Ma i proponimenti dell'uomo sono fallaci, le sue passioni prepotenti, e non mai abbastanza commendevole la cura di frenarle, di regolarle con vincoli sacri e legittimi. Egli toccava il ventunesimo anno; il momento non poteva esser migliore, ed egli se gli profferiva, l'ottimo padre, a soccorrerlo nella scelta colla sua lunga ed oculata esperienza. - Oh; padre; dice da senno? - sclamò Raimondo. - Lei mi esorta a maritarmi?... Ma un anno fa non mi inculcava sempre la massima, che bisognava esser maturi di anni e di senno per decidersi a piantare una famiglia? e che l'aiuto d'un precettore di mente e di cuore comprava benissimo il soccorso spesso lieve e manchevole d'una donnicciuola? - Sí, figliuolo mio; - rispose candidamente il precettore - questi consigli io vi davo nell'ultimo anno che fui vostro maestro nel collegio; e credeva fossero ottimi; ma allora non vi aveva ancora osservato nella libertà del mondo. Ora che vi conosco meglio nella pratica della vita, non mi vergogno dal ricredermi, e dal confessare che m'era ingannato. Lo vedete bene, parlo a mio danno. Quando la sposa entrerà in questo castello per una porta, io necessariamente dovrò uscire dall'altra... - Oh no, padre! non dica questo! non mi tolga il soccorso dell'opera sua e del suo consiglio!... Mi creda che io non dimenticherò mai quanto le devo! Anche due mesi fa quei passatori di Morsano mi avrebbero accoppato, se ella non li riduceva a piú discreti sentimenti facendo loro accettare una piccola riparazione in denaro! E dire che io non aveva tocco un dito a quella loro sorella... Glielo giuro, padre! - Sí, figliuolo, vi credo pienamente; ma non dovete offendere la mia modestia col ricordare questi debolissimi meriti; vi prego a dimenticarli, o almeno a non parlarne piú. Quello che è stato è stato!... Come vi dico, io mi ricredo da quello che pensava utile a voi un anno fa; ora mi piacerebbe vedervi accasato stabilmente, ed onorevolmente. Lasciandovi al fianco una sposina buona, paziente, divota, io mi ritirerei piú contento nella nicchia della mia vecchiaia... - Ma padre! non mi dicevate voi sempre che anche maritandomi io, voi sareste rimasto il paciere, il consolatore, il vincolo spirituale fra me e mia moglie! che per oro al mondo non avreste consentito di separarvi da me?... Il padre Pendola infatti avea parlato molte volte su questo tenore finché non avea sperato di giungere a un miglior posto. Allora che gli veniva fatto d'intravvedere di meglio pescando nei torbidi ecclesiastici di Portogruaro, diede a quelle sue parole una piú larga interpretazione. - Dissi cosí, e non nego ora quello che dissi tante volte - soggiunse egli. - Il mio spirito rimarrà sempre fra voi, perché la parte sua migliore si è transfusa nell'anima vostra col santo canale dell'educazione; e quanto alla sposa, siccome io avrei cura di sceglierla conforme alle massime della buona morale, essa corrisponderà perfettamente alle mire ch'io ho nel confidarvela. Questo, Raimondo, questo è quel vincolo spirituale che dipende dalla piú intima parte del mio cuore e che rimarrà sempre fra voi e vostra moglie!... Raimondo a questi schiarimenti del precettore non si mostrò forse cosí malcontento come ne sarebbe rimasto tre mesi prima. Ma in quel momento giungevano al castello, e il colloquio restò sospeso fin dopo cena. Allora lo ripresero di comune accordo, perché al giovine tardava l'ora di conoscere il nome della sposa che nel cervello del padre Pendola gli veniva destinata. - Raimondo, quel nome voi lo sapete! - disse con voce di dolce rimprovero il soavissimo padre - io ve lo leggo negli occhi, e voi avete peccato di poca confidenza nel vostro unico amico a non partecipargli il voto del vostro cuore. - Che! sarebbe vero? Ella, padre, lo ha indovinato cosí presto? - Sí, figliuol mio, tutto s'indovina quando si ama. E vi confesso che se la vostra ritenutezza mi afflisse, mi consolò assaissimo la buona scelta che vi venne fatta e che non mancherà d'infiorare la vostra vita di gioie imperiture... - Oh, padre! non è vero che è bella come un angelo?... Ha osservato, padre, che occhi, e quali spalle!... Oh Dio mio, io non ho veduto mai spalle cosí tornite! - Questi sono pregi fugaci, figliuol mio, sono ornamenti esteriori del vaso che poco contano se non vi si contiene un aroma odoroso ed incorrotto. Io peraltro vi posso assicurare che l'animo della Contessina corrisponde appunto a quanto promettono le sue sembianze. Ella sarà veramente un angelo, come dicevate poco fa... - Ma me la daranno poi, padre dilettissimo?... Consentiranno a darmela in isposa? Io ho tutta la fretta immaginabile!... Vorrei averla meco domani, oggi stesso se fosse possibile; e la è ancora cosí tenerella, quasi ancora fanciulla... - Vi sbagliate, figliuol mio, la modestia e il candore ve la fanno sembrare piú giovine ch'ella non sia; per l'età ella vi si attaglia benissimo, e di poco vi deve esser minore. - Come? cosa mi conta? la contessina Pisana avrebbe all'incirca la mia età? - Raimondo, voi scambiate i nomi; la contessina ha nome Clara e non Pisana; Pisana è la sua sorellina, quella fanciulletta che stasera stava seduta fra voi e monsignore di Sant'Andrea. - Ma gli è appunto di quella che io intendo parlare, padre!... Non si è accorto con quali occhi la mi guardava?... da ieri sera io ne sono innamorato morto... Oh, io non potrò vivere se non mi farò amare da lei!... - Raimondo, figliuol mio, siete pazzo, non avete occhi, non ponete mente a quanto mi dite?... Quella è una fanciulletta di una diecina d'anni al piú!... Non può essere che vi siate invaghito di lei; è certo il cuore che v'inganna e ve la rende cosí diletta come sorella della contessina Clara. - Ma no; padre, l'assicuro... - Ma sí, figliuol mio; lasciatevi guidare da chi ne sa piú di voi; lasciate ch'io metta un po' di chiaro in un cuore che conosco meglio di voi; e ne ho il diritto dopo tanti anni che lo studio, che lo indirizzo al suo meglio. Voi amate la contessina Clara; me ne sono avveduto alle cortesi premure che le dimostravate. - Sí, padre, fino alla settimana passata, ma ora... - Ora, ora poi siccome la Contessina è troppo pudica e ben educata per corrispondervi apertamente e senza il consenso dei suoi genitori, voi avete creduto che non la si commovesse punto alle vostre dimostrazioni, e avete cercato per giungere a lei di addomesticarvi colla sorella. Questa piccina vi ha accolto colle feste, coll'ingenuità propria dell'età sua, e la riconoscenza che le professate di queste buone maniere voi la affigurate per amore! Ma pensateci, figliuol mio, sarebbe una ridicolaggine, una vergogna! - Non importa, padre! Si vede che non l'avete mai osservata come ho fatto io con molta accortezza nelle due ultime sere. - Anzi l'ho osservata benissimo, e se aveste qualche intenzione sopra di lei, Raimondo caro, bisognerebbe che vi rassegnaste a sette od otto anni di aspettativa, senzaché ella intanto potrebbe cambiar parere. E poi tutti riderebbero di vedervi innamorato di una bambina! E poi sapete che è una vera fanciullaggine adorare un frutto acerbo mentre ne potreste cogliere uno già maturo e saporito! - Non so che farne, padre, non so che farne! - Ma pensate, figliuol mio, riflettete bene. Voglio adoperare i vostri stessi argomenti. Vorreste sperare che la Pisana possa superare la contessina Clara nella bellezza dei sembianti, nel candor della pelle, nella perfezione delle forme? Riducetevela bene alla memoria, Raimondo!... Vi sentireste in grado di resisterle? - Non so, padre, non so; ma ella certamente non ha voluto saperne di me. - Fandonie, credetelo, apparenze, e nulla piú. Puro effetto di pudicizia e di modestia. - Bene, sarà anche, ma questi temperamenti agghiacciati non mi talentano. - Agghiacciati, figliuol mio? Si vede che non avete esperienza! Ma è appunto sotto queste maniere composte e riserbate che si nascondono gli ardori piú intensi, le voluttà piú squisite!... Credetelo a chi ha studiato il cuore umano. - Sarà, padre; anzi mi pare che deve essere cosí; eppure... - Eppure eppure!... cosa volevate dire?... Eppure ve lo dirò io!... Eppure non è opera di carità né di prudenza l'affliggere il cuore d'una bella ragazza che sotto le sue apparenze di pace e di modestia vi ama sfrenatamente, non vive che per voi, ed è disposta a farvi dono dei piú santi piaceri che Dio clemente ci abbia conceduto di gustare! - Oh, padre! sarebbe vero?... la contessina Clara è innamorata di me? - Sí, certo, ve lo accerto, ve lo giuro; volete saperlo?... me lo disse qualcuno di casa sua!... È innamorata, poverina, e muore dal desiderio di piacervi! - Quand'è cosí, capisco, padre: mi sono sbagliato. Sett'anni sono lunghi. Io pure fui innamorato della contessina Clara! ed anche adesso a ripensarci su... - Ah! l'hai confessato, figliuol mio! l'hai confessato! Signore ti ringrazio! Ecco che il mio ministero è terminato, e che potrò riposarmi in pace sulla felicità preparata per le mie mani a queste tue dilette creature. Raimondo, io ho scoperto il segreto del vostro cuore; lasciatemi adoperare in maniera che tutto riesca secondo i vostri desiderii. - Adagio, padre: non vorrei che per la troppa fretta... - Il rimedio urge, figliuol mio. Pensate alla beatitudine che proverete nello stringervi sul cuore in questo castello, in questa stessa camera una sposina cosí bella, cosí docile, cosí infiammata per voi!... Oh Dio! non avrete mai provato nulla di simile. - Or bene, padre; ha ragione; faccia pur lei... Veramente le mie intenzioni... ma ora dopo piú matura riflessione, e giacché ella mi assicura che quella ragazza è innamorata di me... - Sí, Raimondo, ne metterei le mani nel fuoco. - Or bene, padre; le nozze non si potrebbero fare domenica? - Potenza del cielo! domenica dici! e poi raccomandi a me di non aver troppa fretta! ci vorrà qualche settimana, forse qualche mese, figliuol caro. Le cose di questo mondo camminano con un certo ordine che non va disturbato.Tuttavia nel frattempo tu potrai vedere la tua fidanzata e parlarne e star a lungo con lei nel castello di Fratta, e presenti i genitori. - Oh che consolazione, padre! Cosí potrò continuare a vedere anche la Pisana! - S'intende, ed amarla e trattarla coll'onesta confidenza di un futuro cognato. Sta' cheto, figliuol mio; confida in me e dormi pure tranquilli i tuoi sonni, ché le lusinghe del tuo venerabile zio non andranno deluse, e partecipandogli il tuo matrimonio potrai assicurarlo che io ti ho fatto buono, e felice! Il nobile giovine pianse di tenerezza a queste parole, baciò la mano al diligente precettore, e salí nella sua stanza da letto colla Pisana e la Clara che gli ballavano confusamente nella fantasia. Omai non sapeva ben quale, ma sentiva distintamente che ognuna delle due sarebbe stata quella sera la benvenuta. Sopra queste felici disposizioni avea contato il padre Pendola per distorglierlo da quell'impensato capriccio per la Pisana, e rinfiammarlo della Clara; né l'esito gli ebbe a fallire. Soltanto andando egli pure a letto seguitò a maravigliarsi e a congratularsi di quel nuovo impiccio cosí venturosamente evitato. "Ah! la birboncella!" pensava egli, "me ne ero accorto io che in quei suoi quattordici anni ne covavano trenta di malizia!... ma cosí a rompicollo, non me lo sarei mai immaginato. Proprio chi afferma che il mondo progredisce sempre, finirà coll'aver ragione". In questi pensieri il reverendo padre erasi coricato; e poi tolse in mano gli opuscoli divoti del Bartoli che erano la sua consueta lettura prima di addormentarsi. Ma quello che aveva tanto sorpreso lui, non avrebbe sorpreso me per nulla. Io aveva seguito benissimo il Venchieredo nelle fasi del suo amore per la Clara; e sfiduciato alla fine di muoverla, lo aveva veduto nelle due ultime sere accorgersi della Pisana, accostarsi a questa, e pigliar tanto fuoco in un attimo, quanto non gli si era destato in cuore in due mesi di omaggi alla sorella maggiore. Quanto rammarico io avessi per questo, ognuno se lo può immaginare per poco che abbia capito l'indole del mio affetto per quell'ingrata. Ma ebbi campo in seguito di maravigliarmi, quando vidi la Pisana dopo gli ossequi del Venchieredo riprendere verso di me la sua maniera affettuosa e gentile, quale da un pezzo non la usava piú che a sbalzi e quasi per sforzo di volontà. Donde proveniva questa nuova stranezza? Allora non poteva farmene ragione per nessun modo. Adesso mi par di capire che la burbanza di essa verso di me derivasse massimamente dal corruccio di vedersi trascurata come una bambina a dispetto della sua sfrenata bramosia di piacere. E non appena la piacque a qualcuno, tornò verso di me quale era sempre stata. Anzi migliore; perché nessuna cosa ci fa verso gli altri cosí buoni e condiscendenti, quanto l'ambizione soddisfatta. Confesso la verità che senza scrupoli e senza vergogna io presi la mia parte di quell'amorevolezza; e che a poco a poco il rammarico pel trionfo del Venchieredo mi si andò mutando nel cuore in un'amara specie di gioia. Mi parve di essere omai accertato che la Pisana non cercava negli altri né il merito né il piacere di essere amata, ma la novità e il contentamento della vanagloria. Perciò aveva lasciato da un canto Lucilio per appigliarsi al Venchieredo non appena la novità di questo aveva attirato gli sguardi piú che il brioso gesteggiare di quello. Allora mi confortai colla certezza che nessuno né l'amava né l'avrebbe amata al pari di me; e ogniqualvolta le avesse ricercato l'animo un vero desiderio di amore, viveva sicuro che la mi sarebbe volata fra le braccia. Stupido cinismo di accontentarmi a questa lusinga, ma un gradino dopo l'altro io ero disceso a tanto; e finii coll'usarmi a quella vita di avvilimento, di servilità e di gelosie per modo che io era già uomo snervato e disilluso quando tutti mi credevano ancora un ragazzaccio rubesto e senza pensieri. Ma chi si dava cura di tener dietro alle passioncelle e ai romanzi della nostra adolescenza? - Ci giudicavano novelli affatto nella vita, che ne avevamo già fornita tutta l'orditura; e il compiere la trama è opera manuale alla quale siamo sospinti il piú delle volte da forza ineluttabile e fatale. Il padre Pendola, dopo aver riconfermato il giovine cavaliero nei propositi della sera prima, riferí alla Contessa di Fratta l'ottimo risultato delle sue parole, tacendo, non è d'uopo nemmeno il dirlo, tuttociò che si riferiva alla Pisana. La signora volle quasi gettargli le braccia al collo, e lo ricompensò coll'assicurarlo che un suo semplice motto lasciato cadere intorno allo stabilimento di lui in casa Frumier, era stato accolto dal Senatore e dalla moglie con tal festosa premura da augurarsene un pronto adempimento dei loro voti. - Ora poi - disse la signora all'orecchio del reverendo che si era seduto a tavola vicino a lei a dispetto del solito cerimoniale di casa - ora poi lasci fare a me. Prima anche che la Clara sospetti di nulla, perché già le ragazze devono essere condotte adagio entro queste faccende, io voglio che i miei eccellentissimi cognati sieno beati della sua compagnia. - Povero Raimondo! - sospirò il padre fra un boccone e l'altro. - Non lo compianga; - soggiunse ancor sottovoce la Contessa occhieggiando la figlia - una sposina come quella si quadra meglio del prete a un giovine di ventun anno. Infatti la settimana seguente tutta Portogruaro fu piena della gran novella. Il celebre, l'illustre, il dotto, il santo padre Pendola si ritirava in casa Frumier, stanco delle fatiche d'un lungo apostolato. Colà egli disegnava metter in pace la sua età non molto provetta ancora, ma pur afflitta pei sofferti disagi da molti incommodi della vecchiaia. Il vecchio Cappellano era stato trasferito, come desiderava, ad una cura vicino a Pordenone; e il Senatore e la nobildonna non potevano capire in sé per la gioia di possedere in sua vece un tanto luminare d'ecclesiastica perfezione. Raimondo aveva fatto le viste di adirarsi perché egli volesse uscire di sua casa prima che fosse entrata la sposa; ma il buon padre non ebbe bisogno di sfiatarsi per persuaderlo che ad un giovine vicino a fidanzarsi non si affaceva la tutela del precettore, e che per tutte le ragioni conveniva che la sua partenza da Venchieredo precedesse d'alcun poco la celebrazione degli sponsali. Raimondo lo vide partire senza molte lagrime, e continuò a frequentare il castello di Fratta, dove la confidente affabilità della Pisana lo compensava del gelato riserbo della Clara. Ma a costei non avevano ancor fatto cenno della fortuna che l'aspettava; ed egli attribuiva a ciò lo sforzo da lei durato per nascondergli la veemenza dell'amor suo. Del resto non se ne pigliava grande affanno; e se Clara falliva egli avrebbe goduto di ricattarsi colla sorella. Questi erano i filosofici sentimenti del signor di Venchieredo, ma la Contessa non la pensava a quel modo. Dopo aver lasciato i due giovani entrare, secondo lei, in una decente dimestichezza prese ella a preparare la Clara alla domanda del giovine; e parla e riparla s'inquietò alla fine un poco di vederla restar cosí fredda e imperterrita come non si trattasse di lei. Un bel giorno le spiattellò chiare e tonde le probabili intenzioni di Raimondo; e anche quest'ultimo colpo non diradò per nulla quella nube che da molti giorni si era raunata sulla fronte della donzella. Chinava le ciglia, sospirava, non diceva né sí né no. La mamma cominciò a credere che la fosse una stupida, come aveva sempre sospettato dentro di sé vedendola grave modesta e disforme in tutto da quello ch'ella era stata negli anni della giovinezza. Ma anche le stupide si scuotono a toccarle su quel tasto del marito; e la stupidità della Clara doveva essere veramente fuor di natura per non muoversi nemmeno a ciò. Si aperse allora colla vecchia suocera, che era sempre stata la confidente della fanciulla, e la pregò d'ingegnarsi a farle capire i disegni della famiglia intorno a lei. La vecchia inferma parlò ascoltò, e riferí alla nuora che la Clara non aveva intenzione di maritarsi, e che voleva star sempre con lei a vegliarla nelle sue malattie, a confortarla nella sua solitudine. - Eh! questi son grilli da pettegola! - sclamò la Contessa. - La vorrei vedere io che la seguitasse a fargli il muso duro a quel poverino, sicché egli trovasse un pretesto di cavarsela. Quando i genitori vogliono, il dovere delle ragazze fu sempre quello di obbedire, almeno in questa casa; e non si vedranno novità, no, non si vedranno. Quanto a lei poi, signora, io spero che non la fomenterà questa pazzia e che la vorrà aiutare me e il signor Conte a far vedere alla ragazza qual è il suo meglio. La vecchia accennò del capo che avrebbe fatto, e fu molto contenta che la nuora dopo quella gridata le uscisse fuori di camera. Ma non fu meno pronta per ciò a ritentare il cuor della Clara per persuaderla di accettare lo sposo che nobile e degno per ogni riguardo le si profferiva. La giovine si rinchiudeva nel suo silenzio, o rispondeva come prima che Dio non la chiamava al matrimonio, e che sarebbe stata felice di terminar la sua vita in quel castello accanto alla nonna. Si ebbe un bel che dire e un bel che fare: alla nonna, alla mamma, al papà, allo zio monsignore la Clara ripeté sempre la medesima solfa. Laonde la Contessa, per quanto ne arrabbiasse furiosamente dentro di sé, decise di soprastare senza nulla rispondere al Venchieredo e di dar intanto una voce al padre Pendola perché egli colla sua meravigliosa prudenza le additasse un mezzo da convertir la Clara all'obbedienza, senza ricorrere a maniere violente e scandalose. Peraltro alcunché di questo ostinato resistere della zitella al desiderio dei suoi trapelava di fuori; e Lucilio sembrava non se n'accorgere, tanto serbava con essa le solite maniere, e il Partistagno compariva alle veglie del castello di Fratta e alla conversazione di casa Frumier piú sorridente e glorioso che mai. Il padre Pendola udito il grave caso si offerse esso stesso a paciero fra la Contessa e la nobile donzella; tutti ne concepirono le grandi speranze; e lasciato ch'ei fu a quattr'occhi con essa, alcuno si fermò per curiosità ad origliare dietro l'uscio. - Contessina - principiò a dire il reverendo - cosa ne dice di questo bel tempo? La Clara s'inchinò un po' confusa per non saper come rispondere; ma il padre stesso la tolse d'impiccio continuando: - Una stagione come questa non l'abbiamo goduta da un pezzo e sí che si può dire di esser appena usciti dall'inverno. L'Eccellentissimo Senatore mi ha concesso, anzi doveva dir pregato, di andarne a visitare il mio caro alunno, quell'ottimo giovane, quel compito cavaliere ch'ella ben dovrebbe conoscere. Ma cosí passando ho voluto vedere di loro, e chieder novella delle cose di famiglia. - Grazie, padre - balbettò la fanciulla non vedendolo disposto a proseguire. Il padre prese buon augurio da quella timidità, argomentando che come le avea strappato quel grazie, le avrebbe poi fatto dire e promettere ogni cosa che avrebbe voluto. - Contessina; - riprese egli colla sua voce piú melliflua - la sua signora madre ha riposto in me qualche confidenza e oggi sperava di udire da lei quanto il mio cuore desiderava da lungo tempo. In quella vece ella non mi ha dato che mezze parole; sembra che ella non abbia inteso i retti e santi divisamenti de' suoi genitori; ma spero che quando io le li abbia spiegati meglio, non avrà piú ombra di dubbio nell'accettarli come comandati dal Signore. - Parli pure - soggiunse la Clara con fare modesto ma calmo questa volta e sicuro. - Contessina, ella ha in mano il mezzo di ridare la gioia e la concordia non solo a due illustri famiglie, ma si può dire ad un intero territorio; e mi si vuol far credere che per altri scrupoli pietosi ella non voglia approfittarne. Mi permetterà ella di credere che non si interpretò bene la sua risposta, e che quello che parve irragionevole rifiuto e scandalosa ribellione altro non fu che peritanza di pudore o impeto di troppa carità? - Padre, io non so forse spiegarmi abbastanza, ma col ripetere le stesse cose molte volte spero che alla fine mi capiranno. No, io non mi sento chiamata al matrimonio. Dio mi tragge per un'altra strada: sarei una cattivissima moglie e posso continuare a vivere da figliuola dabbene; la mia coscienza mi comanda di attenermi a quest'ultimo partito. - Ottimamente, Contessina. Io non sarò certamente quello che vorrà condannarla di questo rispetto alle leggi della coscienza. Questo anzi raddoppia la stima ch'io aveva per lei e mi fa sperare che in seguito ci raccosteremo nelle opinioni. Mi vuol ella permettere che col mio umilissimo ma devoto criterio l'aiuti a illuminare quella coscienza che forse s'è un po' turbata, un po' oscurata nei tentennamenti, nelle battaglie dei giorni passati? Nessuno, Contessina, è tanto santo da credere ciecamente alla coscienza propria rifiutando i lumi e i suggerimenti dell'altrui. - Parli pure, parli pure, padre: io son qui per ascoltarla e per confessare che avrò torto, quando ne sia persuasa. "Mi dicevano che è stupida! - pensava l'ottimo padre - altro che stupida! Mi accorgo che avrò una stizzosa gatta da pelare, e bravo se ci riesco!" - Or dunque - soggiunse egli a voce alta - ella saprà prima di me che l'obbedienza è la prima legge delle figliuole coscienziose e timorate di Dio. Onora il padre e la madre se vuoi vivere lungamente sopra la terra; lo disse il medesimo Dio, ed ella finora ha sempre messo in pratica questo divino precetto. Ma l'obbedienza, figliuola cara, non soffre eccezioni, non cerca nessuna scappatoia; l'obbedienza obbedisce, ecco tutto. Ecco la coscienza come l'intendiamo noi poveri ministri dell'Evangelo. - E cosí pure l'intendo anch'io - rispose umilmente la Clara. "Che l'avessi persuasa a quest'ora? - pensò di nuovo il reverendo. - Non me ne fido un cavolo davvero". Tuttavia fece le viste di crederlo, e alzando le mani al cielo: - Grazie, diletta figliuola in Cristo! - sclamò - grazie di questa buona parola; cosí per questa strada d'abnegazione e di sacrifizio si tocca l'ultimo grado della perfezione, cosí si potrà persuadere con suo grande vantaggio che la potrà diventare ancor piú eccellente sposa e madre di famiglia che non fu fino ad ora buona e costumata figliuola... Oh non durerà una grande fatica, la si assicuri!... Uno sposo quale fu destinato a lei dal cielo non è sí facile trovarlo al giorno d'oggi! L'ho educato io, Contessina; io l'ho formato colla midolla piú pura del mio spirito e colle massime piú sante del cristianesimo. Dio la vuol rimeritare della sua insigne pietà, del suo filiale rispetto!... Che egli seguiti a benedirla, e che egli sia ringraziato dell'aver permesso a me di portare nell'anima sua la luce della persuasione!... Il buon padre tenendo sempre le mani e gli occhi verso il cielo si disponeva ad uscire dalla stanza per recare alla Contessa la buona novella; ma la Clara era troppo sincera per lasciarlo in un inganno sí madornale. La sincerità in quel frangente la aiutò tanto bene quanto la furberia, perché il buon padre fidava appunto nel suo scarso coraggio e nell'innocente semplicità, e credeva che si sarebbe lasciata credere persuasa per la ritrosia di dovergli contraddire. Fu adunque molto maravigliato di sentirsi fermar per una manica dalla fanciulla; e capí cosa annunziava quel gesto. Tuttavia non volle darsi per disperato e si volse a lei con un'unzione veramente paterna. - Cosa ha figliuola? - diss'egli inzuccherando ogni parola con un sorriso serafico. - Ah capisco! vuol esser lei la prima a recare a' suoi genitori una tanta consolazione! Dopo averli martoriati tanto, forse a fin di bene, le parrà giusto di gettarsi a' loro piedi, di implorar perdono, di assicurarli della sua sommissione filiale! Andiamo dunque; venga pure con me. - Padre - rispose la Clara per nulla sgomentita da questa finta sicurezza del predicatore - io forse intendo l'obbedienza io un modo differente dal suo. A me pare che obbedire sia un arrendersi oltreché nella lettera, anche nello spirito, ai comandamenti dei superiori. Ma quando uno di questi comandamenti sentiamo di non poterlo osservare pienamente, sarebbe ipocrisia fingere di piegarvisi colle apparenze! - Ah, figliuola mia! cosa dice mai! sono sottigliezze scolastiche. San Tommaso... - San Tommaso fu un gran santo, ed io lo rispetto e lo venero. Quanto a me, ripeto a lei quello che dovetti dire alla signora madre, alla nonna, al papà ed allo zio. Io non posso promettere di amare un marito che non potrò amar mai. Obbedire nel concedermi a questo marito sarebbe un obbedire col corpo, colla bocca; ma col cuore no. Col cuore non potrei mai. Laonde mi permetterà, padre, di rimaner zitella! - Oh, Contessina! badi e torni a badare! Il suo ragionamento pecca nella forma e nella sostanza. L'obbedienza non ha la lingua cosí lunga. - L'obbedienza quando è interrogata risponde, ed io non chiamata non avrei risposto mai, ne l'assicuro, reverendo padre! - Alto là, Contessina! ancora una parola! Ho da dirle tutto?... Ho dunque da spiegarle tutta la virtù che si può cristianamente pretendere da una figliuola esemplare?... Ella si professa pronta ad obbedire tutti quei comandi dei suoi genitori che si sente capace di eseguire!! Ottimamente, figliuola!... Ma cosa le comandano i suoi genitori? Le comandano di sposare un giovine che le viene profferto, nobile, dabbene, ricco, costumato, dall'alleanza col quale proverranno grandi beni a tutte e due le famiglie e all'intero paese! Quanto al suo cuore, essi non le comandano punto. Al cuore ci penserà ella in seguito; ma la religione vuole che la si pieghi intanto in quello che può, e stia certa che come premio di tanta sommessione Dio le largirà anche la grazia di adempiere perfettamente tutti i doveri del suo nuovo stato. La Clara rimase qualche tempo perplessa a questo sotterfugio del moralista; tantoché egli racquistò qualche lusinga di averla piegata, ma la sua vittoria fu assai breve, perché brevissima fu la perplessità della giovine. - Padre - riprese ella col piglio risoluto di chi conchiude una disputa e non vuol piú udirne parlare - cosa direbbe ella d'un tale che crivellato dai debiti e nudo di ogni altra cosa si facesse mallevadore d'ottantamila ducati per l'indomane?... Per me io lo direi o un pazzo o un furfante. Ella mi ha capito, padre. Conscia della mia povertà io non farò malleveria d'un soldo. Ciò dicendo la Clara s'inchinava, facendo atto di uscire a sua volta. E il reverendo voleva a sua volta trattenerla con altre parole, con altre obbiezioni; ma comprendendo che avrebbe fatto un buco nell'acqua si accontentò di uscirle dietro, col desolato contegno del cane da caccia che torna al padrone senza riportargli la selvaggina inutilmente cercata. Coloro che origliavano dietro l'uscio aveano fatto appena a tempo di ricoverarsi in tinello; ma non furono cosí destri da nascondere che sapevano tutto. Il padre Pendola non erasi ancora accostato all'orecchio della Contessa che già costei s'era buttata sulla Clara con ogni sorta di minacce e d'improperi; tantoché molti accorsero dalla cucina allo strepito. Ma allora il marito e il cognato diedero opera a frenarla, e il padre Pendola colse il momento opportuno di battersela lavandosene le mani come Pilato. Partito che fu, l'intemerata toccò a lui; e la signora si sfogò a gridarlo un ipocritone, un disutile, uno sfacciato, che l'aveva adoperata per ottenere quanto cercava, e allora l'abbandonava nell'imbarazzo colla sua faccia tosta. Monsignore supplicava per carità la cognata che smettesse d'insolentire un abate che in pochissimi giorni di dimora a Portogruaro avea già preso il sopravvento negli affari del clero e quasi fin'anco in quelli della Curia. Ma le donne hanno ben altro pel capo quando prude loro la lingua. Ella volle versar fuori tutta la sovrabbondanza del suo fiele, prima di badare ai consigli del cognato. Indi, acchetata su questo argomento, tornò a rampognare la Clara; e essendo tornati pei fatti loro i curiosi della cucina, anche il papà e lo zio si misero intorno alla giovinetta tormentandola malamente. Ella sopportava tutto non con quella fredda rassegnazione che move il dispetto, ma col vero dolore di chi vorrebbe e non può accontentare altri di quanto gli viene chiesto. Un tal martirio durò per lei molti giorni; e la Contessa se l'era legata al dito che l'avrebbe sposato il Venchieredo, o sarebbe cacciata in un convento senza misericordia. Già si cominciava a mormorare di Lucilio piú forte che mai; e il giovine doveva serbarsi piú prudente che per lo addietro nelle sue visite. Ma sparsasi intorno la notizia dell'ostinato rifiuto della Clara ad imparentarsi col Venchieredo, furono anche parecchi che ne accagionarono un segreto amore da lei concepito pel Partistagno. Fra questi primo era il Partistagno stesso, che, avuta contezza della cosa, capitò al castello piú sorridente e pettoruto del solito; egli guardava dall'alto in basso tutta la famiglia, e nelle tenere occhiate che teneva in serbo per la Clara, non si avrebbe potuto definire se l'amore soverchiasse la compassione, o viceversa. Il fatto sta che alla Contessa balenò quell'ipotesi nel cervello; e poiché non si degnava di sospettare intorno a Lucilio, essa gli parve abbastanza fondata. Ma quel benedetto Partistagno non si decideva mai a far un passo innanzi. Erano anni che lavorava colle sue occhiate, co' suoi sorrisi senza che si aprisse per nulla l'animo suo. Raimondo invece veniva, si può dire, coll'anello in mano; e non si trattava che di accennare un sí, perché egli fosse beato e riconoscente di poterlo infilare alla Clara. Queste considerazioni non diminuivano punto il mal sangue della signora verso la figlia; tanto piú che anche le ultime vicende non sembravano aver dato fretta alcuna al glorioso castellano di Lugugnana. Un giorno pertanto che i Frumier avevano invitato a pranzo i parenti di Fratta per isvagarli da questi dispiaceri famigliari, l'illustrissimo signor Conte fu oltremodo inquieto di vedersi chiamar dal cognato in uno stanzino appartato. Ognivolta che gli accadeva di doversi dividere dal fido Cancelliere, si sa ch'egli rimaneva come una candela senza stoppino. Tuttavia fece di necessità virtù, e con molti sospiri seguí il cognato ov'egli lo voleva. Questi rinchiuse la porta a doppio giro di chiave, tirò giù le cortinette verdi della finestra, aperse con gran precauzione il cassetto piú segreto dello scrittoio, ne trasse un piego, e glielo porse dicendogli: - Leggete; ma per pietà silenzio! mi affido a voi perché so chi siete. Il povero Conte ebbe gli occhi coperti da una nuvola, fregò e rifregò colla fodera della veste le lenti degli occhiali piú per guadagnare tempo che per altro, ma alla fine con qualche fatica riuscí a dicifrare lo scritto. Era un anonimo, uomo a quanto sembrava di grande autorità nei consigli della Signoria, che rispondeva confidenzialmente al nobile Senatore intorno alla grazia da implorarsi pel vecchio Venchieredo. Si stupiva prima di tutto dell'idea: non era quello il tempo che la Repubblica potesse sguinzagliare i suoi nemici piú accaniti, quando appunto si occupava di spiarli e di renderli impotenti per quanto era fattibile. I castellani dell'alta erano tutti male affetti alla Signoria; l'esempio del Venchieredo avrebbe servito a correggerli, fors'anche non bastava, e con soverchia indulgenza erasi preservata la famiglia di lui dagli effetti della condanna. Nulla è pernicioso piú della potenza concessa agli attinenti dei nostri nemici; bisogna sempre tagliar il male nelle radici perché non rigermogli. Solo di non aver fatto questo si pentiva la Signoria. Del resto, non parlava al Senatore che era superiore ad ogni sospetto e tratto in quella faccenda da suggestioni e preghiere altrui, ma badassero bene gli amici del Venchieredo a non lasciar travedere in una soverchia benevolenza verso di questo la loro fedeltà tentennante e le opinioni intinte forse di quelle massime sovvertitrici che, venute d'oltremonti, minacciavano di rovina gli antichi e venerabili ordini di San Marco. In tempi difficili maggiore la prudenza; questo a loro norma, perché l'Inquisizione di Stato vegliava senza rispetto per alcuno. Il Senatore, nella sua qualità di patrizio veneziano, tenea dietro con orgoglio ai diversi sentimenti di maraviglia, di dolore, di costernazione che si dipingevano in viso al cognato mano a mano che rilevava qualche periodo di quella lettera. Finita ch'egli la ebbe il foglio gli cadde di mano, e balbettò non so quali scuse e proteste. - State tranquillo; - soggiunse il Senatore raccogliendo il foglio, e mettendogli una mano sulla spalla - è un avvertimento e nulla piú; ma vedete che fu quasi una grazia del cielo che la vostra figliuola si rifiutasse a quel matrimonio. Se avesse acconsentito a quest'ora si sarebbero già celebrate le nozze... - No, per tutti i santi del cielo! - sclamò il Conte con un gesto di raccapriccio. - Se ella le volesse ora, e se mia moglie con tutte le sue furie pretendesse di celebrarle, con due sole parole io vorrei... - Ps, ps! - fece il Senatore. - Ricordatevi che è affare delicato. Il castellano rimase colla bocca aperta come il fanciullo colto in flagranti; ma poi cacciò giù un gnocco che aveva in gola e soggiunse: - Insomma, Dio sia benedetto che ci ha voluto bene; e siamo salvi da un gran pericolo. Mia moglie saprà che per ragioni forti, nascoste, stringentissime, di quel matrimonio non bisogna piú parlarne, come d'una faccenda non mai sognata. Ella è prudente e si regolerà!...Cospettonaccio! ho paura che la si fosse fatta infinocchiare da quel benedetto padre Pendola! Qui egli si tacque e rimase colla bocca aperta un'altra volta perché ad un sberleffo del Senatore conobbe di esser per dire o di aver già detto qualche castroneria. - In confidenza - gli rispose il Frumier con quel piglio di maggioranza che ha il maestro sullo scolare - da certe frasi sfuggite al degnissimo padre io credo che non per nulla lo si avesse messo alle coste del giovine Venchieredo!... Potrebbe anche darsi che vedendo vostra moglie incapricciata di dare a costui la sua figliuola egli avesse fatto le viste di secondarla. Ma poi, mi capite, egli voleva bene a voi, egli voleva bene a me... e senza violare le convenienze... Insomma, quel colloquio da lui tenuto colla Clara... - Ma no! io era dietro l'uscio, e vi posso assicurare... - ripigliò il Conte. - Eh cosa sapete mai voi? - gli dié sulla voce il Senatore. - Son mille le maniere di dire una cosa colle labbra e farne capire un'altra o colla fisonomia o con certe reticenze... Il padre sospettava forse che voi e vostra moglie stavate ad ascoltare; ma del resto io vi posso assicurare, che se quel matrimonio non è andato, un gran merito ne viene a lui. - Oh benedetto quel caro padre! io lo ringrazierò... - Per carità! bella cosa che fareste! Dopo tutta la cura ch'ei prese per nascondersi e per far credere anzi ch'egli approvava il vostro disegno!! Davvero alle volte siete un bel furbo! Per questa volta tanto, chi fosse il piú furbo non lo saprei dire. Il padre Pendola, avendo sentito a tavola il giorno prima la subita disapprovazione data dal Senatore al matrimonio di sua nipote col Venchieredo, benché lo avesse anch'egli approvato in fin allora, avea subodorato, se non la lettera da Venezia, certo qualche cosa di simile. Perciò con mezze parole con atti del capo e con altri mezzi di suo grado avea dato ad intendere al Senatore tutto il rovescio di quello ch'era stato. E questi poi levandosi da tavola gli avea stretta la mano in modo misterioso, dicendogli: - Ho capito, padre; la ringrazio a nome dei miei cognati! Se il Senatore era furbo, e ne avea dato grandi prove nella sua lunga vita pubblica e privata, certo fu quello il caso di riscontrar vero il proverbio, che tutti abbiamo durante il giorno il nostro quarto d'ora di minchioneria. Non v'è poi anche ladro cosí astuto che non possa essere derubato da uno piú astuto di lui. Finito il colloquio fra i due cognati e abbruciata diligentemente la lettera fatale, tornarono in sala da pranzo, discorrendo della Clara e della vera fortuna che la si potesse accasare in casa Partistagno. Il Conte aveva qualche scrupolo perché tutti i parenti di questo giovane non erano sul buon libro della Serenissima; ma il Senatore obiettava che non cadesse in soverchi timori, che erano parenti lontani, e che finalmente il giovine col suo contegno si dimostrava cosí ossequioso ai magistrati della Repubblica che gli avrebbe non che altro fatto onore anche da questo lato. - C'è poi un altro guaio; - soggiungeva il Conte - che per quanto si creda la Clara innamorata di lui ed egli di lei, non si vede mai che si disponga a manifestarsi. - Per questo ci penserò io - rispose il Senatore. - Quel giovine mi piace, perché avremmo bisogno di simil gente devota e rispettosa sí, ma forte e coraggiosa. Lasciatemi fare, egli si manifesterà presto. Per quel giorno si misero da un canto questi discorsi; e solamente la sera nel silenzio del letto nuziale il Conte s'arrischiò di accennare alla moglie d'un grave e misterioso pericolo da cui il rifiuto della Clara al Venchieredo li aveva salvati. La signora voleva saperne di piú, e gracchiava di non volerne credere un'acca; ma non appena il marito ebbe bisbigliato il nome dell'Eccellentissimo Senatore Frumier, la si rifece credula e buona, né s'incaponí di piú a indovinar quello che l'illustre cognato teneva avvolto nell'arcano impenetrabile. Le disse anche il marito che questi si mostrava persuaso dello sposalizio di Clara col Partistagno, e che si disponeva anzi ad adoperarsi perché il giovine venisse ad una domanda formale. I due coniugi ebbero un assalto comune di contentezza matrimoniale; la quale non voglio immaginarmi quanto oltre andasse. La miglior contentezza tuttavia fu per la Clara, la quale, senza ch'ella ne sapesse il perché, rimase dall'esser tormentata ed ebbe qualche giorno di tregua per poter corrispondere con nessuna superbia alle occhiate riconoscenti ed appassionate indirizzatele alla sfuggita da Lucilio. Intanto il Senatore avea mantenuto la sua promessa di ingegnarsi con ogni maniera perché il Partistagno domandasse finalmente la mano di Clara. La Correggitrice, che era la consigliera del giovine, fu beata di aiutar in ciò il nobiluomo Frumier, e seppe cosí bene commovere la bontà e la vanagloria che erano le doti principali di lui, da riescir nell'intento piú presto che non si sperava. Il Partistagno s'impietosí di lasciare una donzella morir d'amore per lui, insuperbí di essere tenuto degno di diventar nipote di un senatore di Venezia, e confessò che egli pure era invaghito da gran tempo della donzella, e che soltanto una pigrizia naturale lo aveva trattenuto dal togliere quell'amore alla sua sfera platonica. Pronunciata quest'ultima frase il giovine sbuffò come per la gran fatica che vi avea messo ad architettarla. - Dunque animo, e facciamo presto - gli soggiunse la dama. Ed egli prese commiato da lei colle piú sincere assicurazioni che lo stato della zitella gli faceva compassione e che si avrebbe dato ogni fretta. Ma i Partistagno nascevano tutti col cerimoniale in testa; e prima che il giovine avesse preparato tutti gli ingredienti necessari ad una domanda solenne di matrimonio passarono de' giorni assai. In quel frattempo veniva a Fratta, secondo il solito, e guardava la Clara come la castalda usa guardare il pollo d'India da lei tenuto in pastura pel convito pasquale. Un giorno finalmente, sopra due palafrenieri bianchi bordati d'oro e di porpora, due cavalieri si presentarono al ponte levatoio del castello. Menichetto corse a tutte gambe in cucina per dar l'annunzio della solenne comparsa, mentre i due cavalieri gravi e pettoruti s'avanzavano verso le scuderie. L'uno era il Partistagno col cappello a tre punte piumato, coi merletti della camicia che gli uscivano una spanna fuori dallo sparato, e con tanti anelli, spilli e spilloni che pareva addirittura un cuscinetto da spilli. Lo accompagnava un suo zio materno, uno dei mille baroni di Cormons, vestito tutto a nero, con ricami d'argento come portava la solennità del suo ministero. Il Partistagno rimase ritto a cavallo come la statua di Gattamelata, mentro l'altro scavalcava e consegnate le redini al cocchiere, entrava per la porta dello scalone che gli veniva spalancata a due battenti. Fu introdotto nella gran sala ma dovette aspettare qualche poco perché anche i Conti di Fratta sapevano il galateo e non volevano mostrarsi dammeno dei loro nobilissimi ospiti. Finalmente il Conte con una giubba tessuta letteralmente di galloni, la Contessa con venti braccia di nastro rosa sulla cuffia, gli si presentarono con mille scuse della involontaria tardanza. La Clara vestita di bianco e pallida come la cera veniva a mano della mamma; il Cancelliere e monsignor Orlando che avea fra mano il tovagliolo e lo nascose in una tasca dell'abito, stavano ai due lati. Successe un profondo silenzio con grandi inchini d'ambo le parti; pareva che si apprestassero a ballare un minuetto. Io, la Pisana e le cameriere che stavamo ad osservare dalle toppe delle porte, eravamo allibiti per l'imponenza di quella scena. Il signor Barone si mise una mano sul petto, e protesa l'altra innanzi, recitò meravigliosamente la sua parte. - A nome di mio nipote, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor Alberto di Partistagno, barone di Dorsa, giurisdicente di Fratta, decano di San Mauro, etc., etc., io barone Durigo di Caporetto ho l'onore di chiedere la mano di sposa dell'Illustrissima ed Eccellentissima dama la contessa Clara di Fratta, figlia dell'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor conte Giovanni di Fratta e della nobildonna Cleonice Navagero. Un mormorio di approvazione accolse queste parole, e le cameriere furono lí lí per battergli le mani. Pareva proprio di essere ai burattini. La Contessa si volse alla Clara che le aveva stretta la mano e sembrava esser piú vicina a morire che a maritarsi. - Mia figlia - prese ella a rispondere - accoglie con gratitudine l'onorevole offerta e... - No, madre mia, - la interruppe la Clara con voce soffocata dai singhiozzi, ma nella quale la forza della volontà signoreggiava il tremore della commozione e del rispetto - no, madre mia, io non mi mariterò mai... io ringrazio il signor Barone ma... A questo punto le morí la voce, le si estinse sul volto ogni colore di vita, e le ginocchia accennavano di mancarle. Le cameriere, non pensando che cosí davano a divedere di essere state in ascolto, si precipitarono nella sala gridando: - La padroncina muore! la padroncina muore! - e la raccolsero fra le braccia. Dietro esse entrammo curiosamente io, la Pisana e quanti altri dietro di noi s'erano accalcati via via per goder lo spettacolo. La Contessa fremeva e stringeva i pugni, il Conte piegava di qua e di là come una banderuola che ha perduto l'equilibrio, il Cancelliere gli stava dietro quasi per puntellarlo se accennasse di cadere, Monsignore tratto di tasca il tovagliolo se ne asciugava la fronte, e il Barone solo restava imperterrito col suo braccio steso, come fosse stato lui che con quel magico gesto avesse prodotto quel general parapiglia. La Contessa s'adoperò un istante intorno alla figlia per farla rinvenire e comandarle il rispetto e l'ubbidienza; ma vedendo ch'ella appena tornata in sé accennava col capo di no e sveniva quasi di nuovo, si volse al Barone con voce soffocata dalla stizza. - Signore - gli disse - ella vede bene; un impreveduto accidente ha guastato la festa di questo giorno; ma io posso assicurarla a nome di mia figlia, che mai donzella non fu cosí onorata da offerta alcuna, come essa dalla domanda fattale in nome dell'Eccellentissimo Partistagno. Egli può contare d'aver fino d'ora una sposa ubbidiente e fedele. Soltanto lo prego di differire a momento piú opportuno la sua prima visita di fidanzato. Le cameriere trascinarono allora fuori della sala la padroncina, la quale benché quasi esanime seguitava a diniegare colle mani e col capo. Ma il Barone non le badava piú che a qualunque altro mobile della casa: cosí egli si accinse a recitare la seconda ed ultima parte della sua orazione. - Ringrazio - egli disse - a nome di mio nipote la nobile sposa e tutta l'eccellentissima sua famiglia dell'onore fattogli di accettarlo per isposo. Fatte le pubblicazioni di metodo si celebrerà il matrimonio nella cappella di questo castello giurisdizione di Fratta. Io, Barone di Caporetto, mi offro fin d'adesso per compare dell'anello, e che le benedizioni del cielo piovano benigne sul felicissimo innesto delle illustri ed antichissime case di Fratta e di Partistagno. Lí un triplice inchino, un giro sui tacchi, e il nobile barone Duringo andò giù per la scala con tutta la maestà con cui era salito. - E cosí? - disse il nipote apprestandosi a scender d'arcione. - Rimanti, nipote mio - rispose il Barone, trattenendolo dallo smontare e risalendo egli stesso sulla sua cavalcatura. - Per oggi ti dispensano dalla visita di fidanzato. Alla sposa è venuto male per la consolazione; io sono ancora tutto commosso. - Dice davvero? - soggiunse il Partistagno rosso di piacere. - Guarda! - ripigliò il Barone accennandogli due occhietti umidi e sanguigni che dicevano di esser soliti a vedere il fondo di molti bicchieri. - Credo di aver pianto! - Crede che basterà la collana di diamanti pel regalo di nozze? - gli domandò il nipote avviandosi di paro a lui fuori del castello. - In vista di questo nuovo incidente aggiungeremo il fermaglio di smeraldi - rispose il Barone. - I Partistagno devono farsi onore ed essere riconoscenti all'amore che sanno ispirare Cosí andarono fino a Lugugnana divisando lo splendore delle feste che si sarebbero celebrate nell'occasione delle nozze. Ma qual fu lo stupore d'ambidue, quando al giorno dopo ricevettero una lettera del Conte di Fratta che palesava loro il suo dispiacere per la volontà espressa dalla figlia di consacrare la sua verginità al Signore in un convento! Il giovine dubitava che mai donzella al mondo fosse capace di anteporre un convento a lui; ma di ciò dovette allora persuadersi e ne rimase un po' raumiliato. Peggio poi fu quando per le ciarle della gente venne a sapere che non la donzella voleva ritirarsi in monastero, ma che i suoi volevano cacciarvela in castigo dello aver rifiutato un bel partito come il suo e che Lucilio Vianello era il rivale che gli contrastava il cuore della Clara. Il Barone scappò fino a Caporetto per nascondervi la sua vergogna; il Partistagno rimase per gridare a tutti i canti della provincia che di Lucilio, della Clara e de' suoi parenti si sarebbe vendicato; e che guai a loro se monaca o smonacata non gli mandavano a casa la sposa! Egli continuava a dire che dell'amore di questa era certissimo; com'era anche certo che il malanimo de' suoi e le cattive arti del dottorino la impedivano dal manifestarglielo. A Portogruaro intanto vi fu gran consiglio di famiglia in casa Frumier su quello che dovesse farsi, e il caso era abbastanza nuovo, perché di donzelle allora che si opponessero con tanta pertinacia al voler dei parenti, non ve n'erano tante. Si voleva ricorrere al Vescovo, ma il padre Pendola scartò pel primo questo parere. Tutti furono tacitamente d'accordo, che pur troppo la voce della gente diceva il vero, e che Lucilio Vianello era la pietra dello scandalo. Allontanare lui non si poteva; si trattava dunque di allontanare la Clara. Il Frumier aveva vuoto il suo palazzo di Venezia, e la Contessa non parve malcontenta d'andare ad abitarlo. Dopo molte parole si decise adunque che si sarebbero trasferiti a Venezia. Ma per togliere ogni solennità e ogni occasione di grandi spese, solamente essa e la figlia si sarebbero accasate colà, e la famiglia avrebbe continuato a dimorare a Fratta. Ella si lusingava che i grilli sarebbero usciti di capo alla Clara, e se ciò non avveniva, c'erano conventi in buon numero a Venezia dove farle metter giudizio. Il Conte si lamentò un poco di restar relegato a Fratta perché aveva una discreta paura del Partistagno; ma il cognato lo assicurò che avrebbe vissuto sicuro e che egli ne faceva malleveria. In fin dei conti un mese dopo questi ragionamenti la Contessa colla Clara s'era già stabilita a Venezia nel palazzo Frumier presso i nipoti; ma finallora la dovea confessare di aver guadagnato ben poco sull'animo della figlia. A Fratta eravamo rimasti piú contenti che mai, perché il gatto era partito e i sorci ballavano. Peraltro a sfrondar nel loro fiore le lusinghe della Contessa avvenne quello che non si sarebbe mai creduto. Lucilio, che l'avea tanto tirata in lungo colla sua laurea, si mise repentinamente in capo di volerla conseguire; e in onta alle opposizioni del dottor Sperandio partí per Padova, vi fu fatto dottore, e poi, anziché tornare a Fossalta, si fermò a Venezia, dove attese ad esercitare la medicina. A Portogruaro si seppe una tal novità quando già egli si avea procurata una clientela che lo scioglieva da ogni dipendenza famigliare. Figuratevi che imbroglio! Chi proponeva di farlo arrestare, chi voleva che la Contessa e la Clara tornassero tosto, chi proponeva un'andata di tutti a Venezia per resistere alle audacie di lui. Ma non ne fu nulla. La Contessa scrisse che non aveva paura, e che del resto se avessero voluto cambiar paese, Lucilio colla sua professione di medico potea farle andare in capo al mondo. Si limitarono dunque a pregare il Frumier che scrivesse a qualche suo collega del Consiglio dei Dieci acciocché il dottorino fosse tenuto d'occhio; al che si rispose che lo osservavano già notte e giorno, ma che non bisognava far chiassi perché egli aveva voce di esser protetto da un segretario della Legazione francese, da un certo Jacob, che era a que' giorni il vero ambasciatore, fidandosi principalmente in lui i caporioni della rivoluzione da Parigi. Il Conte udendo cotali cosacce faceva occhi da spiritato; ma il Frumier lo confortava a darsi animo e a cercar invece di accontentare sua moglie la quale sempre piú si lamentava della sua parsimonia nel mandar denari. Il pover'uomo sospirava pensando che per la economia aveano relegato lui a Fratta e che ciò nonostante consumavano piú denari che non ne sembrassero bisognevoli ad uno splendido mantenimento di tutta la famiglia. Sospirava, dico, ma rammucchiava nello scrigno semivuoto quei grami ducati e ne faceva certi rotoletti che cadevano cogli altri nell'abisso di Venezia. Il fattore lo ammoniva che andando di quel trotto le entrate di Fratta sarebbero in breve ipotecate per cinquant'anni avvenire. Ma rispondeva il padrone che non c'era rimedio, e con quella filosofia tiravano innanzi. Piú felice almeno, Monsignore non si avvedeva di nulla, e seguitava a mutare in polpe i capponcelli e le anitre delle onoranze. Quanto a me, io avea finito i miei studi di umanità e di filosofia, un po' alla zingaresca è vero, ma li aveva finiti. E nel sommario esame che sostenni mi trovarono per lo meno tanto asino quanto coloro che li avevano percorsi regolarmente. S'avvicinava il momento che m'avrebbero dovuto mandare a Padova, ma le finanze del Conte non gli consentivano questa munificenza, e giustizia vuole ch'io dia lode a cui si appartiene di una buona opera. Il padre Pendola non era uomo da mettersi a poltrire in un posto di maestro di casa sull'età dei cinquant'anni, quand'appunto l'ambizione si ristringe per diventar piú alta ed ostinata. Cappellano e consigliere favorito di casa Frumier aveva egli potuto accaparrarsi la stima dei molti preti e monsignori che la frequentavano: non gli mancavano né le sante massime né i pronti ripieghi di coscienza per innamorare ambidue i partiti; e tanto bene vi riescí, e tanto seppe destramente metter in mostra questo suo trionfo, che, venuta la cosa agli orecchi del Vescovo, si diceva che questi ad ogni imbroglio che turbava la diocesi usasse esclamare: - Oh fossi io il padre Pendola! Oh avessi in Curia il padre Pendola! - L'umiltà di questo diede maggior rilievo alle esclamazioni episcopali; e venuto a morte il segretario d'allora, vi furono preti d'ambidue i partiti clausetani e bassavoli che supplicarono presso il Frumier perché egli inducesse il padre ad accettare quel posto. Con ciò ognuno sperava d'insediare piú saldamente che mai nell'episcopio il proprio partito. Il Frumier ne parlò al padre, questi fece il ritroso, rifiutò la corona come Cesare, ma si lasciò incoronare come Augusto; ed eccolo diventar segretario del Vescovo, e colla sua destrezza e co' suoi maneggi padrone a dir poco d'una diocesi. Si aspettavano grandi cose; ma tutti pel momento furono gabbati; tutti peraltro erano contentissimi perché speravano nel futuro e nelle grandi promesse del padre. Egli era da poco installato nella sua nuova dignità, quando il piovano di Teglio me gli presentò nella sua canonica, ove il Vescovo faceva la visita. Gli piacqui, bisogna dire, e mi promise d'interessar a mio favore il senatore Frumier. Questi infatti godeva il diritto di nomina ad un posto in un collegio gratuito per gli studenti poveri presso l'Università di Padova: ed essendo quel posto vacante, lo destinò a me pel venturo novembre. Si lamentò anzi col cognato perché non gli parlasse prima del mio caso, che vi avrebbe provveduto con tutto il cuore. Ma il beneficio veniva a tempo ed io ne ringraziai fervidamente tanto il mio mecenate che l'utile intercessore. Per allora non ci vedeva piú in là, e non avea imparato a far saltar la moneta sulla tavola per provare se era buona. Del resto io non era malcontento di cambiar paese. La Pisana, dopoché Lucilio era partito e il Venchieredo aveva abbandonato la loro casa, faceva l'occhiolino a Giulio Del Ponte, e sul serio stavolta, perché l'aveva i suoi quindici anni, e ne mostrava e ne sentiva forse diciotto. Fu appunto in quel torno che per isvagarmi da tanto crepacuore io mi misi a gozzovigliare e a trescare coi buli del paese, e in breve divenni il vagheggino di tutte le ragazze, contadine od artigiane. Quando tornava da qualche fiera o sagra sul mio cavalluccio stornello preso a prestito da Marchetto, suonando il mio piffero alla montanara, ne aveva intorno una dozzina che ballavano la furlana per tutta la via. Ed ora mi pare che avrò somigliato una caricatura del sole che nasce, dipinto da Guido Reni, col suo corteggio delle ore danzanti. Però deggio dire che quella vita mi pesava; e fu anche interrotta da un luttuoso accidente, dalla morte di Martino che spirò nelle mie braccia dopo brevissimo male di apoplessia. Io, credo, fui il solo che piansi sulla sua fossa, perché per allora alla Contessa vecchia, già quasi centenaria e rimbambita per la mancanza della Clara, si giudicò opportuno di tacere quella perdita. La Pisana, affidata alla guida poco sicura di quella volpe scodata della signora Veronica, imbizzarriva sempre piú, e peggiorava nell'ozio la cattiva piega della sua indole. Il giorno prima che partissi per Padova, io la vidi tornare dal passeggio rossa, scalmanata. - Cos'hai Pisana? - le chiesi col cuore gonfio di lacrime di compassione, e piucché altro, lo confesso, di quell'amore che era piú forte e piú grande di me tutto. - Quel cane di Giulio non è venuto! - mi rispose ella furibonda. E poi scoppiando in singhiozzi, mi si gettò colle braccia al collo gridando: - Tu sí che mi ami, tu sí che mi vuoi bene tu! - E la mi baciava ed io la baciava frenetico. Quattro giorni dopo io assisteva alla prima lezione di giurisprudenza, ma non ne capii verbo perché la memoria di quei baci mi frullava diabolicamente nel capo. La scolaresca era in gran tumulto in grandi discorsi per le novelle di Francia che giungevano sempre piú guerriere e contrarie ai vecchi governi. Io per me rosicchiava melanconicamente lo scarso pane del collegio e le abbondantissime chiose del Digesto sempre pensando alla Pisana e alle gioie, ora dolci ora amare, sempre dilette alla memoria, de' nostri anni infantili. E cosí si chiuse per me l'anno di grazia 1792. Soltanto mi ricordo che giunta, al fine di gennaio del venturo anno, la nuova della decapitazione di re Luigi XVI, recitai un Requiem in suffragio dell'anima sua. Testimonio questo delle mie opinioni moderate d'allora. CAPITOLO OTTAVO Nel quale si discorre delle prime rivoluzioni italiane, dei costumi della scolaresca padovana, del mio ritorno a Fratta, e della cresciuta gelosia per Giulio Del Ponte. Come i morti possono consolar i vivi, ed i furbi convertire gli innocenti. Il padre Pendola affida la mia innocenza all'avvocato Ormenta di Padova. Ma non è oro tutto quello che luce. Francia aveva decapitato un re e abolito la monarchia: il muggito interno del vulcano annunziava prossima un'eruzione: tutti i vecchi governi si guardavano spaventati, e avventavano a precipizio i loro eserciti per sopire l'incendio nel suo nascere: non combattevano piú a vendetta del sangue reale ma a propria salute. Respinti dal furore invincibile delle legioni repubblicane, già Nizza e Savoia, le due porte occidentali d'Italia, sventolavano il vessillo tricolore; già si conosceva la forza degli invasori nella grandezza delle promesse; e l'urgenza maggiore del pericolo negli interni sobbollimenti. Alleanze e trattati si preparavano ovunque. Napoli e il Papa si riscotevano delle vergognose paure; la vecchia Europa, destata nel suo sonno quasi da un fantasma sanguinoso, si dibatteva da un capo all'altro per scongiurarlo. Che faceva intanto la Serenissima Repubblica di Venezia? Lo stupido Collegio de' suoi Savi avea decretato che la rivoluzione francese altro non dovea essere per loro che un punto accademico di storia; avea rigettato qualunque proposta di alleanza d'Austria, di Torino, di Pietroburgo, di Napoli, e persuaso il Senato di appigliarsi unanimemente al nullo e ruinoso partito della neutralità disarmata. Indarno strepitando l'aulica eloquenza di Francesco Pesaro, il 26 gennaio 1793 Gerolamo Zuliani Savio di settimana, vinse il partito che Giovanni Jacob fosse riconosciuto ambasciatore della Repubblica francese. Libera e ragionata, una tal deliberazione nulla in sé avrebbe racchiuso di sconsigliato o di vile; poiché né legami di famiglia, né comunanza d'interessi, né patti giurati obbligavano la Repubblica a vendicar la prigionia di Luigi XVI; ma la venalità del prepotente e il precipitoso assentimento del Senato impressero a quell'atto un colore di vero e codardo tradimento. La nuova, sparsasi indi a poco, dell'uccisione del Re, mutò nell'opinione dei governi la stolta arrendevolezza veneziana in pagata complicità; dall'una parte lo sprezzo, dall'altra l'odio accumulavano le loro minacce. La Legazione francese di Venezia accentrava in sé tutte le mene e le speranze dei novatori italiani; essa dava mano ad altri emissari che istigavano la Porta ottomana contro l'Impero e la Serenissima, per divertir quinci le forze russe e di Germania. Il Collegio dei Savi, sempre rinnovato e sempre imbecille, taceva al Senato di cotali pericoli: gli usciti trasfondevano negli entranti la stolida sicurezza e la molle indolenza. Duranti da quattordici secoli fra tante rovine di ordini e di imperi, pareva loro impossibile un subito crollo: tale sarebbe un decrepito che per aver vissuto novant'anni giudicasse non dover piú morire. Finalmente nel cader della primavera 1794, dopo che fu violata da Francia l'imbelle neutralità di Genova a danno futuro del Piemonte e di Lombardia, il Pesaro accennò altamente la prossimità del pericolo e la non lontana emergenza che tra gli imperiali scendenti dal Tirolo al Ducato di Mantova, e i Francesi contrastanti, un conflitto potesse nascere negli Stati di terraferma. Si riscosse pur sonnolento il Senato, e contro il parere del Zuliani, del Battaja e di altri conigli piú conigli degli altri, decretò che la terraferma si armasse con nuove cerne d'Istria e di Dalmazia, con restauri e artiglierie nelle fortezze. Si salvava non lo statuto ma il decoro. I Savi d'allora, Zuliani primo, s'incaricarono di perdere anche questo. Per ricattarsi della sconfitta toccata in Senato, deliberarono di attraversare l'esecuzione di quel decreto, e a tal fine si decise di usar col Senato il metodo del celebre Boerhaave, il quale inzuccherava le pillole de' suoi ammalati perché le inghiottissero senza gustarne l'amaro. Si dimostrò di poter far poco e a rilento per la povertà dell'erario; si fece nulla e mai; ogni provvedimento si ridusse a settemila uomini stentatamente raccolti ed appostati a spizzico nella Lombardia veneta. Pesaro, Pietro suo fratello, ed uno fra i Savi stessi il cui nome va scevro, almeno in questo, dalla comune ignominia, Filippo Calbo, designarono al Senato la mala fede di tante tergiversazioni; ma il Senato era ricaduto nel suo cieco torpore, inghiottí la pillola inzuccheratagli dai Savi, e non ne gustò, no, per allora l'amarezza, ma ne sentí poscia la velenosa virtù. Cosí la mia vita cominciava ad aggirarsi fra le rovine; il senno mi si afforzava ogni giorno piú in lunghi e rabbiosi studi; mi crescevano, unite alla forza contro il dolore, la forza e la volontà di operare; l'amore mi torturava, mi mancava la famiglia, mi moriva la patria. Ma come avrei io potuto amare, o meglio, come mai quella patria torpida, paludosa, impotente, avrebbe potuto destare in me un affetto degno, utile, operoso? Si piangono, non si amano i cadaveri. La libertà dei diritti, la santità delle leggi, la religione della gloria, che danno alla patria una maestà quasi divina, non abitavano da gran tempo sotto le ali del Leone. Della patria eran rimaste le membra vecchie, divelte, contaminate; lo spirito era fuggito, e chi sentiva in cuore la divozione delle cose sublimi ed eterne, cercava altri simulacri cui dedicare la speranza e la fede dell'anima. Se Venezia era de' governi italiani il piú nullo e rimbambito, tutti dal piú al meno agonizzavano di quel difetto di pensiero e di vitalità morale. Perciò il numero degli animi che si consacrò al culto della libertà e degli altri umani diritti proclamati da Francia, fu in Italia di gran lunga maggiore che altrove. Questo piú che la patita servitù o la somiglianza delle razze giovò ai capitani francesi per sovvertire i fracidi ordinamenti di Venezia, di Genova, di Napoli e di Roma, di tutti insomma i governi nazionali. Tanto è vero che, come negli individui, cosí nei consorzi e nelle istituzioni umane, senza il germe, senza il nocciuolo, senza il fuoco spirituale, nemmeno l'organismo materiale prolunga di molto i suoi moti. E se una forza estranea non distrugge violentemente i congegni, la vita a poco a poco s'affievolisce e s'arresta di per sé. Il mio vivere a Padova era proprio quello d'un povero studente. Somigliava nella figura il fanticello di qualche prete, e portava modestamente i contrassegni della nazione italiana, come si costumava anche allora dagli studenti, quasiché si fosse ancora ai tempi di Galileo, quando Greci, Spagnuoli, Inglesi, Tedeschi, Polacchi e Norvegi concorrevano a quell'Università. Si disse che Gustavo Adolfo fu colà discepolo del grande astronomo; il che importerebbe ben poco alla storia sí dell'uno che dell'altro. Coloro che io aveva compagni di collegio erano per la maggior parte pecoroni di montagna, rozzi, sudici, ignoranti; semenzaio di futuri cancellieri per gli orgogliosi giurisdicenti, o di nodari venderecci per gli uffici criminali. Tripudiavano e s'abbaruffavano fra loro, appiccavano eterni litigi coi birri, coi beccai, cogli osti; con questi soprattutto, perché avevano la strana idea di non volerli lasciar partire dalla taverna se prima non pagavano lo scotto. La querela terminava dinanzi al Foro privilegiato degli scolari; dove i giudici mostravano il facile buonsenso di dar sempre ragione a questi ultimi, per non incorrere nel loro sdegno altrettanto implacabile, quanto poco giusto e moderato. Gli studenti patrizi si tenevano in disparte a tutto potere da questa bordaglia; piú per paura che per boria, credo. E del resto non mancava anche allora il ceto di mezzo, quello dei piú, dei tentennanti, dei misurati, che nell'abbondare della mesata s'accomunava ai costosi piaceri dei nobili, e nella povertà degli ultimi del mese ricorreva alle ladre e petulanti baldorie degli altri. Dicevano male di questi con quelli e di quelli con questi; fra loro poi si beffavano di questi e di quelli, veri antesignani di quel medio ceto senza cervello e senza cuore che si credette poi democratico perché incapace di ubbidire validamente al pari che di comandare utilmente. Intanto i rivolgimenti francesi venivano a smuovere in qualche maniera i vuoti e frivoli talenti di quella scolaresca. Il sangue bolle e vuol bollire ad ogni costo nelle vene giovanili; i giovani son come le mosche che senza capo seguitano a volare, a ronzare. Fra i patrizi s'ebbero i novatori scolastici che applaudirono, e i timidi chietini che si spaventarono; dei plebei qualcuno ruggí alla Marat; ma gli Inquisitori gli insegnarono la creanza; la maggior parte, impecorita nell'adorazione di San Marco, tumultuava contro i Francesi lontani, solita braveria di chi ossequia poi e serve i presenti. Quelli di mezzo aspettavano, speravano, gracchiavano: pareva loro che dai nobili il governo dovesse cader in loro per naturale pendio delle cose; acchiappato che lo avessero, si argomentavano bene di non lasciarlo cadere piú in giù. Ma non gridavano a piena gola; soffiavano, bisbigliavano come chi serba la voce e la pelle a miglior momento. Gl'Inquisitori, si può ben credere, guardavano con mille occhi questo vario brulichio di opinioni, di lusinghe, di passioni: ogni tanto un calabrone, che strepitava troppo, cadeva nell'agguato tesogli da qualche ragno. Il calabrone era trasportato in burchio a Venezia; e passato il ponte dei Sospiri nessuno lo udiva nominare mai piú. Con questi sotterfugi e giochetti di mano, ottimi a spaventare l'infanzia d'un popolo, credevano salvar la Repubblica dall'eccidio soprastante. Io per me aveva allora troppe memorie da accarezzare, troppi dolori da combattere, perché mi mettessi a pescar col cervello in quei torbidi. Della Francia avea udito novellare una volta o due come di regione tanto discosta che non capiva nemmeno che cosa potessero calere a noi le pazzie che vi si facevano. In fatti le mi avevano figura di pazzie e nulla piú. L'autunno susseguente al primo anno di giurisprudenza fu quasi suggello a quella mia incuria politica. Il viaggio pedestre fino a Fratta, il riveder la Pisana, gli amori rinati e troncati poi di bel nuovo per nuove stranezze, per nuove gelosie, le incombenze affidatemi per via di esperimento del Cancelliere, gli elogi del Conte e dei nobiluomini Frumier, le soperchierie e le scappate del Venchieredo, i disordini della famiglia Provedoni, i dissidi fra la Doretta e Leopardo, le continue imprese dello Spaccafumo, le raccomandazioni del vecchio Piovano, e gli strani consigli del padre Pendola mi diedero troppo da pensare, da fare, da meditare, da godere e da soffrire perché mi pentissi di aver lasciato ai miei compagni la cura delle cose di Francia e il passatempo delle gazzette. Peraltro tutte cotali cose mi fecero l'effetto d'una commedia goduta, in confronto di quanto mi fece provare in que' due mesi la sola Pisana. Che l'indole di lei fosse migliorata nel frattempo nessuno lo vorrebbe credere se anche io fossi tanto bugiardo e sfacciato da affermarlo. Bensí era cresciuta di bellezza nelle forme e nel volto. S'era fatta veramente donna; non di quelle che somigliano fiori delicati cui la prima brezza del novembre torrà l'olezzo e il colore; ma una figura altera, robusta, ricisa, ammorbidita da una rosea freschezza e da una mobilità di fisonomia bizzarra e istantanea sovente, ma sempre graziosa e ammaliatrice. Quando quella fronte superba e marmorea si chinava un istante alle occhiate procaci d'un giovane, e le pupille velate e come confuse si volgevano a terra, una tal fiamma di desiderii, di voluttà e d'amore traluceva da tutta lei, che le si respirava dintorno quasi un'aria infuocata. Io era geloso di chi la guardava. E come poteva non esserlo io che l'amava tanto, io che la conosceva fin nel profondo delle viscere? - Povera Pisana! - Ne aveva ella colpa se la natura abbandonata a se stessa avea guastato di sua mano ciò ch'ella di sua mano avea preparato perché gli amorosi accorgimenti dell'arte ne cavassero un prodigio d'intelligenza, di bellezza e di virtù? Ed io, aveva io colpa di amarla tuttavia, ebbi poi colpa d'amarla sempre, quantunque ingrata, perfida, indegna, se sapeva di essere il solo al mondo che potesse compatirla? La terribile sventura del peccato non ha da essere ricompensata quaggiù da nessun conforto? Memoria, memoria, che sei tu mai! Tormento, ristoro e tirannia nostra, tu divori i nostri giorni ora per ora, minuto per minuto e ce li rendi poi rinchiusi in un punto, come in un simbolo dell'eternità! Tutto ci togli, tutto ci ridoni; tutto distruggi, tutto conservi; parli di morte ai vivi e di vita ai sepolti! Oh la memoria dell'umanità è il sole della sapienza, è la fede della giustizia, è lo spettro dell'immortalità, è l'immagine terrena e finita del Dio che non ha fine, e che è dappertutto. Ma la mia memoria frattanto mi serví assai male; essa mi legò giovane ed uomo ai capricci d'una passione fanciullesca. Le perdono tuttavia; perché val meglio a mio giudizio il ricordar troppo e dolersene, che il dimenticar tutto per godere. Dirvi quanto soffersi nel giro di quelle poche settimane sarebbe opera lunga. Ma deggio pur confessare a mia lode che la compassione piú assai della gelosia mi tormentava; nessun cruccio è cosí forte come quello di dover biasimare e compiangere l'oggetto dell'amor nostro. Le stranezze della Pisana toccavano sovente all'ingiustizia; spesso apparivano svergognatezza, se io non avessi ricordato quanto spensierata ella fosse di natura. Le sue simpatie non aveano piú né ragione né scusa né durata né modo. Questa settimana s'apprendeva d'un affetto rispettoso e veemente pel vecchio piovano di Teglio; usciva col velo nero sul capo e le ciglia basse; s'intratteneva con lui sulla porta della canonica volgendo le spalle ai passeggieri; udiva pazientemente i suoi consigli e perfino le sue mezze prediche. Si ficcava in testa di diventare una santa Maddalena, e si pettinava i capelli come li vedeva a questa santa in un quadretto che stava a capo del suo letto. Il giorno dopo compariva mutata come per incanto; la sua delizia non era piú il Piovano, ma il cavallante Marchetto; voleva a tutta forza ch'ei le insegnasse a cavalcare; scorrazzava pei prati a bisdosso d'un ronzino come un'amazzone, e si guastava la fronte e le ginocchia contro i rami della boscaglia. Allora non voleva seco che poverelli e contadini; si atteggiava, credo, a castellana del Medio Evo; camminava lungo il rio a braccetto di Sandro il mugnaio, e perfin Donato, lo spezialino, le pareva troppo azzimato e artifizioso. Poco stante, eccola cambiar registro; voleva esser condotta mattina e sera a Portogruaro; faceva attrappire tutti i vecchi cavalli di suo padre nelle fangose carraie di quelle stradacce, ma si dovea sempre correre di galoppo. Godeva di eclissare la podestaressa, la Correggitrice, e tutte le signore e donzelle della città. Giulio Del Ponte, il damerino piú vivace e desiderato, le serviva di riverbero: parlava e gesticolava con lui, non perché avesse nulla a dirgli, ma per ottener voce di briosa e maligna. Giulio ne era innamorato pazzamente e avrebbe giurato ch'ella aveva piú brio di tutte le male lingue di Venezia. Ella invece sempre scontenta, sempre tormentata da desiderii mal definiti, e da una voglia sfrenata di piacere a tutti, di far bene a tutti, non pensava che ciò, non si studiava che a ciò, e rade volte si prendea la briga di neppur ascoltare quando altri parlava. Questa era una qualità singolarissima della sua indole, che purché fosse certa di far contento alcuno, a nessuna opera, per quanto difficile e schifosa, si sarebbe rifiutata. Se uno storpio, uno sciancato, un mostro avesse mostrato desiderio d'ottenere un suo sguardo lusinghiero, tosto ella glielo avrebbe donato cosí amorevole, cosí lungo, cosí infocato come al vagheggino piú lindo e lucente. Era generosità, spensieratezza, o superbia? Forse questi tre motivi si univano a renderla tale; per cui non ebbe dintorno essere tanto odioso e spregevole che con un'attitudine di preghiera non ottenesse da lei confidenza e pietà, se non affetto e stima. Perfino con Fulgenzio si addomesticava talvolta a segno da sedere al suo focolare intantoché dimenavano la polenta. E poi, uscita di là, la sola memoria di quel bisunto e ipocrita sagrestano le metteva raccapriccio. Ma non sapeva resistere a un'occhiata di adulazione. La signora Veronica s'era accorta di questo; e di antipaticissima che le era dapprincipio avea saputo renderlesi sopportabile e quasi cara, a forza di piacenteria. Figuratevi qual perfezionamento di educazione fu per lei l'interessata indulgenza di quest'aia da trivio! Avea finito per entrarle in grazia col farle addirittura da mezzana; ed era dessa che correva ad avvertirla e faceva scappare Giulio Del Ponte per la parte delle scuderie, quando il Conte o Monsignore si svegliavano prima del solito. La Faustina, rimasta a Fratta come cameriera, non le era miglior compagna. Queste mezze vesticciuole cittadinesche ridotte a vivere in campagna, diventano maestre di vizii e di corruzione; e la Faustina peggio forse di molte altre, perché ve la tirava il temperamento tutt'altro che modesto. La complicità colla padrona le sembrava la miglior arra d'impunità; e potete credere se la aiutava con zelo, e se la eccitava colle suggestioni e coll'esempio! Io mi maraviglio ancora che non ne nascesse sotto gli occhi del Conte e del Canonico qualche gravissimo scandalo; ma forse le apparenze furono peggiori della realtà, e le fatiche corporali e la vita selvatica e vagabonda attutirono per allora nella Pisana gli istinti focosi e sensuali. In ciò io era piú disposto tuttavia a veder nero che bianco; perché essendo stato testimonio e compagno delle sue infantili effervescenze, durava grande fatica a credere che l'età piú adulta avesse smorzato in lei quello che suole accendere negli altri. Briaco d'amore e di rimembranze, ogni qualvolta un impeto di compassione me la recava fra le braccia e non la sentiva tremare e sospirare come avrei voluto, la gelosia mi torceva l'anima: pensava che a me restassero le ceneri d'un fuoco che avea bruciato per altri, e su quelle labbra dove m'immaginava dover gustare ogni gioia del paradiso trovava invece i tormenti dell'inferno. Ella si stoglieva da me disgustata della mia freddezza, della mia rabbia continua; io fuggiva da lei colle mani nei capelli, colla disperazione nel cuore volgendo nell'animo pensieri di morte e di vendetta. Giulio Del Ponte mi sovveniva allora colla sua fisonomia piena di fuoco, d'ardimento, di vita, co' suoi occhi inondati sempre di gioia e d'amore, col suo sorriso schernitore insieme e procace come quello d'un fauno greco, colla sua loquela pronta, vivace, immaginosa, soave! Io lo odiava in ragione delle immense doti concessegli da natura per ammaliare le donne; mi piaceva di pensare ch'egli non era né bello né robusto né ben fatto, e che la piú guercia donzella del contado avrebbe preferito le mie larghe spalle e la mia aperta e sana figura a quel suo corpicciuolo magro, sparuto, convulso. Contuttociò dinanzi alla Pisana mi sentiva nulla appetto a lui; capiva che se fossi stato donna, io pure gli avrei concesso la palma in mio confronto. Dio! cosa non avrei io dato allora per cambiarmi con lui a prezzo di qualunque sacrifizio! - Avessi perduto le forze, la salute, fossi morto sfilato il giorno dopo, non avrei esitato a entrar ne' suoi panni per godere un istante di trionfo, e credere ch'ella mi amava piú di se stessa! Sciocco di pensare e di desiderare ciò! Nessuno al mondo esisterà mai, per quanto incantevole e perfetto, che avesse potuto concentrare in sé solo e per sempre tutti gli affetti, tutti i desiderii della Pisana. Io che ne aveva una buona parte, desiderava l'altra: se avessi ottenuto questa, mi sarebbe mancata la prima. Poiché né Giulio, né alcun altro prima o dopo di lui, poté vantarsi di godere al pari di me la confidenza e la stima della Pisana. Io solo, io solo ebbi questa parte piú intima e sola forse santa dell'anima sua; io solo, nei pochi intervalli che fui da lei beato d'amore, ho potuto credermi padrone di tutto l'esser suo, veramente amante, poiché l'amava conoscendola com'ella era; veramente amato, perché al sentimento che mi desiderava, la ragione stessa dava la sveglia e l'abbandono soave della gratitudine. Oh! mi si conceda questo unico premio d'un amore sí lungo, paziente, infelice. Mi si conceda di poter credere che come io prelibai le delizie di quell'anima, cosí solo ne ebbi il pieno godimento. Né lo spettacolo d'un bello e vario prospetto di natura, né l'aspetto d'un quadro finitamente condotto può apprezzarsi degnamente se non da chi ha la vera conoscenza della natura e dell'arte. Nessuno potrà apprezzare certo i tesori di un'anima, se non ne ha indagato con lunga consuetudine e con devoto e profondo amore i piú reconditi nascondigli. La Pisana fu una creatura siffatta, che soltanto chi nacque, si può dire, e crebbe con lei, e pensò sempre a lei, e non amò che lei, può averla interamente indovinata. In onta alle lezioni del Piovano io posso assicurarvi che io non era in fin d'allora né un cristiano esemplare, né un giovine scrupoloso. La libertà lasciatami nell'infanzia, e gli esempi altrui sia a Fratta che a Portogruaro ed a Padova, avean lasciata assai lenta la briglia a' miei costumi. Pure coll'avara cautela dell'amore io studiai ogni via per ritrar la Pisana da quel pericoloso sentiero a cui mi pareva avviata. Era carità pelosa, se volete; ma il tentativo era a fin di bene, senza metter in conto altri intenti personali. La Pisana non s'avvide di questi miei sforzi; la Faustina e la Veronica ne indispettirono. Quest'ultima, credo, ebbe paura ch'io intendessi farle la satira a lei ed alla sua manica larga; ma se ella temeva ciò in fatti, doveva farne suo pro' e correggere con qualche accorgimento di severità un'eccessiva indulgenza. Al contrario continuò nella sua cieca condiscendenza, vendicandosi di me collo screditarmi in ogni mala guisa presso la Pisana. Io credo in ultima analisi ch'ella riversasse sopra questa povera disgraziata tutto l'odio che aveva accumulato nel fegato contro la Contessa sua madre in tanti e tanti anni di spregi sofferti e di muta e tremante servitù. Se ne pagava col guastarla nell'ozio, nella frivolezza e nelle famigliarità d'ogni peggior vitupero; non sarebbe questo il primo esempio di simile vendetta per parte di un'aia. Baldracca piú sboccata di lei e della Faustina io non mi ricordo di averla trovata mai in nessun porto di mare; ma dinanzi al Conte e a Monsignore sapeva star contegnosa, e tutte le sere nella stanza della Contessa vecchia intonava devotamente il rosario, cui la inferma dal suo letto e una contadinella destinata a vegliarla dopo la partenza della Clara, rispondevano con voce sommessa. La Pisana anche colla nonna usava come cogli altri; una settimana sí ed un'altra no; non v'aveano che suo padre, il Cancelliere e lo zio monsignore che non godessero de' suoi insulti di tenerezza; ma questa era gente di carta pesta, che non aveva anima, che non aveva né indole propria né colore e la Pisana se ne dimenticava. Dubito che si sarebbe anche dimenticata della madre e della sorella, perché la lontananza fu sempre pe' suoi affetti un calmante prodigioso. Ma una lettera della Contessa con un poscritto della Clara la faceva risovvenire ogni due mesi di quella parte di famiglia che viveva a Venezia; siccome poi in quella lettera si davano novelle anche del Contino che era agli ultimi anni della sua educazione, cosí ogni due mesi le risovveniva di avere un fratello. Gli zii Frumier erano forse i soli che, lontani o vicini, stettero sempre in mente o sulle labbra alla fanciulla. Quel poter nominare un senatore, un parente del doge Manin, e dire "gli è mio zio", era per lei una discreta soddisfazione, e se la prendeva sovente anche senza una stretta necessità. Giulio Del Ponte e la Veronica le menzionavano sovente suo zio senatore quando la vedevano sconvolta o annuvolata. A quelle magiche parole si rasserenava, si ricomponeva immantinente per dilagarsi in gran chiacchiere sulla potenza e sull'autorità del Senatore, sui suoi palazzi, sulle sue ville, sulle sue gondole, sulle vesti di seta, sulle gemme e sui brillanti della zia. E quante maggiori splendidezze narrava, tanto piú vi scivolava sopra colla lingua senza alcun sussiego quasi a dimostrare che di cotali cose essa aveva troppa consuetudine per esserne maravigliata. Invece, poverina, né gioie, né ville, né palazzi essa aveva veduto mai fuori del palazzo del Frumier a Portogruaro, e della crocetta di brillanti di sua mamma; l'immaginazione suppliva a tutto, e si comportava alla foggia delle attrici che parlano in commedia dei loro cocchi, dei loro tesori, né hanno mai cavalcato un asino o fiutato l'odor d'un zecchino. Peraltro io mi stupii sempre che col grande magnificar ch'ella faceva l'eccellentissima casa Frumier, rimanesse poi mogia, imbrogliata e quasi uggiosa quando vi compariva in conversazione. Ora capisco che il solo dover cedere alla zia il primo posto le tarpava le ali dell'orgoglio; e piú poi insalvatichita dalla solitudine di Fratta e dal consorzio di rozzi villani o di pettegole sfacciate, non s'arrischiava di mischiarsi ai ragionari degli altri e cosí s'imbronciava di dover sfigurare in punto a brio ed a loquela. Ma volendo ricattarsene coi vezzi e collo splendore della bellezza, cadeva nell'altro sconcio di far sempre mille attucci e di restar sempre preoccupata di sé in modo che pareva perfino stupida. Monsignor di Sant'Andrea, che in onta al barbaro abbandonamento della Contessa avea serbato alla figlia una calorosa predilezione, la proteggeva sovente contro i motteggi dei maligni. Affermava egli che la era piena di brio, d'ingegno e di sapere, ma che per dar risalto a tutti questi pregi sarebbe occorsa un'abbondante sbruffata di vaiuolo. - Ma che Dio ne la preservi! - soggiungeva il dotto canonico - perché d'ingegno e di dottrina ne son piene perfin le cantere della biblioteca, mentre una bellezza come questa non la si trova né in cielo né in terra, e bisogna esser di pietra per non esserne esilarati fino in fondo al cuore solo a contemplarla!... Giulio Del Ponte sosteneva a spada tratta il parere di Monsignore; ma l'Eccellentissimo Frumier gettava sul giovine qualche occhiatina agrodolce quand'egli s'incaloriva tanto sopra questo argomento. Gli è vero che la Pisana non somigliava per nulla alla Clara, ma Giulio somigliava troppo a Lucilio e il Senatore ne avea mosso cenno piú volte al cognato. Eh sí, ci voleva altro per promovere una deliberazione del signor Conte! Egli si era scaricato di tutti i doveri della paternità sulle spalle della signora Veronica; e siccome le infinite chiacchiere di costei gli davano il capogiro, s'accontentava di domandare al Capitano: - Ehi, Capitano! cosa ne dice della Pisana vostra moglie? È contenta del suo contegno, delle sue maniere, de' suoi lavori? Si fa esperta nelle faccende casalinghe? Il Capitano imbeccato dalla Veronica rispondeva a tutto di sí; e poi torceva e ritorceva quei suoi poveri baffi, che a furia di esser toccati, stravolti, malmenati, s'eran ridotti, di neri, grigi, di grigi, canuti, e di canuti, gialli. Avevano il piú bel colore di zucchero filato che si potesse vedere; e soltanto la coda di Marocco, in merito della vecchiaia e dell'esser continuamente abbrustolita sul fuoco, aveva acquistato una tinta consimile. Marchetto aveva offerto al Capitano, per quella sola coda, la cessione di tutti i suoi crediti di gioco; e l'Andreini e il Cappellano affermavano che solo il valoroso Sandracca ed il suo nobile cane da ferma potevano gareggiare coll'alba nel colore del pelo. Questi ospiti perpetui del castello di Fratta eran divenuti sempre piú domestici e burloni, dopo la partenza della Contessa; e neppure il Cappellano pativa piú tanto la soggezione. Perfino i gatti della cucina avean perduto l'antica salvatichezza e s'accoccolavano fra le ceneri e sui piedi della compagnia. Un vecchio gattone soriano, grave come un consigliere, s'era legato di strettissima amicizia con Marocco: dormivano insieme in comunanza di paglia e di pulci, passeggiavano di conserva, mangiavano sullo stesso desco, e s'esercitavano alla stessa caccia, a quella dei sorci. Ma con molta discretezza e affatto signorilmente; si vedevano in essi i cacciatori dilettanti che si movevano per ingannar l'ora, e cedevano la preda al servidorame degli altri gatti e gattini della cucina. A dirvi il vero, trascorsi i primi giorni nei quali la Pisana era tornata la mia fedelona d'una volta, io non ci stava bene per nulla in mezzo a quella gente. Quando era piccino mi accontentava di non intenderli e di ammirarli; allora invece li intendeva benissimo senza capire come potessero godersi di tante scipitaggini. Mi ficcai dunque per disperazione in cancelleria; e là impasticciava protocolli e copiava sentenze raccomodando anche mano a mano molti strafalcioni che sgorgavano dalla fecondissima penna del mio principale. E sí che aveva sempre il capo nelle nuvole! e ad ogni pedata che udissi nel cortile correva alla finestra per vedere se era la Pisana che usciva o che tornava dalle sue gite solitarie. Era tanto inasinito che nemmeno lo scalpiccio di due zoccoli mi lasciava quieto; udiva sempre la Pisana, la vedeva dovunque, e per quanto ella sfuggisse d'incontrarsi con me, e incontratomi mi tenesse il broncio, io non cessava dal desiderarla come il solo bene che m'avessi. La signora Veronica si compiaceva di gabbarmi per questa mia smania, e m'intratteneva sovente del gran chiasso che la Pisana faceva a Portogruaro, e di Giulio Del Ponte che moriva per lei, e di Raimondo Venchieredo che, escluso dal vederla a Fratta o in casa Frumier, l'aspettava sulla strada o nei luoghi ov'ella costumava passeggiare. Io mi rodeva di dentro e scappava da quella ciarlona. Rifaceva passo passo le corse di una volta; andava fino al bastione di Attila a contemplarvi il tramonto; là mi saziava di quel sentimento dell'infinito con cui la natura ci accarezza nei luoghi aperti e solinghi; guardava il cielo, la laguna, il mare; riandava le memorie della mia infanzia, pensando quanto era fatto diverso, e quante diversità ancora mi prometteva o mi minacciava il futuro. Qualche volta mi ricoverava a Cordovado in casa Provedoni dove almeno un po' di pace, un po' di giocondità famigliare mi rinfrescava l'anima quando non la guastava la Doretta colle sue scappatelle o co' suoi grilli da gran signora. I piú piccoli dei fratelli Provedoni, Bruto, Grifone, Mastino, erano tre bravi ed operosi garzoni, ubbidienti come pecori, e forti come tori. La Bradamante e l'Aquilina mi piacevano assai per la loro rozza ingenuità, e pel continuo e allegro affaccendarsi delle loro manine a vantaggio della famiglia. L'Aquilina era una fanciulla di forse appena dieci anni; ma attenta grave e previdente come una reggitrice di casa. A vederla sul fosso in fondo all'ortaglia occuparsi a risciacquare il bucato col suo corsetto smanicato e la camicia rimboccata oltre il gomito, la sembrava proprio una vera donnetta; e io ci stava presso di lei le lunghe ore rifacendomi quasi fanciullo per godere d'un po' di quiete almeno colla fantasia. Bruna come una zingarella, di quel bruno dorato che ricorda lo splendore delle arabe, breve e nerboruta di corpo, con due folte e sottili sopracciglia che s'aggruppavano quasi dispettosamente in mezzo alla fronte, con due grandi occhi grigi e profondi, e una selva di capelli crespi e corvini che nascondevano per metà le orecchie ed il collo, l'Aquilina aveva un'impronta di calma e di fierezza quasi virile che contrastavano colla modesta titubanza della sorella maggiore. Costei in onta a' suoi vent'anni pareva piú bambina dell'altra: eppure la era una ragazza di garbo, e il signor Antonio diceva scherzosamente che chi l'avesse voluta sposare avrebbe dovuto pagargliela salata. Ma tutte e due si mostravano ammirabili di pazienza nel loro contegno verso Leopardo e la cognata. Costei, arrogante, bisbetica, malcontenta di tutto; suo marito infinocchiato e aizzato sempre da lei, ingiusto, zotico e crudele a sua volta; non è a dire quanto l'indole di lui s'era cambiata sotto l'impero della moglie. Non lo si conosceva proprio piú, e tutti strolicavano per sapere qual droga avesse filtrato la Doretta per affatturarlo a quel modo. Alle corte, non era stato che amore; ma l'amore, che è un ventaglio d'angelo nelle mani della bontà, abbrancato dalla malignità e dall'orgoglio diventa un tizzone d'inferno. La Doretta si pentiva di essersi piegata a quel matrimonio con Leopardo, e non si schivava dal dirlo a tutti ed anco a lui, facendogli anche misurare la gran degnazione ch'era stata la sua a sposarlo. I corteggiamenti di Raimondo le davano a credere che, se avesse avuto pazienza di restar zitella, a ben piú eccelso stato poteva aspirare che non a quella stentata condizione di moglie d'un possidentuccio di paese, e nuora e cognata per giunta di villanzoni duri, frugali, e bigotti. La dimora in casa le pareva omai intollerabile; stava sovente le giornate intere a Venchieredo, e se le domandavano ov'era stata non si degnava neppur di rispondere, ma squassava le spalle e tirava innanzi. Per poter comparire in gran pompa a Portogruaro, avea trovato la scusa di scegliersi a confessore il padre Pendola. Ma queste frequenti confessioni poco contribuivano, per quanto pareva, a migliorarla ne' suoi costumi. Fino con suo padre aveva smesso di usar le buone, come usano sempre i temperamenti fastidiosi, che cominciano ad irritarsi contro qualcuno, e finiscono poi col pesar sopra tutti. Gli serbava astio di aver consentito alle sue nozze con Leopardo, e se il dottor Natalino soggiungeva che era stata lei a volerlo, si rimbeccava come una vipera, gridando che è dovere dei padri soccorrere col loro senno il giudizio poco maturo delle figliuole, e che certo se ella avesse mostrato voglia di gettarsi nel pozzo avrebbe avuto la consolazione di sentirsi dare la prima spinta da suo padre. Toccava poi al padroncino quietarla da tali furie; e come vi riuscisse e con quanto onore del credulo Leopardo, io lo lascio pensare ai lettori. Infin dei conti tutto il paese mormorava di lei, e la famiglia tuttavia la sopportava con rassegnazione, e il povero marito non vedea cosa da lei desiderata che subito non gettasse foco dalle narici per ottenerla. Io fra me e me ritraeva dallo spettacolo di queste scene domestiche i miei ammaestramenti, i miei conforti; toccava con mano che la felicità è relativa, passeggiera, ma piú ancor rara e fallace. Tornando poi a Fratta, se ben poco mi restava di tali conforti, avea se non altro passato qualche ora senza frugar colle unghie nelle mie piaghe; e qualcheduna mi si chiudeva lentamente: però ne restavano le cicatrici fino all'osso, e restava come quei barometri ambulanti nei quali ogni costola, ogni giuntura con doloruzzi e scricchiolamenti dà indizio del cambiar del tempo. Continuava cosí vagabondo e melanconico in quelle vacanze autunnali quando un giorno che aveva creduto intravvedere nella Pisana una cera piú benigna del solito, me le misi dietro, la seguii fuori per l'orto fin sulla strada di Fossalta; e poi avvicinandomele di soppiatto passai il mio braccio nel suo chiedendole se mi avrebbe sopportato per compagno. Non avessi mai osato tanto! La giovinetta mi si voltò contro con tali occhi che parve mi volesse divorare! e poi volle dar sfogo alla sua bile con qualche grande ingiuria, ma la voce le rimase strozzata in gola, e si morse le labbra che ne spillò il sangue fino sul mento. - Pisana - le dissi - per carità, Pisana, non guardarmi in quella maniera! Ella strappò violentemente il braccio di sotto al mio e lasciò di mordersi le labbra perché omai la rabbia dava passo alle parole. - Cosa fate? cosa mi chiedete? - rispose ella disdegnosamente. - Non siamo piú fanciulli mi pare! Ora è tempo di stare ciascuno al nostro posto, e mi maraviglio che voi, anziché eccitarmi a dimenticare questa massima, non me la rechiate a mente quando la troppa bontà me ne fa smemorare. Già lo sapete ch'io sono bizzarra e di primo impeto; or dunque tocca a voi freddo e ragionevole di natura ricordarvi chi siete e chi sono io!... Ciò detto ella mi volse le spalle e s'avviò verso l'ombra di alcuni salici dove Giulio Del Ponte l'aspettava collo schioppo in ispalla. Seppi poi che si avean data la posta colà, e che l'idea ch'io la seguissi per ispiarla avea ispirato alla Pisana quelle cattive parole. Non monta. Io ne patii allora fino in fondo all'anima. Tornai in castello che non sapeva se fossi morto o vivo; girava qua e là su e giù per le scale come l'ombra d'un dannato; entrai spensatamente in camera della Contessa vecchia. - Guardate se è la Clara! - disse costei alla sua infermiera, perché gli occhi oggimai non le servivano piú che per piangere le lagrime senza conforto della vecchiaia. Io fuggii addolorato e stravolto; corsi fino disopra nel mio covacciolo ove tutto stava ancora disposto come quand'io n'era uscito un anno prima. Di là, dopo una lunga ora, passai nella camera di Martino. La mia devozione e l'incuria degli altri non avean messo un dito nelle cose lasciate dal vecchio. Per terra giacevano ancora alcuni chiodi avanzati al becchino che lo avea rinchiuso nella cassa; una fiala con non so qual cordiale disseccato e corrotto stava sulla tavola. Sul muro spenzolavano ancora sfogliati e polverosi rami di olivo appesivi da lui nell'ultima domenica delle Palme di sua vita. Mi gettai sopra il letto impresso ancora dalla giacitura del cadavere; là piansi amaramente, evocai la memoria di quel mio primo e si può dir solo amico; lo chiamai a nome mille e mille volte, lo pregai che si ricordasse di me e che scendesse anima o spettro a consolarmi della sua compagnia. Ma la fede titubava anche in queste invocazioni; io non sperava, io non credeva piú. Solamente piú tardi a forza di tormenti e di sforzi giunsi a rafforzarmi il cuore d'una credenza vaga, confusa, ma pur sicura ed intrepida, nelle cose spirituali ed eterne. Allora balbettava sí le orazioni nelle chiese, ma l'anima mia era arida come uno scheletro; la mente cadeva appassita dall'aria greve del mondo; il cuore scoraggiato si appigliava alla speranza del nulla come ad unico rifugio di pace. Questo interno scoraggiamento mi rendeva terribile ed amara perfin la memoria di quel buon vecchio che ad onta delle mie disperate invocazioni non avrei piú potuto rivedere, e che dormiva nel sepolcro, mentr'io mi trangosciava nella vita. L'aria di morte che colà respirava, mi invase a poco a poco il cervello: le lagrime mi si stagnarono sulle ciglia, e l'occhio prese una guardatura vitrea e tormentosa ch'io m'ingegnava indarno di cambiare. Mi pareva che il fuoco della vita si ritraesse da me; sentiva il gelo, i fantasmi, i terrori dell'agonia che mi opprimevano; vi fu un istante che cambiato quasi in cadavere credetti di essere lo stesso Martino, e mi maravigliava di essere uscito dalla fossa, e aspettava e temeva che di momento in momento entrassero i becchini per riportarmivi. Questo pensiero strano e spaventoso mi si ingrandiva dinanzi come la bocca d'un abisso; non era piú un pensiero, ma una visione, una paura, un raccapriccio. La luce della finestra mi percosse le pupille quasi assopite; forse in quel momento il sole sbucava da qualche nuvola e inondava la stanza cogli splendori del giorno: un desiderio d'aria, di quiete, d'annientamento s'impadroní di me. Sorsi barcollando, e mi trascinai al davanzale del balcone; ma lo strepito d'una seggiola che rovesciai nel movermi, mi svegliò un poco da quel sogno funereo. Del resto credo che mi sarei precipitato dalla finestra, e la mia vita sarebbe passata senza il lungo epitaffio di queste confessioni. Stesi la mano per appoggiarmi alla tavola, e toccai qualche cosa che mi restò fra le dita. Era un libricciuolo di devozione; quello appunto che il vecchio Martino soleva leggicchiare tutte le domeniche durante la messa; gli occhiali vi stavano ancora dentro in guisa di segno. Parve quasi che l'anima del mio amico fosse accorsa alle mie chiamate e s'apprestasse a rispondermi dalle pagine sdrucite di quel libro; gli occhi mi si inumidirono di nuovo, e mi abbandonai col capo nelle mani sopra la tavola, singhiozzando senza ritegno. Allora tornò se non la calma almeno la luce nel mio spirito, e a poco a poco ricordai come e perché fossi là venuto; e quali dolori mi aveano fatto cercare ricovero nella memoria d'un morto. Mi rizzai tremante e lagrimoso ancora, ma conscio e sicuro di me; apersi religiosamente il libro e ne sfogliai con raccoglimento le pagine. Erano le solite orazioni, semplici e fervorose; conforto ineffabile delle anime divote, geroglifici ridicoli e misteriosi pei miscredenti. Qua e là si frapponeva l'immagine di qualche santo, qualche polizzino di comunione col suo testo latino e la cifra dell'anno in fronte; modeste pietre miliari d'una lunghissima vita, ammirabile di fede, di sacrifizio, e di contenta giocondità. Finalmente mi capitò sott'occhio una carta piena da capo a fondo d'uno stampatello irregolare e minuto, quale è usato da coloro che imparavano soli a scrivere metà da scritture corsive e metà da lettere stampate. Era il carattere autentico di Martino, e mi sovvenne allora ch'egli già adulto a forza di scarabocchiare era giunto ad esprimere alla bell'e meglio quanto aveva in capo, per potersene giovare nel render conto delle spese ai padroni. Trovata quella carta mi parve aver tra mano un tesoro, e mi accinsi ad interpretarla benché non mi sembrasse impresa tanto agevole. Pure, cerca e ricerca, aggiungi di qua e togli di là, a forza di ipotesi, di rattoppi e di appiccature, mi venne fatto di cavare un senso da quel viluppo di lettere, vaganti senz'ordine e senza freno come un branco di pecorelle ignoranti. Pareva fossero ricordi o ammaestramenti d'esperienza ritratti da qualche stretta pericolosa della vita, vittoriosamente superata; e a rinfiancarli il buon vecchio aveva aggiunto qualche massima divota e i comandamenti di Dio ove cadevano a proposito. E la scrittura non mancava di qualche rozza eleganza come sarebbe d'un trecentista, o di qualunque uomo che non sa scrivere ma sa pur pensare meglio di coloro che scrivono. Cominciava cosí: "Se sei al tutto infelice è segno che hai qualche peccato sull'anima; perché la quiete della coscienza prepara a' tuoi dolori un letto da riposarsi. Cerca e vedrai che hai trascurato qualche dovere, o fatto dispiacere ad alcuno; ma se riparerai all'ommissione e al mal fatto, tornerà subito la pace a rifiorir nel tuo cuore, perché Gesù Cristo ha detto: beati coloro che soffrono persecuzione. "Dimentica i piaceri che ti son venuti di sopra a te; cercali sotto a te nell'amore degli umili. Gesù Cristo amava i fanciulli, i cenciosi, e gli storpi. "Non guardare alla tua condizione come ad una galera cui sei condannato. Galeotti in veneziano si chiamano i birbanti. Ma i buoni lavorano per amore del prossimo e quanto piú duro è il lavoro tanto è maggiore il merito. Bisogna amare il prossimo come noi stessi. "Non ribellarti a chi ti comanda; soffri la sua durezza non per timore ma per compassione, acciocché non accresca il suo peccato. Gesù Cristo ubbidí ad Erode e a Pilato. "Il segreto, che ti si rivela per caso, è piú sacro di quello che ottieni in deposito dalla fiducia altrui. Questo ti è confidato dall'uomo, e quello da Dio. La soddisfazione di averlo custodito gelosamente ti darà maggior piacere che non ne otterresti dai favori o dai denari che ti si offrono a tradirlo. La pace dell'anima val piú di mille zecchini; io lo posso assicurare; e mi avvedo ora che pensai giustamente e pel mio meglio. "Vivendo bene, si muore meglio; desiderando nulla, si possiede tutto. Non desiderare la roba d'altri. Però non bisogna né disprezzare né rifiutare per non offender nessuno. "Se adempiendo a tutti i tuoi doveri non sei ancora in pace con te stesso, gli è segno che ignori molti altri doveri che ti incombono. Cercali, adempili e sarai contento per quanto lo sopporta la condizione umana. "La disperazione è sempre stata la piú gran pazzia, perché tutto finisce. Parlo delle cose di questa vita. Ma le gioie del paradiso non finiscono mai; e neppur la fede nel Signore Iddio. Ch'egli mi aiuti a conseguirle. Amen". In un cantoncino rimasto bianco stavano scritte con carattere piú minuto e posteriore quest'altre due massime: "Quando sei buono a nulla per vecchiaia o per malattia, considera ogni servigio che ti si rende come un dono spontaneo. "Non sospettar il male; ne vedi anche troppo di certo per immaginarti l'incerto. I giudizi temerari sono proibiti dalla legge del Signore. Ch'egli mi benedica. Amen". Confesso la verità che dicifrata questa scrittura io rimasi umiliato di molto ed anche un po' afflitto d'averla letta. Io che avea sempre stimato Martino un semplicione, un dabbenuomo, un buon servitore, umile, premuroso, riservato come se ne usavano una volta e nulla piú! Io che appetto a lui, massime negli ultimi anni, dappoiché rosicchiava un po' di latino, mi teneva per un uomo di conto, e mi stimava di seguitare a volergli bene, quasi fosse la mia una gran degnazione! Io che avrei sdegnato di fargli parte del mio peregrino sapere per paura non già che essendo sordo non mi udisse, ma che non mi comprendesse pel suo ingegno zotico e triviale!... Guardate! con quattro righe buttate giù sulla carta egli me ne insegnava dopo morto piú ch'io non avrei potuto insegnarne agli altri studiandoci sopra tutta la vita! Di piú, frammezzo a' suoi precetti ve n'erano di tanto sublimi nella loro semplicità ch'io non arrivava a comprenderli; e sí che le parole dicevano chiaro! - Per esempio, dove stava scritto di cercare quali altri doveri sconosciuti ci incombessero da adempiere se l'adempimento di quelli che conosciamo non bastasse a farci vivere in pace con noi stessi, cosa voleva dire il buon Martino? E questo era proprio il mio caso; e dietro questa massima piú che colle altre mi tornava conto di lambiccare il cervello. Basta! Per allora mi rassegnai a leggerla e a rileggerla, se non senza capirla cosí astrattamente, almeno senza poterne trovare un modo di applicazione alle mie circostanze. E tornai a meditare la prima, la quale ascriveva a qualche nostra mancanza o a qualche cattiva azione la piena infelicità! "Povero me!" pensai "certo che io ho molte colpe sulla coscienza, perché mi sento oggi piú miseramente infelice che uomo alcuno al mondo non possa essere". Sí, ve lo giuro, feci un esame di coscienza cosí sottile, cosí scrupoloso che non fu senza merito per essere stato il primo: colla nozione imperfettissima ch'io aveva delle leggi morali, ho paura che me ne passassi buona piú d'una, ma anche mi rampognai di cose per sé innocentissime; come per esempio d'essermi sempre rifiutato a stringer amicizia coi figliuoli di Fulgenzio e di serbar poca gratitudine alla signora Contessa. Il primo peccato lo ascriveva a superbia, ed era antipatia pura e semplice; del secondo accagionava il mio cattivo animo, ma tutta la colpa l'aveva la memoria tenace della mia povera zazzera, tanto ingiustamente martorizzata. Intanto, quello che piú importa, non m'illusi punto sul mio peccataccio piú grosso, su quello sfrenato amore per la Pisana, il quale mi si scoprí d'un tratto alla coscienza in tutta la sua bestiale salvatichezza. Io aveva amato la Pisana fino da piccino! Ottimamente! Fin da piccino avea sognato con essolei un amore da uomo! Cose compatibili in un ragazzo che ragiona coi piedi! - Giovinetto e già ragionevole e malizioso oltre il bisogno, avea persistito in quella bizzarria fanciullesca. - Male, signor Carlino! Ecco il primo scappuccio dopo il quale vengono gli altri, come le ventidue lettere dell'alfabeto dopo la prima. La ragione doveva avvertirmi ch'io era o il cugino o il servitore della Pisana. (Servitore, dico, perché coi servi era il mio posto nel castello di Fratta). In ambidue i casi non mi stava di appiccicarmi a lei colle pretese d'un amore contro l'ordine delle cose. Veggiamo un poco: coll'amore dove si giunge o dove si intende di giungere? Al matrimonio; questa è sicura; e io la sapeva e la vedeva tutti i giorni. Ma io, doveva io mai sperare di sposarmi colla Pisana?... Chi sa!... Zitti, desiderii chiacchieroni che correte incontro all'impossibile. Qui non si tratta di sapere se la tal cosa può avvenire in natura, ma se è solito che avvenga, e se contenterà quelli che ci hanno intorno le mani. Conveniva proprio ch'io confessassi che né il matrimonio mio colla Pisana sarebbe stato secondo l'ordine consueto del mondo, e che né il Conte né la Contessa né alcun altro né forse la Pisana stessa avrebbero avuto ragione di esserne contenti. Dunque? dunque correndo dietro a quello stregamento io non batteva la buona via; correva pericolo di fuorviarmi lontano assai e certo non era questa la strada di adempiere ai miei doveri di probità e di riconoscenza. Ma se la Pisana mi amava?... Ecco un altro cavillo, un sotterfugio, una scusa del vizio inveterato, Carlino bello! Prima di tutto, se anche la Pisana ti amasse, sarebbe tuo dovere di fuggirla piucchemai, perché approfitteresti d'una sua leggerezza, d'un suo invasamento per contrapporla al desiderio dei parenti. E poi tu sei povero ed ella è ricca; non mi piace porgere appiglio a certe calunnie. E poi e poi ella non ti ama, e la questione è bella e sciolta... Come, come non la mi ama? come sarebbe a dire? Sí, datti pace, Carlino! non la ti ama per nulla; non la ti ama con quell'impeto cieco, intero, perseverante che impedisce ogni considerazione, toglie ogni distanza e confonde anima ad anima. Non la ti ama; e tu lo sai bene, perché di ciò appunto ti crucci e t'arrovelli tanto. Non la ti ama perché sei venuto in questa camera a cercar dalla morte un conforto contro le sue male parole, contro il suo disprezzo. Consolati, Carlino; puoi abbandonarla senza ch'ella ne pigli una sola febbre. Non sei neppur il capo raro che la ne debba soffrire nell'orgoglio. Se tu fossi il poetico Giulio Del Ponte, o lo sfarzoso castellano di Venchieredo ne dovresti avere un qualche rimorso, ma tu!... Eh va là! non te ne sei accorto che qui a Fratta sei appetto a lei come Marchetto, come Fulgenzio, come tutti gli altri una stazione temporanea nel turno de' suoi affetti, un accattone che aspetta la sera del sabato il suo quattrinello d'elemosina. Male, male, Carlino! Qui non è piú questione di doveri verso gli altri, ma di rispetto a te stesso. Sei tu un asino da guardar a terra e da insaccar legnate o un uomo da tener diritta la fronte e da sfidare il giudizio altrui? Pulisciti i ginocchi, Carlino; e va' via di qua. Vedi, arrossisci di vergogna; è cattivo segno e buono nello stesso tempo: accenna alla coscienza del male commesso, ma insieme a ribrezzo e a pentimento di quel male. Vattene, Carlino, vattene; cerca una strada piú onesta, piú sicura, ove siano altri passeggieri cui tu possa dar mano e insegnare la via; non perderti in quei nebulosi confini fra il possibile e l'impossibile a battagliare colla tua ombra, o coi mulini di don Chisciotte. Se non puoi dimenticar la Pisana, devi fingere di dimenticarla; al resto non pensare, che verrà dopo. Ora, sia verso te che verso lei e verso tutto, il tuo dovere è questo. Restando avvilisci te, spazientisci lei, rendi male per bene a' suoi genitori. Vattene, Carlino, vattene! Pulisciti i ginocchi e vattene! Questo consiglio fu il primo frutto del monitorio di Martino; e fui tanto spaventato della sua acerbezza che senza pescare altri corollari ripiegai la carta e ripostala nel libro e intascato questo, uscii pallido e pensieroso da quella stanza ov'era entrato livido e demente. Fra tutti i dolori miei mi parlava piú chiaramente quello di aver sconosciuto per tanti anni la pratica rettitudine di Martino, di non aver fatto di lui quel conto che meritava, di averlo creduto, in una parola, una macchina cieca e obbediente mentr'era invece un uomo conscio e rassegnato. Io era divenuto cosí piccino nella mia propria stima che non mi ravvisava piú; la memoria d'un vecchio servitore morto, seppellito e già roso dai vermi mi costringeva ad abbassare il capo confessando che con tutto il mio latino nella vera e grande sapienza della vita era forse piú indietro che i villani. Infatti nella loro semplice religione essi definiscono coraggiosamente la vita per una tentazione, o una prova. Io non poteva definirla altrimenti che coll'eguali parole che si adopererebbero a definire la vegetazione d'una pianta. Aveva un bel piluccarmi le idee, un bel voltare e rivoltare questa matassa di destini, di nascite, di morti e di trasformazioni! Senza un'atmosfera eterna che la circondi, la vita rimane una burla, una risata, un singhiozzo, uno starnuto; l'esistenza momentanea d'un infusorio è perfetta al pari della nostra, coll'ugual ordine di sensazioni che declina dalla nascita alla morte. Senza lo spirito che sorvola, il corpo resta fango e si converte in fango. Virtù e vizio, sapienza e ignoranza son qualità d'un'argilla diversa, come la durezza o la fragilità, o la radezza o lo spessore. Ed io mi sdraiava comodamente nella metafisica del nulla e del pantano, mentre dall'alto de' cieli la voce d'un vecchio servitore mi cantava le immortali speranze! - O Martino, Martino! - sclamai - io non comprendo l'altezza della tua fede, ma gli insegnamenti che ne ritraggo sono cosí grandi e virtuosi che soli farebbero malleveria della sua bontà. Abbiti l'ossequio del tuo indegno figliuolo anche al di là della tomba, o vecchio Martino! Egli ti ha amato in vita, e se non ti diede gran parte della sua stima allora, adesso te la dona tutta, te la dona col fatto, accettando ciecamente i tuoi consigli, e mostrandosi degno di aver raccolto il prezioso retaggio. Primo effetto di cotal proponimento fu di stogliermi dal castello di Fratta per condurmi qua e là in cerca di svagamenti e di piaceri, come altre volte avea fatto. Indi feci sfilare dinanzi alla ragione tutta la piccola squadra de' miei doveri, e trovandola poco numerosa, mi balenò alla mente quell'oscura falange di doveri sconosciuti che mi poteva assalire quandochessia, e la quale anzi, secondo Martino, io avrei dovuto chiamare in mio aiuto contro i tedii dell'infelicità. Per allora non fu che un balenio; e sonai sí campana a martello per ogni cantone dell'animo; ma nessun nuovo sentimento sorse a gridarmi: "Tu devi far questo e devi tralasciar quello". Circa al romperla colla Pisana, era già d'accordo con me stesso; sentiva il dolore e quasi l'impossibilità di questo sacrifizio, ma non me ne celava l'obbligo assoluto. E poi e poi, riconoscenza, carità, studio, temperanza, onestà, in ogni altro punto trovava le partite in ordine: non c'era di che ridire. Soltanto temeva di aver mostrato finallora poco zelo nel mio noviziato di cancelleria; ma fermai di mostrarlo in seguito, e cominciando dal domani scrissi il doppio di quanto soleva scrivere ai giorni prima. In quel benedetto domani doveva anche principiare a non guardar piú la Pisana, a non cercarla, a non chieder conto di lei; ma vi feci sopra tanti ragionamenti, che protrassi il cominciamento dell'impresa al posdomani. In seguito tirai innanzi un giorno ancora, e finii col persuadermi che il mio dovere era soltanto di assopir l'amor mio, di svagarlo, di stancheggiarlo coll'adempimento degli altri doveri, non di assassinarlo direttamente. L'anima mia ne era cosí piena che sarebbe quasi stato un suicidio; cosí, per non ammazzarmi lo spirito tutto d'un colpo, seguitai a stracciarlo, a tormentarlo brandello per brandello. Il rimorso d'una colpa conosciuta e ribadita dall'intelletto amareggiava perfin le lontane lusinghe che ancora mi rimanevano. Un giorno, dopo aver scritto molte ore in cancelleria senza che questa occupazione mi fosse di gran giovamento, pensai d'andarmene a Portogruaro per congedarmi dall'Eccellentissimo Frumier. Si era già allo scorcio dell'ottobre e poco sarei stato ad imbarcarmi per Padova. Guardate che combinazione! La Pisana era appunto in quel giorno a pranzo dallo zio, e se ora io giurassi che non ne sapeva nulla, certo non mi credereste. Si festeggiava l'onomastico della nobildonna, e facevano cerchio alla mensa Giulio Del Ponte, il padre Pendola, monsignor di Sant'Andrea e tutti gli altri della conversazione. Il Senatore m'accolse come fossi già invitato; ed io feci l'indiano e sedetti non senza sospetto che la Pisana per tormisi d'infra i piedi m'avesse taciuto l'invito. Infatti la sua vicinanza a Giulio, le occhiatine che si scambiavano, e la confusione delle loro parole quando venivano interrogati, mi chiarivano abbastanza ch'io doveva esser per lei, se non un incommodo, certo un assai inutile testimonio. Incommodo no; perché già a mio riguardo non la si sarebbe tirata indietro da nulla. In tutte le parti anche migliori dell'animo suo ella mancava affatto di quella delicatezza che sovente è mera abitudine e talvolta anche ipocrisia, ma che conserva in uno squisito sentimento di pudore il rispetto alla virtù. Donde avrebbe ella appreso queste raffinatezze delle maniere femminili? Sua sorella Clara, che sola avrebbe potuto insegnargliele, viveva sempre lontana da lei in camera della nonna; essa, lasciata in balía di manifestare e imporre tutti i proprii capricci, avea imparato mano a mano non solo a lasciar loro il freno sul collo, ma anche a non prendersi briga di esaminarli e di nasconderli se fossero brutti e vergognosi. La padronanza dell'istinto uccide il pudore dell'anima, che nasce da ragione e da coscienza. Io sedeva vicino al padre Pendola, mangiando poco, discorrendo meno, osservando assai, e piú di tutto macerandomi di rabbia e di gelosia. Giulio Del Ponte s'animava a tratti, si mesceva come uno scorribanda alla conversazione generale, lanciava un razzo di frizzi, di barzellette, d'epigrammi e poi tornava al muto colloquio della vicina con tal atto che diceva: "Si parla piú dolcemente cosí!" Si vedeva che quel suo brio non era spontaneo, cioè non era l'abbondanza della vena che lo faceva sgorgare. Piuttosto argomentava che, stando muto, o avrebbe fatto pensar male, o avrebbe perduto quella stima di giovane allegro e sfolgorante che gli avea conquistato il cuore della Pisana. Infatti costei, che sorrideva soltanto alle sue occhiate, arrossiva fin nelle orecchie, sospirava, si confondeva quand'egli parlava lesto, grazioso, animato e faceva scoppiar d'ognintorno l'applauso irresistibile delle risate. Giulio Del Ponte aveva indovinato la qualità della propria magia: le avea piaciuto in ragione della virtù che aveva di ravvivare, di rallegrare, di trascinare. Infatti sembrava che egli avesse tre anime invece di una; e gli occhi e i gesti e le parole e i pensieri avevano in lui tanta abbondanza e varietà che non parea bastare a tanto movimento quel solo fornello spirituale che dà calore di vita a ciascuno di noi. Scusatemi la similitudine; se la forza dell'anima si misurasse come quella del vapore, si poteva calcolare la sua a novanta cavalli, limitando a trenta quella della gente comune. Converrete meco ch'era una gran fortuna; ma guai, guai per questi Sansoni di spirito se Dalila taglia loro i capelli! Guai dico: il premio stesso della lor vigoria li precipita; quell'amore che negli altri è un alimento, una crescenza di fuoco che aggiunge la forza di altri milioni di cavalli a quella anche piccolissima che esisteva prima, in essi invece è un inciampo, una sottrazione. Distraendo la loro attività dal suo campo naturale li sprovvede del predominio che avevano, per confonderli alla plebaglia degli altri innamorati ognuno de' quali può soverchiarli con altre doti, con altri pregi diversi dai loro. In una parola, l'amore che sublima gli sciocchi, istupidisce queste anime splendide e ammaliatrici. Ma Giulio sapeva ciò, e se ne difendeva valorosamente. Sentiva l'amore crescere come una nuvola incantata e avvolgergli la mente e accarezzarla, invitandola ai sogni alla beatitudine. Un istante cedeva a quei dolci adescamenti; ma poi l'accortezza lo risvegliava additandogli nel riposo la sua sconfitta. Si rialzava non piú per trabocco spontaneo di giocondità e di brio, ma per forza di volontà e per interesse d'amore. Aveva ammaliato la Pisana; non voleva perdere la sua conquista. Infelice in questo che ai temperamenti come il suo s'avvicendano sempre facili e venturose le occasioni di piacere e di godere, ma si offrono pericolose e fatali quelle di amare. Ogni opera ha i suoi mezzi: l'amore vuol esser conquistato coll'amore; il luccichio della gloria e il barbaglio dello spirito devono tenersi paghi alla galanteria. Il padre Pendola adocchiava Giulio Del Ponte e la Pisana; poi sogguardava me; due occhi come i suoi non si movevano per nulla, ed ogni volta che li incontrava io sentiva fin nel fondo dell'anima la fredda strisciata dei loro sguardi. Gli altri commensali non badavano a nulla; cianciavano fra loro, bevevano alla salute della nobildonna, ridevano fragorosamente delle cavatine improvvisate da Giulio e soprattutto mangiavano. Ma quando si levarono le mense e la compagnia stava per scendere in giardino a prendere il caffè sulla terrazza, il padre Pendola mi prese amorevolmente pel braccio invitandomi a rimanere. La pietà che si dipingeva sul suo volto mi sgomentò un poco; ma mi diede anche della sua indole miglior idea che forse non avessi avuto infin allora. Cosa volete? la calamita da una parte attira, dall'altra respinge il ferro e non si sa il perché. Anche fra uomo ed uomo si osservano le bizzarrie della calamita. Rimasi per curiosità, per ossequio, un po' anche perché i miei occhi avevano bisogno di non vedere. - Carlino - mi disse il padre girando con me su e giù per la sala mentre i servi finivano di sparecchiare - voi siete in procinto di tornare a Padova. - Sí, padre - risposi con due sospironi irragionevoli forse ma certo sinceri. - È il vostro meglio, Carlino. Qui confessatemi che non siete contento del vostro stato, che l'incertezza e l'ozio vi rovinano, e che sciupate i piú begli anni della gioventù! - È vero, padre; ho cominciato per tempo a gustare il fastidio della vita. - Bene, bene! tornerete poi a trovarla gradevole le dieci e le venti volte. Tutto sta che vi sacrifichiate nobilmente all'adempimento de' vostri doveri. Quest'esortazione in bocca del reverendo mi sorprese assai: non mi sarei mai aspettato che le sue massime concordassero con quelle di Martino; e questa concordia mi aperse d'un tratto l'animo alla confidenza. - Le dirò - soggiunsi - che da poco tempo in qua ho cercato appunto nell'adempimento de' miei doveri un rifugio contro... contro la noia. - E lo avete trovato? - Non so; lo scrivere in cancelleria è lavoro troppo materiale; e il signor Cancelliere non è la persona piú adatta a render quel lavoro piacevole. Occupo le mani, è vero, ma la testa vola ove le piace, e pur troppo i dispiaceri e le ore si contano piú col cervello che colle dita. - Parlate ottimamente, Carlino: ma voi dovete sapere meglio di me che piú di tutto alla guarigione importa una ferma volontà di guarire. Qui, qui, Carlino, voi avete l'anima ammalata; se volete sanarla, andatevene; ma voi direte che la malattia viaggia coll'infermo. No, no, Carlino, non è ragione bastevole! Causa lontana non affligge tanto come causa vicina. Via, non arrossite ora; io non dico nulla, vi consiglio da buon amico, da padre, e nulla piú. Siete senza famiglia, non avete alcuno che vi ami, che vi diriga; io voglio adottarvi per figliuolo, e soccorrervi con quel lume di esperienza che il Signore mi ha concesso. Fidatevi di me, e provate: non vi domando altro. Bisogna che partiate di qui; che partiate non solamente colle gambe, sibbene anche coll'animo. Per tirar poi l'animo con voi, voi avete già indovinato il modo. Piegarlo alla retta conoscenza e all'operosa osservanza dei proprii doveri. Avete detto benissimo; i dolori si contano col cervello, e io aggiungerò col cuore, non già colle dita della mano. Bisognerà dunque occupare oltre la mano anche il cervello ed il cuore. - Padre, - balbettai veramente intenerito - parli, io l'ascolto con vera fede; e mi proverò d'intendere e di ubbidire. - Uditemi: - riprese egli - voi non avete obblighi di famiglia, e il debito della riconoscenza verso chi vi ha fatto del bene è saldato presto da chi non può pagarlo con altro che con la gratitudine dell'affetto. Da questo lato i vostri doveri non vi darebbero l'occupazione di un minuto, se non fosse collo spingervi allo studio secondo l'intendimento dei vostri benefattori. Ma non basta. Cosí si occuperebbe il cervello; il cuore rimane ozioso. Tanto piú che la famiglia in cui foste allevato non ha saputo educarvelo a suo profitto. No, non vergognatevi, Carlino. È certo che voi non potete esser legato coll'amor di figliuolo al signor Conte e alla signora Contessa che appena è se seppero farsi amare come genitori dalla lor prole vera. I beneficii non obbligano tanto quanto il modo di porgerli, massime poi i fanciulli. Non vergognatevene dunque. È cosí, perché cosí doveva essere. Quanto allo sforzarvi ora, sarebbe segno di ottima indole, di animo docile e grato; ma non vi riescireste. L'amore è un'erba spontanea non una pianta da giardino. Carlino, il vostro cuore è vuoto di affetti famigliari come quello d'un trovatello. È una gran sciagura che scusa molti falli... intendiamoci, figliuolo! li scusa sí, ma né ci libera dal dovere di purgarli, né ci abilita per nulla a indurirvisi! A questa sciagura si cercano rimedii istintivamente durante la prima età. E un buon angelo può fare che si imbrocchi giusto!... Ma spesso anche la sorte avversa, la cecità fanciullesca ci fanno trovar veleni invece di rimedii. Allora, Carlino, appena la ragione cresciuta se ne accorge, bisogna cambiar vaso, e abbandonare quella cura fallace e nociva per appigliarsi alla vera. Voi avete diciotto anni, figliuolo; siete giovane, siete uomo. Non avete, non potete avere un affetto certo, santo, legittimo che vi occupi degnamente il cuore, perché nessuno ve ne ha insegnate fin qui le fonti, né annunciata la necessità! Io forse primo vi parlo ora la voce del dovere, e non so quanto gradito... - Séguiti pure, séguiti, padre. Le sue parole sono quelle di cui i miei pensieri andarono in cerca senza pro' ai giorni passati. Mi sembra di veder farsi giorno nella mia mente, e stia sicuro che avrò il coraggio di non distoglier gli occhi. - Bene, Carlino! Avete mai pensato che voi non siete solamente uomo, ma sibbene ancora cittadino, e cristiano? Questa domanda fattami dal padre con piglio grave e solenne mi conturbò tutto: quello che volesse dire e cosa importasse l'essere cittadino, io nol sapeva affatto; quanto all'essere cristiano, io non avrei messo punto in dubbio che lo fossi, perché nella dottrina mi avevano avvezzato a rispondere di sí. Rimasi adunque un po' perplesso e confuso, poi risposi con voce malferma: - Sí, padre, so di essere cristiano per la grazia di Dio! - Cosí il Piovano v'insegnò a rispondere; - riprese egli - ed ho tutte le ragioni per credere che non diciate per usanza una bugia. Fino ad ora, Carlino, tutti erano cristiani e perciò una tal dimanda era quasi inutile. La religione stava sopra le dispute; e buoni o malvagi, se non la regola dei costumi, come nei primi secoli di fervore, almeno il vincolo della fede ci stringeva tutti nella gran famiglia della Chiesa. Ora, figliuol mio, i tempi sono mutati; per esser cristiano non bisogna imitare gli altri, ma pensare anzi a fare a rovescio di quanto fanno molti altri. Dietro l'indifferenza di tutti s'appiatta l'inimicizia di molti, e contro questi molti i pochi veramente credenti devono combattere, lottare con ogni sorta di armi per non rimaner sopraffatti. Cioè intendiamoci, non per orgoglio personale, ma perché non rimanga conculcata quella religione fuor della quale non è salute... Carlino, ve lo ripeto, voi siete giovane, siete cristiano; come tale vivete in tempi difficili, e andate incontro a tempi molto piú difficili ancora; ma la difficoltà stessa di questi tempi, se è una sventura comune, se è una vicenda miserevole anche per voi, pel vostro interesse momentaneo e pel decoro della vostra vita è una vera fortuna. Pensateci, figliuolo: volete voi poltrire nell'indifferenza senza pensiero e senza dignità? o volete piuttosto mescervi alla battaglia dell'eternità col tempo, e dello spirito colla carne? Queste avvisaglie presenti condurranno da ultimo a cotali dilemmi, non ne dubitate. Voi siete di un'indole aperta e generosa e dovete propendere alla buona causa. Colla religione l'idealità, la fede nella giustizia immortale e nel trionfo della virtù, la vita razionale insomma e la vittoria dello spirito; colla miscredenza il materialismo, lo scetticismo epicureo, la negazione della coscienza, l'anarchia delle passioni, la vita bestiale in tutte le sue vili conseguenze. Scegliete, Carlino! scegliete! - Oh! sono cristiano! - sclamai io con tutto l'ardore dell'anima. - Io credo nel bene e voglio ch'esso trionfi. - Non basta volerlo - soggiunse il padre con una sua vocina melanconica. - Il bene bisogna cercarlo, bisogna farlo perché esso trionfi davvero. Perciò bisogna darsi corpo ed anima a chi suda, lavora, combatte per ciò; bisogna adoperare le arti stesse de' nemici a loro danno; bisogna raccogliere intorno al cuore tutta la costanza di cui siamo capaci, armar la mano di forza, il senno di prudenza e non aver paura di nulla e durar sempre vigili all'ugual posto; e cacciati tornare, e disprezzati soffrire, dissimulare per rivincer poi; piegarsi sí anche, se occorre, ma per risorgere; venire a patti, ma per temporeggiare. Insomma bisogna credere nell'eternità dello spirito per sacrificare questa vita terrena e momentanea alla immortabilità futura e migliore. - Sí, padre. Quest'orizzonte che mi si dischiude agli occhi è tanto vasto che non ho piú l'audacia di piangere le mie piccole sciagure. Allargherò i miei sguardi in esso e scompariranno le minuzie che mi danno inciampo. Volerò invece di camminare! - Davvero, Carlino? cosí mi piacete; ma ricordatevi che l'entusiasmo non basta senza il corredo d'una buona dose di criterio e di costanza. Ora io vi ho mostrato quali doveri altissimi e nobili reclamano l'opera vostra, e voi vi siete infervorato nella loro splendida pienezza. Ma poi durante la via vi parrà di ricadere nella levità e piccolezza umana. Non vi spaventate, Carlino. Gli è come un passeggiero che per giungere a Roma dee pernottare molte volte in sucide taverne, e far viaggio con facchini e con vetturali. Soffrite tutto; non abbiate ribrezzo dei passaggi momentanei, sollevate il pensiero alla meta; tenetelo sempre là! Io capiva e non capiva; era abbarbagliato da quelle splendide e sonanti parole che prima mi balenavano alla mente con quei grandi fantasmi d'umanità, di religione, di sacrificio, di fede che popolano cosí volentieri i mondi sognati dai giovani. Capiva che o bene o male entrava in una sfera nuova per me; dov'io non era che un atomo intelligente avvolto in un'opera sublime e misteriosa. Con quali mezzi, a qual fine? - Non lo sapeva per fermo; ma fine e mezzi soverchiavano d'assai le mie preoccupazioni erotiche, i miei fanciulleschi rammarichi. Invitato a mostrarmi cristiano, mi sentiva uomo nell'umanità e ingigantiva. - Questo in quanto a religione - seguitava con veemenza il reverendo padre. - In quanto alla vostra qualità di cittadino le condizioni sono consimili. Non caleva il pensarci e ogni opera individuale cadeva al suo posto nel gran meccanismo sociale, quando tutti s'accordavano nel rispetto tradizionale alla patria e alle sue istituzioni. La patria, figliuol mio, è la religione del cittadino, le leggi sono il suo credo. Guai a chi le tocca! Convien difendere colla parola, colla penna, coll'esempio, col sangue l'inviolabilità de' suoi decreti, retaggio sapiente di venti, di trenta generazioni! Ora pur troppo una falange latente e instancabile di devastatori tende a metter in dubbio ciò che il tribunale dei secoli ha sancito vero, giusto, immutabile. Conviene opporsi, figliuol mio, a tanta barbarie che prorompe; convien rendere ai nemici quel danno stesso che cercano portare a noi, seminando fra loro la corruzione, la discordia. Il male contro il male va adoperato coraggiosamente alla maniera dei chirurghi. Se no, cadremo certamente; cadremo amici e nemici in potere di quei maligni che predicano un'insensata libertà per imporci la vera servitù; la servitù a codici immorali, temerari, tirannici! La servitù alle passioni nostre ed altrui, la servitù dell'anima a profitto di qualche maggior godimento terreno e passeggiero. Siamo forti contro la superbia, figliuol mio. Per ciò ne conviene esser umili; ubbidire, ubbidire, ubbidire. Comandi la legge di Dio, la legge che fu, la legge che è; non l'arbitrio di pochi invasati, che dicono di innovare, ma non tendono che a divorare! Capite, figliuolo, quel che voglio dire?... Cosí religione e patria si danno la mano; e vi preparano un bel campo di battaglia dove sacrificarvi piú degnamente che nella colpevole idolatria di un affetto, o d'un interesse privato. Coll'una mano il reverendo padre mi prostrava nel fango; coll'altra mi sollevava alle stelle. Io scossi potentemente il mio giogo di dolore e alzai libera ma costernata la fronte. - Eccomi - risposi. - Io spero di cancellare la prima parte della mia vita, sovrapponendovi la seconda piú alta e piú generosa. Dimenticherò me stesso ove non possa cambiarmi: cercherò doveri piú santi, amori piú grandi... - Adagio con questi amori! - m'interruppe il padre - non usate l'egual vocabolario in materie cosí disparate. L'amore è un lampo che guizza, una meteora che passa. E nella vita nuova a cui vi eccito si vogliono la fede e lo zelo; due forze pensate e continue! La croce del sacrifizio e la spada della persuasione: ecco i nostri simboli, superiori di gran lunga alle corone di mirto e alle colombe accoppiate. Ma la persuasione, figliuol mio, scaturisce dal sacrifizio nostro ed è ricevuta negli animi altrui come il calore prodotto dal sole è appropriato dal seme che fermenta e che germina. Non convien farsi intoppo delle contraddizioni, dei livori altrui; la persuasione verrà; fatele strada colla perseveranza e colla forza. Quando si matura il trionfo del bene giova perseguitar il male; ma perseguitarlo utilmente sapientemente: perché, figliuol mio, l'esercito dei martiri pur troppo non è molto numeroso, e dai proprii sacrifizi è mestieri cavare il prezzo che meritano per non vederli sprecati. - Padre - soggiunsi io con qualche ritenutezza pel mistero che mi cresceva in quella lunga parlata - spero che capirò meglio quando mi sia purificato lo spirito dai fumi che lo offuscano. Penserò, e vincerò. - Avreste già vinto se vi foste provato a combattere - rispose il reverendo - ma voi, Carlino, vi siete chiuso nel vostro guscio, e non avete cercato l'aiuto di chi poteva molto per voi. Le idee non nascono, ma procedono, figliuol mio: e voi avete fatto malissimo di raggomitolarvi nelle vostre passioncelle, senza fidarvi alle persone oneste ed oculate che vi avrebbero menato ben innanzi in quella strada che ora vi addito. L'anno scorso per esempio io vi avea raccomandato di frequentare a Padova l'avvocato Ormenta, un uomo integerrimo, giusto, generoso che avrebbe volto l'ingegno vostro al suo vero ministero, e vi avrebbe indicato il vero scopo e l'ampia utilità della vita. Uomini cosí fatti devono esser venerati dai giovani e presi ad esempio, se vogliono. - Padre, l'avvocato Ormenta io l'ho veduto piú volte, giusta la sua raccomandazione; ma io era sviato in altri pensieri. Mi pare anche che fossi spaventato dalla sua freddezza e da una certa aria di sprezzo che mi rassicurava ben poco. Non so se mi sembrasse o troppo grande o troppo diverso da me; ma certo io non mi sentiva in buona voglia alla sua presenza, e la camera nella quale mi riceveva era cosí tetra, cosí agghiacciata da metter paura. - Tutti segni d'una vita austera e sublime, figliuol mio. Quello che un tempo vi ha spaventato, vi piacerà, vi ammalierà domani. Sembrano fredde le cose eccelse e le nevi coprono le cime delle alte montagne; ma son le prime ad esser baciate dal sole, e le ultime ch'esso abbandoni. Tornerete quest'anno dall'avvocato, vi addomesticherete con lui, e, o il giudizio m'inganna, o io vi avrò reso il gran servigio di farvi trovare una buona e sicura guida per la vita cui siete destinato. Adesso io vi ho gettato in cuore un piccolo seme. Speriamo che germoglierà. Il buon avvocato trovandovi meglio disposto vi accoglierà con miglior fiducia. Anch'io, vedete, or fanno dieci mesi, sperava poco da voi; ve lo confesso ingenuamente, e tanto piú volentieri in quantoché oggi spero molto... - Oh, padre, ella mi confonde! Come mai sperar molto da me? - Come, Carlino, come? voi non vi conoscete, e io non voglio che montiate in superbia, ma voglio insegnarvi a leggere nell'anima vostra. Voi avete un ardore intenso e costante di passioni, che sollevato ad una sfera piú pura dove le passioni diventano adorazioni, può dar una luce benefica e divina!... Siete proprio deciso spastoiarvi dal fango, a cercar la felicità dov'ella risiede veramente, nell'adempimento dei doveri piú santi che la coscienza imponga ad uomo del nostro tempo? - Sí, padre; tutto farò per amore della giustizia. - Allora fidatevi di noi, Carlino; noi vi aiuteremo, noi vi illumineremo. Le nebbie dell'alba si muteranno a poco a poco in raggi di sole. Voi ci ringrazierete, e noi ringrazieremo voi... - Oh, padre, cosa dice mai! - Sí, vi ringrazieremo dei grandi servigi che renderete alla causa della religione e della patria, alla causa che difendiamo per compassione dell'umanità e per gloria di Dio. Foste fornito da natura di doti superbe; usatene degnamente, e troverete riconoscenza, onori, contentezze. Ve lo prometto io. Se foste prete, vi direi: "State con me! Combatteremo, pregheremo, vinceremo insieme"; ma vi chiamano per un'altra via, ottima e nobile pur essa. L'avvocato Ormenta farà le mie veci: gli scriverò a lungo di voi; egli vi terrà per figliuolo, e avrete forse occasione di far piú bene voi nel mondo che io non possa sperare di farne in mezzo al clero di una modesta diocesi. Siamo intesi, Carlino; non vi domando altro che di credermi e di provare. Soprattutto non voglio piú vedervi imbecillire in sogni da ragazzo. Disprezzate quello che va disprezzato: rompete la catena della abitudini; pensate che l'uomo è fatto per gli uomini. Siate generoso giacché siete forte. Che cosa volete? bisogna pur che lo dica. L'adulazione fece quello che l'eloquenza non avea fatto o almeno compí l'opera incominciata da essa. Mi vennero le lagrime agli occhi, presi le mani del padre Pendola, le copersi di baci, le inondai di pianto, promisi d'esser uomo, di sacrificarmi pel bene degli altri uomini, di ubbidire a lui, di ubbidire all'avvocato Ormenta, di ubbidire a tutti fuorché a quelle mie passioni che mi avevano infin allora cosí scioccamente tiranneggiato. Io era fuori di me, mi pareva di esser diventato un apostolo; di chi e perché non sapeva; ma infatti la testa mi andava per le nuvole, e nulla al mondo io disprezzava tanto come i miei sentimenti e la mia vita degli anni trascorsi. Il padre mi confermava in questi proponimenti di conversione confortandomi intanto a ripigliar il filo delle mie devozioni infantili, a credere, a pregare. La luce si sarebbe fatta poi e l'avvocato Ormenta doveva essere il candeliere. Scesimo insieme in giardino e sulla terrazza, dove le belle fronde già ingiallite delle viti ombreggiavano il riposo vespertino della compagnia. Il chiacchierio languiva nella calma solenne del tramonto; le acque del Lemene romoreggiavano al basso, verdastre e vorticose; un suono di campane lontano e melanconico veniva per l'aria come l'ultima parola del giorno morente, e il cielo s'infiammava ad occidente cogli splendidi colori dell'autunno. Al primo momento mi pareva di essere in un gran tempio, dove lo spirito invisibile di Dio mi empiesse l'anima di gravi e serene meditazioni. Poi i pensieri mi tumultuavano nel capo come il sangue nelle vene dopo una corsa precipitosa; la mente avea volato troppo, non conosceva piú l'aria in cui batteva le ali, il ribrezzo dell'infinito la sgomentiva. Mi avvicinai alla ringhiera per guardar nel fiume, e quell'acqua che passava, che passava senza posa, senza differenza alcuna, mi dava l'immagine delle cose mondane che colano fluttuando in un abisso misterioso. I discorsi del padre Pendola facevano allora nella mia memoria l'effetto d'un sogno che si ricorda di aver veduto chiaramente e di cui non ci sovviene piú che con una vaga e scolorita confusione. Mi volsi per cercarlo; e vidi Giulio e la Pisana che bisbigliavano fra loro. Sentii come Icaro sciogliermisi la cera delle ali e precipitava nelle passioni di prima; ma l'orgoglio mi sorresse. Mi era pur sentito poco prima tanto maggiore di essi, perché non potea continuare ad esser tale? Guardai coraggiosamente la Pisana, e sorrisi quasi di pietà; ma il cuore mi tremava; oltreché non credo che quel sorriso mi durasse a lungo sulle labbra. Allora il padre Pendola, che avea confabulato col Senatore, mi si raccostò; e quasi indovinando le titubanze dell'anima mia prese a compatirmi con sí squisita carità, che io mi vergognai d'aver tentennato. Le sue parole erano dolci come il mele, entranti come la musica, pietose come le lagrime: mi commossero, mi persuasero, mi innamorarono. Fermai fra me di tentare la prova; d'immolarmi a quei sublimi doveri di cui mi avea parlato, di esser alla fine padrone di me una volta e di saper dire: "Voglio cosí" - "Soffrirò", pensava frattanto "ma vincerò; e le vittorie accrescono le forze, laonde se non altro avrò guadagnato di poter poi soffrire con minor viltà. Per nulla Martino non è risuscitato, per nulla il padre Pendola non ha letto nel mio cuore; ambidue prescrivono l'egual rimedio; io sarò coraggioso e ne userò da forte!". Il reverendo padre mi parlava ancora col suono carezzevole d'una cascatella fra i muscosi dirocciamenti d'un giardino; non saprei dire quali cose ei mi dicesse; ma nel togliermi di là ebbi il coraggio di offrir il braccio al Conte ed alla Pisana perché salissero in carrozza e di accomodarmi poi a cassetta col pretesto del caldo, che pur non era molesto in una notte d'ottobre. Dopoché braccheggiava in cancelleria avea libero ingresso nella carrozza dei padroni, e quella sera mi convenne anzi sostenere una battagliola col Conte per non approfittare di questo prezioso diritto. Mi ricordò allora d'alcuni anni prima quando scoperto l'invaghimento della Pisana per Lucilio avea fatto quella strada stessa appeso alle coregge posteriori della carrozza, e perduto in un turbine di pensieri e d'angosce che mi dissennava. Quella sera avrei dato la vita per poter sedere accanto a lei, e martoriarmi nella sua indifferenza e assaporare avidamente il male che mi si faceva. Quanto insuperbii di vedermi mutato a quel segno! Era io allora, invece, che volontariamente rifiutava di avvicinare la mia persona alla sua; dopo tanti spasimi, tante gelosie, tanti tormenti, finalmente avea conquistato il coraggio di fuggire! Non credo peraltro che arrivassi a Fratta né piú felice né meno pallido; e se il povero Martino fosse stato vivo, certamente avrebbe notato la mia cattiva voglia. Invece trovai il Cancelliere che aveva una carta di gran premura da farmi ricopiare, e non avendomi beccato durante la giornata, mi assalí sgarbatamente la notte. Lo credereste che io mi ci misi con un gusto matto? Mi pareva di principiare consapevolmente l'opera di mia redenzione; e m'increstava di lasciar andare a letto la Pisana senza fermarmi a guardar la luna, e pensare e martoriarmi dietro a lei. Gli è vero che ricopiando quella carta mi successe di duplicare qualche parola, e saltarne qualche altra; e ad ogni tuffo nel calamaio, diceva fra me: "Finalmente son riescito a non pensarci per una mezza giornata!". E cosí ci pensava senza scrupolo; ma la coscienza non se n'accorgeva, e per discretezza faceva l'indiana, come la madre di Adelaide. Il padre Pendola mi parlò, m'istruí, mi consigliò parecchie volte nei brevi giorni che rimasi ancora a Fratta. Il piovano di Teglio gli dava mano colle sue esortazioni, e cosí io partii che mi pareva di andare ad una crociata, o poco meno. M'accorgo ora che mi mancava la fede; ma aveva la curiosità, l'orgoglio, il coraggio che possono impiastricciarne una pel momento. Quando il pensiero della Pisana cascava come un razzo alla congrève fra il conciliabolo de' miei nuovi proponimenti, ed uno scappava di qua, un altro si salvava per di là, io mi dava delle grosse picchiate nel petto sotto il tabarro, recitava qualche giaculatoria e con un po' di pazienza l'incendio si spegneva e tornava cittadino e cristiano, come voleva il padre Pendola. Forse peraltro non sarei giunto ad accontentare il Piovano; il quale, clausetano fin nelle unghie, dopo la vana aspettativa d'un anno, tacciava l'ottimo padre di indolenza e di incuria negli affari della diocesi. Egli avrebbe voluto uno zelo da san Paolo. Il padre invece nuotava sott'acqua, e cosí ingannava meglio i pesci e le anitre; dopo ch'egli avea preso le redini della Curia, si osservava nel clero cittadino una disciplina esterna piú uniforme e canonica. Non avrei voluto vedere cosa stava ancora di sotto, ma si evitavano i sussurri, le censure, gli scandolezzi. Con quattro paroline di prudenti preghiere e qualche ammiccata d'occhi, il buon padre aveva ridonato agli ecclesiastici quelle dignitose apparenze, che sono di gran momento per mantenere l'autorità. Sicuro che un Gregorio VII non si sarebbe arrestato lí; ma il reverendo padre sapeva contar i secoli, e voleva sanar il sanabile, non arrischiar la vita dell'infermo con tardive operazioni. Gli bastava che certe cose non si vedessero e non se ne parlasse, e che non dando cosí appiglio al raccapriccio degli scrupolosi, anche i vecchi, i rigidi, gli incorruttibili fossero costretti a tacere, a rabbonirsi, a omettersi della solita insubordinazione, mantenuta in fin allora col pretesto dell'anarchia e della spensieratezza dei superiori. Ciò appunto non quadrava al piovano di Teglio; ma in quanto a me egli approvava il santo fervore inspiratomi dal segretario, e me ne incaloriva maggiormente colla sua rozza e sincera facondia. Io arrivai a Padova coll'invasamento di uno che s'appresta a farsi frate per disperazione amorosa. Giuntovi appena, corsi dall'avvocato Ormenta, al quale era già stato scritto dal padre Pendola, e che mi accolse appunto come il guardiano o il provinciale accoglierebbe un novizio. Quel degno avvocato che m'era sembrato l'anno prima un po' sospettoso, un po' beffardo, un po' gelato, mi parve invece allora l'uomo piú aperto, soave e mellifluo della terra. Le sue occhiate andavano e rapivano in estasi; ogni suo gesto era una carezza; ogni parola picchiava proprio al cuore come a casa propria. Di tutto era contento, anzi beato; di sé, del padre Pendola e sopratutto del prezioso dono che questi gli avea fatto coll'affidargli la mia tutela. Mi parlò di fiducia, di raccoglimento, di pazienza; m'invitò a pranzo per tutti i giorni che avrei voluto, meno il mercoledí nel quale egli usava digiunare, e questo metodo non potea forse convenire al mio stomaco giovanile. Si congratulò con me della mia età freschissima la quale mi dava doppia opportunità di far il bene: bisognava indagare le massime le intenzioni de' miei compagni; consultarne con lui per guardar di correggerle di indirizzarle a miglior scopo se parevano difettive o fuorviate; avrei servito di canale perché il senno maturo potesse avvantaggiare della sua esperienza la focosa attività dei giovani; cosí ce ne fossero stati tanti di questi mediatori! Ma già parecchi se n'aveano, e il frutto ricavato cominciava a moltiplicarsi, e a manifestarsi nella parte piú docile e riflessiva della gioventù. Io sarei stato fra i piú benemeriti col mio ingegno, colla mia fisonomia bella e simpatica, colla mia loquela pronta e calorosa. Ne avrei avuto premio, nella soddisfazione della coscienza (e questo è senza dubbio il migliore), sia anche negli onori temporali, e nelle ricompense eterne. Lo stato avea bisogno di magistrati zelanti, accorti, operosi; e li avrebbe trovati in mezzo a noi. Né bisognava rifiutarvisi, perché la carità del prossimo e il bene della patria e della religione devono imporre silenzio alla modestia. Tutti gli uomini erano fratelli, ma il fratello piú destro non dee consentire che il meno destro si precipiti alla cieca. L'amore deve essere oculato sempre, e qualche volta severo. La mano può percuotere, lo deve anzi in certi casi; ci s'intende che il cuore dee conservarsi caritatevole, indulgente, pietoso e piangere per quella triste necessità di dover castigare per migliorare, e tagliare per correggere. Oh, il cuore, il cuore! A sentir l'avvocato Ormenta, egli lo aveva cosí grande, cosí tenero, cosí ardente, che potea sí sbagliare per eccesso, non mai per difetto di amore. Frattanto certe cose che notava intorno al signor avvocato non mancavano di darmi qualche po' di stupore. Prima di tutto quella sua casaccia umida scura e quasi ignuda continuava a promovermi nei nervi un senso di ribrezzo come la tana della biscia. Un uomo sí aperto e leale doveva accomodarsi di quella oscurità, di quelle apparenze cosí nere e mortuarie! E poi durante la mia visita entrò a chiedergli non so che cosa la moglie; una donnetta sottile, piccina, sospirosa, verdognola. L'avvocato le si volse contro con una voce acerba e stonata, con un piglio piú da padrone che da marito, e la donnicciuola se la svignò dalla stanza mordendosi le labbra ma non osando rifiatare. Dunque il signor avvocato aveva nell'ugola un doppio registro: quello che aveva adoperato con me l'anno prima, e allora colla moglie, e l'altro che aveva usato con me pochi momenti innanzi, e che continuò ad usar poi finché mi ebbe accompagnato sulla soglia della casa. Un ragazzotto giallo, sucido, spettinato, vestito da sant'Antonio, che si trastullava con non so quali giocattoli da sacrestia in un cantone dell'andito, mi fece anche voglia di ridere. L'avvocato me lo ebbe a presentare come il suo unico figliuolino, un piccolo prodigio di sapienza e di santità, che si era votato spontaneamente a sant'Antonio, e che ne avea vestito l'abito, come si costumava allora e qualche volta si costuma anche adesso a Padova. Quei suoi capelli, rasi a corona sul capo e abbaruffati come la siepaia d'un orto abbandonato, gli occhi loschi e cisposi, le mani impegolate d'ogni bruttura, e le vesti tutte lacere e bisunte nella loro santità, facevano uno strano contrasto col panegirico tessutomi a voce sommessa dall'avvocato. Pensai fra me che lo illudesse l'amore di padre: quel ragazzo poteva dimostrare quattordici anni (ne aveva sedici, come scopersi dappoi) eppure nulla nella sua persona confermava le lodi che se ne facevano, se non si volesse confondere la sudiceria colla santità, giusta la bizzarra opinione di qualche bigotto. Rinchiusa che ebbi la porta lo sentii intonare a gran voce un cantico divoto: credo che avrei preferito gli abbaiamenti d'un cane, e sí che le salmodie sacre con quel loro tenore mesto e solenne hanno sempre commossa l'anima mia in ogni sua fibra. Ma le divozioni cessano di esser sacre quando sono adoperate a spensierato trastullo e a vano sussurro; e io credo che il permetterne e l'inculcarne di cotal guisa ai fanciulli non serva che a guastarli anche secondo le idee di chi volesse farli soltanto buoni cristiani. Le cose spirituali, secondo me, vanno prese sul serio; altrimenti si lascino piuttosto da un canto. Può esser sciagura il non pensarvi, ma è sacrilegio il farsene beffe. Del resto, secondo le ingiunzioni del padre Pendola e dell'avvocato Ormenta, io mi feci forza ad uscire dal solito riserbo; diedi una piccola parte del mio tempo allo studio, e cogli svagamenti e coll'intenzione a cose piú grandi ed eccelse addormentai nell'animo mio il dolore che vi covava acerbissimo per la dimenticanza della Pisana. Non mi fu difficile scoprire ne' miei compagni quello che il padre aveva avvertito: una profonda e generale indifferenza in fatto di religione; anzi si andava piú in là, cogli scherni, colle parodie, coi motteggi. Questi avrebbero servito a ravvivarmi in cuore la fede, se i miei primi maestri si fossero dati cura di accenderla; ma nessuno aveva pensato a ciò; su questo punto si può dire ch'io fossi nato morto, a risuscitarmi si voleva un miracolo che non avvenne finora. Peraltro lo sdegno ch'io aveva delle buffonerie mi fece credere per qualche tempo di avere quelli tali credenze, le quali io soffriva tanto a veder burlare con tanta frivolezza. La generosità giovanile mi ingannò sullo stato delle mie opinioni, e mi fece piegare a difendere piuttosto gli oppressi che gli assalitori. Narrai quello che vedeva all'avvocato; egli mi incorò ad osservar meglio, a notare quali legami avesse quell'anarchia religiosa colla licenza politica e morale, a discernere i caporioni della setta, ad accostarli, a conversar con loro in maniera che mi aprissero tutto l'animo, per sapere da qual banda incominciare a correggere, a riparare. Mi eccitò soprattutto a non dar nell'occhio col mio atteggiamento, a confondermi colla folla, a risponder poco per allora, limitandomi ad interrogare e ad ascoltare. - Le pecorelle smarrite si richiamano colle carezze - diceva l'avvocato - bisogna lusingarle dapprincipio, perché ci credano; bisogna seguirle prima perché esse poscia vengano volentieri dietro a noi. Egli non mancava mai d'invitarmi a visitarlo spesso, e a favorirlo della mia compagnia a pranzo; ma se io lo accontentava della prima, non era cosí disposto ad approfittare della seconda parte dell'invito. Una domenica che a tutti i costi egli avea voluto trattenermi seco lui a desinare, ci trovai una tal brigata che mi fece scappar l'appetito. Una vecchia pelata e rantolosa che chiamavano la signora Marchesa, un vecchio sollecitatore mezzo sbirro e mezzo prete che beveva sempre e mi guardava traverso al bicchiere, due giovinastri rozzi, sporchi, massicci che mangiavano colle mani e coi denti si aggiungevano al piccolo sant'Antonio e alla larva piagnolosa della padrona di casa per darmi la piú gran melanconia che mai avessi provato. L'avvocato invece sembrava ai sette cieli per avere dintorno a sé una cosí eletta compagnia; osservai peraltro ch'egli non invitava mai il sollecitatore a bere e i giovinastri a mangiare. Tutti i suoi eccitamenti li volgeva alla Marchesa la quale non potea piú bere né mangiare per la tosse che la travagliava. Il signor avvocato trinciava con una perfezione veramente matematica: e giunse a cavare otto porzioni da un pollastrello arrosto; operazione che secondo me vince di difficoltà la quadratura del circolo. Io non avea proprio volontà di toccar cibo, e cessi la mia parte ad uno dei due giovani che non lasciò sul piatto neppur la traccia degli ossi. L'avvocato mi avea fatto mano a mano conoscere tutti i commensali e poi non mancò di tirarmi in un cantone per farmene la storia. La Marchesa era una benemerita patrona di tutti i pii istituti della città; si diceva che fosse ricca di ottantamila zecchini, e lui l'avvocato era il suo consigliere prediletto. Il sollecitatore era un veneziano molto amico dell'attuale podestà al quale faceva fare ogni cosa che gli piaceva; e cosí gli tornava di accarezzarlo per ogni buona occorrenza. I giovani erano due scolari veronesi che s'erano dati come me alla santa causa e si proponevano di aiutarla con tutto lo zelo. Peccato che non avessero né il mio ingegno né le mie belle maniere, ma già Dio sapeva mutar i sassi in pane, e colla buona volontà si arriva a tutto. Io pensai che se in tutte le loro occupazioni ponevano quello stesso zelo che nel mangiare, avrebbero avuto maggior bisogno di freno che di stimolo. Mi ricordai anche allora di averli incontrati qualche volta sotto il portico dell'Università; e mi parve che non fossero né i piú esemplari né i piú modesti che là frequentavano fra una lezione e l'altra. "Basta! faranno forse per seguire le pecorelle smarrite, e invogliarle a farsele venir dietro!" io pensai allora. Ma non ebbi la benché minima voglia di stringer amicizia con esso loro come l'avvocato mi consigliava; come anche accettai con un inchino l'invito fattomi dalla Marchesa di andar qualche volta alla sua conversazione ove avrei passato un paio d'ore lontano dai pericoli, in mezzo a gente sicura e timorata di Dio. L'inchino voleva dire: "Grazie, ne faccio senza della sua conversazione!". Ma l'avvocato si affrettò a rispondere in mio nome che io era gratissimo alla cortesia della signora Marchesa e che vi avrei corrisposto col farmi vedere in sua casa il piú spesso che me lo avrebbero concesso le mie occupazioni. Io fui lí lí per soggiungere qualche sproposito, tanto mi mosse la rabbia quell'uso che si faceva a capriccio altrui della mia volontà. Ma l'avvocato mi rabboní con un'occhiata, e aggiunse poi sottovoce: - La marchesa è molto amante della gioventù; bisogna saperle grado delle sue ottime intenzioni; e compatirla ne' suoi difetti pel gran bene che la può fare! Insomma in onta a queste belle chiacchiere io mi tolsi di casa dell'avvocato ben deliberato di non immischiarmi piú né de' suoi pranzi, né della conversazione della Marchesa. Pei due giorni seguenti ne ebbi peraltro il vantaggio di trovar piú saporito il minestrone del collegio: con una libbra di pane affettatavi dentro mi parve di essere a un banchetto reale. La mia camera godeva almanco d'un bel sole e poteva alzar gli occhi senza incontrarli negli sguardi gatteschi del sollecitatore. I due scolari veronesi si abbatterono in me qualche giorno dopo nei corritoi dell'Università, ma sembravano cosí poco vogliosi di appiccar parola con me come io di avvicinarmi a loro. Ne domandai conto a qualcuno, e seppi che erano i piú beoni e scapestrati dello Studio. Studiavano medicina da sette anni e non avevano ancora ottenuto la laurea, e sprovvisti di mezzi di fortuna, vivevano d'inganno e di rapina alle spalle del prossimo. Io compiansi l'avvocato Ormenta di saperlo zimbello di cotali ghiottoni; ma quando mi intesi di aprirgli gli occhi sul loro conto egli mi accolse assai male. Rispose che eran calunnie, che si maravigliava molto come io ci dessi mente, e che attendessi a scoprire e a distruggere i vizii dei cattivi, non ad esagerare i difettucci dei buoni. Io cominciai a credere che la fede del buon avvocato fosse molto piú pura della sua morale; poiché se quelli erano difettucci non capiva piú quali fossero i vizii ch'io era destinato a combattere. CAPITOLO NONO L'amico Amilcare disfà la conversione del padre Pendola e mi rimette allo studio della filosofia. Passo per Venezia ove Lucilio seguita ad insidiare la Repubblica e la pace della Contessa di Fratta. Mia eroica rinunzia a favore di Giulio Del Ponte. Un viluppo di strane vicende intorno al 1794 dà in mia mano la cancelleria della giurisdizione di Fratta ove comincio col prestare segnalati servigi. Fra coloro cui doveva premere assaissimo all'avvocato Ormenta e al padre Pendola di convertire io avea conosciuto taluno che mi andava a sangue piú assai dei due veronesi, miei alleati. Cominciai a fare qualche escursione nel campo nemico a profitto dell'avvocato; poi ci trovai il mio conto, e da ultimo scopersi tanta differenza fra il male che si diceva di quei giovani e quello che era infatti, che presi a dubitare della buona fede dell'avvocato, e della convenienza dell'ufficio affidatomi. Ch'io cercassi la quiete ai dolori che mi tormentavano nell'adempimento di piú alti doveri, andava benissimo; che cercassi di scordare un amore indegno e sciagurato benché fervidissimo, alzando l'anima nell'adorazione di quelle grandi idee che sono la poesia dell'umanità, in ciò pure non vedeva che bene. Ma che il mio ossequio a quelle grandi idee dovesse ridursi a una fintaggine continua, ad uno spionaggio indecoroso, che quei miei doveri cosí alti cosí sublimi dovessero scader tanto nella pratica, cominciava a metterlo in dubbio. Di piú io aveva fatto la prova come il padre Pendola voleva, ma non ne era rimasto gran fatto contento. La mia mente si era svagata, ma l'anima era ben lungi da quell'ideale contentamento che la compensa d'ogn'altro rammarico. In poche parole, il cervello era occupato ma non il cuore, e questo, attraversato nel suo amore d'una volta, e vuoto d'ogni altro affetto, mi dava grandissima noia co' suoi inutili battiti. Alla prima mi era confusamente infervorato all'ardore altrui, ma poi, sia che quest'ardore fosse fittizio, sia che in me non avesse trovato materia da alimentarsi, m'era sfreddato talmente che non mi conosceva piú per quello d'una volta. Quella continua manovra di passi compassati, d'antiveggenze, d'accorgimenti, di calcoli si affaceva male ad un'anima giovane, e bollente. Aspirava a qualche cosa di piú vivo, di piú grande: capiva ch'io non era fatto per le estasi ascetiche, e ho già narrato in addietro quanto fossi debolino in punto a fede. Figuratevi quanti sforzi facessi per rinforzarmi!... Ma l'avvocato Ormenta, anziché aiutarmi a ciò, mi contrariava sempre colle sue mene un po' troppo mondane. Stava bene che la meta fosse alta spirituale e che so io; ma io la perdeva di vista, e anch'essi non se ne ricordavano che quando io ne chiedeva conto. Uno studente trevisano, un certo Amilcare Dossi, s'era stretto a me con molta intrinsichezza; egli aveva un ingegno forte e arditissimo, un cuore poi che oro non bastava a pagarlo. Con costui andavamo spesso ragionando di metafisica e di filosofia, perché io avea dato il capo in quelle nuvole e non sapea piú liberarmene; egli poi ci studiava da un pezzo e potea darmi scuola. Dopo qualche giorno m'accorsi che egli era proprio un tipo di coloro che il padre Pendola definiva avversatori spietati d'ogni idealità e d'ogni nobile entusiasmo. Metteva tutto in dubbio, ragionava su tutto, discuteva tutto. E non pertanto mi maravigliava di rinvenire in lui un amore di scienza e un fuoco di carità che mi parevano incompatibili coll'arida freddezza delle sue dottrine. Finii col fargli parte di questa mia maraviglia ed egli ne rise assaissimo. - Povero Carlino! - diss'egli - come sei indietro! Ti maravigli ch'io mi sia preso di cosí violento affetto per quelle scienze che vado disseccando alla maniera dei notomisti? Gli è, caro mio, che l'amore della verità vince tutti gli altri in purità ed in altezza. La verità, per quanto povera e nuda, è piú adorabile, è piú santa della bugia incamuffata e suntuosa. Perciò ogni volta ch'io le tolgo di dosso qualche fronzolo, qualche orpellatura, il cuore mi balza nel petto, e la mia mente si cinge di una corona trionfale! Oh benedetta quella filosofia che mortali, deboli, infelici pur c'insegna che possiamo esser grandi nell'uguaglianza, nella libertà, nell'amore!... Ecco il mio fuoco, Carlino; ecco la mia fede, il mio pensiero di tutti i momenti! Verità ad ogni costo, giustizia uguale per tutti, amore fra gli uomini, libertà nelle opinioni e nelle coscienze!... Qual essere ti parrà piú grande e piú felice di quello che tende con ogni sua forza a far dell'umanità una sola persona concorde, sapiente, e contenta per quanto lo permettono le leggi di natura?... Oggi poi, oggi che queste idee ingigantiscono, e pesano, fremendo sulla sfera riluttante dei fatti, oggi che io veggo affievolirsi sempre piú quella nebbia che le nascondeva agli occhi degli uomini, chi piú felice di me?... Oh questa, questa, amico, è la vera calma dell'animo!... Sollevati una volta a quella fede libera e razionale, né fortune avverse, né tradimenti, né dolori potranno turbare la serenità dello spirito. Son forte, incrollabile in me, perché credo e spero in me e negli altri! Figuratevi! Durante questa professione di fede che rispondeva sí bene ai miei bisogni, io diventava di tutti i colori. Mi ricordo che non mi bastò il cuore di soggiungere una sola parola, e Amilcare credette ch'io non ne avessi proprio capito un'acca. Tuttavia se non aveva capito, aveva tremato. Vergognai di me che aveva ondeggiato sí a lungo; ebbi compassione di padre Pendola e dell'avvocato Ormenta (i quali, sia detto di volo, non ne abbisognavano punto), e decisi di studiare come Amilcare, e di interrogar finalmente il mio cuore su quello propriamente ch'egli voleva amare. Intravvidi per la seconda volta un mondo pieno di idee altissime, di nobili affetti, e sperai che anche senza la Pisana l'anima mia avrebbe trovato il bandolo di vivere. Questo rivolgimento delle mie opinioni s'era già compiuto quando rividi l'avvocato Ormenta; e quel giorno, poco disposto a passargli tutto buono come al solito, appiccai con lui una mezza lite. Egli era malcontento di me perché non era mai stato alla conversazione della Marchesa che si mostrava, a quanto pare, tenerissima del fatto mio. Perciò ci separammo un po' ingrugnati, dicendo egli che la buona causa non sapea che farsi di servitori condizionati e raziocinanti. Io non gli risposi quanto mi bolliva entro, ma corsi tosto da Amilcare, e per la prima volta gli narrai le mie relazioni coll'avvocato, e tutto l'andamento delle cose dalla predica del padre Pendola fino alla contesa di quel giorno stesso. Al mio racconto egli sporse le labbra come chi non ode cose molto piacevoli, e mi buttò in volto una certa occhiata che non mi dimenticherò mai. La mi diceva: "Sei pecora o lupo!?". In verità io ne rimasi cosí sconvolto, che per poco non mi pentii di essere sdrucciolato in quella lunga confessione. Ma il sospetto fu un lampo: l'anima di Amilcare non era di quelle che esperte nel male lo avvisano dovunque; egli era buono, e si ravvide subito di quella breve incertezza: la bontà non gli tornò dannosa, come spesse volte. Egli mi parlò allora della fama che aveva l'avvocato in città; e come egli fosse tenuto un vigilantissimo ministro dell'Inquisizione di Stato. - Ah cane! - io sclamai. - Cos'è stato? - mi chiese Amilcare. Io non ebbi il coraggio di confessare che il furbo m'aveva forse adoperato come strumento delle sue ribalderie; e il coraggio mi mancò affatto quando mi raccontò che la cattura di alcuni studenti avvenuta il giorno prima, e lo sfratto intimato ad alcuni altri, e le perquisizioni a moltissimi si ascrivevano comunemente a merito del signor avvocato. - Quel tuo padre Pendola deve essere qualche inquisitore travestito che lavora a doppio per tenerci al buio - continuò Amilcare. - A Venezia sono ancora al mille quattrocento e si ha paura del mille ottocento che s'avvicina, ma noi, noi, oh no, per dio, che non muteremo in loro servigio la nostra fede di nascita. Il buonsenso omai non è il retaggio di cento famiglie di nobili. Tutti vogliono pensare, e chi pensa ha diritto di operare pel bene proprio e comune. Troppo ci condussero colle bretelle; il padre Pendola può esser giubilato: noi vogliamo camminar soli. Amilcare pronunciando queste parole si trasformava in tutta la persona; la sua fronte alta e rilevata, gli occhi profondi, le narici sottili e dilatate, mandavano fiamme. Diventava piú grande ancora che non fosse naturalmente, e pareva che per tutte le sue vene scorresse una vampa di orgoglio e di virtù. - Cos'erano i Greci, cos'erano i Romani? - seguitava egli. - Gente che ha vissuto prima di noi, dell'esperienza dei quali noi possiamo giovarci, e furono potenti perché virtuosi, virtuosi perché liberi. Ma la virtù provenga dalla libertà o questa da quella, bisogna cimentarvisi. Il conato alla libertà sarà poderoso ed efficace ammaestramento di virtù. Licurgo che ha fatto per ridonare a Sparta la sua potenza? Le ha ridonato colle leggi i robusti costumi. Imitiamolo, imitiamolo! Leggi nuove, leggi valide, leggi universali, chiare, severe senza scappatoie senza privilegi! Ricordiamoci degli avi nostri che si chiamarono Bruti, Cornelii e Scipioni! La storia si ripete allargandosi; l'ordine nuovo nasce dal disordine antico. Il buon tempo è giunto per l'eguaglianza, per la verità e per la virtù! L'umanità unificata vuol regnare sola; noi saremo i suoi banditori! Io strinsi la mano all'amico senza mover parola; ma l'anima mia era tutta con lui; non avea piú pensiero che non volasse anelando incontro a quelle immense speranze. Giustizia, verità, virtù! le tre stelle che governano il mondo spirituale, e lunge da esse ogni cosa s'abbuia, ogni cuore trema o si corrompe! Io le vedeva sorgere come una costellazione divina sul mio orizzonte; tutto l'amore di cui era capace tendeva ad esse con impeto irresistibile. Ancora una nebbia da diradarsi, ancora un battere d'ala in quel cielo profondo e la mia religione era trovata, il mio cuore calmo per sempre. Ma quella nebbiolina era come quelle frazioni infinitesimali che impiccoliscono sempre senza svanir mai; quella luce era tanto lontana che quando appunto credeva di lambirne l'atmosfera infocata un nuovo spazio d'aria si frammetteva fra me e lei. Molte volte discorsi poi con Amilcare di tali mie dubbiezze; ed egli mi assicurava che provenivano da difetto di meditazione; io credo anzi che l'aver guardato di primo colpo senza affaticarmi troppo le ciglia a voler vedere quello che non è, mi giovasse a scoprire quello che veramente era. Giustizia, verità, virtù! Tre ottime cose, tre parole, tre idee da innamorare un'anima fino alla pazzia e alla morte; ma chi le avrebbe recate di cielo in terra, per usar l'espressione di Socrate? - Questa era la spina del mio cuore; e non la capiva allora cosí chiaramente, ma la mi doleva a sangue. Nuove istituzioni, nuove leggi, diceva Amilcare, formano uomini nuovi. Ma a volerlo anche credere, chi ci avrebbe dato queste ottime istituzioni, queste leggi eccellenti? Non certo gli inetti e spensierati governanti di allora. Chi dunque?... Una gente nuova, giusta, virtuosa, sapiente; e dove e come trovata? e come portata a capo della cosa pubblica?... In verità io ci avrei capito poco ora, che di quel guazzabuglio mi do in qualche maniera ragione. Ma a que' tempi di letargo appena smosso, di annebbiamento intellettuale, e di infanzia politica, qual piú grande uomo di governo ci avrebbe capito piú di me?... Io restava adunque col mio amore aereo e affatto sentimentale; come chi s'invaghisse d'una donna veduta in sogno. Ammirava Amilcare che a quei sogni dava fiduciosamente la saldezza della realtà, ma non poteva imitarlo. Peraltro le vicende di Francia incalzavano; e le grandi novelle di colà, appurate dalla distanza e dall'immaginazione giovanile de' miei compagni, soccorrevano la mia sfidanza. Mi diedi a sperare, ad aspettare cogli altri; leggeva intanto i filosofi dell'Enciclopedia, e piú ancora Rousseau; sopratutto il Contratto sociale, e la Professione di fede del Vicario Savoiardo. A poco a poco prestai della mia mente un corpo a quei fantasmi: quando me li vidi innanzi vivi spiranti, gettai le braccia al collo di Amilcare, gridando: - Sí, fratello, oggi lo credo finalmente! Un giorno saremo uomini!... L'avvocato Ormenta, che mi vedeva di rado e sempre piú taciturno e riguardoso, mi fece spiare da qualcheduno de' suoi; egli seppe le mie nuove abitudini, la mia amicizia col trevisano, e indovinò il resto. Il mondo non correva a quel tempo secondo i loro desiderii; il poveruomo avea un bel darsi attorno; capiva che erano formiche incapate tristamente ad arrestare un macigno, e se anche non lo capiva, il fatto sta che era stralunato peggio che mai. Però non volle deporre ogni lusinga; mi accarezzò ugualmente sperando di carpire forse alla mia ingenuità quello che raccoglieva prima dall'ubbidienza. Avvisato da Amilcare io stava sull'intesa e spiava a mia volta la fisonomia dell'avvocato come un barometro del tempo. Quando lo vedeva mogio, umile, annuvolato, correva a far gazzarra coi compagni; e si facevano fra noi allegri brindisi alla libertà, all'eguaglianza, al trionfo della Francia, alla repubblica e alla pace universale. Il vino costava allora pochissimo, e coi tre ducati di mesata passatimi dal Conte, io era in grado di partecipare alle agapi di quei capi guasti. Questo entusiasmo politico e filantropico poteva occupar l'animo d'un giovane come io era, non già la religione intrigante mondana e furbesca del signor avvocato. Forse il vangelo puro di carità e di santità mi avrebbe potuto entrare; ma ad ogni modo il passo era fatto. Divenni un volteriano battagliero e fanatico. Stetti anche piú volentieri che mai a predicare, a disputare fra i miei compagni di studio; e l'esser piú simile a loro me li fece giudicare meno flosci e spregevoli. Il fatto sta che le idee rinfiammano, e che la vita comune del pensiero soffoca o attira a sé l'egoismo privato. Da ciò avviene che l'egoismo inglese è proficuo alla nazione, benché comune e potente; in altri paesi invece la carità è inutile perché casuale e slegata. Cosí quella gioventù in un solo anno avea fatto un gran salto: formicolavano ancora le passioni, gli astii, le pigrizie di prima; ma il vento che soffiava da occidente sollevava le menti fuori di quella cerchia compassionevole. In fondo forse la paura, il vizio, l'inerzia poltrivano ancora; ma di sopra si slanciava la fede, capace di grandi cose benché momentanee in indoli cosí fatte. Basta; io me ne accontentava: e d'altra parte, conosciuto ben bene Amilcare, io m'era fitto in capo che tutti somigliassero a lui; il che non era pur troppo. Come tutti i giudici che non hanno barba al mento, peccava allora in un estremo come l'anno prima avea peccato nell'altro: assolveva per innocenti coloro che altre volte avea condannato a morte. Amilcare mi trascinava colla sua foga di fede, di entusiasmo, di libertà, colle sue abitudini di spensieratezza di giocondità e di audacia; con lui il sentimento che non fosse consacrato al bene dell'umanità mi sembrava un sentimento dappoco. Non mi ricordava di aver vissuto prima d'allora; la Pisana mi pareva una creatura piccina piccina, quasi veduta in una valle dalle sommità azzurrine e pure d'una montagna; piú spesso la mi usciva di mente affatto, poiché il mio cuore avea trovato cosa amare in vece di lei. Peraltro, rimasto che fossi solo, avveniva nell'animo mio quasi una separazione di due elementi diversi, che mescolati violentemente insieme ne componevano per poco un solo; ma poi lasciati sedare tornavano a dividersi ciascuno dal proprio canto. La fede nella virtù, nella scienza, nella libertà sorgeva pura ed ardente a cantar inni di speranza e di gioia; la memoria della Pisana si ritraeva in un angolo a brontolare e a stizzirsi in segreto. Allora io mi dava attorno per confonder ancora quei sentimenti; m'incaloriva artifiziosamente e anfanava tanto, che le piú volte vi riesciva. Ma perché ciò avvenisse spontaneamente m'era proprio di mestieri la compagnia e l'esempio di Amilcare. Intanto il romore delle armi francesi cresceva alle porte d'Italia; con esse risonavano grandi promesse di uguaglianza, di libertà; si evocavano gli spettri della repubblica romana; i giovani si tagliavano la coda per imitar Bruto nella pettinatura; per ogni dove era un fremito di speranza che rispondeva a quelle lusinghe sempre piú vicine e vittoriose. Amilcare mi pareva pazzo; gesticolava, gridava, predicava nei crocchi piú turbolenti, sui caffè e per le piazze. L'avvocato Ormenta diventava sempre piú livido e musonato, io credo che fosse arrabbiato anche contro la Marchesa che non si decideva mai a morire. Io bel bello nelle rade visite mi prendeva beffe di lui. Un giorno egli mi parlò con un certo sapore amaro della mia amicizia con un giovine trevisano e mi avvertí quasi beffardamente che se gli voleva bene doveva ammonirlo di essere meno corrivo a sussurrare nelle sue parlate. La sera stessa Amilcare con parecchi altri scolari fu imprigionato e condotto a Venezia d'ordine degli Eccellentissimi Inquisitori; a me credo si sparagnò quella sagra, perché speravano di sgomentirmi e forse di ripigliarmi. Ma la codardia, grazie al Cielo, non s'apprese mai al mio temperamento. Di quella vicenda toccata al mio amico io ebbi un dolor tale che mi fece odiare tre volte tanto i suoi nemici, e m'infervorò piucchemai nelle nostre speranze comuni. Allora poi che dall'avveramento di queste dipendeva la sua salute, la mia impazienza non conobbe piú freno. Solamente il tempo si prese la briga di calmarmi. Ai primi impeti successe una tregua lunga e dubbiosa. Le alleanze continentali si erano rafforzate; la Francia si ristringeva in sé, come la tigre per uno slancio piú fiero; ma fuori si credeva ad uno scoramento fatale. La Serenissima patteggiava con tutti, soffriva e barcamenava; gli Inquisitori sorridevano fra loro di vedersi sperperare un temporale che avea fatto tanto fracasso; sorridevano, stringendo fra le unghie quei disgraziati che avevano sperato nella grandine e nelle saette mentre tutto accennava ad un nuovo sereno di bonaccia. Di Amilcare e di molti altri che lo avevano preceduto o seguito nelle carceri non si parlava piú; solamente si mormorava che la Legazione francese aveva cura di loro e che non li avrebbe lasciati sacrificare. Ma se la prossima campagna fosse sfortunata alla Francia? Io tremava solo a pensarne le conseguenze. Intanto una mattina mi capitò una lettera suggellata a nero. Il signor Conte mi partecipava la morte del suo cancelliere, aggiungendo che in quasi due anni di studio io ne avea potuto imparare abbastanza, che poteva sostenere l'esame quando voleva, e che corressi intanto presso di lui a dirigere la cancelleria. Cosa provassi alla lettura di quel foglio, non ve lo saprei spiegare; ma credo che in fondo fossi contento assai che la necessità mi richiamasse vicino alla Pisana. Senza Amilcare e senza la speranza di riaverlo presto, Padova mi somigliava una tomba. Le mie speranze si dileguavano ogni giorno piú; l'impazienza giovanile una volta delusa si volge facilmente in scoraggiamento; e la cera gioconda e trionfale dell'avvocato Ormenta tornava a darmi la stizza. Mediante una commendatizia del senatore Frumier sostenni con buon esito l'esame del secondo anno; e partii poscia da Padova cosí sconvolto e confuso che nel mio cervello non ci raccapezzava piú nulla. Peraltro mi sapea duro di togliermi di colà senza chiarirmi meglio delle faccende di Amilcare, e confidando nel patrocinio della Contessa e de' suoi nobili parenti sperai che a Venezia sarei venuto a capo di qualche cosa. Chiesi dunque consiglio ai miei pochi ducati i quali mi permisero quella breve diversione se avessi usato la maggior parsimonia. Feci un fardello delle mie robe, e le imbarcai sul burchio; indi cosí per creanza fui a prender commiato dall'Ormenta. - Ah, buon viaggio, carino! - mi diss'egli. - Peccato che non siate rimasto con noi tutto l'anno; siete accorto, e sareste tornato a visitarmi sovente, e forse anco la signora Marchesa vi avrebbe avuto al suo circolo. Riveritemi il padre Pendola, carino; e fidatevi agli attempati un'altra volta. I giovani credono troppo, e vi faranno fare dei cattivi negozi! Capisco ora quello che volle dire il caro avvocato, ma egli mi credeva un volpone ghiotto ed avaro simile a lui; allora non ci capii nulla. Dovetti peraltro, dietro suo invito, baciare in viso quel sucido figliuolo, che funzionava al solito nell'andito colla sua vestaccia nera e puzzolente. Questa cerimonia mi rese due volte piú gradita la mia partenza da Padova; e del resto lasciava l'incarico alla fortuna di far comparire degno cancelliere un giovinastro di non ancora vent'anni. Giunto a Venezia non perdetti tempo né ad ammirare San Marco né a passeggiar la riva, e deposto il mio fardello in una locanda corsi al palazzo Frumier. Dio mio come trovai cambiata in quei pochi anni la signora Contessa! La era divenuta piú scura, piú cattiva di fisonomia; il naso le si era uncinato come ad uno sparviere, e gli occhi lampeggiavano di un certo fuoco verdognolo che non augurava nulla di buono, e nel vestire mostrava una trascuranza quasi schifosa. Non avea piú né nastri rosei, né merli alla cuffia; e i capelli grigi le ingombravano spettinati la fronte e le tempie. Perciò, lo confesso, neppur la pietà di Amilcare poté indurmi a tentar qualche cosa da quella banda. M'infinsi venuto a Venezia per ossequiarla e credetti aver addotto un'ottima scusa per riescirle gradito; ma ella mi rispose un grazie cosí sgarbato che mi fece calare ogni forza giù dei ginocchi, e mi tolsi da quella stanza che non vedea l'ora di essere in istrada. Peraltro uscito che fui nell'anticamera, mi si rifece il cuore, e mi tornò il desiderio di vedere la contessina Clara e confidarmi a lei. Mentre appunto mi volgeva in cerca d'un servo che mi conducesse da lei, ecco venirmi incontro ella stessa che avea saputo del mio arrivo e non volea lasciarmi partire senza un saluto. Tanta cortesia mi commosse e mi diede animo. La povera Contessina era tal quale l'avea veduta l'ultima volta; piú pallida, peraltro, piú grave, e con due cerchi rossi intorno agli occhi che dinotavano l'abitudine del pianto o di lunghissime veglie. Ma questi segni di dolore, anziché togliere alla confidenza, vi aggiungevano l'incentivo della compassione. Mi apersi dunque con lei, narrandole del mio amico, ed esponendole il desiderio ch'io aveva di sapere almeno perché lo si sostenesse in prigione, e quando c'era speranza che lo lasciassero. La Contessina si turbò alquanto udendo il caso di Amilcare, e piú la causa probabile del suo imprigionamento; e due o tre volte fu per suggerirmi qualche spediente, ma poi la si tratteneva sospirandoci sopra. Finalmente lo spettacolo del mio dolore la vinse, e mi disse che a Venezia c'era persona la quale dovea saperne di ciò meglio che molti altri, e che io la conosceva, e che cercassi del dottor Lucilio Vianello che certo mi avrebbe detto ogni cosa ch'io bramassi sapere intorno al giovane trevisano. Ma mi disse ciò arrossendo, la poveretta, e raccomandandomi di non iscoprire altrui questo suo consiglio; e poi quando io le chiesi dove avrei potuto trovare il dottor Lucilio, mi rispose di non saperne nulla, ma che egli non avrebbe mancato di capitar qualche volta in Piazza ove era allora, come adesso, il grande ritrovo di tutti i veneziani. Infatti io tolsi commiato da lei, ringraziandola di tanta sua bontà, e piantatomi in Piazza aspettai girando su e giù finché diedi di naso nel signor Lucilio. Le gelosie non mi frullavano piú pel capo, e pieno di zelo pel maggior bene di Amilcare lo accostai risolutamente. Egli o stentò a conoscermi o ne fece le viste, ma poi mi usò mille finezze, mi chiese conto de' miei studi, della mia vita; e da ultimo mi domandò se avessi veduto la Contessa e sua figlia. Io gli narrai tutto, e come le avessi trovate. Ed egli allora mi raccontò che la Contessa s'era data sfrenatamente alla passione del gioco, come usavano le dame veneziane d'allora; che perdeva ogni giorno grosse somme di denaro, che gli usurai le stavano a' panni, ch'ella non pensava ad altro che a riacquistare quanto aveva perduto, con rischi piú gravi e pericolosi. Il suo temperamento avea sempre peggiorato; tiranneggiava la figliuola peggio che mai, ed erano sette mesi che la poverina non usciva di casa che per andare a messa a San Zaccaria, ov'egli la vedeva una volta per settimana. E poi scompariva come un'ombra, e non la lasciavano nemmeno affacciarsi alla finestra perché le avevano destinato una camera interna del palazzo. Quanto al poter penetrare fino a loro non avea mai potuto riescire; e sí che la fama acquistatasi grandissima nella sua professione, gli aveva aperto le sale piú cospicue della nobiltà. La Contessa era inesorabile; ed egli sapeva da fonte sicura che stava in trattative colle monache di Santa Teresa perché la Clara fosse da loro accettata come novizia; soltanto faceva ostacolo la dote, ché la Contessa era in grado di pagarne al momento non piú della metà, e secondo la regola non potevano accettarla che dopo l'intero pagamento. La giovane si sarebbe piegata ai voleri della madre, e se quel sacrifizio non era già consumato, lo si doveva a quelle differenze d'interesse. Soltanto egli sperava che non avrebbe obbedito quando avessero voluto farla professare, e che non si sarebbe divisa dal mondo colla barriera insormontabile dei voti. Lucilio mi narrava di ciò colla rabbia forzatamente compressa di chi non può vincere un'opposizione giudicata frivola e ridicola; ma da ultimo la sua fronte si era rialzata, e ben ci si accorgeva ch'egli non avea smesso nulla dell'antico coraggio, e che sperava ancora e che le sue speranze non erano sogni. Quel suo animo vigoroso e prudente non poteva acquetarsi in vane lusinghe, e perciò la sicurezza che travidi nelle sue ultime parole mi diede qualche fiducia. Allora vedendolo piú tranquillo gli comunicai la cagione dell'averlo io sí a lungo aspettato, non tacendogli anche, forse con un po' di furberia, che la Clara stessa mi aveva a lui indirizzato. Parve allora che molte confuse memorie gli balenassero in capo, e tornò a guardarmi come se fosse quello il primo momento che mi rivedeva. - Da quanto tempo non avete piú notizia del padre Pendola? - mi chiese egli senza nulla rispondere alla mia domanda. - Oh da lungo tempo! - risposi io con qualche stupore di essere interrogato a quel modo. - Credo che col reverendo padre non ce la intenderemo piú, e che egli per lo meno non sarà fatto contento del fatto mio. - Non vi aveva egli dato qualche commendatizia per Padova? - mi domandò ancor con un fare svagato Lucilio. - Sí certo; - soggiunsi - per un certo avvocato Ormenta che mi è andato fuori affatto dei gangheri, e pochi mesi fa ho saputo che è in voce di essere una spia dei Serenissimi Inquisitori. - Bene, bene, sarà: ma non parlate di cotali cose a voce alta qui in Venezia; il vostro amico deve essere caduto in male acque appunto per questo. - Oh sí, è facilissimo! egli parlava tanto forte da farsi udire da un capo all'altro della città e non facea mistero delle sue opinioni. - Infatti fu rimeritato, come vedete, della sua sincerità; tuttavia rassicuratevi che egli e i suoi compagni stanno, credo, sotto la protezione della Legazione francese, e non interverrà loro alcun male. - Ne è ben sicuro, lei? Ma se la Francia è invasa dagli alleati, se... Lucilio mi troncò la parola in bocca con una risata, laonde io lo guardai alquanto meravigliato. - Sí, sí, guardatemi! - egli soggiunse. - Ho riso della vostra innocenza. Credete anche voi, come i gazzettieri di Germania, che la Francia sia esausta, discorde e che si lascierà mettere i piedi sul collo dal primo venuto!... Guardatemi in viso ancora!... Io non sono che un medico, ma vi garantisco che ci vedo piú lungo assai di tutti questi politiconi in toga e parrucca. La Francia omai non è piú solamente in Francia: è in Svizzera, è nell'Olanda, è in Germania, è in Piemonte, è a Napoli, è a Roma, è qui! qui dove parliamo io e voi. Essa lo sa e si raccoglie, per attirarsi intorno le forze attive dei nemici, e sbarazzarsene piú presto in un paio di colpi, e lasciar libero lo slancio agli amici, ai fratelli di qui!... Vedete; cosí per abitudine io vi raccomandava poco fa di parlar adagio, e ora io grido e non me ne curo. Gli è, vedete, che omai hanno paura, e che non si corre nessun pericolo. Voi potete narrare quanto vi ho detto all'avvocato Ormenta ed anche al padre Pendola, che non me ne importerebbe gran fatto. In ciò dire Lucilio mi guardava con occhi fiammeggianti e severi, tantoché io fui costretto, contro l'usanza, di chinare i miei. Ma egli ebbe forse compassione di quel mio smarrimento e mi diede una mano a rialzarmi. - Quanti anni avete? - mi chiese. - Presto ne avrò venti. - Solamente venti? animo allora; eravate un bambino e credevano di mettervi la benda, ma io spero che non vi lascerete infinocchiare, o che vi ravvederete finché ne avete il tempo. Coraggio dunque; confessatemi che la vostra amicizia per Amilcare e il vostro interessamento per lui presso di me è un effetto di consigli altrui, non del vostro spontaneo sentimento... - Oh chi vuol ella mai che mi spingesse a ciò!? - Chi? il padre Pendola per esempio, o l'avvocato Ormenta! - Essi? tutt'altro anzi: credo che mi sapranno pochissimo grado della mia intrinsichezza con quel giovane; e infatti a lui ho dovuto di essermi disgustato di loro e delle loro trame frivole e inoneste. - Frivole le loro trame? non tanto, ragazzo mio. Inoneste potrebbe darsi: ma non precipitiamo i giudizi, perché chi difende la pagnotta ha molti e molti diritti. Credereste voi che il reverendo padre e il degno avvocato sarebbero persone autorevoli e di rilievo se venisse un buon vento di giustizia che buttasse a terra, sí, che buttasse a terra, tutti i privilegi della nobiltà e delle fraterie?... Essi lavorano pel loro utile come gli altri pel proprio: non so cosa dirne! Io mi stupii oltremodo di questa maniera di vedere di Lucilio; un odio aperto mi quadrava meglio di questa fredda calcolata inimicizia; e il mio amico trevisano la pensava secondo me piú dirittamente del dottore di Fossalta. Soltanto mi dimenticava che in questo la gioventù s'era sbollita, e il sentimento s'era impietrato in profonda convinzione. - Ma parliamo dunque di voi; - continuava egli intanto - voglio credervi che la contessina Clara vi abbia indirizzato a me, e non l'avvocato Ormenta. Se cosí è, vivete tranquillo; il vostro amico Amilcare è piú sicuro nella sua prigione che io e voi in Piazza. Lo direi anche al Collegio dei Savi il quale se fosse savio avrebbe a cavare il suo pro' da questo giudizio. Ve lo ripeto, v'è gente che veglia per lui; e non c'è pericolo che si lascino andar a male giovani cosí preziosi. Intanto voi cercate di non lasciarvi abbindolare dal padre Pendola. Per carità, Carlino! Eravate un ragazzo di mente e piú assai di cuore. Non guastatevi sul piú bello. Vi lascio per qualche visita che ho da fare in questa casuccia di poveri diavoli. Cosa volete? l'amore della gente è la paga piú bella del medico. Ma se vi fermate a Venezia, cercate di me all'ospedale dove sto sempre fino alle dieci del mattino. - Grazie; - gli diss'io - se la mi assicura proprio che Amilcare... - Sí, vi assicuro che non gli interverrà alcun male. Cosa volete di piú? - Allora la ringrazio; e la riverisco. Io parto quest'oggi stesso. - Salutatemi il Conte, la Contessina, i nobiluomini Frumier e mio padre se lo vedete - soggiunse Lucilio. - Ohimè! salutatemi anche Fratta e Fossalta! Chi sa se quei solitari paeselli mi vedranno mai piú! Mi abbracciò e mi lasciò, credo, con istima migliore di quando mi aveva incontrato. Certo al ripensarci poi mi parve che gli avessero riferito di me cose non troppo onorevoli; e in seguito venni a sapere com'egli mi credeva venduto anima e corpo al padre Pendola. Ma l'ingenuità della mia confessione l'aveva rimosso da questo avventato giudizio; senzaché la mia giovinezza lo lusingava che non fossi tanto incallito nell'impostura, come pretendevano. Ad ogni modo imbarcato ch'io fui col mio fardelletto sulla corriera di Portogruaro, la mia mente ebbe di che lavorare a riandar il colloquio avuto con Lucilio; sopratutto l'autorità che era nelle sue parole, nel suo contegno mi parea piú strana ancora che mirabile. Un semplice medico, un giovane paesano da poco trapiantato a Venezia parlava e sentenziava a quel modo! Ergersi per poco ad arbitro dei destini d'una repubblica, se non ad arbitro, a giudice e a profeta!... la mi sapeva un po' di commedia! Che fossi rimasto corbellato? Che la mia inesperienza gli avesse offerto un'occasione di burlarsi saporitamente di me? Quasi quasi mi rimordeva di avere abbandonato Amilcare a sí manchevole malleveria; ed è vero che nulla piú avrei forse potuto tentare per lui, ma dubitava fra me che quella troppo facile confidenza fosse effetto di poco animo e di infingardaggine. Mi riconfortava poi col pensiero che Lucilio non era mai stato uno spaccamonti, e che per ingegno e per studio soprastava tanto agli altri uomini, da darmi il diritto di crederlo superiore ad essi di antivedere e di potenza. Che egli fosse secretamente addetto alla Legazione francese lo avea udito mormorare anche a Portogruaro l'autunno passato; e allora alcune sue parole m'avevano riconfermato la verità di questa diceria. Tali relazioni forse lo ponevano in grado di poter sapere e vedere nelle cose piú addentro degli altri; e in fin dei conti poi io non ci trovava una causa per cui dovesse egli divertirsi a gabbarsi di me. Queste considerazioni, unite al rispetto istintivo che nutriva per Lucilio e alla nessuna lusinga che poteva avere di giovare ad Amilcare per qualche altra via, fecero ch'io mi acquietassi in quanto aveva operato; anzi cessai a poco a poco di darmi pensiero della sorte dell'amico per badare alla mia. Mano a mano che mi allontanava dalle lagune per entrare in quel laberinto di fiumane, di scoli e di canali che uniscono a Venezia il basso Friuli, mi si abbuiavano nella mente le vicende di quell'ultimo anno, e quelli vissuti prima vi ricomparivano col guizzante barbaglio dei sogni. Mi pareva che la barca nella quale era mi rimenasse verso il passato, e che ogni colpo di remo distruggesse un giorno della mia vita, e per meglio dire, mi riconquistasse uno dei giorni trascorsi. Niente dispone meglio alla meditazione, alla mestizia, alla poesia di un lungo viaggio traverso a paludi nella piena pompa della state. Quegli immensi orizzonti di laghi, di stagni, di pelaghi, di fiumi, inondati variamente dall'iride della luce; quelle verdi selve di canne e di ninfee dove lo splendor dei colori gareggia colla forza dei profumi per ammaliare i sensi, già spossati dall'aria greve e sciroccale; quel cielo torrido e lucente che s'incurva immenso di sopra, quel fremito continuo e monotono di tutte le cose animate e inanimate in quello splendido deserto mutato per magia di natura in un effimero paradiso, tutto ciò mette nell'anima una sete inesauribile di passione e un sentimento dell'infinito. Oh la vita dell'universo nella solitudine è lo spettacolo piú sublime, piú indescrivibile che ferisca l'occhio dell'uomo! Perciò ammiriamo il mare nella sua eterna battaglia, il cielo ne' suoi tempestosi annuvolamenti, la notte ne' suoi fecondi silenzi, nelle sue estive fosforescenze. È una vita che si sente e sembra comunicare a noi il sentimento di un'esistenza piú vasta piú completa dell'umana. Allora non siamo piú i critici e i legislatori, ma gli occhi, gli orecchi, i pensieri del mondo; l'intelligenza non è piú un tutto, ma una parte; l'uomo non pretende piú di comprendere e di dominar l'universo, ma sente, palpita, respira con esso. Cosí io cedeva allora a questa corrente di sogni e di pensieri che mi respingeva carezzevolmente alle beate memorie dell'infanzia. L'esule canuto che torna al focolare domestico dopo avere sfruttato i suoi giorni sopra terra ingrata e straniera non è certo piú lieto e commosso ch'io allora non fossi. Ma era tuttavia un contegno pieno di melanconia, perché l'apparizione nei crepuscoli della memoria di una gioia passata somiglia alla visita notturna d'un diletto defunto, e ci invita alla voluttà delle lagrime. Ricordava, insieme dimenticava e sognava; ricordava le beatitudini del fanciullo, dimenticava i dolori dell'adolescenza, il ravvedimento del giovane, e sognava un ritorno allegro e felice a quelle rive incantate d'Alcina, donde cacciati una volta, invano si cerca di approdare ancora. Chi dopo una qualche assenza non ha osato di fingere la propria amante cambiata per miracolo nell'amante ideale dei sogni, nella creatura del nostro cuore e della nostra poesia?... Bambolaggine senza verità e senza fiducia della quale la mente s'innamora; e la speranza e l'amore e ogni altro tesoro dell'anima si profonde a drappeggiar vagamente una bambola immaginata. Io prendeva allora la mia Pisana in culla; non vedeva che i suoi lunghi capelli, i suoi occhi dolcissimi, i suoi sorrisi da angelo; di lei fanciulletta ricordava la grazia, l'ingegno, la pietà, e la voce soave e carezzevole; la vedeva poi crescere d'orgoglio e di bellezza; ricordava i suoi moti magnanimi, i suoi gesti alteri, i suoi baci di fuoco; sentiva il suo braccio tremar sotto il mio, vedeva il suo petto gonfiarsi ad una mia occhiata, e i suoi sguardi... Oh! chi saprà descrivere com'ella avea saputo guardarmi, e come io ricordava allora, e ricordo perfino adesso, il linguaggio celeste di quelle due pupille incantevoli! Come ricordare un solo di quei lampi d'amore e sovvenirsi insieme delle nubi che lo offuscavano? No, l'anima sua, la parte piú bella e spirituale di lei che viveva in quegli occhi, non si è insozzata nel fango della colpa. No, l'uomo non è un congegno meccanico che produce umori e pensieri, ma è veramente un impasto d'eterno e di temporale, di sublime e d'osceno, in cui la vita, diffusa talvolta equabilmente, si condensa tal'altra in questa parte od in quella per trasformarlo in un eroe od in una bestia! Una parte divina splendeva negli occhi della Pisana; e rimase sempre pura perché impeccabile. Ecco il perché di quella passione violenta, immortale, completa ch'ella ha saputo inspirarmi; e che nessun prestigio di bellezza, nessuna blandizie di sensi avrebbe potuto prolungare oltre al sepolcro di lei nel cuore d'un vecchio ottuagenario. Io adorava, io compativa lo spirito schiavo ed immemore, ma sempre dolente e redivivo da' suoi lunghi torpori. A Portogruaro quelle mie fantasticherie ebbero a fare un gran capitombolo. Tutti parlavano delle stranezze della Pisana; perfino sua zia me ne mosse cenno pregandomi col mio criterio di porvi qualche riparo, giacché il Conte, per quanto gliene avessero dette, non s'ingeriva di nulla. Ella lo aveva perfin consigliato di collocarla in sua casa; ma le aveva risposto che la ragazza non voleva a nessun patto, e cosí si lasciava menar pel naso dalla figlia con gravissimo danno della sua riputazione. - Sentite, Carlino - mi diss'ella - se si può dare di peggio. Raimondo Venchieredo le sta sempre intorno ostinatamente; ella gli tien bordone con centomila moine che è una vera sconcezza a vederli; ma poi quand'egli venne a chiederla seriamente in isposa, che oggimai l'ha diciotto anni e si potrebbe pensarvi, essa dichiarò solennemente che non lo avrebbe preso mai per marito e che la lasciassero stare. Si dice che vi covi sotto un amore piú vecchio con Giulio Del Ponte, ma non si capisce poi perché ella strapazzi sempre questo giovine e lusinghi invece quell'altro che si è proposta di rifiutare. Oltracciò Giulio è quasi povero, e tanto malandato di salute che non gliela danno lunga fino alla primavera ventura!... - Come? Giulio è a questi estremi? - io sclamai. - Sí, poveretto; - soggiunse la gentildonna - e a dirvi la verità sarebbe quasi meglio che se ne andasse, perché non attraversi ogni buon collocamento della Pisana come il dottor Lucilio ha fatto colla Clara. Quella almeno era quieta, ragionevole cristiana, e si è potuto trattenerla dal fare spropositi. Ma con costei?... Uhm! non ci spero nulla, e temo che voglia diventare il disonore della famiglia. Io mi dimenticai sul momento della Pisana per ricordarmi di Giulio; e lo dichiaro a mia lode, che le tristi novelle della sua salute mi desolarono. Infatti nell'ultima volta che l'aveva veduto, aveva notato il suo pallore piú tetro del solito, e una difficoltà di respiro che gli mozzava a mezzo le parole. Ma ne accagionava unicamente i crucci e le battaglie inseparabili da un amore colla Pisana; anzi vedendo nelle sue pene quasi la mia vendetta ne godeva barbaramente. Dopo il cattivo pronostico della Frumier cominciai a discerner meglio e a temere ch'egli non fosse la prima vittima dell'indole bollente e sfrenata della fanciulla; mi dolsi della sua sventura e piú forse del delitto che avrebbe macchiato la coscienza di chi lo uccideva a quel modo senza misericordia e senza pensarci. Le colpe di coloro che amai, ebbero sempre virtù di affliggermi piú che i miei stessi dolori; credo che a quel tempo avrei perdonato alla Pisana l'amore per Giulio purché ella gli ridonasse con quello la salute e la vita. Pur troppo infatti ebbi campo a persuadermi che le paure della Frumier non erano fallaci. La sera stessa vidi la Pisana a Portogruaro; amorosa, timida, taciturna con me, come chi avesse bisogno d'amore e di pietà; lusinghiera e provocatrice col Venchieredo, indifferente e beffarda con Giulio. Raimondo aveva dimenticato i rifiuti della Clara, e le lusinghe della Pisana lo riconducevano in casa Frumier, dove forse avea sperato ricattarsi di quelli coll'acquisto di un boccone piú ghiotto e desiderato. E lo sfuggirgli di questo, altro non avea fatto che attizzargli viemmaggiormente le voglie; poiché la Pisana, pur respingendolo come marito, lo accettava, lo accarezzava in qualità di vagheggino. Il giovine scapestrato, se potea ottener di contrabbando quello che avea cercato di avere legalmente, si sarebbe tenuto il piú furbo e felice degli uomini; e il contegno della Pisana dava piuttosto ansa a questa lusinga. Se aveste veduto qual era in tali frangenti lo stato compassionevole del povero Giulio, potreste capire come la pietà ammutisse in me perfino l'interesse dell'amore. Cosa quasi incredibile! Io aborriva il Venchieredo non per conto mio, ma per conto di Giulio; io era geloso della Pisana piú per lui che per me, e lo spettacolo di quel giovane, pieno d'animo di cuore d'ingegno che si disfaceva dolorosamente pel cancro segreto e inesorabile d'una passione infelice, mi metteva in cuore quasi un rimorso dell'odio che altre volte gli aveva serbato. Vi sembro troppo buono?... Non c'è caso: era fatto cosí. Quella lunga scuola di abnegazione e di pazienza, al fianco della Pisana, mi avea fruttato una pietà quasi eroica a profitto dei miseri. Ne diedi la prova in seguito colla mia condotta, la quale se potrà tacciarsi di sciocca, non potrà mancare di qualche lode per coraggio e per generosità. Il Venchieredo portava addosso tutto lo sfarzo della felicità. Nel volto, nel gesto, nel vestire, nel parlare si conosceva il giovane contento del fatto suo, che non ha nulla a desiderare, e che non può pensare ad altro che alla propria gioia, tanto essa è grande e potente. La contentezza gli rabbelliva le guance d'una fiamma rosea e vivace, gli rendeva snella e leggiera la persona, facile e colorita la parola. Vedea tutto bello, tutto buono, tutto incantevole; ognuno gli facevacontinua |
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