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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italiano

Ippolito Nievo
sua voce piú bella. - Ch'io vegga se son capace di comprendere i suoi desiderii,
e di parteciparne! - Davvero ho detto che vorrei vivere cosí; - riprese la Clara
- ed ora non saprei spiegare il mio desiderio.  Vorrei  vivere  cogli  occhi  di
questa splendida luce di  cielo;  colle  orecchie  di  questa  pace  allegra  ed
armoniosa che circonda la natura quando si addormenta; e coll'anima e col  cuore
in quei dolci pensieri di fratellanza, in quei grandi affetti senza  distinzione
e senza misura che sembrano nascere  dallo  spettacolo  delle  cose  semplici  e
sublimi! - Ella vorrebbe vivere di quella vita che  la  natura  aveva  preparato
agli uomini savi, uguali, innocenti! - rispose mestamente Lucilio.  -  Vita  che
nei nostri vocabolari ha nome  di  sogno  e  di  poesia.  Oh  sí!  la  comprendo
benissimo; perché anch'io respiro l'aria imbalsamata dei sogni, e mi affido alle
poesie della speranza, per non  rispondere  coll'odio  all'ingiustizia  e  colla
disperazione al dolore. Vegga un po' come siamo disposti a  sproposito.  Chi  ha
braccia non ha cervello; chi ha cervello non ha cuore; chi ha cuore  e  cervello
non ha autorità. Dio sta sopra di noi, e  lo  dicono  giusto  e  veggente.  Noi,
figliuoli di Dio, ciechi ingiusti ed oppressi, colla voce  cogli  scritti  colle
opere lo  neghiamo  ad  ogni  momento.  Neghiamo  la  sua  provvidenza,  la  sua
giustizia, la sua onnipotenza! È un dolore vasto come il mondo, duraturo  quanto
i secoli, che ci sospinge, ci incalza, ci atterra; e  un  giorno  alfine  ci  fa
risovvenire che siamo eguali; tutti, ma solo  nella  morte!...  -  Nella  morte,
nella morte!! dica nella vita, nella vera vita che durerà sempre! - sclamò  come
inspirata la Clara - ed ecco dove Dio risorge, e torna  ad  aver  ragione  sulle
contraddizioni di quaggiù. - Dio dev'essere dappertutto - soggiunse Lucilio  con
una tal voce nella quale un divoto avrebbe desiderato maggior calore di fede. Ma
la Clara non ci vide entro nessun dubbio in quelle parole, ed ei ben sel  sapeva
che sarebbe stato cosí; giacché altrimenti non avrebbe  parlato.  -  Sí,  Dio  è
dappertutto! - riprese ella con un sorriso angelico, mandando gli occhi per ogni
parte del cielo - non lo vede non lo sente non  lo  respira  dovunque?  I  buoni
pensieri, i dolci affetti, le passioni soavi donde ci vengono se non da  lui?...
Oh io lo amo il mio Dio come fonte di ogni bellezza e di ogni bontà! Se  mai  vi
fu argomento che valesse a persuadere un incredulo d'alcuna verità religiosa, fu
certo l'aria divina che si diffuse in quel momento  sulle  sembianze  di  Clara.
L'immortalità si stampò a carattere  di  luce  su  quella  fronte  confidente  e
serena; nessuno certo avrebbe osato dire che in tanto prodigio d'intelligenza di
sentimento e di bellezza, la natura avesse provveduto soltanto  ad  ammannir  un
pascolo ai vermi. Vi  sono,  sí,  facce  morte  e  petrigne,  sguardi  biechi  e
sensuali, persone grevi curve  striscianti  che  possono  accarezzare  col  loro
sucido esempio le spaventose fantasie dei materialisti; e ad  esse  parrebbe  di
doversi negare l'eternità dello spirito, come agli animali o alle piante. Ma fra
tanta ciurma semimorta si erge in alto qualche  fronte  che  sembra  illuminarsi
d'una luce sovrumana: dinanzi a questa il cinico va balbettando confuse  parole;
ma non può impedire che non gli tremoli in cuore o  speranza  o  spavento  d'una
vita futura. - Quale? chiedono i filosofi. - Non chiedetelo a  me,  se  sventura
vuole che non vi faccia contenti quella sapienza secolare che  si  è  condensata
nella fede. Chiedetelo a voi stessi. - Ma certo se  la  materia  organica  anche
sciolta la compagine umana seguita a fermentare ed a  vivere  materialmente  nel
grembo della terra,  lo  spirito  pensante  dovrà  agitarsi  tuttavia  e  vivere
spiritualmente nel pelago dei pensieri. Il moto, che  non  si  arresta  mai  nel
congegno affaticato delle vene e dei  nervi,  potrà  retrocedere  o  acquietarsi
nell'instancabile e sottile elemento delle idee? - Lucilio si fermò cogli  occhi
quasi estatici ad ammirare le sembianze della sua compagna. Allora un  riverbero
di luce gli lampeggiò sul volto, e per la prima volta un  sentimento  non  tutto
suo ma comandatogli dai sentimenti altrui si fece strada nelle pieghe  tenebrose
del suo  cuore.  Si  riebbe  peraltro  da  quella  breve  sconfitta  per  tornar
tristamente padrone di sé. - Divina poesia! - diss'egli togliendo gli occhi  dal
bel tramonto che omai si scolorava in un vago crepuscolo - chi primo si alzò con
te nelle speranze infinite fu il vero consolatore  dell'umanità.  Per  insegnare
agli uomini la felicità bisognerebbe educarli poeti, non scienziati o anatomici.
La Clara sorrise pietosamente; e gli chiese: - Ella dunque, signor Lucilio,  non
è gran fatto felice? - Oh sí, lo sono ora come forse non potrò  mai  esserlo!  -
sclamò il giovine  stringendole  improvvisamente  una  mano.  A  quella  stretta
scomparve dal volto della fanciulla lo splendore immortale della fede, e la luce
tremula e soave del sentimento vi si diffuse come un bel  chiaro  di  luna  dopo
l'oscurarsi vespertino del sole. - Sí, sono felice come forse non  lo  sarò  mai
piú! - proseguí Lucilio - felice nei desiderii, perché  i  desiderii  miei  sono
pieni di speranza, e la speranza  mi  invita  da  lunge  come  un  bel  giardino
fiorito. Ahimè non cogliete quei fiori! non dispiccateli dal loro gracile stelo!
Per cure che ne abbiate poi, dopo tre giorni intristiranno; dopo cinque non sarà
piú in loro il bel colore il soave profumo! Alla fine cadranno senza  remissione
nel sepolcro della memoria! - No, non chiami la memoria un sepolcro! - soggiunse
con forza la Clara. - La memoria è un tempio, un altare! Le ossa dei  santi  che
veneriamo sono sotterra, ma le loro virtù splendono in cielo. Il fiore perde  la
freschezza  e  il  profumo;  ma  la  memoria  del  fiore  ci  rimane  nell'anima
incorruttibile ed odorosa per sempre! - Dio  mio,  per  sempre,  per  sempre!  -
sclamò  Lucilio  correndo  colla  veemenza  degli  affetti  dove   lo   chiamava
l'opportunità di quegli istanti quasi solenni.  -  Sí,  per  sempre!  E  sia  un
istante,  sia  un  anno,  sia  un'eternità,  questo  sempre  bisogna   riempirlo
satollarlo beatificarlo d'amore per non vivere abbracciati colla morte!  Oh  sí,
Clara, l'amore ricorre all'infinito per ogni via; se v'è parte in noi sublime ed
immortale è certamente questa. Fidiamoci a lui per non diventar creta prima  del
tempo; per non perdere  almeno  quella  poesia  istintiva  dell'anima  che  sola
abbellisce la vita!... Sí, lo giuro ora; lo giuro,  e  mi  ricorderò  sempre  di
questo rapimento che mi fa maggiore di me stesso. Il desiderio è cosí potente da
tramutarsi in fede; l'amor nostro durerà sempre, perché le cose veramente grandi
non finiscono mai!... Queste parole pronunciate dal giovine con  voce  sommessa,
ma vibrata e profonda, svegliarono deliziosamente i confusi desiderii di  Clara.
Non se ne maravigliò punto, perché trovava stampate nel  proprio  cuore  già  da
lungo tempo le cose udite allora. Gli sguardi,  i  colloqui,  le  arti  pazienti
raffinate di Lucilio aveano preparato  nell'anima  di  lei  un  posto  sicuro  a
quell'ardente dichiarazione. E sentirsi ripetere dalla sua bocca quello  che  il
cuore aspettava senza saperlo, fu piucché altro il risvegliarsi subitaneo  d'una
gioia timida e latente. Successe nell'anima di lei quello che sulle  lastre  del
fotografo al versarsi dell'acido; l'immagine nascosta si disegnò in tutte le sue
forme: e se stupí in quel momento, fu forse di non potersi stupire. Peraltro  un
turbamento arcano e non provato mai le vietò di rispondere alle  ardenti  parole
del giovane; e mentre cercava ritrarre la propria mano dalla sua,  fu  costretta
anzi a cercarvi un appoggio perché  si  sentiva  venir  meno  d'un  deliquio  di
piacere. - Clara, Clara  per  carità  rispondi!  -  le  veniva  dicendo  Lucilio
sorreggendola angosciosamente e volgendo intorno gli occhi a spiare se  qualcuno
veniva. - Rispondimi una sola parola!... non uccidermi  col  tuo  silenzio,  non
punirmi collo spettacolo del tuo dolore!.. Perdono  se  non  altro,  perdono!...
Egli sembrava lí lí per cadere  in  ginocchio  tanto  pareva  smarrito,  ma  era
un'attitudine studiata forse per dar fretta al tempo. La fanciulla si riebbe  in
buon punto e gli volse per unica risposta un sorriso.  Chi  raccolse  mai  nelle
pupille uno di quei sorrisi e non ne tenne poi conto per  tutta  la  vita?  Quel
sorriso che domanda compassione, che promette  felicità,  che  dice  tutto,  che
perdona tutto; quel sorriso esprimente un'anima che si dona ad  un'altra  anima;
che non ha in sé riverbero alcuno di  immagini  mondane,  ma  che  splende  solo
d'amore e per amore; quel sorriso che comprende  o  meglio  dimentica  il  mondo
intero, per vivere e farti vivere di se stesso, e che in un lampo  solo  schiude
affratella e confonde le misteriose  profondità  di  due  spiriti  in  un  unico
desiderio d'amore e d'eternità, in un unico sentimento di beatitudine e di fede!
- Il cielo che si aprisse pieno di visioni divine e d'ineffabili splendori  agli
occhi d'un santo, non  sarebbe  certo  piú  incantevole  di  quella  meteora  di
felicità che guizza raggiante e ahi spesso fugace nelle sembianze d'una donna. È
una meteora; è un  baleno;  ma  in  quel  baleno,  piú  che  in  dieci  anni  di
meditazioni e di studi l'anima travede i confusi orizzonti d'una vita futura. Oh
quante volte all'oscurarsi di quelle sembianze s'annuvolò dentro di noi  il  bel
sereno della speranza, e il pensiero precipitò bestemmiando nel gran  vuoto  del
nulla, come Icaro sfortunato cui si fondevano le  ali  di  cera!  Quali  sùbiti,
dolorosi trabalzi dall'etere inane dove nuotano miriadi di spiriti in oceani  di
luce, al morto e gelido abisso che non vedrà mai raggio di  sole,  che  mai  non
darà vita per volger di secoli a una larva pensata! E la scienza, erede di cento
generazioni, e l'orgoglio, frutto di quattromill'anni di  storia,  fuggono  come
schiavi colti in fallo, al tempestar minaccioso d'un sentimento. Che siamo  noi,
dove andiamo noi, poveri pellegrini fuorviati? Qual è la guida che  ci  assicura
d'un viaggio non infelice? Mille voci ne suonano dintorno; cento mani misteriose
accennano a sentieri piú misteriosi ancora; una forza segreta e fatale ci spinge
a destra ed a sinistra; l'amore, alato fanciullo c'invita al paradiso;  l'amore,
demonio beffardo ci stritola nel niente. E solo la fede che il  sacrifizio  sarà
contato a minor danno delle vittime sostenta i nostri pensieri nell'aria vitale.
Ma Lucilio?... Oh Lucilio allora non pensava a ciò!  I  pensieri  vengon  dietro
alle gioie, come la notte al tramonto, come il gelido verno all'autunno canoro e
dorato. Egli amava da anni; da anni drizzava ogni suo consiglio, ogni sua  arte,
ogni sua parola a incalorire nel lontano futuro la beatitudine di quel  momento;
da anni camminava accorto paziente per vie tortuose e solitarie  ma  rischiarate
qua e là da qualche barlume di speranza; camminava lento  e  instancabile  verso
quella cima fiorita, donde contemplava allora e teneva per sue  tutte  le  gioie
tutte le delizie tutte le ricchezze del mondo, come  il  monarca  dell'universo.
Era giunto a comporre una pietra filosofale; da una laboriosa miscela di sguardi
di azioni di parole avea tratto l'oro purissimo  della  felicità  e  dell'amore.
Alchimista vittorioso assaporava con tutti i sensi  dell'anima  le  delizie  del
trionfo; artista entusiasta e passionato non finiva d'ammirare e godere  l'opera
propria in quel divino sorriso che spuntava come l'aurora d'un giorno piú  bello
sul volto di Clara. Ad altri avrebbero tremato in cuore gratitudine,  divozione,
e paura; a lui la superbia ritemprò le fibre d'una gioia sfrenata  e  tirannica.
Io forse e mille altri simili a me avremmo ringraziato colle lagrime agli occhi;
egli ricompensò l'ubbidienza di Clara con un bacio di fuoco. - Sei mia! sei mia!
- le disse alzando la destra di lei verso il cielo.  E  voleva  significare:  Ti
merito, perché ti ho conquistata! Clara  nulla  rispose.  Senza  accorgersene  e
senza parlare avea amato in fino allora; e il  momento  in  cui  l'amore  si  fa
conscio di sé non è quello per lui di diventar loquace. Solamente sentí  per  la
prima volta di essere con tutta l'anima in potere d'un altro;  e  ciò  non  fece
altro che cambiare il  suo  sorriso  dal  color  della  gioia  in  quello  della
speranza. A primo tratto avea goduto per sé; allora godeva per Lucilio, e questo
contento fu piú facile e caro a lei perché piú pietoso  e  pudico.  -  Clara;  -
continuò Lucilio -  l'ora  si  fa  tarda  e  ci  aspetteranno  al  castello!  La
giovinetta si destò come da un sogno; si stropicciò gli occhi colla  mano  e  li
sentí bagnati di lagrime. - Volete che andiamo? -  rispose  ella  con  una  voce
soave e dimessa che non pareva la sua. Lucilio senza mover parola si ravviò  per
la strada; e la fanciulla gli veniva del paro docile e mansueta  come  l'agnella
al fianco della madre. Il giovine per quel giorno non chiedeva di piú.  Scoperto
il tesoro, voleva goderne lungamente come l'avaro, non disperderlo all'impazzata
in guisa dei prodighi per trovarsi poi misero peggio di prima e col  sopraccollo
delle memorie sfumate. - Mi amerai sempre? - le domandò egli dopo  alcuni  passi
silenziosi. - Sempre! - rispose ella. La cetra d'un angelo  non  moverà  mai  un
concento piú soave di questa parola pronunciata da quelle labbra. L'amore ha  il
genio di Paganini; egli infonde nell'armonia le virtù dello spirito. - E  quando
la tua famiglia ti profferirà  uno  sposo?  -  soggiunse  con  voce  dolorosa  e
stridente Lucilio. - Uno sposo!? - sclamò la giovinetta chinando  il  mento  sul
petto. - Sí;  -  riprese  il  giovane  -  vorranno  sacrificarti  all'ambizione,
vorranno comandarti in nome  della  religione  un  amore  che  la  religione  ti
proibirà in nome della natura! - Oh io non veggo che voi! - rispose Clara  quasi
parlando con se stessa. - Giuralo per quanto hai di piú sacro! giuralo  pel  tuo
Dio e per la vita di tua nonna! - soggiunse Lucilio. - Sí,  lo  giuro!  -  disse
tranquillamente la Clara. Giurar quello che si sentiva costretta a fare  da  una
forza  irresistibile  le  parve  cosa  molto  semplice  e  naturale.  Allora  si
cominciavano a vedere fra il chiaroscuro della sera le prime case di  Fratta:  e
Lucilio lasciò la mano della fanciulla per camminarle rispettosamente a  fianco.
Ma la catena era gittata; le  loro  due  anime  erano  avvinte  per  sempre.  La
pertinacia e la freddezza da un lato, dall'altro  la  mansuetudine  e  la  pietà
s'erano confuse in un incendio d'amore. La volontà di Lucilio e l'abnegazione di
Clara corrispondevano insieme,  come  quegli  astri  gemelli  che  s'avvicendano
eternamente l'uno intorno all'altro negli spazi del  cielo.  Due  uomini  armati
s'offersero loro incontro prima di entrar nel villaggio. Lucilio  passava  oltre
avvisandoli per due guardiani campestri che aspettassero alcuno; ma uno di  essi
gli intimò di fermarsi, dicendo che per quella sera  era  vietato  penetrar  nel
paese. Il giovine fu offeso e  maravigliato  d'una  cosí  strana  tracotanza;  e
cominciò ad adoperare un mezzo che per molta esperienza conosceva infallibile in
quegli incontri. Si mise ad alzar la voce e a strapazzarli. Indarno! I due  buli
lo fermarono pulitamente per le braccia rispondendo che cosí voleva il  servizio
della Serenissima Signoria, e che nessuno sarebbe entrato in Fratta, finché  non
fosse ultimata l'inchiesta d'alcuni contrabbandi che si cercavano. -  M'immagino
che non vorrete proibire l'ingresso in castello alla contessina Clara? - riprese
Lucilio sbuffando ed additando la giovinetta, che  egli  proteggeva  tenendosela
stretta a braccio. Clara fece un moto come per trattenerlo dall'infuriar troppo;
ma egli non le badò piucché tanto, e seguitò a minacciare  e  a  voler  proceder
oltre. I due buli tornarono allora ad afferrarlo per  le  braccia,  avvertendolo
che l'ordine era preciso e che contro i renitenti avevano facoltà  di  adoperare
la forza. - E questa facoltà di adoperare la forza io la ho  sempre,  e  ne  uso
largamente contro i  soperchiatori!  -  soggiunse  con  maggior  calore  Lucilio
sciogliendosi con una scrollata dal pugno dei due  sgherani.  Ma  in  quella  un
altro moto di Clara lo avvisò del pericolo e della inopportunità di tali atti di
violenza. Laonde si rimise in calma e domandò a quei due chi fossero e con  qual
autorità vietassero di entrare in castello alla figlia  del  giurisdicente.  Gli
scherani risposero che erano delle Cernide di Venchieredo, ma che l'inseguimento
dei  contrabbandieri  li  autorizzava  ad   agire   anche   fuori   della   loro
giurisdizione; che i bandi dei signori Sindaci parlavano chiaro, e che del resto
tale era l'ordine del loro Capo di Cento e che erano là non per  altro  che  per
farlo rispettare.  Lucilio  voleva  resistere  ancora,  ma  la  Clara  lo  pregò
sommessamente di cessare; ed  egli  s'accontentò  di  tornar  indietro  con  lei
minacciando i due sgherani e il loro padrone di tutte le ire del Luogotenente  e
della Serenissima Signoria, che egli ben sapeva quanto poco valessero. - Tacete!
già sarebbe inutile - gli veniva bisbigliando all'orecchio  la  Clara  traendolo
lunge da quei due sgherri. - Mi dispiace che è notte  fatta  e  a  casa  saranno
inquieti per me; ma con un piccolo giro potremo entrare  benissimo  dalla  parte
delle scuderie. In fatti si sviarono per la campagna cercando  il  sentiero  che
menava alla  pustierla:  ma  non  avean  camminato  cento  passi  che  trovarono
l'intoppo di due altre guardie. - È  un  vero  agguato!  -  sclamò  indispettito
Lucilio. - Che una nobile donzella debba serenare tutta notte pel  capriccio  di
alcuni mascalzoni! - Badi alle parole, Illustrissimo! - gridò uno dei due  dando
per terra un furioso colpo col calcio  del  moschetto.  Il  giovine  tremava  di
rabbia palpeggiando coll'una mano in fondo alla tasca la sua  fida  pistola;  ma
nell'altra sentiva il braccio di Clara  che  tremava  di  spavento  ed  ebbe  il
coraggio di trattenersi. - Cerchiamo d'intenderci colle  buone  -  riprese  egli
fremendo ancora  pel  dispetto.  -  Quanto  volete  a  lasciar  passare  qui  la
Contessina?...  Credo  che  non   sospetterete   già   ch'ella   porti   qualche
contrabbando! - Illustrissimo, noi non sospettiamo niente: - rispose lo  sgherro
- ma se anche potessimo chiuder un occhio e lasciarli passare, quei del castello
sono di diverso parere. Essi hanno buttato a terra tutti e  due  i  ponti  e  la
Contessina non potrebbe entrare che camminando sull'acqua  come  san  Pietro.  -
Ohimè! ma dunque il pericolo è proprio grave! - sclamò tramortendo la  Clara.  -
Eh nulla! un timor panico! me lo figuro! - rispose  Lucilio.  E  voltosi  ancora
allo sgherro: - Dov'è il vostro Capo  di  Cento?  -  domandò.  -  Lustrissimo  è
all'osteria che beve del migliore mentre noi facciamo la guardia ai  pipistrelli
- rispose il malandrino. - Va bene: spero che non ci negherete di  accompagnarci
all'osteria per abboccarci con essolui - soggiunse Lucilio. -  Ma!  non  abbiamo
ordini in proposito - ripigliò l'altro. - Tuttavia  mi  pare  che  si  potrebbe,
massime se Vostra Signoria volesse pagarne un bicchiere. - Animo dunque e  vieni
con noi! - disse Lucilio. Lo sbirro si volse al suo compagno raccomandandogli di
stare alla posta e di non addormentarsi: raccomandazioni  udite  con  pochissimo
conforto da colui che dovea restarsene a mangiar la nebbia mentre l'altro  aveva
in prospettiva un boccaletto di Cividino. Tuttavia si  rassegnò  borbottando;  e
Lucilio e la Clara preceduti dalla Cernida mossero di bel nuovo verso il  paese.
Questa  volta  i  due  guardiani  li  lasciarono  passare,  e  in  breve  furono
all'osteria dove strepitava una tal gazzarra che pareva piú un carnovale che una
caccia di contrabbandi. Infatti Gaetano, dopo aver inaffiato le gole  de'  suoi,
aveva cominciato a porger il bicchiere ai curiosi.  Costoro,  un  po'  selvatici
dapprincipio,  s'intesero  benissimo  con  lui  con  quel  muto  ed   espressivo
linguaggio.  E  gli  abbeverati  chiamavano  compagnia,  e  questa  cresceva  si
rinnovava e beveva sempre piú.  Tantoché,  mesci  e  rimesci,  in  capo  ad  una
mezz'ora la sbirraglia di  Venchieredo  era  diventata  una  sola  famiglia  col
contadiname del villaggio;  e  l'oste  non  rifiniva  dal  portare  a  cielo  la
splendidezza e la rara puntualità del degnissimo Capo di Cento delle Cernide  di
Venchieredo. Come si può ben credere, tanta munificenza non era né arbitraria né
senza  motivo.  Il  padrone  gliel'avea  suggerita  per  tener  in   quiete   la
popolazione, e distoglierla dal prender partito contro  di  loro  a  favore  dei
castellani. Gaetano adoperava da furbo; e  le  mire  del  principale  erano  ben
servite. Se avesse voluto, avrebbe fatto gridare da trecento ubbriachi:  -  Viva
il castellano di Venchieredo! - E Dio  sa  qual  effetto  avrebbe  prodotto  nel
castello di Fratta il suono minaccioso di questo  grido.  Quando  Lucilio  e  la
Clara posero piede nell'osteria, la baldoria era al colmo. La giovine castellana
avrebbe avuto il crepacuore di veder in festa coi nemici della  sua  famiglia  i
piú fidati coloni; ma la non ci badava; e la sorpresa e lo  sgomento  per  tutto
quel parapiglia le impedivano dal vederci entro  chiaro.  Temeva  qualche  grave
pericolo pei suoi e le doleva di non esser con loro a  dividerlo,  non  pensando
che se pericolo c'era per essi asserragliati ben bene  dietro  due  pertiche  di
fossato, piú grave doveva essere per lei difesa da un unico uomo  contro  quella
canaglia sguinzagliata. Lucilio peraltro non  era  di  tal  animo  da  lasciarsi
imporre da chicchessia. Egli andò difilato a Gaetano,  e  gli  ordinò  con  voce
discretamente arrogante di far in maniera che la Contessina potesse  entrare  in
castello. La prepotenza del nuovo arrivato e il vino che aveva in  corpo  fecero
che il Capo di Cento la portasse, per modo di dire, ancor piú cimata del solito.
Gli rispose che in castello erano una razza  perversa  di  contrabbandieri,  che
egli aveva precetto di tenerli ben chiusi finché avessero consegnati i colpevoli
e le merci trafugate, e che in quanto alla Contessina ci  pensasse  lui  giacché
l'aveva  a  braccio.  Lucilio  alzò  la  mano  per   menare   uno   schiaffo   a
quell'impertinente; ma si pentí a mezzo e si torse rabbiosamente i mustacchi col
gesto favorito del capitano Sandracca. Il meglio che gli restava a fare  era  di
uscire da quel subbuglio e menare la sua compagna in qualche sicuro ricovero ove
passasse la notte. La Clara si oppose dapprima a una tal deliberazione, e  volle
ad ogni patto giungere fin sul ponte  per  vedere  se  veramente  era  rotto.  E
Lucilio ve la accompagnò per quanto gli sembrasse  pericoloso  avventurarsi  con
una donzella fra quei manigoldi avvinazzati che gavazzavano in  piazza.  Ma  non
voleva lo si accagionasse né di aver mancato di coraggio né di aver ommesso cura
alcuna per raccompagnare la Clara in casa sua.  Però  osservate  le  rovine  del
ponte e chiamato inutilmente Germano un  paio  di  volte,  convenne  loro  darsi
fretta a  partire,  perché  lo  schiamazzo  cresceva  sempre,  e  la  sbirraglia
cominciava ad affoltarsi e a provocarli con beffe ed insulti. Lucilio sudava per
la fatica durata a moderarsi; ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo
la donzella, e in tal pensiero diede giù  per  una  stradicciuola  laterale  del
villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse  a  gran  passi,
trascinandosela dietro, sulle praterie dei mulini. Là si fermò per farle prender
fiato. Ella sedette stanca e lagrimosa sul margine d'una siepe, e il giovine  si
curvò sopra di lei a contemplare quelle pallide sembianze sulle  quali  la  luna
appena sorta pareva specchiarsi con  amore.  I  negri  fabbricati  del  castello
sorgevano rimpetto a loro, e qualche lume traspariva dalle fessure  dei  balconi
per nascondersi tosto come una stella in cielo tempestoso. L'oscuro fogliame dei
pioppi stormeggiava lievemente; e il  baccano  del  villaggio,  ammorzato  dalla
distanza, non interrompeva per nulla i trilli amorosi e sonori degli usignoli. I
bruchi lucenti scintillavano fra l'erbe; le stelle tremolavano in cielo; la luna
giovinetta strisciava sulle forme incerte  e  tenebrose  con  raggio  obliquo  e
velato. La modesta natura circondava di tenebre  e  di  silenzi  il  suo  talamo
estivo, ma l'immenso suo palpito sollevava di tanto in tanto qualche ventata  di
un'aria odorosa di fecondità. - Era una di quelle ore in cui l'uomo  non  pensa,
ma sente; cioè riceve i pensieri begli e fatti  dall'universo  che  lo  assorbe.
Lucilio, anima pensosa e spregiatrice  per  eccellenza,  si  sentí  piccolo  suo
malgrado in quella calma cosí profonda e solenne. Perfino la gioia dell'amore si
diffuse nel suo cuore in un lungo vaneggiamento melanconico e soave.  Gli  parve
che i suoi sentimenti ingrandissero come  la  nube  di  polvere  sperperata  dal
vento; ma le forme scomparivano, il colore si diradava; si sentiva piú grande  e
meno forte; piú padrone di tutto e meno di sé. Gli  sembrò  un  momento  che  la
Clara  seduta  dinanzi  a  lui   s'illuminasse   negli   occhi   d'un   bagliore
fiammeggiante: egli quasi folgorato dovette  socchiuder  le  palpebre.  -  Donde
questo prodigio? - Non lo potea capire egli stesso.  Forse  la  solennità  della
notte, che stringe le anime deboli di  superstiziose  paure,  ripiega  sopra  se
stesso lo spirito dei  forti,  mostrandogli,  entro  il  buio  delle  ombre,  il
simulacro del destino, del  domatore  di  tutti.  Forse  anco  il  dolore  della
fanciulla regnava sopra di lui com'egli avea trionfato poco  prima  di  lei  per
forza di volontà. Poveretta! No che gli occhi suoi non fiammeggiavano allora; se
almeno lo sguardo non risplendeva pel  tremolio  delle  lagrime.  Il  suo  cuore
riboccante una mezz'ora prima di felicità e d'amore volava, in  quegli  istanti,
al letto di sua nonna; in quella cameretta  silenziosa  e  bene  assestata  dove
Lucilio avea passato con esse le lunghe ore; e quando egli non c'era ne  restava
viva per l'aria una cara memoria, un'immagine invisibile e ammaliatrice. Oh come
avrebbe stentato ad addormentarsi la povera vecchia senza il solito bacio  della
nipote! Chi le avrebbe dato ragione, chi l'avrebbe consolata della sua  assenza?
Chi avrebbe pensato a lei nei pericoli  che  si  minacciavano  al  castello  per
quella notte? La pietà, la divina pietà gonfiava di nuovi  singhiozzi  il  petto
della giovane, e la mano che Lucilio  le  stese  per  aiutarla  a  rialzarsi  fu
inondata di pianto. Ma rimessi che furono in via questi riebbe subito l'alacrità
consueta. I sogni disparvero; i pensieri gli  sprizzarono  in  capo  risoluti  e
virili; la volontà piegata un momento rizzossi con miglior lena a ripigliare  il
comando. La  storia  dell'amor  suo,  e  quella  dell'amore  di  Clara,  i  casi
straordinari di quella sera, i sentimenti della giovinetta ed i proprii  gli  si
dipinsero dinanzi in un sol quadro senza confusione e senza anacronismi. Egli ne
rilevò con un'occhiata da aquila il concetto generale, e decise  ad  ogni  costo
che o solo o colla fanciulla egli doveva entrare in castello prima che  passasse
la notte. L'amore gli imponeva questo dovere; aggiungiamo ancora che l'interesse
dell'amore medesimo glielo consigliava caldamente. Clara pregava il Signore e la
Madonna, Lucilio stringeva a parlamento tutte le voci del proprio ingegno e  del
proprio coraggio; e cosí appoggiati l'una  al  braccio  dell'altro,  camminavano
silenziosamente verso il mulino. Quanta moderazione! diranno taluni pensando  al
caso di Lucilio. Ma se diranno cosí gli è o ch'io mi sono spiegato  male  o  che
essi non mi hanno capito a dovere quando discorreva della  sua  indole.  Lucilio
non era né un birbone né uno scavezzacollo; pretendeva  soltanto  di  vederci  a
fondo nelle cose umane, di volerne  il  meglio  e  di  saper  conseguire  questo
meglio. Queste tre pretese, se temperate  da  un  sano  criterio,  egli  avrebbe
potuto provarle coi fatti; perciò non si lasciava mai trascinare dalle passioni,
ma teneva ben salde le redini e sapeva fermarle  all'uopo  tanto  sull'orlo  del
precipizio  quanto  sulla  sponda  lusinghiera  e   traditrice   d'una   fondura
verdeggiante. Entrarono dunque nel mulino, ma non ci trovarono alcuno benché  il
fuoco scoppiettasse tuttavia in mezzo  alle  ceneri.  La  polenta  lasciata  sul
tagliere dava a vedere che tutti non aveano cenato e  che  alcuni  degli  uomini
s'erano forse attardati nel villaggio a guardar la tregenda. Ma quella era forse
la famiglia con cui la Contessina  aveva  maggior  dimestichezza,  onde  non  le
dispiacque di vedersi colà ricoverata. - Ascolta, ben mio - le  disse  sottovoce
Lucilio rattizzando il fuoco per sciuttarla dell'umido preso  nei  prati.  -  Io
chiamerò ora e ti affiderò a qualcuna di queste donne, e poi  o  per  forza  per
amore penetrerò in castello a recarvi le tue novelle, e a guardare  come  stanno
là dentro. La Clara arrossí tutta sotto gli sguardi del giovane.  Era  la  prima
volta che in una stanza e alla piena del fuoco riceveva nel cuore il  loro  muto
linguaggio d'amore. Arrossí peraltro senza rimorsi perché non le pareva di  aver
violato nessuno dei comandamenti del Signore; e dal volersi bene  alla  muta  al
confessarselo vicendevolmente non capiva qual differenza ci potesse essere. - Tu
fa' in modo di coricarti e di riposare; - proseguí  Lucilio  -  io  penserò  nel
frattempo a dar la voce dell'accaduto al Vice-capitano di Portogruaro, perché si
affrettino a scompigliare le trame di questi birbanti... Va là!  per  nulla  non
sono venuti e a me pare di leggerci sotto bene a tutto questo loro zelo contro i
contrabbandi... È una vendetta, o una  rappresaglia,  fors'anco  un  tafferuglio
ingarbugliato a bella posta per finire quell'imbroglio  del  processo...  Ma  io
metterò le cose sotto la vera luce, e il Vice-capitano vedrà lui da  qual  parte
stiano i veri interessi della Signoria. Intanto, Clara mia, sta' in pace e dormi
sicura; domattina, se non saranno venuti dal  castello  a  prenderti,  verrò  io
stesso; e chi sa anche che non capiti durante la notte se ci son cose pressanti.
- Oh ma voi!... non arrischiatevi! per carità! - mormorò la  giovinetta.  -  Sai
come sono - rispose Lucilio. - Non potrei far a meno  di  movermi  e  di  tentar
qualche cosa, se anche si trattasse di gente sconosciuta. Figurati poi ora che è
in ballo la tua famiglia, la nostra buona vecchia! - Povera nonna! -  sclamò  la
Clara. - Sí, va' va'; e confortala e torna subito a chiamare anche me che  starò
qui ad aspettare col cuore sospeso. - Ti  dico  che  tu  devi  coricarti  e  che
chiamerò qualcheduna delle donne - soggiunse Lucilio. -  No,  lasciale  dormire,
ché io non potrei - replicò la donzella. - Oh, mi maraviglio con me, e quasi  mi
vergogno, di poter rimaner qui e di non correre fuori anch'io! - A che  fare?  -
soggiunse Lucilio. - No per carità, non ti muovere da questo  luogo.  Anzi  devi
rinchiuderti bene, giacché essi sono tanto  sconsigliati  da  lasciar  le  porte
spalancate fino a mezza notte!... Marianna, Marianna! - si  mise  a  gridare  il
giovane affacciandosi alla porta della scala. Di lí a poco rispose dall'alto una
voce, e poi lo scalpitare di due zoccoli, e non passò un minuto che la  Marianna
tutta scollata e sbracciata scese in cucina. - Dio mi  perdoni!  -  sclamò  ella
raccogliendosi la camicia sul petto - credeva che fosse il mio uomo!...  È  lei,
signor dottore?... E anche la Contessina!... Oh diavolo! cos'è  stato?  Da  qual
parte son  venuti  dentro?  -  Capperi!  da  quelle  quattro  braccia  di  porta
spalancata! - rispose Lucilio. - Ma ora non è  tempo  da  ciarle,  Marianna:  la
Contessina non può entrare in castello perché là intorno c'è del subbuglio...  -
Come, c'è del subbuglio?... Ma i nostri uomini  dunque?...  Ah  birbonacci!  Non
hanno neppur cenato!... Per andarsene a curiosare hanno  lasciato  aperte  anche
tutte le porte... - Ascoltate me ora, Marianna; - riprese  Lucilio  -  i  vostri
uomini torneranno, ché non corrono nessun pericolo. - Come, non  corrono  nessun
pericolo? Se sapesse il mio in ispecialità come è manesco  e  arrischiato!...  È
capace di appiccar briga con un esercito, colui!... - E bene! state  certa!  per
questa sera non l'appiccherà!... Io andrò in cerca di loro e  ve  li  manderò  a
casa... Ma voi intanto badate che non manchi niente alla Contessina. - Oh povera
signora! cosa le deve capitare anche a lei!... Scusi, sa, se mi vede  in  questo
arnese, ma credeva proprio che fosse il mio uomo.  Birbone!  scappar  via  senza
cena lasciando la porta aperta!... Oh  me  la  pagherà!...  Mi  comandi  dunque,
Contessina!... Mi dispiace che qui non troverà nulla da par suo!... - Dunque  vi
raccomando, Marianna! - disse ancora Lucilio. - Si figuri; non c'è  mestieri  di
raccomandazioni. Mi dispiace di essere  cosí  scamiciata.  Ma  già  lei,  signor
dottore, è avvezzo a queste scene, e la Contessina è tanto  buona!  La  Marianna
nell'affaccendarsi intorno al fuoco mostrava due bellissime  spalle  che  meglio
spiccavano per la loro candidezza dal bruno colore delle braccia e del viso. Non
era forse malcontenta di mostrarle e per questo se ne scusava tanto. - Addio!...
amami, amami! - mormorò Lucilio all'orecchio della  Clara;  indi,  raccolto  uno
sguardo di lei tutto amore e speranza, si dileguò fuori dell'uscio nella  nebbia
della campagna. La Clara non poté fare a meno di  seguirlo  fino  sulla  soglia,
indi perdutolo di vista, tornò a sedere in cucina, ma non presso al foco  perché
il caldo era grande e aveva asciutte le vesti piú del  bisogno.  Invece  la  sua
testa i suoi polsi ardevano come tizzoni, e aveva le labbra  e  la  gola  riarse
quasi per febbre. La Marianna voleva a  tutta  forza  che  la  mandasse  giù  un
boccone; ma la non volle a nessun patto, e si accontentò d'un bicchier  d'acqua.
Indi allungò il braccio sulla spalliera della seggiola e vi poggiò sopra il capo
nell'attitudine di  chi  s'appresta  a  dormire;  e  la  Marianna  allora  cercò
persuaderla di coricarsi di sopra  nel  suo  letto,  che  le  avrebbe  messe  le
lenzuola di bucato. Vedendo poi che eran parole buttate via, la vistosa  mugnaia
si tacque, e dati i chiavistelli alla porta sedette essa pure su uno sgabello. -
Io voglio che voi andiate a coricarvi - le  disse  allora  la  Clara,  che,  per
quanti pensieri per quanti timori avesse per sé, non avrebbe  mai  commesso  una
dimenticanza a scapito altrui. - No signora! bisogna che io stia qui per  essere
pronta ad aprire ai nostri uomini - rispose la Marianna - altrimenti  invece  di
darla mi toccherebbe pigliare una gridata. La Clara tornò allora a  reclinar  la
fronte sul braccio, e stette cosí, come  si  dice,  sognando  ad  occhi  aperti,
mentre la Marianna dopo aver dondolato un buon  pezzo  col  capo  lo  appoggiava
sopra una tavola cominciando a fiatare colle tranquille e regolari battute d'una
robusta campagnuola che dorme della grossa. Intanto mentre il signor Lucilio con
ogni accorgimento  per  non  esser  veduto  si  veniva  avvicinando  alle  fosse
posteriori del castello, io mandato fuori esploratore me ne  scostava  con  pari
prudenza, volendo girar in maniera da sbucar al villaggio per un  altro  capo  e
togliere ogni sospetto di quello che era veramente.  Quando  ebbi  camminato  un
tiro di schioppo verso le praterie, mi  parve  discernere  nel  buio  una  forma
d'uomo che avanzava tra il fogliame  delle  viti  con  somma  circospezione.  Mi
acquattai dietro il seminato; e stetti guardando, protetto contro ogni curiosità
dalla mia piccolezza e dal frumento che mi  stava  a  ridosso  colle  sue  belle
spighe già bionde e pencolanti. Guardo tra spica e spica, tra vite e vite, e  in
un aperto battuto dalla luna cosa mi par di vedere?... - Il  signor  Lucilio!  -
Torno ad osservar ancora; e mi torna a comparire. Mi alzo, me gli  avvicino  con
prudenza sempre dietro il frumento, e pronto ad intanarmivi entro come una lepre
al minimo bisogno. Guardo ancora: era proprio  lui.  Nessuna  ventura  al  mondo
potea toccarmi secondo me piú fortunata di  questa  in  simile  congiuntura.  Il
signor Lucilio era il confidente della vecchia Contessa,  e  della  Clara;  egli
avea dimostrato volermi  qualche  bene  nell'occasione  della  mia  scappata  in
laguna; nessuno migliore di lui per aiutarmi nelle mie ricerche. E siccome  egli
avea fama di uomo scienziato, cosí il mio criterio prese  da  quell'incontro  le
piú belle lusinghe. Quando me  gli  trovai  presso  un  dieci  passi:  -  Signor
Lucilio! signor Lucilio! - bisbigliai con  quella  voce  sommessa  sommessa  che
sembra voglia farsi tanto lunga quanto si fa sottile. Egli si fermò e stette  in
ascolto. - Sono il Carlino di  Fratta!  Sono  il  Carlino  dello  spiedo!  -  io
continuai alla stessa maniera. Egli trasse di tasca un certo arnese che  conobbi
poi essere una pistola e mi si avvicinò guardandomi ben fiso in faccia.  Siccome
ero coperto dall'ombra del frumento, pareva che stentasse a  riconoscermi.  -  E
sí, sí, diavolo! son proprio io! - gli dissi con qualche  impazienza.  -  Zitto,
silenzio! - mormorò egli con un filettino di  voce.  -  Qui  presso  vi  ha  una
guardia e non vorrei che origliasse i nostri discorsi. Intendeva quella  guardia
ch'era rimasta sola dopoché la compagna s'era messa per guida di Lucilio e della
Contessina. Ma la solitudine è alle volte una triste consigliera e  la  guardia,
dopo una valorosa difesa durata per piú di mezz'ora,  avea  finito  col  rimaner
vinta dal sonno. Perciò Lucilio ed io potevamo parlare in  piena  sicurezza  che
nessuno ci avrebbe incommodati. - Accostamiti all'orecchio, e dimmi se esci  dal
castello, e cosa c'è di nuovo là dentro - mi bisbigliò egli all'orecchio. -  C'è
di nuovo che hanno una paura da olio santo; - risposi io - che hanno buttato giù
i ponti pel timore di essere ammazzati dai buli di Venchieredo, che si è perduta
la signora Clara, e che dall'Avemaria ad ora hanno  già  detto  due  rosari.  Ma
adesso hanno mandato  fuori  me  perché  fiuti  l'aria,  e  cerchi  conto  della
Contessina, e torni poi a recar loro le novelle. - E cosa  penseresti  di  fare,
piccino? - Capperi! cosa  penso  di  fare!...  Andare  all'osteria  fingendo  di
essermi smarrito come mi è accaduto quell'altra volta,  se  ne  ricorda?  quella
volta della febbre; e poi ascoltare quello che dicono gli sbirri, e poi domandar
della Contessina a qualche contadino, e poi tornare  fedelmente  per  dove  sono
venuto scavalcando il fosso  sopra  una  tavola.  -  Sai  che  sei  proprio  uno
spiritino! Non ti credeva  da  tanto.  Peraltro  consolati  che  la  fortuna  ti
sparagna de' bei fastidi. Io sono stato all'osteria, io ho condotto in salvo  al
mulino la contessina Clara, e se m'insegni  il  modo  di  entrare  in  castello,
potremo portar loro la risposta in compagnia. - Se gli  insegnerò  il  modo?  Mi
basterà un fischio, e Marchetto ci butterà la tavola. Dopo lasci fare a me,  che
passerà l'acqua senza bagnarsi, purché abbia l'avvertenza di imitarmi e di  star
ben in bilico sulla tavola. - Andiamo dunque! E Lucilio mi  prese  per  mano;  e
rasentando alcune folte siepaie dietro le quali è  impossibile  affatto  l'esser
veduti anche di giorno, io lo condussi in un batter d'occhio in riva alla fossa.
Lí fischiai com'eravamo d'intesa,  e  Marchetto  fu  pronto  ad  accorrere  e  a
buttarmi la tavola. - Cosí presto? - mi diss'egli dall'altra  banda  del  fosso,
perché la maraviglia vinse pel momento ogni altro riguardo. - Zitto!  -  risposi
io mostrando a Lucilio il modo di adagiarsi sulla tavola. - Chi c'è? - soggiunse
piú sorpreso ancora il cavallante che cominciava allora a distinguere  nel  buio
due figure in vece di una. - Amici, e zitto!  -  rispose  Lucilio;  e  poi  egli
stesso, come pratico del mestiere, diede  una  spinta  che  ci  menò  proprio  a
baciare pulitamente l'altra riva. - Son io, son io! - diss'egli saltando a terra
- e porto buone notizie della contessina Clara!...  -  Davvero?  Sia  lodato  il
Cielo! - soggiunse Marchetto sgomberandogli la strada per aiutar me  a  ritirare
la tavola dall'acqua. Quando s'entrò in cucina aveano finito  allora  allora  di
recitare il rosario; il fuoco era spento, ché del  resto  non  avrebbero  potuto
reggere in quel luogo colla caldana della state; nessuno  pensava  alla  cena  e
solamente monsignor Orlando gettava  di  tanto  in  tanto  sulla  cuoca  qualche
occhiata irrequieta. Anche  Martino  s'era  messo  taciturno  e  imperterrito  a
grattare il suo formaggio; ma tutti gli altri avevano tali facce da far onore ad
un funerale. La comparsa di Lucilio  fu  un  raggio  di  sole  in  mezzo  ad  un
temporale. Un - Oh! - di maraviglia, d'ansietà, e di piacere gli risonò  intorno
in coro, e poi tutti si fermarono a guardarlo  senza  domandargli  nulla,  quasi
dubitassero s'ei fosse un corpo, o un fantasma. Toccò  dunque  a  lui  aprir  la
bocca pel primo; e le parole  di  Mosè  quando  tornava  dal  monte  non  furono
ascoltate con maggior attenzione delle sue. Martino avea intermesso anch'egli di
grattare, ma non arrivando a capir nulla dei  discorsi  che  si  facevano,  finí
coll'impadronirsi di me e farsi contar a cenni una parte della storia.  -  Prima
di tutto ho buone notizie della contessina Clara  -  diceva  intanto  il  signor
Lucilio. - Ella era uscita  nei  campi  verso  Fossalta  incontro  alla  signora
Contessa come costuma; e impedita di rientrare in castello dai bravacci  che  lo
guardavano da tutte le parti, io stesso ebbi l'onore di  menarla  in  salvo  nel
mulino della prateria. Quei bravacci che attorniavano il  castello  d'ogni  lato
guastarono assai la buona impressione che dovea  esser  prodotta  dalle  notizie
della Clara. Tutti sorrisero colle labbra al colombo della buona nuova, ma negli
occhi lo sgomento durava peggio che mai e non sorrideva per nulla. -  Ma  dunque
siam proprio assediati come se fossero  Turchi  coloro!  -  sclamò  la  Contessa
giungendo disperatamente le mani. - Si consoli che l'assedio  non  è  poi  tanto
rigoroso se io ho potuto penetrare fin qui; - soggiunse Lucilio - gli è vero che
il merito è  tutto  del  Carlino,  e  che  se  non  lo  avessi  incontrato  lui,
difficilmente avrei potuto orientarmi cosí presto e farmi gettar  la  tavola  da
Marchetto. Gli occhi della brigata si volsero  allora  tutti  verso  di  me  con
qualche segno di rispetto. Alla fine capivano che io era buono ad  altro  che  a
girare l'arrosto, ed io godetti dignitosamente di quel piccolo  trionfo.  -  Sei
anche stato all'osteria? - mi chiese il fattore.  -  Vi  dirà  tutto  il  signor
Lucilio - risposi modestamente. - Egli ne sa piú di me perché ha avuto che fare,
credo, con quei signori. - Ah! e cosa dicono?  pensano  d'andarsene?  -  domandò
ansiosamente il Conte. - Pensano di rimanere; - rispose Lucilio - per ora almeno
non c'è speranza che levino il campo, e bisognerà ricorrere al Vice-capitano  di
Portogruaro per deciderli a metter la coda fra le gambe. Monsignor Orlando mandò
un'altra e piú espressiva occhiata alla cuoca; il  canonico  di  Sant'Andrea  si
accomodò il collare con un leggero sbadiglio: in ambidue i reverendi  i  bisogni
del corpo cominciavano a gridar piú forte delle  afflizioni  dello  spirito.  Se
questo è segno di coraggio, essi  furono  in  quella  circostanza  i  cuori  piú
animosi del castello. - Ma cosa ne dice lei?  cos'è  il  suo  parere  in  questa
urgenza? - chiese con non minor ansietà di prima il signor Conte. -  Dei  pareri
non ce n'è che uno - soggiunse Lucilio. - Son ben munite le mura? sono sprangate
le porte e le finestre? ci sono moschetti e spingarde alle  feritoie?  V'ha  per
questa notte gente sufficiente per  vegliare  alla  difesa?  -  A  voi,  a  voi,
Capitano! - strillò la  Contessa  invelenita  pel  contegno  poco  sicuro  dello
schiavone. - Rispondete dunque al signor Lucilio!  Avete  disposto  le  cose  in
maniera che si possa credersi al sicuro? - Cioè; - barbugliò il  Capitano  -  io
non ho che quattro uomini compresi Marchetto e Germano;  ma  i  moschetti  e  le
spingarde sono all'ordine; e ho anche distribuito la polvere... In  difetto  poi
di palle, ho messo in opera la mia munizione da caccia. - Benissimo! credete che
quei manigoldi  siano  passerotti!  -  gridò  il  Conte.  -  Freschi  staremo  a
difendercene coi  pallini!  -  Via,  per  cinque  o  sei  ore  anche  i  pallini
basteranno; - riprese Lucilio - e quando loro signorie sappiano  tener  a  freno
quegli assassini fino a giorno,  io  credo  che  le  milizie  del  Vice-capitano
avranno campo di intervenire. - Fino a giorno! come si fa a  difenderci  fino  a
giorno, se quei temerari si mettono in capo di darci l'assalto!? - urlò il Conte
strappandosi a ciocche la perrucca. - Ne uccideremo uno, agli  altri  il  sangue
andrà alla testa, e saremo tutti fritti prima che il signor Vice-capitano  pensi
a mettersi le ciabatte! - Non veda, no, le cose tanto scure; - replicò Lucilio -
castigatone uno, creda a me che gli altri faranno giudizio. Non ci si perde  mai
a mostrar i denti; e giacché il signor capitano Sandracca  non  sembra  del  suo
umor solito, io solo voglio incaricarmene; e dichiaro e guarentisco che io  solo
basterò a difendere il castello, e a mettere in iscompiglio al menomo atto tutti
quei spaccamonti di fuori! - Bravo signor Lucilio! Ci salvi lei! Siamo nelle sue
mani! - sclamò la Contessa. Infatti il giovane parlava con tal sicurezza  che  a
tutti si rimise un po' di fiato in corpo; la vita tornò  a  muoversi  in  quelle
figure, sbalordite dallo spavento, e la cuoca s'avviò  alla  credenza  con  gran
conforto di Monsignore. Lucilio si  fece  raccontar  brevemente  l'andamento  di
tutto l'affare; giudicò con miglior fondamento che  fosse  una  gherminella  del
castellano di Venchieredo per tagliar a mezzo il processo con un colpo  di  mano
sulla cancelleria, e per primo atto della sua autorità fece  trasportare  in  un
salotto interno le  carte  e  i  protocolli  di  quella  faccenda.  Esaminò  poi
diligentemente le fosse le porte e le finestre; appostò  Marchetto  con  Germano
dietro la saracinesca; il  fattore  lo  mise  alla  vedetta  dalla  parte  della
scuderia; altre due Cernide che erano il nerbo della guarnigione le dispose alle
feritoie  che  guardavano  il  ponte;  distribuí  le  cariche  e   comandò   che
irremissibilmente fosse ammazzato chi  primo  osasse  tentare  il  valico  della
fossa. Il capitano Sandracca stava sempre alle calcagna del giovine mentre  egli
attendeva a questi provvedimenti; ma non aveva coraggio di fare il brutto  muso,
anzi gli facevano mestieri i cenni gli urtoni e gli incoraggiamenti della moglie
per non accusare il mal di ventre e  ritirarsi  in  granaio.  -  Cosa  le  pare,
Capitano? - gli disse Lucilio con un  ghignetto  alquanto  beffardo.  -  Avrebbe
fatto anche lei quello che ho fatto io?... - Sissignore... lo aveva già fatto; -
balbettò il Capitano - ma mi sento lo stomaco... - Poveretto! - lo interruppe la
signora Veronica. - Egli ha faticato fin adesso; ed è suo merito se i  manigoldi
non son già penetrati in castello. Ma non è  piú  tanto  giovane,  la  fatica  è
fatica, e le forze non corrispondono alla buona volontà! - Ho bisogno di  riposo
- mormorò il Capitano. - Sí, sí, riposi con suo comodo; - soggiunse Lucilio - il
suo zelo lo ha provato bastevolmente; e ormai può mettersi sotto la piega  colla
coscienza tranquilla. Il veterano di Candia non  se  lo  fece  dire  due  volte;
infilò la scala volando come un angelo, e per quanto la  moglie  gli  stesse  a'
panni gridando di guardarsi bene e di non  precipitarsi!  in  quattro  salti  fu
nella sua stanza ben inchiavata e puntellata. Quel  dover  passare  vicino  alle
feritoie gli avea dato il capogiro; e gli parve di stare  assai  meglio  fra  la
coltre e il materasso. Ai pericoli futuri Dio avrebbe  provveduto;  egli  temeva
piú di tutto i presenti. La signora Veronica poi  si  sfogava,  rimproverandogli
sommessamente la sua dappocaggine;  ed  egli  rispondeva  che  non  era  il  suo
mestiero quello di affrontare i ladri, ma che  se  si  fosse  trattato  di  vera
guerra  guerreggiata  lo  avrebbero  veduto  al  suo   posto.   -   Giovinastri,
giovinastri! - sclamò il valentuomo stirandosi le gambe. - La trinciano da  eroi
perché hanno l'imprudenza di sfidar una palla facendo capolino  dai  merli.  Eh,
mio Dio, ci vuol altro!... Veronica, non uscir mica di camera sai!... Io  voglio
difenderti come il piú gran tesoro che abbia! - Grazie, - rispose la donna -  ma
perché non vi siete svestito? - Svestirmi! vorresti che mi svestissi con  quella
giuggiola di tempesta che abbiamo alle spalle!... Veronica, sta' sempre vicina a
me... Chi vorrà offenderti dovrà prima calpestare il  mio  cadavere.  Costei  si
gettò anch'essa, vestita com'era, sul letto; e da coraggiosa donna avrebbe anche
pigliato sonno, se il marito ad ogni  mosca  che  volava  non  fosse  sobbalzato
tant'alto, domandandole se aveva udito nulla, ed esortandola a confidare in lui,
e a non allontanarsi dal suo legittimo difensore. Intanto da basso una  discreta
cena improvvisata  con  ova  e  bragiuole  avea  calmato  gli  spasimi  dei  due
monsignori, e rimessili  con  tutta  l'anima  alla  paura,  s'interrogavan  l'un
l'altro sul numero e sulla qualità degli assalitori: eran cento, eran  trecento,
eran mille; tutti capi da galera, il miglior de' quali era fuggito  al  capestro
per indulgenza del boia. Se gridavan al contrabbando, si era per trovar pretesto
ad un saccheggio; a udirli urlare e cantare sulla piazza dovevan esser ubbriachi
fradici, dunque non  bisognava  aspettarsi  da  essoloro  né  ragionevolezza  né
remissione. Il resto della compagnia faceva tanto d'occhi a questi ragionamenti;
e peggio poi quando alcuna delle scolte veniva  a  riferire  di  qualche  romore
udito, di qualche movimento osservato nelle  vicinanze  del  castello.  Lucilio,
dopo fatta una visita alla vecchia Contessa e aver coonestato anche lui con  una
panchiana l'assenza della Clara, era tornato a confortare quei  poveri  diavoli.
Scrisse allora e fece firmare dal Conte una lunga e  pressantissima  lettera  al
Vice-capitano di Portogruaro, e domandò  licenza  alla  compagnia  d'andar  egli
stesso in persona a portarla. Misericordia! non lo avesse mai detto! La Contessa
gli si gettò quasi ginocchione dinanzi; il Conte lo abbrancò  pel  vestito  cosí
furiosamente che gliene strappò quasi  una  falda;  i  canonici,  la  cuoca,  le
guattere, i servitori lo attorniarono d'ogni lato come ad impedirgli d'uscire. E
tutti con occhiate con gesti con  monosillabi  o  con  parole  s'ingegnavano  di
fargli capire che partir lui era  lo  stesso  che  volerli  privare  dell'ultima
lusinga di salute. Lucilio pensò a Clara, e pur decise di rimanere. Tuttavia  si
richiedeva alcuno che s'incaricasse della lettera,  e  di  nuovo  gettarono  gli
occhi sopra di me. Giovandomi della confusione generale,  io  era  sempre  stato
nella camera della Pisana sopportando i suoi  rimbrotti  per  la  fazione  extra
muros di cui io l'aveva defraudata. Ma appena mi chiamarono ebbi l'accortezza  e
la fortuna di farmi trovar sulla scala. M'empirono il  capo  d'istruzioni  e  di
raccomandazioni, mi cucirono nella giacchetta il  piego,  mi  imbarcarono  sulla
solita tavola, ed  eccomi  per  la  seconda  volta  impegnato  in  una  missione
diplomatica. Sonavano allora per l'appunto le dieci ore di notte, e la  luna  mi
dava negli occhi con poca modestia; due cose che mi davano qualche fastidio,  la
prima per le streghe e le stregherie raccontatemi da Marchetto, la  seconda  per
la facilità che ne proveniva di poter essere osservato. Con tutto  ciò  ebbi  la
fortuna di giungere sano e salvo sui prati. Tremava un pocolino dapprincipio; ma
mi rassicurai strada faccendo, e nell'entrar al mulino,  come  volevano  le  mie
istruzioni, assunsi una cert'aria d'importanza che mi fece onore. Rassicurai  la
contessina Clara e risposi con garbo a tutte le sue interrogazioni;  indi  detto
alla Marianna  che  l'andasse  a  svegliare  il  maggiore  de'  suoi  figliuoli,
approfittai della sua assenza per istracciare  la  fodera  della  giacchetta;  e
cavatane la lettera la riposi come nulla  fosse  in  saccoccia.  Sandro  era  un
garzoncello maggiore di me di due  anni  e  che  dimostrava  un  ingegno  ed  un
coraggio non comuni; perciò il fattore m'aveva raccomandato di addrizzarmi a lui
per mandar quella scritta a Portogruaro. Egli si tolse l'incarico  senza  neppur
pensarci sopra; si buttò la giubba sulle spalle, mise la lettera  nel  petto,  e
uscí fuori zufolando come andasse ad abbeverare i buoi. La  strada  ch'ei  dovea
tenere verso Portogruaro si allontanava  sempre  piú  da  Fratta  e  non  v'avea
pericolo che fosse sorpreso e intercettato. Perciò io stava senza alcun  timore,
beato beatissimo di veder uscire a buon fine tutte le commissioni affidatemi,  e
piene le orecchie degli elogi che mi avrebbero suonato intorno nella cucina  del
castello. Benché mi avesse raccomandato il signor Lucilio di far compagnia  alla
signora Clara fino al ritorno  del  messo,  il  terreno  mi  bruciava  sotto  di
rimettermi in moto; quell'andare e venire, quel  mistero,  quei  pericoli  avean
dato l'abbrivo alla mia immaginazione infantile, e non potea stare senza qualche
gran impresa per le mani. Mi saltò allora in capo di rientrare  nel  castello  a
darvi contezza di quella parte dell'incarico che aveva già avuto effetto;  salvo
sempre di rinnovare la sortita  per  saper  la  risposta  del  Vice-capitano  di
giustizia. La Clara, udita questa mia intenzione, domandò  risolutamente  se  mi
bastava l'animo di far passare la fossa  anche  a  lei.  Il  mio  piccolo  cuore
palpitò piú di superbia che d'incertezza, e risposi col  volto  fiammeggiante  e
col braccio teso che mi sarei annegato io, piuttostoché far  bagnare  a  lei  la
falda della veste. La Marianna tentò attraversare con molte ragioni di  prudenza
questo disegno della padroncina; ma essa avea conficcato proprio il  chiodo,  ed
io poi era cosí contento di ribadirlo che mi tardava l'ora di trovarmi  con  lei
all'aperta. Detto fatto, lasciata la mugnaia colla sua prudenza, noi uscimmo sui
prati, e di là in breve fummo senza guaio  alle  fosse.  Il  solito  fischio  la
solita tavola; e la traversata  successe  a  dovere  come  le  altre  volte.  La
Contessina gongolava tanto di fare quell'improvvisata, che il passar  l'acqua  a
quel modo le fu quasi piacevole e rideva come una ragazzina  nell'inginocchiarsi
su quell'ordigno. Le feste le maraviglie la consolazione di  tutta  la  famiglia
sarebbero lunghe a ridirsi: ma il primo pensiero di Clara fu  di  chieder  conto
della nonna; o se non fu il primo pensiero, fu certo la prima parola. Lucilio le
rispose che la buona vecchia, persuasa della fandonia che le avean dato  a  bere
sul conto di lei, erasi addormentata in pace, e bene stava di non  risvegliarla.
Allora la giovinetta sedette cogli altri in tinello; ma mentre tutti origliavano
dalle fessure delle finestre i rumori che venivano dal villaggio,  ella  parlava
muta muta cogli occhi di Lucilio e lo ringraziava per tutto  quanto  egli  aveva
adoperato a loro vantaggio. Infatti era una voce sola che  ascriveva  al  signor
Lucilio tutto quel po' di sicurezza e di  speranza,  che  risollevava  le  anime
degli abitatori del castello dalla prima abiezione. Lui era stato  a  consolarli
con qualche buon argomento, lui a munire provvisoriamente il castello contro  un
colpo  di  mano,  lui  a  concepire  quella  sublime  pensata  del  ricorso   al
Vice-capitano. Lí tornava in campo io. Mi si chiese conto della lettera e di chi
se n'era incaricato; e tutti giubilarono di sapere che di lí a un paio d'ore  io
sarei tornato al mulino per recare la risposta di Portogruaro.  Ognuno  mi  fece
mille carezze, io era portato in palma di mano. Monsignore mi perdonava  la  mia
ignoranza in punto al Confiteor, ed il fattore si pentiva di avermi posposto  ad
un menarrosto. Il Conte mi volgeva gli occhi dolci e la Contessa poi non  finiva
mai di accarezzarmi la nuca. Giustizia tarda e meritata. Mentre  la  brigata  si
sbracciava a farmi la corte,  crebbe  il  romore  di  fuori  improvvisamente,  e
Marchetto, il cavallante, col fucile in mano e gli occhi sbarrati  si  precipitò
nel tinello. Che è che non è?  -  Fu  un  alzarsi  improvviso,  un  gridare,  un
domandare, un rovesciarsi di seggiole, e di  candelieri.  -  C'era  che  quattro
uomini per un condotto d'acqua rimasto asciutto erano sbucati dietro  la  torre;
che erano saltati addosso a lui e a Germano; che costui con due  coltellate  nel
fianco doveva essere a mal partito, e  che  egli  avea  fatto  appena  tempo  di
scappare serrandosi dietro le  porte.  A  queste  notizie  lo  strillare,  e  il
rimescolarsi crebbe di tre tanti;  nessuno  sapeva  cosa  si  facesse;  parevano
quaglie insaccate allo scuro in un canestro che danno del capo  qua  e  là  alla
rinfusa senza cognizione e senza scopo. Lucilio si sfiatava  a  raccomandare  la
quiete, e il coraggio; ma era un parlare ai sordi. La  sola  Clara  lo  udiva  e
cercava aiutarlo col persuadere la Contessa a farsi animo e a sperare in Dio.  -
Dio, Dio! è proprio tempo di  ricorrere  a  Dio!...  -  sclamava  la  signora  -
chiamateci il confessore!... Monsignore, lei pensi a raccomandarci  l'anima.  Il
canonico di Sant'Andrea, cui erano rivolte queste parole, non  aveva  piú  anima
per sé - figuratevi se avea intenzione  o  possibilità  di  raccomandare  quella
degli altri! In quel momento s'udí lo scoppio di molte schioppettate, e  insieme
grida e romori e minaccie di gente  che  sembrava  azzuffarsi  nella  torre.  Lo
scompiglio non conobbe piú limiti. Le donne di cucina capitarono da un lato,  le
cameriere la Pisana i servi dall'altro; il Capitano entrò  piú  morto  che  vivo
sostenuto dalla moglie, e gridando che tutto era perduto. S'udivano di fuori  le
strida e le preghiere delle famiglie di Fulgenzio e del fattore  che  chiedevano
esser ricoverate nella casa padronale come in luogo piú sicuro. In  tinello  era
un affacciarsi confuso e precipitoso di volti sorpresi e sparuti, un gesteggiare
di preghiere e di segni di croce,  un  piangere  di  donne,  un  bestemmiare  di
uomini, un esorcizzare di monsignori. Il Conte avea perduto  la  sua  ombra  che
avea stimato opportuno di ficcarsi piú ancora all'ombra sotto il  tappeto  della
tavola.  La  Contessa  quasi  svenuta  guizzava  come  un'anguilla,   la   Clara
s'ingegnava di confortarla come poteva meglio. Io per  me  aveva  presa  tra  le
braccia la  Pisana,  ben  deciso  a  lasciarmi  squartare  prima  di  cederla  a
chichessia: il solo Lucilio avea la testa a segno in quel parapiglia. Domandò  a
Marchetto, ed ai servi, se tutte  le  porte  fossero  serrate;  indi  chiese  al
cavallante se avesse veduto le due Cernide prima di  scappare  dalla  torre.  Il
cavallante non le aveva vedute; ma ad ogni modo non bastavano due soli uomini  a
menar tutto quel gran romore che si udiva di fuori; e Lucilio giudicò tosto  che
qualche nuovo accidente fosse intervenuto. Avesse già avuto effetto  il  ricorso
al Vice-capitano? - Pareva troppo presto; tanto piú che la soverchia premura non
era il difetto delle milizie  d'allora.  Certo  peraltro  qualche  soccorso  era
capitato; se pure gli assalitori non  erano  tanto  ubbriachi  da  favorirsi  le
archibugiate fra di loro. In quella, alle querele delle donne di Fulgenzio e del
fattore successe contro le finestre un tambussare di uomini, e un gridar che  si
aprisse e che si stesse quieti, perché tutto era finito. Il Conte e la  Contessa
non s'acquietavano per nulla, credendo che fosse uno stratagemma immaginato  per
entrar in casa a  tradimento.  Tutti  si  stringevano  angosciamente  intorno  a
Lucilio aspettando consiglio e salute da lui solo;  la  contessina  Clara  s'era
messa alla porta della scala deliberata a correre  dalla  nonna  non  appena  il
pericolo si facesse imminente. I  suoi  occhi  rispondevano  valorosamente  agli
sguardi del giovane; che badasse egli pure agli altri, poiché per lei si sentiva
forte e sicura contro ogni evento. Io teneva la Pisana piucchemai stretta fra le
braccia, ma la fanciulletta mossa all'emulazione dal mio coraggio gridava che la
lasciassi,  e  che  si  sarebbe  difesa   da   sé.   L'orgoglio   poteva   tanto
sull'immaginazione di lei che le pareva di bastare contro un esercito. Frattanto
il signor Lucilio accostatosi ad una finestra avea domandato chi fossero  coloro
che bussavano. - Amici, amici! di San Mauro e di Lugugnana!  -  risposero  molte
voci. - Aprite! Sono il Partistagno! I malandrini furono  snidati!  -  soggiunse
un'altra voce ben nota che sciolse si può dire il respiro a tutta  quella  gente
trepidante tra la paura e la speranza. Un grido di consolazione fece  tremare  i
vetri ed i muri del tinello e se tutti fossero diventati pazzi ad un  punto  non
avrebbero dato in piú strane e grottesche dimostrazioni di gioia. Mi  ricorda  e
mi ricorderà sempre del signor Conte, il quale al fausto suono  di  quella  voce
amica si mise le mani alla tempia, ne sollevò la perrucca, e stette  con  questa
sollevata verso il cielo, come offrendola in voto per la grazia ricevuta. Io  ne
risi, ne risi tanto, che buon per me che la  grandezza  del  contento  stornasse
dalla mia persona l'attenzione generale! - Finalmente le porte furono aperte, le
finestre spalancate; s'accesero fanali, lucerne, lampioni, e  candelabri;  e  al
festivo  splendore  d'una  piena  illuminazione,  fra  il  suono  delle  canzoni
trionfali, dei Te Deum e delle piú divote giaculatorie,  il  Partistagno  invase
coll'armata liberatrice tutto il pianterreno del castello.  Gli  abbracciari  le
lagrime  i  ringraziamenti  le  meraviglie  furono  senza  fine;  la   Contessa,
dimenticando ogni riguardo, era saltata  al  collo  del  giovine  vincitore,  il
Conte, monsignor Orlando, e il canonico  di  Sant'Andrea  vollero  imitarla;  la
Clara lo ringraziò con vera effusione d'aver risparmiato alla sua  famiglia  chi
sa quante ore di spavento e d'incertezza, e  fors'anco  qualche  disgrazia  meno
immaginaria. Il solo Lucilio non  si  congiunse  al  giubilo  e  all'ammirazione
comune; forse lo scioglimento non gli  quadrava,  e  l'avrebbe  voluto  derivare
dovunque fuorché dalla parte per la quale era venuto. Tuttavia era troppo giusto
ed accorto per non mascherare questi propositati sentimenti d'invidia; e fu egli
il primo che richiese il Partistagno del modo e della fortuna che l'aveva menato
a quella buona opera. Il  Partistagno  raccontò  allora  com'egli  fosse  venuto
quella sera per la solita visita al castello, ma un po' piú tardi  del  consueto
pel riparo di alcune arginature che l'ebbe trattenuto a San Mauro.  Gli  sgherri
di Venchieredo gli avevano proibito  d'entrare,  ed  egli  avea  fatto  un  gran
gridare contro quella soperchieria, ma non ne avea cavato  nulla;  e  alla  fine
vedendo che le chiacchiere non contavano  un  fico,  ed  accorgendosi  che  quel
gridare al contrabbando era una copertina  a  Dio  sa  quali  diavolerie,  s'era
proposto di partire e tornar alla carica con ben altri argomenti che le  parole.
- Perché io non sono un prepotente di mestiere; - soggiunse il Partistagno -  ma
all'uopo anch'io posso qualche cosa e so farmi valere. - E ciò dicendo  mostrava
tesi i muscoli dei polsi, e faceva digrignare certi denti acuti  e  sottili  che
somigliavano quelli del leone. Infatti l'era tornato di galoppo a San  Mauro,  e
là, raccoltivi alcuni suoi fidati, nonché molte  Cernide  di  Lugugnana  che  vi
stavano ancora a lavoro sopra  l'argine,  s'era  ravviato  verso  Fratta.  Eravi
giunto proprio nel momento che la torre veniva occupata per sorpresa da  quattro
bravacci;  ond'egli,  sgominato  prima  assai  facilmente  gli   ubbriachi   che
armeggiavano sulla piazza e nell'osteria, si mise a guadar la fossa con parecchi
de' suoi. Con qualche fatica  guadagnarono  l'altra  riva  senzaché  coloro  che
aveano occupato la torre si dessero  cura  di  ributtarli,  intesi  com'erano  a
scassinar gangheri e serrature per penetrare nell'archivio. E poi  dopo  qualche
schioppettata, scambiatasi cosí tra il chiaroscuro  piú  per  braveria  che  per
bisogno, i quattro malandrini erano venuti nelle sue mani; e li teneva  guardati
nella stessa torre ove s'erano introdotti con  sí  sfacciata  sceleraggine.  Fra
questi era il capobanda Gaetano. Quanto poi al portinaio del castello l'era  già
morto quando le Cernide di Lugugnana s'erano accorte di lui. - Povero Germano! -
sclamò il cavallante. - E che non ci sia proprio piú pericolo? che  tutti  siano
partiti? che non ci si rifacciano addosso per la rivincita? - chiese  il  signor
Conte al quale non pareva vero che un tanto temporale si  fosse  squagliato  per
aria senza qualche grande fracasso di fulmini. - I capi sono bene ammanettati  e
saranno savi come bambini fino al momento  che  li  regoli  meglio  il  boia;  -
rispose il Partistagno - quanto agli altri scommetto che non si  sovvengono  piú
di qual odor sappia l'aria di Fratta, e che  lor  non  cale  niente  affatto  di
fiutarla ancora. - Dio sia lodato! - sclamò  la  Contessa  -  signor  Barone  di
Partistagno, noi tutti e le cose nostre ci facciamo  roba  sua  in  riconoscenza
dell'immenso servigio che ci ha prestato. - Ella è il  piú  gran  guerriero  dei
secoli moderni! - gridò il Capitano asciugandosi sulla fronte il sudore  che  vi
avea lasciato la paura. - Pare peraltro che anche  lei  avesse  pensato  ad  una
buona difesa - rispose il Partistagno. - Finestre e porte erano cosí tappate che
non ci sarebbe passata una formica. Il Capitano ammutolí, s'avvicinò col  fianco
alla tavola per non far vedere ch'egli era senza spada e della  mano  accennò  a
Lucilio, come per riferir a lui tutto il merito di  tali  precauzioni.  -  Ah  è
stato il signor Lucilio!? - sclamò Partistagno con un lieve sapore  d'ironia.  -
Bisogna confessare che non si poteva usare maggior prudenza. Il panegirico della
prudenza in bocca di  chi  avea  vinto  coll'audacia  somigliava  troppo  ad  un
motteggio perché Lucilio non se ne accorgesse. L'anima  sua  dovette  sollevarsi
ben alto per rispondere con un modesto  inchino  a  quelle  ambigue  parole.  Il
Partistagno, che credeva di averlo subissato o poco meno, si  volse  per  vedere
sulla fisonomia della Clara l'effetto  di  quel  nuovo  trionfo  sul  piccolo  e
infelice rivale. Si maravigliò alquanto di non vederla,  perocché  la  fanciulla
era già corsa di sopra ad usciolare dietro la porta della  nonna.  Ma  la  buona
vecchia dormiva saporitamente, protetta contro le archibugiate da  un  principio
di sordità; ed ella tornò indi  a  poco  in  tinello,  contentissima  della  sua
esplorazione.  Il  Partistagno  la  adocchiò  allora  gustosamente,   e   n'ebbe
un'occhiata di pura benevolenza che lo confermò viemmeglio nella sua compassione
pel povero dottorino di Fratta. In mezzo a ciò gli piovevano d'ogni lato domande
sopra questo e sopra quello; e sul numero dei malandrini,  e  sul  modo  da  lui
adoperato nel passar la fossa, e come sempre avviene  dopo  il  pericolo,  tutti
godevano d'immaginarlo grandissimo e di ricordarne le emozioni. Lo stato d'animo
di chi è o si crede sfuggito ad un rischio mortale somiglia a quello di  chi  ha
ricevuto risposta favorevole ad una dichiarazione d'amore. L'istessa giocondità,
l'istessa loquacia, l'istessa prodigalità di ogni cosa che gli venga  domandata,
l'istessa leggerezza di corpo e di mente; e per dirla meglio,  tutte  le  grandi
gioie si somigliano nei loro effetti, a differenza dei grandi dolori  che  hanno
una scala di manifestazioni molto variata. Le anime hanno un centinaio di  sensi
per sentir il male, ed uno  solo  pel  bene;  e  la  natura  rileva  alcun  poco
dell'indole di Guerrazzi che ha maggior immaginativa  per  le  miserie  che  pei
pregi della vita. Il primo cui venne in mente  che  ai  nuovi  arrivati  potesse
abbisognare qualche rinfresco, fu monsignor Orlando;  io  penso  sempre  che  lo
stomaco piú ancora della riconoscenza lo facesse accorto di tale bisogno. Dicono
che l'allegria è il piú attivo dei succhi gastrici, ma Monsignore avea  digerito
la cena durante la paura; e  l'allegria  non  avea  fatto  altro  che  stimolare
vieppiù il suo appetito. Due ova e mezza bragiuola! Ci voleva  altro  per  farlo
tacere, l'appetito d'un monsignore!... Subito si misero all'opera; e si fece man
bassa sui porcellini di Fulgenzio. Il timore d'un lungo assedio era svanito;  la
cuoca lavorava per tre; le guattere e i servi avevano quattro braccia  per  uno;
il fuoco sembrava disporsi a cuocere ogni cosa in un minuto; Martino  lagrimando
per la morte di Germano, comunicatagli allora allora dal cavallante, grattava in
tre colpi mezza libbra di formaggio. Io e la Pisana facevamo gazzarra contenti e
beati di vederci dimenticati nel tripudio universale; per noi avremmo desiderato
ogni mese un assalto al castello per goderne poi  un  simile  carnovale.  Ma  la
memoria  del  povero  Germano  s'intrometteva  sovente  ad   abbuiare   la   mia
contentezza. Era la prima volta che la morte mi  passava  vicina  dopo  che  era
venuto in età di ragione. La Pisana  mi  svagava  col  suo  chiacchierio,  e  mi
rampognava del mio umore ineguale. Ma io  le  rispondeva:  -  E  Germano?  -  La
piccina allungava il broncio; ma poco stante tornava a  ciarlare,  a  dimandarmi
contezza delle mie spedizioni notturne, a persuadermi  che  ella  avrebbe  fatto
anche meglio, e a congratularsi meco che la cuoca si fosse degnata di  porre  in
opera il menarrosto senza ficcar me a far le sue veci. Io  mi  svagava  del  mio
dolore in questi colloqui; e la superbietta di essere stimato  qualche  cosa  mi
teneva troppo occupato di me e della mia importanza per  permettermi  di  pensar
troppo al morto. Era già passata la mezzanotte di  qualche  mezz'ora  quando  la
cena fu in pronto. Non si badò a distinzione di quarti o di persone.  In  cucina
in tinello in sala nella dispensa ognuno mangiò e bevve, come e dove voleva.  Le
famiglie del fattore e di Fulgenzio furono convitate al banchetto  trionfale;  e
soltanto fra un boccone ed un brindisi la morte di Germano e la  sparizione  del
sagrista e del Cappellano richiamarono qualche sospiro. Ma i morti non si movono
e i vivi si trovano. Di fatti il pretucolo  e  Fulgenzio  capitarono  non  molto
dopo, cosí pallidi e sformati che parevano essere stati rinchiusi fin allora  in
un cassone di farina. Uno scoppio di applausi salutò il  loro  ingresso,  e  poi
furono invitati a contare la loro storia.  La  era  in  verità  molto  semplice.
Ambidue, dicevano, senza farsi motto l'uno dell'altro,  al  primo  giungere  dei
nemici erano corsi  a  Portogruaro  per  implorar  soccorso;  e  di  là  infatti
capitavano col vero soccorso di Pisa. - Che? sono lí fuori i signori soldati?  -
sclamò il signor Conte che  non  si  era  ancora  accorto  di  aver  perduto  la
perrucca. - Fateli entrare!... Su dunque,  fateli  entrare!  I  signori  soldati
erano sei di numero compreso un caporale, ma in  punto  a  stomaco  valevano  un
reggimento. Essi giunsero opportuni a spazzar i piatti  degli  ultimi  rimasugli
dei porcellini arrostiti e a ravvivar l'allegria che cominciava già a  maturarsi
in sonno. Ma poi ch'essi furono  satolli  e  il  canonico  di  Sant'Andrea  ebbe
recitato un Oremus in rendimento di  grazie  al  Signore  del  pericolo  da  cui
eravamo scampati, si pensò sul serio a coricarsi. Allora, chi  chiappa  chiappa,
uno qua ed uno là, ognuno trovò il proprio  covo,  la  gente  di  rilievo  nella
foresteria, gli altri chi nella frateria, chi nelle rimesse, chi sul fienile. Il
giorno dopo soldati, Cernide e sbirri ebbero per ordine  del  signor  Conte  una
grossa mancia; e ognuno tornò a casa sua  dopo  aver  ascoltato  tre  messe,  in
nessuna delle quali io fui seccato perché recitassi il Confiteor. Cosí si  tornò
dopo quella furia di burrasca alla solita vita; il signor Conte per altro  aveva
raccomandato che portassimo il trionfo con fronte modesta perché non gli garbava
per nulla di andar incontro  ad  altre  rappresaglie.  Con  simili  disposizioni
d'animo vi figurerete che il processo instituito sulle  rivelazioni  di  Germano
non andò innanzi con molta premura; e neppure pareva che vi  avesse  volontà  di
castigare davvero quei quattro sgherani che erano rimasti prigioni di guerra del
Partistagno. Il Venchieredo, fatto accortamente palpare a loro riguardo, rispose
che egli veramente li avea mandati sull'orme di alcuni  contrabbandieri  che  si
dicevano rifugiati nelle vicinanze di Fratta, che se poi le sue istruzioni erano
state da loro oltrepassate in modo punibile criminalmente,  ciò  non  riguardava
lui ma la cancelleria di Fratta. Il Cancelliere  del  resto  non  mostrava  gran
volontà di veder a fondo nelle  cose,  e  sfuggiva  di  condurre  i  detenuti  a
pericolose confessioni. L'esempio di Germano parlava troppo chiaro; e  l'accorto
curiale era uomo da pigliar le cose di volo. Lasciava dunque dormire il processo
principale, e in quell'altra  inquisizione  dell'assalto  dato  alla  torre  era
felicissimo di aver provato la perfetta ubbriachezza dei quattro imputati.  Cosí
sperava lavarsene le mani, e che la polvere dell'obblio  si  sarebbe  accumulata
provvidenzialmente su quei  malaugurati  protocolli.  Le  cose  tentennavano  in
questo modo da circa un mese, quando una sera due cappuccini chiesero ospitalità
nel castello di Fratta. Fulgenzio che conosceva tutte  le  barbe  cappuccinesche
della provincia non affigurò per nulla quelle due; ma avendo essi dichiarato che
venivano dall'Illirio, circostanza provata  vera  dall'accento,  furono  accolti
cortesemente.  Fossero  poi  venuti  dal  mondo  della  luna,  nessuno   avrebbe
arrischiato  di  respingere  due  cappuccini  colla  magra  scusa  che  non   si
conoscevano. Essi si scusarono colla santa umiltà dall'entrare in  tinello,  ove
c'era in quella sera piena conversazione; ed edificarono invece la  servitù  con
certe loro santocchierie e certi racconti della Dalmazia e di  Turchia  ch'erano
le consuete parabole  dei  frati  di  quelle  parti.  Indi  domandarono  licenza
d'andare a coricarsi; e Martino li guidò e  li  introdusse  nella  stanza  della
frateria che era divisa dal mio covacciolo con un semplice assito e nella  quale
io li vidi entrare per una fessura di questa. Il castello poco dopo taceva tutto
nella quiete del sonno; ma io vegliava alla mia fessura perché i due  cappuccini
avevano certe cose  addosso  da  stuzzicar  propriamente  la  curiosità.  Appena
entrati nella stanza si assicurarono essi con due buone  spanne  di  catenaccio;
indi li vidi trarre di sotto alla tonaca arnesi, mi parevano,  da  manovale,  ed
anche due solidi coltellacci, e due buone paia di pistole, che non son solite  a
portarsi da frati. Io non fiatava per lo spavento, ma  la  curiosità  di  sapere
cosa volessero dire quegli apparecchi mi faceva durare alla vedetta. Allora  uno
di loro cominciò con uno scalpello a smovere le pietre del muro  dirimpetto  che
s'addossava alla torre; e un colpo dopo l'altro cosí alla sordina  fu  fatto  un
bel buco. - La muraglia è profonda - osservò sommessamente  quell'altro.  -  Tre
braccia e un quarto; - soggiunse quello che lavorava - ne avremo il bisogno  per
due ore e mezzo prima di poterci passare. - Ma se qualcuno ci scopre  in  questo
frattempo! - Sí eh?... peggio per lui!... sei mila ducati comprano bene un  paio
di coltellate. - Ma  se  non  possiamo  poi  svignarcela  perché  si  svegli  il
portinaio? - E cosa  sogni  mai?...  Gli  è  un  ragazzaccio,  il  figliuolo  di
Fulgenzio!... Lo spaventeremo e ci darà le chiavi per farci uscire  comodamente,
altrimenti... "Povero Noni!" pensai io al vedere il gesto minaccioso con cui  il
sicario interruppe il lavoro. Quella bragia coperta  di  Noni  non  mi  era  mai
andato a sangue, massime per lo spionaggio  ch'egli  esercitava  malignamente  a
danno mio e della Pisana; ma in  quel  momento  dimenticai  la  sua  cattiveria,
com'anche avrei dimenticato la chietineria invidiosa e maligna di  suo  fratello
Menichetto. La compassione fece tacere  ogni  altro  sentimento;  d'altronde  la
minaccia toccava anche me, se avessero sospettato  che  li  osservava  pei  fori
dell'assito; e avvezzo già alle spedizioni avventurose sperai  anche  in  quella
notte di darmi a divedere un  personaggio  di  proposito.  Apersi  pian  pianino
l'uscio del mio buco, e penetrai a tentone nella camera di Martino. Non  volendo
né arrischiando parlare, spalancai le finestre in modo che entrasse  un  po'  di
luce perché la notte era chiarissima: indi mi avvicinai  al  letto,  e  presi  a
destarlo. Egli saltava su di soprassalto gridando chi era, e cosa fosse,  ma  io
gli chiusi la bocca colla mano e gli feci cenno di tacere. Fortuna che  egli  mi
conobbe subito; laonde cosí a cenni lo persuasi di seguirmi e condottolo fin giù
sul pianerottolo della scala gli diedi contezza della cosa.  Il  povero  Martino
faceva occhi grandi come lanterne. - Bisogna destare Marchetto, il signor Conte,
e il Cancelliere - diss'egli pieno di  sgomento.  -  No,  basterà  Marchetto;  -
osservai io con molto giudizio - gli  altri  farebbero  confusione.  Infatti  si
destò il cavallante il quale entrò nel mio disegno che  bisognava  far  le  cose
alla muta senza baccani e senza molta gente. Il foro  dietro  cui  lavoravano  i
cappuccini dava nell'archivio della cancelleria, che era una cameraccia scura al
terzo piano della torre, piena di carte di sorci e di  polvere.  Il  meglio  era
appostar colà due uomini fidati e robusti che abbrancassero uno per  uno  i  due
frati mano a mano che passavano e li imbavagliassero e li legassero a dovere.  E
cosí si fece. I due uomini furono lo stesso Marchetto e suo cognato che stava in
castello per ortolano. Essi penetrarono pian piano nell'archivio  adoperando  la
chiave del Conte che restava sempre nelle tasche delle sue brache in anticamera;
e stettero lí uno a destra ed uno a sinistra del luogo ove si sentivano sordi  i
colpi dei due scalpelli. Dopo mezz'ora penetrò nell'archivio un raggio di  luce,
e i due uomini fermi al loro posto.  Per  ogni  buon  conto  s'erano  armati  di
mannaie e di pistole, ma  speravano  di  farne  senza  perché  i  signori  frati
lavoravano sicuri e privi di qualunque timore. - Io passo col braccio -  mormorò
uno di questi. - Ancora due colpi e il difficile è fatto - rispose l'altro.  Con
poco lavoro s'allargò il buco siffattamente, che vi potea  passare  con  qualche
stento una persona;  e  allora  uno  dei  due  frati,  quello  che  sembrava  il
caporione, allungò la testa indi un braccio indi l'altro e  strisciando  innanzi
colle mani sul pavimento dell'archivio s'ingegnava di tirarsi addietro le gambe.
Ma quando meno se lo aspettava sentí una forza amica aiutarlo a ciò, e nel tempo
stesso un pugno vigoroso gli afferrò il mento, e  sbarrategli  le  mascelle  gli
cacciò in bocca un certo arnese che gli impediva quasi di  respirare  nonché  di
gridare. Una buona attortigliata ai polsi e  una  pistola  alla  gola  fornirono
l'opera e persuasero colui a non moversi dal muro cui lo avevano  addossato.  Il
frate compagno parve un po' inquieto del silenzio che successe al passaggio  del
suo principale; ma poi si rassicurò credendo che non fiatasse per paura di farsi
udire, e fece animo egli pure di sporger la testa dal buco. Costui  fu  trattato
con minor precauzione del primo. Appena impadronitosi della testa, Marchetto  la
tirò tanto che quasi gliel'avrebbe cavata  se  lo  stesso  paziente  non  avesse
smosso colle spalle alcune pietre della muraglia. Imbavagliato  e  legato  anche
questo, lo si frugò ben bene unitamente al compagno; si tolsero loro le  armi  e
furono condotti in un luoguccio  umido,  appartato,  e  ben  riparato  dall'aria
dov'ebbero posto cadauno in una celletta come due veri frati. Li lasciarono cosí
in preda alle loro meditazioni per  destar  la  famiglia  e  propalare  la  gran
novella. Figuratevi qual maraviglia, che batticuore, che consolazione! Era certo
che anche quel nuovo tiro veniva dalla parte di Venchieredo. Laonde si decise di
serbare piucché fosse possibile il segreto finché si desse notizia dell'accaduto
al Vice-capitano di Portogruaro. Fulgenzio fu incaricato  di  ciò.  La  missione
ebbe effetto cosí pieno che il castellano aspettava ancora il  ritorno  dei  due
frati, quando una compagnia di Schiavoni attorniò il  castello  di  Venchieredo,
s'impadroní della persona del signor giurisdicente, e lo trasse legato in  tutta
regola a Portogruaro. Certamente Fulgenzio avea trovato argomenti molto decisivi
per  indurre  la  prudenza  del  Vice-capitano  a  una  sí  forte  e   subitanea
risoluzione. Il prigioniero pallido di bile e di paura si mordeva le labbra  per
esser caduto da sciocco in una  trappola,  e  con  tardiva  avvedutezza  pensava
indarno ai bei feudi che possedeva oltre l'Isonzo.  Le  carceri  di  Portogruaro
erano molto solide e la fretta della sua cattura troppo significante  perché  si
lusingasse di poterla scapolare. Gli abitanti di Fratta dal  canto  loro  furono
alleggeriti d'un gran peso: e tutti si scatenarono allora contro la temerità  di
quel prepotente; e piccoli e grandi si facevano belli di quel colpo di mano come
se il merito fosse appunto loro e non del caso. Un ordine venuto qualche  giorno
dopo di consegnare i quattro imputati d'invasione a mano armata,  nonché  i  due
finti cappuccini e le carte del processo di Germano ad un messo del  Serenissimo
Consiglio dei Dieci mise il colmo alla gioia del Conte e del  Cancelliere.  Essi
respirarono di aver nette le mani di quella pece, e fecero cantare un "Te Deum "
per motivi moventi l'animo loro quando dopo  due  mesi  si  venne  a  sapere  di
sottovento che i sei malandrini eran  condannati  alle  galere  in  vita,  e  il
castellano di Venchieredo a dieci anni di reclusione  nella  fortezza  di  Rocca
d'Anfo sul Bresciano come reo convinto di alto tradimento e di cospirazione  con
potentati esteri a danno della Repubblica. Le lettere deposte da  Germano  erano
appunto  parte  d'una  corrispondenza  clandestina,  tenuta  in   addietro   dal
Venchieredo con alcuni feudatari goriziani, nella  quale  si  parlava  d'indurre
Maria Teresa ad  appropriarsi  il  Friuli  veneto  assicurandole  il  favore  la
cooperazione della nobiltà terrazzana. Rimasta in potere  di  Germano  parte  di
questa corrispondenza per le difficoltà di porto  e  di  recapito  spesse  volte
incontrate, egli si era schivato dal restituirla  accusando  di  aver  distrutto
quelle carte per paura di chi lo inseguiva o per  altra  urgente  cagione.  Cosí
pensava egli apparecchiarsi una buona difesa contro  il  padrone  nel  caso  che
questi, come usava, avesse cercato sbarazzarsi di lui; e il  destino  volle  che
quanto egli aveva preparato per difendersi valesse invece ad offendere  un  uomo
prepotente ed iniquo. Dopo il processo criminale del Venchieredo s'agitò in Foro
civile la causa di fellonia. Ma fosse accorgimento del  Governo  di  non  toccar
troppo sul vivo la nobiltà friulana, o valentia  degli  avvocati,  o  bontà  dei
giudici,  fu  deciso  che  la  giurisdizione   del   castello   di   Venchieredo
continuerebbe ad esercitarsi in nome del figliuolo minorenne del condannato,  il
quale era alunno nel collegio dei padri Scolopi a  Venezia.  In  una  parola  la
sentenza di fellonia pronunciata contro il padre si giudicò  non  dovesse  recar
effetto a pregiudizio del figlio. Allora fu che, tolto di mezzo Gaetano  e  ogni
altro impiccio, Leopardo Provedoni ottenne finalmente in isposa la  Doretta.  Il
signor Antonio se ne dovette accontentare; come anche di vedere lo Spaccafumo in
onta ai bandi e alle sentenze assistere e far grande onore al pranzo  di  nozze.
Gli sposi furono stimati i piú belli che si fossero mai veduti nel territorio da
cinquant'anni in poi; e i mortaretti che si spararono in loro onore  nessuno  si
prese la briga di contarli. La Doretta entrò trionfalmente in casa Provedoni:  e
i vagheggini di Cordovado ebbero una bellezza di piú da occhieggiare durante  la
messa delle domeniche. Se la forza erculea e la severità del marito sgomentiva i
loro omaggi, li incoraggiava invece continuamente la civetteria della moglie.  E
tutti sanno che in tali faccende son piú ascoltate le lusinghe che le paure.  Il
cancelliere di Venchieredo, rimasto padrone quasi assoluto in  castello  durante
la minorennità del giovane giurisdicente, rifletteva  parte  del  suo  splendore
sopra la figlia: e certo nei giorni di sagra ella preferiva il braccio del padre
a quello del marito, massime quando andava a pompeggiare nelle festive radunanze
intorno alla fontana. Anche la mia sorte in quel  frattempo  s'era  cambiata  di
molto. Non era ancora in istato di pigliar moglie, ma aveva dodici anni  sonati,
e la scoperta dei finti cappuccini mi avea cresciuto assai  nell'opinione  della
gente. La Contessa non mi aspreggiava piú, e qualche  volta  sembrava  vicina  a
ricordarsi della nostra parentela benché si ravvedesse tosto da quegli slanci di
tenerezza. Però non si oppose al marito quando egli si mise in capo di  avviarmi
alla  professione  curiale,  aggiungendomi  intanto  come  scrivano  al   signor
Cancelliere. Finalmente ebbi la mia posata alla tavola  comune,  proprio  vicino
alla Pisana, perché le strettezze  della  famiglia,  che  continuavano  con  una
pessima  amministrazione,  aveano  fatto  smettere  l'idea  del  convento  anche
riguardo alla piccina. Io seguitava a taroccare a giocare e  a  martoriarmi  con
lei; ma già la mia importanza mi compensava degli smacchi che ancor  mi  toccava
sopportare. Quando poteva passarle dinanzi recitando la mia lezione  di  latino,
che doveva ripetere al Piovano la dimane, mi sembrava di esserle in qualche cosa
superiore. Povero latinista! come la sapeva corta!...


CAPITOLO SESTO

Nel quale si legge un parallelo fra la Rivoluzione francese  e  la  tranquillità
patriarcale della  giurisdizione  di  Fratta.  Gli  Eccellentissimi  Frumier  si
ricoverano a Portogruaro. Crescono la mia importanza, la  mia  gelosia,  la  mia
sapienza di latino, sicché mi mettono per graffiacarte  in  cancelleria.  Ma  la
comparsa a Portogruaro del dotto padre  Pendola  e  del  brillante  Raimondo  di
Venchieredo mi mette in maggior pensiero.

Gli anni  che  al  castello  di  Fratta  giungevano  e  passavano  l'uno  uguale
all'altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece  a
Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787,
1788; tre cifre che  fanno  numero  al  pari  delle  altre,  e  che  pure  nella
cronologia dell'umanità resteranno  come  i  segni  d'uno  de'  suoi  principali
rivolgimenti. Nessuno crede ora che la Rivoluzione francese sia stata la  pazzia
d'un sol popolo. La Musa imparziale della storia  ci  ha  svelato  le  larghe  e
nascoste radici di quel delirio di libertà, che  dopo  avere  lungamente  covato
negli spiriti, irruppe negli ordini sociali,  cieco  sublime  inesorabile.  Dove
tuona un fatto, siatene certi,  ha  lampeggiato  un'idea.  Soltanto  la  nazione
francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle  altre  dalla  dottrina
all'esperimento: fu essa chiamata il capo dell'umanità, e non ne è che la  mano;
mano ardita, destreggiatrice, che  sovente  distrusse  l'opera  propria,  mentre
nella mente universale dei popoli se ne matura piú saldo il disegno.  A  Venezia
come in ogni altro stato d'Europa cominciavano le  opinioni  a  sgusciare  dalle
nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia piú vasta dei negozi civili;  gli
uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati  al  buon  governo  della
patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i  secondi
s'accorgevano  del  legame  dei  doveri.  Era  un  guardarsi  in  cagnesco,   un
atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da
un lato, una sospettosa paura dall'altro. Ma a  Venezia  meno  che  altrove  gli
animi eran disposti a sorpassare la  misura  delle  leggi:  la  Signoria  fidava
giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe  del
Nord capitatovi in quel torno ebbe a dire d'averci trovato non uno stato ma  una
famiglia. Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in  una  famiglia,
può essere tirannia in una repubblica; le differenze di età e  d'esperienza  che
inducono l'obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano  sempre
nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso  si  matura
nel popolo, mentre la  giustizia  d'altri  tempi  gli  rimane  dinanzi  come  un
ostacolo. Per continuar la metafora, giunge il momento che i figlioli  cresciuti
di forza di ragione e d'età hanno diritto d'uscir di  tutela:  quella  famiglia,
nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad
un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i  desiderii
della natura, anzi soffocherebbe  essa  il  piú  santo  dei  diritti  umani,  la
libertà. Venezia era una famiglia cosifatta. L'aristocrazia dominante decrepita;
il popolo snervato nell'ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza  di  sé  al
soffio creativo della filosofia; un cadavere che  non  voleva  risuscitare,  una
stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso  il  sepolcro.
Ma chi non conosce queste isole fortunate, sorrise dal  cielo,  accarezzate  dal
mare, dove perfino  la  morte  sveste  le  sue  nere  gramaglie,  e  i  fantasmi
danzerebbero sull'acqua cantando le amorose ottave del  Tasso?  Venezia  era  il
sepolcro ove Giulietta si  addormenta  sognando  gli  abbracciamenti  di  Romeo;
morire colla felicità della speranza e le  rosee  illusioni  della  gioia  parrà
sempre il punto piú delizioso della vita. Cosí nessuno si accorgeva che i lunghi
e chiassosi carnovali altro non erano che le  pompe  funebri  della  regina  del
mare. Al 18 febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; ma la sua  morte  non  si
pubblicò fino al dí secondo di marzo, perché il pubblico lutto non interrompesse
i tripudii della settimana grassa. Vergognosa frivolezza  dinotante  che  nessun
amore nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i  figliuoli  al  padre.
Viva e muoia a suo grado purché non  turbi  l'allegria  delle  mascherate,  e  i
divertimenti del Ridotto; cotali erano i sentimenti del popolo, e della  nobiltà
che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e  con  piú  sicurezza.
Con l'uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di  marzo  Lodovico  Manin:  si
affrettarono forse, perché le feste  della  elezione  rompessero  le  melanconie
della quaresima. L'ultimo doge salí il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni
del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse  preparata.  Fra
tanta spensieratezza, in mezzo ad una sí marcia inettitudine, non  avea  mancato
chi, prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente  della
Signoria agli opportuni rimedii. Fors'anco  i  rimedi  proposti  non  furono  né
opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto  palpare  la  piaga
perché altri pensasse a farmaci migliori. Invece la Signoria torse gli occhi dal
male; negò la necessità d'una cura dove la quiete e  la  contentezza  indicavano
non l'infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono  le  infermità
piú pericolose dove manca perfin la  vita  del  dolore.  Non  molti  anni  prima
l'Avogadore di Comune, Angelo Querini, avea  sofferto  due  volte  la  prigionia
d'ordine del Consiglio dei Dieci per aver osato propalarne gli abusi e  le  arti
illegali con cui si accaparravano e si  fingevano  le  maggioranze  nel  Maggior
Consiglio. La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu
carcerato  anche  prima  che  la  promessa  potesse  aver  effetto.   Tale   era
l'indipendenza di una autorità semi-tribunizia, e tanto il  valore  e  l'affetto
consentitole;  nessuno  s'accorse  o  tutti  finsero   non   s'accorgere   della
carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di  imitarlo.
Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza. Nel 1779 a tanto era
scaduta l'amministrazione della giustizia e la fortuna  pubblica  che  anche  il
pazientissimo e  giocondissimo  fra  i  popoli  se  ne  risentiva.  Primo  Carlo
Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con  opportuni
cambiamenti nelle forme costituzionali; e la  sua  arringa  fu  cosí  stringente
insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte  di  comandare
alla Signoria la pronta proposta dei necessari cambiamenti. Si  nota  in  quelle
discussioni che quello  che  ora  si  direbbe  il  partito  liberale  tendeva  a
ripristinare tutto  il  patriziato  nell'ampio  esercizio  della  sua  autorità,
sciogliendo quel potere oligarchico che s'era concentrato nella Signoria  e  nel
Consiglio  dei  Dieci  per  una  lunga   e   illegale   consuetudine.   Miravano
apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di  allargare  il
diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue  proporzioni  primitive,  e
insistendo sempre sulla massima  da  gran  tempo  dimenticata,  che  al  Maggior
Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l'eseguire: in ogni occasione si
ricordava  non   aver   questa   che   un'autorità   demandata.   I   partigiani
dell'oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione
e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugi per tirar la cosa in
lungo. La Signoria fingeva di piegarsi all'obbedienza richiesta; indi  proponeva
rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle  quali
il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si  trasse
in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l'esame dei difetti
accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque  correttori;  e  la
convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla,  fu  da  lui  appoggiata
alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità  di
riformar tutto e subito. Il Renier parlò a lungo delle monarchie d'Europa, fatte
potenti a scapito delle poche repubbliche;  da  ciò  dedusse  il  bisogno  della
concordia e della stabilità. "Io stesso", aggiungeva egli  nel  suo  patriarcale
veneziano "io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia  udii  piú
volte  ripetere:  Questi  signori  Polacchi  non  vogliono  aver  giudizio;   li
aggiusteremo noi. Se v'ha Stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi
non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a  sorte,
per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del  governo."  Il  Doge
parlando a questo modo mostrava a mio credere piú cinismo che coraggio;  massime
che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l'inerzia, e  il
silenzio. Gli era un dire: "Se smoviamo un sasso, la casa  crolla!  non  fiatate
non tossite per paura che  ci  caschi  addosso".  Ma  il  confessarlo  in  pieno
Consiglio, lui, il primo magistrato della  Repubblica,  era  tale  vergogna  che
doveva fargli gettare come un'ignominia il corno ducale.  Almeno  il  procurator
Giorgio Pisani avea gridato che si  avvisasse  ai  cambiamenti  necessari  negli
ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad  effettuarsi,  se
ne consegnasse in pubblico atto la  memoria,  perché  i  posteri  compiangessero
l'impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la  sprovvedutezza,  non
ne sperdessero al vento le ceneri. Il Maggior Consiglio accettò invece il parere
del Doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani.
Quando poi sopito quel momentaneo fermento gli Inquisitori di Stato vennero alle
vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per  dieci  anni
il Pisani nel castello di Verona, mandarono il  Contarini  a  morir  esule  alle
Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita  voce
di biasimo o di pietà. Fu veduto, esempio unico nella storia, un  magistrato  di
giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica
avea giudicato utile, opportuno, decoroso. E questo sopportare senza  risentirsi
lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell'esiglio e nelle carceri coloro ai
quali avea commesso l'esecuzione dei proprii decreti. Cotale  era  l'ordinamento
politico, tale la pazienza del popolo veneziano. In verità, piuttostoché  vivere
a questo modo, o per accidente, come diceva il Serenissimo Doge,  sarebbe  stata
opera piú civile,  prudente  insieme  e  generosa,  l'arrischiar  di  morire  in
qualunque altra maniera. Di questo passo si toccò finalmente il giorno nel quale
la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che  colla  debole  voce  di
alcuni oratori  casalinghi.  Il  dí  medesimo  che  fu  decretata  a  Parigi  la
convocazione degli Stati generali, il 14  luglio  1788,  l'ambasciatore  Antonio
Cappello ne significò al Doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi
sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere,  e  i  modi  piú
opportuni da governarla. Ma gli  Eccellentissimi  Savi  gettarono  il  dispaccio
nella filza delle comunicazioni non lette; né il Senato ne ebbe contezza.  Bensí
gli Inquisitori di Stato  raddoppiarono  di  vigilanza;  e  cominciò  allora  un
tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni,  di
bandi che senza  diminuire  il  pericolo  ne  faceva  accorgere  l'imminenza,  e
manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio. Il  conte
Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e  le  segrete
trame delle Corti d'Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava  a  viva
voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che  non
era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con  alcuno  dei  contendenti.  Ma  la
Signoria non era avvezza a guardare oltre l'Adda e l'Isonzo: non capiva come  in
tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva
solo  utile  e  salutare  la  neutralità  non  prevedendo  che   sarebbe   stata
impossibile. Crescevano i fracassi di  fuori;  le  mormorazioni,  i  timori,  le
angherie di dentro. Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi  ad  una  calma
fiducia in se  stesso;  ed  uno  per  uno  tutti  governanti  avevano  in  cuore
l'indifferenza della disperazione. In tali condizioni molti vi  furono  che  piú
accorti degli altri si cavarono d'impiccio, partendo da Venezia. E cosí rimasero
al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i  pochissimi  studiosi  del
pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei  pezzenti.
L'Eccellentissimo  Almorò  Frumier,  cognato  del  Conte  di  Fratta,  possedeva
moltissime terre, e una casa magnifica a Portogruaro. Egli era  fra  quelli  che
senza vederci chiaro in quel subbuglio ne fiutavano da lontano il cattivo odore,
e avevano pochissima volontà di scottarsene le mani.  Perciò  d'accordo  con  la
moglie, che non rivedeva malvolentieri i  paesi  dove  la  sua  famiglia  godeva
privilegi quasi sovrani, si trapiantò egli a Portogruaro nell'autunno del  1788.
La salute della gentildonna che per ristabilirsi avea bisogno  dell'aria  nativa
serví di pretesto all'andata; giunti una volta,  s'erano  ben  proposti  di  non
rimetter piede a Venezia finché  l'ultima  nuvoletta  del  temporale  non  fosse
svanita. Due figliuoli che il nobiluomo  aveva,  tutelavano  abbondevolmente  in
Venezia gli interessi e il decoro della casa;  quanto  a  lui  l'ossequio  degli
illustrissimi provinciali e di tutta  una  città  lo  compensava  ad  usura  del
pericoloso onore di perorare in Senato. Con gran corredo di casse,  di  cassoni,
di poltrone, e di suppellettili, i due maturi sposini s'erano imbarcati  in  una
corriera; e sofferto angosciosamente  il  lungo  martirio  della  noia  e  delle
zanzare, in cinquanta ore di tragitto per paludi e  canali  erano  sbarcati  sul
Lemene alla loro villeggiatura. Cosí i Veneziani costumavano chiamare  ogni  lor
casa di terraferma, fosse a Milano o a Parigi nonché  a  Portogruaro.  Il  fiume
bagnava appunto il margine del loro giardino; e colà  appena  giunti  ebbero  la
consolazione di trovar raccolto quanto di meglio aveva la città in  ogni  ordine
di persone. Il Vescovo, monsignor di Sant'Andrea,  e  molti  altri  canonici,  e
preti e professori del Seminario, il  Vice-capitano  con  sua  moglie,  e  altri
dignitari  del  Governo;  il  Podestà  e  tutti  i  magistrati  del  Comune,  il
Soprintendente dei dazi, il Custode della Dogana colle loro rispettive consorti,
sorelle e cognate; da ultimo la nobiltà in frotta; e in cinquemila abitanti  che
sommava la terra, ve n'era tanta, da potersene  fornire  tutte  le  città  della
Svizzera che per disgrazia ne mancano. Da Fratta era  venuto  il  Conte  con  la
signora  Contessa  e  le  figlie,  il  fratello  monsignore   e   l'indivisibile
Cancelliere. Io poi, che nel frattempo avea  dato  di  me  grandi  speranze  con
rapidissimi progressi nel latino, aveva ottenuto la grazia segnalata di  potermi
arrampicare in coda alla carrozza; e cosí da  un  cantone,  inosservato,  mi  fu
concesso di godere lo spettacolo di quel solenne ricevimento. Il nobile patrizio
si diportò colla proverbiale affabilità dei Veneziani. Dal Vescovo  all'ortolano
nessuno fu fraudato del favore d'un suo sorriso; al  primo  baciò  l'anello,  al
secondo  diede  uno  scappellotto  coll'uguale  modestia.  Si  volse   poi   per
raccomandare i barcaiuoli che nello scaricare la mobilia si usassero particolari
riguardi alla sua poltrona; ed entrò in casa  dando  il  braccio  alla  cognata,
mentre sua moglie lo seguiva accompagnata dal  fratello.  Serviti  i  rinfreschi
nella gran sala di cui il vecchio patrizio lamentò i terrazzi troppo freschi, si
venne ai soliti riconoscimenti, ai soliti dialoghi. Belle  e  ben  cresciute  le
figliuole, la cognata ringiovanita, il cognato fresco come una rosa, il  viaggio
lungo caldo fastidioso, la città piú fiorente che mai, carissima  degnissima  la
società, gentile l'accoglimento; a queste cerimonie bisognò una buona ora.  Dopo
la quale le visite si accomiatarono; e rimasero in famiglia a dir molto bene  di
sé, e qualche piccolo male di coloro che erano partiti. Anche in questo peraltro
si adoperavano l'innocenza  e  la  discrezione  veneziana  che  s'accontenta  di
tagliar i panni senza radere le carni fino all'osso. Verso l'Avemaria quelli  di
Fratta tolsero congedo; ben intesi che le visite si  sarebbero  replicate  molto
sovente. Il nobiluomo Frumier aveva estremo bisogno di compagnia;  e  diciamolo,
anche l'illustrissimo Conte di Fratta non era poco superbo di  esser  parente  e
mostrarsi famigliare ed intrinseco d'un senatore. Le due  cognate  si  baciarono
colla punta delle labbra; i cognati si strinser la mano; le donzelle fecero  due
belle reverenze; e Monsignore  e  il  Cancelliere  si  scappellarono  fino  alla
predella della carrozza. Essi vi furono insaccati dentro alla bell'e meglio;  io
mi nicchiai al mio solito posto; e poi quattro cavalli di schiena ebbero un  bel
che fare a trascinar sul  ciottolato  il  pesante  convoglio.  L'Eccellentissimo
Senatore rientrò in sala abbastanza soddisfatto del  suo  primo  ingresso  nella
villeggiatura.  Portogruaro  non  era  l'ultima  fra  quelle  piccole  città  di
terraferma nelle quali  il  tipo  della  Serenissima  Dominante  era  copiato  e
ricalcato con ogni possibile fedeltà. Le  case,  grandi  spaziose  col  triplice
finestrone nel mezzo, s'allineavano ai due lati delle contrade, in  maniera  che
soltanto l'acqua mancava per completare la somiglianza  con  Venezia.  Un  caffè
ogni due usci, davanti a questo la  solita  tenda,  e  sotto  dintorno  a  molti
tavolini un discreto numero d'oziosi; leoni alati a  bizzeffe  sopra  tutti  gli
edifici pubblici; donnicciuole e barcaiuoli in perpetuo cicaleccio per le  calli
e presso ai fruttivendoli;  belle  fanciulle  al  balcone  dietro  a  gabbie  di
canarini o vasi di garofani e di basilico; su e giù per la podesteria e  per  la
piazza toghe nere d'avvocati, lunghe code di nodari, e riveritissime zimarre  di
patrizi; quattro Schiavoni in mostra dinanzi le carceri; nel canale  del  Lemene
puzzo d'acqua salsa, bestemmiar di paroni, e continuo  rimescolarsi  di  burchi,
d'ancore e di gomene; scampanio perpetuo delle chiese, e gran pompa di  funzioni
e di salmodie; madonnine di stucco  con  fiori  festoni  e  festoncini  ad  ogni
cantone; mamme bigotte inginocchiate  col  rosario;  bionde  figliuole  occupate
cogli amorosi dietro le porte; abati cogli occhi nelle fibbie delle scarpe e  il
tabarrino raccolto pudicamente sul ventre: nulla nulla insomma mancava a  render
somigliante al quadro la miniatura. Perfino i tre stendardi di San Marco avevano
colà nella piazza il loro riscontro: un'antenna  tinta  di  rosso,  dalla  quale
sventolava nei giorni solenni il vessillo della Repubblica. Ne volete di piú?...
I veneziani di Portogruaro  erano  riesciti  collo  studio  di  molti  secoli  a
disimparare il barbaro e bastardo friulano che si usa tutto all'intorno, e ormai
parlavano il veneziano con maggior caricatura dei veneziani stessi. Niente  anzi
li crucciava piú della dipendenza da Udine che  durava  a  testificare  l'antica
loro parentela col Friuli. Erano come il cialtrone  nobilitato  che  abborre  lo
spago e la lesina perché gli ricordano  il  padre  calzolaio.  Ma  purtroppo  la
storia fu  scritta  una  volta,  e  non  si  può  cancellarla.  I  cittadini  di
Portogruaro se ne vendicavano col prepararne una ben diversa pel futuro,  e  nel
loro frasario di nuovo conio l'epiteto di friulano equivaleva a quelli di rozzo,
villano, spilorcio e pidocchioso. Una volta usciti dalle porte della  città  (le
avean costruite strette strette come se stessero in aspettativa delle gondole  e
non delle carrozze e dei carri di fieno) essi somigliavano pesci fuori  d'acqua,
e veneziani fuori di Venezia. Fingevano di non conoscere il frumento  dal  grano
turco, benché tutti i giorni di mercato avessero piene di mostre le saccoccie; e
si fermavano a guardar gli alberi come i cani novelli, e si maravigliavano della
polvere delle strade, quantunque sovente le loro scarpe accusassero una diuturna
dimestichezza con essolei. Parlando coi campagnuoli per poco non dicevano: - voi
altri di terraferma! - Infatti  Portogruaro  era  nella  loro  immaginativa  una
specie di isola ipotetica, costruita ad immagine della Serenissima Dominante non
già in grembo al mare, ma in mezzo  a  quattro  fossaccie  d'acqua  verdastra  e
fangosa. Che non fosse poi terraferma lo significavano alla lor maniera le molte
muraglie e i campanili e le facciate delle case che pencolavano. Credo  che  per
ciò appunto ponessero cura a piantarle sopra deboli fondamenti.  Ma  quelle  che
erano proprio veneziane di tre cotte erano le signore. Le  mode  della  capitale
venivano imitate ed esagerate con la massima ricercatezza.  Se  a  San  Marco  i
toupé si alzavano di due oncie, a Portogruaro crescevano un  paio  di  piani;  i
guardinfanti vi si gonfiavano tanto, che un crocchio di dame diventava  un  vero
allagamento di merletti di seta e di guarnizioni. Le  collane,  i  braccialetti,
gli spilloni, le catenelle innondavano tutta la persona; non  voglio  guarentire
che le gemme venissero né da Golconda né dal  Perù,  ma  cavavano  gli  occhi  e
bastava. Del resto quelle signore si alzavano a mezzodí, impiegavano quattro ore
alla teletta, e nel dopopranzo si facevano delle visite. Siccome  a  Venezia  le
gran conversazioni erano di teatri, d'opere buffe e di tenori, esse si  tenevano
obbligate  a  discorrere  di  questi  stessi  argomenti;  cosí  il   teatro   di
Portogruaro, che stava aperto un mese ogni due anni, godeva il  raro  privilegio
di far parlare di sé un centinaio di bocche gentili per tutti  i  ventitré  mesi
intermedi. Esaurita questa materia si calunniavano a vicenda con  un'ostinazione
veramente eroica. Ognuna, ci s'intende, aveva il  suo  cicisbeo,  e  cercava  di
rubarlo alle altre. Taluna portava questa moda tant'oltre che  ne  aveva  due  e
perfino tre; con diritti variamente distribuiti. Chi  porgeva  la  ventola,  chi
l'occhialetto, il fazzoletto, o la scatola; uno aveva la felicità di scortar  la
dama a messa, l'altro di condurla al passeggio. Ma di quest'ultimo  divertimento
erano di stile molto  parche;  non  potendo  godere  le  divine  mollezze  della
gondola, e facendole raccapricciare la sola vista del  barbaro  movimento  della
carrozza, si vedevano costrette  di  uscir  a  piedi,  fatica  insopportabile  a
piedini veneziani. Qualche villanzone del contado, qualche zotico castellano del
Friuli osava dire che l'era  un'ultima  edizione  della  favola  della  volpe  e
dell'uva non matura, e che già di carrozza, anche a volerla con tutte  le  forze
dell'anima, non ne avrebbero potuto beccare. Io non saprei a chi dar ragione; ma
la gran ragione del sesso mi decide a favore di quelle signore. Infatti  ora  vi
sono a Portogruaro molte carrozze; e sí che gli scrigni nostri  non  godono  una
gran fama appetto a quelli dei nostri bisnonni. Gli è vero che a que' tempi  una
carrozza era cosa proprio da re; quando capitava quella dei Conti di Fratta  era
un carnovale per tutta la ragazzaglia della città. La sera, quando non  s'andava
a teatro, il giuoco produceva la notte  ad  ora  tardissima;  anche  in  ciò  si
correva dietro alla moda di Venezia, e se questa  passione  non  distruggeva  le
casate come nella capitale, il merito apparteneva alla prudente  liberalità  dei
mariti. Sui tappeti verdi invece dei zecchini correvano i soldi; ma  questo  era
un segreto municipale; nessuno  lo  avrebbe  tradito  per  oro  al  mondo,  e  i
forestieri all'udir ricordare le vicende, i batticuori, e i trionfi  della  sera
prima potevano benissimo credere  che  si  avesse  giocato  la  fortuna  di  una
famiglia per ogni partita e non già una petizza da venti soldi. Soltanto  presso
la moglie del Correggitore si passava questo limite per giungere fino  al  mezzo
ducato; ma l'invidia si vendicava di questa fortuna coll'accusar quella dama  di
avidità e perfino di  trufferia.  Alcune  veneziane  maritate  a  Portogruaro  o
accasatevi cogli sposi  per  ragioni  d'uffizio,  facevano  causa  comune  colle
signore del luogo contro il primato della signora Correggitrice. Ma costei aveva
la fortuna di esser bella, di saper mover la lingua  da  vera  veneziana,  e  di
dardeggiare le occhiate piú lusinghiere che potessero desiderarsi. I giovani  le
si affollavano intorno in chiesa, al caffè, in conversazione; ed io  non  saprei
dire se gli omaggi di questi le fossero piú graditi dell'invidia  delle  rivali.
La moglie del Podestà,  che  gesticolava  sempre  colle  sue  manine  bianche  e
profilate, pretendeva che le mani di lei fossero proprio da guattera; la sorella
del Soprintendente asseriva che l'aveva un occhio piú  alto  dell'altro;  e  ciò
dicendo allargava certi occhioni celesti che volevano essere i piú  belli  della
città e non rimanevano che i piú grandi. Ognuno notava nell'emula comune  brutte
e difettose quelle parti che in sé credeva perfette:  ma  la  bella  calunniata,
quando la cameriera le riportava queste gelose mormorazioni, si sorrideva  nello
specchio. Aveva due labbra cosí rosee, trentadue denti cosí piccioletti  candidi
e bene aggiustati, due guancie cosí rotonde  e  vezzeggiate  da  due  fossettine
tanto amorose, che solo col sorriso pigliava  la  rivincita  di  quelle  accuse.
Potete figurarvi che la nobildonna Frumier appena arrivata ebbe  subito  intorno
una gran ressa di queste leziose. Come donna era dessa in  vero  d'età  piú  che
matura; come veneziana aveva dimenticato la fede di  nascita,  e  nelle  maniere
nelle occhiate  nell'acconciatura  ostentava  la  perpetua  gioventù  che  è  il
singolar privilegio delle sue concittadine. Di veneziane, come dissi, ne  viveva
a Portogruaro un buon numero; ma tutte appartenenti o al  ceto  mezzano  o  alla
minuta nobiltà. Una gran dama, una gentildonna di gran  levatura  esercitata  in
tutti gli usi in tutti i  raffinamenti  della  conversazione,  mancava  in  fino
allora. Perciò furono beate di possederne alla fine  un  esemplare;  di  poterlo
contemplare, idoleggiare, e copiare a  loro  grado;  di  poter  dire  infine:  -
Guardate! io parlo, io rido, io vesto, io cammino come la senatoressa Frumier. -
Costei, furba come il diavolo, si prese grande spasso da tali disposizioni.  Una
sera chiacchierava piú di una gazza; e il giorno dopo aveva il  divertimento  di
veder quelle signore giocar tra loro a chi dicesse piú parole in un minuto. Ogni
crocchio si cambiava in un vero passeraio. Un'altra volta faceva la languida  la
patita: non parlava che a  voce  sommessa  e  a  singulti;  tosto  le  ciarliere
diventavano mutole; e pigliavano il contegno d'altrettante puerpere.  Un  giorno
ella scommise con un gentiluomo venuto da Venezia di far  metter  in  capo  alle
principali di quelle dame penne di cappone. Infatti ella si mostrò  in  pubblico
con questo bizzarro adornamento sul toupé, e il giorno  stesso  la  podestaressa
spiumò tutto un pollaio per ornarsi la testa a quel modo.  Però  fu  essa  tanto
clemente verso i capponi della città da non insistere in quella moda; altrimenti
in capo a tre giorni non ve ne sarebbe rimasto  uno  col  vestimento  che  mamma
natura gli diede. La conversazione della gentildonna Frumier eclissò di colpo  e
attirò a sé tutte le altre. Queste non restarono che  premesse  o  corollari  di
quella. Vi si preparavano i bei motti, le occhiatine ed  i  gesti  per  la  gran
comparsa; o vi si ripeteva quello che la sera prima avevano  detto  e  fatto  in
casa Frumier. Aggiungiamo che in questa casa il caffè vi  si  sorseggiava  assai
migliore che nelle  altre,  e  che  di  tanto  in  tanto  qualche  bottiglia  di
maraschino, e qualche torta delle monache di San Vito variavano  i  divertimenti
della brigata. Anche il nobiluomo dal canto suo  aveva  trovato  pane  pe'  suoi
denti. Senza mostrarsi in pratica diverso  da'  suoi  nonni,  egli  era  intinto
accademicamente della filosofia moderna: e sapeva citare all'uopo col suo  largo
accento veneziano qualche frase di Voltaire e di Diderot. Tra i  curiali  e  nel
clero della città non mancavano spiriti curiosi ed  educati  come  il  suo,  che
dividevano scrupolosamente la dottrina dalla  realtà,  e  cosí  conversando  non
temevano di porre in questione ed anco di negare quello che,  se  occorreva  poi
per ragion di mestiero, avrebbero professato certo e indubitabile.  Si  sa  come
erano larghe le consuetudini del secolo scorso su  questo  capitolo;  a  Venezia
eran piú larghe che altrove; a  Portogruaro  larghissime  fuori  d'ogni  misura,
perché anche gli uomini come le donne non si accontentavano di  seguir  soltanto
l'esempio della capitale, ma andavano oltre coraggiosamente.  Per  citarne  uno,
monsignor di Sant'Andrea, il piú sillogistico teologo del  Capitolo,  una  volta
uscito dalla Curia e seduto a ragionare in confidenza  coi  pari  suoi,  non  si
vergognava di ritorcer la punta a  molti  de'  proprii  sillogismi.  E  fra  gli
abatini piú giovani ve n'avea taluno che in fatto  di  opinioni  arrischiate  si
lasciava forse addietro tutti i medici della città. I medici, fra parentesi, non
erano nemmeno allora in gran voce di spiritualisti. Peraltro,  fra  i  lavoranti
della vigna del Signore, v'era un partito rozzo incorruttibile tradizionale  che
si opponeva colla pesante forza dell'inerzia all'invasione di questo scetticismo
elegante ciarliero e un  po'  anche  scapestrato.  Infatti  se  qualche  vecchio
sacerdote di manica larga pegli altri, serbava nella propria vita la  semplicità
e l'integrezza dei costumi sacerdotali, era proprio un caso  raro;  in  generale
vecchi o giovani chi  sdrucciolava  nell'anarchia  filosofica  non  dava  grandi
esempi né di pietà, né di castità, né delle altre virtù  comandate  specialmente
al clero. Un cotale rilassamento delle  discipline  canoniche  e  l'indifferenza
dogmatica che lo cagionava non potevano garbare ai veri preti; dico a coloro che
avevano studiato con cieca fiducia la Somma di san Tommaso, ed erano  usciti  di
seminario colla ferma persuasione della verità immutabile della  fede,  e  della
santità del proprio ministero. Costoro, meno proprii per la  loro  rigidezza  di
coscienza e per l'austerità delle maniere al consorzio della gente  signorile  e
ai destreggiamenti morali della città, si adattavano mirabilmente al patriarcale
governo delle cure campagnuole. La montagna è  il  solito  semenzaio  del  clero
forese e questo partito ch'io chiamerei tradizionale si afforzava e si rinnovava
massimamente nelle frequenti vocazioni della gioventù  di  Clausedo,  che  è  un
grosso paese alpestre della diocesi. I secolareschi invece (cosí dagli avversari
venivano designati quelli  che  per  opinioni  e  costumi  si  accostavano  alla
sbrigliatezza secolare) uscivano dalle  comode  famiglie  della  città  e  della
pianura. Nei primi la gravità il riserbo  la  credenza  se  non  l'entusiasmo  e
l'abnegazione sacerdotale si perpetuavano  da  zio  in  nipote,  da  piovano  in
cappellano; nei secondi la coltura classica, la libertà  filosofica,  l'eleganza
dei modi, e la tolleranza religiosa erano instillate  dai  liberi  colloqui  nei
crocchi famigliari; si facevano preti o spensieratamente per ubbidienza,  o  per
golaggine d'una vita commoda e tranquilla. Sí i primi che i  secondi  avevano  i
loro rappresentanti i loro difensori nel Seminario, nella Curia e nel  Capitolo;
a volte quelli, a volte questi  aveano  soverchiato;  ed  ogni  vescovo  che  si
succedeva  nella  diocesi  era  accusato  di  favorire  o  i  secolareschi  o  i
clausetani. Clausetani  e  secolareschi  si  osteggiavano  a  vicenda;  gli  uni
accusati d'ignoranza, di tirannia, di nepotismo, di taccagneria;  gli  altri  di
scostumatezza, di miscredenza,  di  cattivo  esempio,  di  mondanità.  La  città
parteggiava in genere per questi, il contado per quelli; ma  i  clausetani,  per
indole propria e delle massime che difendevano, erano piú concordi  fra  loro  o
meglio regolati. Mentre invece nei loro antagonisti la petulanza e la leggerezza
individuale escludevano qualunque ordine, qualunque metodo di condotta. Ciò  non
toglie peraltro che le dissenzioni del clero non alimentassero piú  del  bisogno
il pettegolezzo delle conversazioni; e i vivaci abatini di bella vita, se non si
compensavano, si vendicavano almeno coll'impertinenza e  colla  mordacità  della
maggiore influenza che gli avversari s'avevano acquistata con  secoli  e  secoli
d'austerità, e di perseveranza. Le giovani signore erano disposte a favorire  le
loro parti; soltanto qualche vecchia paralitica teneva  pei  rigoristi;  effetto
d'invidia piú che di persuasione. Insomma voleva dire  che  il  nobile  Senatore
trovò anche nel clero un crocchio sceltissimo di conversatori, i quali, tagliati
sul suo stampo, avvezzi al suo stesso modo di vedere e uguali a lui di  studi  e
di coltura, potevano fargli passare  delle  ore  molto  piacevoli.  Gli  piaceva
conversare, ragionare, discutere  alla  libera;  raccontare  e  udir  raccontare
novelle e burlette piuttosto leste; e infiorar il discorso di barzellette  e  di
proverbia senzaché qualche schizzinosa torcesse il naso. Lí trovò  gente  a  suo
modo. Neppur le pallottole di mercurio si corrono dietro e si fondono con  tanta
pertinacia, come i  simili  e  i  consenzienti  in  una  società.  Perciò  nella
conversazione del Senatore un crocchio si formò a poco a poco, si  divise  dagli
altri e prese posto intorno al padrone di casa. Tutti  è  vero  avrebbero  avuto
voglia di entrarvi; ma non tutti hanno il coraggio di assistere ad  una  disputa
senza intenderla, di ridere quando gli altri ridono, senza capire il perché,  di
pigliar un pestone sui piedi seguitando a mostrar il viso allegro, e  di  restar
in mezzo ad un numero di brave persone senza essere interrogato  né  arrischiare
una parola. Gli ignoranti adunque, gli sciocchi, gli ipocriti, i costumati se ne
ritrassero bentosto; e rimase l'oro purissimo  della  classe  raffinata,  dotta,
motteggiatrice. Rimasero il canonico di Sant'Andrea, l'avvocato Santelli,  altri
due o tre curiali, il dottorino Giulio  Del  Ponte,  il  professor  Dessalli,  e
qualche altro professore di belle lettere, un certo don Marco Chierini, riputato
il tipo piú perfetto dell'abate elegante, e tre o quattro conti e  marchesi  che
aveano saputo unire l'amore  dei  libri  a  quello  delle  donne,  e  lo  studio
dell'antichità colle costumanze moderne. Anzi giacché  ci  son  cascato  gioverà
notare che non si poteva allora esser educati e compiti senza  aver  su  per  le
dita le costituzioni di Sparta e d'Atene. Le parlate di Licurgo  di  Socrate  di
Solone e di Leonida  erano  i  temi  consueti  delle  esercitazioni  ginnasiali:
curiosissima contraddizione in tanta servilità e cecità d'obbedienza,  in  tanta
noncuranza di virtù e di libertà. Il fatto sta che, mentre le dame ed  il  resto
della comitiva trinciavano mazzi  di  carte  ai  tavolini  del  tresette  e  del
quintilio, la piccola accademia del Senatore si raccoglieva  in  un  angolo  del
salone a cianciar di politica, e a  motteggiare  sulle  novelle  piú  scandalose
della città. Era una musica la piú variata, una vera opera semiseria,  piena  di
motivi ridicoli e sublimi, buffi e serii, allegri e maligni; un intralciarsi  di
contese, di frizzi, di reticenze e di racconti  che  somigliava  un  mosaico  di
parole; vero capo d'opera dell'ingegno  veneziano  che  coll'arte  di  Benvenuto
Cellini sa farsi ammirare perfino  nelle  minuzie.  Si  parlava  delle  cose  di
Germania e di Francia nella maniera piú liberale; si commentavano  i  viaggi  di
Pio VI, le mire di Giuseppe II, le intenzioni della Russia, e  i  movimenti  del
Turco. Si portavano in mezzo le  autorità  piú  disparate  di  Macchiavelli,  di
Sallustio, di Cicerone e dell'Aretino; si raffrontavano le vicende d'allora  coi
capitoli  di  Tito  Livio;  e  a  cosí  gravi  ragionamenti   non   si   cessava
dall'alternare lo scherzo, e la risata. Ogni appiglio per burlare era buono. Chi
ha cercato in Inghilterra i creatori dell'umorismo non visse  mai  certamente  a
Venezia, né mai passò per Portogruaro. Vi avrebbe trovato, frutto di lunghi ozii
secolari,  di  ottimi   stomachi   e   d'ingegni   pronti   allegri   svegliati,
quell'umorismo meridionale che tanto si distingue dal settentrionale  quanto  la
nebbia notturna del palude dall'orizzonte lucente e vaporoso d'un  bel  tramonto
d'estate. La vita e le cose che sono in essa, disprezzate  ugualmente;  ecco  la
parentela; ma perciò appunto volte tutte alla spensieratezza alla gioia; ecco la
diversità.  In  Inghilterra  invece  danno  in   melanconie,   si   rodono,   si
appassionano, si ammazzano. Sono due immoralità, o due pazzie  diverse;  ma  non
voglio decidermi per nessuna delle due. Il cervello forse correrebbe da un parte
e il cuore dall'altra secondoché s'apprezza meglio o la dignità  o  la  felicità
umana. Intanto io vi assicuro che per quei capi ameni il saltare dagli  scandali
di Caterina II alle avventure della tal  dama,  e  del  tal  cavaliere  era  uno
scambietto da nulla. Il nome d'una persona ne  tirava  in  ballo  altre  due;  e
queste quattro e cosí innanzi sempre. Non si rispettavano  né  i  lontani  né  i
presenti; e questi avevano il buon gusto di  sopportare  lo  scherzo  e  di  non
ricattarsene tosto ma di aspettare il  momento  opportuno  che  già  arrivava  o
presto o tardi. Molta cultura, piuttosto superficiale  se  volete,  ma  vasta  e
niente affatto pedantesca,  moltissimo  brio,  grande  snellezza  di  dialogo  e
soprattutto un'infinita dose di tolleranza componevano la conversazione di  quel
piccolo areopago di buontemponi, come  io  ho  voluto  descriverla.  Badate  che
adopero la parola buontemponi non sapendo come tradurre meglio  quella  francese
di viveurs che prima m'avea balenato in mente. Avendo vissuto assai con francesi
questo incommodo mi disturba sovente; e non ho sempre tanta conoscenza della mia
lingua da disimpacciarmene  bene.  Qui  per  esempio  scrissi  buontemponi,  per
significar coloro che fanno lor pro' della vita come la porta il caso; pigliando
cosí da essa come dalla filosofia la parte allegra e godibile. Del resto se  per
buontempone s'intende un ozioso un gaudente materiale, nessuno di  quei  signori
era tale. Tutti avevano le loro occupazioni, tutti davano all'anima la sua parte
di piaceri; soltanto li pigliavano per piaceri,  non  per  obblighi  e  vantaggi
morali. D'accordo sempre che spiritoso e spirituale sono  epiteti  piú  contrari
che sinonimi. I signori di Fratta, liberati finalmente da quello spauracchio del
Venchieredo, s'erano rimessi alla solita vita. Il Cappellano avea serbato la sua
cura, e non cessava dall'accogliere in casa almeno una  volta  al  mese  il  suo
vecchio amico e penitente, Spaccafumo. Il Conte e il Cancelliere  chiudevano  un
occhio; il piovano di Teglio gliene faceva  qualche  ramanzina.  Ma  lo  sparuto
pretucolo, che non poteva balbettar risposta  alle  intemerate  d'un  superiore,
sapeva imbeversene ottimamente e seguitar a suo modo  non  appena  il  superiore
avesse voltato le spalle. Intanto per ragioni d'ufficio e di vicinanza il dottor
Natalino di Venchieredo s'era accostato al Conte ed al cancelliere di Fratta. Il
signor Lucilio, amicissimo di Leopardo Provedoni, avea fatto conoscenza con  sua
moglie; e cosí un passo dopo l'altro anche la  vispa  Doretta  comparve  qualche
volta alle veglie del castello. Ma oggimai due  sere  per  settimana  c'era  ben
altro che veglia! Si doveva  andarne  a  passar  la  sera  a  Portogruaro  nella
conversazione di Sua Eccellenza  Frumier.  Impresa  pericolosissima  con  quelle
strade che c'erano allora; ma pur la Contessa ci teneva tanto di  non  mostrarsi
dammeno della cognata, che trovò coraggio di tentarla. Una delle  figliuole  era
già da marito, l'altra cresceva su come la mala erba; la prima  intinta  appena,
la seconda vergine affatto di qualunque educazione, bisognava condurle nel mondo
perché pigliassero qualche disinvoltura. E poi bisognava farsi avanti perché gli
sposatori ragionano anzi tutto  cogli  occhi  e  quelle  due  pettegole  non  ci
perdevano nulla ad esser guardate. Questi furono gli argomenti  messi  in  campo
dalla signora per persuadere il marito ad avventurarsi colla carrozza due  volte
per settimana sulla strada di Portogruaro. Prima peraltro il prudentissimo Conte
mandò una dozzina di lavoratori che  riattassero  la  strada  nei  passaggi  piú
scabrosi e nelle buche piú profonde; e volle che il cocchiere guidasse i cavalli
di passo, e che due lacchè coi lampioni precedessero  il  legno.  I  due  lacchè
furono Menichetto figliuolo di Fulgenzio e Sandro del mulino, ai quali si  buttò
addosso per pompa una veste scarlatta ritagliata da due  vecchie  gualdrappe  di
gala. Io montava sulla predella di dietro e per tutta la strada che era  di  tre
buone miglia mi divertiva a guardar la Pisana pel finestrino  del  mantice.  Per
cosa poi dovessi accompagnarli anch'io in quelle  visite  durante  le  quali  io
restava a dormicchiare nella cucina del Frumier, ve lo spiegherò  ora.  Come  il
Conte si tirava dietro il Cancelliere, cosí il Cancelliere si tirava dietro  me.
Io era, in poche parole, l'ombra dell'ombra; ma in questo caso il farla da ombra
non mi spiaceva gran fatto poiché mi porgeva il pretesto di seguitar  la  Pisana
fra la quale e me gli amori continuavano di  gran  cuore  interrotti  e  variati
dalle solite gelosie, rannodati sempre dalla necessità e dall'abitudine. Fra  un
giovinetto di tredici anni e una fanciulla di undici, cotali intrighetti non son
piú cosa da prendersi a gabbo. Ma io ci pigliava gusto, ella del pari in difetto
di meglio, i suoi genitori non si davano fastidio di nulla, e le cameriere e  le
fantesche dopo le mie gesta memorabili  e  il  mio  tramutamento  in  alunno  di
cancelleria aveano preso a riverirmi come un piccolo signore, e a lasciarmi fare
il piacer mio d'ogni cosa. I giochetti continuavano dunque facendosi seri sempre
piú: ed io andava già architettando certi romanzi che se li volessi contar  ora,
queste mie confessioni andrebbero all'infinito. Comunque la sia, anche ne'  miei
sentimenti qualche cambiamento era succeduto; ché mentre una  volta  le  carezze
della Pisana mi sembravano tutta bontà sua, allora invece, sentendomi  cresciuto
d'importanza, ne dava la loro parte anche ai miei meriti. Capperi!  Dal  piccolo
Carletto dello spiedo,  vestito  coi  rifiuti  della  servitù  e  coi  cenci  di
Monsignore, allo scolare di latino ben pettinato con un bel  codino  nero  sulle
spalle, ben calzato con due piccole fibbie di ottone,  e  ben  vestito  con  una
giubberella di velluto turchino, e le brache color granata, ci correva  la  gran
differenza! - Cosí pure la mia pelle non rimanendo piú esposta al  sole  e  alle
intemperie s'era di molto incivilita. Scopersi che la era perfino bianca, e  che
i miei grandi occhi castani  valevano  quanto  quelli  di  qualunque  altro;  la
corporatura mi cresceva alta e svelta ogni  giorno  piú;  aveva  una  bocca  non
disaggradevole, e dentro una bella fila di denti,  che  se  non  stavano  troppo
vicino per non darsi noia, splendevano tuttavia come l'avorio.  Soltanto  quelle
maledette orecchie, colpa le tirate del Piovano, prendevano troppo spazio  nella
mia fisonomia; ma tentava di correggere il difetto  dormendo  una  notte  su  un
fianco e una notte sull'altro per dar loro una piega piú estetica. Basta! me  le
palpo ora e m'accorgo di esservi riescito mediocremente. Martino peraltro non si
stancava dall'ammirarmi  dicendomi:  -  È  proprio  vero  che  la  bellezza  per
isbocciare vuol essere strapazzata. Va' che tu sei il piú bel Carlino di tutti i
dintorni, e sí che sei nato dalla cenere del focolare e la piú parte  del  latte
te  l'ho  data  io.  -  Il  pover'uomo  diventava  gobbo  mano  a  mano  che  io
m'ingrandiva; oramai le forze gli mancavano; grattava il formaggio stando seduto
e non ci udiva piú a sbarrargli i cannoni nell'orecchio. Niente importava; io  e
lui seguitavamo a intendercela a cenni e credo che il restar solo al mondo e  il
viverci senza di me sarebbe stata per lui uguale disgrazia. Quanto alla  padrona
vecchia egli saliva sí a tenerle compagnia durante le assenze della Clara, ma la
diversità di abitudini, la lontananza in cui vivevano,  negavano  loro  lo  aver
comuni quei segni d'intelligenza con cui si arriva a  farsi  capire  dai  sordi.
Intanto la comparsa dei nobili signori di  Fratta  e  massime  della  contessina
Clara nella conversazione di casa Frumier aveva introdotto in  questa  il  nuovo
elemento dei castellani e dei signorotti  campagnuoli.  Non  mancò  di  accorrer
prima il Partistagno, il quale, dopo il  soccorso  portato  al  castello  contro
l'assalto del Venchieredo, era divenuto per la famiglia  una  specie  di  angelo
custode. Egli poi, convien dirlo, portava abbastanza superbamente  l'aureola  di
questa gloria; ma i fatti stavano per lui, e si poteva riderne  non  negargliene
il diritto. Lucilio ci pativa molto  di  questo  altiero  contegno  del  giovine
cavaliere, ma i suoi patimenti erano piú d'invidia che di  gelosia.  Gli  doleva
piucchealtro che il servigio prestato dal Partistagno ai Conti di Fratta non  lo
si dovesse invece a lui. Del resto viveva sicuro della Clara: ogni  occhiata  di
lei lo confortava di nuove  speranze;  perfino  la  serenità  colla  quale  essa
accettava le cortesie del Partistagno gli era caparra che giammai un pericolo lo
avrebbe minacciato da quella parte. Come non affidarsi interamente a quel  cuore
cosí puro, a quella coscienza cosí retta e fervorosa? Molte volte egli le  aveva
parlato da solo a sola, o  nel  tinello  o  nelle  passeggiate,  dopo  la  prima
dichiarazione del loro amore; quasi tutti i giorni aveva passato un'ora con  lei
nella camera della nonna, e sempre piú  si  era  invaghito  di  quella  bellezza
innocente ed angelica, di quel  cuore  verginale  e  fervoroso  nella  sua  muta
tranquillità. Quell'indole focosa e  tirannica  avea  bisogno  di  un'anima  ove
riposarsi colla quieta sicurezza d'un affetto. L'aveva trovata,  l'aveva  amata,
come il cappuccino morente ama la sua parte di cielo; e col cuore e coll'ingegno
e colle mille  arti  d'uno  spirito  immaginoso  e  d'una  volontà  onnipotente,
s'adoperava di legare a sé con modi sempre nuovi quell'altra parte necessaria di
se stesso che viveva in  Clara.  Costei  cedeva  deliziosamente  a  tanta  forza
d'amore; amava, la giovinetta, con quanta forza aveva nell'anima; e non  pensava
piú in là, perché Dio proteggeva la sua innocenza, la sua felicità, ed ella  era
abbastanza felice di non temer nulla di non dover  arrossire  di  nulla.  Quella
massima tetra e bugiarda che vieta alle zitelle l'amore, come una perversità  ed
una colpa, non era mai entrata negli articoli della sua  religione.  Amare  anzi
era la sua legge; e le aveva ubbidito e le ubbidiva santamente. Cosí non si dava
ella nessuna cura di nascondere quel  dolce  sentimento  che  Lucilio  le  aveva
inspirato; e se il Conte e la Contessa non se n'accorsero,  fu  forse  solamente
perché la cosa, secondo loro, era tanto  fuori  d'ogni  verisimiglianza  da  non
consentir  nemmeno  il  sospetto.  D'altronde  alle  zitelle  d'allora  non  era
assolutamente proibito d'innamorarsi di chichessia: bastava che la passione  non
andasse oltre. La gente di casa bisbigliava già che quando la Contessina sarebbe
maritata il dottor Lucilio sarebbe stato il suo cavalier servente. Ma un  giorno
che la Rosa disse al giovine qualche scherzo sopra questo soggetto,  mi  ricordo
averlo veduto impallidire e mordersi i mustacchi colla peggior bile  del  mondo.
Anche la vecchia Contessa, a mio credere, aveva scoperto il mistero della Clara;
ma la era essa troppo incapricciata del giovine per torselo dattorno a vantaggio
della  nipote.  Forse   anche   l'immaginazione   sua,   ancella   inconsapevole
dell'interesse, la facea trovare mille argomenti per escludere quelle paure.  Al
postutto Lucilio, pensava ella, mostravasi tanto  guardingo,  che  la  Clara  si
sarebbe calmata. Conosceva ella o credeva di conoscere, la buona vecchia, quelle
belle nuvole dorate che attraversano la fantasia delle ragazze. - Ma son nuvole,
- diceva ella, - nuvole che passano al primo soffio di vento!  -  Il  soffio  di
vento sarebbe stata l'offerta d'un buon partito, e il comando  dei  parenti.  Ma
quanto ella conoscesse l'indole della Clara e la  somiglianza  di  questa  colla
propria lo vedremo in seguito. Certo peraltro il riservato contegno  di  Lucilio
giovò ad addormentarla nella sua commoda sicurezza; e se le  si  fosse  lasciato
veder bene a  fondo  nelle  cose,  forse  che  ella  non  avrebbe  creduto  cosí
facilmente alla docile  fuggevolezza  di  quelle  nuvole,  e  sarebbe  giunta  a
privarsi delle ultime delizie che le rimanevano, per togliere nei due giovani  i
primi fondamenti a quei castelli in aria affatto  impossibili.  Ma  restando  le
cose come erano ella godeva di potersi fidare  nella  discrezione  e  nel  calmo
temperamento di Clara, e di dire anco fra sé quando costei usciva  dalla  stanza
per far lume a Lucilio: "Oh il giovane prudente e dabbene! Non  si  direbbe  che
egli ha paura di alzar gli occhi perché non si creda che gli stia  a  cuore  mia
nipote? Se li alza gli è solamente per guardar me, e alla  sua  età!!  Basta!  è
veramente miracoloso!" Ma Lucilio aveva altri momenti, per lasciar  l'anima  sua
spiccar il volo a sua posta; e in quei momenti bisogna  confessarlo,  quei  suoi
occhi cosí discreti e dabbene commettevano non pochi peccati d'infedeltà a danno
della nonna. In tinello quando tutti giocavano ed egli sembrava  attentissimo  a
sorvegliar il tresette di Monsignore, o intento ad accarezzare Marocco, il  cane
del Capitano, tra lui e la Clara era un dialogo continuo d'occhiate, che  faceva
l'effetto di  una  voce  angelica  che  cantasse  in  cuore  mentre  ci  ferisce
l'orecchio un tumulto di campane rotte.  Oh  cari  e  sempre  cari  quei  divini
concenti che beatificano  le  anime  senza  incommodare  il  rozzo  tamburo  dei
timpani! La religione delle cose insensibili e quella delle  eterne  si  sposano
nella mente come il colore e la luce nel raggio  del  sole.  Il  sentimento  nel
pensiero è il piú bel trionfo sulla sensazione nel corpo; esso prova che l'anima
vive fuori di sé anche senza il ministero  delle  cose  materiali.  L'amore  che
principia nello spirito non può finir colla carne; esso  vince  la  prova  della
fragilità umana per tornar puro ed eterno nell'immenso amore del Dio universale.
E Lucilio sentiva la divina magia di questi pensieri senza farsene  ragione  nel
suo criterio di medico. Gli parevano fenomeni  fuori  di  natura;  e  tornava  a
rivolgerli e a studiarli senza guadagnarne altro che un nuovo fervore e una  piú
ostinata tenacia di  passione.  Quando  la  Clara  fu  condotta  da'  suoi  alla
conversazione della zia, il dottorino di Fossalta trovò assai facilmente il modo
di penetrare colà. Il galateo veneziano non fu  mai  cosí  ingiusto  da  vietare
l'ingresso delle aule patrizie alla buona educazione, al  giocondo  brio  ed  al
vero merito, se anche uno stemma inquartato non  dava  risalto  a  queste  buone
qualità. Lucilio  era  molto  stimato  a  Portogruaro,  e  godeva  il  favore  e
l'intrinsichezza di alcuni giovani professori del Seminario. Fu dunque  da  loro
presentato all'illustre Senatore; e questi in breve ebbe campo a ringraziarli di
ciò come d'un segnalato favore. Egli conosceva del resto da molti e  molti  anni
il dottor Sperandio, che ricorreva a lui in ogni cosa  che  gli  abbisognasse  a
Venezia. Si lamentò adunque garbatamente col figlio del suo vecchio amico perché
avesse creduto necessaria la malleveria di terze persone a potersi presentare in
sua casa. Nel dargli commiato, la prima sera, si congratulò secolui che il  bene
dettogli di lui fosse un nulla in confronto a quello che egli stesso ne  avrebbe
dovuto dire in seguito. Il giovane s'inchinò modestamente fingendo di non trovar
parole per rispondere a tanta gentilezza. La conversazione di  Lucilio  era  per
verità cosí vivace cosí amabile e variata, che pochi davano piacere  quanto  lui
soltanto ad udirli parlare; il solo professor Dessalli lo vinceva  d'erudizione,
e fra esso e Giulio Del Ponte si poteva star in sospeso per la palma del brio  e
dell'arguzia.  Se  quest'ultimo  lo  sorpassava  talvolta  in  prontezza,  e  in
abbondanza, Lucilio prendeva tosto la rivincita  colla  profondità  e  l'ironia.
Egli piaceva agli uomini come senno  maturo;  Giulio  aveva  la  gioventù  dello
spirito e incantava le simpatie. Ma il far pensare lascia negli animi tracce piú
profonde che il far ridere; e non v'è simpatia che non si  scolori  ad  un  solo
raggio d'ammirazione. Questa, anziché essere come la prima un dono  grazioso  da
eguale ad eguale, è un vero tributo imposto dai grandi ai piccoli, e dai potenti
ai deboli. Lucilio sapeva imporlo valorosamente, ed  esigerlo  con  discrezione.
Laonde erano costretti a pagarlo di  buona  moneta  e  ad  essergli  per  giunta
riconoscenti. Il crocchio particolare del Senatore per la presenza di Lucilio si
ravvivò d'una subita fiamma  d'entusiasmo.  Egli  animava  accendeva  trascinava
tutti quegli spiriti azzimati  cincischiati,  ma  tiepidi  e  cascanti.  Al  suo
contatto quanto v'era di giovane  e  di  vivo  in  loro  fermentò  d'un  bollore
insolito. Si dimenticavano quello ch'erano stati e quello che erano, per torre a
prestanza  da  lui  un  ultimo  sogno   di   giovinezza.   Ridevano   ciarlavano
motteggiavano disputavano non piú come gente intesa ad uccider il tempo, ma come
persone frettolose di indovinarlo, di maturarlo. Pareva che la vita di  ciascuno
di essi avesse trovato uno scopo. Una bocca sola nelle cui parole respirava  una
speranza eccelsa e misteriosa, una sola fronte sulla quale splendeva la fede  di
quell'intelligenza che mai non muore, avean potuto cotanto. Il Senatore  rimasto
solo e ricaduto nella solita indifferenza stupiva a tutto potere di  quei  caldi
intervalli d'entusiasmo, di quel furor battagliero di contese e di  alterchi  da
cui si sentiva trasportato come uno scolaretto. Accagionava di ciò  l'esempio  e
la vicinanza dei piú giovani; era invece la fiamma della vita, che rattizzata in
lui  da  un  potente  prestigiatore,  non  potendo  scaldargli  le   fibre   già
agghiacciate del cuore, gli empiva il capo di fumo e gli infervorava la  lingua.
"Si  crederebbe  quasi  ch'io  prendessi  sul   serio   le   sofisticherie   che
s'impasticciano per passar l'ora", andava egli pensando mentre aspettava la cena
nella classica poltrona "e sí che da quarant'anni io non ho odorato  la  polvere
venerabile del collegio! Sarà forse vero che gli uomini non son altro che eterni
fanciulli!". - Eterni, eterni! - mormorava il  vecchio  accarezzando  le  guance
flosce e grinzose -  volesse  il  Cielo!  Dopoché  Lucilio  era  sopraggiunto  a
sbraciare l'entusiasmo dei cortigiani  del  Senatore,  coloro  che  sedevano  ai
tavolini del giuoco,  le  signore  principalmente,  soffrivano  delle  frequenti
distrazioni. Quel chiasso continuo di domande,  di  risposte,  di  accuse  e  di
difese, di scherzi, di risate, di esclamazioni e di applausi moveva un  poco  la
curiosità, e, diciamolo, anche  l'invidia  dei  giocatori.  I  divertimenti  del
quintilio e le commozioni del tresette erano di gran lunga meno vibrate;  quando
un cappotto aveva  originato  le  solite  ironiche  congratulazioni,  le  solite
minacce di rivincita, tutto finiva lí, e si tornava come  rozze  di  vettura  al
monotono andare e venire della partita. Invece di quel  cantone  della  sala  la
conversazione s'avvicendava sempre varia allegra generale animata.  Gli  orecchi
cominciarono a tendersi verso colà, e gli occhi ad invetrarsi sulle carte. -  Ma
signora, tocca a lei. Ma dunque non ha capito la sfida! - Scusi, ho  un  po'  di
mal di capo; - ovvero:  -  Non  ho  badato;  aveva  la  testa  via!  -  Cosí  si
bisticciavano da un lato all'altro dei tavolini, e le colpevoli si  rimettevano,
sospirando a giocare. Lucilio ci entrava non poco in tutti quei sospiri, ed egli
lo sapeva. Sapeva l'effetto da lui prodotto sulla conversazione del Senatore,  e
se ne riprometteva di rimbalzo una generosa gratitudine da  parte  della  Clara.
L'amore ha un orgoglio tutto suo. Da un lato si cerca d'ingrandire  per  piacere
di piú, dall'altro s'insuperbisce di veder piacere a molti quello che piace e si
studia solamente di piacere a noi. Giulio  Del  Ponte,  che  forse  al  pari  di
Lucilio aveva fra le  signore  qualche  motivo  per  voler  rendersi  piacevole,
aguzzava il proprio ingegno per tener bordone al  compagno.  E  il  resto  della
compagnia rimorchiata dai due giovani gareggiava di prontezza e di brio, nei piú
gravi  ragionamenti  che  si  potessero  instituire  sopra  alcune  frasi  della
"Gazzetta di Venezia", la mamma anzi  l'Eva  di  tutti  i  giornali.  Infatti  i
Veneziani di quel tempo dovevano inventare e inventarono la Gazzetta: essa fu un
parto genuino e legittimo della loro immaginazione, e solamente ad essi si stava
ad aprire la biblioteca delle chiacchiere. Il Senatore riceveva  ogni  settimana
la sua gazzetta sulla quale si facevano grandi  commenti;  ma  anche  in  questo
lavorio di finitura e d'intarsio Lucilio si lasciava indietro tutti gli altri di
molto. Né alcuno sapeva come lui cercar le ragioni all'un capo del mappamondo di
ciò che succedeva all'altro capo. - Che colpo d'occhio avete,  caro  dottore!  -
gli dicevano meravigliati. - Per voi l'Inghilterra e la China  sono  a  tiro  di
canocchiale, e ci trovate tra esse tante relazioni quanto fra Venezia e  Fusina!
- Lucilio rispondeva che la terra è tutta una palla, che  la  gira  e  la  corre
tutta insieme, e che dopo che Colombo e Vasco de Gama l'avevano rifatta come era
stata creata, non si doveva stupirsi che il sangue avesse ripreso la  sua  vasta
circolazione per tutto quel gran corpo dal polo all'equatore. Quando si navigava
per cotali discorsi il Senatore chiudeva un occhio socchiudeva  l'altro  e  cosí
osservava Lucilio rimuginando certi giorni passati quando quel giovinastro  avea
lasciato qualche macchia nera sul libro degli Inquisitori di Stato.  Forse  allo
scrupoloso veneziano passavano allora pel capo dei lontani  timori;  ma  d'altra
parte era qualche anno che Lucilio non si moveva da Fossalta; la  sua  vita  era
quella d'un tranquillo benestante di campagna; gli Inquisitori dovevano  essersi
dimenticati di lui ed egli di loro e delle ubbie giovanili. Il dottor Sperandio,
in  visita  diplomatica  all'eccellentissimo  patrono,  lo   aveva   rassicurato
confessandogli che egli non erasi mai lusingato per l'addietro  di  trovare  nel
figliolo la docilità e la calma che dimostrava infatti colla sua vita modesta  e
laboriosa. - Oh, se volesse  consentire  a  laurearsi!  -  sclamava  il  vecchio
dottore. - Senza fermarsi  a  Venezia,  intendiamoci  bene!  -  soggiungeva  con
frettoloso pentimento. - Ma, dico io, se giungesse a laurearsi,  qual  clientela
bella e pronta gli avrei preparato! - Non mancherà tempo, non mancherà tempo!  -
rispondeva il Senatore. - Ella intanto provveda che suo figlio si  assodi  bene,
che dia un calcio a tutte le bizzarrie, che conservi  sí  il  buon  umore  e  la
vivacità, ma non pigli sul serio le  fantasie  letterarie  degli  scrittori.  La
laurea verrà un giorno o l'altro, e di ammalati non ne  mancheranno  mai  ad  un
dottore  che  dia  ad  intendere  di  saperli  guarire.  -  Morbus  omnis,  arte
ippocratica sanatur aut laevatur - soggiungeva il dottore. E se la conversazione
successe di dopopranzo, aggiunse certamente una mezza dozzina di testi;  ma  non
lo so di sicuro e voglio sparagnarne l'interpretazione ai lettori.  Lucilio  era
adunque diventato, come dice la  gente  bassa,  il  cucco  delle  donne.  Queste
vanerelle, in onta  alle  capricciose  leggi  d'amore,  si  lasciano  facilmente
accalappiare da chi fa in qualche  maniera  una  prima  figura.  Nessun  piacere
sopravanza forse quello di essere  da  tutti  invidiate.  Ma  Lucilio  un  cotal
piacere non lo permetteva a nessuna di loro. Era gaio  estroso  brillante  nelle
sue rade escursioni fra le tavole del  giuoco;  indi  tornava  a  capitanare  la
conversazione  del  Senatore  senza  aver  fatto  vedere  neppur  la  punta  del
fazzoletto ad alcuna di  quelle  odalische.  Soltanto,  passando  o  ripassando,
trovava modo d'inondare tutta la persona di Clara con una di quelle occhiate che
sembrano  circondarci,  come  le  salamandre,  di  un'atmosfera  di  fuoco.   La
giovinetta tremava in ogni sua fibra a  quell'incendio  repentino  e  soave;  ma
l'anima serena ed innocente seguitava a parlarle negli occhi col suo sorriso  di
pace. Pareva che una corrente magnetica  lambisse  co'  suoi  mille  pungiglioni
invisibili le vene della donzella, senzaché potesse turbare il profondo  recesso
dello  spirito.  Piú  insormontabile  d'un  abisso,   piú   salda   d'una   rupe
s'interponeva la coscienza. La  modestia,  piú  che  il  luogo  inosservato  ove
costumava sedere,  proteggeva  la  Clara  dalle  curiose  indagini  delle  altre
signore. Sapeva ella farsi dimenticare senza fatica; e nessuno poteva sospettare
che il cuore di Lucilio battesse  appunto  per  quella  che  meno  di  tutte  si
affaccendava  per  guadagnarselo.  La  signora  Correggitrice  non  usava  tanta
discrezione. Fino dalle prime sere le sue premure, le  sue  civetterie,  le  sue
leziosaggini pel desiderato giovine di Fossalta  aveano  dato  nell'occhio  alla
podestaressa, e alla sorella del Sopraintendente. Ma queste due alla  lor  volta
s'eran fatte notare per la troppa stizza che  ne  dimostravano:  insomma  Paride
frammezzo alle dee non dovette essere piú  impacciato  che  Lucilio  fra  quelle
dame; egli se ne spicciava col non accorgersi di nulla. V'avea peraltro un'altra
signorina che forse piú di ogni altra e della Correggitrice stessa teneva dietro
ai gloriosi trionfi di Lucilio, che non distoglieva mai gli occhi  da  lui,  che
arrossiva quand'egli se le avvicinava, e che non aveva riguardo di avvicinarsi a
lui  essa  medesima  per  toccar  il  suo  braccio,  sfiorar  la  sua  veste,  e
contemplarlo meglio negli occhi. Questa sfacciatella era la Pisana.  Figuratevi!
una civettuola di dodici anni non ancora maturi, un'innamorata non alta da terra
quattro  spanne!  -  Ma  la  era  proprio  cosí;  e  io  dovetti   persuadermene
coll'onniveggenza della gelosia. La terza e la quarta volta che s'andò  in  casa
Frumier io ebbi ad osservare  un  maggior  studio  nella  piccina  di  adornarsi
d'arricciarsi di cincischiarsi. Nessun abito le pareva bello abbastanza;  nessun
vezzo soverchio; nessuna diligenza bastevole per la  lisciatura  dei  capelli  e
delle unghie. Siccome questa smania non l'aveva avuta né la prima né la  seconda
volta, cosí io m'immaginai  subito  che  non  fosse  né  per  la  solita  vanità
femminile né per essere ammirata dalle signore. Qualche altro  motivo  vi  dovea
covar sotto, ed io, sciocco allora come sempre in queste faccende, deliberai  di
chiarirmene tosto. Il martirio della certezza mi parea  già  fin  d'allora  meno
formidabile dei tormenti  del  dubbio;  ma  sempreché  acquistai  poscia  quelle
crudeli certezze, mi toccò ogni volta rimpiangere la sdegnata felicità di  poter
tuttavia dubitare. Il fatto sta che quando i servitori  salirono  a  portare  il
caffè, io scivolai con essi nella sala, e mezzo nascosto dietro la  portiera  mi
posi alla vedetta di quanto succedeva. Vidi la Pisana fisa sempre cogli occhi  a
guardare Lucilio, come volesse mangiarlo. La sua testolina girava con  lui  come
quella del girasole: quand'egli parlava con maggior calore, o si  volgeva  dalla
sua banda, vedeva il suo piccolo seno gonfiarsi arrogantemente come quello d'una
vera donna. Non parlava, non fiatava, non vedeva altro;  non  si  moveva  e  non
sorrideva che per lui. Tutti i segni dell'amore piú  intenso  e  violento  erano
espressi dal suo contegno; solamente l'età cosí tenera salvava lei dai  commenti
e dai sospetti delle signore, come la modestia  avea  salvato  sua  sorella.  Io
tremava tutto, sudava come per febbre, digrignava i denti, e mi aggrappava colle
mani alla portiera quasi mi sentissi vicino a morte. Allora mi balenò alla mente
perché la Pisana mi avesse serbato il broncio in quegli ultimi giorni, e  perché
non la parlasse e non la ridesse piú come  il  solito,  e  perché  si  mostrasse
pensosa e stizzita e amica dei luoghi solitari e della luna.  "Ah,  traditrice!"
gridò con un gemito il mio  povero  cuore.  Sopra  un  tanto  affanno  di  amore
sventurato sentii crescere e  gonfiarsi  l'odio  come  una  consolazione.  Avrei
voluto stringere in mano un fascio di fulmini per saettarne quella fronte alta e
abborrita di Lucilio: avrei voluto che l'anima mia fosse un veleno per penetrare
tutti i suoi pori, per dissolvere ogni sua fibra, e tormentare i suoi nervi fino
alla morte. Di me non mi importava né punto né poco: poiché allora per la  prima
volta provava l'amarezza della vita; e la odiava quasi al pari di Lucilio,  come
occasione se non causa ch'essa era d'ogni mio male. Allora mi  toccò  vedere  la
vanerella valendosi dei privilegi dell'età toglier di mano al servo  la  tazzina
del caffè e presentarla essa stessa al giovine. La fanciulla era rossa come  una
bragia, aveva gli occhi splendenti piú dei rubini, quali io non avea mai veduti;
sembrava in quel momento non già una bambina, ma una ragazza piacevole  perfetta
e quel che peggio innamorata. Quando Lucilio prese la tazza dalla mano  di  lei,
ella traballò sulle ginocchia e si versò sull'abito alcune gocce  di  caffè;  il
giovine le sorrise amorevolmente e si abbassò a pulirla col  fazzoletto.  Oh  se
l'aveste veduta allora quella fanciulletta appena alta da terra! - Il suo  volto
aveva l'espressione piú voluttuosa che mai scultore greco abbia dato alla statua
di Venere o di Leda; una nebbia umida e beata le avvolse le pupille,  e  la  sua
personcina s'accasciò con tanta mollezza che Lucilio dovette circondarla con  un
braccio per sostenerla. Io mi morsi le mani e le labbra, mi graffiai il petto  e
le guance; sentiva nel petto un impeto che mi spingeva a gettarmi  rabbiosamente
su quello spettacolo odioso, e una forza misteriosa che  mi  teneva  confitti  i
piedi nel pavimento. Quando Dio volle, Lucilio  tornò  a  suoi  discorsi,  e  la
Pisana a sedere vicino alla mamma. Ma il soave turbamento ch'era  rimasto  nelle
sue  sembianze  continuò  a  tormentarmi,  finché  i  servitori  uscirono  colle
guantiere. - Olà, Carlino! che ci fai qui? - mi disse uno di  costoro.  -  Fammi
largo e torna in cucina ché non è qui il tuo  posto.  Tali  parole,  che  pareva
dovessero metter il colmo al mio dolore, furono invece come un veleno provvido e
gelato che lo calmarono. - Sí! - dissi fra me con cupa  disperazione.  -  Questo
non è il mio posto! E tornai in cucina barcollando  come  un  ubbriaco;  e  colà
stetti cogli occhi fitti nelle bragie del focolare, finché mi avvertirono che  i
cavalli erano attaccati e che  si  stava  per  partire.  Allora  ebbi  a  vedere
un'altra volta lungo la scala la Pisana che seguiva ostinatamente Lucilio,  come
un cagnolino tien dietro al padrone. Indifferente a tutto  il  resto,  montò  in
carrozza guardando sempre lui; e la vidi sporgersi dallo sportello a guardar  il
posto ch'egli aveva occupato, anche dopo che fu partito. Io intanto stava appeso
al mio solito posto da quel povero diseredato che era: e  quali  furono  i  miei
pensieri per tutta quella buona ora che s'impiegò a tornarsene a casa, Dio  solo
lo  sa!...  Pensieri  forse  non  erano;  bensí  delirii,   bestemmie,   pianti,
maledizioni. Quella sottil parete di cuoio che divideva il mio posto dal suo, io
sapeva benissimo cosa mi presagisse pel futuro. Mille  volte  avea  pensato  che
giorno verrebbe quando la maledetta forza delle cose umane  me  l'avrebbe  tolta
per sempre a datala ad un altro; ma ad  un  altro  non  desiderato,  non  amato,
appena forse sofferto. E mi era conforto il figurarmela  inondata  di  pianto  e
pallida di dolore sotto il bianco velo di sposa,  andarne  all'altare  come  una
vittima; e poi nelle tenebre  del  talamo  nuziale  offrirsi  fredda,  tremante,
avvilita, senza amore e senza desiderii, al padrone cui l'avrebbero venduta.  Il
suo cuore sarebbe rimasto mio, le anime nostre avrebbero continuato  ad  amarsi;
io sarei stato felicissimo di vederla passare alcuna  volta  frammezzo  a'  suoi
bambini: sarebbe stata la mia  una  beatitudine  di  impadronirsi  d'alcuno  fra
questi quand'ella non  mi  avesse  osservato,  di  stringermelo  sul  cuore,  di
baciarlo, di adorarlo, di cercare nelle sue fattezze la traccia delle sue; e  di
illudermi e di pensare che  la  parte  misteriosa  del  suo  spirito  che  s'era
transfusa in quel bambino aveva appartenuto anche a me,  quando  ella  amava  me
solo con tutte le potenze dell'anima. Garzoncello di non ancora quattordici anni
io la sapeva lunga delle cose di questo  mondo;  lo  sbrigliato  cicaleccio  dei
servi e delle cameriere me ne aveva insegnato oltre il bisogno; eppure  giungeva
a  debellare  il   confuso   tumulto   dei   sensi,   a   frenare   lo   slancio
d'un'immaginazione innamorata, e a desiderare un'esistenza non d'altro ricca che
di soavi dolori, e di gioie melanconiche. Premio  de'  miei  sforzi,  della  mia
devozione, raccoglieva invece la dimenticanza e l'ingratitudine.  E  neppure  si
scordava di me per un altro amore; ché allora almeno  avrei  avuto  il  conforto
della lotta, dell'odio, della vendetta.  No,  mi  gettava  via  come  un  arnese
disutile, per correr dietro a un vano  splendore  di  superbia,  per  invaghirsi
pazzamente d'un sogno mostruoso e impossibile. L'abborrimento contro Lucilio che
in principio avea concepito, era caduto a poco a poco in un  rabbioso  disprezzo
per la Pisana. Lucilio per lei era un vecchio, egli non le avea sembrato mai  né
bello né amabile: ci erano voluti gli omaggi delle altre perché ella apprezzasse
i suoi pregi troppo alti e virili al suo  criterio  ancor  fanciullesco.  Io  mi
vedeva sacrificato senza rimorso alla vanità. - No, ella non ha un  briciolo  di
cuore, né un barlume di memoria, né un avanzo di pudore! Sí, la  disprezzo  come
merita, la disprezzerò sempre! - gridava dentro  di  me.  Povero  fanciullo!  Io
cominciava infin d'allora a disprezzare  e  ad  amare:  tormento  terribile  fra
quanti la crudele  natura  ne  ha  preparato  a'  suoi  figliuoli;  battaglia  e
pervertimento d'ogni principio morale; servitù senza compenso e  senza  speranza
nella quale l'anima, che pur vede il bene e lo ama, è  costretta  a  curvarsi  a
pregare a supplicare dinanzi all'idolo del male. Io aveva troppo cuore e  troppa
memoria. Le rimembranze dei primi  affetti  infantili  mi  perseguitavano  senza
misericordia. Io  fuggiva  indarno;  indarno  mi  volgeva  a  combatterle  colla
ragione; piú antiche della ragione esse conoscevano tutte  le  pieghe,  tutti  i
nascondigli dell'anima mia. Al loro soffio  fatale  una  tempesta  si  sollevava
dentro di me; una tempesta di desiderii, di rabbia, di furori,  di  lagrime.  Oh
meditatele bene queste due parole nelle quali si racchiude tutta la storia delle
mie sciagure e delle mie  colpe!  Meditatele  bene  e  poi  dite  se  con  tutta
l'eloquenza della passione, con tutto il sentimento  dei  dolori  sofferti,  con
tutta la sincerità del ravvedimento, potrei spiegarne l'orribile significato!...
Io disprezzava ed amava! Riderete forse anco di questi due fanciulli che nel mio
racconto la pretendono ad uomini: ma ve lo giuro una volta per sempre: io non vi
ricamo di mio capo un romanzo: vo semplicemente riandando la mia vita. Ricordo a
voce alta; e scrivo quello che ricordo. Scommetto  anzi  che  se  tutti  vorrete
tornar daccapo colla memoria agli anni della puerizia, molti fra voi  troveranno
in essi i germi e quasi il compendio delle passioni  che  poscia  inorgoglirono.
Credetelo a me; quello che si disse delle bambine che nascono piccole donne,  si
può dirlo anche degli uomini. La sferza del precettore e  la  cerchia  obbligata
delle occupazioni li  tien  domati  generalmente  fino  ad  una  certa  età.  Ma
lasciateli andare fare e pensare a lor grado; e tosto vedrete animarsi in  essi,
come nello spazio ristretto d'uno specchio ottico, tutta la varia movenza  delle
passioni piú mature. Io e la Pisana fummo lasciati crescere come Dio  voleva,  e
come si costumava a que' tempi se pur  non  si  ricorreva  alla  scappatoia  del
collegio. Da una cotal educazione circondata di esempi tristissimi,  si  formava
quel gregge impecorito di uomini, che senza fede, senza forza,  senza  illusioni
giungeva semivivo alle  soglie  della  vita;  e  di  colà  fino  alla  morte  si
trascinava nel fango dei piaceri e dell'oblio. I vermi che  li  aspettavano  nel
sepolcro potevano servir loro da compagni anche nel mondo. Io per mia  parte,  o
per fortuna di temperamento o per merito  delle  avversità  che  mi  afforzarono
l'animo fin dai primi anni, potei rimaner diritto e non  insudiciarmi  tanto  in
quel pantano da esservi invischiato sempre. Ma la Pisana,  tanto  meglio  di  me
fornita di belle doti e di ottime inclinazioni, andava sprovvista per  disgrazia
di tutti i ripari che potevano salvarla. Perfino il suo  ingegno  tanto  vivace,
pieghevole, svegliato s'offuscò e s'insterilí in quella smania di piacere che la
invase tutta, in quell'incendio  dei  sensi  nel  quale  fu  lasciata  ardere  e
consumarsi la parte piú  eletta  dell'anima  sua.  Il  coraggio,  la  pietà,  la
generosità, l'immaginazione, sanissimi frutti della sua indole, tralignarono  in
altrettanti strumenti di quelle brame sfrenate. O se risplendevano  talora,  nei
momenti di tregua, erano lampi passeggieri, moti bizzarri e subitanei d'istinto,
non atti consci e meritori di vera virtù.  Un  guasto  sí  lagrimevole  cominciò
nella prima infanzia; nel tempo di cui narro ora, l'era già  ito  tanto  innanzi
che sarebbe stato possibile forse l'arrestarlo, non  distruggerne  gli  effetti;
quando poscia io fui in grado di toccarlo con mano e di riconoscer  in  esso  la
causa per cui la Pisana era  venuta  sempre  peggiorando  cogli  anni  ne'  suoi
difetti infantili, allora non v'avea piú forza  alcuna  nel  mondo  che  potesse
rinnovarla. Oh con quante lagrime di disperazione e di amore  non  rimpiansi  io
allora i secoli dei prodigi e delle conversioni miracolose!... Con quanto ardore
di speranza non divorai quei  libri  dove  s'insegnava  a  rigenerare  le  anime
coll'affetto, colla pazienza, coi sacrifici!... Con quanta  umiltà,  con  quanto
coraggio non  offersi  parte  a  parte  tutto  me  stesso  in  olocausto  perché
quell'angelo decaduto, di cui io aveva  contemplato  sull'alba  della  vita  gli
allegri splendori, riavesse la pompa della sua luce!... - O i libri  mentiscono,
o la Pisana era fatta omai tale che potenza d'uomo non bastava a  cangiarla.  Il
cielo s'aperse dinanzi a lei una volta e io vidi quello che la mia  ragione  non
vuol credere, ma che il cuore ha collocato nel piú puro tesoro delle sue  gioie.
Come mi sembra vicino quest'ultimo giorno di ricompensa e di dolore infinito!...
Ma quando viveva al castello di Fratta ne  era  ben  lontano:  e  la  mia  mente
avrebbe inorridito di credere che l'amor mio  avrebbe  ricevuto  il  premio  piú
certo dalle mani della morte. Nei giorni susseguenti a quella sera che tanto  mi
avea fatto patire, io parvi a tutti cosí fiacco  e  sparuto  che  si  temeva  di
qualche malattia. Volevano ad ogni costo che mi lasciassi tastar  il  polso  dal
signor Lucilio; ma io mi  vi  rifiutai  ostinatamente,  e  finché  il  male  non
cresceva, mi  lasciarono  stare  persuasi  che  fosse  caponaggine  di  ragazzo.
Vedevano bene  le  cameriere  che  gli  affetti  tra  me  e  la  Pisana  s'erano
raffreddati di molto, ma eran ben lontane dal credere che questa fosse la  causa
della mia sparutezza. Prima di  tutto  erano  avvezze  a  questi  intervalli  di
raffreddamento, e poi non davano alla cosa maggior importanza che non  meritasse
una fanciullaggine. Dopo un paio di giorni anche la  Pisana  s'accorse  del  mio
pallore, e delle mie astinenze;  sicché,  quasi  indovinandone  il  segreto,  si
sforzò a raccostarmisi per farmi bene. Io  era  già  passato  dal  furore  della
disperazione alla stanchezza del dolore e la accolsi con aspetto  melanconico  e
quasi pietoso. Quest'ultimo colore della mia fisonomia non le piacque per nulla;
finse di credere ch'io le avessi dimostrato che non bisognava di lei e mi piantò
lí come un cane. Oh se la mi avesse buttato le braccia al collo! Io sarei  stato
abbastanza credulo o codardo per stringermela al cuore, e dimenticare i  crudeli
momenti che la mi aveva fatto passare. Fu forse meglio cosí;  poiché  al  giorno
dopo il dolore mi si sarebbe presentato come nuovo,  e  m'avrebbe  sorpreso  piú
debole di prima. Ad onta della  mia  inferma  salute,  tutte  le  volte  che  la
famiglia andò a Portogruaro io non mancai di accompagnarla; e colà ogni sera  io
assaporava con amara voluttà la  certezza  della  mia  sventura.  Mi  rinforzava
nell'anima; ma il corpo ne  soffriva  mortalmente,  e  certo  non  avrei  potuto
continuar un pezzo quella vita. Martino  mi  domandava  sempre  cosa  avessi  da
sospirar tanto; il Piovano si maravigliava di non trovare i miei latinetti  cosí
corretti come per l'addietro, ma non aveva coraggio di rimproverarmene, tanto la
mia sfinitezza lo moveva a compassione; la  contessina  Clara  mi  stava  sempre
dietro con carezze e con premure. Io dimagriva a vista  d'occhio,  e  la  Pisana
fingeva di non accorgersene, o se  lasciava  cadere  sopra  di  me  uno  sguardo
pietoso lo ritirava tosto. Ella intendeva punirmi cosí della  mia  superbia.  Ma
era forse superbia? Io moriva di crepacuore e pur compiangeva lei cagione  della
mia morte. La compiangeva e l'amava, mentre avrei dovuto odiarla,  disprezzarla,
punirla. Dicano tutti se era superbia la mia. In quel torno accadde per  fortuna
che la signora Contessa  ammalasse;  dico  per  fortuna,  perché  cosí  rimasero
interrotte le gite a Portogruaro e questa fu la ragione  perché  io  non  morii.
Lucilio seguitava a praticare in castello, ora tanto piú che ve lo  chiamava  il
suo ministero di medico; ma la Pisana non era di gran lunga  cosí  incantata  di
lui a Fratta,  come  a  Portogruaro.  Una  volta  o  due  gli  usò  una  qualche
attenzione, poi se ne astenne senza sforzo e a poco a poco tornò appetto  a  lui
nella solita indifferenza. Mano a mano che  Lucilio  usciva  dal  suo  cuore  vi
rientrava io; e non debbo nascondere che la mia gioia di  questo  pentimento  fu
cosí veemente, cosí piena come se io fossi tornato alla prima fiducia dei nostri
affetti. Io era fanciullo, io le credeva ciecamente.  Come  ad  onta  delle  sue
passeggiere civetterie mi fidava di lei un tempo, sicuro che in fondo  al  cuore
non ci stava che io, cosí allora tornava a persuadermi  che  i  frutti  di  quel
ravvedimento dovessero  essere  eterni.  Giungeva  quasi  a  trovare  in  quelle
apparenti infedeltà e in quelle pronte pacificazioni una prova  di  piú  ch'ella
non poteva amare che me né vivere senza di me. Io non le  mossi  adunque  parola
delle mie torture, schivai di rispondere alle sue dimande, indovinando quasi che
la confessione d'una gelosia è  il  piú  caldo  incentivo  di  nuove  infedeltà.
Accusai una bizzarria d'umore, un malessere inesplicabile, e chiusi il varco  ad
altre inchieste col lasciar libero campo alla mia gioia e allo sfogo d'un  cuore
chiuso in se stesso da tanto  tempo.  La  Pisana  folleggiava  con  me  da  vera
pazzerella: pareva che  quel  suo  ghiribizzo  momentaneo  non  avesse  lasciato
traccia alcuna né nella memoria né nella  coscienza;  io  mi  consolai  di  ciò,
mentre se fossi stato ben avveduto, avrei dovuto  spaventarmene.  Mi  abbandonai
dunque con piena sicurezza a quella corrente di  felicità  che  mi  trasportava;
tanto piú sicuro e beato, che la  fanciulla  mi  sembrò  a  que'  giorni  docile
amorosa e fin'anco umile e paziente quale non  era  mai  stata.  Era  un  tacito
compenso, offerto senza saperlo, dei torti fattimi? Non lo  saprei  dire.  Forse
anche la timorosa adorazione di Lucilio aveva svezzato per poco l'anima sua  dai
moti violenti e tirannici; a me dunque toccava raccogliere quello che  un  altro
aveva seminato. Ma questo dubbio  che  adesso  mi  avvilirebbe,  allora  non  mi
passava nemmeno pel capo. Bisogna aver vissuto  e  filosofeggiato  a  lungo  per
imparar a dovere la scienza di tormentarsi  squisitamente.  La  Contessa  benché
lievemente indisposta migliorava assai a rilento. Era cosí piena di  scrupoli  e
di smorfie che non bastavano l'eloquenza italiana e latina del dottor Sperandio,
la pazienza di Lucilio, i conforti di monsignor  di  Sant'Andrea,  le  cure  del
marito e della Clara e quattro pozioni al giorno, per calmarla un poco. Soltanto
un giorno che le fu annunziata  la  visita  della  cognata  Frumier,  si  riebbe
subitamente e  dimenticò  l'infinita  caterva  dei  suoi  mali  per  pettinarsi,
pulirsi, mettersi in capo la piú bella e rosea  cuffietta  della  guardaroba,  e
farsi addobbar il letto con cuscini e coperte orlate di merlo. Da  quel  momento
la sua convalescenza fu assicurata, e si poté cantare un Te Deum nella  cappella
per la ricuperata salute dell'eccellentissima padrona. Monsignor  Orlando  cantò
quel Te Deum con tutta l'effusione del cuore, perché non si  avea  mangiato  mai
cosí male a Fratta come durante la malattia di sua cognata. Tutti erano occupati
a lambiccar decotti, a preparar panatelle, a  portar  brodi  e  scodelle;  e  le
pignatte intanto rimanevano vuote e ad ora di pranzo si doveva accontentarsi  di
pietanze improvvisate. Per ripristinar la famiglia nei soliti uffici e  cambiare
in ferma salute la lunga convalescenza della Contessa, ci vollero  non  meno  di
quattro o cinque visite della cognata; in fin delle quali eravamo giunti al cuor
dell'inverno, ma la floridezza di quelle  guance  preziose  era  assicurata  per
altri trent'anni. Monsignor Orlando rivide con piacere  il  campo  del  focolare
ripopolarsi a poco a poco dei larghi tegami e  delle  brontolanti  pignatte.  Se
fosse ancora continuato quel regime di mezza astinenza egli avrebbe pagato colla
propria vita la guarigione della cognata. Io e  la  Pisana  intanto  ci  avevamo
guadagnato alcuni mesi di buon accordo e di pace. Buon accordo lo dico, cosí per
dire; perché in sostanza si era tornati alla vita di prima: agli amoruzzi  cioè,
ai dispetti, alle gelosie, ai rappaciamenti d'una volta. Donato, il figliuoletto
dello speziale, e Sandro del mulino mi facevano talvolta  crepare  di  bile.  Ma
l'era una cosa tutta diversa. A questi attucci io era abituato da molto tempo, e
d'altronde la Pisana, se era duretta e caparbia nelle sue tenerezze per  me,  lo
era a tre doppi sopra gli altri fanciulli. Né vedeva farsi in lei a vantaggio di
loro  quel  cambiamento  che  la  rendeva  cosí  umile,  cosí   tremante,   cosí
impensierita al cospetto di Lucilio nella sala della zia. Le  angoscie  sofferte
allora non avevano lasciato per verità traccia  alcuna  nel  mio  cuore;  ma  ne
ricordava la causa e molte volte  erami  venuto  sulla  punta  della  lingua  di
muoverne cenno alla Pisana per vedere quanto ne ricordasse ella, ed in che modo.
Peraltro titubava sempre e non sarei forse  venuto  mai  ad  effettuare  un  tal
desiderio, se ella non me ne porgeva un giorno l'occasione. Lucilio scendeva  le
scale dopo aver visitato la Contessa già quasi ristabilita e la vecchia  Badoer,
e s'avviava verso il  ponticello  della  scuderia,  riedificato  con  tutti  gli
accorgimenti d'una buona difesa, sotto la direzione del capitano  Sandracca;  la
Clara gli veniva del paro per passar nell'orto a cogliervi quattro foglie d'erba
luisa, e qualche geranio che lottava ancora contro le punture della brina. Erano
corsi parecchi giorni senzaché si potessero vedere; le loro anime  tumultuavano,
piene di quei sentimenti che di tempo in  tempo  vogliono  essere  espressi  con
ardore, con libertà per non ritorcersi  dentro  di  noi  in  alimento  velenoso.
Aspiravano all'aria libera, alla solitudine; e già, varcato il ponte e sicuri di
esser soli, pregustavano la beatitudine di potersi ripetere quelle dolci dimande
e quelle eterne risposte dell'amore che devono bastare ai colloqui di due che si
vogliono bene. Parole mille volte ripetute, ed udite, sempre con  significato  e
con piacere diverso; le quali basterebbero a provare che l'anima  sola  possiede
la magica virtù del pensiero, e che il moto delle labbra non è altro che un vano
balbettio di suoni monotoni senza il suo interno concento. Lucilio stava già per
aprire il varco a tutto quell'amore che da tanti giorni lo soffocava, quando udí
dietro di sé il passo saltellante e la vocina acuta della Pisana che gridava:  -
Clara, Clara, aspettami dunque, che vengo anch'io a farmi un mazzetto! - Lucilio
si morse le labbra e non poté  o  non  credette  necessario  celare  il  proprio
dispetto; la Clara invece, che si era volta colla  solita  bontà  a  guardar  la
sorella,  ebbe  bisogno  di  osservare  l'addolorato  volto  del   giovine   per
rattristarsi anch'essa. Quanto a sé, il contento procurato alla fanciulletta  da
un mazzo di fiori l'avrebbe forse pagata delle mancate  delizie  d'un  colloquio
tanto sospirato coll'amante. Era buona, buona anzi tutto; e in anime cosí  fatte
perfino la violenza delle passioni  s'attuta  alla  considerazione  dei  piaceri
altrui. Ma al giovine non garbava forse questa facile rassegnazione,  e  il  suo
dispetto se ne accrebbe  di  molto.  Si  volse  egli  dunque  con  viso  un  po'
arrovesciato alla Pisana, e le domandò se avesse lasciato sola la nonna.  -  Sí,
ma ella stessa mi ha permesso di venire a coglier fiori colla Clara - rispose la
Pisana stizzosamente, perché non consentiva a Lucilio l'autorità di sindacarla a
quel modo. - Quando si ha cuore e gentilezza di animo, bisogna saper  non  usare
di certi permessi; - soggiunse Lucilio - una vecchia  malata  e  bisognevole  di
compagnia non va piantata lí senza ragione, per quanto essa  sembri  permetterci
di farlo. La Pisana sentí venirsi agli occhi  le  lagrime  della  rabbia;  volse
dispettosamente le spalle e non rispose nemmeno alla  Clara  che  le  diceva  di
fermarsi e  di  non  essere  cosí  permalosa.  La  fanciulletta  corse  difilato
nell'anticamera della cancelleria dov'io aveva il mio studio, e rossa di  sdegno
e di vergogna mi saltò colle braccia al collo.  -  Cos'è  stato?  -  io  sclamai
gettando la penna, e alzandomi  da  sedere.  -  Oh,  me  la  pagherà  il  signor
Merlo!... sí che me la pagherà! - balbettava  fremente  la  Pisana.  Io  mi  era
svezzato dall'udirla adoperare questo soprannome, e non intendeva di chi volesse
parlare. - Ma chi è questo signor Merlo, cosa ti ha fatto? -  le  chiesi  io.  -
Eh!... il signor Merlo di Fossalta,  che  vuol  intricarsi  de'  fatti  miei,  e
interrogarmi, e correggermi, come se fossi una sua servetta!... E sí ch'io  sono
una contessa ed egli un cavasangue, buono al piú pei miserabili e  pei  villani!
Io sorrisi per molte idee che mi traversarono il capo a quelle parole;  e  seppi
poi piú chiaramente la cagione precisa di quella gran ira.  Intanto  approfittai
dell'opportunità per tirar la fanciulla ad altri schiarimenti. - Sulle  prime  -
le dissi - io non aveva capito a chi tu volessi alludere  con  quel  tuo  signor
Merlo!... Infatti era un gran pezzo che non chiamavi il signor Lucilio a  questo
modo. - Hai ragione - mi rispose la Pisana - gli era proprio un secolo. E guarda
che stupida!... Ci fu anche un  tempo  ch'egli  mi  piaceva;  e  massimamente  a
Portogruaro in casa della zia restava incantata a udirlo parlare. Caspita!  come
stavano mogi e attenti ad ascoltarlo tutti quegli altri signori! Io  avrei  dato
non so che cosa per essere in lui a  fare  quella  gran  figura.  -  Gli  volevi
proprio bene - osservai io con un segreto tremore. - Cioè... bene...? -  mormorò
la Pisana pensandovi sopra sinceramente - non saprei... A questo punto  vidi  la
bugia montarle a cavallo del naso; e capii che se non prima,  almeno  certamente
allora, essa conosceva di qual indole fosse la sua ammirazione per Lucilio. Ebbe
vergogna e rabbia di una tal confessione fatta a se medesima e rincarò  poi  sul
biasimarlo per vendicarsene. - È brutto, è orgoglioso, è cattivo, è vestito come
Fulgenzio! - Gli trovò addosso tutte le piaghe, tutti  i  peccati;  e  da  molto
tempo io non avea udito la Pisana parlare cosí a lungo e con tanta  enfasi  come
in quella sua filippica contro Lucilio. Da questa banda mi tenni dunque  sicuro.
Ma quella virulenza stessa, se bene avessi avvisato,  mi  dava  piú  cagione  di
timore che di fiducia in un temperamento cosí bizzarro ed eccessivo come il suo.
Infatti, ripresa che si ebbe la usanza delle due gite settimanali a Portogruaro,
la Pisana tornò a raffreddarsi verso di me e ad allocchirsi  nel  contemplare  e
nell'ascoltare Lucilio. Quei discorsi, quelle proteste in  odio  di  lui  furono
come non fatte; ella tornò ad adorar quello che giorni  prima  avea  calpestato,
senza vergognarsene o meravigliarsene. Stavolta il mio dolore fu meno  impetuoso
ma piú profondo: poiché compresi a quale altalena di speranze  e  di  disinganni
avessi  affidato  la  fortuna  dell'anima  mia.  Cercai  di  dimostrare  il  mio
rincrescimento alla Pisana e farla ripiegare sopra se stessa a  pensare  cosa  e
quanto male faceva; ma non mi dié retta per nulla. Solamente m'accorsi che nella
sua divozione per Lucilio si era anche infiltrata una dose di gelosia.  Ella  si
era avveduta di esser posposta alla Clara, e la ne pativa  acerbamente;  ma  per
questo non s'inveleniva né contro la sorella né contro Lucilio;  pareva  che  si
tenesse contenta di amare o sicura di  amar  tanto,  che  un  giorno  o  l'altro
avrebbe dovuto avere la preferenza. Tutti questi sentimenti che le leggeva negli
occhi erano ben lontani dal consolarmi. Non sapendo con chi prendermela, non con
Lucilio, perché non s'accorgeva di ciò, non  colla  Pisana,  perché  non  la  mi
badava piucché al muro, finii come l'altra volta col prendermela con me  stesso.
Ma il dolore, come vi diceva, se piú profondo, fu anche piú ragionevole; venni a
patti con essolui, e lo persuasi che, anziché cercar fomento nell'ozio  e  nella
noia, piú saggio partito era domandar distrazioni al lavoro ed allo  studio.  Mi
misi di tutta schiena sopra Cicerone, sopra Virgilio, sopra Orazio: ne traduceva
de' gran brani, li commentava a mio modo, e scriveva  di  mio  capo  sopra  temi
analoghi. Insomma posso dire che pe' miei studi classici  quel  secondo  peccato
della Pisana mi fu piucchealtro giovevole. Il Piovano si diceva contentissimo di
me; si congratulava col Conte e col Cancelliere del mio amore per lo  studio,  e
insomma tutti godevano, tutti meno io, di quei rapidi progressi. E non  crediate
mica che la fosse faccenda di ore e di giorni; la fu addirittura di  mesi  e  di
anni. Solamente vi si frapponevano i soliti respiri, le solite  tregue.  Ora  la
stagione rotta, ora le strade disfatte, ora il  soverchio  caldo  e  la  brevità
delle sere, ora le gite dei Frumier ad  Udine,  sospendevano  la  frequenza  dei
Conti di Fratta a Portogruaro. Allora risorgeva l'amore della Pisana per me, col
solito corredo delle lusingherie  per  Sandro  e  per  Donato:  da  ultimo  ella
sembrava accorgersi del mio malumore anche durante la sua  fase  di  furore  per
Lucilio, e la mi compativa e la mi dava in elemosina qualche occhiata e  perfino
anche qualche bacio. Io pigliava quello che mi davano come un vero accattone; il
dolore mi aveva uguagliato al pavimento,  come  dice  quel  salmo;  e  mi  avrei
lasciato pestare, premere e sputacchiare senza risentirmene. Ciò non toglie  che
non diventassi ogni giorno piú un latinista di vaglia; e  sudava  e  impallidiva
tanto sui libri, che Martino alle volte mi diceva che gli avrebbe quasi piaciuto
di piú il vedermi girare lo spiedo come agli  anni  addietro.  Non  importa.  Io
aveva scoperto da per me quel gran aiuto a  vivere  che  si  ha  nel  lavoro,  e
checché ne pensasse Martino, credo che sarei stato piú misero di gran  lunga  se
avessi svagato i miei  dolori  nella  dissipazione  o  accresciutili  coll'ozio.
Almeno ne guadagnai che di poco oltrepassati i quindici anni io potei  sostenere
al Seminario di Portogruaro un esame di grammatica, di latino, di  composizione,
di prosodia, di rettorica e di storia antica; dal quale  me  la  cavai  con  una
gloria immortale. Figuratevi che in tre anni scarsi io aveva imparato quello che
gli altri in sei!... Dopo un sí pieno trionfo  fu  deciso  in  famiglia  che  mi
avrebbero mandato a Padova a prendervi i gradi di dottore; ma  intanto  ebbi  un
posto fisso come vice-officiale in  cancelleria  col  soldo  annuo  di  sessanta
ducati, che equivalevano a quattordici soldi il giorno. Poco, pochissimo  certo;
ma io fui molto contento d'intascare alcune  monete  dicendo:  "Queste  qui  son
proprio mie, perché me le son guadagnate io!". La nuova dignità a cui era salito
fece anche sí che avessi un posto alla tavola dei padroni, e che potessi entrare
nella sala di casa Frumier stando  seduto  vicino  al  Cancelliere  a  guardarlo
giocare il tresette. Questa occupazione mi quadrava pochissimo;  ma  altrettanto
mi garbava l'aver sempre sott'occhio la Pisana, e  rodermi  continuamente  degli
attucci che ella faceva per dimostrar il suo amore  a  Lucilio.  Davvero  che  a
ripensarvi ora, devo riderne a piena gola; ma in quel tempo la cosa era diversa.
Me ne piangeva il cuore a lagrime di sangue. La  Pisana  intanto  era  cresciuta
anch'essa una vera zitella. Non la toccava i quattordici anni che la  parea  già
perfetta e matura. Non molto grande, no; ma di forme  perfettissime,  ammirabile
soprattutto nelle spalle e nel collo: un vero torso  da  Giulia,  la  nipote  di
Augusto: la testa un po' grande ma corretta  con  un  bellissimo  ovale;  e  poi
capelli alla dirotta, occhi umidi sempre e languenti  come  di  fuoco  nascosto,
sopracciglia sottilissime, e un bocchino poi, un  bocchino  da  dipingere  o  da
baciare. Voce rotonda e sonora, di  quelle  che  non  tintinnano  dal  capo,  ma
prendono i loro suoni dal petto, dove batte il cuore; un andare, ora  quieto  ed
uguale come di persona che discerna poco, ora saltellante e risoluto come  d'una
scolaretta in vacanza; adesso muta, chiusa, pensierosa, di qui  a  poco  aperta,
ridente, se volete anche, ciarliera; ma già le ciarle essa le avea perdute e ben
presto: si vedeva già a quattordici anni che  altri  pensieri  la  preoccupavano
tanto da farle restar  torpida  la  lingua.  Cosí  stava  da  vera  donnetta  in
conversazione; uscita poi, e sciolta dai rispetti umani, i diritti, dell'età  si
impadronivano di quel corpicciuolo ben tornito e gli facevano fare le  piú  gran
capriole, i piú bizzarri contorcimenti del mondo. Allora aveva  del  ragazzaccio
piú del bisogno; come invece in sala si atteggiava a donnina languida e leziosa.
A questo modo me la ricordo in quegli anni di transizione, ora  bambina  affatto
ed ora donna matura; ma in quanto all'animo, al temperamento,  i  difetti  della
bambina si disegnavano cosí esatti nella donna che non mi accorsi certamente del
punto in cui questi supplirono a  quelli.  Gli  uni  forse  non  furono  che  la
continuazione degli altri, e il loro sviluppo naturale. Eccomi ora ad un  punto,
dal quale ebbe a cominciare un mio nuovo tormento, o meglio ad  accrescersi  uno
già incominciato. Circa a quel tempo uscí di  collegio  il  signor  Raimondo  di
Venchieredo e venne ad abitare nel suo castello vicino a Cordovado;  ma  siccome
non toccava ancora gli anni della maggiore età,  cosí  un  suo  zio  materno  di
Venezia, che gli era tutore, lo affidò alla sorveglianza d'un  precettore,  d'un
certo padre Pendola, che, venuto a Venezia non si sapeva donde, erasi acquistato
una grandissima opinione di erudito. Questo abate misterioso ebbe certo  le  sue
ottime ragioni per accettare l'incarico: e in confidenza io credo che  fosse  di
soppiatto un beniamino degli Inquisitori di Stato. Lo si  diceva  romagnuolo  di
nascita, ma viaggiava con passaporto russo; si sa che i RR. PP. Gesuiti dopo  la
soppressione  dell'ordine  loro  s'erano  ricoverati  a  Pietroburgo  e  che  la
Repubblica di Venezia non s'era mai professata loro protettrice. Ad ogni modo le
massime politiche della Signoria non erano piú quelle di fra Paolo Sarpi  quando
il padre Pendola si stabilí col suo alunno a Venchieredo; e tanto egli, come  il
giovane castellano, fecero grandissimo colpo nella società  di  Portogruaro  che
s'era affrettata ad invitarli  e  a  festeggiarli.  La  Pisana,  dopo  la  prima
comparsa di questo giovine nelle sale Frumier, si dimenticava sovente di Lucilio
per badare a lui; io poi seduto vicino  al  Cancelliere  mi  rodeva  l'anima,  e
gettava le mie occhiate al vento.


CAPITOLO SETTIMO

Contiene il panegirico del padre Pendola e del suo alunno. Due matrimoni  andati
in fumo senza un perché. La contessa Clara e sua madre si trapiantano a Venezia,
dove le segue il dottor Lucilio, e  diventa  assai  famigliare  della  Legazione
francese. Perché io mi stancassi della Pisana, e mi mettessi a vagheggiare tutto
il bel sesso dei dintorni: perché  finissi  col  vagheggiare  la  giurisprudenza
all'Università di Padova, dove rimasi  fino  all'agosto  del  1792  odorando  da
lontano la rivoluzione di Francia.

Le lusinghe della signora Contessa pel  collocamento  della  Clara  parve  sulla
prime che non  dovessero  andar  deluse.  Tutti,  si  può  dire,  i  giovani  di
Portogruaro e dei dintorni le morivano cogli occhi addosso; non l'avrebbe  avuto
che a scegliere per essere subito impalmata da quello fra  essi  che  meglio  le
fosse piaciuto. Primo di tutti il Partistagno la riguardava come cosa sua;  anzi
quando osservava che altri la contemplasse con troppa devozione, permetteva alla
propria fisonomia certi atti di malcontento,  che  dichiaravano  apertamente  le
intenzioni  dell'animo.  Nella  sua  entrata  in   casa   Frumier   erasi   egli
imprudentemente accostato al crocchio del padrone di casa; ma  poi  avea  dovuto
sloggiare, perché non era tanto gonzo da non vedere la meschina  figura  che  vi
faceva. Allora avea preso posto fra due vecchie ed un monsignore ad un  tavolino
di tresette, e di là seguitava la antica  usanza  di  onorare  continuamente  la
Clara delle sue occhiate  conquistatrici.  Quest'abitudine  non  talentava  gran
fatto a' suoi compagni di gioco; laonde a quel tavoliere era un eterno brontolio
di richiami e di rimproveri. Ma il bel cavaliero restava imperturbabile;  pagava
le partite perdute, le faceva pagare al compagno, e non si scomponeva per nulla.
Fortuna che era giovine e bello: per cui le vecchiette gli  perdonavano  le  sue
distrazioni, e il monsignore, essendo padre spirituale di una fra queste, doveva
di necessità perdonargli anche lui. Il marchesino Fessi, il  Conte  Dall'Elsa  e
qualche altro aristocratico zerbino  della  città  corteggiavano  essi  pure  la
Clara. Ma l'assedio galante di questi signori era  meno  discreto;  le  occhiate
erano il  meno;  si  sbracciavano  in  inchini,  in  complimenti,  in  lodi,  in
profferte. Facevano gli scherzosi col braccio arrotondato sul fianco e la  gamba
protesa; quando poi indossavano il vestito gallonato delle  domeniche,  il  loro
brio non aveva piú freno. Giravano fra le seggiole delle signore,  si  curvavano
su questa e su quella, consigliavano ora  un  giocatore  ed  ora  un  altro;  ma
ponevano somma cura di non restar invischiati  in  nessuna  partita.  I  giovani
abati e il professor Dessalli in particolare, sedevano assai volentieri  qualche
quarto d'ora vicino alla Clara:  il  loro  abito  li  proteggeva  dalle  maligne
calunnie, e il contegno della zitella era  tale  che  molto  si  affaceva  colla
gravità sacerdotale. Insomma la  bionda  castellana  di  Fratta  avea  messo  in
subbuglio tutte le teste della conversazione; ed ella ebbe la strana modestia di
non accorgersene. Giulio  Del  Ponte,  che  non  era  il  meno  infervorato,  si
maravigliava e si stizziva di tanto riserbo;  egli  andava  anzi  piú  oltre,  e
benché non ne parasse nulla, avea  concepito  qualche  sospetto  sopra  Lucilio.
Infatti soltanto un cuore già occupato da un  grande  affetto  poteva  resistere
freddamente a tutta quella giostra d'amore che  torneava  per  lui.  E  chi  mai
poteva aver fatto breccia colà, se non il  dottorino  di  Fossalta?  -  Cosí  la
pensava il signor Giulio; e dal pensare al bisbigliarne qualche cosa, il  tratto
fu piú breve  d'un  passo  di  formica.  Cominciavano  a  pigliar  fiato  cotali
mormorazioni, quando il padre Pendola presentò il giovine  Venchieredo  in  casa
Frumier. Il Conte di  Fratta  ne  rimase  un  po'  imbarazzato;  perché  non  si
dimenticava che se non per opera, certo per tolleranza sua,  il  padre  di  quel
cavalierino mangiava il pane bigio nella Rocca della Chiusa. Ma la Contessa, che
era donna di talento, trascorse un  bel  tratto  innanzi  coll'immaginazione,  e
architettò di sbalzo un disegno  che  poteva  togliere  fra  le  due  case  ogni
ruggine. Il Partistagno, nel quale aveva posto grandi speranze dapprincipio, non
dava sentore di volersi muovere; adunque qual male sarebbe stato  di  tirare  il
Venchieredo ad un buon matrimonio colla Clara?...  Riuniti  cosí  gli  interessi
delle due famiglie, si avrebbe avuto il diritto di adoperarsi per la liberazione
del condannato; allora la riconoscenza e la felicità  avrebbero  dato  di  frego
alle brutte memorie del tempo trascorso; e che si potesse giungere  a  sí  lieta
conclusione ne dava caparra la protezione validissima del senatore  Frumier.  Il
padre Pendola  era  un  sacerdote  di  coscienza  e  un  uomo  di  molto  garbo;
capacitatolo una volta della convenienza di questo maritaggio, egli  ne  avrebbe
persuaso certamente il suo alunno; dunque bisognava  cominciare  per  di  là,  e
l'accorata dama si pose immantinente all'opera. Il reverendo padre  non  era  di
coloro che vedono una spanna oltre al naso,  e  vogliono  dar  ad  intendere  di
vederci lontano un miglio; anzi tutt'altro; vedeva lontanissimo  e  portava  gli
occhiali con una cera rassegnatissima di minchioneria. Ma io credo che  non  gli
bisognarono due alzate d'occhi  per  leggere  nel  cervello  della  Contessa;  e
contento d'essere accarezzato corrispose alle premure di lei  con  una  modestia
veramente edificante. "Poveretto! - pensava la signora - crede che  lo  vezzeggi
pel suo raro merito! È meglio lasciarglielo credere; ché ci servirà con  miglior
volontà". Il giovine Venchieredo intanto correva  incontro  di  gran  lena  agli
onesti divisamenti  della  Contessa.  Si  può  dire  che  di  colpo  egli  restò
innamorato della Clara. Innamorato proprio come un asino, o come  un  giovinetto
appena uscito di collegio. Cercava tutte le maniere di piacerle, si studiava  di
sederle piú vicino che potesse per toccar se non altro col ginocchio  le  pieghe
del suo abito, la guardava sempre e delle sue poche e timorose parole non  facea
dono che a lei  sola.  La  provvida  mamma  era  al  colmo  della  consolazione;
precettore e scolaro  calavano  innocentemente  alle  vischiate  che  con  tanta
accortezza ella avea saputo disporre. Ma il padre Pendola non si  sgomentiva  di
quelle scalmane amorose del giovine; egli conosceva il suo alunno  meglio  della
Contessa, e lasciava correr l'acqua alla china  finché  gli  tornava  comodo.  A
dirla schietta il signor Raimondo (cosí chiamavasi il figlio del  castellano  di
Venchieredo) piú assai della Clara amava all'ingrosso il sesso  gentile.  Appena
messo piede nel territorio della sua giurisdizione egli  avea  dato  indizio  di
questa parte principalissima del suo temperamento con  una  caccia  furibonda  a
tutte le bellezze dei dintorni. I padri, i fratelli, i mariti avevano tremato di
questi preludii guerrieri, e le nonne barbogie ricordarono palpitando  sotto  la
cappa del camino i tempi del suo signor padre. Il focoso puledro non  rispettava
né fossi  né  siepi,  varcava  quelli  d'un  salto,  sforacchiava  queste  senza
misericordia, e senza badare né a tirate di redini né a minaccie di voci, menava
calci a dritta ed a sinistra per penetrare nel pascolo che piú gli  piaceva.  La
sua autorità peraltro non  era  ancora  tanto  formidabile  da  impedire  che  a
qualcheduno non saltasse la mosca al naso per tali soperchierie. Qualche  padre,
qualche  fratello,  qualche  marito  cominciò  a  menar  rumore,   a   minacciar
rappresaglie, vendette, ricorsi. Ma allora capitava col suo collo  torto,  colla
sua faccia compunta il reverendo padre: - Cosa volete!...  Sono  castighi  della
Provvidenza, sono cose spiacevoli ma che bisogna  sopportarle  come  ogni  altro
male, per la maggior gloria di Dio!... Anche a me, vedete, anche a  me  sanguina
il cuore di vedere queste mariuolerie!... Ma mi confido al  Signore,  ne  piango
dinanzi a lui, mi consolo con lui. Se egli vorrà, spero che non siano nulla  piú
che ragazzate; ma bisogna meritarselo colla pazienza  il  bene  che  egli  vorrà
concederci!... Unitevi con me, figliuoli miei! Piangiamo  e  soffriamo  insieme,
ché ne avremo anche insieme la ricompensa in un mondo migliore di  questo.  E  i
dabbenuomini piangevano con quella perla d'uomo, e soffrivano con lui; egli  era
l'angelo custode delle loro famiglie, il salvatore delle  loro  anime.  Guai  se
egli non ci fosse stato! Chi  sa  quanti  scandali,  quanti  processi  avrebbero
turbato il paese. Fors'anche si sarebbe sparso del  sangue,  perché  proprio  lo
sdegno toccava l'ultimo segno. Ma il buon padre  li  consolava,  li  calmava,  e
tornavano agnellini a lasciarsi pelare e, peggio, con rassegnazione.  Egli  poi,
dopo averli ridotti a dovere, pigliava a quattr'occhi il giovine  scapestrato  e
gli impartiva una gran satolla di ottimi consigli. - No, non era quello il  modo
di guadagnarsi l'affetto della gente, e di serbare il decoro e le dovizie  della
casa! Anche fra i suoi vecchi ce n'erano stati  di  giovani,  di  peccatori;  ma
almeno si comportavano con prudenza, non menavano in pompa le loro colpe, non si
esponevano stoltamente all'ira degli altri, evitavano il cattivo esempio, e  non
aizzavano il prossimo a quel peccataccio turco e scomunicato che è la  vendetta!
Oh benedetta la prudenza degli avi! -  Il  giovinastro,  com'era  ben  naturale,
pigliò di questi consigli la parte che gli quadrava meglio; si diede a pensar le
cose prima di farle, e a nasconderle bene dopo averle fatte. La gente non  gridò
piú tanto; le spose e le ragazze del paese beccarono qualche  spillone,  qualche
grembiule di seta;  il  padre  Pendola  era  benedetto  da  tutti,  e  il  nuovo
castellano dovette forse a lui, se non la salute dell'anima,  certo  quella  del
corpo. Infatti la fama che lo avea dipinto sulle prime  come  il  vero  flagello
della castità si tacque improvvisamente; Raimondo ebbe voce di giovine  discreto
e gentile; gli piaceva sí scherzare, ma non fuori dei limiti; e non si  schivava
dall'usar cortesia a qualunque genere di persone. Per esempio egli adorava tutti
i mariti che avevano mogli giovani e leggiadre; fossero benestanti  o  mandriani
non fu mai caso che egli  usasse  loro  il  benché  minimo  malgarbo.  Ascoltava
pazientemente le loro filastrocche, li raccomandava al Cancelliere, al  fattore;
e portava loro fino a casa la risposta di  un'istanza  esaudita,  o  d'un  conto
saldato. Se anche poi il galantuomo  si  trovava  per  avventura  assente,  egli
pazientava aspettandolo,  e  la  moglie  poi  si  lodava  assaissimo  al  marito
dell'urbanità e della modestia del padrone. In  verità  il  solo  padre  Pendola
sapeva fare di tali conversioni; e in tutta  la  popolazione  e  nel  clero  dei
dintorni fu una voce generale a proclamarlo una specie di taumaturgo. La Doretta
Provedoni era stata fra le prime ad attirare i pronti omaggi di Raimondo;  ma  a
Leopardo non andavano a' versi la smancerie del cavaliere, e con grandi strepiti
della moglie avea trovato modo di cavarselo dai  piedi.  A  udir  la  donna,  il
signorino usava de' suoi diritti; erano fratelli di latte, avean giocato insieme
da bambini, e non era strano  ch'egli  le  serbasse  ancora  qualche  affettuosa
ricordanza.  Il  vecchio,  i  fratelli,  le  cognate,  paurosi  d'inimicarsi  il
giurisdicente, tenevano per lei, e censuravano Leopardo come un orso  geloso  ed
intrattabile. Ma finché Raimondo continuò nella sua vita scapestrata egli  aveva
ragioni bastevoli da opporre alle loro; e la Doretta rimase col suo grugno senza
poterla spuntare. Venne poi il momento della conversione: si cominciò a  parlare
del miracolo operato dal padre  Pendola  e  del  meraviglioso  ravvedimento  del
giovine signore. Allora tutti furono addosso con grandi rimproveri  a  Leopardo;
la Doretta non vociava, non  strepitava,  ma  si  fingeva  offesa  dai  sospetti
ingiuriosi del marito. Questi, sincero, e credenzone e avvezzo ad  arrendersi  a
lei in ogni altra cosa pel cieco affetto che  le  portava,  confessò  di  essere
stato ingiusto; e pur di non vederla patire, consentí che l'andasse a trovar suo
padre a Venchieredo, com'era stata sua usanza prima che Raimondo fosse uscito di
collegio. Il giovine castellano accolse con molta  umanità  la  sua  sorella  di
latte; si stupí di non averla mai trovata in casa le molte volte che era stato a
Cordovado per salutarla; e andò anche in collera perché non  gli  avesse  ancora
fatto conoscere suo marito. Leopardo fu persuaso alla fine che le  apparenze  lo
avevano ingannato sulle mire di Raimondo; innamorato della moglie com'era, se ne
lasciò dir tante, che finí col domandarle scusa; e poi s'affrettò a  far  visita
con lei al castellano, e tornò a casa edificato di tanta  affabilità,  di  tanto
riserbo, benedicendo anche lui il  padre  Pendola,  e  permettendo  alla  moglie
d'andare a stare a  Venchieredo  quanto  piú  la  piacesse.  Cosí  s'era  venuto
perfezionando Raimondo nelle sue arti di feudatario; e di pari  passo  anche  la
sua idolatria per la Clara aveva imparato  modi  piú  discreti  ed  accorti.  La
Contessa temendo ch'egli si raffreddasse credette giunto il momento  di  tastare
il padre Pendola. Lo invitò parecchie volte a pranzo, lo volle seco alla partita
della sera; dimenticò monsignore di Sant'Andrea per andarsi a confessare da lui;
e infine quando  credette  il  terreno  apparecchiato  a  dovere,  pose  mano  a
seminare. - Padre -  gli  disse  ella  una  sera  in  casa  Frumier,  dopo  aver
abbandonato il gioco per non so qual pretesto, ed essersi ritirata con lui su un
cantone della sala - padre, ella è ben fortunato di aver un allievo  che  le  fa
onore! La Contessa volse un'occhiata quasi materna a Raimondo che ritto  dinanzi
a Clara aspettava ch'ella avesse finito di prendere il  caffè  per  ricevere  la
tazzina. Il reverendo padre posò sul giovane una simile occhiata,  raggiante  in
pari proporzioni di affetto e di umiltà. - La ha  ragione,  signora  Contessa  -
rispose egli - son proprio fortune; poiché del resto il precettore ha  ben  poca
parte nei meriti  dell'allievo.  Terra  buona  dà  buon  frumento  solo  volerlo
raccogliere; e terra magra non dà nulla, quantunque  si  voglia  inaffiarla  con
secchie di sudore. - Oibò, padre; non dirò mai questo! - ripigliò la Contessa  -
la invidiava giusto appunto perché ella si è trovata in grado di meritare  e  di
procurarsi una tale  fortuna.  Secondo  me  la  buona  educazione  d'un  giovine
collocato in cosí buon punto per far del bene, è il merito  piú  grande  che  si
possa vantare verso la società! - Quello d'una  nobildonna  che  educa  e  forma
delle ottime madri di famiglia non è certo minore - rispose il reverendo. -  Oh,
padre! noi ci mettiamo poco studio. Se il Signore ce le dà  belle  e  buone,  la
grazia è sua. Del resto una saggia economia, un buon ordine di casa,  una  buona
dose di timor di Dio, e la dote della modestia sono tutti i pregi  delle  nostre
figliole. - E lei ci dice niente, lei?... Economia, buon ordine, timor  di  Dio,
modestia!... Ma c'è tutto qui, c'è tutto!... Sarei anche per  dire  che  ce  n'è
d'avanzo; perché già il buon ordine insegna gli sparagni,  e  il  timor  di  Dio
conduce all'umiltà. Mi creda, signora Contessa, fossero donne cosifatte sui  piú
gran troni della terra, ancora ci farebbero una degna  figura!  Il  cuore  della
Contessa si slargò come una rosa a una lavata di pioggia.  Corse  collo  sguardo
dal buon padre Pendola alla Clara, dalla Clara a Raimondo, e  da  questo  ancora
all'ottimo padre. Questa giratina d'occhi fu come il tema della sinfonia che  si
apprestava a suonare. - Mi ascolti, padre reverendo - continuò, tirandosegli ben
vicina all'orecchio benché monsignore di Sant'Andrea la fulminasse con due occhi
di basilisco dal suo tavolino di picchetto. - Non è vero che al primo  comparire
del signor Raimondo, da queste parti  si  mormoravano  contro  di  lui...  certe
cose... certe cose... La Contessa balbettava, quasi sperando che l'ottimo  padre
le porgesse quella parola che le mancava; ma questi  stava,  come  si  dice,  in
guardia, e rispose a quel balbettamento con un'attitudine di maraviglia. - La mi
capisce; - continuò la Contessa - io non accuso già nessuno,  ma  ripeto  quello
che diceva la gente. Pareva che il signor Raimondo non dimostrasse  inclinazioni
molto esemplari... Già ella sa che a questo mondo i giudizi  si  precipitano;  e
che sovente le sole apparenze... - Pur troppo, pur troppo, cara Contessa;  -  la
interruppe con un sospirone il reverendo - crederebbe ella  che  né  io  né  lei
siamo al sicuro contro questo orco  maledetto  della  calunnia?  La  signora  si
pizzicò le labbra coi denti, e palpò se i nastrini della cuffia  erano  al  loro
posto. Avrebbe anche voluto  diventar  rossa;  ma  per  ottener  questo  effetto
convenne che la si decidesse a tossire. - Cosa  dice  mai,  padre  reverendo?  -
continuò ella sommessamente - la mi creda che da centomila bocche una voce  sola
s'accorda a celebrare la sua santità... Quanto a me poi  son  troppo  piccola  e
brutta cosa perché... - Eh, Contessa, Contessa!... ella vuol burlarsi di me. Una
gran dama nei tempi che corrono compera agli occhi del mondo un intero seminario
di preti, ed esse sole hanno il privilegio di far parlare o in bene o in male le
intere città. Quanto a noi, è troppo se degnano renderci il saluto. La Contessa,
troppo boriosa per lasciar cadere un  complimento  senza  raccoglierlo,  e  poco
accorta per tagliar di botto tutte queste frasche inutili del discorso, andò via
colla lingua dove la menava il reverendo padre, sempre allontanandosi dalla meta
che s'era prefissa nel cominciare. Ma il buon padre non era  un  allocco;  prima
d'ingarbugliarsi in certi fastidi volea capire qual pro' ne  avrebbe  cavato,  e
chi era quella gente con cui doveva accomunarsi. Per  quel  giorno  non  giudicò
opportuno toccar l'argomento, e barcamenò cosí bene che quando si  alzarono  dal
gioco per andarsene, la Contessa narrava, credo, le sue delizie giovanili,  e  i
bei tempi di Venezia, e Dio sa  quali  altri  vecchiumi.  Accorgendosi  che  era
venuto il momento di partire, si morsicò un poco le unghie; ma quell'ora le  era
scappata  via  cosí  premurosa,  il  buon  padre  l'aveva  trattenuta   con   sí
interessanti discorsi, che proprio il discorso principale le era rimasto a mezza
gola. Quanto al sospettare che l'ottimo padre l'avesse condotta, come  si  dice,
in cerca di viole, la Contessa ne era lontana  le  cento  miglia.  Piuttosto  si
stizzí colla propria loquacia, e fece proponimento di esser piú sobria  un'altra
volta, e di scordar il passato per curare il presente. Ma la  seconda  volta  fu
come la prima, e la terza come la seconda; e non era a dirsi  che  il  padre  la
schivasse o che dimostrasse di conversar con lei a malincuore. No, ché  anzi  la
cercava, la visitava sovente, e non era mai il  primo  ad  accomiatarsi,  se  il
pranzo imbandito o l'ora tarda non lo  costringevano  a  ritirarsi.  Soltanto  o
l'occasione non si presentava mai di intavolar quel discorso, o il  caso  voleva
che la Contessa se ne smemorasse, quando  avrebbe  potuto  accoccarlo  meglio  a
proposito. Bensí il padre Pendola non rimaneva ozioso nel frattempo; studiava il
paese, la gente, le magistrature, il clero; si addentrava nelle grazie  di  quel
signore o di quella dama; si piegava ai  vari  gusti  delle  persone  per  esser
gradito ovunque e da tutti; soprattutto poi cercava ogni via di entrar in favore
a Sua Eccellenza Frumier. Ma in questa faccenda l'andava da marinaio a galeotto;
e il padre lo sapeva, e preferiva andar sicuro per le lunghe al precipitarsi sul
primo passo. Dopo un paio di settimane egli diventò  un  essere  necessario  nel
crocchio del Senatore. In fino allora vi  avea  regnato  una  vera  anarchia  di
opinioni; egli intervenne ad accordare, a regolare, a conchiudere.  Gli  è  vero
che le conclusioni zoppicavano, e che sovente un epigramma di Lucilio  le  aveva
fatte capitombolare con grandi risate della compagnia. Ma il pazientissimo padre
tornava a rialzarle, ad assodarle con nuovi puntelli; infine stancheggiava tanto
gli amici e gli avversari che  finivano  col  dargli  ragione.  Il  Senatore  ci
pigliava gusto in queste esercitazioni  dialettiche.  Egli  era  di  sua  natura
metodico; e avvezzo per lunga pratica alle tornate  accademiche,  gli  piacevano
quelle dispute che dopo aver divertito qualche mezz'ora creavano se non altro un
qualche fantasma di verità. Il padre Pendola riesciva a quello che egli non avea
mai potuto ottenere da quei cervelli briosi e balzani che  gli  faceano  corona.
Perciò gli concesse una grande stima  di  logico  perfetto;  il  che  nella  sua
opinione era il piú grand'onore che potesse concedere a chichessia. Non indagava
poi se il padre Pendola fosse logico con se stesso, o se la sua logica cambiasse
gambe ogni tre passi per andar innanzi. Gli bastava  di  vederlo  arrivare:  non
importava se colle grucce di Lucilio, o con quelle del professor  Dessalli.  Sia
detto una volta per sempre che quell'ottimo padre aveva un occhio tutto suo  per
discerner l'animo delle persone; e perciò in un paio di sere non solamente aveva
capito che l'affetto del nobiluomo Frumier voleva essere conquistato a  suon  di
chiacchiere, ma aveva anche indovinato la qualità delle chiacchiere  bisognevoli
a ciò. Lucilio, che in  fatto  d'occhi  non  istava  meno  bene  del  reverendo,
s'accorse tantosto che gatta ci covava; ma aveva un bel che fare  di  schiudersi
un finestrello nell'animo di lui. La tonaca nera era d'un  tessuto  cosí  fitto,
cosí fitto, che gli sguardi ci spuntavano contro;  e  il  giovinotto  si  vedeva
costretto a lavorare coll'immaginazione. Finalmente venne il giorno che il padre
Pendola lasciò spiegare alla Contessa quel suo disegno cosí a lungo accarezzato.
Egli avea saputo quanto gli occorreva sapere; avea preparato ciò  che  bisognava
preparare; non temeva piú, anzi bramava che la Contessa  ricorresse  a  lui  per
poterle con bel garbo rispondere: "Signora mia, questo io  prometto  a  lei,  se
ella promette quest'altro  a  me!"  -  Ora,  domanderete  voi,  cosa  desiderava
l'ottimo padre? - Una minuzia, figliuoli, una vera minuzia! Siccome maritando il
signor Raimondo colla  contessina  Clara,  il  precettore  diventava  una  bocca
inutile nel castello di Venchieredo, cosí egli aspirava al posto di  maestro  di
casa presso il Senatore. La dama Frumier aveva  fama  di  divota;  egli  l'aveva
toccata sopra questo tasto e il  tasto  aveva  corrisposto  bene:  restava  alla
cognata il compir l'opera, se pure voleva vedere  accasata  la  figlia  in  modo
tanto onorevole. Il povero padre era  stanco,  era  vecchio,  era  amante  dello
studio; quello era  un  posto  di  riposo  che  gli  sarebbe  sembrato  la  vera
anticamera del paradiso; il prete che lo occupava  allora  desiderava  una  cura
d'anime; potevano accontentarlo e insieme accontentar lui che non si sentiva piú
né lena né sapienza bastevoli per lavorare operosamente nella vigna del Signore.
S'intende sempre che l'ottimo padre insinuò queste cose in maniera  da  sembrare
che la Contessa gliele strappasse dalle labbra, e non che egli  ne  la  pregasse
lei. - Oh, santi del paradiso! - sclamò la signora - qual consolazione  per  mio
cognato! che aiuto di spirito per la cognata! che, padre reverendo! lei vorrebbe
proprio adattarsi alla vita meschina d'un maestro di casa? - Sí, quando  il  mio
alunno si maritasse - rispose il padre Pendola. - Oh, si mariterà, si  mariterà!
non li vede? paiono proprio fatti l'uno per l'altra. - Infatti se io dicessi una
parola... Raimondo... Basta! mi lasci  studiare  i  loro  temperamenti,  che  li
osservi un pochino anch'io... - Eh, cosa serve mai  studiarli  questi  cuori  di
vent'anni? Non li vede, no!? basta una squadrata negli occhi... i loro pensieri,
i loro affetti sono là. E poi si fidi di me!... Sono  tre  mesi,  sa,  ch'io  li
studio tutte le sere. Si figurerebbe lei, padre reverendo, che da sei  settimane
io meditava di farle questo discorso e che me ne è sempre mancato il coraggio? -
Davvero, signora Contessa?... Oh cosa la mi conta! Mancare il coraggio a lei  di
chiamarmi a parte di un'opera di tanta carità e di tanto utile e di tanto lustro
per due intere famiglie! - Non è vero, padre, che la pensata è buona?...  E  non
sarà un bel regalo di nozze se si otterrà dall'Inquisitore di veder graziato del
resto della pena quell'altro  poveretto?...  Cosí  finirà  una  lunga  serie  di
dissidi, di malanni, di sciagure che affliggeva tutte le anime buone dei  nostri
paesi! - Oh sí, certo! e io mi ritirerò contento, se potrò affidare la  felicità
del mio figliuolo d'anima a una sí compita sposina; ma son cose,  Contessa  mia,
che vanno ponderate a  lungo.  Appunto  perché  io  posso  molto  sull'animo  di
Raimondo... - Sí, giusto per questo  la  prego  di  volergli  chiarire  tutti  i
vantaggi che verrebbero ad ambedue le case  da  questo  sposalizio...  -  Voleva
dire, signora Contessa, che appunto per la responsabilità che mi pesa addosso mi
bisognerà camminare coi calzari di  piombo.  -  Eh  via!  a  lei,  padre,  basta
un'occhiata per veder tutto!... Oh quanto mi tarda  di  veder  stabilito  questo
ottimo patto di alleanza!... E mio cognato come sarà contento di poter avere  in
casa un uomo del suo calibro!... Domani subito  penseranno  a  provvedere  d'una
prebenda il cappellano attuale. Giacché lo desidera, nulla di  meglio!  -  Pure,
signora Contessa... - No, padre, non faccia obbiezioni... la mi prometta di  far
questa grazia a mio cognato! giacché gli è scappata una parola non la  ritiri...
- Io non dico di ritirarla, ma... - Ma, ma, ma...  non  ci  sono  ma!...  Guardi
guardi un po' ora il signor Raimondo e la mia Clara! Come  si  guardano!...  Non
sembrano proprio due colombini... - Se il Signore vorrà, non vi sarà  mai  stata
un coppia piú perfetta. - Ma i disegni del Signore bisogna aiutarli, padre, e  a
lei tocca prima degli altri che è  un  suo  degnissimo  ministro...  -  Indegno,
indegnissimo, signora Contessa! - Insomma io li aspetto domani a pranzo... me ne
dirà qualche cosa del suo Raimondo. - Accetto le sue grazie,  signora  Contessa;
ma non so... cosí a  precipizio...  Insomma  non  prometto  nulla...  Basta,  mi
costerà assai dividermi da quel buon figliolo. - Le assicuro che i miei  cognati
la compenseranno ad usura di quanto ella sarà per perdere. - Oh sí, lo credo, lo
spero; ma... - Insomma, padre, a  domani.  Parleremo,  ci  concerteremo;  io  ne
butterò un cenno stasera al Senatore, giacché appunto restiamo con lui a cena. -
Oh, per carità, signora Contessa, non mi esponga, non mi comprometta  troppo.  È
proprio per me un sacrificio che... - Oh  bella!  vorrebbe  dunque  per  egoismo
lasciar senza sposa quel caro figliuolo! Che precettore  cattivo!  A  domani,  a
domani, padre; e venga per tempo che discorreremo mentre bolliranno  i  risi.  -
Servo umilissimo della signora Contessa, non mancherò certamente, e Dio  meni  a
buon fine le nostre intenzioni. Il buon padre infatti, uscito  che  fu  di  casa
Frumier con Raimondo e sprofondato nei comodi sedili d'un bombé, cominciò subito
a lodarlo della vita ch'egli menava e del buon uso fatto de' suoi consigli. Ma i
proponimenti dell'uomo sono fallaci, le  sue  passioni  prepotenti,  e  non  mai
abbastanza commendevole la cura di frenarle, di regolarle con  vincoli  sacri  e
legittimi. Egli toccava  il  ventunesimo  anno;  il  momento  non  poteva  esser
migliore, ed egli se gli profferiva, l'ottimo padre, a soccorrerlo nella  scelta
colla sua lunga ed oculata esperienza. - Oh; padre;  dice  da  senno?  -  sclamò
Raimondo. - Lei mi esorta a maritarmi?... Ma un anno fa non mi inculcava  sempre
la massima, che bisognava esser maturi di  anni  e  di  senno  per  decidersi  a
piantare una famiglia? e che  l'aiuto  d'un  precettore  di  mente  e  di  cuore
comprava benissimo il soccorso spesso lieve e manchevole d'una  donnicciuola?  -
Sí, figliuolo mio; - rispose candidamente il precettore - questi consigli io  vi
davo nell'ultimo anno che fui vostro maestro nel  collegio;  e  credeva  fossero
ottimi; ma allora non vi aveva ancora osservato nella libertà del mondo. Ora che
vi conosco meglio nella pratica della vita, non mi vergogno  dal  ricredermi,  e
dal confessare che m'era ingannato. Lo vedete bene, parlo a mio danno. Quando la
sposa entrerà in questo castello per una porta, io necessariamente dovrò  uscire
dall'altra... - Oh no,  padre!  non  dica  questo!  non  mi  tolga  il  soccorso
dell'opera sua e del suo consiglio!... Mi creda  che  io  non  dimenticherò  mai
quanto le devo! Anche due  mesi  fa  quei  passatori  di  Morsano  mi  avrebbero
accoppato, se ella non li  riduceva  a  piú  discreti  sentimenti  facendo  loro
accettare una piccola riparazione in denaro! E dire che io non  aveva  tocco  un
dito a quella loro sorella... Glielo giuro, padre! -  Sí,  figliuolo,  vi  credo
pienamente; ma non  dovete  offendere  la  mia  modestia  col  ricordare  questi
debolissimi meriti; vi prego a dimenticarli, o almeno a non parlarne piú. Quello
che è stato è stato!... Come vi dico, io mi ricredo da quello che pensava  utile
a  voi  un  anno  fa;  ora  mi  piacerebbe  vedervi  accasato  stabilmente,   ed
onorevolmente. Lasciandovi al fianco una sposina buona, paziente, divota, io  mi
ritirerei piú contento nella nicchia della mia vecchiaia... - Ma padre!  non  mi
dicevate voi sempre che anche maritandomi io, voi sareste rimasto il paciere, il
consolatore, il vincolo spirituale fra me e mia moglie! che per oro al mondo non
avreste consentito di separarvi da me?... Il padre Pendola infatti avea  parlato
molte volte su questo tenore finché non avea sperato di giungere  a  un  miglior
posto. Allora che gli veniva fatto d'intravvedere di meglio pescando nei torbidi
ecclesiastici  di  Portogruaro,  diede  a  quelle  sue  parole  una  piú   larga
interpretazione. - Dissi cosí, e non nego ora quello che  dissi  tante  volte  -
soggiunse egli. - Il mio spirito rimarrà sempre fra voi,  perché  la  parte  sua
migliore si è transfusa nell'anima vostra col santo  canale  dell'educazione;  e
quanto alla sposa, siccome io avrei cura di  sceglierla  conforme  alle  massime
della buona morale, essa corrisponderà perfettamente  alle  mire  ch'io  ho  nel
confidarvela. Questo, Raimondo, questo è quel  vincolo  spirituale  che  dipende
dalla piú intima parte del mio cuore e che  rimarrà  sempre  fra  voi  e  vostra
moglie!... Raimondo a questi schiarimenti del precettore  non  si  mostrò  forse
cosí malcontento come ne sarebbe rimasto tre mesi  prima.  Ma  in  quel  momento
giungevano al castello, e il colloquio restò sospeso fin dopo  cena.  Allora  lo
ripresero di comune accordo, perché al giovine tardava  l'ora  di  conoscere  il
nome della sposa che nel cervello del padre  Pendola  gli  veniva  destinata.  -
Raimondo, quel nome voi lo sapete! - disse  con  voce  di  dolce  rimprovero  il
soavissimo padre - io ve lo leggo negli occhi,  e  voi  avete  peccato  di  poca
confidenza nel vostro unico amico a non partecipargli il voto del vostro  cuore.
- Che! sarebbe vero? Ella, padre, lo ha indovinato cosí presto? -  Sí,  figliuol
mio, tutto s'indovina quando si ama. E vi confesso che se la vostra  ritenutezza
mi afflisse, mi consolò assaissimo la buona scelta che vi venne fatta e che  non
mancherà d'infiorare la vostra vita di gioie imperiture... - Oh,  padre!  non  è
vero che è bella come un angelo?... Ha osservato,  padre,  che  occhi,  e  quali
spalle!... Oh Dio mio, io non ho veduto mai spalle cosí tornite! -  Questi  sono
pregi fugaci, figliuol mio, sono ornamenti esteriori del vaso che  poco  contano
se non vi si contiene un aroma odoroso  ed  incorrotto.  Io  peraltro  vi  posso
assicurare che l'animo della Contessina corrisponde appunto a quanto  promettono
le sue sembianze. Ella sarà veramente un angelo, come dicevate poco fa...  -  Ma
me la daranno poi, padre dilettissimo?... Consentiranno a darmela in isposa?  Io
ho tutta la fretta immaginabile!... Vorrei averla meco domani,  oggi  stesso  se
fosse possibile; e la è ancora cosí tenerella, quasi ancora  fanciulla...  -  Vi
sbagliate, figliuol mio, la modestia e il  candore  ve  la  fanno  sembrare  piú
giovine ch'ella non sia; per l'età ella vi si attaglia benissimo, e di  poco  vi
deve esser  minore.  -  Come?  cosa  mi  conta?  la  contessina  Pisana  avrebbe
all'incirca la mia età? - Raimondo, voi scambiate i nomi; la contessina ha  nome
Clara e non Pisana; Pisana è la sua sorellina, quella fanciulletta  che  stasera
stava seduta fra voi e monsignore di Sant'Andrea. - Ma gli è appunto  di  quella
che io intendo parlare, padre!... Non  si  è  accorto  con  quali  occhi  la  mi
guardava?... da ieri sera io ne sono innamorato morto... Oh, io non potrò vivere
se non mi farò amare da lei!... - Raimondo, figliuol mio, siete pazzo, non avete
occhi, non ponete mente a quanto mi dite?... Quella è una  fanciulletta  di  una
diecina d'anni al piú!... Non può essere che vi siate invaghito di lei; è  certo
il cuore che v'inganna e ve la rende cosí diletta come sorella della  contessina
Clara. - Ma no; padre, l'assicuro... - Ma sí, figliuol mio;  lasciatevi  guidare
da chi ne sa piú di voi; lasciate ch'io metta un po' di chiaro in un  cuore  che
conosco meglio di voi; e ne ho il diritto dopo tanti anni che lo studio, che  lo
indirizzo al suo meglio. Voi amate la contessina Clara; me ne sono avveduto alle
cortesi premure che le dimostravate. - Sí, padre, fino alla  settimana  passata,
ma ora... - Ora, ora poi siccome la Contessina è troppo pudica e ben educata per
corrispondervi apertamente e senza il consenso  dei  suoi  genitori,  voi  avete
creduto che non la si  commovesse  punto  alle  vostre  dimostrazioni,  e  avete
cercato per giungere a lei di addomesticarvi colla sorella. Questa piccina vi ha
accolto colle feste, coll'ingenuità propria dell'età sua, e la riconoscenza  che
le professate di queste buone maniere voi la affigurate per amore! Ma pensateci,
figliuol mio, sarebbe una ridicolaggine, una vergogna! - Non importa, padre!  Si
vede che non l'avete mai osservata come ho fatto io con molta  accortezza  nelle
due ultime sere. - Anzi l'ho osservata benissimo, e se aveste qualche intenzione
sopra di lei, Raimondo caro, bisognerebbe che vi rassegnaste  a  sette  od  otto
anni di aspettativa, senzaché ella intanto potrebbe cambiar parere. E poi  tutti
riderebbero di vedervi innamorato di una bambina! E poi sapete che  è  una  vera
fanciullaggine adorare un frutto acerbo mentre  ne  potreste  cogliere  uno  già
maturo e saporito! - Non so che farne, padre, non so che farne!  -  Ma  pensate,
figliuol mio, riflettete bene.  Voglio  adoperare  i  vostri  stessi  argomenti.
Vorreste sperare che la Pisana possa superare la contessina Clara nella bellezza
dei  sembianti,  nel  candor  della  pelle,  nella   perfezione   delle   forme?
Riducetevela  bene  alla  memoria,  Raimondo!...  Vi  sentireste  in  grado   di
resisterle? - Non so, padre, non so; ma ella certamente non ha voluto saperne di
me. - Fandonie, credetelo, apparenze, e nulla piú. Puro effetto di  pudicizia  e
di modestia. - Bene, sarà anche, ma  questi  temperamenti  agghiacciati  non  mi
talentano. - Agghiacciati, figliuol mio? Si vede che non avete esperienza! Ma  è
appunto sotto queste maniere composte e riserbate che si nascondono  gli  ardori
piú intensi, le voluttà piú squisite!... Credetelo a chi ha  studiato  il  cuore
umano. - Sarà, padre; anzi mi pare che deve  essere  cosí;  eppure...  -  Eppure
eppure!... cosa volevate dire?... Eppure ve lo dirò io!... Eppure non è opera di
carità né di prudenza l'affliggere il cuore d'una bella ragazza che sotto le sue
apparenze di pace e di modestia vi ama sfrenatamente, non vive che per voi, ed è
disposta a farvi dono dei piú santi piaceri che Dio clemente ci abbia  conceduto
di gustare! - Oh, padre! sarebbe vero?... la contessina Clara  è  innamorata  di
me? - Sí, certo, ve lo accerto, ve lo giuro;  volete  saperlo?...  me  lo  disse
qualcuno di casa sua!... È  innamorata,  poverina,  e  muore  dal  desiderio  di
piacervi! - Quand'è cosí, capisco, padre:  mi  sono  sbagliato.  Sett'anni  sono
lunghi. Io pure fui  innamorato  della  contessina  Clara!  ed  anche  adesso  a
ripensarci su... - Ah! l'hai confessato, figliuol mio! l'hai confessato! Signore
ti ringrazio! Ecco che il mio ministero è terminato, e che  potrò  riposarmi  in
pace sulla felicità preparata per le mie mani a  queste  tue  dilette  creature.
Raimondo, io ho scoperto il segreto del vostro cuore;  lasciatemi  adoperare  in
maniera che tutto riesca secondo i vostri desiderii. - Adagio, padre: non vorrei
che per la troppa fretta... -  Il  rimedio  urge,  figliuol  mio.  Pensate  alla
beatitudine che proverete nello stringervi sul  cuore  in  questo  castello,  in
questa stessa camera una sposina cosí bella, cosí docile,  cosí  infiammata  per
voi!... Oh Dio! non avrete mai provato nulla di simile. -  Or  bene,  padre;  ha
ragione; faccia pur lei... Veramente le mie intenzioni... ma ora dopo piú matura
riflessione, e giacché ella mi assicura che quella ragazza è innamorata di me...
- Sí, Raimondo, ne metterei le mani nel fuoco. - Or bene, padre; le nozze non si
potrebbero fare domenica? - Potenza del cielo! domenica dici! e poi raccomandi a
me di non aver troppa fretta! ci vorrà qualche settimana,  forse  qualche  mese,
figliuol caro. Le cose di questo mondo camminano con un certo ordine che non  va
disturbato.Tuttavia nel frattempo tu potrai vedere la tua fidanzata e parlarne e
star a lungo con lei nel castello di Fratta, e presenti i  genitori.  -  Oh  che
consolazione,  padre!  Cosí  potrò  continuare  a  vedere  anche  la  Pisana!  -
S'intende, ed amarla e trattarla coll'onesta confidenza di  un  futuro  cognato.
Sta' cheto, figliuol mio; confida in me e dormi pure tranquilli  i  tuoi  sonni,
ché le lusinghe del tuo venerabile zio non andranno deluse, e partecipandogli il
tuo matrimonio potrai assicurarlo che io ti ho fatto buono, e felice! Il  nobile
giovine pianse di  tenerezza  a  queste  parole,  baciò  la  mano  al  diligente
precettore, e salí nella sua stanza da letto colla Pisana e  la  Clara  che  gli
ballavano confusamente nella fantasia. Omai non sapeva  ben  quale,  ma  sentiva
distintamente che ognuna delle due sarebbe stata quella sera la benvenuta. Sopra
queste felici disposizioni avea contato il padre Pendola  per  distorglierlo  da
quell'impensato capriccio per la Pisana, e rinfiammarlo della Clara; né  l'esito
gli ebbe a fallire. Soltanto andando egli pure a letto seguitò a maravigliarsi e
a congratularsi di quel nuovo impiccio  cosí  venturosamente  evitato.  "Ah!  la
birboncella!" pensava egli, "me ne ero accorto io che in quei  suoi  quattordici
anni ne covavano trenta di malizia!... ma cosí a rompicollo, non me lo sarei mai
immaginato.  Proprio  chi  afferma  che  il  mondo  progredisce  sempre,  finirà
coll'aver ragione". In questi pensieri il reverendo padre erasi coricato; e  poi
tolse in mano gli opuscoli divoti del Bartoli che erano la sua consueta  lettura
prima di addormentarsi. Ma quello che aveva  tanto  sorpreso  lui,  non  avrebbe
sorpreso me per nulla. Io aveva seguito benissimo il Venchieredo nelle fasi  del
suo amore per la Clara; e sfiduciato alla fine  di  muoverla,  lo  aveva  veduto
nelle due ultime sere accorgersi della Pisana, accostarsi a  questa,  e  pigliar
tanto fuoco in un attimo, quanto non gli si era destato in cuore in due mesi  di
omaggi alla sorella maggiore. Quanto rammarico io avessi per questo,  ognuno  se
lo può immaginare per poco  che  abbia  capito  l'indole  del  mio  affetto  per
quell'ingrata. Ma ebbi campo in seguito di maravigliarmi, quando vidi la  Pisana
dopo gli  ossequi  del  Venchieredo  riprendere  verso  di  me  la  sua  maniera
affettuosa e gentile, quale da un pezzo non la usava piú che a  sbalzi  e  quasi
per sforzo di volontà. Donde proveniva questa nuova stranezza? Allora non poteva
farmene ragione per nessun modo. Adesso mi par di capire che la burbanza di essa
verso di me derivasse massimamente dal corruccio di vedersi trascurata come  una
bambina a dispetto della sua sfrenata bramosia  di  piacere.  E  non  appena  la
piacque a qualcuno, tornò verso di me quale era  sempre  stata.  Anzi  migliore;
perché nessuna cosa ci fa verso gli altri cosí buoni  e  condiscendenti,  quanto
l'ambizione soddisfatta. Confesso la verità che senza scrupoli e senza  vergogna
io presi la mia parte di quell'amorevolezza; e che a poco a  poco  il  rammarico
pel trionfo del Venchieredo mi si andò mutando nel cuore in un'amara  specie  di
gioia. Mi parve di essere omai accertato che la Pisana non cercava  negli  altri
né il merito né il piacere di essere amata, ma  la  novità  e  il  contentamento
della vanagloria. Perciò aveva lasciato da un canto Lucilio per  appigliarsi  al
Venchieredo non appena la novità di questo aveva attirato gli sguardi piú che il
brioso gesteggiare di quello. Allora mi confortai colla certezza che nessuno  né
l'amava né l'avrebbe amata al pari di me; e ogniqualvolta  le  avesse  ricercato
l'animo un vero desiderio di amore, viveva sicuro che la mi sarebbe  volata  fra
le braccia. Stupido cinismo di accontentarmi a questa  lusinga,  ma  un  gradino
dopo l'altro io ero disceso a tanto;  e  finii  coll'usarmi  a  quella  vita  di
avvilimento, di servilità e di gelosie per modo che io era già uomo  snervato  e
disilluso quando tutti mi  credevano  ancora  un  ragazzaccio  rubesto  e  senza
pensieri. Ma chi si dava cura di tener dietro alle  passioncelle  e  ai  romanzi
della nostra adolescenza? - Ci giudicavano novelli affatto nella  vita,  che  ne
avevamo già fornita tutta l'orditura; e il compiere la  trama  è  opera  manuale
alla quale siamo sospinti il piú delle volte da forza ineluttabile e fatale.  Il
padre Pendola, dopo aver riconfermato il giovine cavaliero nei  propositi  della
sera prima, riferí alla Contessa di Fratta l'ottimo risultato delle sue  parole,
tacendo, non è d'uopo nemmeno il dirlo, tuttociò che si riferiva alla Pisana. La
signora  volle  quasi  gettargli  le  braccia  al   collo,   e   lo   ricompensò
coll'assicurarlo  che  un  suo  semplice  motto  lasciato  cadere  intorno  allo
stabilimento di lui in casa Frumier, era stato  accolto  dal  Senatore  e  dalla
moglie con tal festosa premura da augurarsene un  pronto  adempimento  dei  loro
voti. - Ora poi - disse la signora all'orecchio del reverendo che si era  seduto
a tavola vicino a lei a dispetto del solito cerimoniale di casa - ora poi  lasci
fare a me. Prima anche che la Clara sospetti di nulla,  perché  già  le  ragazze
devono essere condotte adagio entro  queste  faccende,  io  voglio  che  i  miei
eccellentissimi cognati sieno beati della sua compagnia. -  Povero  Raimondo!  -
sospirò il padre fra un boccone e l'altro. - Non lo compianga; - soggiunse ancor
sottovoce la Contessa occhieggiando la figlia  -  una  sposina  come  quella  si
quadra meglio del prete a un  giovine  di  ventun  anno.  Infatti  la  settimana
seguente tutta Portogruaro fu piena della gran novella. Il celebre,  l'illustre,
il dotto, il santo padre Pendola si  ritirava  in  casa  Frumier,  stanco  delle
fatiche d'un lungo apostolato. Colà egli disegnava metter in pace la sua età non
molto provetta ancora, ma pur afflitta pei sofferti disagi  da  molti  incommodi
della vecchiaia. Il vecchio Cappellano era stato trasferito, come desiderava, ad
una cura vicino a Pordenone; e il Senatore e la nobildonna non  potevano  capire
in sé per la gioia di possedere in sua vece un  tanto  luminare  d'ecclesiastica
perfezione. Raimondo aveva fatto le viste di adirarsi perché egli volesse uscire
di sua casa prima che fosse entrata la sposa; ma il buon padre non ebbe  bisogno
di sfiatarsi per persuaderlo che ad  un  giovine  vicino  a  fidanzarsi  non  si
affaceva la tutela del precettore, e che per tutte le ragioni conveniva  che  la
sua partenza da  Venchieredo  precedesse  d'alcun  poco  la  celebrazione  degli
sponsali. Raimondo lo vide partire senza molte lagrime, e continuò a frequentare
il castello di Fratta, dove la confidente affabilità della Pisana lo  compensava
del gelato riserbo della Clara. Ma a costei non avevano ancor fatto cenno  della
fortuna che l'aspettava; ed egli attribuiva a ciò lo sforzo da  lei  durato  per
nascondergli la veemenza dell'amor suo. Del resto  non  se  ne  pigliava  grande
affanno; e se Clara falliva egli avrebbe goduto  di  ricattarsi  colla  sorella.
Questi erano i filosofici sentimenti del signor di Venchieredo, ma  la  Contessa
non la pensava a quel modo. Dopo aver lasciato i due  giovani  entrare,  secondo
lei, in una decente dimestichezza prese ella a preparare la Clara  alla  domanda
del giovine; e parla e riparla s'inquietò alla fine un poco  di  vederla  restar
cosí fredda e imperterrita come non si  trattasse  di  lei.  Un  bel  giorno  le
spiattellò  chiare  e  tonde  le  probabili  intenzioni  di  Raimondo;  e  anche
quest'ultimo colpo non diradò per nulla quella nube che da molti giorni  si  era
raunata sulla fronte della donzella. Chinava le ciglia, sospirava, non diceva né
sí né no. La mamma cominciò a credere che  la  fosse  una  stupida,  come  aveva
sempre sospettato dentro di sé vedendola grave modesta e disforme  in  tutto  da
quello ch'ella era stata negli anni della giovinezza. Ma  anche  le  stupide  si
scuotono a toccarle su quel tasto del marito; e la stupidità della Clara  doveva
essere veramente fuor di natura per non muoversi nemmeno a ciò. Si aperse allora
colla vecchia suocera, che era sempre stata la confidente della fanciulla, e  la
pregò d'ingegnarsi a farle capire i disegni della famiglia  intorno  a  lei.  La
vecchia inferma parlò ascoltò, e riferí  alla  nuora  che  la  Clara  non  aveva
intenzione di maritarsi, e che voleva star sempre con lei a vegliarla nelle  sue
malattie, a confortarla nella  sua  solitudine.  -  Eh!  questi  son  grilli  da
pettegola! - sclamò la Contessa. - La vorrei  vedere  io  che  la  seguitasse  a
fargli il muso duro a  quel  poverino,  sicché  egli  trovasse  un  pretesto  di
cavarsela. Quando i genitori vogliono, il dovere delle ragazze fu sempre  quello
di obbedire, almeno in questa casa;  e  non  si  vedranno  novità,  no,  non  si
vedranno. Quanto a lei poi, signora, io spero che non la fomenterà questa pazzia
e che la vorrà aiutare me e il signor Conte a far vedere alla ragazza qual è  il
suo meglio. La vecchia accennò del capo che avrebbe fatto, e fu  molto  contenta
che la nuora dopo quella gridata le uscisse fuori di  camera.  Ma  non  fu  meno
pronta per ciò a ritentare il cuor della Clara per persuaderla di  accettare  lo
sposo che nobile e degno per ogni riguardo  le  si  profferiva.  La  giovine  si
rinchiudeva nel suo silenzio, o rispondeva come prima che Dio non la chiamava al
matrimonio, e che sarebbe stata felice di terminar la sua vita in quel  castello
accanto alla nonna. Si ebbe un bel che dire e un bel che fare: alla nonna,  alla
mamma, al papà, allo zio monsignore la Clara ripeté sempre  la  medesima  solfa.
Laonde la Contessa, per quanto ne arrabbiasse furiosamente dentro di sé,  decise
di soprastare senza nulla rispondere al Venchieredo e di dar intanto una voce al
padre Pendola perché egli colla sua meravigliosa prudenza le additasse un  mezzo
da convertir la Clara all'obbedienza,  senza  ricorrere  a  maniere  violente  e
scandalose. Peraltro alcunché di questo  ostinato  resistere  della  zitella  al
desiderio dei suoi trapelava di fuori; e Lucilio sembrava  non  se  n'accorgere,
tanto serbava con essa le solite maniere, e il Partistagno compariva alle veglie
del castello di Fratta e alla conversazione di casa  Frumier  piú  sorridente  e
glorioso che mai. Il padre Pendola udito il grave caso si offerse esso stesso  a
paciero fra la Contessa e la nobile donzella; tutti  ne  concepirono  le  grandi
speranze; e lasciato ch'ei fu a quattr'occhi  con  essa,  alcuno  si  fermò  per
curiosità ad origliare dietro l'uscio.  -  Contessina  -  principiò  a  dire  il
reverendo - cosa ne dice di questo bel tempo? La Clara s'inchinò un po'  confusa
per  non  saper  come  rispondere;  ma  il  padre  stesso  la  tolse  d'impiccio
continuando: - Una stagione come questa non l'abbiamo goduta da un  pezzo  e  sí
che si può dire di esser appena usciti dall'inverno. L'Eccellentissimo  Senatore
mi ha concesso, anzi doveva dir pregato, di  andarne  a  visitare  il  mio  caro
alunno, quell'ottimo  giovane,  quel  compito  cavaliere  ch'ella  ben  dovrebbe
conoscere. Ma cosí passando ho voluto vedere di loro, e  chieder  novella  delle
cose di famiglia. - Grazie, padre - balbettò la fanciulla non vedendolo disposto
a proseguire. Il padre prese buon augurio da quella timidità,  argomentando  che
come le avea strappato quel grazie, le avrebbe poi fatto dire e promettere  ogni
cosa che avrebbe voluto. -  Contessina;  -  riprese  egli  colla  sua  voce  piú
melliflua - la sua signora madre ha riposto in  me  qualche  confidenza  e  oggi
sperava di udire da lei quanto il mio cuore desiderava da lungo tempo. In quella
vece ella non mi ha dato che mezze parole; sembra che ella non  abbia  inteso  i
retti e santi divisamenti de' suoi genitori; ma spero che quando io le li  abbia
spiegati meglio, non avrà piú ombra di dubbio nell'accettarli come comandati dal
Signore. - Parli pure - soggiunse la Clara con  fare  modesto  ma  calmo  questa
volta e sicuro. - Contessina, ella ha in mano il mezzo di ridare la gioia  e  la
concordia non solo a due  illustri  famiglie,  ma  si  può  dire  ad  un  intero
territorio; e mi si vuol far credere che per altri  scrupoli  pietosi  ella  non
voglia approfittarne. Mi permetterà ella di credere che non si  interpretò  bene
la sua risposta, e che quello  che  parve  irragionevole  rifiuto  e  scandalosa
ribellione altro non fu che peritanza di pudore o impeto  di  troppa  carità?  -
Padre, io non so forse spiegarmi abbastanza, ma  col  ripetere  le  stesse  cose
molte volte spero che alla fine mi capiranno. No, io non mi  sento  chiamata  al
matrimonio. Dio mi tragge per un'altra strada: sarei una cattivissima  moglie  e
posso continuare a vivere da figliuola dabbene; la mia coscienza mi  comanda  di
attenermi a  quest'ultimo  partito.  -  Ottimamente,  Contessina.  Io  non  sarò
certamente quello che vorrà condannarla di  questo  rispetto  alle  leggi  della
coscienza. Questo anzi raddoppia la stima ch'io aveva per lei e  mi  fa  sperare
che in seguito ci raccosteremo nelle opinioni. Mi vuol ella permettere  che  col
mio umilissimo ma devoto criterio l'aiuti  a  illuminare  quella  coscienza  che
forse s'è un po' turbata, un po' oscurata nei tentennamenti, nelle battaglie dei
giorni passati? Nessuno, Contessina, è tanto santo da  credere  ciecamente  alla
coscienza propria rifiutando i lumi e i suggerimenti dell'altrui. - Parli  pure,
parli pure, padre: io son qui per ascoltarla e per confessare  che  avrò  torto,
quando ne sia persuasa. "Mi dicevano che è stupida! - pensava l'ottimo  padre  -
altro che stupida! Mi accorgo che avrò una stizzosa gatta da pelare, e bravo  se
ci riesco!" - Or dunque - soggiunse egli a voce alta - ella saprà  prima  di  me
che l'obbedienza è la prima legge delle figliuole  coscienziose  e  timorate  di
Dio. Onora il padre e la madre se vuoi vivere  lungamente  sopra  la  terra;  lo
disse il medesimo Dio, ed ella finora ha sempre messo in pratica  questo  divino
precetto. Ma l'obbedienza, figliuola  cara,  non  soffre  eccezioni,  non  cerca
nessuna scappatoia; l'obbedienza obbedisce, ecco tutto. Ecco la  coscienza  come
l'intendiamo noi poveri ministri dell'Evangelo. - E cosí pure l'intendo  anch'io
- rispose umilmente la Clara. "Che l'avessi persuasa a  quest'ora?  -  pensò  di
nuovo il reverendo. - Non me ne fido un cavolo davvero". Tuttavia fece le  viste
di crederlo, e alzando le mani al cielo: - Grazie, diletta figliuola in  Cristo!
- sclamò - grazie di questa buona parola; cosí per questa strada d'abnegazione e
di sacrifizio si tocca l'ultimo grado della perfezione, cosí si potrà persuadere
con suo grande vantaggio che la potrà diventare ancor  piú  eccellente  sposa  e
madre di famiglia che non fu fino ad ora buona e costumata figliuola...  Oh  non
durerà una grande fatica, la si assicuri!... Uno sposo quale fu destinato a  lei
dal cielo  non  è  sí  facile  trovarlo  al  giorno  d'oggi!  L'ho  educato  io,
Contessina; io l'ho formato colla midolla piú  pura  del  mio  spirito  e  colle
massime piú sante del cristianesimo. Dio la vuol rimeritare  della  sua  insigne
pietà, del suo filiale rispetto!... Che egli seguiti a benedirla, e che egli sia
ringraziato dell'aver permesso a me di portare  nell'anima  sua  la  luce  della
persuasione!... Il buon padre tenendo sempre le mani e gli occhi verso il  cielo
si disponeva ad uscire dalla stanza per recare alla Contessa la  buona  novella;
ma la Clara era troppo sincera per lasciarlo in  un  inganno  sí  madornale.  La
sincerità in quel frangente la aiutò tanto bene quanto la  furberia,  perché  il
buon padre fidava appunto nel suo scarso coraggio e nell'innocente semplicità, e
credeva che si sarebbe lasciata credere persuasa per  la  ritrosia  di  dovergli
contraddire. Fu adunque molto maravigliato di sentirsi  fermar  per  una  manica
dalla fanciulla; e capí cosa annunziava quel gesto. Tuttavia non volle darsi per
disperato e si  volse  a  lei  con  un'unzione  veramente  paterna.  -  Cosa  ha
figliuola? - diss'egli inzuccherando ogni parola con un sorriso serafico.  -  Ah
capisco!  vuol  esser  lei  la  prima  a  recare  a'  suoi  genitori  una  tanta
consolazione! Dopo averli martoriati tanto, forse a fin di bene, le parrà giusto
di gettarsi a' loro  piedi,  di  implorar  perdono,  di  assicurarli  della  sua
sommissione filiale! Andiamo dunque; venga pure con me. -  Padre  -  rispose  la
Clara per nulla sgomentita da questa finta sicurezza del predicatore - io  forse
intendo l'obbedienza io un modo differente dal suo. A me pare che  obbedire  sia
un arrendersi oltreché nella lettera, anche nello spirito, ai  comandamenti  dei
superiori. Ma  quando  uno  di  questi  comandamenti  sentiamo  di  non  poterlo
osservare pienamente, sarebbe ipocrisia fingere di piegarvisi colle apparenze! -
Ah, figliuola mia! cosa dice mai! sono sottigliezze scolastiche. San  Tommaso...
- San Tommaso fu un gran santo, ed io lo rispetto e  lo  venero.  Quanto  a  me,
ripeto a lei quello che dovetti dire alla signora madre, alla nonna, al papà  ed
allo zio. Io non posso promettere di amare un marito che  non  potrò  amar  mai.
Obbedire nel concedermi a questo marito sarebbe un  obbedire  col  corpo,  colla
bocca; ma col cuore no. Col cuore non potrei mai. Laonde mi  permetterà,  padre,
di rimaner zitella! - Oh, Contessina! badi e torni a badare! Il suo ragionamento
pecca nella forma e nella sostanza. L'obbedienza non ha la lingua cosí lunga.  -
L'obbedienza quando è  interrogata  risponde,  ed  io  non  chiamata  non  avrei
risposto mai, ne l'assicuro, reverendo padre! - Alto là, Contessina! ancora  una
parola! Ho da dirle tutto?... Ho dunque da spiegarle tutta la virtù che  si  può
cristianamente pretendere da una figliuola esemplare?... Ella si professa pronta
ad obbedire tutti quei  comandi  dei  suoi  genitori  che  si  sente  capace  di
eseguire!! Ottimamente, figliuola!... Ma cosa le comandano i suoi  genitori?  Le
comandano di sposare un giovine che le viene profferto, nobile, dabbene,  ricco,
costumato, dall'alleanza col quale proverranno grandi beni  a  tutte  e  due  le
famiglie e all'intero paese! Quanto al suo cuore, essi non le  comandano  punto.
Al cuore ci penserà ella in seguito; ma la religione  vuole  che  la  si  pieghi
intanto in quello che può, e stia certa che come premio di tanta sommessione Dio
le largirà anche la grazia di adempiere perfettamente tutti  i  doveri  del  suo
nuovo stato. La Clara rimase qualche tempo perplessa a  questo  sotterfugio  del
moralista; tantoché egli racquistò qualche lusinga di averla piegata, ma la  sua
vittoria fu assai breve, perché brevissima fu la perplessità  della  giovine.  -
Padre - riprese ella col piglio risoluto di chi conchiude una disputa e non vuol
piú udirne parlare - cosa direbbe ella d'un tale che  crivellato  dai  debiti  e
nudo di  ogni  altra  cosa  si  facesse  mallevadore  d'ottantamila  ducati  per
l'indomane?... Per me io lo direi o un pazzo o un furfante. Ella mi  ha  capito,
padre. Conscia della mia povertà io non farò malleveria d'un soldo. Ciò  dicendo
la Clara s'inchinava, facendo atto di uscire a sua volta. E il reverendo  voleva
a sua volta trattenerla con altre parole, con altre obbiezioni; ma  comprendendo
che avrebbe fatto un buco  nell'acqua  si  accontentò  di  uscirle  dietro,  col
desolato contegno del cane da caccia che torna al padrone senza  riportargli  la
selvaggina inutilmente cercata. Coloro che  origliavano  dietro  l'uscio  aveano
fatto appena a tempo di ricoverarsi in tinello; ma non  furono  cosí  destri  da
nascondere che sapevano tutto. Il  padre  Pendola  non  erasi  ancora  accostato
all'orecchio della Contessa che già costei s'era buttata sulla  Clara  con  ogni
sorta di minacce e d'improperi;  tantoché  molti  accorsero  dalla  cucina  allo
strepito. Ma allora il marito e il cognato diedero opera a frenarla, e il  padre
Pendola colse il momento  opportuno  di  battersela  lavandosene  le  mani  come
Pilato. Partito che fu, l'intemerata toccò a  lui;  e  la  signora  si  sfogò  a
gridarlo un ipocritone, un disutile, uno sfacciato, che  l'aveva  adoperata  per
ottenere quanto cercava, e allora l'abbandonava nell'imbarazzo colla sua  faccia
tosta. Monsignore supplicava per carità la cognata che  smettesse  d'insolentire
un abate che in pochissimi giorni di dimora a  Portogruaro  avea  già  preso  il
sopravvento negli affari del clero e quasi fin'anco in quelli della Curia. Ma le
donne hanno ben altro pel capo quando prude loro la lingua.  Ella  volle  versar
fuori tutta la sovrabbondanza del suo fiele, prima di  badare  ai  consigli  del
cognato. Indi, acchetata su questo argomento, tornò a  rampognare  la  Clara;  e
essendo tornati pei fatti loro i curiosi della cucina, anche il papà e lo zio si
misero intorno alla giovinetta tormentandola malamente.  Ella  sopportava  tutto
non con quella fredda rassegnazione che move il dispetto, ma col vero dolore  di
chi vorrebbe e non può accontentare altri di quanto gli viene  chiesto.  Un  tal
martirio durò per lei molti giorni; e la Contessa se l'era legata  al  dito  che
l'avrebbe sposato il Venchieredo,  o  sarebbe  cacciata  in  un  convento  senza
misericordia. Già si cominciava a mormorare di Lucilio piú forte che mai;  e  il
giovine doveva serbarsi piú prudente che per lo addietro nelle  sue  visite.  Ma
sparsasi intorno la notizia dell'ostinato rifiuto della  Clara  ad  imparentarsi
col Venchieredo, furono anche parecchi che ne accagionarono un segreto amore  da
lei concepito pel Partistagno. Fra questi primo era il Partistagno stesso,  che,
avuta contezza della cosa, capitò al castello piú  sorridente  e  pettoruto  del
solito; egli guardava dall'alto in basso  tutta  la  famiglia,  e  nelle  tenere
occhiate che teneva in serbo per la Clara, non si  avrebbe  potuto  definire  se
l'amore soverchiasse la compassione, o viceversa. Il fatto sta che alla Contessa
balenò quell'ipotesi nel cervello; e poiché non si degnava di sospettare intorno
a Lucilio, essa gli parve abbastanza fondata. Ma quel benedetto Partistagno  non
si decideva mai a far un passo  innanzi.  Erano  anni  che  lavorava  colle  sue
occhiate, co' suoi sorrisi senza che si aprisse per nulla l'animo suo.  Raimondo
invece veniva, si può dire, coll'anello in  mano;  e  non  si  trattava  che  di
accennare un sí, perché egli fosse beato e riconoscente di poterlo infilare alla
Clara. Queste considerazioni non diminuivano punto il mal sangue  della  signora
verso la figlia; tanto piú che anche le ultime vicende non sembravano aver  dato
fretta alcuna al glorioso castellano di Lugugnana.  Un  giorno  pertanto  che  i
Frumier avevano invitato a pranzo i parenti di Fratta per  isvagarli  da  questi
dispiaceri famigliari, l'illustrissimo signor Conte  fu  oltremodo  inquieto  di
vedersi chiamar dal  cognato  in  uno  stanzino  appartato.  Ognivolta  che  gli
accadeva di doversi dividere dal fido Cancelliere, si sa ch'egli  rimaneva  come
una candela senza stoppino. Tuttavia  fece  di  necessità  virtù,  e  con  molti
sospiri seguí il cognato ov'egli lo voleva. Questi rinchiuse la porta  a  doppio
giro di chiave, tirò giù le cortinette verdi della  finestra,  aperse  con  gran
precauzione il cassetto piú segreto dello  scrittoio,  ne  trasse  un  piego,  e
glielo porse dicendogli: - Leggete; ma per  pietà  silenzio!  mi  affido  a  voi
perché so chi siete. Il povero Conte ebbe gli occhi coperti da una nuvola, fregò
e rifregò colla fodera della veste le lenti degli occhiali  piú  per  guadagnare
tempo che per altro, ma alla fine con  qualche  fatica  riuscí  a  dicifrare  lo
scritto. Era un anonimo, uomo a quanto sembrava di grande autorità nei  consigli
della Signoria, che rispondeva confidenzialmente al nobile Senatore intorno alla
grazia da  implorarsi  pel  vecchio  Venchieredo.  Si  stupiva  prima  di  tutto
dell'idea: non era quello il tempo che la  Repubblica  potesse  sguinzagliare  i
suoi nemici piú accaniti, quando appunto si occupava di spiarli  e  di  renderli
impotenti per quanto era fattibile. I  castellani  dell'alta  erano  tutti  male
affetti alla Signoria; l'esempio del Venchieredo avrebbe servito a  correggerli,
fors'anche non bastava, e con soverchia indulgenza erasi preservata la  famiglia
di lui dagli effetti della  condanna.  Nulla  è  pernicioso  piú  della  potenza
concessa agli attinenti dei nostri nemici; bisogna sempre tagliar il male  nelle
radici perché non rigermogli. Solo di  non  aver  fatto  questo  si  pentiva  la
Signoria. Del resto, non parlava al Senatore che era superiore ad ogni  sospetto
e tratto in quella faccenda da suggestioni e preghiere altrui, ma badassero bene
gli amici del Venchieredo a non lasciar travedere in una  soverchia  benevolenza
verso di questo la loro fedeltà tentennante  e  le  opinioni  intinte  forse  di
quelle massime sovvertitrici che, venute d'oltremonti,  minacciavano  di  rovina
gli antichi e venerabili ordini di San Marco. In  tempi  difficili  maggiore  la
prudenza; questo a loro norma, perché l'Inquisizione  di  Stato  vegliava  senza
rispetto per alcuno. Il Senatore, nella sua qualità di patrizio veneziano, tenea
dietro  con  orgoglio  ai  diversi  sentimenti  di  maraviglia,  di  dolore,  di
costernazione che si dipingevano in viso al cognato mano  a  mano  che  rilevava
qualche periodo di quella lettera. Finita ch'egli la ebbe il foglio gli cadde di
mano, e balbettò non so quali scuse e proteste. - State tranquillo; -  soggiunse
il Senatore raccogliendo il foglio, e mettendogli una mano sulla spalla -  è  un
avvertimento e nulla piú; ma vedete che fu quasi una grazia  del  cielo  che  la
vostra figliuola si rifiutasse a  quel  matrimonio.  Se  avesse  acconsentito  a
quest'ora si sarebbero già celebrate le nozze... - No, per  tutti  i  santi  del
cielo! - sclamò il Conte con un gesto di raccapriccio. - Se ella le volesse ora,
e se mia moglie con tutte le sue furie pretendesse di celebrarle, con  due  sole
parole io vorrei... - Ps, ps! - fece il Senatore. -  Ricordatevi  che  è  affare
delicato. Il castellano rimase colla bocca aperta come  il  fanciullo  colto  in
flagranti; ma poi cacciò giù un gnocco che aveva in gola e soggiunse: - Insomma,
Dio sia benedetto che ci ha voluto bene; e siamo salvi da un gran pericolo.  Mia
moglie  saprà  che  per  ragioni  forti,  nascoste,  stringentissime,  di   quel
matrimonio non bisogna piú parlarne, come d'una faccenda non mai sognata. Ella è
prudente e si  regolerà!...Cospettonaccio!  ho  paura  che  la  si  fosse  fatta
infinocchiare da quel benedetto padre Pendola! Qui egli si tacque e rimase colla
bocca aperta un'altra volta perché ad un sberleffo del Senatore conobbe di esser
per dire o di aver già detto qualche castroneria. - In confidenza - gli  rispose
il Frumier con quel piglio di maggioranza che ha il maestro sullo scolare  -  da
certe frasi sfuggite al degnissimo padre io credo che non per nulla lo si avesse
messo alle coste del giovine Venchieredo!... Potrebbe anche  darsi  che  vedendo
vostra moglie incapricciata di dare a costui la sua figliuola egli avesse  fatto
le viste di secondarla. Ma poi, mi capite, egli voleva bene a voi,  egli  voleva
bene a me... e senza violare le convenienze... Insomma, quel  colloquio  da  lui
tenuto colla Clara... - Ma no! io era dietro l'uscio, e vi posso assicurare... -
ripigliò il Conte. - Eh cosa sapete mai voi? - gli dié sulla voce il Senatore. -
Son mille le maniere di dire una cosa colle labbra e  farne  capire  un'altra  o
colla fisonomia o con certe reticenze... Il padre sospettava  forse  che  voi  e
vostra moglie stavate ad ascoltare; ma del resto io vi posso assicurare, che  se
quel matrimonio non è andato, un gran merito ne viene a lui. - Oh benedetto quel
caro padre! io lo ringrazierò... - Per carità!  bella  cosa  che  fareste!  Dopo
tutta la cura ch'ei prese  per  nascondersi  e  per  far  credere  anzi  ch'egli
approvava il vostro disegno!! Davvero alle volte siete un bel furbo! Per  questa
volta tanto, chi fosse il piú furbo non lo saprei dire. Il padre Pendola, avendo
sentito a tavola il giorno prima la subita disapprovazione data dal Senatore  al
matrimonio di sua nipote col Venchieredo, benché lo avesse  anch'egli  approvato
in fin allora, avea subodorato, se non la lettera da Venezia, certo qualche cosa
di simile. Perciò con mezze parole con atti del capo e con altri  mezzi  di  suo
grado avea dato ad intendere al Senatore tutto  il  rovescio  di  quello  ch'era
stato. E questi poi levandosi da  tavola  gli  avea  stretta  la  mano  in  modo
misterioso, dicendogli: - Ho  capito,  padre;  la  ringrazio  a  nome  dei  miei
cognati! Se il Senatore era furbo, e ne avea dato grandi prove nella  sua  lunga
vita pubblica e  privata,  certo  fu  quello  il  caso  di  riscontrar  vero  il
proverbio, che tutti abbiamo  durante  il  giorno  il  nostro  quarto  d'ora  di
minchioneria. Non v'è poi anche ladro cosí astuto che non possa essere  derubato
da uno piú astuto di lui. Finito il colloquio fra i  due  cognati  e  abbruciata
diligentemente la lettera fatale, tornarono in sala da pranzo, discorrendo della
Clara e della vera fortuna che la si potesse accasare in  casa  Partistagno.  Il
Conte aveva qualche scrupolo perché tutti i parenti di questo giovane non  erano
sul buon libro della Serenissima; ma il Senatore obiettava che  non  cadesse  in
soverchi timori, che erano parenti lontani, e che finalmente il giovine col  suo
contegno si dimostrava cosí ossequioso ai magistrati della  Repubblica  che  gli
avrebbe non che altro fatto onore anche da questo  lato.  -  C'è  poi  un  altro
guaio; - soggiungeva il Conte - che per quanto si creda la Clara  innamorata  di
lui ed egli di lei, non si vede mai che si disponga a manifestarsi. - Per questo
ci penserò io - rispose il Senatore. - Quel giovine  mi  piace,  perché  avremmo
bisogno di simil gente devota e rispettosa sí, ma forte e coraggiosa. Lasciatemi
fare, egli si manifesterà presto. Per quel giorno si misero da un  canto  questi
discorsi;  e  solamente  la  sera  nel  silenzio  del  letto  nuziale  il  Conte
s'arrischiò di accennare alla moglie d'un grave e misterioso pericolo da cui  il
rifiuto della Clara al Venchieredo li aveva salvati. La signora  voleva  saperne
di piú, e gracchiava di non volerne credere un'acca; ma  non  appena  il  marito
ebbe bisbigliato il nome dell'Eccellentissimo Senatore  Frumier,  la  si  rifece
credula e buona, né s'incaponí di piú a indovinar quello che l'illustre  cognato
teneva avvolto nell'arcano impenetrabile. Le disse anche il marito che questi si
mostrava persuaso dello sposalizio di Clara col Partistagno, e che si  disponeva
anzi ad adoperarsi perché il giovine venisse  ad  una  domanda  formale.  I  due
coniugi ebbero un assalto comune  di  contentezza  matrimoniale;  la  quale  non
voglio immaginarmi quanto oltre andasse. La miglior contentezza tuttavia fu  per
la Clara, la quale, senza  ch'ella  ne  sapesse  il  perché,  rimase  dall'esser
tormentata ed ebbe qualche giorno di tregua per poter corrispondere con  nessuna
superbia alle occhiate riconoscenti ed appassionate indirizzatele alla  sfuggita
da Lucilio. Intanto il Senatore avea mantenuto la sua promessa di ingegnarsi con
ogni maniera perché il Partistagno domandasse finalmente la mano  di  Clara.  La
Correggitrice, che era la consigliera del giovine, fu beata di aiutar in ciò  il
nobiluomo Frumier, e seppe cosí bene commovere la  bontà  e  la  vanagloria  che
erano le doti principali di lui, da riescir nell'intento piú presto che  non  si
sperava. Il Partistagno s'impietosí di lasciare una donzella morir  d'amore  per
lui, insuperbí di essere tenuto degno di  diventar  nipote  di  un  senatore  di
Venezia, e confessò che egli pure era invaghito da gran tempo della donzella,  e
che soltanto una pigrizia naturale lo aveva trattenuto dal togliere  quell'amore
alla sua sfera platonica. Pronunciata quest'ultima frase il giovine sbuffò  come
per la gran fatica che vi  avea  messo  ad  architettarla.  -  Dunque  animo,  e
facciamo presto - gli soggiunse la dama. Ed egli prese commiato da lei colle piú
sincere assicurazioni che lo stato della zitella gli faceva compassione e che si
avrebbe dato ogni fretta. Ma i Partistagno nascevano tutti  col  cerimoniale  in
testa; e prima che il giovine avesse preparato tutti gli  ingredienti  necessari
ad una domanda solenne  di  matrimonio  passarono  de'  giorni  assai.  In  quel
frattempo veniva a Fratta, secondo il  solito,  e  guardava  la  Clara  come  la
castalda usa guardare il pollo d'India da lei  tenuto  in  pastura  pel  convito
pasquale. Un giorno finalmente, sopra due palafrenieri bianchi bordati  d'oro  e
di porpora, due cavalieri  si  presentarono  al  ponte  levatoio  del  castello.
Menichetto corse a tutte gambe  in  cucina  per  dar  l'annunzio  della  solenne
comparsa, mentre i  due  cavalieri  gravi  e  pettoruti  s'avanzavano  verso  le
scuderie. L'uno era il  Partistagno  col  cappello  a  tre  punte  piumato,  coi
merletti della camicia che gli uscivano una spanna fuori dallo  sparato,  e  con
tanti anelli, spilli e spilloni che pareva addirittura un cuscinetto da  spilli.
Lo accompagnava un suo zio materno, uno dei mille  baroni  di  Cormons,  vestito
tutto a nero, con ricami d'argento come portava la solennità del suo  ministero.
Il Partistagno rimase ritto a cavallo come  la  statua  di  Gattamelata,  mentro
l'altro scavalcava e consegnate le redini al cocchiere,  entrava  per  la  porta
dello scalone che gli veniva spalancata a due battenti. Fu introdotto nella gran
sala ma dovette aspettare qualche poco perché anche i Conti di  Fratta  sapevano
il galateo e  non  volevano  mostrarsi  dammeno  dei  loro  nobilissimi  ospiti.
Finalmente il Conte con una giubba tessuta letteralmente di galloni, la Contessa
con venti braccia di nastro rosa sulla cuffia, gli  si  presentarono  con  mille
scuse della involontaria tardanza. La Clara vestita di bianco e pallida come  la
cera veniva a mano della mamma; il Cancelliere e monsignor Orlando che avea  fra
mano il tovagliolo e lo nascose in una tasca dell'abito, stavano  ai  due  lati.
Successe un profondo silenzio con grandi inchini d'ambo le parti; pareva che  si
apprestassero a ballare un minuetto. Io, la Pisana e le cameriere che stavamo ad
osservare dalle toppe delle porte, eravamo allibiti per  l'imponenza  di  quella
scena. Il signor Barone si mise una mano sul petto, e protesa  l'altra  innanzi,
recitò meravigliosamente la sua parte. - A nome di mio  nipote,  l'Illustrissimo
ed Eccellentissimo signor Alberto di Partistagno, barone di Dorsa, giurisdicente
di Fratta, decano di San Mauro, etc., etc., io barone  Durigo  di  Caporetto  ho
l'onore di chiedere la mano di sposa dell'Illustrissima ed Eccellentissima  dama
la contessa Clara di Fratta, figlia dell'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor
conte Giovanni di Fratta e della nobildonna Cleonice Navagero.  Un  mormorio  di
approvazione accolse queste parole, e le cameriere furono lí lí per battergli le
mani. Pareva proprio di essere ai burattini. La Contessa si volse alla Clara che
le aveva stretta la mano e sembrava esser piú vicina a morire che a maritarsi. -
Mia figlia - prese ella a rispondere  -  accoglie  con  gratitudine  l'onorevole
offerta e... - No, madre mia, - la interruppe la Clara con  voce  soffocata  dai
singhiozzi, ma nella quale la forza della volontà signoreggiava il tremore della
commozione e del rispetto -  no,  madre  mia,  io  non  mi  mariterò  mai...  io
ringrazio il signor Barone ma... A questo punto le morí la voce, le  si  estinse
sul volto ogni colore di vita,  e  le  ginocchia  accennavano  di  mancarle.  Le
cameriere, non pensando che cosí davano a divedere di essere state  in  ascolto,
si precipitarono nella sala gridando:  -  La  padroncina  muore!  la  padroncina
muore! - e la raccolsero fra le braccia. Dietro esse entrammo  curiosamente  io,
la Pisana e quanti altri dietro di noi s'erano accalcati via via  per  goder  lo
spettacolo. La Contessa fremeva e stringeva i pugni, il Conte piegava di  qua  e
di là come una banderuola che ha perduto l'equilibrio, il Cancelliere gli  stava
dietro quasi per puntellarlo se accennasse di cadere, Monsignore tratto di tasca
il tovagliolo se ne asciugava la fronte, e il Barone solo  restava  imperterrito
col suo braccio steso, come fosse stato lui che con  quel  magico  gesto  avesse
prodotto quel general parapiglia. La Contessa s'adoperò un istante intorno  alla
figlia per farla rinvenire e comandarle il rispetto e l'ubbidienza;  ma  vedendo
ch'ella appena tornata in sé accennava col capo di no e sveniva quasi di  nuovo,
si volse al Barone con voce soffocata dalla stizza. - Signore - gli disse - ella
vede bene; un impreveduto accidente ha guastato la festa di questo giorno; ma io
posso assicurarla a nome di mia figlia, che mai donzella non fu cosí onorata  da
offerta alcuna, come essa dalla domanda  fattale  in  nome  dell'Eccellentissimo
Partistagno. Egli può contare d'aver fino d'ora una sposa ubbidiente  e  fedele.
Soltanto lo prego di differire a momento piú opportuno la sua  prima  visita  di
fidanzato. Le cameriere trascinarono allora fuori della sala la  padroncina,  la
quale benché quasi esanime seguitava a diniegare colle mani e col  capo.  Ma  il
Barone non le badava piú che a qualunque altro mobile della casa: cosí  egli  si
accinse a recitare la seconda ed ultima parte della sua orazione. - Ringrazio  -
egli disse - a nome di mio nipote la nobile sposa e tutta l'eccellentissima  sua
famiglia dell'onore fattogli di accettarlo per isposo. Fatte le pubblicazioni di
metodo  si  celebrerà  il  matrimonio  nella   cappella   di   questo   castello
giurisdizione di Fratta. Io, Barone di Caporetto,  mi  offro  fin  d'adesso  per
compare dell'anello,  e  che  le  benedizioni  del  cielo  piovano  benigne  sul
felicissimo  innesto  delle  illustri  ed  antichissime  case  di  Fratta  e  di
Partistagno. Lí un triplice inchino, un giro sui  tacchi,  e  il  nobile  barone
Duringo andò giù per la scala con tutta la maestà con cui era salito. - E  cosí?
- disse il nipote apprestandosi a scender d'arcione. -  Rimanti,  nipote  mio  -
rispose il Barone, trattenendolo dallo smontare e risalendo  egli  stesso  sulla
sua cavalcatura. - Per oggi ti dispensano dalla visita di fidanzato. Alla  sposa
è venuto male per la  consolazione;  io  sono  ancora  tutto  commosso.  -  Dice
davvero? - soggiunse il Partistagno rosso di piacere. - Guarda!  -  ripigliò  il
Barone accennandogli due occhietti umidi  e  sanguigni  che  dicevano  di  esser
soliti a vedere il fondo di molti bicchieri. - Credo di aver pianto! - Crede che
basterà la collana di diamanti pel regalo di nozze?  -  gli  domandò  il  nipote
avviandosi di paro a lui  fuori  del  castello.  -  In  vista  di  questo  nuovo
incidente aggiungeremo il fermaglio  di  smeraldi  -  rispose  il  Barone.  -  I
Partistagno devono farsi  onore  ed  essere  riconoscenti  all'amore  che  sanno
ispirare Cosí andarono fino a Lugugnana divisando lo splendore delle  feste  che
si sarebbero celebrate  nell'occasione  delle  nozze.  Ma  qual  fu  lo  stupore
d'ambidue, quando al giorno dopo ricevettero una lettera del Conte di Fratta che
palesava loro il  suo  dispiacere  per  la  volontà  espressa  dalla  figlia  di
consacrare la sua verginità al Signore in un convento! Il giovine  dubitava  che
mai donzella al mondo fosse capace di anteporre un convento a  lui;  ma  di  ciò
dovette allora persuadersi e ne rimase un po' raumiliato. Peggio poi  fu  quando
per le ciarle della gente venne a sapere che non la donzella voleva ritirarsi in
monastero, ma che i suoi volevano cacciarvela in castigo dello aver rifiutato un
bel partito come il suo e che Lucilio Vianello era il rivale che gli contrastava
il cuore della Clara. Il Barone scappò fino a Caporetto per nascondervi  la  sua
vergogna; il Partistagno rimase per gridare a tutti i canti della provincia  che
di Lucilio, della Clara e de' suoi parenti si sarebbe vendicato; e  che  guai  a
loro se monaca o smonacata non gli mandavano a casa la sposa! Egli continuava  a
dire che dell'amore di  questa  era  certissimo;  com'era  anche  certo  che  il
malanimo  de'  suoi  e  le  cattive  arti  del  dottorino  la   impedivano   dal
manifestarglielo. A Portogruaro intanto vi fu gran consiglio di famiglia in casa
Frumier su quello che dovesse farsi, e il caso era abbastanza nuovo,  perché  di
donzelle allora che si opponessero con tanta pertinacia al  voler  dei  parenti,
non ve n'erano tante. Si voleva ricorrere al Vescovo, ma il padre Pendola scartò
pel primo questo parere. Tutti furono tacitamente d'accordo, che pur  troppo  la
voce della gente diceva il vero, e che Lucilio  Vianello  era  la  pietra  dello
scandalo. Allontanare lui non si poteva; si trattava dunque  di  allontanare  la
Clara. Il Frumier aveva vuoto il suo palazzo di Venezia, e la Contessa non parve
malcontenta d'andare ad abitarlo. Dopo molte parole si  decise  adunque  che  si
sarebbero trasferiti a Venezia. Ma per togliere ogni solennità e ogni  occasione
di grandi spese, solamente essa e la figlia si sarebbero  accasate  colà,  e  la
famiglia avrebbe continuato a dimorare a Fratta. Ella si lusingava che i  grilli
sarebbero usciti di capo alla Clara, e se ciò non avveniva, c'erano conventi  in
buon numero a Venezia dove farle metter giudizio. Il Conte si lamentò un poco di
restar relegato a Fratta perché aveva una discreta paura del Partistagno; ma  il
cognato lo assicurò che avrebbe vissuto sicuro e che egli ne faceva  malleveria.
In fin dei conti un mese dopo questi ragionamenti la Contessa colla Clara  s'era
già stabilita a Venezia nel palazzo Frumier presso i  nipoti;  ma  finallora  la
dovea confessare di aver guadagnato ben poco sull'animo della figlia.  A  Fratta
eravamo rimasti piú contenti che mai, perché il gatto  era  partito  e  i  sorci
ballavano. Peraltro a sfrondar nel loro fiore le lusinghe della Contessa avvenne
quello che non si sarebbe mai creduto. Lucilio, che l'avea tanto tirata in lungo
colla sua laurea, si mise repentinamente in capo di  volerla  conseguire;  e  in
onta alle opposizioni del  dottor  Sperandio  partí  per  Padova,  vi  fu  fatto
dottore, e poi, anziché tornare a Fossalta, si fermò a Venezia, dove  attese  ad
esercitare la medicina. A Portogruaro si seppe una tal novità quando già egli si
avea procurata una clientela che lo scioglieva da  ogni  dipendenza  famigliare.
Figuratevi che imbroglio! Chi proponeva di farlo arrestare, chi  voleva  che  la
Contessa e la Clara tornassero tosto, chi proponeva un'andata di tutti a Venezia
per resistere alle audacie di lui. Ma non ne fu nulla. La Contessa  scrisse  che
non aveva paura, e che del resto se avessero voluto cambiar paese, Lucilio colla
sua professione di medico potea farle andare in capo  al  mondo.  Si  limitarono
dunque a pregare il Frumier che scrivesse a qualche suo  collega  del  Consiglio
dei Dieci acciocché il dottorino fosse tenuto d'occhio; al che si rispose che lo
osservavano già notte e giorno, ma che non bisognava  far  chiassi  perché  egli
aveva voce di esser protetto da un segretario della Legazione  francese,  da  un
certo  Jacob,  che  era  a  que'  giorni   il   vero   ambasciatore,   fidandosi
principalmente in lui i caporioni della rivoluzione da Parigi. Il  Conte  udendo
cotali cosacce faceva occhi da spiritato; ma il Frumier lo  confortava  a  darsi
animo e a cercar invece di accontentare  sua  moglie  la  quale  sempre  piú  si
lamentava della sua  parsimonia  nel  mandar  denari.  Il  pover'uomo  sospirava
pensando che per la economia aveano relegato lui a Fratta e che  ciò  nonostante
consumavano piú denari che non  ne  sembrassero  bisognevoli  ad  uno  splendido
mantenimento di tutta  la  famiglia.  Sospirava,  dico,  ma  rammucchiava  nello
scrigno semivuoto quei grami ducati e ne faceva  certi  rotoletti  che  cadevano
cogli altri nell'abisso di Venezia. Il fattore lo ammoniva che andando  di  quel
trotto le entrate di Fratta  sarebbero  in  breve  ipotecate  per  cinquant'anni
avvenire. Ma rispondeva il padrone che non c'era rimedio, e con quella filosofia
tiravano innanzi. Piú felice almeno, Monsignore non  si  avvedeva  di  nulla,  e
seguitava a mutare in polpe i capponcelli e le anitre delle onoranze.  Quanto  a
me, io avea finito i  miei  studi  di  umanità  e  di  filosofia,  un  po'  alla
zingaresca è vero, ma li aveva finiti. E nel  sommario  esame  che  sostenni  mi
trovarono per lo  meno  tanto  asino  quanto  coloro  che  li  avevano  percorsi
regolarmente. S'avvicinava il momento che m'avrebbero dovuto mandare  a  Padova,
ma le finanze del Conte non gli consentivano  questa  munificenza,  e  giustizia
vuole ch'io dia lode a cui si appartiene di una buona opera.  Il  padre  Pendola
non era uomo da mettersi a poltrire in un posto di maestro di casa sull'età  dei
cinquant'anni, quand'appunto l'ambizione si ristringe per diventar piú  alta  ed
ostinata. Cappellano e consigliere favorito di casa Frumier  aveva  egli  potuto
accaparrarsi la stima dei molti preti e monsignori che la frequentavano: non gli
mancavano né le sante massime né i pronti ripieghi di coscienza  per  innamorare
ambidue i partiti; e tanto bene vi riescí, e tanto seppe destramente  metter  in
mostra questo suo trionfo, che, venuta la cosa  agli  orecchi  del  Vescovo,  si
diceva che questi ad ogni imbroglio che turbava la diocesi usasse  esclamare:  -
Oh fossi io il padre Pendola! Oh avessi in Curia il padre Pendola! - L'umiltà di
questo diede maggior rilievo alle esclamazioni episcopali; e venuto a  morte  il
segretario d'allora, vi furono preti d'ambidue i partiti clausetani e  bassavoli
che supplicarono presso il Frumier perché egli inducesse il padre  ad  accettare
quel  posto.  Con  ciò  ognuno  sperava  d'insediare  piú  saldamente  che   mai
nell'episcopio il proprio partito. Il Frumier ne parlò al padre, questi fece  il
ritroso, rifiutò la corona come Cesare, ma si lasciò incoronare come Augusto; ed
eccolo diventar segretario del Vescovo, e colla sua destrezza e co' suoi maneggi
padrone a dir poco d'una diocesi. Si  aspettavano  grandi  cose;  ma  tutti  pel
momento furono gabbati; tutti peraltro erano contentissimi perché speravano  nel
futuro e nelle grandi promesse del padre. Egli era da poco installato nella  sua
nuova dignità, quando il piovano di Teglio me gli presentò nella  sua  canonica,
ove il Vescovo faceva la  visita.  Gli  piacqui,  bisogna  dire,  e  mi  promise
d'interessar a mio favore il senatore Frumier. Questi infatti godeva il  diritto
di nomina ad un posto in un collegio gratuito per  gli  studenti  poveri  presso
l'Università di Padova: ed essendo quel posto  vacante,  lo  destinò  a  me  pel
venturo novembre. Si lamentò anzi col cognato perché non gli parlasse prima  del
mio caso, che vi avrebbe provveduto con tutto il cuore. Ma il beneficio veniva a
tempo ed io ne  ringraziai  fervidamente  tanto  il  mio  mecenate  che  l'utile
intercessore. Per allora non ci vedeva piú in là, e  non  avea  imparato  a  far
saltar la moneta sulla tavola per provare se era buona. Del  resto  io  non  era
malcontento di cambiar paese. La  Pisana,  dopoché  Lucilio  era  partito  e  il
Venchieredo aveva abbandonato la loro casa, faceva  l'occhiolino  a  Giulio  Del
Ponte, e sul serio stavolta, perché l'aveva i suoi quindici anni, e ne  mostrava
e ne sentiva forse diciotto. Fu appunto in quel torno che per isvagarmi da tanto
crepacuore io mi misi a gozzovigliare e a trescare coi  buli  del  paese,  e  in
breve divenni il vagheggino di tutte le ragazze, contadine od artigiane.  Quando
tornava da qualche fiera o sagra sul mio cavalluccio stornello preso a  prestito
da Marchetto, suonando il mio piffero  alla  montanara,  ne  aveva  intorno  una
dozzina che ballavano la furlana per tutta la via.  Ed  ora  mi  pare  che  avrò
somigliato una caricatura del sole che nasce, dipinto da  Guido  Reni,  col  suo
corteggio delle ore danzanti. Però deggio dire che quella vita mi pesava;  e  fu
anche interrotta da un luttuoso accidente, dalla  morte  di  Martino  che  spirò
nelle mie braccia dopo brevissimo male di apoplessia. Io, credo, fui il solo che
piansi sulla sua fossa, perché per  allora  alla  Contessa  vecchia,  già  quasi
centenaria e rimbambita per la mancanza della Clara,  si  giudicò  opportuno  di
tacere quella perdita. La Pisana, affidata alla  guida  poco  sicura  di  quella
volpe scodata della signora Veronica,  imbizzarriva  sempre  piú,  e  peggiorava
nell'ozio la cattiva piega della sua indole. Il giorno prima  che  partissi  per
Padova, io la vidi tornare dal passeggio rossa, scalmanata. - Cos'hai Pisana?  -
le chiesi col cuore gonfio di  lacrime  di  compassione,  e  piucché  altro,  lo
confesso, di quell'amore che era piú forte e piú grande di me tutto. - Quel cane
di Giulio non è venuto! -  mi  rispose  ella  furibonda.  E  poi  scoppiando  in
singhiozzi, mi si gettò colle braccia al collo gridando: - Tu sí che mi ami,  tu
sí che mi vuoi bene tu! - E la mi baciava ed io la  baciava  frenetico.  Quattro
giorni dopo io assisteva alla prima lezione di giurisprudenza, ma non  ne  capii
verbo perché la memoria di quei baci mi frullava  diabolicamente  nel  capo.  La
scolaresca era in gran tumulto in grandi discorsi per le novelle di Francia  che
giungevano sempre piú guerriere  e  contrarie  ai  vecchi  governi.  Io  per  me
rosicchiava melanconicamente lo scarso pane del collegio  e  le  abbondantissime
chiose del Digesto sempre pensando alla Pisana  e  alle  gioie,  ora  dolci  ora
amare, sempre dilette alla memoria, de' nostri anni infantili. E cosí si  chiuse
per me l'anno di grazia 1792. Soltanto mi ricordo che giunta, al fine di gennaio
del venturo anno, la nuova della decapitazione  di  re  Luigi  XVI,  recitai  un
Requiem in suffragio  dell'anima  sua.  Testimonio  questo  delle  mie  opinioni
moderate d'allora.


CAPITOLO OTTAVO

Nel quale si discorre  delle  prime  rivoluzioni  italiane,  dei  costumi  della
scolaresca padovana, del mio ritorno a Fratta, e  della  cresciuta  gelosia  per
Giulio Del Ponte. Come i morti possono consolar i vivi, ed  i  furbi  convertire
gli innocenti. Il padre Pendola affida la mia innocenza all'avvocato Ormenta  di
Padova. Ma non è oro tutto quello che luce.

Francia aveva decapitato un re e abolito la monarchia: il  muggito  interno  del
vulcano annunziava prossima un'eruzione: tutti i vecchi  governi  si  guardavano
spaventati, e avventavano a precipizio i loro eserciti per sopire l'incendio nel
suo nascere: non combattevano piú a vendetta  del  sangue  reale  ma  a  propria
salute. Respinti dal furore invincibile delle legioni repubblicane, già Nizza  e
Savoia, le due porte occidentali d'Italia, sventolavano il  vessillo  tricolore;
già si conosceva la forza degli  invasori  nella  grandezza  delle  promesse;  e
l'urgenza maggiore del pericolo negli interni sobbollimenti. Alleanze e trattati
si preparavano ovunque. Napoli e il Papa si riscotevano delle vergognose  paure;
la vecchia Europa, destata nel suo sonno quasi da  un  fantasma  sanguinoso,  si
dibatteva  da  un  capo  all'altro  per  scongiurarlo.  Che  faceva  intanto  la
Serenissima Repubblica di Venezia?  Lo  stupido  Collegio  de'  suoi  Savi  avea
decretato che la rivoluzione francese altro non dovea essere  per  loro  che  un
punto accademico di  storia;  avea  rigettato  qualunque  proposta  di  alleanza
d'Austria, di Torino, di  Pietroburgo,  di  Napoli,  e  persuaso  il  Senato  di
appigliarsi unanimemente al nullo e ruinoso partito della neutralità  disarmata.
Indarno strepitando l'aulica eloquenza di Francesco Pesaro, il 26  gennaio  1793
Gerolamo Zuliani Savio di settimana, vinse il partito che Giovanni  Jacob  fosse
riconosciuto ambasciatore della Repubblica francese. Libera e ragionata, una tal
deliberazione nulla in sé avrebbe racchiuso di sconsigliato o di vile; poiché né
legami di famiglia, né comunanza d'interessi, né patti  giurati  obbligavano  la
Repubblica a vendicar la prigionia di Luigi XVI; ma la venalità del prepotente e
il precipitoso assentimento del Senato impressero a quell'atto un colore di vero
e codardo tradimento. La nuova, sparsasi indi a  poco,  dell'uccisione  del  Re,
mutò nell'opinione dei governi la  stolta  arrendevolezza  veneziana  in  pagata
complicità; dall'una parte lo sprezzo, dall'altra l'odio  accumulavano  le  loro
minacce. La Legazione francese di Venezia accentrava in sé tutte le  mene  e  le
speranze dei novatori italiani; essa dava mano ad altri emissari che  istigavano
la Porta ottomana contro l'Impero e la Serenissima, per divertir quinci le forze
russe e di Germania. Il Collegio dei Savi, sempre rinnovato e sempre  imbecille,
taceva al Senato di cotali pericoli: gli usciti trasfondevano negli entranti  la
stolida sicurezza e la molle indolenza. Duranti da quattordici secoli fra  tante
rovine di ordini e di imperi, pareva loro impossibile  un  subito  crollo:  tale
sarebbe un decrepito che per aver vissuto novant'anni giudicasse non  dover  piú
morire. Finalmente nel cader della  primavera  1794,  dopo  che  fu  violata  da
Francia l'imbelle neutralità  di  Genova  a  danno  futuro  del  Piemonte  e  di
Lombardia, il Pesaro accennò altamente la  prossimità  del  pericolo  e  la  non
lontana emergenza che tra gli  imperiali  scendenti  dal  Tirolo  al  Ducato  di
Mantova, e i Francesi contrastanti, un conflitto potesse nascere negli Stati  di
terraferma. Si riscosse pur  sonnolento  il  Senato,  e  contro  il  parere  del
Zuliani, del Battaja e di altri conigli piú conigli degli altri, decretò che  la
terraferma si armasse con nuove cerne d'Istria e di  Dalmazia,  con  restauri  e
artiglierie nelle fortezze. Si salvava non lo  statuto  ma  il  decoro.  I  Savi
d'allora, Zuliani primo, s'incaricarono di perdere anche questo. Per  ricattarsi
della sconfitta toccata in Senato, deliberarono di attraversare l'esecuzione  di
quel decreto, e a tal fine si decise di usar col Senato il  metodo  del  celebre
Boerhaave, il  quale  inzuccherava  le  pillole  de'  suoi  ammalati  perché  le
inghiottissero senza gustarne l'amaro. Si dimostrò di poter far poco e a rilento
per la povertà dell'erario; si fece nulla e mai; ogni provvedimento si ridusse a
settemila uomini stentatamente raccolti ed appostati a spizzico nella  Lombardia
veneta. Pesaro, Pietro suo fratello, ed uno fra i Savi stessi  il  cui  nome  va
scevro, almeno in questo, dalla comune ignominia, Filippo Calbo, designarono  al
Senato la mala fede di tante tergiversazioni; ma il Senato era ricaduto nel  suo
cieco torpore, inghiottí la pillola inzuccheratagli dai Savi, e  non  ne  gustò,
no, per allora l'amarezza, ma ne sentí poscia la velenosa  virtù.  Cosí  la  mia
vita cominciava ad aggirarsi fra le rovine; il senno mi si afforzava ogni giorno
piú in lunghi e rabbiosi studi;  mi  crescevano,  unite  alla  forza  contro  il
dolore, la forza e la volontà di operare; l'amore mi torturava,  mi  mancava  la
famiglia, mi moriva la patria. Ma come avrei io potuto amare, o meglio, come mai
quella patria torpida, paludosa, impotente, avrebbe  potuto  destare  in  me  un
affetto degno, utile, operoso? Si piangono, non si amano i cadaveri. La  libertà
dei diritti, la santità delle leggi, la religione della gloria, che  danno  alla
patria una maestà quasi divina, non abitavano da gran tempo  sotto  le  ali  del
Leone. Della patria eran rimaste le membra  vecchie,  divelte,  contaminate;  lo
spirito era fuggito, e chi sentiva in cuore la divozione delle cose  sublimi  ed
eterne, cercava altri simulacri cui dedicare la speranza e la  fede  dell'anima.
Se Venezia era de' governi italiani il piú nullo e rimbambito, tutti dal piú  al
meno agonizzavano di quel difetto di pensiero e di vitalità  morale.  Perciò  il
numero degli animi che si consacrò al culto della libertà e  degli  altri  umani
diritti proclamati da Francia, fu in Italia di gran lunga maggiore che  altrove.
Questo piú che la patita servitù o la somiglianza delle razze giovò ai  capitani
francesi per sovvertire i fracidi ordinamenti di Venezia, di Genova, di Napoli e
di Roma, di tutti insomma i governi nazionali. Tanto  è  vero  che,  come  negli
individui, cosí nei consorzi e nelle istituzioni umane, senza il germe, senza il
nocciuolo, senza il fuoco spirituale, nemmeno l'organismo materiale prolunga  di
molto i suoi moti. E  se  una  forza  estranea  non  distrugge  violentemente  i
congegni, la vita a poco a poco s'affievolisce e s'arresta di  per  sé.  Il  mio
vivere a Padova era proprio quello d'un povero studente. Somigliava nella figura
il fanticello di qualche prete, e  portava  modestamente  i  contrassegni  della
nazione italiana, come si costumava anche allora  dagli  studenti,  quasiché  si
fosse ancora ai tempi di Galileo, quando Greci,  Spagnuoli,  Inglesi,  Tedeschi,
Polacchi e Norvegi concorrevano a quell'Università. Si disse che Gustavo  Adolfo
fu colà discepolo del grande astronomo; il che importerebbe ben poco alla storia
sí dell'uno che dell'altro. Coloro che io aveva compagni di collegio  erano  per
la maggior parte pecoroni di montagna, rozzi, sudici,  ignoranti;  semenzaio  di
futuri cancellieri per gli orgogliosi giurisdicenti, o di nodari venderecci  per
gli uffici criminali.  Tripudiavano  e  s'abbaruffavano  fra  loro,  appiccavano
eterni litigi coi birri, coi beccai, cogli osti; con questi soprattutto,  perché
avevano la strana idea di non volerli lasciar partire dalla taverna se prima non
pagavano lo scotto. La querela terminava  dinanzi  al  Foro  privilegiato  degli
scolari; dove i giudici mostravano il facile buonsenso di dar sempre  ragione  a
questi ultimi, per non incorrere nel loro sdegno altrettanto implacabile, quanto
poco giusto e moderato. Gli studenti patrizi si tenevano  in  disparte  a  tutto
potere da questa bordaglia; piú per paura che per boria, credo. E del resto  non
mancava anche allora il ceto di mezzo, quello  dei  piú,  dei  tentennanti,  dei
misurati, che nell'abbondare della mesata s'accomunava ai  costosi  piaceri  dei
nobili, e nella povertà degli ultimi del mese ricorreva alle ladre  e  petulanti
baldorie degli altri. Dicevano male di questi con quelli e di quelli con questi;
fra loro poi si beffavano di questi e di quelli, veri antesignani di quel  medio
ceto senza cervello e  senza  cuore  che  si  credette  poi  democratico  perché
incapace di ubbidire validamente al pari che di comandare utilmente.  Intanto  i
rivolgimenti francesi venivano a smuovere in qualche maniera i vuoti  e  frivoli
talenti di quella scolaresca. Il sangue bolle e vuol bollire ad ogni costo nelle
vene giovanili; i giovani son come le mosche che senza capo seguitano a  volare,
a ronzare. Fra i patrizi s'ebbero i novatori scolastici che  applaudirono,  e  i
timidi chietini che si spaventarono; dei plebei qualcuno ruggí  alla  Marat;  ma
gli Inquisitori  gli  insegnarono  la  creanza;  la  maggior  parte,  impecorita
nell'adorazione di San Marco,  tumultuava  contro  i  Francesi  lontani,  solita
braveria di chi ossequia poi e serve i presenti. Quelli  di  mezzo  aspettavano,
speravano, gracchiavano: pareva loro che dai nobili il governo dovesse cader  in
loro  per  naturale  pendio  delle  cose;  acchiappato  che  lo   avessero,   si
argomentavano bene di non lasciarlo cadere piú in giù. Ma non gridavano a  piena
gola; soffiavano, bisbigliavano come chi serba la voce  e  la  pelle  a  miglior
momento. Gl'Inquisitori, si può ben credere, guardavano con mille  occhi  questo
vario brulichio di opinioni, di lusinghe, di passioni: ogni tanto un  calabrone,
che  strepitava  troppo,  cadeva  nell'agguato  tesogli  da  qualche  ragno.  Il
calabrone era trasportato in burchio a Venezia; e passato il ponte  dei  Sospiri
nessuno lo udiva nominare mai piú. Con questi sotterfugi e  giochetti  di  mano,
ottimi a spaventare l'infanzia  d'un  popolo,  credevano  salvar  la  Repubblica
dall'eccidio soprastante. Io per me aveva allora troppe memorie da  accarezzare,
troppi dolori da combattere, perché mi mettessi a pescar col  cervello  in  quei
torbidi. Della Francia avea udito novellare una volta  o  due  come  di  regione
tanto discosta che non capiva nemmeno che cosa potessero calere a noi le  pazzie
che vi si facevano. In fatti le  mi  avevano  figura  di  pazzie  e  nulla  piú.
L'autunno susseguente al primo anno di giurisprudenza fu quasi suggello a quella
mia incuria politica. Il viaggio pedestre fino a Fratta, il riveder  la  Pisana,
gli amori rinati e troncati poi di bel nuovo  per  nuove  stranezze,  per  nuove
gelosie, le incombenze affidatemi per via di esperimento  del  Cancelliere,  gli
elogi del Conte e dei nobiluomini Frumier, le soperchierie  e  le  scappate  del
Venchieredo, i disordini della famiglia Provedoni, i dissidi fra  la  Doretta  e
Leopardo, le continue imprese dello Spaccafumo, le raccomandazioni  del  vecchio
Piovano, e gli strani consigli del padre Pendola mi diedero troppo  da  pensare,
da fare, da meditare, da godere  e  da  soffrire  perché  mi  pentissi  di  aver
lasciato ai miei compagni la cura delle cose di Francia e  il  passatempo  delle
gazzette. Peraltro tutte cotali cose mi fecero l'effetto d'una commedia  goduta,
in confronto di quanto mi fece provare in que' due  mesi  la  sola  Pisana.  Che
l'indole di lei fosse migliorata nel frattempo nessuno lo  vorrebbe  credere  se
anche io fossi tanto bugiardo e sfacciato da affermarlo. Bensí era cresciuta  di
bellezza nelle forme e nel volto. S'era fatta veramente donna; non di quelle che
somigliano fiori delicati cui la prima brezza del novembre torrà l'olezzo  e  il
colore; ma  una  figura  altera,  robusta,  ricisa,  ammorbidita  da  una  rosea
freschezza e da una mobilità di fisonomia  bizzarra  e  istantanea  sovente,  ma
sempre graziosa e ammaliatrice. Quando  quella  fronte  superba  e  marmorea  si
chinava un istante alle occhiate procaci d'un giovane, e  le  pupille  velate  e
come confuse si volgevano a terra, una tal fiamma di  desiderii,  di  voluttà  e
d'amore traluceva da tutta lei, che  le  si  respirava  dintorno  quasi  un'aria
infuocata. Io era geloso di chi la guardava. E come poteva non  esserlo  io  che
l'amava tanto, io che la conosceva fin nel  profondo  delle  viscere?  -  Povera
Pisana! - Ne aveva ella colpa se la natura abbandonata a se stessa avea guastato
di sua  mano  ciò  ch'ella  di  sua  mano  avea  preparato  perché  gli  amorosi
accorgimenti dell'arte ne cavassero un prodigio d'intelligenza, di bellezza e di
virtù? Ed io, aveva io colpa di amarla tuttavia, ebbi poi colpa d'amarla sempre,
quantunque ingrata, perfida, indegna, se sapeva di essere il solo al  mondo  che
potesse  compatirla?  La  terribile  sventura  del  peccato  non  ha  da  essere
ricompensata quaggiù da nessun conforto?  Memoria,  memoria,  che  sei  tu  mai!
Tormento, ristoro e tirannia nostra, tu divori i  nostri  giorni  ora  per  ora,
minuto per minuto e ce li rendi poi rinchiusi in un punto, come  in  un  simbolo
dell'eternità! Tutto ci togli, tutto ci ridoni; tutto distruggi, tutto conservi;
parli di morte ai vivi e di vita ai sepolti! Oh la  memoria  dell'umanità  è  il
sole della sapienza, è la fede della giustizia, è lo spettro dell'immortalità, è
l'immagine terrena e finita del Dio che non ha fine, e che è dappertutto. Ma  la
mia memoria frattanto mi serví assai male; essa  mi  legò  giovane  ed  uomo  ai
capricci d'una passione fanciullesca. Le perdono tuttavia; perché val  meglio  a
mio giudizio il ricordar troppo e dolersene, che il dimenticar tutto per godere.
Dirvi quanto soffersi nel giro di quelle poche settimane sarebbe opera lunga. Ma
deggio pur confessare a mia lode che la compassione piú assai della  gelosia  mi
tormentava; nessun cruccio è  cosí  forte  come  quello  di  dover  biasimare  e
compiangere l'oggetto dell'amor nostro.  Le  stranezze  della  Pisana  toccavano
sovente all'ingiustizia; spesso apparivano  svergognatezza,  se  io  non  avessi
ricordato quanto spensierata ella fosse di natura. Le sue  simpatie  non  aveano
piú né ragione né scusa né durata né modo. Questa  settimana  s'apprendeva  d'un
affetto rispettoso e veemente pel vecchio piovano di  Teglio;  usciva  col  velo
nero sul capo e le ciglia  basse;  s'intratteneva  con  lui  sulla  porta  della
canonica volgendo le spalle ai passeggieri; udiva pazientemente i suoi  consigli
e perfino le sue mezze prediche. Si ficcava in  testa  di  diventare  una  santa
Maddalena, e si pettinava i  capelli  come  li  vedeva  a  questa  santa  in  un
quadretto che stava a capo del suo letto. Il giorno dopo compariva  mutata  come
per incanto; la sua delizia non era piú il Piovano, ma il cavallante  Marchetto;
voleva a tutta forza ch'ei le insegnasse a cavalcare; scorrazzava  pei  prati  a
bisdosso d'un ronzino come un'amazzone, e si guastava la fronte e  le  ginocchia
contro i rami della boscaglia. Allora non voleva seco che poverelli e contadini;
si atteggiava, credo, a castellana del Medio  Evo;  camminava  lungo  il  rio  a
braccetto di Sandro il mugnaio, e perfin Donato, lo spezialino, le pareva troppo
azzimato e artifizioso. Poco  stante,  eccola  cambiar  registro;  voleva  esser
condotta mattina e sera a Portogruaro; faceva attrappire tutti i vecchi  cavalli
di suo padre nelle fangose carraie di  quelle  stradacce,  ma  si  dovea  sempre
correre di galoppo. Godeva di eclissare la  podestaressa,  la  Correggitrice,  e
tutte le signore e donzelle della città.  Giulio  Del  Ponte,  il  damerino  piú
vivace e desiderato, le serviva di riverbero: parlava e gesticolava con lui, non
perché avesse nulla a dirgli, ma per ottener voce di briosa e maligna. Giulio ne
era innamorato pazzamente e avrebbe giurato ch'ella aveva piú brio di  tutte  le
male lingue di Venezia. Ella  invece  sempre  scontenta,  sempre  tormentata  da
desiderii mal definiti, e da una voglia sfrenata di piacere a tutti, di far bene
a tutti, non pensava che ciò, non si studiava che a ciò, e rade volte si prendea
la briga di neppur ascoltare  quando  altri  parlava.  Questa  era  una  qualità
singolarissima della sua indole, che purché fosse certa di far contento  alcuno,
a nessuna opera, per quanto difficile e schifosa, si sarebbe rifiutata.  Se  uno
storpio, uno sciancato, un mostro avesse mostrato desiderio  d'ottenere  un  suo
sguardo lusinghiero, tosto ella  glielo  avrebbe  donato  cosí  amorevole,  cosí
lungo, cosí infocato come al vagheggino piú lindo  e  lucente.  Era  generosità,
spensieratezza, o superbia? Forse questi tre motivi si univano a renderla  tale;
per cui non ebbe dintorno essere tanto odioso e spregevole che con un'attitudine
di preghiera non ottenesse da lei confidenza e pietà, se non  affetto  e  stima.
Perfino con Fulgenzio si  addomesticava  talvolta  a  segno  da  sedere  al  suo
focolare intantoché dimenavano la polenta. E poi, uscita di là, la sola  memoria
di quel bisunto e ipocrita sagrestano le metteva  raccapriccio.  Ma  non  sapeva
resistere a un'occhiata di adulazione. La  signora  Veronica  s'era  accorta  di
questo; e di antipaticissima che le  era  dapprincipio  avea  saputo  renderlesi
sopportabile  e  quasi  cara,  a   forza   di   piacenteria.   Figuratevi   qual
perfezionamento di educazione fu per lei l'interessata indulgenza  di  quest'aia
da trivio! Avea finito per entrarle in grazia col farle addirittura da  mezzana;
ed era dessa che correva ad avvertirla e faceva scappare Giulio Del Ponte per la
parte delle scuderie, quando il Conte o  Monsignore  si  svegliavano  prima  del
solito. La Faustina, rimasta  a  Fratta  come  cameriera,  non  le  era  miglior
compagna. Queste mezze vesticciuole cittadinesche ridotte a vivere in  campagna,
diventano maestre di vizii e di corruzione; e la Faustina peggio forse di  molte
altre, perché ve la tirava il temperamento tutt'altro che modesto. La complicità
colla padrona le sembrava la miglior arra d'impunità; e  potete  credere  se  la
aiutava con zelo, e se la eccitava  colle  suggestioni  e  coll'esempio!  Io  mi
maraviglio ancora che non ne nascesse sotto gli occhi del Conte e  del  Canonico
qualche gravissimo scandalo; ma forse le apparenze furono peggiori della realtà,
e le fatiche corporali e la vita selvatica e  vagabonda  attutirono  per  allora
nella Pisana gli istinti focosi e sensuali. In ciò io era piú disposto  tuttavia
a veder nero che bianco; perché essendo stato testimonio e  compagno  delle  sue
infantili effervescenze, durava grande fatica a credere  che  l'età  piú  adulta
avesse smorzato in lei quello che suole accendere negli altri. Briaco d'amore  e
di rimembranze, ogni qualvolta un impeto di compassione  me  la  recava  fra  le
braccia e non la sentiva tremare e sospirare come avrei voluto,  la  gelosia  mi
torceva l'anima: pensava che a me restassero  le  ceneri  d'un  fuoco  che  avea
bruciato per altri, e su quelle labbra  dove  m'immaginava  dover  gustare  ogni
gioia del paradiso trovava invece i tormenti dell'inferno. Ella si stoglieva  da
me disgustata della mia freddezza, della mia rabbia continua; io fuggiva da  lei
colle mani  nei  capelli,  colla  disperazione  nel  cuore  volgendo  nell'animo
pensieri di morte e di vendetta. Giulio Del Ponte mi sovveniva allora colla  sua
fisonomia piena di fuoco, d'ardimento, di vita, co' suoi occhi  inondati  sempre
di gioia e d'amore, col suo sorriso schernitore insieme e  procace  come  quello
d'un fauno greco, colla sua loquela pronta, vivace,  immaginosa,  soave!  Io  lo
odiava in ragione delle immense doti concessegli  da  natura  per  ammaliare  le
donne; mi piaceva di pensare ch'egli non era né bello né robusto né ben fatto, e
che la piú guercia donzella del contado avrebbe preferito le mie larghe spalle e
la mia aperta e sana figura a quel suo corpicciuolo  magro,  sparuto,  convulso.
Contuttociò dinanzi alla Pisana mi sentiva nulla appetto a lui;  capiva  che  se
fossi stato donna, io pure gli avrei concesso la palma in  mio  confronto.  Dio!
cosa non avrei io dato allora per  cambiarmi  con  lui  a  prezzo  di  qualunque
sacrifizio! - Avessi perduto le forze, la salute, fossi morto sfilato il  giorno
dopo, non avrei esitato a entrar  ne'  suoi  panni  per  godere  un  istante  di
trionfo, e credere ch'ella mi amava piú di se stessa! Sciocco di  pensare  e  di
desiderare ciò!  Nessuno  al  mondo  esisterà  mai,  per  quanto  incantevole  e
perfetto, che avesse potuto concentrare in  sé  solo  e  per  sempre  tutti  gli
affetti, tutti i desiderii della Pisana.  Io  che  ne  aveva  una  buona  parte,
desiderava l'altra: se avessi ottenuto questa,  mi  sarebbe  mancata  la  prima.
Poiché né Giulio, né alcun altro prima o dopo di lui, poté vantarsi di godere al
pari di me la confidenza e la stima della Pisana. Io solo, io solo  ebbi  questa
parte piú intima  e  sola  forse  santa  dell'anima  sua;  io  solo,  nei  pochi
intervalli che fui da lei beato d'amore, ho potuto  credermi  padrone  di  tutto
l'esser  suo,  veramente  amante,  poiché  l'amava  conoscendola  com'ella  era;
veramente amato, perché al sentimento che mi desiderava, la ragione stessa  dava
la sveglia e l'abbandono soave della gratitudine. Oh! mi si conceda questo unico
premio d'un amore sí lungo, paziente, infelice. Mi si conceda di  poter  credere
che come io prelibai le delizie di quell'anima,  cosí  solo  ne  ebbi  il  pieno
godimento. Né lo spettacolo d'un bello e vario prospetto di natura, né l'aspetto
d'un quadro finitamente condotto può apprezzarsi degnamente se non da chi ha  la
vera conoscenza della natura e  dell'arte.  Nessuno  potrà  apprezzare  certo  i
tesori di un'anima, se non ne ha indagato con lunga consuetudine e con devoto  e
profondo amore i piú reconditi nascondigli. La Pisana fu una creatura  siffatta,
che soltanto chi nacque, si può dire, e crebbe con lei, e pensò sempre a lei,  e
non amò che lei, può averla interamente indovinata. In  onta  alle  lezioni  del
Piovano io posso assicurarvi che io non era in  fin  d'allora  né  un  cristiano
esemplare, né un giovine scrupoloso. La libertà lasciatami nell'infanzia, e  gli
esempi altrui sia a Fratta che a Portogruaro ed a Padova, avean  lasciata  assai
lenta la briglia a' miei costumi. Pure coll'avara cautela dell'amore io  studiai
ogni via per ritrar la Pisana da  quel  pericoloso  sentiero  a  cui  mi  pareva
avviata. Era carità pelosa, se volete; ma il tentativo era a fin di bene,  senza
metter in conto altri intenti personali. La Pisana non s'avvide di  questi  miei
sforzi; la Faustina e la Veronica ne indispettirono. Quest'ultima,  credo,  ebbe
paura ch'io intendessi farle la satira a lei ed alla sua  manica  larga;  ma  se
ella temeva ciò in fatti,  doveva  farne  suo  pro'  e  correggere  con  qualche
accorgimento di severità un'eccessiva indulgenza. Al  contrario  continuò  nella
sua cieca condiscendenza, vendicandosi di me  collo  screditarmi  in  ogni  mala
guisa presso la Pisana. Io credo in  ultima  analisi  ch'ella  riversasse  sopra
questa povera disgraziata tutto l'odio che aveva accumulato nel fegato contro la
Contessa sua madre in tanti e tanti anni di spregi sofferti e di muta e tremante
servitù. Se  ne  pagava  col  guastarla  nell'ozio,  nella  frivolezza  e  nelle
famigliarità d'ogni peggior vitupero; non sarebbe questo  il  primo  esempio  di
simile vendetta per parte di un'aia. Baldracca  piú  sboccata  di  lei  e  della
Faustina io non mi ricordo di averla trovata mai in nessun  porto  di  mare;  ma
dinanzi al Conte e a Monsignore sapeva star contegnosa, e tutte  le  sere  nella
stanza della Contessa vecchia intonava devotamente il rosario,  cui  la  inferma
dal suo letto e una contadinella destinata a vegliarla dopo  la  partenza  della
Clara, rispondevano con voce sommessa. La Pisana anche colla  nonna  usava  come
cogli altri; una settimana sí ed un'altra no; non v'aveano  che  suo  padre,  il
Cancelliere e lo zio monsignore che non godessero de' suoi insulti di tenerezza;
ma questa era gente di carta pesta, che non aveva anima, che non aveva né indole
propria né colore e la Pisana se ne dimenticava. Dubito  che  si  sarebbe  anche
dimenticata della madre e della sorella, perché la lontananza fu sempre pe' suoi
affetti un calmante prodigioso. Ma una lettera della Contessa con  un  poscritto
della Clara la faceva risovvenire ogni due mesi di quella parte di famiglia  che
viveva a Venezia; siccome poi in quella lettera  si  davano  novelle  anche  del
Contino che era agli ultimi anni della sua educazione, cosí  ogni  due  mesi  le
risovveniva di avere un fratello. Gli  zii  Frumier  erano  forse  i  soli  che,
lontani o vicini, stettero sempre in mente o sulle labbra alla  fanciulla.  Quel
poter nominare un senatore, un parente del doge Manin, e dire "gli è  mio  zio",
era per lei una discreta soddisfazione, e se la prendeva sovente anche senza una
stretta necessità. Giulio Del Ponte e la Veronica le  menzionavano  sovente  suo
zio senatore quando la vedevano sconvolta o annuvolata. A quelle magiche  parole
si rasserenava, si ricomponeva immantinente per dilagarsi  in  gran  chiacchiere
sulla potenza e sull'autorità del Senatore, sui suoi palazzi, sulle  sue  ville,
sulle sue gondole, sulle vesti di seta, sulle gemme e sui brillanti della zia. E
quante maggiori splendidezze narrava, tanto piú vi scivolava sopra colla  lingua
senza alcun sussiego quasi a dimostrare che di cotali  cose  essa  aveva  troppa
consuetudine per esserne maravigliata. Invece, poverina, né gioie, né ville,  né
palazzi essa aveva veduto mai fuori del palazzo del  Frumier  a  Portogruaro,  e
della crocetta di brillanti di sua mamma; l'immaginazione suppliva a tutto, e si
comportava alla foggia delle attrici che parlano in commedia  dei  loro  cocchi,
dei loro tesori, né hanno mai cavalcato un asino o fiutato l'odor d'un zecchino.
Peraltro  io  mi  stupii  sempre  che  col  grande  magnificar  ch'ella   faceva
l'eccellentissima casa Frumier, rimanesse poi mogia, imbrogliata e quasi uggiosa
quando vi compariva in conversazione. Ora capisco che il solo dover cedere  alla
zia il primo posto le tarpava le ali dell'orgoglio;  e  piú  poi  insalvatichita
dalla solitudine di Fratta e dal consorzio  di  rozzi  villani  o  di  pettegole
sfacciate, non s'arrischiava di mischiarsi  ai  ragionari  degli  altri  e  cosí
s'imbronciava di dover sfigurare in punto  a  brio  ed  a  loquela.  Ma  volendo
ricattarsene coi vezzi e  collo  splendore  della  bellezza,  cadeva  nell'altro
sconcio di far sempre mille attucci e di restar sempre preoccupata di sé in modo
che pareva perfino stupida. Monsignor di Sant'Andrea, che  in  onta  al  barbaro
abbandonamento  della  Contessa  avea   serbato   alla   figlia   una   calorosa
predilezione, la proteggeva sovente contro i  motteggi  dei  maligni.  Affermava
egli che la era piena di brio, d'ingegno e di sapere, ma che per dar  risalto  a
tutti questi pregi sarebbe occorsa un'abbondante sbruffata di vaiuolo. - Ma  che
Dio ne la preservi! - soggiungeva il dotto canonico  -  perché  d'ingegno  e  di
dottrina ne son piene perfin le cantere della biblioteca,  mentre  una  bellezza
come questa non la si trova né in cielo né in terra, e bisogna esser  di  pietra
per non esserne esilarati fino in fondo al cuore solo a contemplarla!...  Giulio
Del Ponte sosteneva a spada tratta il parere di Monsignore; ma l'Eccellentissimo
Frumier gettava sul giovine qualche occhiatina agrodolce quand'egli s'incaloriva
tanto sopra questo argomento. Gli è vero che la Pisana non somigliava per  nulla
alla Clara, ma Giulio somigliava troppo a Lucilio e il Senatore  ne  avea  mosso
cenno  piú  volte  al  cognato.  Eh  sí,  ci  voleva  altro  per  promovere  una
deliberazione del signor Conte! Egli si era scaricato di tutti  i  doveri  della
paternità sulle spalle della signora Veronica; e siccome le infinite chiacchiere
di costei gli davano il capogiro, s'accontentava di  domandare  al  Capitano:  -
Ehi, Capitano! cosa ne dice della Pisana  vostra  moglie?  È  contenta  del  suo
contegno, delle sue maniere, de' suoi  lavori?  Si  fa  esperta  nelle  faccende
casalinghe? Il Capitano imbeccato dalla Veronica rispondeva a tutto di sí; e poi
torceva e ritorceva quei suoi poveri  baffi,  che  a  furia  di  esser  toccati,
stravolti, malmenati, s'eran ridotti, di neri, grigi, di  grigi,  canuti,  e  di
canuti, gialli. Avevano il piú bel colore di  zucchero  filato  che  si  potesse
vedere; e soltanto la coda di Marocco, in merito della  vecchiaia  e  dell'esser
continuamente abbrustolita sul fuoco,  aveva  acquistato  una  tinta  consimile.
Marchetto aveva offerto al Capitano, per quella sola coda, la cessione di  tutti
i suoi crediti di gioco; e l'Andreini e il Cappellano affermavano  che  solo  il
valoroso Sandracca ed il suo nobile cane da ferma potevano gareggiare  coll'alba
nel colore del pelo. Questi ospiti perpetui del castello di Fratta eran divenuti
sempre piú domestici e burloni, dopo la partenza della Contessa;  e  neppure  il
Cappellano pativa piú tanto la soggezione. Perfino i gatti  della  cucina  avean
perduto l'antica salvatichezza e s'accoccolavano fra le ceneri e sui piedi della
compagnia. Un vecchio gattone soriano, grave come un consigliere,  s'era  legato
di strettissima amicizia con Marocco: dormivano insieme in comunanza di paglia e
di  pulci,  passeggiavano  di  conserva,  mangiavano  sullo  stesso   desco,   e
s'esercitavano alla stessa caccia, a quella dei sorci. Ma con molta  discretezza
e affatto signorilmente; si vedevano in essi  i  cacciatori  dilettanti  che  si
movevano per ingannar l'ora, e cedevano la  preda  al  servidorame  degli  altri
gatti e gattini della cucina. A dirvi il vero,  trascorsi  i  primi  giorni  nei
quali la Pisana era tornata la mia fedelona d'una volta, io non  ci  stava  bene
per nulla in mezzo a quella gente. Quando era piccino  mi  accontentava  di  non
intenderli e di ammirarli; allora invece li  intendeva  benissimo  senza  capire
come potessero godersi di tante scipitaggini. Mi ficcai dunque per  disperazione
in cancelleria; e là impasticciava protocolli e  copiava  sentenze  raccomodando
anche mano a mano molti strafalcioni che sgorgavano dalla fecondissima penna del
mio principale. E sí che aveva sempre il capo nelle nuvole! e ad ogni pedata che
udissi nel cortile correva alla finestra per vedere se era la Pisana che  usciva
o che tornava dalle sue gite solitarie.  Era  tanto  inasinito  che  nemmeno  lo
scalpiccio di due zoccoli mi lasciava quieto; udiva sempre la Pisana, la  vedeva
dovunque, e per quanto ella sfuggisse d'incontrarsi con me,  e  incontratomi  mi
tenesse il broncio, io non  cessava  dal  desiderarla  come  il  solo  bene  che
m'avessi. La signora Veronica si compiaceva di gabbarmi per questa mia smania, e
m'intratteneva sovente del gran chiasso che la Pisana faceva a Portogruaro, e di
Giulio Del Ponte che moriva per lei, e di Raimondo Venchieredo che, escluso  dal
vederla a Fratta o in casa  Frumier,  l'aspettava  sulla  strada  o  nei  luoghi
ov'ella costumava passeggiare. Io mi rodeva  di  dentro  e  scappava  da  quella
ciarlona. Rifaceva passo passo le corse di una volta; andava fino al bastione di
Attila  a  contemplarvi  il  tramonto;  là  mi  saziava   di   quel   sentimento
dell'infinito con cui la natura ci  accarezza  nei  luoghi  aperti  e  solinghi;
guardava il cielo, la laguna, il mare; riandava le memorie della  mia  infanzia,
pensando quanto era fatto diverso, e quante diversità ancora mi prometteva o  mi
minacciava il futuro. Qualche volta mi ricoverava a Cordovado in casa  Provedoni
dove almeno un po' di pace, un  po'  di  giocondità  famigliare  mi  rinfrescava
l'anima quando non la guastava la Doretta  colle  sue  scappatelle  o  co'  suoi
grilli da gran signora. I piú piccoli dei fratelli  Provedoni,  Bruto,  Grifone,
Mastino, erano tre bravi ed operosi garzoni, ubbidienti  come  pecori,  e  forti
come tori. La Bradamante e l'Aquilina mi  piacevano  assai  per  la  loro  rozza
ingenuità, e pel continuo e allegro affaccendarsi delle loro manine a  vantaggio
della famiglia. L'Aquilina era una fanciulla di  forse  appena  dieci  anni;  ma
attenta grave e previdente come una reggitrice di casa. A vederla sul  fosso  in
fondo all'ortaglia occuparsi a risciacquare il bucato col suo corsetto smanicato
e la camicia rimboccata oltre il gomito, la sembrava proprio una vera  donnetta;
e io ci stava presso di lei le lunghe ore rifacendomi quasi fanciullo per godere
d'un po' di quiete almeno colla fantasia. Bruna come  una  zingarella,  di  quel
bruno dorato che ricorda lo splendore delle arabe, breve e nerboruta  di  corpo,
con due folte e sottili sopracciglia che s'aggruppavano quasi dispettosamente in
mezzo alla fronte, con due grandi occhi grigi e profondi, e una selva di capelli
crespi e corvini che nascondevano per metà le orecchie ed il  collo,  l'Aquilina
aveva un'impronta di calma e di fierezza quasi virile  che  contrastavano  colla
modesta titubanza della sorella maggiore.  Costei  in  onta  a'  suoi  vent'anni
pareva piú bambina dell'altra: eppure la era una ragazza di garbo, e  il  signor
Antonio diceva scherzosamente che chi l'avesse  voluta  sposare  avrebbe  dovuto
pagargliela salata. Ma tutte e due si mostravano ammirabili di pazienza nel loro
contegno verso Leopardo e la cognata. Costei, arrogante, bisbetica,  malcontenta
di tutto; suo marito infinocchiato e aizzato sempre da lei, ingiusto,  zotico  e
crudele a sua volta; non è a dire quanto l'indole di lui  s'era  cambiata  sotto
l'impero della moglie. Non lo si conosceva proprio piú, e tutti strolicavano per
sapere qual droga avesse filtrato la Doretta per affatturarlo a quel modo.  Alle
corte, non era stato che amore; ma l'amore, che è un  ventaglio  d'angelo  nelle
mani della bontà, abbrancato dalla malignità e dall'orgoglio diventa un  tizzone
d'inferno. La Doretta si pentiva  di  essersi  piegata  a  quel  matrimonio  con
Leopardo, e non si schivava dal dirlo a tutti ed anco a  lui,  facendogli  anche
misurare la gran degnazione ch'era stata la sua a sposarlo. I corteggiamenti  di
Raimondo le davano a credere che, se avesse avuto pazienza di restar zitella,  a
ben piú eccelso stato poteva aspirare che non a quella  stentata  condizione  di
moglie d'un possidentuccio di paese, e nuora e cognata per giunta di  villanzoni
duri, frugali, e bigotti. La dimora in casa le pareva omai intollerabile;  stava
sovente le giornate intere a Venchieredo, e se le domandavano ov'era  stata  non
si degnava neppur di rispondere, ma squassava le spalle e  tirava  innanzi.  Per
poter comparire in gran pompa a Portogruaro, avea trovato la scusa di scegliersi
a  confessore  il  padre  Pendola.  Ma   queste   frequenti   confessioni   poco
contribuivano, per quanto pareva, a migliorarla ne' suoi costumi. Fino  con  suo
padre  aveva  smesso  di  usar  le  buone,  come  usano  sempre  i  temperamenti
fastidiosi, che cominciano ad irritarsi contro qualcuno,  e  finiscono  poi  col
pesar sopra tutti. Gli serbava astio di  aver  consentito  alle  sue  nozze  con
Leopardo, e se il dottor Natalino soggiungeva che era stata lei  a  volerlo,  si
rimbeccava come una vipera, gridando che è dovere dei padri soccorrere col  loro
senno il giudizio poco maturo delle  figliuole,  e  che  certo  se  ella  avesse
mostrato voglia di gettarsi nel pozzo avrebbe avuto la consolazione di  sentirsi
dare la prima spinta da suo padre. Toccava poi al padroncino quietarla  da  tali
furie; e come vi riuscisse e con quanto onore del credulo Leopardo, io lo lascio
pensare ai lettori. Infin dei conti tutto  il  paese  mormorava  di  lei,  e  la
famiglia tuttavia la sopportava con rassegnazione, e il povero marito non  vedea
cosa da lei desiderata che subito non gettasse foco dalle narici per  ottenerla.
Io fra me e me ritraeva dallo spettacolo  di  queste  scene  domestiche  i  miei
ammaestramenti, i miei conforti; toccava con mano che la  felicità  è  relativa,
passeggiera, ma piú ancor rara e fallace. Tornando poi a Fratta, se ben poco  mi
restava di tali conforti, avea se non altro passato  qualche  ora  senza  frugar
colle unghie nelle mie piaghe; e qualcheduna mi si chiudeva lentamente: però  ne
restavano le cicatrici fino all'osso, e restava come  quei  barometri  ambulanti
nei quali ogni costola,  ogni  giuntura  con  doloruzzi  e  scricchiolamenti  dà
indizio del cambiar del tempo. Continuava cosí vagabondo e melanconico in quelle
vacanze autunnali quando un giorno che aveva creduto intravvedere  nella  Pisana
una cera piú benigna del solito, me le misi dietro, la seguii fuori  per  l'orto
fin sulla strada di Fossalta; e poi avvicinandomele di soppiatto passai  il  mio
braccio nel suo chiedendole se mi avrebbe sopportato per  compagno.  Non  avessi
mai osato tanto! La giovinetta mi si voltò contro con tali occhi  che  parve  mi
volesse divorare! e poi volle  dar  sfogo  alla  sua  bile  con  qualche  grande
ingiuria, ma la voce le rimase strozzata in gola, e si morse le  labbra  che  ne
spillò il sangue fino sul mento. - Pisana - le dissi - per carità,  Pisana,  non
guardarmi in quella maniera! Ella strappò violentemente il braccio di  sotto  al
mio e lasciò di mordersi le labbra perché omai la rabbia dava passo alle parole.
- Cosa fate? cosa mi chiedete? - rispose ella disdegnosamente. - Non  siamo  piú
fanciulli mi pare! Ora  è  tempo  di  stare  ciascuno  al  nostro  posto,  e  mi
maraviglio che voi, anziché eccitarmi a dimenticare questa massima,  non  me  la
rechiate a mente quando la troppa bontà me ne fa smemorare. Già lo sapete  ch'io
sono bizzarra e di primo impeto; or dunque tocca a voi freddo e  ragionevole  di
natura ricordarvi chi siete e chi sono io!... Ciò detto ella mi volse le  spalle
e s'avviò verso l'ombra di alcuni salici dove Giulio Del Ponte l'aspettava collo
schioppo in ispalla. Seppi poi che si avean data la posta  colà,  e  che  l'idea
ch'io la seguissi per ispiarla avea ispirato alla Pisana quelle cattive  parole.
Non monta. Io ne patii allora fino in fondo all'anima. Tornai  in  castello  che
non sapeva se fossi morto o vivo; girava qua e là su e giù  per  le  scale  come
l'ombra d'un dannato; entrai spensatamente in camera della Contessa  vecchia.  -
Guardate se è la Clara! - disse costei alla sua  infermiera,  perché  gli  occhi
oggimai non le servivano piú che per piangere le lagrime  senza  conforto  della
vecchiaia. Io  fuggii  addolorato  e  stravolto;  corsi  fino  disopra  nel  mio
covacciolo ove tutto stava ancora disposto come quand'io n'era  uscito  un  anno
prima. Di là, dopo una lunga  ora,  passai  nella  camera  di  Martino.  La  mia
devozione e l'incuria degli altri non avean messo un dito  nelle  cose  lasciate
dal vecchio. Per terra giacevano ancora alcuni chiodi avanzati al  becchino  che
lo avea rinchiuso nella cassa; una fiala con non so qual cordiale  disseccato  e
corrotto stava sulla tavola. Sul muro spenzolavano ancora sfogliati e  polverosi
rami di olivo appesivi da lui nell'ultima domenica delle Palme di sua  vita.  Mi
gettai sopra il letto impresso ancora dalla giacitura del  cadavere;  là  piansi
amaramente, evocai la memoria di quel mio primo e si  può  dir  solo  amico;  lo
chiamai a nome mille e mille volte, lo pregai che si  ricordasse  di  me  e  che
scendesse anima o spettro a consolarmi della sua compagnia. Ma la fede  titubava
anche in queste invocazioni; io non sperava, io non credeva piú.  Solamente  piú
tardi a forza di tormenti e di  sforzi  giunsi  a  rafforzarmi  il  cuore  d'una
credenza vaga, confusa, ma pur sicura ed intrepida,  nelle  cose  spirituali  ed
eterne. Allora balbettava sí le orazioni nelle chiese, ma l'anima mia era  arida
come uno scheletro; la mente cadeva appassita  dall'aria  greve  del  mondo;  il
cuore scoraggiato si appigliava alla speranza del nulla come ad unico rifugio di
pace. Questo interno scoraggiamento mi rendeva  terribile  ed  amara  perfin  la
memoria di quel buon vecchio che ad onta delle  mie  disperate  invocazioni  non
avrei piú potuto rivedere, e che dormiva nel sepolcro, mentr'io mi  trangosciava
nella vita. L'aria di morte che colà respirava, mi  invase  a  poco  a  poco  il
cervello: le lagrime mi  si  stagnarono  sulle  ciglia,  e  l'occhio  prese  una
guardatura vitrea e tormentosa ch'io m'ingegnava indarno di cambiare. Mi  pareva
che il fuoco della vita si ritraesse da me;  sentiva  il  gelo,  i  fantasmi,  i
terrori dell'agonia che mi opprimevano; vi fu un istante che cambiato  quasi  in
cadavere credetti di essere lo stesso  Martino,  e  mi  maravigliava  di  essere
uscito dalla fossa, e aspettava e temeva che di momento in momento entrassero  i
becchini per riportarmivi. Questo pensiero strano e spaventoso mi si  ingrandiva
dinanzi come la bocca d'un abisso; non era piú un pensiero, ma una visione,  una
paura, un raccapriccio. La luce della finestra  mi  percosse  le  pupille  quasi
assopite; forse in quel momento il sole sbucava da qualche nuvola e inondava  la
stanza  cogli  splendori  del  giorno:   un   desiderio   d'aria,   di   quiete,
d'annientamento  s'impadroní  di  me.  Sorsi  barcollando,  e  mi  trascinai  al
davanzale del balcone; ma lo strepito d'una seggiola che rovesciai nel  movermi,
mi svegliò un poco  da  quel  sogno  funereo.  Del  resto  credo  che  mi  sarei
precipitato dalla finestra, e  la  mia  vita  sarebbe  passata  senza  il  lungo
epitaffio di queste confessioni. Stesi la mano per appoggiarmi  alla  tavola,  e
toccai qualche cosa che mi restò fra le dita. Era un libricciuolo di  devozione;
quello appunto che il vecchio Martino soleva  leggicchiare  tutte  le  domeniche
durante la messa; gli occhiali vi stavano ancora dentro in guisa di segno. Parve
quasi che l'anima del mio amico fosse accorsa alle mie chiamate e  s'apprestasse
a rispondermi dalle pagine sdrucite di quel libro; gli occhi mi  si  inumidirono
di nuovo, e mi abbandonai col capo nelle mani  sopra  la  tavola,  singhiozzando
senza ritegno. Allora tornò se non la calma almeno la luce nel mio spirito, e  a
poco a poco ricordai come e perché fossi là venuto; e  quali  dolori  mi  aveano
fatto cercare ricovero nella memoria d'un morto. Mi rizzai tremante e  lagrimoso
ancora, ma conscio e sicuro di me; apersi religiosamente il libro e ne  sfogliai
con raccoglimento le pagine. Erano le solite  orazioni,  semplici  e  fervorose;
conforto ineffabile delle anime divote, geroglifici ridicoli  e  misteriosi  pei
miscredenti. Qua e  là  si  frapponeva  l'immagine  di  qualche  santo,  qualche
polizzino di comunione col suo testo latino e  la  cifra  dell'anno  in  fronte;
modeste  pietre  miliari  d'una  lunghissima  vita,  ammirabile  di   fede,   di
sacrifizio, e di contenta giocondità. Finalmente mi capitò sott'occhio una carta
piena da capo a fondo d'uno stampatello irregolare e minuto, quale  è  usato  da
coloro che imparavano soli a scrivere  metà  da  scritture  corsive  e  metà  da
lettere stampate. Era il carattere autentico di Martino, e  mi  sovvenne  allora
ch'egli già adulto a forza di scarabocchiare era giunto ad esprimere alla bell'e
meglio quanto aveva in capo, per potersene giovare nel render conto delle  spese
ai padroni. Trovata quella carta mi parve aver tra mano un tesoro, e mi  accinsi
ad interpretarla benché non mi sembrasse impresa tanto agevole.  Pure,  cerca  e
ricerca, aggiungi di qua e togli di là, a forza di ipotesi,  di  rattoppi  e  di
appiccature, mi venne fatto di cavare un  senso  da  quel  viluppo  di  lettere,
vaganti senz'ordine e senza freno come un branco di pecorelle ignoranti.  Pareva
fossero ricordi  o  ammaestramenti  d'esperienza  ritratti  da  qualche  stretta
pericolosa della vita,  vittoriosamente  superata;  e  a  rinfiancarli  il  buon
vecchio aveva aggiunto qualche massima  divota  e  i  comandamenti  di  Dio  ove
cadevano a proposito. E la scrittura non mancava di qualche rozza eleganza  come
sarebbe d'un trecentista, o di qualunque uomo che non  sa  scrivere  ma  sa  pur
pensare meglio di coloro  che  scrivono.  Cominciava  cosí:  "Se  sei  al  tutto
infelice è segno che hai qualche peccato  sull'anima;  perché  la  quiete  della
coscienza prepara a' tuoi dolori un letto da riposarsi. Cerca e vedrai  che  hai
trascurato qualche dovere,  o  fatto  dispiacere  ad  alcuno;  ma  se  riparerai
all'ommissione e al mal fatto, tornerà subito la pace a rifiorir nel tuo  cuore,
perché Gesù Cristo ha detto: beati coloro che soffrono persecuzione.  "Dimentica
i piaceri che ti son venuti di sopra a te; cercali sotto a te  nell'amore  degli
umili. Gesù Cristo amava i fanciulli, i cenciosi, e gli  storpi.  "Non  guardare
alla tua condizione come ad una galera cui sei condannato. Galeotti in veneziano
si chiamano i birbanti. Ma i buoni lavorano per amore del prossimo e quanto  piú
duro è il lavoro tanto è maggiore il merito. Bisogna amare il prossimo come  noi
stessi. "Non ribellarti a chi ti comanda; soffri la sua durezza non  per  timore
ma per compassione, acciocché non accresca il suo peccato. Gesù Cristo ubbidí ad
Erode e a Pilato. "Il segreto, che ti si rivela per caso, è piú sacro di  quello
che ottieni in deposito dalla fiducia altrui. Questo ti è confidato dall'uomo, e
quello da Dio. La soddisfazione di averlo custodito gelosamente ti darà  maggior
piacere che non ne otterresti dai favori o  dai  denari  che  ti  si  offrono  a
tradirlo. La pace dell'anima val piú di mille zecchini; io lo posso  assicurare;
e mi avvedo ora che pensai giustamente e pel mio meglio. "Vivendo bene, si muore
meglio; desiderando nulla, si possiede tutto. Non desiderare  la  roba  d'altri.
Però non bisogna né disprezzare né  rifiutare  per  non  offender  nessuno.  "Se
adempiendo a tutti i tuoi doveri non sei ancora in pace con  te  stesso,  gli  è
segno che ignori molti altri doveri che ti incombono. Cercali, adempili e  sarai
contento per quanto lo sopporta la condizione umana. "La disperazione  è  sempre
stata la piú gran pazzia, perché tutto finisce. Parlo delle cose di questa vita.
Ma le gioie del paradiso non finiscono mai; e neppur la fede nel Signore  Iddio.
Ch'egli mi aiuti a conseguirle. Amen". In un cantoncino rimasto  bianco  stavano
scritte con carattere piú minuto e posteriore quest'altre due  massime:  "Quando
sei buono a nulla per vecchiaia o per malattia, considera ogni servigio  che  ti
si rende come un dono spontaneo. "Non sospettar il male; ne vedi anche troppo di
certo per immaginarti l'incerto. I giudizi temerari sono  proibiti  dalla  legge
del Signore. Ch'egli mi benedica. Amen". Confesso la verità che dicifrata questa
scrittura io rimasi umiliato di molto ed anche un po' afflitto  d'averla  letta.
Io che avea sempre stimato  Martino  un  semplicione,  un  dabbenuomo,  un  buon
servitore, umile, premuroso, riservato come se ne usavano una volta e nulla piú!
Io che appetto a lui, massime negli ultimi anni, dappoiché rosicchiava un po' di
latino, mi teneva per un uomo di conto, e mi stimava  di  seguitare  a  volergli
bene, quasi fosse la mia una gran degnazione! Io che avrei  sdegnato  di  fargli
parte del mio peregrino sapere per paura  non  già  che  essendo  sordo  non  mi
udisse, ma che non  mi  comprendesse  pel  suo  ingegno  zotico  e  triviale!...
Guardate! con quattro righe buttate giù sulla carta egli me  ne  insegnava  dopo
morto piú ch'io non avrei potuto insegnarne agli altri studiandoci  sopra  tutta
la vita! Di piú, frammezzo a' suoi precetti ve n'erano di  tanto  sublimi  nella
loro semplicità ch'io non arrivava a comprenderli; e sí che le  parole  dicevano
chiaro! - Per  esempio,  dove  stava  scritto  di  cercare  quali  altri  doveri
sconosciuti  ci  incombessero  da  adempiere  se  l'adempimento  di  quelli  che
conosciamo non bastasse a farci vivere in pace con noi stessi, cosa voleva  dire
il buon Martino? E questo era proprio il mio caso; e dietro questa  massima  piú
che colle altre mi tornava conto di lambiccare il cervello. Basta! Per allora mi
rassegnai a leggerla e a rileggerla, se non senza  capirla  cosí  astrattamente,
almeno senza poterne trovare un modo di applicazione  alle  mie  circostanze.  E
tornai a meditare la prima, la quale ascriveva a qualche  nostra  mancanza  o  a
qualche cattiva azione la piena infelicità! "Povero me!" pensai "certo che io ho
molte colpe sulla coscienza, perché mi sento oggi piú miseramente  infelice  che
uomo alcuno al mondo non possa essere". Sí,  ve  lo  giuro,  feci  un  esame  di
coscienza cosí sottile, cosí scrupoloso che non fu senza merito per essere stato
il primo: colla nozione imperfettissima ch'io aveva delle leggi morali, ho paura
che me ne passassi buona piú d'una,  ma  anche  mi  rampognai  di  cose  per  sé
innocentissime; come per esempio d'essermi sempre rifiutato a stringer  amicizia
coi figliuoli di Fulgenzio e di serbar poca gratitudine alla  signora  Contessa.
Il primo peccato lo ascriveva a superbia, ed era antipatia pura e semplice;  del
secondo accagionava il mio cattivo animo, ma tutta la colpa l'aveva  la  memoria
tenace della mia povera  zazzera,  tanto  ingiustamente  martorizzata.  Intanto,
quello che piú importa, non m'illusi punto sul mio peccataccio  piú  grosso,  su
quello sfrenato amore per la Pisana, il quale mi  si  scoprí  d'un  tratto  alla
coscienza in tutta la sua bestiale salvatichezza. Io aveva amato la Pisana  fino
da piccino! Ottimamente! Fin da piccino avea sognato con  essolei  un  amore  da
uomo! Cose compatibili in un ragazzo che ragiona coi piedi! - Giovinetto  e  già
ragionevole e malizioso oltre il bisogno, avea persistito  in  quella  bizzarria
fanciullesca. - Male, signor Carlino! Ecco il primo  scappuccio  dopo  il  quale
vengono gli altri, come le ventidue lettere  dell'alfabeto  dopo  la  prima.  La
ragione doveva avvertirmi ch'io era o il cugino o  il  servitore  della  Pisana.
(Servitore, dico, perché coi servi era il mio posto nel castello di Fratta).  In
ambidue i casi non mi stava di appiccicarmi  a  lei  colle  pretese  d'un  amore
contro l'ordine delle cose. Veggiamo un poco: coll'amore dove si giunge  o  dove
si intende di giungere? Al matrimonio; questa è sicura; e  io  la  sapeva  e  la
vedeva tutti i giorni. Ma io, doveva io mai sperare di sposarmi colla Pisana?...
Chi sa!... Zitti, desiderii chiacchieroni che correte incontro  all'impossibile.
Qui non si tratta di sapere se la tal cosa può  avvenire  in  natura,  ma  se  è
solito che avvenga, e se  contenterà  quelli  che  ci  hanno  intorno  le  mani.
Conveniva proprio ch'io confessassi  che  né  il  matrimonio  mio  colla  Pisana
sarebbe stato secondo l'ordine consueto del mondo, e  che  né  il  Conte  né  la
Contessa né alcun altro né forse la Pisana stessa  avrebbero  avuto  ragione  di
esserne contenti. Dunque? dunque correndo dietro a  quello  stregamento  io  non
batteva la buona via; correva pericolo di fuorviarmi lontano assai e  certo  non
era questa la strada di adempiere ai miei doveri di probità e  di  riconoscenza.
Ma se la Pisana mi amava?... Ecco un altro cavillo, un  sotterfugio,  una  scusa
del vizio inveterato, Carlino bello! Prima di  tutto,  se  anche  la  Pisana  ti
amasse, sarebbe tuo dovere di fuggirla piucchemai, perché approfitteresti  d'una
sua leggerezza, d'un suo invasamento per contrapporla al desiderio dei  parenti.
E poi tu sei povero ed ella è ricca; non  mi  piace  porgere  appiglio  a  certe
calunnie. E poi e poi ella non ti ama, e la questione è bella e sciolta... Come,
come non la mi ama? come sarebbe a dire? Sí, datti pace, Carlino! non la ti  ama
per nulla; non la ti  ama  con  quell'impeto  cieco,  intero,  perseverante  che
impedisce ogni considerazione, toglie ogni distanza e confonde anima  ad  anima.
Non la ti ama; e tu lo sai bene, perché di ciò appunto ti crucci  e  t'arrovelli
tanto. Non la ti ama perché sei venuto in questa camera a cercar dalla morte  un
conforto contro le sue male parole, contro il suo disprezzo. Consolati, Carlino;
puoi abbandonarla senza ch'ella ne pigli una sola febbre. Non sei neppur il capo
raro che la ne debba soffrire nell'orgoglio. Se tu fossi il poetico  Giulio  Del
Ponte, o lo sfarzoso castellano di Venchieredo  ne  dovresti  avere  un  qualche
rimorso, ma tu!... Eh va là! non te ne sei accorto che qui a Fratta sei  appetto
a lei come  Marchetto,  come  Fulgenzio,  come  tutti  gli  altri  una  stazione
temporanea nel turno de' suoi affetti, un accattone  che  aspetta  la  sera  del
sabato il suo quattrinello d'elemosina. Male,  male,  Carlino!  Qui  non  è  piú
questione di doveri verso gli altri, ma di rispetto a te stesso. Sei tu un asino
da guardar a terra e da insaccar legnate o un uomo da tener diritta la fronte  e
da sfidare il giudizio altrui? Pulisciti i ginocchi, Carlino; e va' via di  qua.
Vedi, arrossisci di vergogna; è  cattivo  segno  e  buono  nello  stesso  tempo:
accenna alla coscienza del male commesso, ma insieme a ribrezzo e  a  pentimento
di quel male. Vattene, Carlino,  vattene;  cerca  una  strada  piú  onesta,  piú
sicura, ove siano altri passeggieri cui tu possa dar mano e  insegnare  la  via;
non perderti in quei  nebulosi  confini  fra  il  possibile  e  l'impossibile  a
battagliare colla tua ombra, o  coi  mulini  di  don  Chisciotte.  Se  non  puoi
dimenticar la Pisana, devi fingere di dimenticarla; al resto  non  pensare,  che
verrà dopo. Ora, sia verso te che verso lei e  verso  tutto,  il  tuo  dovere  è
questo. Restando avvilisci te, spazientisci lei, rendi male  per  bene  a'  suoi
genitori. Vattene, Carlino, vattene! Pulisciti  i  ginocchi  e  vattene!  Questo
consiglio fu il primo frutto del monitorio di Martino; e  fui  tanto  spaventato
della sua acerbezza che senza  pescare  altri  corollari  ripiegai  la  carta  e
ripostala nel libro e intascato questo, uscii pallido  e  pensieroso  da  quella
stanza ov'era entrato livido e demente. Fra tutti i dolori miei mi  parlava  piú
chiaramente quello di aver sconosciuto per tanti anni la pratica rettitudine  di
Martino, di non aver fatto di lui quel conto che meritava, di averlo creduto, in
una parola, una macchina cieca e obbediente mentr'era invece un uomo  conscio  e
rassegnato. Io era divenuto cosí piccino nella mia  propria  stima  che  non  mi
ravvisava piú; la memoria d'un vecchio servitore morto, seppellito  e  già  roso
dai vermi mi costringeva ad abbassare il capo confessando che con tutto  il  mio
latino nella vera e grande sapienza della vita era  forse  piú  indietro  che  i
villani. Infatti nella loro semplice religione essi definiscono  coraggiosamente
la vita per una tentazione, o una prova. Io non poteva definirla altrimenti  che
coll'eguali parole che si adopererebbero a definire la vegetazione d'una pianta.
Aveva un bel piluccarmi le idee, un bel voltare e rivoltare  questa  matassa  di
destini, di nascite, di morti e di trasformazioni! Senza un'atmosfera eterna che
la circondi, la vita rimane una burla, una risata, un singhiozzo, uno  starnuto;
l'esistenza  momentanea  d'un  infusorio  è  perfetta  al  pari  della   nostra,
coll'ugual ordine di sensazioni che declina dalla nascita alla morte.  Senza  lo
spirito che sorvola, il corpo resta fango e si converte in fango. Virtù e vizio,
sapienza e ignoranza son qualità d'un'argilla diversa,  come  la  durezza  o  la
fragilità, o la radezza o lo spessore.  Ed  io  mi  sdraiava  comodamente  nella
metafisica del nulla e del pantano, mentre dall'alto  de'  cieli  la  voce  d'un
vecchio servitore mi cantava le immortali speranze!  -  O  Martino,  Martino!  -
sclamai - io non comprendo l'altezza della tua fede, ma gli insegnamenti che  ne
ritraggo sono cosí grandi e virtuosi che soli  farebbero  malleveria  della  sua
bontà. Abbiti l'ossequio del tuo indegno figliuolo anche al di là della tomba, o
vecchio Martino! Egli ti ha amato in vita, e se non ti diede  gran  parte  della
sua stima allora, adesso te la dona tutta, te  la  dona  col  fatto,  accettando
ciecamente i tuoi consigli, e mostrandosi degno di  aver  raccolto  il  prezioso
retaggio. Primo effetto di cotal proponimento fu di stogliermi dal  castello  di
Fratta per condurmi qua e là in cerca di svagamenti e  di  piaceri,  come  altre
volte avea fatto. Indi feci  sfilare  dinanzi  alla  ragione  tutta  la  piccola
squadra de' miei doveri, e  trovandola  poco  numerosa,  mi  balenò  alla  mente
quell'oscura falange di doveri sconosciuti che mi poteva assalire quandochessia,
e la quale anzi, secondo Martino, io avrei dovuto chiamare in mio aiuto contro i
tedii dell'infelicità. Per allora non fu che un balenio; e sonai  sí  campana  a
martello per ogni  cantone  dell'animo;  ma  nessun  nuovo  sentimento  sorse  a
gridarmi: "Tu devi far questo e devi tralasciar quello". Circa al romperla colla
Pisana,  era  già  d'accordo  con  me  stesso;  sentiva  il   dolore   e   quasi
l'impossibilità di questo sacrifizio, ma non me ne celava l'obbligo assoluto.  E
poi e poi, riconoscenza, carità, studio, temperanza, onestà, in ogni altro punto
trovava le partite in ordine: non c'era di che ridire. Soltanto temeva  di  aver
mostrato finallora poco zelo nel mio noviziato  di  cancelleria;  ma  fermai  di
mostrarlo in seguito, e cominciando dal  domani  scrissi  il  doppio  di  quanto
soleva  scrivere  ai  giorni  prima.  In  quel  benedetto  domani  doveva  anche
principiare a non guardar piú la Pisana, a non cercarla, a non chieder conto  di
lei; ma vi  feci  sopra  tanti  ragionamenti,  che  protrassi  il  cominciamento
dell'impresa al posdomani. In seguito tirai innanzi un giorno  ancora,  e  finii
col persuadermi che il mio  dovere  era  soltanto  di  assopir  l'amor  mio,  di
svagarlo,  di  stancheggiarlo  coll'adempimento  degli  altri  doveri,  non   di
assassinarlo direttamente. L'anima mia ne era cosí piena che sarebbe quasi stato
un suicidio; cosí, per non ammazzarmi lo spirito tutto d'un  colpo,  seguitai  a
stracciarlo, a tormentarlo brandello  per  brandello.  Il  rimorso  d'una  colpa
conosciuta e ribadita dall'intelletto amareggiava perfin le lontane lusinghe che
ancora mi rimanevano. Un giorno, dopo aver  scritto  molte  ore  in  cancelleria
senza che questa occupazione mi fosse di gran giovamento, pensai  d'andarmene  a
Portogruaro per congedarmi dall'Eccellentissimo Frumier. Si era già allo scorcio
dell'ottobre  e  poco  sarei  stato  ad  imbarcarmi  per  Padova.  Guardate  che
combinazione! La Pisana era appunto in quel giorno a pranzo dallo zio, e se  ora
io giurassi che non ne sapeva nulla, certo non  mi  credereste.  Si  festeggiava
l'onomastico della nobildonna, e facevano cerchio alla mensa Giulio  Del  Ponte,
il  padre  Pendola,  monsignor  di  Sant'Andrea  e   tutti   gli   altri   della
conversazione. Il Senatore  m'accolse  come  fossi  già  invitato;  ed  io  feci
l'indiano e sedetti non senza sospetto che la Pisana per tormisi d'infra i piedi
m'avesse taciuto l'invito. Infatti la sua vicinanza a Giulio, le occhiatine  che
si scambiavano, e la confusione delle loro parole quando  venivano  interrogati,
mi chiarivano abbastanza ch'io doveva esser per lei, se non un incommodo,  certo
un assai inutile testimonio. Incommodo no; perché già a mio riguardo non  la  si
sarebbe tirata indietro da nulla. In tutte le parti  anche  migliori  dell'animo
suo ella mancava affatto di quella delicatezza che sovente è  mera  abitudine  e
talvolta anche ipocrisia, ma che conserva in uno squisito sentimento  di  pudore
il rispetto alla virtù. Donde avrebbe ella  appreso  queste  raffinatezze  delle
maniere femminili? Sua sorella Clara, che sola  avrebbe  potuto  insegnargliele,
viveva sempre lontana da lei in camera della nonna; essa, lasciata in  balía  di
manifestare e imporre tutti i proprii capricci, avea imparato mano  a  mano  non
solo a lasciar loro il freno sul collo,  ma  anche  a  non  prendersi  briga  di
esaminarli e di nasconderli  se  fossero  brutti  e  vergognosi.  La  padronanza
dell'istinto uccide il pudore dell'anima, che nasce da ragione e  da  coscienza.
Io sedeva vicino al padre Pendola, mangiando poco, discorrendo meno,  osservando
assai, e piú di tutto macerandomi di rabbia  e  di  gelosia.  Giulio  Del  Ponte
s'animava a tratti, si mesceva come uno scorribanda alla conversazione generale,
lanciava un razzo di frizzi, di barzellette, d'epigrammi e poi tornava  al  muto
colloquio della vicina con tal atto che diceva: "Si parla piú dolcemente  cosí!"
Si vedeva che quel suo brio non era spontaneo, cioè non era  l'abbondanza  della
vena che lo faceva sgorgare. Piuttosto argomentava che, stando muto,  o  avrebbe
fatto pensar  male,  o  avrebbe  perduto  quella  stima  di  giovane  allegro  e
sfolgorante che gli avea conquistato il cuore della Pisana. Infatti costei,  che
sorrideva soltanto alle sue occhiate, arrossiva fin nelle  orecchie,  sospirava,
si confondeva quand'egli parlava lesto,  grazioso,  animato  e  faceva  scoppiar
d'ognintorno l'applauso irresistibile  delle  risate.  Giulio  Del  Ponte  aveva
indovinato la qualità della propria magia: le avea  piaciuto  in  ragione  della
virtù che aveva di ravvivare, di rallegrare, di trascinare. Infatti sembrava che
egli avesse tre anime invece di una; e gli occhi e i  gesti  e  le  parole  e  i
pensieri avevano in lui tanta abbondanza e varietà che non parea bastare a tanto
movimento quel solo fornello spirituale che dà calore di vita a ciascuno di noi.
Scusatemi la similitudine; se la forza dell'anima si misurasse come  quella  del
vapore, si poteva calcolare la sua a novanta cavalli, limitando a trenta  quella
della gente comune. Converrete meco ch'era una gran fortuna; ma guai,  guai  per
questi Sansoni di spirito se Dalila taglia loro i capelli! Guai dico: il  premio
stesso della lor  vigoria  li  precipita;  quell'amore  che  negli  altri  è  un
alimento, una crescenza di fuoco che aggiunge  la  forza  di  altri  milioni  di
cavalli a quella anche piccolissima che esisteva prima,  in  essi  invece  è  un
inciampo, una sottrazione. Distraendo la loro attività dal suo campo naturale li
sprovvede del predominio che avevano, per confonderli alla plebaglia degli altri
innamorati ognuno de' quali può soverchiarli con altre  doti,  con  altri  pregi
diversi dai loro. In una parola, l'amore che sublima gli  sciocchi,  istupidisce
queste anime splendide e ammaliatrici. Ma Giulio sapeva ciò, e se  ne  difendeva
valorosamente. Sentiva l'amore crescere come una nuvola incantata e  avvolgergli
la mente e accarezzarla, invitandola  ai  sogni  alla  beatitudine.  Un  istante
cedeva a quei dolci adescamenti; ma poi l'accortezza lo risvegliava additandogli
nel riposo la sua sconfitta. Si rialzava  non  piú  per  trabocco  spontaneo  di
giocondità e di brio, ma per forza di volontà e  per  interesse  d'amore.  Aveva
ammaliato la Pisana; non voleva perdere la sua conquista. Infelice in questo che
ai temperamenti come il suo s'avvicendano sempre facili e venturose le occasioni
di piacere e di godere, ma si offrono pericolose e fatali quelle di amare.  Ogni
opera ha i suoi mezzi: l'amore vuol esser conquistato coll'amore;  il  luccichio
della gloria e il barbaglio dello spirito devono tenersi paghi alla  galanteria.
Il padre Pendola adocchiava Giulio Del Ponte e la Pisana;  poi  sogguardava  me;
due occhi come i suoi non si movevano per nulla, ed ogni volta che li incontrava
io sentiva fin nel fondo dell'anima la fredda strisciata dei loro  sguardi.  Gli
altri commensali non badavano a  nulla;  cianciavano  fra  loro,  bevevano  alla
salute della nobildonna, ridevano fragorosamente delle cavatine improvvisate  da
Giulio e soprattutto mangiavano. Ma quando si levarono le mense e  la  compagnia
stava per scendere in giardino a prendere il  caffè  sulla  terrazza,  il  padre
Pendola mi prese amorevolmente pel braccio invitandomi a rimanere. La pietà  che
si dipingeva sul suo volto mi sgomentò un poco; ma  mi  diede  anche  della  sua
indole miglior idea che forse non avessi avuto infin  allora.  Cosa  volete?  la
calamita da una parte attira, dall'altra respinge  il  ferro  e  non  si  sa  il
perché. Anche fra uomo ed uomo si osservano le bizzarrie della calamita.  Rimasi
per curiosità, per ossequio, un po' anche perché i miei occhi avevano bisogno di
non vedere. - Carlino - mi disse il padre girando con me su e giù  per  la  sala
mentre i servi finivano di sparecchiare - voi siete in  procinto  di  tornare  a
Padova. - Sí, padre - risposi con due sospironi  irragionevoli  forse  ma  certo
sinceri. - È il vostro meglio, Carlino. Qui confessatemi che non siete  contento
del vostro stato, che l'incertezza e l'ozio vi rovinano, e che  sciupate  i  piú
begli anni della gioventù! - È vero, padre; ho cominciato per tempo a gustare il
fastidio della vita. - Bene, bene! tornerete poi a trovarla gradevole le dieci e
le venti volte. Tutto sta che vi sacrifichiate  nobilmente  all'adempimento  de'
vostri doveri. Quest'esortazione in bocca del reverendo mi sorprese  assai:  non
mi sarei mai aspettato che le sue massime concordassero con quelle di Martino; e
questa concordia mi aperse d'un tratto l'animo alla  confidenza.  -  Le  dirò  -
soggiunsi - che da poco tempo in qua ho  cercato  appunto  nell'adempimento  de'
miei doveri un rifugio contro... contro la noia. - E lo avete trovato? - Non so;
lo scrivere in cancelleria è lavoro troppo materiale; e  il  signor  Cancelliere
non è la persona piú adatta a render quel lavoro piacevole. Occupo  le  mani,  è
vero, ma la testa vola ove le piace, e pur troppo  i  dispiaceri  e  le  ore  si
contano piú col cervello che colle dita. - Parlate ottimamente, Carlino: ma  voi
dovete sapere meglio di me che piú di tutto alla guarigione  importa  una  ferma
volontà di guarire. Qui, qui, Carlino, voi avete  l'anima  ammalata;  se  volete
sanarla, andatevene; ma voi direte che la malattia viaggia coll'infermo. No, no,
Carlino, non è ragione bastevole! Causa lontana non affligge  tanto  come  causa
vicina. Via, non arrossite ora; io non dico nulla, vi consiglio da  buon  amico,
da padre, e nulla piú. Siete senza famiglia, non avete alcuno che vi ami, che vi
diriga; io voglio adottarvi per  figliuolo,  e  soccorrervi  con  quel  lume  di
esperienza che il Signore mi ha concesso. Fidatevi di  me,  e  provate:  non  vi
domando altro. Bisogna che partiate di qui; che  partiate  non  solamente  colle
gambe, sibbene anche coll'animo. Per tirar poi l'animo con voi,  voi  avete  già
indovinato il modo. Piegarlo alla retta conoscenza e all'operosa osservanza  dei
proprii doveri. Avete detto benissimo; i dolori si contano col  cervello,  e  io
aggiungerò col cuore, non già colle dita della mano. Bisognerà  dunque  occupare
oltre la mano anche il cervello ed il cuore.  -  Padre,  -  balbettai  veramente
intenerito - parli, io l'ascolto con vera fede; e mi proverò  d'intendere  e  di
ubbidire. - Uditemi: - riprese egli - voi non avete obblighi di famiglia,  e  il
debito della riconoscenza verso chi vi ha fatto del bene è saldato presto da chi
non può pagarlo con altro che con la gratitudine dell'affetto. Da questo lato  i
vostri doveri non vi darebbero l'occupazione di un minuto, se  non  fosse  collo
spingervi allo studio secondo l'intendimento  dei  vostri  benefattori.  Ma  non
basta. Cosí si occuperebbe il cervello; il cuore rimane ozioso. Tanto piú che la
famiglia in cui foste allevato non ha saputo educarvelo a suo profitto. No,  non
vergognatevi, Carlino. È certo che voi non  potete  esser  legato  coll'amor  di
figliuolo al signor Conte e alla signora Contessa che appena è se seppero  farsi
amare come genitori dalla lor prole vera. I beneficii non obbligano tanto quanto
il modo di porgerli, massime poi i fanciulli. Non vergognatevene dunque. È cosí,
perché cosí doveva essere. Quanto allo sforzarvi ora, sarebbe  segno  di  ottima
indole, di animo docile e grato;  ma  non  vi  riescireste.  L'amore  è  un'erba
spontanea non una pianta da giardino.  Carlino,  il  vostro  cuore  è  vuoto  di
affetti famigliari come quello d'un trovatello. È una gran  sciagura  che  scusa
molti falli... intendiamoci, figliuolo! li scusa sí, ma né ci libera dal  dovere
di purgarli, né ci abilita per nulla a indurirvisi! A questa sciagura si cercano
rimedii istintivamente durante la prima età. E un buon angelo può  fare  che  si
imbrocchi giusto!... Ma spesso anche la sorte avversa, la cecità fanciullesca ci
fanno trovar veleni invece  di  rimedii.  Allora,  Carlino,  appena  la  ragione
cresciuta se ne accorge, bisogna cambiar vaso, e abbandonare quella cura fallace
e nociva per appigliarsi alla vera. Voi avete diciotto  anni,  figliuolo;  siete
giovane, siete uomo. Non avete,  non  potete  avere  un  affetto  certo,  santo,
legittimo che vi occupi degnamente il cuore, perché nessuno ve ne  ha  insegnate
fin qui le fonti, né annunciata la necessità! Io forse primo  vi  parlo  ora  la
voce del dovere, e non so quanto gradito... - Séguiti pure, séguiti,  padre.  Le
sue parole sono quelle di cui i miei pensieri andarono in cerca  senza  pro'  ai
giorni passati. Mi sembra di veder farsi giorno nella mia mente, e  stia  sicuro
che avrò il coraggio di non distoglier gli occhi. -  Bene,  Carlino!  Avete  mai
pensato che voi non  siete  solamente  uomo,  ma  sibbene  ancora  cittadino,  e
cristiano? Questa domanda fattami dal  padre  con  piglio  grave  e  solenne  mi
conturbò tutto: quello che volesse dire e cosa importasse l'essere cittadino, io
nol sapeva affatto; quanto all'essere cristiano, io non  avrei  messo  punto  in
dubbio che lo fossi, perché nella dottrina mi avevano avvezzato a rispondere  di
sí. Rimasi adunque un po' perplesso e confuso, poi risposi con voce malferma:  -
Sí, padre, so di essere cristiano per la  grazia  di  Dio!  -  Cosí  il  Piovano
v'insegnò a rispondere; - riprese egli - ed ho tutte le ragioni per credere  che
non diciate per usanza una bugia. Fino ad ora, Carlino, tutti erano cristiani  e
perciò una tal dimanda era quasi inutile. La religione stava sopra le dispute; e
buoni o malvagi, se non la regola dei costumi, come nei primi secoli di fervore,
almeno il vincolo della fede  ci  stringeva  tutti  nella  gran  famiglia  della
Chiesa. Ora, figliuol mio, i tempi sono mutati; per esser cristiano non  bisogna
imitare gli altri, ma pensare anzi a fare  a  rovescio  di  quanto  fanno  molti
altri. Dietro l'indifferenza di tutti s'appiatta l'inimicizia di molti, e contro
questi molti i pochi veramente credenti  devono  combattere,  lottare  con  ogni
sorta di armi per non rimaner sopraffatti. Cioè intendiamoci, non  per  orgoglio
personale, ma perché non rimanga conculcata quella religione  fuor  della  quale
non è salute... Carlino, ve lo ripeto, voi siete giovane, siete cristiano;  come
tale vivete in tempi difficili, e andate incontro a tempi  molto  piú  difficili
ancora; ma la difficoltà stessa di questi tempi, se è una sventura comune, se  è
una vicenda miserevole anche per voi, pel  vostro  interesse  momentaneo  e  pel
decoro della vostra vita è una vera fortuna. Pensateci,  figliuolo:  volete  voi
poltrire nell'indifferenza senza pensiero e senza dignità?  o  volete  piuttosto
mescervi alla battaglia dell'eternità col tempo, e dello  spirito  colla  carne?
Queste avvisaglie presenti condurranno  da  ultimo  a  cotali  dilemmi,  non  ne
dubitate. Voi siete di un'indole aperta e  generosa  e  dovete  propendere  alla
buona causa. Colla religione l'idealità, la fede nella giustizia immortale e nel
trionfo della virtù, la vita razionale insomma  e  la  vittoria  dello  spirito;
colla miscredenza il materialismo, lo scetticismo epicureo, la  negazione  della
coscienza, l'anarchia delle passioni, la vita bestiale  in  tutte  le  sue  vili
conseguenze. Scegliete, Carlino! scegliete! - Oh! sono cristiano! -  sclamai  io
con tutto l'ardore dell'anima. - Io credo nel bene e voglio ch'esso  trionfi.  -
Non basta volerlo - soggiunse il padre con una sua vocina melanconica. - Il bene
bisogna cercarlo, bisogna farlo perché  esso  trionfi  davvero.  Perciò  bisogna
darsi corpo ed anima a chi suda, lavora, combatte per ciò; bisogna adoperare  le
arti stesse de' nemici a loro danno; bisogna raccogliere intorno al cuore  tutta
la costanza di cui siamo capaci, armar la mano di forza, il senno di prudenza  e
non aver paura di nulla e  durar  sempre  vigili  all'ugual  posto;  e  cacciati
tornare, e disprezzati soffrire,  dissimulare  per  rivincer  poi;  piegarsi  sí
anche, se occorre, ma per risorgere;  venire  a  patti,  ma  per  temporeggiare.
Insomma bisogna credere nell'eternità dello spirito per sacrificare questa  vita
terrena e  momentanea  alla  immortabilità  futura  e  migliore.  -  Sí,  padre.
Quest'orizzonte che mi si dischiude agli occhi è tanto  vasto  che  non  ho  piú
l'audacia di piangere le mie piccole sciagure. Allargherò i miei sguardi in esso
e scompariranno le minuzie che mi danno inciampo. Volerò invece di camminare!  -
Davvero, Carlino? cosí mi piacete; ma ricordatevi  che  l'entusiasmo  non  basta
senza il corredo d'una buona dose di criterio  e  di  costanza.  Ora  io  vi  ho
mostrato quali doveri altissimi e nobili reclamano  l'opera  vostra,  e  voi  vi
siete infervorato nella loro splendida pienezza. Ma poi durante la via vi  parrà
di ricadere nella levità e piccolezza umana. Non vi spaventate, Carlino.  Gli  è
come un passeggiero che per giungere a Roma dee pernottare molte volte in sucide
taverne, e far viaggio con facchini e con vetturali. Soffrite tutto; non abbiate
ribrezzo dei passaggi momentanei, sollevate  il  pensiero  alla  meta;  tenetelo
sempre là! Io capiva e non capiva;  era  abbarbagliato  da  quelle  splendide  e
sonanti parole che prima mi balenavano  alla  mente  con  quei  grandi  fantasmi
d'umanità, di religione, di sacrificio, di fede che popolano cosí  volentieri  i
mondi sognati dai giovani. Capiva che o bene o male entrava in una  sfera  nuova
per me; dov'io non era che un atomo intelligente avvolto in un'opera  sublime  e
misteriosa. Con quali mezzi, a qual fine? - Non lo sapeva per fermo; ma  fine  e
mezzi soverchiavano d'assai le mie preoccupazioni erotiche, i miei fanciulleschi
rammarichi. Invitato a mostrarmi  cristiano,  mi  sentiva  uomo  nell'umanità  e
ingigantiva. - Questo  in  quanto  a  religione  -  seguitava  con  veemenza  il
reverendo padre. - In quanto alla vostra qualità di cittadino le condizioni sono
consimili. Non caleva il pensarci e ogni opera individuale cadeva al  suo  posto
nel  gran  meccanismo  sociale,  quando   tutti   s'accordavano   nel   rispetto
tradizionale alla patria e alle sue istituzioni. La patria, figliuol mio,  è  la
religione del cittadino, le leggi sono il  suo  credo.  Guai  a  chi  le  tocca!
Convien  difendere  colla  parola,  colla  penna,   coll'esempio,   col   sangue
l'inviolabilità  de'  suoi  decreti,  retaggio  sapiente  di  venti,  di  trenta
generazioni! Ora pur troppo una falange latente e  instancabile  di  devastatori
tende a metter in dubbio ciò che  il  tribunale  dei  secoli  ha  sancito  vero,
giusto, immutabile.  Conviene  opporsi,  figliuol  mio,  a  tanta  barbarie  che
prorompe; convien rendere ai nemici quel danno stesso che cercano portare a noi,
seminando fra loro la corruzione, la  discordia.  Il  male  contro  il  male  va
adoperato coraggiosamente alla maniera dei chirurghi. Se no, cadremo certamente;
cadremo amici e nemici in potere di  quei  maligni  che  predicano  un'insensata
libertà per imporci la vera servitù; la servitù  a  codici  immorali,  temerari,
tirannici! La servitù alle passioni nostre ed altrui, la  servitù  dell'anima  a
profitto di qualche maggior godimento terreno e passeggiero. Siamo forti  contro
la superbia, figliuol mio. Per ciò ne conviene esser umili; ubbidire,  ubbidire,
ubbidire. Comandi la legge di Dio,  la  legge  che  fu,  la  legge  che  è;  non
l'arbitrio di pochi invasati, che dicono di  innovare,  ma  non  tendono  che  a
divorare! Capite, figliuolo, quel che voglio dire?... Cosí religione e patria si
danno la mano; e vi preparano un bel campo di battaglia  dove  sacrificarvi  piú
degnamente che nella  colpevole  idolatria  di  un  affetto,  o  d'un  interesse
privato. Coll'una mano il reverendo padre mi prostrava nel fango; coll'altra  mi
sollevava alle stelle. Io scossi potentemente il mio giogo  di  dolore  e  alzai
libera ma costernata la fronte. - Eccomi - risposi. - Io spero di cancellare  la
prima parte della mia vita, sovrapponendovi la seconda piú alta e piú  generosa.
Dimenticherò me stesso ove non possa cambiarmi: cercherò doveri piú santi, amori
piú grandi... - Adagio con questi amori! - m'interruppe il  padre  -  non  usate
l'egual vocabolario in materie cosí disparate. L'amore è un  lampo  che  guizza,
una meteora che passa. E nella vita nuova a cui vi eccito si vogliono la fede  e
lo zelo; due forze pensate e continue! La croce del sacrifizio e la spada  della
persuasione: ecco i nostri simboli, superiori di gran lunga alle corone di mirto
e alle colombe accoppiate. Ma  la  persuasione,  figliuol  mio,  scaturisce  dal
sacrifizio nostro ed è ricevuta negli animi altrui come il calore  prodotto  dal
sole è appropriato dal seme che  fermenta  e  che  germina.  Non  convien  farsi
intoppo delle contraddizioni, dei livori altrui; la  persuasione  verrà;  fatele
strada colla perseveranza e colla forza. Quando si matura il  trionfo  del  bene
giova perseguitar il male; ma  perseguitarlo  utilmente  sapientemente:  perché,
figliuol mio, l'esercito dei martiri pur troppo non  è  molto  numeroso,  e  dai
proprii sacrifizi è mestieri cavare il  prezzo  che  meritano  per  non  vederli
sprecati. - Padre - soggiunsi io con qualche  ritenutezza  pel  mistero  che  mi
cresceva in quella lunga parlata  -  spero  che  capirò  meglio  quando  mi  sia
purificato lo spirito dai fumi che lo offuscano. Penserò, e vincerò.  -  Avreste
già vinto se vi foste provato a combattere - rispose  il  reverendo  -  ma  voi,
Carlino, vi siete chiuso nel vostro guscio, e non avete cercato l'aiuto  di  chi
poteva molto per voi. Le idee non nascono, ma procedono,  figliuol  mio:  e  voi
avete fatto malissimo di raggomitolarvi nelle vostre passioncelle, senza fidarvi
alle persone oneste ed oculate che vi avrebbero menato  ben  innanzi  in  quella
strada che ora vi addito. L'anno scorso per esempio io vi avea  raccomandato  di
frequentare a Padova l'avvocato Ormenta, un uomo integerrimo,  giusto,  generoso
che avrebbe volto l'ingegno vostro al suo vero ministero, e vi avrebbe  indicato
il vero scopo e l'ampia utilità della  vita.  Uomini  cosí  fatti  devono  esser
venerati dai giovani e presi  ad  esempio,  se  vogliono.  -  Padre,  l'avvocato
Ormenta io l'ho veduto piú volte, giusta  la  sua  raccomandazione;  ma  io  era
sviato in altri pensieri. Mi pare anche che fossi spaventato dalla sua freddezza
e da una certa aria di sprezzo che  mi  rassicurava  ben  poco.  Non  so  se  mi
sembrasse o troppo grande o troppo diverso da me; ma certo io non mi sentiva  in
buona voglia alla sua presenza, e la camera nella quale  mi  riceveva  era  cosí
tetra, cosí agghiacciata da metter paura. - Tutti segni  d'una  vita  austera  e
sublime, figliuol mio. Quello che un tempo vi  ha  spaventato,  vi  piacerà,  vi
ammalierà domani. Sembrano fredde le cose eccelse e  le  nevi  coprono  le  cime
delle alte montagne; ma son le prime ad esser baciate  dal  sole,  e  le  ultime
ch'esso abbandoni. Tornerete quest'anno dall'avvocato, vi  addomesticherete  con
lui, e, o il giudizio m'inganna, o io vi avrò reso il  gran  servigio  di  farvi
trovare una buona e sicura guida per la vita cui siete destinato. Adesso  io  vi
ho gettato in cuore un piccolo seme. Speriamo che germoglierà. Il buon  avvocato
trovandovi meglio disposto vi accoglierà con miglior fiducia.  Anch'io,  vedete,
or fanno dieci mesi, sperava poco da voi; ve lo confesso ingenuamente,  e  tanto
piú volentieri in quantoché oggi spero molto... - Oh, padre, ella  mi  confonde!
Come mai sperar molto da me? - Come, Carlino, come? voi non vi conoscete,  e  io
non voglio che montiate in superbia, ma voglio insegnarvi a  leggere  nell'anima
vostra. Voi avete un ardore intenso e costante di passioni, che sollevato ad una
sfera piú pura dove le passioni diventano adorazioni, può dar una luce  benefica
e divina!... Siete proprio deciso spastoiarvi dal fango, a  cercar  la  felicità
dov'ella risiede  veramente,  nell'adempimento  dei  doveri  piú  santi  che  la
coscienza imponga ad uomo del nostro tempo? - Sí, padre; tutto  farò  per  amore
della giustizia. - Allora fidatevi di noi, Carlino; noi  vi  aiuteremo,  noi  vi
illumineremo. Le nebbie dell'alba si muteranno a poco a poco in raggi  di  sole.
Voi ci ringrazierete, e noi ringrazieremo voi... - Oh, padre, cosa dice  mai!  -
Sí, vi ringrazieremo dei grandi servigi che renderete alla causa della religione
e della patria, alla causa che difendiamo per  compassione  dell'umanità  e  per
gloria di Dio. Foste fornito da natura di doti superbe;  usatene  degnamente,  e
troverete riconoscenza, onori, contentezze. Ve lo prometto io. Se  foste  prete,
vi direi: "State con me! Combatteremo, pregheremo,  vinceremo  insieme";  ma  vi
chiamano per un'altra via, ottima e nobile pur essa. L'avvocato Ormenta farà  le
mie veci: gli scriverò a lungo di voi; egli vi terrà  per  figliuolo,  e  avrete
forse occasione di far piú bene voi nel mondo che io non possa sperare di  farne
in mezzo al clero di una modesta diocesi. Siamo intesi, Carlino; non vi  domando
altro che  di  credermi  e  di  provare.  Soprattutto  non  voglio  piú  vedervi
imbecillire in sogni da ragazzo. Disprezzate quello che va disprezzato:  rompete
la catena della abitudini; pensate che l'uomo è  fatto  per  gli  uomini.  Siate
generoso giacché siete  forte.  Che  cosa  volete?  bisogna  pur  che  lo  dica.
L'adulazione fece quello che l'eloquenza non avea fatto o almeno  compí  l'opera
incominciata da essa. Mi vennero le lagrime agli occhi, presi le mani del  padre
Pendola, le copersi di baci, le inondai di  pianto,  promisi  d'esser  uomo,  di
sacrificarmi pel bene degli  altri  uomini,  di  ubbidire  a  lui,  di  ubbidire
all'avvocato Ormenta, di ubbidire a tutti fuorché a quelle mie passioni  che  mi
avevano infin allora cosí scioccamente tiranneggiato. Io era  fuori  di  me,  mi
pareva di esser diventato un apostolo; di chi e perché non sapeva; ma infatti la
testa mi andava per le nuvole, e nulla al mondo io disprezzava tanto come i miei
sentimenti e la mia vita degli anni trascorsi. Il padre mi confermava in  questi
proponimenti di conversione confortandomi intanto a ripigliar il filo delle  mie
devozioni infantili, a credere, a pregare.  La  luce  si  sarebbe  fatta  poi  e
l'avvocato Ormenta doveva essere il candeliere. Scesimo insieme  in  giardino  e
sulla terrazza, dove le belle fronde già ingiallite delle viti ombreggiavano  il
riposo vespertino della compagnia. Il chiacchierio languiva nella calma  solenne
del  tramonto;  le  acque  del  Lemene  romoreggiavano  al  basso,  verdastre  e
vorticose; un suono di campane lontano e  melanconico  veniva  per  l'aria  come
l'ultima parola del giorno morente, e il cielo s'infiammava ad  occidente  cogli
splendidi colori dell'autunno. Al primo momento mi pareva di essere in  un  gran
tempio, dove lo spirito invisibile di Dio mi empiesse l'anima di gravi e  serene
meditazioni. Poi i pensieri mi tumultuavano nel capo come il sangue  nelle  vene
dopo una corsa precipitosa; la mente  avea  volato  troppo,  non  conosceva  piú
l'aria in cui batteva le  ali,  il  ribrezzo  dell'infinito  la  sgomentiva.  Mi
avvicinai alla ringhiera per guardar nel fiume, e quell'acqua che  passava,  che
passava senza posa, senza differenza  alcuna,  mi  dava  l'immagine  delle  cose
mondane che colano fluttuando in un abisso  misterioso.  I  discorsi  del  padre
Pendola facevano allora nella mia memoria l'effetto d'un sogno che si ricorda di
aver veduto chiaramente e di cui  non  ci  sovviene  piú  che  con  una  vaga  e
scolorita confusione. Mi volsi per cercarlo; e  vidi  Giulio  e  la  Pisana  che
bisbigliavano fra loro. Sentii come Icaro sciogliermisi  la  cera  delle  ali  e
precipitava nelle passioni di prima; ma  l'orgoglio  mi  sorresse.  Mi  era  pur
sentito poco prima tanto maggiore di essi, perché non potea continuare ad  esser
tale? Guardai coraggiosamente la Pisana, e sorrisi quasi di pietà; ma  il  cuore
mi tremava; oltreché non credo che quel sorriso mi durasse a lungo sulle labbra.
Allora il padre Pendola, che avea confabulato col Senatore, mi  si  raccostò;  e
quasi indovinando le titubanze dell'anima mia prese a compatirmi con sí squisita
carità, che io mi vergognai d'aver tentennato. Le sue parole erano dolci come il
mele, entranti come la musica,  pietose  come  le  lagrime:  mi  commossero,  mi
persuasero, mi innamorarono. Fermai fra me di tentare la  prova;  d'immolarmi  a
quei sublimi doveri di cui mi avea parlato, di esser alla fine padrone di me una
volta e di saper  dire:  "Voglio  cosí"  -  "Soffrirò",  pensava  frattanto  "ma
vincerò; e le vittorie accrescono le forze, laonde se non altro avrò  guadagnato
di poter poi soffrire con minor viltà. Per nulla Martino non è risuscitato,  per
nulla il padre Pendola non ha letto nel mio cuore; ambidue  prescrivono  l'egual
rimedio; io sarò coraggioso e ne userò da forte!". Il reverendo padre mi parlava
ancora col suono carezzevole d'una cascatella fra i muscosi  dirocciamenti  d'un
giardino; non saprei dire quali cose ei mi dicesse; ma nel togliermi di là  ebbi
il coraggio di offrir il braccio al Conte ed alla  Pisana  perché  salissero  in
carrozza e di accomodarmi poi a cassetta col pretesto del caldo, che pur non era
molesto in una notte d'ottobre. Dopoché braccheggiava in cancelleria avea libero
ingresso nella carrozza dei padroni, e quella sera mi  convenne  anzi  sostenere
una battagliola col Conte per non approfittare di questo  prezioso  diritto.  Mi
ricordò allora d'alcuni anni prima quando scoperto l'invaghimento  della  Pisana
per Lucilio avea fatto quella strada stessa appeso alle coregge posteriori della
carrozza, e perduto in un turbine di pensieri e  d'angosce  che  mi  dissennava.
Quella sera avrei dato la vita per poter sedere accanto  a  lei,  e  martoriarmi
nella sua indifferenza e assaporare avidamente il male che mi si faceva.  Quanto
insuperbii  di  vedermi  mutato  a  quel  segno!  Era  io  allora,  invece,  che
volontariamente rifiutava di avvicinare la mia  persona  alla  sua;  dopo  tanti
spasimi, tante gelosie, tanti tormenti, finalmente avea conquistato il  coraggio
di fuggire! Non credo peraltro che arrivassi a Fratta  né  piú  felice  né  meno
pallido; e se il povero Martino fosse stato vivo, certamente avrebbe  notato  la
mia cattiva voglia. Invece trovai il Cancelliere che aveva  una  carta  di  gran
premura da farmi ricopiare, e non  avendomi  beccato  durante  la  giornata,  mi
assalí sgarbatamente la notte. Lo credereste che io mi  ci  misi  con  un  gusto
matto? Mi pareva di principiare consapevolmente l'opera  di  mia  redenzione;  e
m'increstava di lasciar andare a letto la Pisana senza  fermarmi  a  guardar  la
luna, e pensare e martoriarmi dietro a lei. Gli è  vero  che  ricopiando  quella
carta mi successe di duplicare qualche parola, e saltarne qualche  altra;  e  ad
ogni tuffo nel calamaio, diceva fra me: "Finalmente son riescito a non  pensarci
per una mezza giornata!". E cosí ci pensava senza scrupolo; ma la coscienza  non
se n'accorgeva, e per discretezza faceva l'indiana, come la madre  di  Adelaide.
Il padre Pendola mi parlò, m'istruí, mi  consigliò  parecchie  volte  nei  brevi
giorni che rimasi ancora a Fratta. Il piovano di Teglio gli dava mano colle  sue
esortazioni, e cosí io partii che mi pareva di andare ad una  crociata,  o  poco
meno. M'accorgo ora che mi mancava la fede; ma aveva la  curiosità,  l'orgoglio,
il coraggio che possono impiastricciarne una pel  momento.  Quando  il  pensiero
della Pisana cascava come un razzo alla congrève fra il  conciliabolo  de'  miei
nuovi proponimenti, ed uno scappava di qua, un altro si salvava per di là, io mi
dava delle grosse  picchiate  nel  petto  sotto  il  tabarro,  recitava  qualche
giaculatoria e con un po' di pazienza l'incendio si spegneva e tornava cittadino
e cristiano, come voleva il padre Pendola. Forse peraltro non  sarei  giunto  ad
accontentare il Piovano; il quale, clausetano fin nelle  unghie,  dopo  la  vana
aspettativa d'un anno, tacciava l'ottimo padre di indolenza e di  incuria  negli
affari della diocesi. Egli avrebbe voluto uno zelo da san Paolo. Il padre invece
nuotava sott'acqua, e cosí ingannava meglio i pesci e le  anitre;  dopo  ch'egli
avea preso  le  redini  della  Curia,  si  osservava  nel  clero  cittadino  una
disciplina esterna piú uniforme e canonica. Non avrei voluto vedere  cosa  stava
ancora di sotto, ma si evitavano i sussurri, le censure,  gli  scandolezzi.  Con
quattro paroline di prudenti preghiere e  qualche  ammiccata  d'occhi,  il  buon
padre aveva ridonato agli ecclesiastici quelle dignitose apparenze, che sono  di
gran momento per mantenere l'autorità. Sicuro che un Gregorio VII non si sarebbe
arrestato lí; ma il reverendo padre sapeva contar i secoli, e  voleva  sanar  il
sanabile, non arrischiar  la  vita  dell'infermo  con  tardive  operazioni.  Gli
bastava che certe cose non si vedessero e non se ne parlasse, e  che  non  dando
cosí appiglio al raccapriccio degli scrupolosi, anche i vecchi,  i  rigidi,  gli
incorruttibili fossero costretti a  tacere,  a  rabbonirsi,  a  omettersi  della
solita insubordinazione, mantenuta in fin allora col  pretesto  dell'anarchia  e
della spensieratezza dei superiori. Ciò  appunto  non  quadrava  al  piovano  di
Teglio; ma in quanto a me  egli  approvava  il  santo  fervore  inspiratomi  dal
segretario, e me ne incaloriva maggiormente colla sua rozza e sincera  facondia.
Io arrivai a Padova coll'invasamento di uno che s'appresta  a  farsi  frate  per
disperazione amorosa. Giuntovi appena, corsi dall'avvocato Ormenta, al quale era
già stato scritto dal padre Pendola, e che mi accolse appunto come il  guardiano
o il provinciale  accoglierebbe  un  novizio.  Quel  degno  avvocato  che  m'era
sembrato l'anno prima un po' sospettoso, un po'  beffardo,  un  po'  gelato,  mi
parve invece allora l'uomo piú aperto, soave e mellifluo  della  terra.  Le  sue
occhiate andavano e rapivano in estasi; ogni suo gesto  era  una  carezza;  ogni
parola picchiava proprio al cuore come a casa propria. Di  tutto  era  contento,
anzi beato; di sé, del padre Pendola e sopratutto del prezioso dono  che  questi
gli  avea  fatto  coll'affidargli  la  mia  tutela.  Mi  parlò  di  fiducia,  di
raccoglimento, di pazienza; m'invitò a pranzo  per  tutti  i  giorni  che  avrei
voluto, meno il mercoledí nel quale egli usava digiunare, e  questo  metodo  non
potea forse convenire al mio stomaco giovanile. Si congratulò con me  della  mia
età freschissima la quale mi dava doppia opportunità di far il  bene:  bisognava
indagare le massime le intenzioni de' miei compagni;  consultarne  con  lui  per
guardar di correggerle di indirizzarle a miglior scopo se parevano  difettive  o
fuorviate; avrei servito di canale perché il senno maturo potesse  avvantaggiare
della sua esperienza la focosa attività dei giovani; cosí ce  ne  fossero  stati
tanti di questi mediatori! Ma già parecchi se n'aveano,  e  il  frutto  ricavato
cominciava a moltiplicarsi, e a manifestarsi nella parte piú docile e riflessiva
della gioventù. Io sarei stato fra i piú benemeriti col mio ingegno,  colla  mia
fisonomia bella e simpatica, colla mia loquela pronta e calorosa. Ne avrei avuto
premio, nella  soddisfazione  della  coscienza  (e  questo  è  senza  dubbio  il
migliore), sia anche negli onori temporali, e nelle ricompense eterne. Lo  stato
avea bisogno di magistrati zelanti, accorti, operosi; e li  avrebbe  trovati  in
mezzo a noi. Né bisognava rifiutarvisi, perché la carità del prossimo e il  bene
della patria e della religione devono imporre silenzio alla modestia. Tutti  gli
uomini erano fratelli, ma il fratello piú destro non dee consentire che il  meno
destro si precipiti alla cieca. L'amore deve essere oculato  sempre,  e  qualche
volta severo. La mano può percuotere, lo deve anzi in certi casi;  ci  s'intende
che il cuore dee conservarsi caritatevole, indulgente, pietoso  e  piangere  per
quella triste necessità di  dover  castigare  per  migliorare,  e  tagliare  per
correggere. Oh, il cuore, il cuore! A sentir l'avvocato Ormenta, egli  lo  aveva
cosí grande, cosí tenero, cosí ardente, che potea sí sbagliare per eccesso,  non
mai per difetto di amore. Frattanto certe cose  che  notava  intorno  al  signor
avvocato non mancavano di darmi qualche po' di stupore. Prima  di  tutto  quella
sua casaccia umida scura e quasi ignuda continuava a  promovermi  nei  nervi  un
senso di ribrezzo come la tana della biscia. Un uomo sí aperto  e  leale  doveva
accomodarsi di quella oscurità, di quelle apparenze cosí nere e mortuarie! E poi
durante la mia visita entrò a chiedergli non so che cosa la moglie; una donnetta
sottile, piccina, sospirosa, verdognola. L'avvocato le si volse contro  con  una
voce acerba e stonata, con un  piglio  piú  da  padrone  che  da  marito,  e  la
donnicciuola se la svignò dalla  stanza  mordendosi  le  labbra  ma  non  osando
rifiatare. Dunque il signor avvocato aveva nell'ugola un doppio registro: quello
che aveva adoperato con me l'anno prima, e allora colla moglie,  e  l'altro  che
aveva usato con me pochi momenti innanzi, e che continuò ad usar poi  finché  mi
ebbe accompagnato  sulla  soglia  della  casa.  Un  ragazzotto  giallo,  sucido,
spettinato, vestito da  sant'Antonio,  che  si  trastullava  con  non  so  quali
giocattoli da sacrestia in un cantone  dell'andito,  mi  fece  anche  voglia  di
ridere. L'avvocato me lo ebbe a presentare come il  suo  unico  figliuolino,  un
piccolo prodigio di sapienza e di santità, che si era  votato  spontaneamente  a
sant'Antonio, e che ne avea vestito l'abito, come si costumava allora e  qualche
volta si costuma anche adesso a Padova. Quei suoi capelli,  rasi  a  corona  sul
capo e abbaruffati come la siepaia d'un orto abbandonato,  gli  occhi  loschi  e
cisposi, le mani impegolate d'ogni bruttura, e le vesti tutte lacere  e  bisunte
nella loro santità, facevano uno strano contrasto  col  panegirico  tessutomi  a
voce sommessa dall'avvocato. Pensai fra me che lo illudesse  l'amore  di  padre:
quel ragazzo poteva dimostrare quattordici anni (ne aveva sedici, come  scopersi
dappoi) eppure nulla nella sua persona confermava le lodi che se ne facevano, se
non si volesse  confondere  la  sudiceria  colla  santità,  giusta  la  bizzarra
opinione di qualche bigotto. Rinchiusa che ebbi la porta lo  sentii  intonare  a
gran voce un cantico divoto: credo che  avrei  preferito  gli  abbaiamenti  d'un
cane, e sí che le salmodie sacre con quel loro  tenore  mesto  e  solenne  hanno
sempre commossa l'anima mia in ogni sua fibra. Ma le divozioni cessano di  esser
sacre quando sono adoperate a spensierato trastullo e  a  vano  sussurro;  e  io
credo che il permetterne e l'inculcarne di cotal guisa ai  fanciulli  non  serva
che a guastarli anche secondo le  idee  di  chi  volesse  farli  soltanto  buoni
cristiani. Le cose spirituali, secondo me, vanno prese sul serio; altrimenti  si
lascino piuttosto da un  canto.  Può  esser  sciagura  il  non  pensarvi,  ma  è
sacrilegio il farsene beffe. Del resto, secondo le ingiunzioni del padre Pendola
e dell'avvocato Ormenta, io mi feci forza ad uscire dal  solito  riserbo;  diedi
una  piccola  parte  del  mio  tempo  allo  studio,   e   cogli   svagamenti   e
coll'intenzione a cose piú grandi  ed  eccelse  addormentai  nell'animo  mio  il
dolore che vi covava acerbissimo per la dimenticanza della  Pisana.  Non  mi  fu
difficile scoprire ne' miei compagni quello che il padre  aveva  avvertito:  una
profonda e generale indifferenza in fatto di religione; anzi si  andava  piú  in
là, cogli scherni, colle parodie,  coi  motteggi.  Questi  avrebbero  servito  a
ravvivarmi in cuore la fede, se i miei primi maestri si  fossero  dati  cura  di
accenderla; ma nessuno aveva pensato a ciò; su questo punto si  può  dire  ch'io
fossi nato morto, a risuscitarmi si voleva un miracolo che non  avvenne  finora.
Peraltro lo sdegno ch'io aveva delle buffonerie  mi  fece  credere  per  qualche
tempo di avere quelli tali credenze, le quali io soffriva tanto a veder  burlare
con tanta frivolezza. La generosità giovanile mi ingannò sullo stato  delle  mie
opinioni, e  mi  fece  piegare  a  difendere  piuttosto  gli  oppressi  che  gli
assalitori. Narrai quello che vedeva all'avvocato; egli mi  incorò  ad  osservar
meglio, a notare quali legami  avesse  quell'anarchia  religiosa  colla  licenza
politica e morale, a discernere  i  caporioni  della  setta,  ad  accostarli,  a
conversar con loro in maniera che mi aprissero tutto l'animo, per sapere da qual
banda incominciare a correggere, a riparare. Mi eccitò  soprattutto  a  non  dar
nell'occhio col mio atteggiamento, a confondermi colla folla, a  risponder  poco
per allora, limitandomi ad interrogare e ad ascoltare. - Le  pecorelle  smarrite
si  richiamano  colle  carezze  -  diceva  l'avvocato   -   bisogna   lusingarle
dapprincipio, perché ci credano;  bisogna  seguirle  prima  perché  esse  poscia
vengano volentieri dietro a noi. Egli non mancava mai  d'invitarmi  a  visitarlo
spesso, e a favorirlo della mia compagnia a pranzo; ma  se  io  lo  accontentava
della  prima,  non  era  cosí  disposto  ad  approfittare  della  seconda  parte
dell'invito. Una domenica che a tutti i costi egli avea voluto trattenermi  seco
lui a desinare, ci trovai una tal brigata che mi fece  scappar  l'appetito.  Una
vecchia pelata e rantolosa  che  chiamavano  la  signora  Marchesa,  un  vecchio
sollecitatore mezzo sbirro e  mezzo  prete  che  beveva  sempre  e  mi  guardava
traverso al bicchiere, due giovinastri rozzi, sporchi, massicci  che  mangiavano
colle mani e coi denti si aggiungevano al  piccolo  sant'Antonio  e  alla  larva
piagnolosa della padrona di casa per darmi la piú gran melanconia che mai avessi
provato. L'avvocato invece sembrava ai sette cieli per avere dintorno a  sé  una
cosí  eletta  compagnia;  osservai  peraltro  ch'egli  non   invitava   mai   il
sollecitatore a bere e i giovinastri a mangiare. Tutti  i  suoi  eccitamenti  li
volgeva alla Marchesa la quale non potea piú bere né mangiare per la  tosse  che
la travagliava. Il  signor  avvocato  trinciava  con  una  perfezione  veramente
matematica: e  giunse  a  cavare  otto  porzioni  da  un  pollastrello  arrosto;
operazione che secondo me vince di difficoltà la quadratura del circolo. Io  non
avea proprio volontà di toccar cibo, e cessi la mia parte ad uno dei due giovani
che non lasciò sul piatto neppur la traccia degli ossi. L'avvocato mi avea fatto
mano a mano conoscere tutti i commensali e  poi  non  mancò  di  tirarmi  in  un
cantone per farmene la storia. La Marchesa era una benemerita patrona di tutti i
pii istituti della città; si diceva che fosse ricca di ottantamila  zecchini,  e
lui l'avvocato era il  suo  consigliere  prediletto.  Il  sollecitatore  era  un
veneziano molto amico dell'attuale podestà al quale faceva fare  ogni  cosa  che
gli piaceva; e cosí gli tornava di accarezzarlo per  ogni  buona  occorrenza.  I
giovani erano due scolari veronesi che s'erano dati come me alla santa  causa  e
si proponevano di aiutarla con tutto lo zelo. Peccato che non avessero né il mio
ingegno né le mie belle maniere, ma già Dio sapeva mutar  i  sassi  in  pane,  e
colla buona volontà si arriva a tutto.  Io  pensai  che  se  in  tutte  le  loro
occupazioni ponevano quello  stesso  zelo  che  nel  mangiare,  avrebbero  avuto
maggior bisogno di freno che di stimolo. Mi  ricordai  anche  allora  di  averli
incontrati qualche volta sotto il portico dell'Università; e mi  parve  che  non
fossero né i piú esemplari né i piú modesti che là frequentavano fra una lezione
e  l'altra.  "Basta!  faranno  forse  per  seguire  le  pecorelle  smarrite,   e
invogliarle a farsele venir dietro!" io pensai allora. Ma  non  ebbi  la  benché
minima voglia di stringer amicizia con esso loro come l'avvocato mi consigliava;
come anche accettai con un inchino l'invito  fattomi  dalla  Marchesa  di  andar
qualche volta alla sua conversazione ove avrei passato un paio d'ore lontano dai
pericoli, in mezzo a gente sicura e timorata  di  Dio.  L'inchino  voleva  dire:
"Grazie, ne faccio senza della sua conversazione!". Ma l'avvocato si affrettò  a
rispondere in mio nome  che  io  era  gratissimo  alla  cortesia  della  signora
Marchesa e che vi avrei corrisposto col farmi vedere in sua casa il  piú  spesso
che me lo avrebbero concesso le mie occupazioni. Io fui lí  lí  per  soggiungere
qualche sproposito, tanto mi mosse la rabbia quell'uso che si faceva a capriccio
altrui della mia volontà. Ma l'avvocato mi rabboní con un'occhiata,  e  aggiunse
poi sottovoce: - La marchesa è molto  amante  della  gioventù;  bisogna  saperle
grado delle sue ottime intenzioni; e compatirla ne' suoi difetti pel  gran  bene
che la può fare! Insomma in onta a queste belle chiacchiere io mi tolsi di  casa
dell'avvocato ben deliberato di non immischiarmi piú  né  de'  suoi  pranzi,  né
della conversazione della Marchesa. Pei due giorni seguenti ne ebbi peraltro  il
vantaggio di trovar piú saporito il minestrone del collegio: con una  libbra  di
pane affettatavi dentro mi parve di essere a un banchetto reale. La  mia  camera
godeva almanco d'un bel sole e poteva alzar gli occhi  senza  incontrarli  negli
sguardi gatteschi del sollecitatore. I due scolari veronesi si abbatterono in me
qualche giorno dopo  nei  corritoi  dell'Università,  ma  sembravano  cosí  poco
vogliosi di appiccar parola con me come io di avvicinarmi a  loro.  Ne  domandai
conto a qualcuno, e seppi che erano i piú  beoni  e  scapestrati  dello  Studio.
Studiavano medicina da sette anni e non avevano ancora  ottenuto  la  laurea,  e
sprovvisti di mezzi di fortuna, vivevano d'inganno e di rapina alle  spalle  del
prossimo.  Io  compiansi  l'avvocato  Ormenta  di  saperlo  zimbello  di  cotali
ghiottoni; ma quando mi intesi di aprirgli gli occhi  sul  loro  conto  egli  mi
accolse assai male. Rispose che eran calunnie, che si maravigliava molto come io
ci dessi mente, e che attendessi a scoprire e a distruggere i vizii dei cattivi,
non ad esagerare i difettucci dei buoni. Io cominciai a credere che la fede  del
buon avvocato fosse molto piú pura della sua  morale;  poiché  se  quelli  erano
difettucci  non  capiva  piú  quali  fossero  i  vizii  ch'io  era  destinato  a
combattere.


CAPITOLO NONO

L'amico Amilcare disfà la conversione del padre Pendola e mi rimette allo studio
della  filosofia.  Passo  per  Venezia  ove  Lucilio  seguita  ad  insidiare  la
Repubblica e la pace della Contessa di Fratta. Mia eroica rinunzia a  favore  di
Giulio Del Ponte. Un viluppo di strane vicende intorno al 1794 dà in mia mano la
cancelleria della giurisdizione di Fratta ove comincio  col  prestare  segnalati
servigi.

Fra coloro cui doveva premere assaissimo all'avvocato Ormenta e al padre Pendola
di convertire io avea conosciuto taluno che mi andava a sangue piú assai dei due
veronesi, miei alleati. Cominciai a fare qualche escursione nel campo  nemico  a
profitto dell'avvocato; poi ci trovai il mio conto, e da ultimo  scopersi  tanta
differenza fra il male che si diceva di quei giovani e quello che  era  infatti,
che presi a  dubitare  della  buona  fede  dell'avvocato,  e  della  convenienza
dell'ufficio affidatomi. Ch'io cercassi la quiete ai dolori che mi  tormentavano
nell'adempimento di piú alti doveri, andava benissimo; che cercassi di  scordare
un  amore  indegno   e   sciagurato   benché   fervidissimo,   alzando   l'anima
nell'adorazione di quelle grandi idee che sono la poesia  dell'umanità,  in  ciò
pure non vedeva che bene. Ma che il mio ossequio a quelle  grandi  idee  dovesse
ridursi a una fintaggine continua, ad uno spionaggio indecoroso, che  quei  miei
doveri cosí alti cosí sublimi dovessero scader tanto nella pratica, cominciava a
metterlo in dubbio. Di piú io aveva fatto la prova come il padre Pendola voleva,
ma non ne era rimasto gran fatto contento. La  mia  mente  si  era  svagata,  ma
l'anima era ben lungi da quell'ideale contentamento che la compensa  d'ogn'altro
rammarico. In poche parole, il cervello era occupato ma non il cuore, e  questo,
attraversato nel suo amore d'una volta, e vuoto d'ogni altro  affetto,  mi  dava
grandissima noia co' suoi  inutili  battiti.  Alla  prima  mi  era  confusamente
infervorato all'ardore altrui, ma poi, sia che quest'ardore fosse fittizio,  sia
che in me non avesse trovato materia da alimentarsi,  m'era  sfreddato  talmente
che non mi conosceva piú per quello d'una  volta.  Quella  continua  manovra  di
passi compassati, d'antiveggenze, d'accorgimenti, di calcoli si affaceva male ad
un'anima giovane, e bollente. Aspirava a  qualche  cosa  di  piú  vivo,  di  piú
grande: capiva ch'io non era fatto per le estasi ascetiche, e ho già narrato  in
addietro quanto fossi debolino in punto a fede. Figuratevi quanti sforzi facessi
per  rinforzarmi!...  Ma  l'avvocato  Ormenta,  anziché  aiutarmi  a   ciò,   mi
contrariava sempre colle sue mene un po' troppo mondane. Stava bene che la  meta
fosse alta spirituale e che so io; ma io la perdeva di vista, e anch'essi non se
ne ricordavano che quando io ne chiedeva conto. Uno studente trevisano, un certo
Amilcare Dossi, s'era stretto a me  con  molta  intrinsichezza;  egli  aveva  un
ingegno forte e arditissimo, un cuore poi che oro non  bastava  a  pagarlo.  Con
costui andavamo spesso ragionando di metafisica e di filosofia, perché  io  avea
dato il capo in quelle nuvole e non sapea piú liberarmene; egli poi ci  studiava
da un pezzo e potea darmi scuola. Dopo qualche giorno  m'accorsi  che  egli  era
proprio un tipo di coloro che il padre  Pendola  definiva  avversatori  spietati
d'ogni idealità e d'ogni nobile entusiasmo. Metteva tutto in  dubbio,  ragionava
su tutto, discuteva tutto. E non pertanto mi maravigliava di rinvenire in lui un
amore di scienza e un fuoco di carità che mi parevano  incompatibili  coll'arida
freddezza delle sue dottrine. Finii col fargli parte di questa mia maraviglia ed
egli ne rise assaissimo. - Povero Carlino! - diss'egli - come sei  indietro!  Ti
maravigli ch'io mi sia preso di cosí violento affetto  per  quelle  scienze  che
vado disseccando alla maniera dei notomisti? Gli è, caro mio, che l'amore  della
verità vince tutti gli altri in purità ed in  altezza.  La  verità,  per  quanto
povera e nuda, è piú adorabile, è piú santa della bugia incamuffata e  suntuosa.
Perciò ogni volta ch'io le tolgo di dosso qualche fronzolo, qualche orpellatura,
il cuore mi balza nel petto, e la mia mente si cinge di una corona trionfale! Oh
benedetta quella filosofia che  mortali,  deboli,  infelici  pur  c'insegna  che
possiamo esser grandi nell'uguaglianza, nella libertà,  nell'amore!...  Ecco  il
mio fuoco, Carlino; ecco la mia fede, il mio pensiero di tutti i momenti! Verità
ad ogni costo, giustizia uguale per tutti, amore fra gli uomini,  libertà  nelle
opinioni e nelle coscienze!... Qual essere ti parrà piú grande e piú  felice  di
quello che tende con  ogni  sua  forza  a  far  dell'umanità  una  sola  persona
concorde, sapiente, e contenta per quanto lo permettono le leggi  di  natura?...
Oggi poi, oggi che queste idee ingigantiscono, e pesano,  fremendo  sulla  sfera
riluttante dei fatti, oggi che io veggo affievolirsi sempre  piú  quella  nebbia
che le nascondeva agli occhi degli uomini, chi piú felice di me?...  Oh  questa,
questa, amico, è la vera calma dell'animo!... Sollevati una volta a quella  fede
libera e razionale, né  fortune  avverse,  né  tradimenti,  né  dolori  potranno
turbare la serenità dello spirito. Son forte, incrollabile in me, perché credo e
spero in me e negli altri! Figuratevi! Durante questa professione  di  fede  che
rispondeva sí bene ai miei bisogni, io diventava di tutti i colori.  Mi  ricordo
che non mi bastò il cuore di soggiungere una sola parola,  e  Amilcare  credette
ch'io non ne avessi proprio capito un'acca. Tuttavia se non aveva capito,  aveva
tremato. Vergognai di me che aveva ondeggiato sí a lungo;  ebbi  compassione  di
padre Pendola e dell'avvocato Ormenta (i  quali,  sia  detto  di  volo,  non  ne
abbisognavano punto), e decisi  di  studiare  come  Amilcare,  e  di  interrogar
finalmente il mio cuore su quello propriamente ch'egli voleva amare.  Intravvidi
per la seconda volta un mondo pieno di idee  altissime,  di  nobili  affetti,  e
sperai che anche senza la Pisana l'anima  mia  avrebbe  trovato  il  bandolo  di
vivere. Questo rivolgimento delle mie opinioni s'era già compiuto quando  rividi
l'avvocato Ormenta; e quel giorno, poco disposto a passargli tutto buono come al
solito, appiccai con lui una mezza lite. Egli era malcontento di me  perché  non
era mai stato alla conversazione della Marchesa che si mostrava, a quanto  pare,
tenerissima del fatto mio. Perciò ci separammo un po' ingrugnati,  dicendo  egli
che la buona causa non sapea che farsi di servitori condizionati e raziocinanti.
Io non gli risposi quanto mi bolliva entro, ma corsi tosto da Amilcare, e per la
prima volta gli narrai le mie relazioni coll'avvocato, e tutto l'andamento delle
cose dalla predica del padre Pendola fino alla contesa di quel giorno stesso. Al
mio racconto egli sporse le labbra come chi non ode cose molto piacevoli,  e  mi
buttò in volto una certa occhiata che non mi dimenticherò  mai.  La  mi  diceva:
"Sei pecora o lupo!?". In verità io ne rimasi cosí sconvolto, che per  poco  non
mi pentii di essere sdrucciolato in quella lunga confessione. Ma il sospetto  fu
un lampo: l'anima di Amilcare non era di quelle che esperte nel male lo avvisano
dovunque; egli era buono, e si ravvide subito di  quella  breve  incertezza:  la
bontà non gli tornò dannosa, come spesse volte. Egli mi parlò allora della  fama
che aveva l'avvocato in città;  e  come  egli  fosse  tenuto  un  vigilantissimo
ministro dell'Inquisizione di Stato. - Ah cane! - io sclamai. - Cos'è  stato?  -
mi chiese Amilcare. Io non ebbi il coraggio di confessare che il  furbo  m'aveva
forse adoperato come strumento delle sue ribalderie;  e  il  coraggio  mi  mancò
affatto quando mi raccontò che la cattura di alcuni studenti avvenuta il  giorno
prima, e lo sfratto intimato ad alcuni altri, e le perquisizioni a moltissimi si
ascrivevano comunemente a merito del signor avvocato. - Quel tuo  padre  Pendola
deve essere qualche inquisitore travestito che lavora a doppio  per  tenerci  al
buio - continuò Amilcare. - A Venezia sono ancora al mille quattrocento e si  ha
paura del mille ottocento che s'avvicina, ma noi, noi, oh no, per dio,  che  non
muteremo in loro servigio la nostra fede di nascita. Il buonsenso omai non è  il
retaggio di cento famiglie di nobili. Tutti vogliono pensare,  e  chi  pensa  ha
diritto di operare pel  bene  proprio  e  comune.  Troppo  ci  condussero  colle
bretelle; il padre Pendola può esser  giubilato:  noi  vogliamo  camminar  soli.
Amilcare pronunciando queste parole si trasformava in tutta la persona;  la  sua
fronte alta e rilevata, gli  occhi  profondi,  le  narici  sottili  e  dilatate,
mandavano fiamme. Diventava piú grande ancora  che  non  fosse  naturalmente,  e
pareva che per tutte le sue vene scorresse una vampa di orgoglio e di  virtù.  -
Cos'erano i Greci, cos'erano i Romani? - seguitava egli. - Gente che ha  vissuto
prima di noi, dell'esperienza dei quali noi possiamo giovarci, e furono  potenti
perché virtuosi, virtuosi perché liberi. Ma la virtù provenga  dalla  libertà  o
questa da quella, bisogna cimentarvisi. Il conato alla libertà sarà poderoso  ed
efficace ammaestramento di virtù. Licurgo che ha fatto per ridonare a Sparta  la
sua  potenza?  Le  ha  ridonato  colle  leggi  i  robusti  costumi.  Imitiamolo,
imitiamolo! Leggi nuove, leggi valide, leggi universali,  chiare,  severe  senza
scappatoie senza privilegi! Ricordiamoci degli  avi  nostri  che  si  chiamarono
Bruti, Cornelii e Scipioni! La storia si  ripete  allargandosi;  l'ordine  nuovo
nasce dal disordine antico. Il buon tempo è giunto  per  l'eguaglianza,  per  la
verità e per la virtù! L'umanità unificata vuol regnare sola; noi saremo i  suoi
banditori! Io strinsi la mano all'amico senza mover parola; ma l'anima  mia  era
tutta con lui; non avea piú pensiero che non volasse anelando incontro a  quelle
immense speranze. Giustizia, verità, virtù! le tre stelle che governano il mondo
spirituale, e lunge da esse ogni cosa s'abbuia, ogni cuore trema o si  corrompe!
Io le vedeva sorgere come una costellazione  divina  sul  mio  orizzonte;  tutto
l'amore di cui era capace tendeva ad esse con impeto irresistibile.  Ancora  una
nebbia da diradarsi, ancora un battere d'ala in quel cielo  profondo  e  la  mia
religione era trovata, il mio cuore calmo per sempre. Ma quella  nebbiolina  era
come quelle frazioni infinitesimali che impiccoliscono sempre senza svanir  mai;
quella luce era tanto lontana che quando appunto credeva di lambirne l'atmosfera
infocata un nuovo spazio d'aria  si  frammetteva  fra  me  e  lei.  Molte  volte
discorsi poi con Amilcare di tali mie  dubbiezze;  ed  egli  mi  assicurava  che
provenivano da difetto di meditazione; io credo  anzi  che  l'aver  guardato  di
primo colpo senza affaticarmi troppo le ciglia a voler vedere quello che non  è,
mi giovasse a scoprire quello che veramente era. Giustizia, verità,  virtù!  Tre
ottime cose, tre parole, tre idee da innamorare un'anima fino alla pazzia e alla
morte; ma chi le avrebbe recate di cielo in terra,  per  usar  l'espressione  di
Socrate? - Questa era la spina del mio  cuore;  e  non  la  capiva  allora  cosí
chiaramente, ma la mi doleva a sangue. Nuove istituzioni,  nuove  leggi,  diceva
Amilcare, formano uomini nuovi. Ma a volerlo anche credere, chi ci avrebbe  dato
queste ottime istituzioni, queste leggi  eccellenti?  Non  certo  gli  inetti  e
spensierati governanti di  allora.  Chi  dunque?...  Una  gente  nuova,  giusta,
virtuosa, sapiente; e dove e come trovata? e come  portata  a  capo  della  cosa
pubblica?... In verità io ci avrei capito poco ora, che di quel guazzabuglio  mi
do in qualche maniera ragione. Ma a que' tempi  di  letargo  appena  smosso,  di
annebbiamento intellettuale, e di infanzia politica, qual  piú  grande  uomo  di
governo ci avrebbe capito piú di me?... Io restava adunque col mio amore aereo e
affatto sentimentale;  come  chi  s'invaghisse  d'una  donna  veduta  in  sogno.
Ammirava Amilcare che a quei sogni dava fiduciosamente la saldezza della realtà,
ma non poteva imitarlo. Peraltro le vicende di Francia incalzavano; e le  grandi
novelle di colà, appurate dalla distanza e dall'immaginazione giovanile de' miei
compagni, soccorrevano la mia sfidanza. Mi diedi a sperare, ad  aspettare  cogli
altri; leggeva intanto i filosofi  dell'Enciclopedia,  e  piú  ancora  Rousseau;
sopratutto il Contratto sociale, e la Professione di fede del Vicario Savoiardo.
A poco a poco prestai della mia mente un corpo a quei  fantasmi:  quando  me  li
vidi innanzi vivi spiranti, gettai le braccia al collo di Amilcare, gridando:  -
Sí, fratello, oggi lo credo finalmente! Un giorno saremo  uomini!...  L'avvocato
Ormenta, che mi vedeva di rado e sempre piú  taciturno  e  riguardoso,  mi  fece
spiare da qualcheduno de' suoi; egli  seppe  le  mie  nuove  abitudini,  la  mia
amicizia col trevisano, e indovinò il resto. Il mondo non correva a  quel  tempo
secondo i loro desiderii; il poveruomo avea un bel  darsi  attorno;  capiva  che
erano formiche incapate tristamente ad arrestare un macigno, e se anche  non  lo
capiva, il fatto sta che era stralunato peggio che mai. Però non  volle  deporre
ogni lusinga; mi  accarezzò  ugualmente  sperando  di  carpire  forse  alla  mia
ingenuità quello che raccoglieva prima dall'ubbidienza. Avvisato da Amilcare  io
stava sull'intesa e spiava a  mia  volta  la  fisonomia  dell'avvocato  come  un
barometro del tempo. Quando lo vedeva mogio, umile, annuvolato,  correva  a  far
gazzarra coi compagni; e si facevano fra  noi  allegri  brindisi  alla  libertà,
all'eguaglianza,  al  trionfo  della  Francia,  alla  repubblica  e  alla   pace
universale. Il vino costava allora  pochissimo,  e  coi  tre  ducati  di  mesata
passatimi dal Conte, io era in grado di partecipare  alle  agapi  di  quei  capi
guasti. Questo entusiasmo politico e filantropico poteva  occupar  l'animo  d'un
giovane come io era, non già la religione  intrigante  mondana  e  furbesca  del
signor avvocato. Forse il vangelo puro di carità e di santità mi avrebbe  potuto
entrare; ma ad ogni modo il passo era fatto. Divenni un volteriano battagliero e
fanatico. Stetti anche piú volentieri che mai a predicare,  a  disputare  fra  i
miei compagni di studio; e l'esser piú simile a loro me li fece  giudicare  meno
flosci e spregevoli. Il fatto sta che le idee rinfiammano, e che la vita  comune
del pensiero soffoca o attira  a  sé  l'egoismo  privato.  Da  ciò  avviene  che
l'egoismo inglese è proficuo alla nazione, benché comune  e  potente;  in  altri
paesi invece la carità è inutile perché casuale e slegata. Cosí quella  gioventù
in un solo anno avea fatto un gran salto: formicolavano ancora le passioni,  gli
astii, le pigrizie di prima; ma il vento che soffiava da occidente sollevava  le
menti fuori di quella cerchia compassionevole.  In  fondo  forse  la  paura,  il
vizio, l'inerzia poltrivano ancora; ma di sopra si slanciava la fede, capace  di
grandi  cose  benché  momentanee  in  indoli  cosí  fatte.  Basta;  io   me   ne
accontentava: e d'altra parte, conosciuto ben bene Amilcare, io m'era  fitto  in
capo che tutti somigliassero a lui; il che non era  pur  troppo.  Come  tutti  i
giudici che non hanno barba al mento, peccava allora in un estremo  come  l'anno
prima avea peccato nell'altro: assolveva per innocenti coloro  che  altre  volte
avea condannato a morte. Amilcare mi trascinava  colla  sua  foga  di  fede,  di
entusiasmo, di libertà, colle sue abitudini di spensieratezza di giocondità e di
audacia; con lui il sentimento che non fosse consacrato al bene dell'umanità  mi
sembrava un sentimento dappoco. Non mi ricordava di aver vissuto prima d'allora;
la Pisana mi pareva una creatura piccina piccina,  quasi  veduta  in  una  valle
dalle sommità azzurrine e pure d'una montagna; piú spesso la mi usciva di  mente
affatto, poiché il mio cuore avea trovato cosa amare in vece di  lei.  Peraltro,
rimasto che fossi solo, avveniva nell'animo mio quasi  una  separazione  di  due
elementi diversi, che mescolati violentemente insieme ne componevano per poco un
solo; ma poi lasciati sedare tornavano a dividersi ciascuno dal  proprio  canto.
La fede nella virtù, nella scienza, nella libertà  sorgeva  pura  ed  ardente  a
cantar inni di speranza e di gioia; la memoria della Pisana si  ritraeva  in  un
angolo a brontolare e a stizzirsi in segreto. Allora  io  mi  dava  attorno  per
confonder ancora  quei  sentimenti;  m'incaloriva  artifiziosamente  e  anfanava
tanto, che le piú volte vi riesciva.  Ma  perché  ciò  avvenisse  spontaneamente
m'era proprio di mestieri la compagnia  e  l'esempio  di  Amilcare.  Intanto  il
romore delle armi francesi cresceva alle porte  d'Italia;  con  esse  risonavano
grandi promesse di uguaglianza, di  libertà;  si  evocavano  gli  spettri  della
repubblica romana; i giovani si  tagliavano  la  coda  per  imitar  Bruto  nella
pettinatura; per ogni dove era un fremito di speranza che  rispondeva  a  quelle
lusinghe sempre piú vicine e vittoriose. Amilcare mi pareva pazzo;  gesticolava,
gridava, predicava nei crocchi piú  turbolenti,  sui  caffè  e  per  le  piazze.
L'avvocato Ormenta diventava sempre piú livido e musonato, io  credo  che  fosse
arrabbiato anche contro la Marchesa che non si decideva mai  a  morire.  Io  bel
bello nelle rade visite mi prendeva beffe di lui. Un giorno egli mi parlò con un
certo sapore amaro della mia amicizia con un  giovine  trevisano  e  mi  avvertí
quasi beffardamente che se gli voleva  bene  doveva  ammonirlo  di  essere  meno
corrivo a sussurrare nelle sue parlate. La sera  stessa  Amilcare  con  parecchi
altri  scolari  fu  imprigionato   e   condotto   a   Venezia   d'ordine   degli
Eccellentissimi Inquisitori;  a  me  credo  si  sparagnò  quella  sagra,  perché
speravano di sgomentirmi e forse di  ripigliarmi.  Ma  la  codardia,  grazie  al
Cielo, non s'apprese mai al mio temperamento. Di quella vicenda toccata  al  mio
amico io ebbi un dolor tale che mi fece odiare tre volte tanto i suoi nemici,  e
m'infervorò  piucchemai  nelle  nostre   speranze   comuni.   Allora   poi   che
dall'avveramento di queste dipendeva  la  sua  salute,  la  mia  impazienza  non
conobbe piú freno. Solamente il tempo si prese la briga di  calmarmi.  Ai  primi
impeti successe una tregua lunga e dubbiosa. Le alleanze continentali  si  erano
rafforzate; la Francia si ristringeva in sé, come la tigre per uno  slancio  piú
fiero; ma fuori si credeva ad uno scoramento fatale. La Serenissima  patteggiava
con tutti, soffriva e barcamenava;  gli  Inquisitori  sorridevano  fra  loro  di
vedersi sperperare un temporale che  avea  fatto  tanto  fracasso;  sorridevano,
stringendo fra le unghie quei disgraziati che avevano sperato nella  grandine  e
nelle saette mentre tutto accennava ad un nuovo sereno di bonaccia. Di  Amilcare
e di molti altri che lo avevano preceduto o seguito nelle carceri non si parlava
piú; solamente si mormorava che la Legazione francese aveva cura di loro  e  che
non li avrebbe lasciati sacrificare. Ma se la prossima campagna fosse sfortunata
alla Francia? Io tremava solo a pensarne le conseguenze. Intanto una mattina  mi
capitò una lettera suggellata a nero. Il signor Conte mi  partecipava  la  morte
del suo cancelliere, aggiungendo che in quasi due anni  di  studio  io  ne  avea
potuto imparare abbastanza, che poteva sostenere l'esame quando  voleva,  e  che
corressi intanto presso di lui a dirigere la  cancelleria.  Cosa  provassi  alla
lettura di quel foglio, non ve lo saprei spiegare; ma credo che in  fondo  fossi
contento assai che  la  necessità  mi  richiamasse  vicino  alla  Pisana.  Senza
Amilcare e senza la speranza di riaverlo presto, Padova mi somigliava una tomba.
Le mie speranze si dileguavano ogni giorno piú; l'impazienza giovanile una volta
delusa si volge facilmente in scoraggiamento; e la  cera  gioconda  e  trionfale
dell'avvocato Ormenta tornava a darmi la stizza. Mediante una commendatizia  del
senatore Frumier sostenni con buon esito l'esame  del  secondo  anno;  e  partii
poscia da  Padova  cosí  sconvolto  e  confuso  che  nel  mio  cervello  non  ci
raccapezzava piú nulla. Peraltro mi  sapea  duro  di  togliermi  di  colà  senza
chiarirmi meglio delle faccende di Amilcare, e confidando nel  patrocinio  della
Contessa e de' suoi nobili parenti sperai che a Venezia sarei venuto a  capo  di
qualche cosa. Chiesi dunque consiglio ai miei pochi ducati i quali mi  permisero
quella breve diversione se avessi usato la maggior parsimonia. Feci un  fardello
delle mie robe, e le imbarcai sul burchio; indi cosí per creanza fui  a  prender
commiato dall'Ormenta. - Ah, buon viaggio, carino! - mi diss'egli. - Peccato che
non siate rimasto con noi tutto l'anno;  siete  accorto,  e  sareste  tornato  a
visitarmi sovente, e forse anco la signora Marchesa  vi  avrebbe  avuto  al  suo
circolo. Riveritemi il padre Pendola, carino; e fidatevi agli attempati un'altra
volta. I giovani credono troppo, e vi faranno fare dei cattivi  negozi!  Capisco
ora quello che volle dire il caro  avvocato,  ma  egli  mi  credeva  un  volpone
ghiotto ed avaro simile a lui; allora non  ci  capii  nulla.  Dovetti  peraltro,
dietro suo invito, baciare in viso quel  sucido  figliuolo,  che  funzionava  al
solito nell'andito colla sua vestaccia nera e puzzolente.  Questa  cerimonia  mi
rese due volte piú gradita la mia partenza  da  Padova;  e  del  resto  lasciava
l'incarico alla fortuna di far comparire degno cancelliere un giovinastro di non
ancora vent'anni. Giunto a Venezia non perdetti tempo né ad ammirare  San  Marco
né a passeggiar la riva, e deposto il mio  fardello  in  una  locanda  corsi  al
palazzo Frumier. Dio mio come trovai cambiata in  quei  pochi  anni  la  signora
Contessa! La era divenuta piú scura, piú cattiva di fisonomia; il naso le si era
uncinato come ad uno sparviere, e gli occhi  lampeggiavano  di  un  certo  fuoco
verdognolo che  non  augurava  nulla  di  buono,  e  nel  vestire  mostrava  una
trascuranza quasi schifosa. Non avea piú né nastri rosei, né merli alla  cuffia;
e i capelli grigi le ingombravano spettinati la fronte e le tempie.  Perciò,  lo
confesso, neppur la pietà di Amilcare poté indurmi  a  tentar  qualche  cosa  da
quella banda. M'infinsi venuto a Venezia per ossequiarla e credetti aver addotto
un'ottima scusa per riescirle  gradito;  ma  ella  mi  rispose  un  grazie  cosí
sgarbato che mi fece calare ogni forza giù dei ginocchi, e mi  tolsi  da  quella
stanza che non vedea l'ora  di  essere  in  istrada.  Peraltro  uscito  che  fui
nell'anticamera, mi si rifece il cuore, e mi tornò il  desiderio  di  vedere  la
contessina Clara e confidarmi a lei. Mentre appunto mi  volgeva  in  cerca  d'un
servo che mi conducesse da lei, ecco  venirmi  incontro  ella  stessa  che  avea
saputo del mio arrivo e non volea  lasciarmi  partire  senza  un  saluto.  Tanta
cortesia mi commosse e mi diede animo. La povera Contessina era tal quale l'avea
veduta l'ultima volta; piú pallida, peraltro, piú grave, e con due cerchi  rossi
intorno agli occhi che  dinotavano  l'abitudine  del  pianto  o  di  lunghissime
veglie. Ma  questi  segni  di  dolore,  anziché  togliere  alla  confidenza,  vi
aggiungevano l'incentivo della compassione. Mi apersi dunque con lei, narrandole
del mio amico, ed esponendole il desiderio ch'io aveva di sapere  almeno  perché
lo si sostenesse in prigione, e quando c'era speranza  che  lo  lasciassero.  La
Contessina si turbò alquanto  udendo  il  caso  di  Amilcare,  e  piú  la  causa
probabile del suo imprigionamento; e due o tre volte fu per  suggerirmi  qualche
spediente, ma poi la si tratteneva sospirandoci sopra. Finalmente lo  spettacolo
del mio dolore la vinse, e mi disse che a Venezia c'era persona la  quale  dovea
saperne di ciò meglio che molti altri, e che io la conosceva, e che cercassi del
dottor Lucilio Vianello che certo mi avrebbe  detto  ogni  cosa  ch'io  bramassi
sapere intorno al giovane trevisano. Ma mi disse ciò arrossendo, la poveretta, e
raccomandandomi di non iscoprire altrui questo suo consiglio; e poi quando io le
chiesi dove avrei potuto trovare il dottor Lucilio, mi rispose  di  non  saperne
nulla, ma che egli non avrebbe mancato di capitar qualche volta  in  Piazza  ove
era allora, come adesso, il grande ritrovo di  tutti  i  veneziani.  Infatti  io
tolsi commiato da lei, ringraziandola di tanta sua bontà, e piantatomi in Piazza
aspettai girando su e giù finché diedi di naso nel signor  Lucilio.  Le  gelosie
non mi frullavano piú pel capo, e pieno di zelo pel maggior bene di Amilcare  lo
accostai risolutamente. Egli o stentò a conoscermi o ne fece le viste, ma poi mi
usò mille finezze, mi chiese conto de' miei studi, della mia vita; e  da  ultimo
mi domandò se avessi veduto la Contessa e sua figlia. Io  gli  narrai  tutto,  e
come le avessi trovate. Ed egli allora mi raccontò che la  Contessa  s'era  data
sfrenatamente alla passione del gioco, come usavano le dame veneziane  d'allora;
che perdeva ogni giorno grosse somme di denaro, che gli  usurai  le  stavano  a'
panni, ch'ella non pensava ad altro che a riacquistare quanto aveva perduto, con
rischi piú gravi e pericolosi.  Il  suo  temperamento  avea  sempre  peggiorato;
tiranneggiava la figliuola peggio che mai, ed erano sette mesi che  la  poverina
non usciva di casa che per andare a messa a San Zaccaria, ov'egli la vedeva  una
volta per settimana. E poi scompariva come un'ombra, e non la lasciavano nemmeno
affacciarsi alla finestra perché le avevano destinato  una  camera  interna  del
palazzo. Quanto al poter penetrare fino a loro non avea mai potuto  riescire;  e
sí che la fama acquistatasi grandissima nella sua professione, gli aveva  aperto
le sale piú cospicue della nobiltà. La Contessa era inesorabile; ed egli  sapeva
da fonte sicura che stava in trattative colle monache di Santa Teresa perché  la
Clara fosse da loro accettata come novizia; soltanto faceva  ostacolo  la  dote,
ché la Contessa era in grado di pagarne al momento non piú della metà, e secondo
la regola non potevano accettarla che dopo l'intero  pagamento.  La  giovane  si
sarebbe piegata ai voleri  della  madre,  e  se  quel  sacrifizio  non  era  già
consumato, lo si doveva a quelle differenze d'interesse. Soltanto  egli  sperava
che non avrebbe obbedito quando avessero voluto farla professare, e che  non  si
sarebbe divisa dal mondo colla barriera  insormontabile  dei  voti.  Lucilio  mi
narrava di ciò colla rabbia  forzatamente  compressa  di  chi  non  può  vincere
un'opposizione giudicata frivola e ridicola; ma da ultimo la sua fronte  si  era
rialzata, e ben ci si  accorgeva  ch'egli  non  avea  smesso  nulla  dell'antico
coraggio, e che sperava ancora e che le sue speranze non erano sogni.  Quel  suo
animo vigoroso e prudente non poteva acquetarsi in vane lusinghe,  e  perciò  la
sicurezza che travidi nelle sue ultime parole mi diede qualche  fiducia.  Allora
vedendolo piú tranquillo gli comunicai la cagione  dell'averlo  io  sí  a  lungo
aspettato, non tacendogli anche, forse con un po'  di  furberia,  che  la  Clara
stessa mi aveva a lui indirizzato. Parve allora che molte  confuse  memorie  gli
balenassero in capo, e tornò a guardarmi come se fosse quello il  primo  momento
che mi rivedeva. - Da quanto tempo non avete piú notizia del padre Pendola? - mi
chiese egli senza nulla rispondere alla mia domanda. -  Oh  da  lungo  tempo!  -
risposi io con qualche stupore di essere interrogato a quel modo.  -  Credo  che
col reverendo padre non ce la intenderemo piú, e che egli per lo meno  non  sarà
fatto contento del fatto mio. - Non vi aveva egli dato qualche commendatizia per
Padova? - mi domandò ancor con un fare svagato Lucilio. - Sí certo; -  soggiunsi
- per un certo avvocato Ormenta che mi è andato fuori affatto  dei  gangheri,  e
pochi mesi fa ho saputo che è  in  voce  di  essere  una  spia  dei  Serenissimi
Inquisitori. - Bene, bene, sarà: ma non parlate di cotali cose a voce  alta  qui
in Venezia; il vostro amico deve essere caduto in male acque appunto per questo.
- Oh sí, è facilissimo! egli parlava tanto forte  da  farsi  udire  da  un  capo
all'altro della città e non facea mistero  delle  sue  opinioni.  -  Infatti  fu
rimeritato, come vedete, della sua sincerità; tuttavia rassicuratevi che egli  e
i suoi compagni stanno, credo, sotto la protezione della Legazione  francese,  e
non interverrà loro alcun male. - Ne è ben sicuro,  lei?  Ma  se  la  Francia  è
invasa dagli alleati, se... Lucilio mi troncò la parola in bocca con una risata,
laonde io lo guardai  alquanto  meravigliato.  -  Sí,  sí,  guardatemi!  -  egli
soggiunse. -  Ho  riso  della  vostra  innocenza.  Credete  anche  voi,  come  i
gazzettieri di Germania, che la Francia sia esausta, discorde e che si  lascierà
mettere i piedi sul collo dal primo venuto!... Guardatemi in viso ancora!...  Io
non sono che un medico, ma vi garantisco che ci vedo piú lungo  assai  di  tutti
questi politiconi in toga e parrucca. La Francia omai non  è  piú  solamente  in
Francia: è in Svizzera, è nell'Olanda, è in Germania, è in Piemonte, è a Napoli,
è a Roma, è qui! qui dove parliamo io e voi. Essa lo  sa  e  si  raccoglie,  per
attirarsi intorno le forze attive dei nemici, e sbarazzarsene piú presto  in  un
paio di colpi, e lasciar libero lo slancio agli amici, ai  fratelli  di  qui!...
Vedete; cosí per abitudine io vi raccomandava poco fa di parlar adagio, e ora io
grido e non me ne curo. Gli è, vedete, che omai hanno paura, e che non si  corre
nessun pericolo. Voi potete narrare quanto vi ho detto all'avvocato  Ormenta  ed
anche al padre Pendola, che non me ne  importerebbe  gran  fatto.  In  ciò  dire
Lucilio mi guardava con occhi fiammeggianti e severi, tantoché io fui costretto,
contro l'usanza, di chinare i miei. Ma egli ebbe forse compassione di  quel  mio
smarrimento e mi diede una mano a rialzarmi. - Quanti anni avete? - mi chiese. -
Presto ne avrò venti. - Solamente venti? animo  allora;  eravate  un  bambino  e
credevano di mettervi la benda, ma io spero che non vi lascerete  infinocchiare,
o che vi ravvederete finché ne avete il tempo. Coraggio dunque; confessatemi che
la vostra amicizia per Amilcare e il vostro interessamento per lui presso di  me
è un effetto di consigli altrui, non del vostro spontaneo sentimento... - Oh chi
vuol ella mai che mi spingesse a ciò!? - Chi? il padre Pendola  per  esempio,  o
l'avvocato Ormenta! - Essi? tutt'altro anzi: credo che  mi  sapranno  pochissimo
grado della mia intrinsichezza con quel giovane; e infatti a lui  ho  dovuto  di
essermi disgustato di loro e delle loro trame frivole e inoneste. -  Frivole  le
loro trame? non tanto, ragazzo mio. Inoneste potrebbe darsi: ma non precipitiamo
i giudizi, perché chi difende la pagnotta ha molti e molti  diritti.  Credereste
voi che il reverendo padre e il degno avvocato sarebbero persone autorevoli e di
rilievo se venisse un buon vento di giustizia che  buttasse  a  terra,  sí,  che
buttasse a terra, tutti i privilegi della  nobiltà  e  delle  fraterie?...  Essi
lavorano pel loro utile come gli altri pel proprio: non so  cosa  dirne!  Io  mi
stupii oltremodo di questa maniera di vedere  di  Lucilio;  un  odio  aperto  mi
quadrava meglio di questa fredda calcolata inimicizia; e il mio amico  trevisano
la pensava secondo me piú dirittamente del  dottore  di  Fossalta.  Soltanto  mi
dimenticava che in questo la gioventù s'era  sbollita,  e  il  sentimento  s'era
impietrato in profonda convinzione. - Ma parliamo dunque di  voi;  -  continuava
egli intanto - voglio credervi che la contessina Clara vi  abbia  indirizzato  a
me, e non l'avvocato Ormenta. Se cosí è,  vivete  tranquillo;  il  vostro  amico
Amilcare è piú sicuro nella sua prigione che io e voi in Piazza. Lo direi  anche
al Collegio dei Savi il quale se fosse savio avrebbe a cavare  il  suo  pro'  da
questo giudizio. Ve lo ripeto, v'è gente che veglia per lui; e non c'è  pericolo
che si lascino andar a male giovani cosí preziosi. Intanto voi  cercate  di  non
lasciarvi abbindolare dal padre Pendola. Per carità, Carlino! Eravate un ragazzo
di mente e piú assai di cuore. Non guastatevi  sul  piú  bello.  Vi  lascio  per
qualche visita che ho da fare in questa casuccia di poveri diavoli. Cosa volete?
l'amore della gente è la paga piú bella del medico. Ma se vi fermate a  Venezia,
cercate di me all'ospedale dove sto  sempre  fino  alle  dieci  del  mattino.  -
Grazie; - gli diss'io - se la mi assicura  proprio  che  Amilcare...  -  Sí,  vi
assicuro che non gli interverrà alcun male. Cosa volete  di  piú?  -  Allora  la
ringrazio; e la riverisco. Io parto quest'oggi stesso. - Salutatemi il Conte, la
Contessina, i nobiluomini Frumier e mio padre se lo vedete - soggiunse  Lucilio.
- Ohimè! salutatemi anche Fratta e Fossalta! Chi sa se quei solitari paeselli mi
vedranno mai piú! Mi abbracciò e mi lasciò, credo, con istima migliore di quando
mi aveva incontrato. Certo al ripensarci poi mi parve che gli avessero  riferito
di me cose non troppo onorevoli; e in seguito venni a sapere com'egli mi credeva
venduto anima e corpo al padre Pendola. Ma  l'ingenuità  della  mia  confessione
l'aveva rimosso da questo avventato giudizio;  senzaché  la  mia  giovinezza  lo
lusingava che non fossi tanto incallito nell'impostura,  come  pretendevano.  Ad
ogni modo imbarcato ch'io fui col mio fardelletto sulla corriera di Portogruaro,
la mia mente ebbe di che lavorare a riandar  il  colloquio  avuto  con  Lucilio;
sopratutto l'autorità che era nelle sue parole, nel suo contegno  mi  parea  piú
strana ancora che mirabile. Un semplice  medico,  un  giovane  paesano  da  poco
trapiantato a Venezia parlava e sentenziava a quel modo!  Ergersi  per  poco  ad
arbitro dei destini  d'una  repubblica,  se  non  ad  arbitro,  a  giudice  e  a
profeta!... la mi sapeva un po' di commedia! Che fossi rimasto  corbellato?  Che
la mia inesperienza gli avesse offerto un'occasione di burlarsi saporitamente di
me? Quasi quasi mi rimordeva di  avere  abbandonato  Amilcare  a  sí  manchevole
malleveria; ed è vero che nulla piú avrei  forse  potuto  tentare  per  lui,  ma
dubitava fra me che quella troppo facile confidenza fosse effetto di poco  animo
e di infingardaggine. Mi riconfortava poi col pensiero che Lucilio non  era  mai
stato uno spaccamonti, e che per ingegno e  per  studio  soprastava  tanto  agli
altri uomini, da darmi il diritto di crederlo superiore ad essi di antivedere  e
di potenza. Che egli fosse secretamente addetto alla Legazione francese lo  avea
udito mormorare anche a Portogruaro  l'autunno  passato;  e  allora  alcune  sue
parole m'avevano riconfermato la verità di questa diceria. Tali relazioni  forse
lo ponevano in grado di poter sapere e vedere  nelle  cose  piú  addentro  degli
altri; e in fin dei conti poi io non ci trovava una causa per cui  dovesse  egli
divertirsi a gabbarsi di me. Queste considerazioni, unite al rispetto  istintivo
che nutriva per Lucilio e alla nessuna lusinga che poteva avere  di  giovare  ad
Amilcare per qualche altra via, fecero ch'io  mi  acquietassi  in  quanto  aveva
operato; anzi cessai a poco a poco di darmi pensiero della sorte dell'amico  per
badare alla mia. Mano a mano che mi allontanava dalle lagune per entrare in quel
laberinto di fiumane, di scoli e di canali  che  uniscono  a  Venezia  il  basso
Friuli, mi si abbuiavano nella mente le vicende di quell'ultimo anno,  e  quelli
vissuti prima vi ricomparivano col guizzante barbaglio dei sogni. Mi pareva  che
la barca nella quale era mi rimenasse verso il passato, e che ogni colpo di remo
distruggesse un giorno della mia vita, e per meglio dire, mi riconquistasse  uno
dei giorni trascorsi. Niente dispone meglio  alla  meditazione,  alla  mestizia,
alla poesia di un lungo viaggio traverso a paludi nella piena pompa della state.
Quegli immensi orizzonti di laghi, di stagni, di  pelaghi,  di  fiumi,  inondati
variamente dall'iride della luce; quelle verdi selve di canne e di  ninfee  dove
lo splendor dei colori gareggia colla forza dei profumi per ammaliare  i  sensi,
già spossati dall'aria greve e sciroccale; quel  cielo  torrido  e  lucente  che
s'incurva immenso di sopra, quel fremito continuo e monotono di  tutte  le  cose
animate e inanimate in quello splendido deserto mutato per magia di natura in un
effimero paradiso, tutto ciò mette nell'anima una sete inesauribile di  passione
e un sentimento dell'infinito. Oh la vita dell'universo nella  solitudine  è  lo
spettacolo piú sublime,  piú  indescrivibile  che  ferisca  l'occhio  dell'uomo!
Perciò ammiriamo  il  mare  nella  sua  eterna  battaglia,  il  cielo  ne'  suoi
tempestosi annuvolamenti, la notte ne' suoi fecondi silenzi,  nelle  sue  estive
fosforescenze. È una vita che si sente e sembra comunicare a noi  il  sentimento
di un'esistenza piú vasta piú  completa  dell'umana.  Allora  non  siamo  piú  i
critici e i legislatori, ma gli  occhi,  gli  orecchi,  i  pensieri  del  mondo;
l'intelligenza non è piú un tutto, ma una parte;  l'uomo  non  pretende  piú  di
comprendere e di dominar l'universo, ma sente, palpita, respira con  esso.  Cosí
io cedeva allora a questa corrente di sogni e  di  pensieri  che  mi  respingeva
carezzevolmente alle beate memorie dell'infanzia. L'esule canuto  che  torna  al
focolare domestico dopo avere sfruttato i suoi  giorni  sopra  terra  ingrata  e
straniera non è certo piú lieto e  commosso  ch'io  allora  non  fossi.  Ma  era
tuttavia un contegno pieno di melanconia, perché  l'apparizione  nei  crepuscoli
della memoria di una gioia passata somiglia alla visita  notturna  d'un  diletto
defunto, e ci invita alla voluttà delle lagrime. Ricordava, insieme  dimenticava
e  sognava;  ricordava  le  beatitudini  del  fanciullo,  dimenticava  i  dolori
dell'adolescenza, il ravvedimento del giovane, e sognava un  ritorno  allegro  e
felice a quelle rive incantate d'Alcina, donde cacciati  una  volta,  invano  si
cerca di approdare ancora. Chi dopo una qualche assenza non ha osato di  fingere
la propria amante cambiata per miracolo  nell'amante  ideale  dei  sogni,  nella
creatura del nostro cuore e della nostra poesia?... Bambolaggine senza verità  e
senza fiducia della quale la mente s'innamora; e la speranza e  l'amore  e  ogni
altro  tesoro  dell'anima  si  profonde  a  drappeggiar  vagamente  una  bambola
immaginata. Io prendeva allora la mia Pisana in culla; non  vedeva  che  i  suoi
lunghi capelli, i suoi occhi dolcissimi,  i  suoi  sorrisi  da  angelo;  di  lei
fanciulletta ricordava la grazia,  l'ingegno,  la  pietà,  e  la  voce  soave  e
carezzevole; la vedeva poi crescere d'orgoglio e di bellezza; ricordava  i  suoi
moti magnanimi, i suoi gesti alteri, i  suoi  baci  di  fuoco;  sentiva  il  suo
braccio tremar sotto il mio, vedeva il suo petto gonfiarsi ad una mia  occhiata,
e i suoi sguardi... Oh! chi saprà descrivere com'ella avea saputo  guardarmi,  e
come io ricordava allora, e ricordo perfino adesso,  il  linguaggio  celeste  di
quelle due pupille incantevoli! Come ricordare un solo di quei lampi  d'amore  e
sovvenirsi insieme delle nubi che lo offuscavano? No, l'anima sua, la parte  piú
bella e spirituale di lei che viveva in quegli occhi, non  si  è  insozzata  nel
fango della colpa. No, l'uomo non è un congegno meccanico che  produce  umori  e
pensieri, ma è veramente un impasto  d'eterno  e  di  temporale,  di  sublime  e
d'osceno, in cui la vita, diffusa talvolta equabilmente, si  condensa  tal'altra
in questa parte od in quella per trasformarlo in un eroe od in una  bestia!  Una
parte divina splendeva negli occhi della Pisana; e  rimase  sempre  pura  perché
impeccabile. Ecco il perché di quella  passione  violenta,  immortale,  completa
ch'ella ha saputo inspirarmi;  e  che  nessun  prestigio  di  bellezza,  nessuna
blandizie di sensi avrebbe potuto prolungare oltre al sepolcro di lei nel  cuore
d'un vecchio ottuagenario. Io  adorava,  io  compativa  lo  spirito  schiavo  ed
immemore, ma sempre dolente e redivivo da' suoi lunghi  torpori.  A  Portogruaro
quelle mie fantasticherie ebbero a fare un  gran  capitombolo.  Tutti  parlavano
delle stranezze della Pisana; perfino sua zia me ne mosse cenno  pregandomi  col
mio criterio di porvi qualche  riparo,  giacché  il  Conte,  per  quanto  gliene
avessero dette, non s'ingeriva di nulla. Ella lo  aveva  perfin  consigliato  di
collocarla in sua casa; ma le aveva risposto che la ragazza non voleva a  nessun
patto, e cosí si lasciava menar pel naso dalla figlia con gravissimo danno della
sua riputazione. - Sentite, Carlino - mi diss'ella - se si può dare  di  peggio.
Raimondo Venchieredo le sta sempre intorno ostinatamente; ella gli tien  bordone
con centomila moine che è una vera sconcezza a vederli; ma poi quand'egli  venne
a chiederla seriamente in isposa, che oggimai l'ha diciotto anni e  si  potrebbe
pensarvi, essa dichiarò solennemente che non lo avrebbe preso mai per  marito  e
che la lasciassero stare. Si dice che vi covi sotto un  amore  piú  vecchio  con
Giulio Del Ponte, ma non si capisce poi  perché  ella  strapazzi  sempre  questo
giovine e lusinghi invece quell'altro che si è proposta di rifiutare.  Oltracciò
Giulio è quasi povero, e tanto malandato di salute che non  gliela  danno  lunga
fino alla primavera ventura!... - Come? Giulio è a questi estremi? - io sclamai.
- Sí, poveretto; - soggiunse la gentildonna - e a dirvi la verità sarebbe  quasi
meglio che se ne andasse, perché non attraversi  ogni  buon  collocamento  della
Pisana come il dottor Lucilio ha fatto colla Clara. Quella  almeno  era  quieta,
ragionevole cristiana, e si è potuto trattenerla dal  fare  spropositi.  Ma  con
costei?... Uhm! non ci spero nulla, e temo  che  voglia  diventare  il  disonore
della famiglia. Io mi dimenticai sul momento  della  Pisana  per  ricordarmi  di
Giulio; e lo dichiaro a mia lode, che le tristi  novelle  della  sua  salute  mi
desolarono. Infatti nell'ultima volta che l'aveva veduto, aveva  notato  il  suo
pallore piú tetro del solito, e una difficoltà di  respiro  che  gli  mozzava  a
mezzo  le  parole.  Ma  ne  accagionava  unicamente  i  crucci  e  le  battaglie
inseparabili da un amore colla Pisana; anzi vedendo nelle sue pene quasi la  mia
vendetta ne godeva  barbaramente.  Dopo  il  cattivo  pronostico  della  Frumier
cominciai a discerner meglio e a temere  ch'egli  non  fosse  la  prima  vittima
dell'indole bollente e sfrenata della fanciulla; mi dolsi della sua  sventura  e
piú forse del delitto che avrebbe macchiato la coscienza di chi  lo  uccideva  a
quel modo senza misericordia e senza pensarci. Le  colpe  di  coloro  che  amai,
ebbero sempre virtù di affliggermi piú che i miei stessi  dolori;  credo  che  a
quel tempo avrei perdonato alla  Pisana  l'amore  per  Giulio  purché  ella  gli
ridonasse con quello la salute e la  vita.  Pur  troppo  infatti  ebbi  campo  a
persuadermi che le paure della Frumier non erano fallaci. La sera stessa vidi la
Pisana a Portogruaro; amorosa, timida, taciturna con me, come chi avesse bisogno
d'amore e di pietà; lusinghiera e provocatrice col Venchieredo,  indifferente  e
beffarda con Giulio. Raimondo aveva dimenticato i  rifiuti  della  Clara,  e  le
lusinghe della Pisana lo riconducevano in casa Frumier, dove forse avea  sperato
ricattarsi di quelli coll'acquisto di un boccone piú ghiotto e desiderato. E  lo
sfuggirgli di questo, altro non avea fatto che attizzargli  viemmaggiormente  le
voglie; poiché la Pisana,  pur  respingendolo  come  marito,  lo  accettava,  lo
accarezzava in qualità di vagheggino. Il giovine scapestrato, se  potea  ottener
di contrabbando quello che avea cercato di avere legalmente, si  sarebbe  tenuto
il piú furbo e felice degli uomini; e il contegno della  Pisana  dava  piuttosto
ansa a questa lusinga. Se aveste veduto qual era  in  tali  frangenti  lo  stato
compassionevole del povero Giulio, potreste capire come la pietà ammutisse in me
perfino  l'interesse  dell'amore.  Cosa  quasi  incredibile!  Io   aborriva   il
Venchieredo non per conto mio, ma per conto  di  Giulio;  io  era  geloso  della
Pisana piú per lui che per me, e lo spettacolo di quel giovane, pieno d'animo di
cuore d'ingegno che si disfaceva dolorosamente pel cancro segreto e  inesorabile
d'una passione infelice, mi metteva in cuore  quasi  un  rimorso  dell'odio  che
altre volte gli aveva serbato. Vi sembro troppo  buono?...  Non  c'è  caso:  era
fatto cosí. Quella lunga scuola di abnegazione e di pazienza,  al  fianco  della
Pisana, mi avea fruttato una pietà quasi eroica a profitto dei miseri. Ne  diedi
la prova in seguito colla mia condotta, la quale se potrà tacciarsi di  sciocca,
non potrà mancare di qualche lode per coraggio e per generosità. Il  Venchieredo
portava addosso tutto lo sfarzo  della  felicità.  Nel  volto,  nel  gesto,  nel
vestire, nel parlare si conosceva il giovane contento del fatto suo, che non  ha
nulla a desiderare, e che non può pensare ad altro che alla propria gioia, tanto
essa è grande e potente. La contentezza gli rabbelliva le  guance  d'una  fiamma
rosea e vivace, gli rendeva snella e leggiera la persona, facile e  colorita  la
parola. Vedea tutto bello, tutto buono, tutto  incantevole;  ognuno  gli  faceva
continua
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