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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italiano

Ippolito Nievo
festa, perché lo spettacolo d'una gran felicità  racconsola  gli  uomini,  colla
fiducia di poterla anch'essi un giorno o  l'altro  raggiungere.  La  Pisana  era
tutta per lui; tremava e abbassav
a gli occhi a' suoi sguardi, sorrideva al suono
della sua voce, lo seguiva in ogni movimento. Come io l'aveva  veduta  ragazzina
per Lucilio, tale  la  vedeva  allora  già  donzella  per  Raimondo;  lo  stesso
turbamento, la stessa veemenza non trattenuta né da pudore né  da  paura,  e  un
incanto di voluttà cresciuto  a  mille  tanti  nel  pieno  splendore  della  sua
bellezza di diciott'anni. Io l'amava allora disperatamente per me, la odiava per
lo spietato martirio cui ella condannava il povero Giulio, la disprezzava per la
sua  perfida  idolatria  a  un  giovinastro  frivolo  e  scostumato  com'era  il
Venchieredo. Non so  quale  smania  mi  sentissi  in  cuore  di  calpestarla  di
svillaneggiarla: insuperbiva fra me di amarla ancora, e di poter  dire  tuttavia
che l'avrei ceduta ad un altro per salvargli  la  vita!  Ella  invece  procedeva
innanzi cieca come il carnefice. Cieca! Ecco la sua  scusa:  credo  ch'ella  non
vedesse nulla, non s'accorgesse di nulla. Le sue  passioni  furono  sempre  cosí
eccessive che le vietarono di discernere alcuna cosa  fuori  di  loro.  A  veder
l'anima straziata di Giulio dibattersi  in  un  corpo  smunto  e  consumato  per
lottare ancora per  difendersi  fino  alla  morte  contro  il  facile  e  sereno
predominio di Raimondo, venivan proprio agli occhi le lagrime.  Il  fuoco  delle
pupille, lo splendore dello spirito che un tempo gli  trapelava  dal  volto  era
scomparso; con ciò ogni sua bellezza  s'era  spenta,  perch'egli  non  ne  aveva
altra; fino la maestà  del  pallore  pareva  insozzata  dalle  macchie  brune  e
verdastre di cui la chiazzava il sangue corrotto dalla bile. Pareva un malato di
pellagra, e la vergogna del proprio  aspetto  toglieva  ogni  coraggio  a'  suoi
sguardi, ogni sicurezza alle sue parole. Il brio,  già  attutito  al  soverchiar
dell'amore,  sforzava  indarno  il  coperchio  sepolcrale  della   disperazione.
Brillava a tratti come un fuoco fatuo di cimitero; e lo sforzo di  volontà,  che
lo accendeva momentaneamente, ricadeva poco stante in un peggiore  abbattimento.
Aveva piaciuto per esso; per esso era stato amato; senz'esso doveva perire; egli
lo sapeva, e infuriava fra sé di non poterne avvivare almeno  un  funebre  lampo
colle ceneri dell'anima sua. Morire sfolgorando era ormai la sua unica  speranza
d'amore e di vendetta; ma  piú  si  ostinava,  e  meno  gli  ubbidiva  l'ingegno
affiocato dalla malattia e dalla passione. Io  rimasi  costernato  dagli  ultimi
sforzi di un'anima moribonda che fra le rovine d'un  corpo  già  fatto  per  lei
simile a un sepolcro, anelava invidiosamente a quella parte di bene ch'era stata
sua e che le veniva rapita da una forza giovane,  arrogante  e  spensierata.  Mi
pareva di veder Lazzaro agonizzante di fame, che chiede agli epuloni le briciole
della mensa e non ottiene che scherno e ripulse. Ma  fosse  almeno  stato  cosí!
Giulio avrebbe trovato un'ultima gioia nello sfogo di un'ira giusta e magnanima;
sarebbe morto colla fede che  le  sue  parole  a  vendetta  della  sua  sciagura
avrebbero risonato eternamente nell'anima della spergiura. Nulla di ciò  invece:
la Pisana non aveva per lui né occhi né orecchi: egli moriva  goccia  a  goccia,
senza lusingarsi che il rantolo della sua maledizione avrebbe turbato un istante
la felicità del suo sorriso! Durante quella lunga sera accumulai nel cuore tanta
compassione per quel poveretto,  che  addussi  al  Conte  qualche  pretesto  per
rimanere a Portogruaro, e lo lasciai partire soletto colla Pisana, la  quale  si
maravigliò non poco di cotal mia stravaganza. La attribuí forse a gelosia, e  mi
buttò un'occhiatina che potea essere di conforto o di gratitudine; ma io ne ebbi
orrore, mi rivolsi precipitosamente,  e  lasciando  il  Venchieredo  guardar  la
carrozza che si dileguava, presi a braccetto il Del Ponte, e lo trassi lunge  da
quella casa. Questi mi seguiva a malincuore, ansava come un naufrago che sta per
perdere l'ultima tavola, e teneva la testa rivolta ostinatamente ad osservare la
contentezza del fortunato rivale. - Giulio, che fai?... - gli dissi  scotendolo.
- Ritorna in te! abbracciami! non mi hai ancora  salutato!...  Mi  guardò  quasi
trasognato, indi, poiché fummo nel buio d'una calle remota, mi mise  le  braccia
intorno al collo senza parlare né piangere. Cosí non ci eravamo  lasciati.  Egli
allora trionfante e felice non s'avvedeva di me misero ed avvilito; m'avea fatto
della mano un cenno di commiato, quasi di protezione e di pietà; io non avea  né
voluto né potuto stringere la mano di chi mi rubava la ricchezza dell'anima mia.
Oh quanto mutati ci ricongiungeva la fortuna!  Io  sotto  il  peso  d'un  doppio
disinganno aveva il coraggio di compatire a lui piú  che  a  me  stesso,  a  lui
decaduto dalla ricca noncuranza del trionfo alla mendicità della sventura, a lui
tanto crudele e nocivo contro di me un anno prima, quanto a lui  stesso  lo  era
allora Raimondo. - Giulio, che fai? - tornai  ancora  a  dire  sollevandogli  la
fronte. - Tu vuoi ammalarti e ci riesci a forza di esser crudo e spietato in  te
stesso. - Voglio ammalarmi?... No, no, Carlo, - rispose egli con  voce  fioca  e
straziante - voglio anzi  guarire,  voglio  vivere!  voglio  che  la  giovinezza
rifiorisca sul mio volto, che le allegre immagini si ricoloriscano  alla  mente,
che l'anima si rigonfi come la gemma del rosaio al  soffio  primaverile,  e  che
trabocchi fuori in lieti discorsi,  in  frizzi  faceti,  in  cantici  smaglianti
d'amore di poesia! Voglio che la luce scacci dal  mio  volto  le  tenebre  della
melanconia, e il bel sole della  vita  vi  rianimi  queste  fattezze  smorte  ed
appassite! Sarà un miracolo; sarà un  trionfo.  Chi  ha  sul  volto  l'altera  e
grossolana bellezza della carne, una volta che l'abbia perduta  deve  aspettarne
il ritorno dopo una lunga e incerta convalescenza; ma chi risplende nel viso per
l'interna fiamma dello spirito può ritrovare in un momento la luce  ammaliatrice
d'una volta. L'anima non  è  soggetta  alle  lungherie  della  medicina;  né  la
passione ha l'andamento greve  e  compassato  della  malattia;  essa  corrode  e
rimpolpa, essa uccide e risuscita! È veleno e balsamo ad un tempo. Io l'ho visto
le cento volte, l'ho provato per esperienza, lo proverò ancora!... Egli  parlava
con enfasi febbrile, le  parole  gli  si  affollavano  sulle  labbra  confuse  e
smozzicate; rivedeva nella mente un barlume dell'antico splendore e  non  voleva
perderlo; ma gli venia meno la lena e il respiro convulso affannato s'agitava in
mezzo a quel tumulto di pensieri, di speranze, di illusioni, come  un  guerriero
ferito a morte tra fantasmi di gloria e delirii di comando. - Calmati, Giulio! -
soggiunsi io non so se piú impietosito o spaventato da quell'orgasmo - vedi  che
della vita ne hai nell'anima oltre il bisogno; appunto la soverchia vitalità  ti
opprime; bisogna rintuzzarla. Io conosco il tuo male,  e  ne  conosco  anche  il
rimedio. So che ami disperatamente, come  si  ama  quella  donna  che  è  venuta
incontro all'amor nostro e ci ha stregato la fantasia colle gioie piú dolci  che
l'amor proprio e la voluttà  sappiano  ammannire,  lavorando  di  conserva!  Ora
quando un cotal amore è divenuto un tormento, che si tratta di fare per guarire?
Studiarne le origini, guardarne la fonte piú in noi stessi che in altrui. Fu  un
inganno, fu un granchio preso; ecco tutto. Rialzati e ti si porgerà il destro di
coglierlo un'altra volta, se sarai debole tanto  da  degnarti!...  -  Capisco  -
entrò egli a dire amaramente - capisco, amico mio, cosa mi domandi. Credi che io
pure a mia volta non ti abbia conosciuto?... Ti ho perduto di vista in  seguito,
ma dapprincipio mi era accorto che tu pure amavi la Pisana. Figurarsi se  doveva
prendermi soggezione d'un fanciullo!... Ora poi che sei grande  roseo  tarchiato
intendi accampare i tuoi  diritti,  e  ti  garba  meglio  accamparli  contro  un
avversario che contro a due! Vieni  a  dirmi  pietosamente:  "Ritirati  pel  tuo
meglio; me ne saprai grado: vedi le mie spalle? esse hanno speranza e  forza  di
recarti al cataletto". Non è vero che questo è il sugo del tuo  ragionamento?  -
No, non è vero!  -  sclamai,  compassionando  in  questi  ingiusti  sospetti  la
tormentosa diffidenza del malato. - Non è vero, Giulio, e tu lo  sai  ch'io  non
son capace d'una frode, e ch'io non m'abbasserò mai a pregar un  rivale!...  Ah,
lo sapevi dunque?... Sí, io ho amato la Pisana quand'era fanciullo;  non  voglio
nasconderti nulla, io la amo ancora; e per questo appunto mi  duole  di  vederla
inesorabile contro  di  te!  -  Inesorabile?  lo  credi  dunque!  -  gridò  egli
afferrandomi convulsivamente la mano. - Inesorabile come chi non  ricorda,  come
chi  non  vede  -  io  soggiunsi.  -   Ma   dunque   tu   vorresti   persuadermi
dell'impossibile! - riprese egli. - Vorresti darmi a credere che ti dia noia  il
veder la tua amante crudele verso un altro!... O impostore, o codardo, ecco qual
vuoi comparirmi!... Ancora ancora io fui indulgente  a  crederti  impostore.  Se
cosí non fosse io ti disprezzerei maggiormente, e avrei ribrezzo  del  tuo  vile
compianto!  come  d'un  lenocinio  pagato.  -  Taci,  Giulio,  taci!  -  sclamai
trattenendo un impeto di sdegno e ponendogli una mano  sulla  bocca.  -  Sí,  tu
l'hai detto; io inorridisco di vedere non la mia amante, ma colei  che  amo  piú
della vita, torturare e uccidere spensatamente  un'anima  come  la  tua;  vorrei
purgarla da questa taccia,  risparmiarle  questo  rimorso!...  Poiché,  sappilo,
Giulio, e vedi se sono sincero, io so e sento di doverla amar sempre  e  sarebbe
per  me  un  dolore  infinito  quello  di  amare  non  una  vanerella,  non  una
spensierata, non una sirena, non una furia e un'assassina!...  -  Amala  dunque,
amala pure! - rispose egli con voce soffocata dai singhiozzi.  -  Non  vedi  che
sono un'ombra? i tuoi scrupoli vengono tardi; ella mi ha già ucciso;  e  le  sua
labbra sono vermiglie dal sangue che mi ha succhiato. Talvolta m'illudo  ancora;
è superbia, è speranza di vendetta! Ma poi mi torna il coraggio della verità,  e
godo quasi di scongiurar fronte a fronte la furia che  mi  divora.  Va',  io  mi
vendico fin d'ora della felicità che attende te pure, e che  s'aspetta  a  tutti
quelli che aspetteranno pazientemente! Va', se vuoi  amare  una  cosa  abbietta,
immonda, spregevole, senz'anima, senza cuore e senza ingegno; cerca  la  bambola
istupidita dalla ubbriachezza dei sensi e  accecata  dall'orgoglio!  nata  donna
nella crudeltà nella sciocchezza nella lascivia, e bambola eterna  in  tutto  il
resto, anche nella pietà che è la scusa delle donne e che a lei fu negata per un
mostruoso prodigio della natura!... I tuoi  diritti  sono  innegabili;  nasceste
insieme nella corruzione, potete amarvi senza vergogna alla vostra maniera, come
si amano i rospi nel pantano, e i vermi nel cadavere!...  La  sua  voce  si  era
rianimata; egli parlava e camminava come un  demente;  sentiva  scricchiolare  i
suoi denti come volessero arrotare la punta a quelle parole d'imprecazione e  di
sprezzo. Ma io era armato nel cuore contro a tali  ferite,  e  lasciai  sfogarsi
quel suo impeto di furore e di sdegno, finché racquistò almeno  la  calma  della
stanchezza. Allora tentai un ultimo colpo, fidando nella rettitudine  delle  mie
intenzioni che Dio sa se potevano essere piú generose. - Giulio - gli bisbigliai
gravemente all'orecchio - tu hai giudicato la Pisana!... Or  guarda  adunque  se
cosí come la conosci il tuo orgoglio ti permette d'amarla. - E tu l'ami pur  tu?
- rimbeccò egli con fare aspro e riciso. - Sí, io l'amo; - soggiunsi - perché mi
vi usai fin dalla nascita, perché quell'amore non è un sentimento ma  una  parte
dell'anima  mia,  perch'esso  è  nato  in  me   prima   della   ragione,   prima
dell'orgoglio! - E in me dunque? - riprese egli quasi piangendo - credi  tu  che
due anni non l'abbiano radicato in me cosí profondamente come  in  te  dodici  o
quindici?... Credi tu ch'egli fosse un trastullo per me?... Non vedi  che  muoio
solo perché esso mi è tolto? L'orgoglio, tu dici,  l'orgoglio?...  Sí,  io  sono
superbo; mi duole di cedere altrui quello ch'io possedeva e di non  poter  nulla
nulla per racquistarlo!... Oh se sapessi con quanti spasimi, con quante lagrime,
con quante viltà comprerei ora un  raggio  fuggitivo  di  bellezza,  un  barlume
momentaneo di spirito, un giorno un giorno solo della mia vita rigogliosa  d'una
volta!... Se sapessi quante lunghe ore sto dinanzi  allo  specchio  contemplando
con rabbiosa impotenza lo smarrimento delle mie sembianze,  gli  occhi  pesti  e
annebbiati, le carni ingiallite e  rugose!...  Sono  orribile,  Carlo,  orribile
davvero! Fo raccapriccio a me stesso; fossi una donna da trivio  non  concederei
un bacio al disgraziato che mi somigliasse. Uno scheletro ritto ancora,  ma  non
vivo non animato! Almeno mi  restasse  l'energia  spaventosa  del  fantasma!  Mi
vendicherei collo spavento, colle maledizioni! Ma l'anima si ritira da me,  come
l'acqua del fiume dalla sponda inaridita: tutto appassisce, tutto  manca,  tutto
muore! Mi restano solo memorie e desiderii; un  popolo  sconsolato  di  pensieri
muti e rabbiosi che non  sa  nemmeno  gridare  per  destar  compassione.  Allora
solamente egli tacque, allora solamente io intravvidi con ribrezzo  la  profonda
disperazione di quell'anima, e la pietà stessa rimase stupita e paralitica.  Era
un martire dell'orgoglio, piú ancora che dell'amore: e  tuttavia  non  so  quale
interna pressura mi traeva a tentare ogni sacrifizio  per  cercar  di  salvarlo.
Credo che amassi tanto la Pisana da credermi a parte perfino delle sue  colpe  e
de' suoi doveri di riparazione; fors'anco mirava in altrui quello che io  stesso
avrei potuto diventare, e la paura mi eccitava alla carità. Mi ricordai di  aver
udito il Del Ponte opporsi talvolta alla satirica miscredenza di  Lucilio  e  di
qualche altro nel crocchio del Senatore; laonde mi  parve  utile  tentare  anche
questo mezzo. - Giulio, tu  almeno  sei  cristiano!  -  ripresi  dopo  un  breve
silenzio. - Puoi dunque chieder conforto a Dio e rassegnarti. - Sí, infatti  son
cristiano! - mi rispose egli - e mi rassegno, e ne do prova  bastevole  col  non
ammazzarmi. - No; dicon che non basta; bisogna seguitare la pratica delle  altre
virtù cristiane, oltre la rassegnazione; bisogna essere caritatevoli agli  altri
ed a sé. - Lo sono fin troppo; non ho ancora schiaffeggiato lei, non ho sbranato
quel nobile liscio e cialtrone che  mi  opprime  colla  sua  arroganza!  Ti  par
poco?... - Bada, Giulio, che la passione ti  fa  essere  parziale  verso  te  ed
ingiusto verso gli  altri.  La  Pisana  è  colpevole,  ma  il  Venchieredo,  per
quanto... - Non parlarmi di lui!... Per pietà non parlarmi  di  lui,  perché  mi
dimentico alle volte perfino i comandamenti di Dio!... - Or dunque ti parlerò di
me: vedi se la passione ti accieca sui tuoi doveri? Poco fa dovevi  ringraziarmi
e mi hai insultato!... - Ti ho insultato perché infatti tutto il tuo contegno di
questa sera mi  sembra  ancora  molto  bizzarro;  ma  ora  voglio  crederti;  ti
ringrazio delle buone intenzioni. Sei contento? - Sarei piú contento se  volessi
aiutarti de' miei consigli per vivere meno infelice! -  Mi  aiuterò  invece  de'
miei per morire. Son cristiano, credo al paradiso, e tutto sarà  finito.  Dubito
peraltro di poter morire perdonando!.. Oh sí, ne dubito assai;  ma  la  malattia
sarà lunga, mi fiaccherà, e sarò convertito se non da altro dalla debolezza. Dio
voglia passarmela buona!... - No, per carità, Giulio, non finire di  avvelenarti
con questi tetri pensieri!... - Vedi anzi che ora son calmo, che sto meglio, che
mi par di esser guarito. Hai fatto benissimo a farmi risovvenire di Dio.  Questa
notte, scommetto che dormirò, e sí che da due mesi non godo una  tanta  ventura.
Ho piacere di doverla a te: guarda se sono ingiusto ora!... Mi  perdoni,  non  è
vero, Carlo? Io gli buttai le braccia al collo; quelle sue ultime parole, benché
intinte ancora di qualche amarezza, mi toccarono il cuore piú che le  smanie  di
prima. Sentii il suo cuore battere sul mio precipitosamente,  come  quello  d'un
viaggiatore che ha fretta d'arrivare; baciai quel suo  volto  scarno,  e  madido
tutto d'un sudore gelato; indi lo vidi entrare in casa, lo udii  tossire  a  piú
riprese nel montar le scale e mi tolsi di là col malcontento di chi ha fatto una
buona azione ma pur troppo inutile. Il giorno seguente me n'andai a Fratta prima
dell'alba, giacché tutta la notte non avea fatto altro che  volgere  in  capo  i
disegni piú  strani  e  le  speranze  piú  inverosimili.  Stetti  molte  ore  in
cancelleria a  ravviare  le  faccende  d'uffizio,  coll'aiuto  di  quel  vecchio
sornione di Fulgenzio; riverii poscia il Conte e Monsignore, questo  sempre  piú
morbido  e  paffuto,  quello  incartocciato   come   una   vecchia   cartapecora
abbrustolita sulla bragiera. Ma mi tardava l'ora di sbrigarmi per  parlare  alla
Pisana, e finalmente fui libero e la trovai che la scendeva dalla  camera  della
nonna per andare a pigliar fresco nell'orto. La Faustina e la  signora  Veronica
che le stavano  alle  coste  scantonarono  in  cucina  ghignando  fra  loro  per
lasciarla sola con me. Io mi sentii rivoltare lo stomaco e seguii  la  fanciulla
con un'occhiata lunga e pietosa. - Finalmente ti si  vede!  -  mi  diss'ella  la
prima. - Come finalmente? - risposi io - ci siam veduti e salutati mi pare anche
iersera. - Iersera sí! ma non eravamo  soli,  e  la  gente,  a  dirti  il  vero,
comincia a darmi soggezione. - Hai ragione,  iersera  non  eravamo  soli:  c'era
molta gente;  fra  gli  altri  Raimondo  Venchieredo  e  Giulio  Del  Ponte.  Io
introdussi questi due nomi per giungere al discorso che  voleva  intavolare  con
lei, ma ella ci odorò all'incontro un grano di gelosia, e credo che me ne  seppe
buon grado. - Il signor Giulio Del Ponte - soggiunse ella - e il signor Raimondo
di Venchieredo non mi fanno adesso né caldo né freddo; peraltro  sono  anch'essi
gente come gli altri, e non mi ci trovo piú di fare spettacolo pubblicamente de'
miei sentimenti. - Questo sarebbe  un  gran  bene,  Pisana;  ma  col  fatto  non
mantieni la promessa. Ieri per esempio mi pare che i tuoi sentimenti pel  signor
Raimondo fossero abbastanza chiaramente espressi, e che Giulio li comprendesse a
meraviglia. - Oh non mi secchi piú il signor Giulio! ho  anche  troppo  fatto  e
sofferto per lui! - Dici davvero? hai sofferto per lui? -  Figurati!...  io  gli
voleva un po' di bene ed egli se ne ingalluzzí tanto che s'era, credo, messo  in
capo di sposarmi. Ma già sai  come  la  sentano  i  miei  su  questo  tasto  del
matrimonio. Sarebbe stata una replica di quella brutta commedia di  Clara  e  di
Lucilio; io ho dovuto metter giudizio anche per lui, gli  ho  parlato  fuor  dei
denti, e per ridurlo meglio a ragione  ho  preso  a  far  meno  la  ritrosa  con
Raimondo. Lo crederesti che al signor  Giulio  non  andò  a  sangue  questa  mia
ragionevolezza, egli che se mi voleva bene  doveva  appunto  incoraggiarmivi?...
Cominciò a far il patito il geloso e ti confesso che, in onta a tutto, mi faceva
anche compassione; ma cosa doveva fare? seguitare ad ingannarlo e a  menarlo  di
palo in frasca?... Fu meglio come ho pensato io, tagliar il male alla radice; la
ruppi affatto con lui, e buona notte. Allora fu che si mise sotto  Raimondo  sul
serio, e questo, ti dico la verità, mi conveniva come marito; ma mentre  appunto
che si bisbigliava da tutti d'una prossima domanda formale da  parte  sua,  ecco
capitarmi addosso Del Ponte cogli occhi fuori della testa, e a  gridare  che  se
avessi sposato Raimondo, si sarebbe ammazzato, e che so io altro! Io  forse  fui
troppo credula troppo buona, ma cosa vuoi? non  ci  penso  troppo  alle  cose  e
questo è il mio difetto, tantoché per consolarlo per quietarlo e piú ancora  per
liberarmene gli promisi che non avrei sposato Raimondo. E da ciò provenne che lo
rifiutai, benché, ti giuro, egli  mi  piacesse,  e  sentissi  di  fare  un  gran
sacrifizio!... Questa è amicizia, mi  pare!  cosa  doveva  fare  di  piú?  -  Oh
diavolo! - soggiunsi io - Giulio non mi ha detto nulla di ciò! -  Come,  tu  gli
hai parlato a Giulio? - sclamò la Pisana. - Sí, gli ho parlato ieri sera, perché
mi faceva compassione la sua cera desolata per la  brutta  maniera  con  cui  lo
trattavi. - Io trattarlo con brutta maniera? - Caspita! non gli hai rivolto  mai
neppur un'occhiata!  -  Oh  bella!  dovrebbe  anche  ringraziarmene!  Se  avessi
continuato a lusingarlo, avrebbe finito  col  disperarsi  piú  tardi;  meglio  è
separarsi da buoni amici ora, finché il male è sanabile.  -  Sembra  che  questo
male non sia tanto sanabile come tu credi. Forse tu non  ci  badi,  ma  egli  ne
soffre all'anima di vederti incapricciata del Venchieredo e noncurante  di  lui.
La sua salute peggiora di giorno in giorno, ed  io  credo  che  la  passione  lo
consumi. - Cosa dunque mi consiglieresti  di  fare?  -  Eh!...  il  consiglio  è
difficile; ma pur mi sembra che, giacché  hai  promesso  di  non  maritarti  col
Venchieredo, dovresti romperla addirittura anche con questo. -  Per  rappiccarla
con Giulio? - m'interruppe malignamente la Pisana. - Anche; se senti proprio  di
volergli bene - risposi io con uno sforzo violento sopra me stesso. - Ma ad ogni
modo, separata che ti fossi da Raimondo, egli si affliggerebbe meno,  e  chi  sa
che anche senza il rimedio dell'amor tuo non giunga  a  guarire.  La  Pisana  si
raddrizzò accomodandosi i capelli sulle tempie e sorridendo  accortamente.  Ella
credette che tutta quella mia manovra non tendesse ad altro che  a  liberare  il
campo da ambidue i pretendenti a mio  totale  benefizio.  -  Si  potrà  provare,
purché tu mi aiuti - ella soggiunse. - Non  so  in  che  possa  aiutarti:  -  le
risposi - ieri sera anche senza di me facevi benissimo i tuoi  soliti  vezzi  al
Venchieredo: e non hai mostrato di accorgerti che io fossi tornato da Padova  se
non al mio entrar nella sala, per un lieve saluto.  -  Oh  bella!  e  se  avessi
voluto vendicarmi della tua stessa freddezza? - Via,  via  bugiarda!  E  l'altra
sera di che ti vendicavi dunque? Credi che io non sappia da  quanto  tempo  dura
questa tua scalmana per Raimondo! - Ma se ti ripeto che tutto era per distoglier
Giulio! Vorresti che avessi il coraggio di dargli un rifiuto se mi piacesse  sul
serio? - Vedi, come fai smacco alla tua stessa virtù?... Ti vantavi pure poco fa
del tuo rifiuto come di un gran sacrifizio! La fanciulla restò attonita  confusa
e stizzita. Era la prima volta che le sue lusinghe non  mi  trovavano  pronto  a
farmi corbellare; e questo appunto la spronò a insistervi perché non  era  donna
da ritrarsi da nessuna cosa senza prima averla spuntata. In fatto, fosse  merito
della mia presenza, della predica, o della sua bontà; il fatto sta  che  il  suo
bollore per Raimondo si sfreddò tutto d'un colpo, e il  povero  Giulio  si  vide
onorato da alcuni di quegli sguardi che tanto piú sembrano cari quando  sono  da
lunga pezza insoliti. In fondo in fondo, peraltro, ella non dedicava a  lui  che
la parte d'attenzione che gli veniva come  persona  della  conversazione;  e  le
premure della donzella tornavano a poco  a  poco  a  concentrarsi  in  me.  Andò
tant'oltre questa mia fortuna che ne fui turbato e sconvolto. A  Fratta,  vicino
alla Pisana, ammaliato dalle sue occhiate, dalla sua bellezza, infiammato  dalle
sue parole, rade, bizzarre, ma talvolta sublimi  e  tal'altra  perfin  pazze  di
delirio d'amore, io dimenticava tutto, io riprendeva la servitù d'una volta, era
tutto per lei. Ma a Portogruaro mi si rizzava dinanzi come una larva  la  faccia
cadaverica e beffarda di Giulio: io aveva  paura,  rabbia,  rimorso;  mi  pareva
ch'egli avesse diritto di chiamarmi amico sleale e traditore  e  che  la  Pisana
avesse fiutato meglio  di  me  la  innata  viltà  del  mio  cuore  quando  aveva
sospettato che non pel bene di  Giulio  ma  pel  mio  io  cercassi  distoglierla
affatto dal Venchieredo. Eppure quella sete inesauribile, quel  diritto  che  ci
sembra avere a un'ombra almeno di felicità, combatteva sovente cotesti scrupoli.
Quando mai era io stato l'amico di Giulio? Non era anzi egli stato  il  primo  a
romper guerra con me, rubandomi l'affetto della Pisana, o almeno  attirandone  a
sé la parte piú fervida e bramata? Qual amante sfortunato non ha aperto  l'adito
alla rivincita e non se ne giova? E poi non aveva io adoperato verso di lui  con
ottime intenzioni? Se queste intenzioni in mano della fortuna le  avean  servito
per favorir me, doveva io confessarmi colpevole;  o  non  piuttosto  approfittar
della mia  ventura,  giacché  me  ne  cadeva  il  destro?  -  La  coscienza  non
s'acquetava a questi argomenti. "È vero", rispondeva,  "è  vero  che  non  vi  è
ragione alcuna per cui tu debba essere l'amico di Giulio;  ma  quante  cose  non
accadono senza apparente ragione? La stima,  la  somiglianza  delle  indoli,  la
compassione, la simpatia generano l'amicizia. Il fatto sta  che  per  quanto  tu
dovessi odiar Giulio, appena arrivato da Venezia, la sua miseria i suoi tormenti
te lo hanno fatto amare; gli dimostrasti affetto d'amico; tanto basta perché  tu
debba allontanare perfino il solo dubbio  che  le  tue  profferte  d'allora  non
fossero sincere. Hai avuto rimorso del suo smarrimento per conto della Pisana, e
non vuoi averlo per  te?...  Vergogna!  Impari  le  sofisticherie  dell'avvocato
Ormenta e a non essere galantuomo colla pretesa di parerlo. Volevi che la Pisana
sacrificasse il Venchieredo per la salute di Giulio, or dunque adesso  sacrifica
te, o ti dichiaro un codardo!". Quest'ultima intemerata  della  mia  padrona  mi
persuase. A  poco  a  poco  con  mille  accorgimenti,  con  mille  sforzi  tutti
premeditati e dolorosi, mi ritirai dalla Pisana. Ella invece si apprendeva a  me
coll'umiltà del cagnolino cacciato; ma quella sentenza di codardia mi minacciava
sempre nel cuore; io soffocava i miei  sospiri,  nascondeva  i  miei  desiderii,
divorava le lagrime, e cercava lungi da lei  la  solitudine  e  l'innocenza  del
dolore. Tanto feci che,  fosse  consapevole  assentimento  a'  miei  disegni,  o
riscossa d'orgoglio, od altro, ella cessò dal perseguitarmi; e allora toccò a me
tornarmi a dolere di quella freddezza,  provocata  con  tanta  arte,  con  tanta
costanza. Il giovine Venchieredo, per poco geloso di me, si rallegrò in breve di
non vedermi piú in casa Frumier e di sapermi trascurato. Ma argomentava male  di
credersi destinato a raccoglier di nuovo i frutti del mio abbandono.  La  Pisana
non badava per allora né a lui né ad altri, o se  mostrava  qualche  preferenza,
l'era piuttosto a favore di  Giulio  Del  Ponte.  Questi  accoglieva  quei  rari
contrassegni di benevolenza, come il calice del fiore riceve avidamente dopo  un
mese d'arsura qualche goccia di rugiada. Se ne ravvivava tutto, e  a  ravvivarlo
meglio contribuiva il credere che non al mio sacrifizio né alla generosità della
Pisana, ma alla propria virtù si dovesse quel  rilievo  d'amore.  Ciò  io  aveva
temuto e sperato insieme. Il tumulto che si rimescola nell'animo  all'azzuffarsi
della pietà della gelosia dell'amore e dell'orgoglio, non può essere  dichiarato
cosí facilmente; figuratevi di esser nel caso, se potete, e vi saranno chiare le
continue contraddizioni dell'animo mio.  Raimondo  intanto,  frodato  della  sua
lusinga, non disperava per nulla di  soperchiare  un  nemico  cosí  malconcio  e
avvantaggiato di poco com'era il Del Ponte. Ma  la  sicurezza  ch'egli  mostrava
sull'esito di quel duello,  allontanava  da  lui  piucchealtro  il  cuore  della
Pisana. Le donne son come quei generali cui preme piú l'onore della bandiera che
la vittoria;  accondiscendono  a  capitolare,  ma  vogliono  esser  cinti  dalle
parallele e minacciati dalle  bombe.  Un'intimazione  alla  bella  prima,  senza
apparecchi militari e senza avvisaglie, non la si fa che alle fortezze  di  poco
conto; e non v'è figliuola d'Eva cosí spudorata da  confessare  di  esser  tale.
Raimondo, respinto colle belle parole, tornò all'assalto coi regali.  La  Pisana
era piú orgogliosa che delicata e accettò coraggiosamente i regali  senza  quasi
domandare da chi le venissero. Passeggiera contentezza  per  Raimondo,  e  nuova
bile per me. Ma dopo tutto, la segreta soddisfazione d'una buona opera mi teneva
il cuore in una calma triste e monotona bensí, ma non priva di qualche  diletto.
Adoperava anche possibilmente di metter in pratica una delle  massime  ereditate
da Martino, di dimenticare cioè i piaceri venutimi dall'alto, e di  cercarli  al
basso fra i semplici e gli umili.  A  questo  mi  erano  continua  occasione  le
faccende di cancelleria. Ho la vanagloria di credere che dal tempo dei Romani in
poi la giustizia non fosse amministrata  nella  giurisdizione  di  Fratta  colla
rettitudine e colla premura da me adoperata. Un briciolo di cuore,  qualche  po'
di studio e di ponderazione aiutata da  un  discreto  buon  senso  mi  dettavano
sentenze tali che la firma del Conte era onorata di potervi fare in calce la sua
comparsa. Tutti portavano a cielo la pazienza, la bontà, la giustizia del signor
Vice-cancelliere:  la  pazienza  soprattutto,  che  è  altrettanto  rara  quanto
necessaria in un giudice di campagna. Ho veduto alle  volte  taluno  fra  questi
arrovellarsi infuriare tempestare pel tardo ingegno delle parti; andar coi pugni
al muso dell'attore, minacciar bastonate al reo convenuto, e pretendere da  essi
quella moderazione quella chiaroveggenza quel riserbo che son  frutto  solamente
di una lunga educazione. Appetto ai ragionamenti bisogna ficcarsi  in  capo  che
gli ignoranti son come i  bambini;  bisogna  perciò  usare  la  logica  lenta  e
minuziosa  d'un  maestrucolo  elementare,  non   la   retorica   sommaria   d'un
professorone d'Università. La giustizia vuol essere largita, ma non  imposta;  e
convien mantenerle la sua fama, il suo decoro di  giustizia  colla  persuasione,
non darle colore di arbitrio coi rabbuffi e coll'arroganza. Finché non  si  muti
il galateo dei tribunali foresi, i codici alla gente di  campagna  parranno  non
differenti per nulla dalle antiche sibille. Sentenziavano perché di  sí,  e  chi
aveva ragione non ci capiva meglio di quello cui si dava  torto.  Avvezzo  dalla
culla a vivere fra gente rozza e ignorante, io non durai fatica  a  vestirmi  di
questa tolleranza; anzi la mi venne di suo piede,  perché  non  si  potea  farne
senza. E il mio esempio fu efficace anche  sugli  uomini  di  Comune  incaricati
della giustizia piú minuta; sicché non si udirono piú tanti  lagni  per  la  tal
trascuranza a favore di questo, o per la tal rappresaglia a  carico  di  quello.
L'Andreini, il vecchio, era morto poco prima del Cancelliere; e suo  figlio  che
gli era succeduto non fu restio a secondare il mio zelo pel buon andamento delle
cose giurisdizionali. Il Cappellano era al  colmo  della  consolazione;  non  lo
inquietavano piú per la sua amicizia collo  Spaccafumo;  e  purché  costui,  che
cominciava a darsi all'ubbriachezza, non turbasse la pace  festiva  con  qualche
baruffa, era in facoltà di far  visita  cui  piú  gli  piacesse.  Il  bando  era
scaduto, la sua vita, è vero, non somigliava a quella di tutti; ma non si  potea
parlar male, e ciò bastava perché io non lo angariassi senza costrutto.  Qualche
inverno prima, per un mal di petto ribelle, gli era mancata la  Martinella,  che
solea provvederlo di sale di polenta e  delle  derrate  piú  necessarie.  Allora
dunque egli usciva piú spesso dalle lagune per provvedersele da sé; ma del resto
non se ne sapea nulla a viveva  come  un'ostrica  in  mezzo  alle  ostriche.  Il
Cappellano mi disse ch'egli si ricordava di quella sera quando mi avea recato in
groppa fin vicino al castello, e che se ne lodava sempre per la  buona  riuscita
che avea fatto e pei grandi diritti che aveva alla gratitudine  del  Comune.  Le
lodi dello Spaccafumo mi lusingavano non poco: quelle poi del vecchio piovano di
Teglio mi mandavano in estasi. Ed  egli  me  le  decretava  con  un  certo  fare
autorevole e moderato, come chi ha facoltà di darle e  di  negarle;  e  poi  non
convien tacere che le glorie del discepolo riverberavano in  volto  al  maestro.
Per lui io rimasi sempre lo scolaretto dalle orecchie spenzolate, e il latinante
da quattro sgrammaticature al periodo. Perfino Marchetto ci trovava il suo conto
della mia amministrazione, perché la sua pancia cominciava  a  brontolare  delle
troppo lunghe cavalcate, ed io glielo sparagnava coi spessissimi componimenti. I
faccendieri e Fulgenzio mio aiutante brontolavano; perché le  liti  degli  altri
erano la loro pasqua,  ma  io  non  ci  badava  al  malumore  dei  tristi,  e  a
quest'ultimo sopratutto rivedeva le bucce assai di sovente perché si  ravvedesse
della sua vecchia usanza  di  farsi  pagar  a  doppio  le  proprie  fatiche  dal
giurisdicente e dalle parti. Giulio Del Ponte m'ebbe ad avvertire di non urtarmi
troppo con lui, perché colla sua umiltà e con la sua gobba aveva voce  di  esser
ben sentito da chi poteva molto.  Ed  io  ripensando  al  processo  del  vecchio
Venchieredo mi  capacitai  benissimo  di  questi  sospetti;  ma  il  mio  dovere
soprattutto; ed io avrei lavato il muso ai Serenissimi Inquisitori nonché ad una
loro sucida spia se li avessi colti in flagrante di disonorare il  mio  ufficio.
C'era del resto un altro personaggio che senza farne  le  viste  mi  mandava  di
cuore a tutti i diavoli; e questi era il fattore. La mia presenza, la mia  nuova
autorità avea sgominato certi suoi vecchi sotterfugi di mangerie e di rubamenti.
Io ne aveva  scoperto  la  trafila,  gliel'avea  perdonata,  ma  non  gli  avrei
perdonato in seguito; ed egli sel sapeva e sopportava la  mia  sorveglianza  con
discreto malumore. Il Conte del resto era felicissimo di risparmiar  il  salario
del Cancelliere; e non parlava né di farmi fare gli  esami  né  di  mettermi  in
posto regolarmente. Quelle condizioni di ripiego gli accomodavano assai.  Ed  io
tirava innanzi abbastanza contento delle benedizioni che mi  venivano  da  tutti
per la mia imparzialità, per la mia premura, sopratutto poi per  la  moderazione
nel riscuotere le tasse. Donato, il  figliuolo  dello  speziale,  e  il  mugnaio
Sandro, da antichi rivali che mi erano stati, divenuti allora miei  compagni  ed
amici, mi crescevano il favor della  gente  coi  loro  panegirici.  Insomma,  io
provava allora la verità di quella massima, che nello  zelante  adempimento  dei
proprii doveri si nasconde il segreto di dimenticare i dolori e di  vivere  meno
male che si può. La salute di Giulio Del  Ponte  che  pareva  ristabilirsi  ogni
giorno piú era la piú cara  ricompensa  che  m'avessi  dei  miei  sacrifizi.  Io
riguardava quel miracolo come opera mia, e mi sarà perdonato  se  fra  me  osava
insuperbire. Raimondo, stanco stanchissimo di veder la Pisana portare gli  abiti
donatigli da lui e affibbiarsi i suoi  spilloni  senza  tornar  per  nulla  alle
tenerezze  d'una  volta,  se  l'avea  svignata  pulitamente.  Giovandosi   delle
dissensioni che inacerbivano sempre piú in casa  Provedoni,  e  della  vecchiaia
omai quasi impotente del dottor Natalino, persuase egli Leopardo di accasarsi  a
Venchieredo  per  aiutarvi  il  suocero.  Il  buon  pastriccione,   sempre   piú
infinocchiato dalla Doretta, accondiscese; e cosí tutti dicevano che  il  signor
Raimondo era ben fortunato di abitar colla ganza sotto le stesse tegole. Il solo
marito non credeva a ciò; egli era innamorato e piú che innamorato servitore  di
sua moglie. Cosí le cose s'erano raccomodate o bene o  male  per  tutti;  ma  il
mondo non era solamente Fratta, e fuori di là i romori  i  guai  le  minacce  di
guerre e di rivoluzioni crescevano sempre. Le novelle di Venezia  si  chiedevano
ansiosamente, si commentavano, si storpiavano, si ingrandivano e  formavano  poi
il tema a burrascose contese dintorno al  focolare  del  castello.  Il  Capitano
provava, come due e due fanno quattro, che le paure erano  esagerate  e  che  la
Signoria avvisava saggiamente di ristare dai provvedimenti straordinari,  perché
i Francesi, anche con ogni buon vento in poppa, avrebbero dovuto  impiegare  tre
anni al passaggio delle Alpi, e altri quattro ad un avanzamento dalla Bormida al
Mincio. Numerava le linee di  difesa,  le  forze  dei  nemici,  i  capitani,  le
fortezze; insomma, secondo lui quella guerra o  sarebbe  finita  al  di  là  dei
monti, o al di qua sarebbe caduta in retaggio alla generazione seguente.  Giulio
Del Ponte e qualchedun altro che veniva  da  Portogruaro  non  erano  di  questo
parere; secondo loro i vantaggi degli  alleati  eran  ben  lungi  dall'assicurar
completamente la Repubblica contro le esorbitanze dei Francesi, e questi di lí a
due, di lí a tre mesi poteva benissimo darsi che avessero già invasi  gli  Stati
di terraferma, e lo stesso Friuli.  Il  Conte  e  Monsignore  rabbrividivano  di
queste previsioni; e toccava poi a me distruggere i  cattivi  effetti  di  tante
soverchie e precoci paure. Cosí barcheggiando si venne alla primavera  del  '95.
La Repubblica di Venezia avea già riconosciuto  solennemente  il  nuovo  governo
democratico di Francia; il suo rappresentante  Alvise  Querini  aveva  fatto  al
Direttorio la sua chiacchierata, e a saldare la recente amicizia s'era anzi dato
lo sfratto da  Verona  al  Conte  di  Provenza.  Il  Capitano  diceva:  -  Fanno
benissimo. Pazienza ci vuole e non por mano subito  alla  borsa  e  alla  spada.
Vedete? le cose si vanno già  raffreddando  laggiù!  Quelli  che  ammazzavano  i
preti, i frati ed i nobili, l'hanno finita anch'essi sul patibolo: la crisi  può
dirsi nel decrescere, e la Repubblica se l'è cavata senza esporre a pericolo  la
vita d'un uomo. - Rispondeva Giulio: - Fanno malissimo; ci  metteranno  i  piedi
sul collo; si tace ora per gridar piú forte di  qui  a  poco.  Ora  che  ci  par
d'essere avvezzi al pericolo, e pericolo non c'è, verrà il pericolo  vero  e  ci
troverà assopiti e sprovveduti. Dio ce la mandi buona, ma  alla  meglio  non  ci
faremo la miglior figura! - Io mi accostava all'opinione di  Giulio,  tanto  piú
che Lucilio mi avea scritto da Venezia che sperassi bene, ché mai la  sorte  del
mio amico non era stata piú vicina a un propizio rivolgimento. Ma la sua invece,
la sorte del povero dottorino, subí a que' giorni un grave tracollo. La Clara fu
relegata finalmente al convento di Santa Teresa; e a Fratta se n'ebbe la novella
quando la Contessa scrisse perché le mandassero i danari della dote: ella diceva
di essersi intanto impegnata con un usuraio, ma che non si voleva  udir  parlare
di termini troppo lunghi con quei torbidi che c'erano allora. Il  Conte  sospirò
molto e molto; ma raccolse anco una volta i danari richiesti, e  li  mandò  alla
moglie. Io mi accorgeva pur troppo che la famiglia correva alla rovina, e  dovea
limitarmi a stagnare qualche goccia della botte, lasciando poi che  lo  spillone
gettasse a piena gola, perché da quel lato non potea rimediare. Al Conte non  mi
arrischiava, al Canonico era inutile, al fattore dannoso il mover parola:  e  la
Pisana, cui ne accennai qualche volta, mi rispondeva squassando le  spalle,  che
alla mamma non si potea comandare, che le cose erano sempre ite cosí, e che  già
lei non se ne dava fastidio, ché avrebbe vissuto in una maniera o nell'altra. La
tristarella  pareva  essersi  corretta  di  molto  dalle  sue  bizzarrie.  Senza
mostrarsi né adirata né contenta del mio  riserbo,  mi  trattava  con  bastevole
confidenza; e a Giulio poi faceva sempre buon viso, benché si  vedesse  che  non
era nella solita smania de' suoi innamoramenti. La maggior parte della  giornata
la passava in camera della nonna, e pareva si fosse  preso  l'assunto  di  farle
dimenticare la lontananza della sorella maggiore; ma  la  povera  vecchia,  omai
affatto imbecillita, non era neppure piú in grado di  esserle  riconoscente  de'
suoi sacrifizi. Questi non diventavano perciò che piú meritori. Quando la  nuova
del noviziato della  Clara  fu  sparsa  nei  dintorni,  capitò  in  castello  il
Partistagno che non vi si era piú fatto vedere dopo l'esito tragico-comico della
domanda solenne. Egli urlò strepitò  e  sragionò  molto;  spaventò  il  Conte  e
Monsignore, e partí dichiarando che andava a Venezia a  chieder  giustizia  e  a
liberare una nobile donzella dall'inconcepibile tirannia della sua famiglia.  Il
tempo trascorso lo avea persuaso sempre piú del valore irresistibile de' proprii
meriti, e contro tutte le ragioni  che  aveva  per  ritenere  il  contrario,  si
ostinava a credere che la Clara fosse innamorata di lui, e che  i  suoi  parenti
non gliela volessero concedere per qualche causa misteriosa ch'egli si proponeva
di svelare in seguito. Infatti si udí poco dopo ch'egli avea levato il campo  da
Lugugnana per trasportarlo a Venezia; e da Fratta si affrettavano a dar  di  ciò
contezza a Venezia; ma non essendo venuti di colà ulteriori ragguagli,  si  finí
coll'acquietarsi nella fiducia che il grande sussurro  del  Partistagno  dovesse
svamparsi in chiacchiere. Frattanto quello  ch'io  già  prevedeva  da  un  pezzo
avvenne pur troppo. La salute del signor Conte  andava  scadendo  di  giorno  in
giorno: e alla fine ammalò gravemente e  prima  che  si  potesse  prevenirne  la
Contessa del  pericolo,  egli  spirò  senza  accorgersene  fra  le  braccia  del
Cappellano, di monsignor Orlando e della Pisana. Il dottore Sperandio gli  aveva
cavato ottanta libbre di sangue, e recitò poi un numero straordinario  di  testi
latini per provare che quella morte era avvenuta per  legge  di  natura.  Ma  il
defunto, se avesse potuto buttar un'occhiata fuori della cassa, sarebbe  rimasto
quasi contento di esser morto tanta fu la pompa del funerale. Monsignor  Orlando
pianse con moderazione e cantò egli stesso l'ufficio d'esequie con voce  un  po'
piú nasale del solito. La Pisana se ne disperò ai primi  giorni  piú  ch'io  non
avessi creduto possibile: ma poi tutto ad un tratto ne parve smemorata. E quando
vennero i Frumier a prenderla e ad avvertirla che la volontà  di  sua  madre  la
richiamava a Venezia, parve che tutto dimenticasse per la grandissima  gioia  di
cambiar la noia di Fratta coi divertimenti della capitale. Ella  partí  quindici
giorni dopo; e  soltanto  nell'accomiatarsi  parve  che  il  dolore  di  doversi
separare da me soverchiasse la contentezza di correre a una vita nuova piena  di
splendide lusinghe. Io le fui grato di quel dolore, e dell'averlo essa  lasciato
travedere senza alcuna superbia. Conobbi ancora una volta che il suo  cuore  non
era cattivo; mi rassegnai e  rimasi.  La  mia  presenza  a  Fratta  era  proprio
necessaria. Narrare la confusione che vi avvenne dopo la morte del Conte sarebbe
discorso troppo lungo. Usurai, creditori, rivendicatori calavano da ogni  parte.
I beni messi all'asta, le derrate sequestrate, i livelli ipotecati: fu  un  vero
saccheggio. Il fattore se la svignò dopo aver abbruciati i registri;  restai  io
solo, povero pulcino, ad arrabattarmi in  quella  matassa.  Per  soprassello  le
istruzioni mi mancavano affatto e da Venezia capitavano  solamente  continue  ed
affamate richieste di danaro. I Frumier mi erano di pochissimo aiuto; e  poi  il
padre Pendola credo ci soffiasse sotto contro di  me,  e  mi  guardavano  allora
piuttosto in cagnesco. Io peraltro risolsi di rispondere coi fatti:  e  sudai  e
lavorai e n'adoperai tanto, sempre col pensiero in testa di giovare alla  Pisana
e di esser utile a chi bene o male mi aveva  allevato,  che  quando  il  contino
Rinaldo capitò a prender le redini del governo,  gli  ottomila  ducati  di  dote
delle Contessine erano assicurati, i creditori pagati o  acchetati,  le  entrate
correvano libere, e i poderi, diminuiti di qualche appezzamento in qua ed in là,
continuavano a formare un bel patrimonio. I guasti c'erano ancora purtroppo,  ma
di tal natura che davano tempo ad esser sanati. Peraltro io non fui  l'ultimo  a
credere che per tal operazione un signorino di  ventiquattr'anni  uscito  allora
allora di collegio (la Contessa ve lo avrebbe lasciato fino a  trenta  senza  la
morte del marito) non era l'uomo piú adatto. Basta! non sapeva che farci,  e  mi
proposi  solamente  di  tenerlo  d'occhio  per  potergli  giovare  con   qualche
consiglio. Del resto mi ritirai nella cancelleria ove, sostenuti i  miei  esami,
diventai poco dopo cancelliere in formis. Giulio  Del  Ponte,  non  potendo  piú
reggere al tormento della lontananza, avea  seguito  la  Pisana  a  Venezia.  Io
rimasi solo soletto a consolarmi del bene che aveva fatto, a farne ancora quando
poteva, a vivere di memorie, a sperar di meglio dal futuro, e a leggere di tanto
in tanto i ricordi di Martino. Quella vita, se non felice, era tranquilla  utile
occupata. Io aveva la virtù di contentarmene.


CAPITOLO DECIMO

Carlino cancelliere, ovvero l'Età dell'Oro. Come  al  principiare  del  1796  si
giudicasse al castello di Fratta il general Bonaparte. La Repubblica democratica
a Portogruaro e al castello di Fratta. Mio mirabile dialogo col Gran Liberatore.
Ho finalmente la certezza che mio padre non è né morto  né  turco.  La  Contessa
m'invita da parte sua a raggiungerlo a Venezia.

Il conte Rinaldo era un giovine studioso e concentrato che  si  dava  pochissima
cura delle cose proprie e meno ancora di spassarsi come voleva la sua età.  Egli
rimaneva a lungo rinchiuso nella sua camera; e con me in particolare non parlava
quasi mai. Gli è vero che col Capitano e colla signora Veronica  io  partecipava
tuttavia all'onore della sua mensa;  ma  egli  mangiava  poco  e  parlava  meno.
Salutava nell'entrare e nell'uscire lo zio monsignore e tutto  si  riduceva  lí.
Peraltro manieroso affabile giusto all'occorrenza; io non ebbi a lagnarmi di lui
per cosa alcuna, e ascriveva quella sua salvatichezza o a  malattia  o  a  paura
d'un qualche vizio organico; infatti l'era d'una tinta piuttosto infelice,  come
di coloro che patiscono nel fegato. Io del resto menava i miei giorni l'uno dopo
l'altro sempre tranquilli sempre uguali come  i  grani  d'un  rosario.  Di  rado
andava a Portogruaro a visitare i Frumier per paura del padre  Pendola,  massime
dappoiché  la  diocesi  avea  cominciato  a  mormorare  della   sua   mascherata
prepotenza, e la Curia e il Capitolo e il Vescovo stesso a risentirsi dell'esser
menati dolcemente pel naso. L'ottimo padre pativa le gran convulsioni, ed io non
voleva assistere  a  sí  doloroso  spettacolo.  Piuttosto  praticava  sovente  a
Cordovado in casa Provedoni, ove avea stretto grande amicizia coi giovani; e  la
Bradamante e l'Aquilina incalorivano la conversazione con quella donnesca  magia
che ne fa noi uomini esser doppiamente vivi, doppiamente lesti e giocondi quando
ci troviamo insieme a donne. Per me almeno fu sempre cosí;  fuori  dei  colloqui
obbligati a un  prefisso  argomento,  quello  che  si  chiama  proprio  il  vero
spontaneo brioso  chiacchierio  non  ho  mai  potuto  farmelo  venire  in  bocca
trattenendomi con uomini; fossero anche amici, piú naturalmente taceva se avessi
nulla a dire di nuovo o d'importante, sicché avrò anche fatto le mille volte  la
figura dello stupido. Ma fosse venuta a mettercisi di mezzo una donna! subito si
aprivano le rosee porte della fantasia, e gli usci  segreti  dei  sentimenti,  e
immagini e pensieri, e confidenze scherzose le correvano incontro ridendo,  come
ad una buona amica. Notate però  ch'io  non  ebbi  mai  una  eccessiva  facilità
d'innamorarmi; e non dirò  che  tutte  le  donne  mi  facessero  questo  effetto
lusinghiero, ma lo provai da parecchie né  giovani  né  belle.  Bastava  che  un
raggio di bontà o un barlume ideale splendesse loro sul viso; il resto lo faceva
quella necessità che gli inferiori sentono di figurar bene dinanzi ai  superiori
per esserne favorevolmente giudicati. Le donne superiori a noi!  Sí,  fratellini
miei; consentite questa strana sentenza in bocca d'un vecchio che ne  ha  vedute
molte. Sono superiori a noi nella costanza  dei  sacrifizi,  nella  fede,  nella
rassegnazione; muoiono meglio di noi: ci son superiori insomma  nella  cosa  piú
importante, nella scienza pratica della vita, che, come  sapete,  è  un  correre
alla morte. Al di qua delle Alpi poi le donne ci son superiori anche perché  gli
uomini non ci fanno nulla senza  ispirarsi  da  loro:  un'occhiata  alla  nostra
storia alla nostra letteratura vi persuada se dico il vero.  E  questo  valga  a
lode e a conforto delle donne; ed anche a loro smacco in tutti quei  secoli  nei
quali succede nulla di buono. La colpa originale  è  di  esse  soltanto.  Se  ne
ravvedano a tempo, e l'Appennino mugolante partorirà non  piú  sorci,  ma  eroi.
Qualche volta mi spingeva fino  a  Venchieredo  a  trovar  Leopardo  sempre  piú
istupidito dalla tirannia e dalla frivolezza della  moglie.  Mi  ricorda  averlo
visto qualche domenica ai convegni vespertini intorno alla fontana. E  dire  che
là gli avea balenato per la prima volta il sorriso della felicità e  dell'amore!
Allora invece  l'andava  col  capo  chino  a  braccio  della  Doretta;  e  tutti
sogghignavano loro dietro; solito conforto dei mariti burlati. Ma  aveva  almeno
la fortuna di non accorgersi di nulla, tanto quella vipera di donna  gli  teneva
in servitù perfino l'intendimento. Oh!  colei  non  era  certamente  l'esemplare
d'una di quelle donne superiori a noi, che accennava poco fa! Guai se le femmina
traligna! È vecchio il proverbio; la  si  cangia  in  diavolo.  Raimondo  veniva
talvolta anche lui alla fontana. Se conversava  o  scherzava  colla  Doretta  lo
faceva senza alcun riserbo, e in modo quasi da mover lo stomaco; se poi  non  si
curava di lei per badare ad altre forosette o civettuole dei dintorni, allora la
sfacciata non si schivava dal perseguitarlo, sempre a rimorchio  del  marito.  E
dava in tali atti di malgarbo, di sdegno e di gelosia, che i  capi  ameni  delle
brigate ne facevano il gran baccano alle spalle del  buon  Leopardo.  Gli  altri
Provedoni, che si trovavano presenti a caso, scantonavano per  vergogna;  ed  io
stesso doveva allontanarmi perché la  vista  d'una  confidenza  sí  piena  e  sí
indegnamente tradita mi moveva la nausea. Pur troppo  peraltro  è  vero  che  lo
spettacolo delle sventure altrui è conforto alle nostre:  per  questo  avanzando
nella vita sembriamo indurirci alle percosse del dolore, ma non è per abitudine,
bensí perché l'occhio, allargandosi d'intorno, ci scopre ad ogni  momento  altri
infelici oppressi e bersagliati peggio di  noi.  La  compassione  dei  mali  che
vedeva, mi armava di pazienza per quelli che sentiva. La Pisana mi avea promesso
di scrivermi di tanto in tanto; io  l'avea  lasciata  promettere  e  sapeva  fin
d'allora quanto dovessi fidarmi alla sua parola.  Infatti  trascorsero  parecchi
mesi senza ch'io avessi sentore di lei, e soltanto  sul  cader  della  state  mi
pervenne una lettera strana assurda  scarabocchiata,  nella  quale  la  veemenza
dell'affetto e l'umiltà delle espressioni mi compensavano un poco della  passata
trascuranza. Ma sarebbe stato compenso per tutt'altri che per me.  Io  conosceva
quella testolina vulcanica; e sapeva che, sfogato quel suo impeto di  pentimento
e di tenerezza, sarebbe tornata per Dio  sa  quanto  tempo  all'indifferenza  di
prima. Alcuni versi di Dante mi  stavano  fitti  in  capo  come  tanti  coltelli
avvelenati:

... indi s'apprende quanto in femmina il foco d'amor dura se l'occhio o il tatto
spesso nol raccende.

Quel piccolo Dantino io l'avea pescato nel mare magnum di libracci di  zibaldoni
e di registri donde la Clara anni prima avea raccolto la sua piccola biblioteca.
E a lei quel  libricciuolo  roso  e  tarlato,  pieno  di  versi  misteriosi,  di
abbreviature piú misteriose ancora, e di immagini di dannati  e  di  diavoleria,
non avea messo nessunissima voglia. Io  invece,  che  l'avea  sentito  lodare  e
citare a Portogruaro ed a Padova piú o meno a sproposito, mi  parve  trovare  un
gran tesoro; e cominciai ad aguzzarvi entro i denti, e per la prima volta giunsi
fino al canto di Francesca che il diletto era minore d'assai della fatica. Ma in
quel punto cominciai ad innamorarmene. Piantai i piedi al muro,  lo  lessi  fino
alla fine; lo rilessi godendo di ciò che capiva allora e prima mi era parso  non
intelligibile. Insomma finii con venerare in Dante una specie di nume domestico;
e giurava tanto in suo nome, che perfino  quei  due  versi  citati  poco  fa  mi
sembravano articoli del credo. Notate che  allora  non  s'impazziva  ancora  pel
Trecento; e che né il Monti aveva scritto la Bassvilliana,  né  le  Visioni  del
Varano piacevano se non agli eruditi. Voi già vi beffate  di  me;  ma  vi  siete
accorti che questa  religione  dantesca,  creata  da  me  solo,  giovinetto  non
filologo, non erudito, io me la  reco  a  non  piccola  gloria.  E  avrete  anco
ragione. Ed io me ne glorio di piú ancora, giacché piú che i versi, piú  che  la
poesia, amava l'anima e il cuore di  Dante.  Quanto  alle  sue  passioni,  erano
grandi forti intellettuali e mi piacevano in ragione di  queste  qualità,  fatte
omai tanto rare. Tuttociò s'appicca poco  a  proposito  col  proverbio:  lontano
dagli occhi, lontano dal cuore; ma a Dante è piaciuto  applicar  quel  proverbio
alla fedeltà delle donne, ed io  ho  tirato  in  campo  lui,  ed  i  miei  studi
scervellati di sessant'anni fa, come le memorie mi venivano. Pur troppo  in  chi
racconta la propria vita s'hanno a compatire sovente di cotali  digressioni.  Io
poi per tirar innanzi ho  proprio  bisogno  della  vostra  generosità,  o  amici
lettori; ma su questo particolare delle  mie  glorie  letterarie  dovete  usarmi
indulgenza doppia, perché le meno e le rimeno, come si dice, appunto  perché  ne
conosco la pochezza. I nostri grandi  autori  li  ho  piuttosto  indovinati  che
compresi, piuttosto amati che studiati; e se ve la devo dire, la  maggior  parte
mi alligavano i denti. Sicuro che il difetto sarà stato mio; ma pur  mi  lusingo
che pel futuro anche chi scrive si ricorderà di esser solito a parlare, e che lo
scopo del parlare è appunto quello di farsi intendere. Farsi intendere da molti,
o non è forse meglio che farsi intendere da pochi? In  Francia  si  stampano  si
vendono e si leggono piú libri non per  altro  che  per  la  universalità  della
lingua e la chiarezza del discorso. Da noi abbiamo due o  tre  vocabolari,  e  i
dotti hanno costumi di appigliarsi al piú disusato. Quanto poi  alla  logica  la
adoperano come un trampolo a spiccare  continui  salti  d'ottava  e  di  decima.
Quelli che son soliti a salire gradino per gradino  restano  indietro  le  mezze
miglia, e perduto che hanno di vista la guida siedono comodamente ad  aspettarne
un'altra che forse non verrà mai. Animo dunque: non dico  male  di  nessuno:  ma
scrivendo, pensate che molti vi abbiano a leggere. E cosí  allora  si  vedrà  la
nostra  letteratura  porger  maggior  aiuto  che  non  abbia  dato   finora   al
rinnovamento nazionale.  E  la  lettera  della  Pisana  dove  l'ho  lasciata?  -
Fidatevi: sono un girellone ma dàlli dàlli alle  lunghe  ci  torno.  La  lettera
della Pisana l'ho ancora qui insieme alle altre nel cantero piú profondo del mio
scrittoio: e se ne avessi voglia potrei farvi  assaggiare  qualche  fioretto  di
lingua d'un gusto molto bizzarro; ma vi basterà sapere che la  mi  dava  notizia
della Clara sempre novizia in convento e un  po'  anche  di  Lucilio,  il  quale
faceva parlar molto di sé a Venezia col suo fanatismo pei Francesi.  Se  costoro
davano volta gli si pronosticava una brutta fine. Ma di  dar  volta  non  se  la
sognavano nemmeno, quegli invasati Francesi d'allora! La guerra contro  di  loro
s'era impiccolita: soltanto l'Austria e il Piemonte duravano in  campo;  e  cosí
ridotta essi la sostenevano con miglior animo e con maggiori speranze di  prima.
Peraltro non accaddero grandi novità fino all'inverno e allora, chi le  ebbe  se
le tenne; quello che doveva inventar la guerra d'ogni mese non aveva ancor fatto
capolino dalle Alpi, e le nevi intimarono il solito armistizio. Quell'inverno fu
il piú lungo e il piú tranquillo che passassi in  mia  vita.  Le  cure  del  mio
uffizio mi tenevano occupato assiduamente. Fuori di  quelle  il  pensiero  della
Pisana mi martellava sempre; ma  la  sua  lontananza  se  aggiungeva  melanconia
toglieva anche acerbità al mio cordoglio. Sempre  poi  trovava  qualche  ristoro
nell'idea di aver fatto il mio dovere. Giulio Del Ponte mi scrisse  un  paio  di
volte; lettere balzane e sibilline, vere lettere d'un innamorato  ad  un  amico.
Dalle quali comprendeva benissimo ch'egli non era felice  pienamente;  anzi  che
quella sua mezza felicità dell'ultimo anno s'era venuta a Venezia assottigliando
di molto, sia pel bizzarro umore della Pisana, sia pel crescere  dei  desiderii.
Quelle lettere pertanto mi angustiavano per lui, e per me quasi mi rallegravano.
Da una parte capiva che se fossi stato a Venezia anch'io,  non  ci  avrei  forse
goduto maggior  felicità  che  a  Fratta,  e  dall'altra,  credete  voi  che  le
contentezze d'un rivale, per quanto degno ed amico, ci diano in fondo  un  gusto
proprio sincero? - Non vedendo i patimenti di Giulio cosí davvicino, io era  piú
disposto a perdonarli a chi glieli infliggeva; non voglio darmi per un santo; la
cosa era proprio tal quale ve la confesso. Del  resto  nella  nostra  solitudine
nulla s'era cambiato. Il Contino  sempre  nella  sua  stanza;  la  Contessa  che
chiedeva denari con ogni corriere e la vecchia nonna  sempre  confitta  nel  suo
letto e affidata alla sorveglianza della  signora  Veronica  e  della  Faustina.
Intorno al camino erano rimasti il Capitano e monsignor Orlando  che  litigavano
ogni sera  per  accomodare  il  foco.  Ciascuno  volea  brandire  l'attizzatoio,
ciascuno voleva disporlo a proprio modo, e  finivano  col  bruciar  la  coda  al
vecchio Marocco che si  ricoverava  malcontento  sotto  il  secchiaio.  Ad  ogni
gazzetta vecchia  che  ci  capitasse,  il  Capitano  trionfava  di  vedere  quei
maledetti Francesi arenati fra gli Appennini e le Alpi. Non piú quattro, ma sei,
ed otto anni di tempo avrebbe lor dato per passarle. - Intanto - diceva  egli  -
si può far venire sul Mincio tutta armata la Schiavonia, e  mi  saprebbero  essi
dire come andrebbe il giuoco! Marchetto Fulgenzio e la cuoca, che soli formavano
l'uditorio, non avevano certo la pretesa di smantellare i bei castelli  in  aria
del Capitano; e il Cappellano, quando c'era, lo aiutava a fabbricarli colla  sua
credula ignoranza. Io poi dimenava il capo,  e  non  mi  ricordo  bene  cosa  ne
pensassi. Certo le opinioni  del  Capitano  non  dovevano  entrarmi  gran  fatto
appunto perché erano sue. Sul piú bello giunse  un  giorno  la  notizia  che  un
generale giovine e affatto nuovo dovea capitanare l'esercito francese dell'Alpi,
un certo Napoleone Bonaparte. - Napoleone! che razza di  nome  è?  -  chiese  il
Cappellano - certo costui sarà un qualche scismatico. - Sarà un di quei nomi che
vennero di moda da poco a Parigi - rispose il  Capitano.  -  Di  quei  nomi  che
somigliano a quelli del  signor  Antonio  Provedoni,  come  per  esempio  Bruto,
Alcibiade, Milziade, Cimone; tutti nomi di dannati che manderanno spero in tanta
malora coloro che li portano. -  Bonaparte!  Bonaparte!  -  mormorava  monsignor
Orlando. -  Sembrerebbe  quasi  un  cognome  dei  nostri!  -  Eh!  c'intendiamo!
Mascherate, mascherate, tutte mascherate! - soggiunse  il  Capitano.  -  Avranno
fatto per imbonir noi a buttar avanti quel cognome; oppure quei gran  generaloni
si vergognano di dover fare una sí trista figura e hanno preso un nome finto, un
nome che nessuno conosce perché la mala  voce  sia  per  lui.  È  cosí!  è  cosí
certamente. È una scappatoia della vergogna!... Napoleone  Bonaparte!...  Ci  si
sente entro l'artifizio  soltanto  a  pronunciarlo,  perché  già  niente  è  piú
difficile d'immaginar un nome ed un cognome che suonino  naturali.  Per  esempio
avessero detto Giorgio Sandracca, ovverosia Giacomo Andreini, o Carlo  Altoviti,
tutti nomi facili e di forma consueta:  non  signori,  sono  incappati  in  quel
Napoleone Bonaparte che fa  proprio  vedere  la  frode!  Si  decise  adunque  al
castello di Fratta che il generale Bonaparte  era  un  essere  immaginario,  una
copertina di qualche vecchio capitano  che  non  voleva  disonorarsi  in  guerre
disperate di vittoria, un nome vano immaginato dal Direttorio  a  lusinga  delle
orecchie italiane. Ma due mesi dopo quell'essere immaginario, dopo vinte quattro
battaglie, e costretto a chieder pace il  re  di  Sardegna,  entrava  in  Milano
applaudito festeggiato da quelli che  il  Botta  chiama  utopisti  italiani.  In
giugno, stretta Mantova d'assedio, aveva già in  sua  mano  la  sorte  di  tutta
Italia; dappertutto era un supplicar di alleanze, un chieder di tregue;  Venezia
ancor deliberante quando era tempo d'aver già  fatto,  s'appigliò  per  l'ultima
volta alla neutralità disarmata. Il  general  francese  se  ne  prevalse  a  sua
commodità. Scorrazzò invase taglieggiò provincie,  città,  castelli.  Ruppe  due
eserciti di Wurmser e d'Alvinzi sul Garda sul Brenta  sull'Adige;  un  terzo  di
Provera presso a Mantova e nel febbraio del '97 la fortezza si arrende. A Fratta
si dubitava ancora; ma a Venezia tremavano davvero; quasi quasi s'aveva udito  a
San Marco il tuonar dei cannoni; non era piú tempo da ciarle. Pur seguitavano  a
sperare e a credere che come eran vissuti, cosí sarebbero  scampati  per  sorte,
per accidente, secondo la celebre  espressione  del  doge  Renier.  La  Contessa
peraltro in mezzo a quei subbugli non si vedeva  tranquilla;  neppur  le  pareva
buon  partito  di  rifugiarsi  in  terraferma  quando  tutti  ne  partivano  per
ricoverarsi a Venezia. I Frumier vi erano già tornati con gran  rammarico  della
eletta società di Portogruaro; la Contessa adunque  scrisse  a  suo  figlio  che
avrebbe adoperato ottimamente di recarsi egli pure presso  di  lei,  giacché  un
uomo in famiglia era una gran malleveria; e  gli  raccomandava  di  portar  seco
quanto piú danaro poteva per ogni emergenza. Il conte Rinaldo giunse  a  Venezia
quando appunto la guerra  napoleonica  romoreggiava  alle  porte  del  Friuli  e
persuadeva al capitano Sandracca che il giovine general  còrso  non  era  né  un
essere ipotetico né un nome romanzesco inventato  dal  Direttorio.  Il  Capitano
tanto piú temette reale e presente il generale di Francia  quanto  piú  lo  avea
schernito lontano e imaginario. Tutto ad  un  tratto  si  sparge  la  nuova  che
l'arciduca Carlo scende al Tagliamento con un nuovo esercito, che i Francesi gli
vengono addosso, che sarà un massacro un saccheggio una  rovina  universale.  Le
case  rimanevano  abbandonate,  i  castelli   si   asserragliavano   contro   le
soperchierie degli sbandati e dei disertori;  si  sotterravano  i  tesori  delle
chiese; i preti si vestivano da contadini  o  fuggivano  nelle  lagune.  Già  da
Brescia da Verona da Bergamo le crudeltà, gli stupri, le violenze si  scrivevano
si lamentavano si esageravano; l'odio e  lo  spavento  s'alternavano  nell'ugual
misura, ma il secondo invigliacchiva il primo.  Tutti  fuggivano  senza  ritegno
senza pudore senza provvidenza di sé o della famiglia. Il Capitano e la  signora
Veronica scapparono credo a Lugugnana dove si nascosero presso un  pescatore  in
un isolotto della laguna. Monsignore non andò piú in là di Portogruaro perché il
digiuno lo spaventava piú ancora di Bonaparte.  Fulgenzio  e  i  suoi  figliuoli
erano scomparsi; Marchetto essendo malato s'era fatto trasportare  all'ospitale.
Ebbi un bel dire e un bel che fare  a  trattener  la  Faustina  che  non  la  mi
lasciasse solo  colla  vecchia  Contessa;  mi  restavano  poi  l'ortolano  e  il
castaldo, che non avendo forse nulla  da  perdere  non  s'affrettavano  tanto  a
mettersi in salvo. Ma cosí non poteva stare; tanto piú  che  i  birbaccioni  dei
dintorni assicurati dal comune spavento imbaldanzivano, e mettevano  a  ruba  or
questo or quello dei luoghi piú appartati  e  mal  difesi.  D'altronde  non  era
sicuro né dell'ortolano né del castaldo né meno che meno della Faustina; e  cosí
risolsi prima che il  pericolo  stringesse  maggiormente  di  far  una  corsa  a
Portogruaro a chiedervi  soccorso.  Sperava  che  il  Vice-capitano  mi  avrebbe
concesso una dozzina di quegli Schiavoni che capitavano tutti i giorni,  avviati
a Venezia, e che monsignor Orlando mi avrebbe procurato una donna, un'infermiera
da porre al letto di sua madre. Misi dunque la sella al  cavallo  di  Marchetto,
che poltriva nella scuderia da una settimana, e via di galoppo a Portogruaro. Le
notizie, signori miei, non avevano a quel tempo né vapori né telegrafi da far il
giro del mondo in un batter d'occhio. A Fratta poi  esse  giungevano  sull'asino
del mugnaio, o nella bisaccia del cursore; laonde non fu  meraviglia  se  appena
lontano tre miglia dal castello trovassi della gran novità. A Portogruaro era  a
dir poco un parapiglia del  diavolo;  sfaccendati  che  gridavano;  contadini  a
frotte che minacciavano; preti che persuadevano; birri che  scantonavano,  e  in
mezzo a tutto, al luogo del solito stendardo, un famoso albero della libertà, il
primo ch'io m'abbia veduto, e che non mi fece anche un grande  effetto  in  quei
momenti e in quel sito. Tuttavia era giovine, era stato a  Padova,  era  fuggito
alle arti del padre Pendola, non adorava per nulla  l'Inquisizione  di  Stato  e
quel vociare a piena gola come pareva e  piaceva,  mi  parve  di  botto  un  bel
progresso. - Mi persuadetti quasi  che  i  soliti  fannulloni  fossero  divenuti
uomini d'Atene e di Sparta, e cercava nella folla taluno  che  al  crocchio  del
Senatore soleva levar a cielo le legislazioni di Licurgo e di  Dracone.  Non  ne
vidi uno che l'era uno. Tutti quei gridatori erano gente nuova,  usciti  non  si
sapeva dove; gente a cui il giorno prima  si  avrebbe  litigato  il  diritto  di
ragionare e allora imponevano legge con  quattro  sberrettate  e  quattro  salti
intorno a un palo di legno. Balzava da terra se non  armata  certo  arrogante  e
presuntuosa una nuova potenza; lo spavento e la dappocaggine dei  caduti  faceva
la sua forza; era il trionfo del Dio ignoto, il baccanale dei liberti che  senza
saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù di diventar tali  io  non  lo
so; ma la coscienza di poterlo di doverlo essere era già qualche cosa.  Io  pure
dall'alto del mio cavalluccio mi diedi a strepitare con quanto  fiato  aveva  in
corpo; e certo fui giudicato un caporione del tumulto, perché tosto mi si radunò
intorno una calca scamiciata e frenetica che teneva bordone alle mie grida, e mi
accompagnava come in processione. Tanto può in  certi  momenti  un  cavallo.  Lo
confesso che quell'aura di popolarità mi scompigliò il cervello, e ci  presi  un
gusto matto a vedermi seguito e festeggiato  da  tante  persone,  nessuna  delle
quali conosceva me, come io non conosceva loro. Lo ripeto,  il  mio  cavallo  ci
ebbe un gran merito, e fors'anco il bell'abito turchino di cui era  vestito;  la
gente, checché se ne dica, va pazza delle splendide livree,  e  a  tutti  quegli
uomini sbracciati e cenciosi parve d'aver  guadagnato  un  terno  al  lotto  col
trovar un caporione cosí bene in arnese, e per giunta anco a cavallo.  Fra  quel
contadiname riottoso che guardava di sbieco l'albero  della  libertà,  e  pareva
disposto ad accoglier male i suoi coltivatori, v'avea taluno della giurisdizione
di Fratta che mi conosceva per la  mia  imparzialità,  e  pel  mio  amore  della
giustizia. Costoro credettero certo che io m'intromettessi  ad  accomodar  tutto
per lo meglio, e si misero a gridare: - Gli è il nostro Cancelliere! - Gli è  il
signor Carlino! - Viva il nostro Cancelliere! - Viva il signor Carlino! La folla
dei veri turbolenti cui non pareva vero di accomunarsi in un  uguale  entusiasmo
con quella gentaglia sospettosa e quasi nimica, trovò di suo  grado  se  non  il
cancelliere almeno il signor Carlino; ed eccoli allora a gridar tutti insieme: -
Viva il signor Carlino! - Largo al signor Carlino! - Parli  il  signor  Carlino!
Quanto al ringraziarli di quegli ossequi e all'andar innanzi  io  me  la  cavava
ottimamente; ma in punto a parlare, affé che non avrei saputo cosa dire: fortuna
che il gran fracasso me ne dispensava. Ma vi fu lo  sciagurato  che  cominciò  a
zittire, a intimar silenzio; e pregare che si fermassero  ad  ascoltar  me,  che
dall'alto del mio ronzino, e inspirato dal mio bell'abito  prometteva  di  esser
per narrar loro delle bellissime cose. Infatti si fermano i primi; i secondi non
possono andar innanzi; gli ultimi domandano cos'è stato. - È il  signor  Carlino
che vuol parlare! Silenzio! Fermi! Attenti!... -  Parli  il  signor  Carlino!  -
Oramai il cavallo era assediato da una folla silenziosa, irrequieta, e sitibonda
di mie parole. Io sentiva lo spirito di  Demostene  che  mi  tirava  la  lingua;
apersi le labbra... - Ps, ps!... Zitti! Egli parla! - Pel primo esperimento  non
fui  molto  felice;  rinchiusi  le  labbra  senza  aver  detto  nulla.  -  Avete
sentito?... Cosa ha detto? - Ha detto che si taccia! - Silenzio dunque!...  Viva
il signor Carlino! Rassicurato da sí benigno compatimento apersi ancora la bocca
e questa volta parlai davvero. -  Cittadini  -  (era  la  parola  prediletta  di
Amilcare) - cittadini, cosa chiedete voi? L'interrogazione era superba  piú  del
bisogno: io distruggeva d'un soffio Doge, Senato, Maggior Consiglio,  Podesteria
e Inquisizione; mi metteva di sbalzo al posto della Provvidenza, un  gradino  di
piú in su d'ogni umana autorità. Il castello di Fratta e la cancelleria  non  li
discerneva piú da quel vertice sublime; diventava una specie  di  dittatore,  un
Washington a cavallo fra  un  tafferuglio  di  pedoni  senza  cervello.  -  Cosa
chiediamo? - Cosa ha detto?  -  Ha  domandato  cosa  si  vuole!  -  Vogliamo  la
libertà!... Viva la libertà!... - Pane, pane!... Polenta, polenta! - gridavano i
contadini. Questa gridata del pane e della polenta  finí  di  mettere  un  pieno
accordo fra villani di campagna e mestieranti di città. Il Leone e San Marco  ci
perdettero le ultime speranze. - Pane! pane! Libertà!... Polenta!... La corda ai
mercanti! Si aprano i granai!... Zitto! zitto!... Il  signor  Carlino  parla!...
Silenzio!... Era vero che un turbine d'eloquenza mi si levava pel capo e che  ad
ogni  costo  voleva  parlare  anch'io  giacché  erano  tanto  ben  disposti   ad
ascoltarmi. - Cittadini - ripresi con voce  altisonante  -  cittadini,  il  pane
della libertà è il piú salubre di tutti; ognuno ha diritto d'averlo perché  cosa
resta mai l'uomo senza pane e senza libertà?... Dico  io,  senza  pane  e  senza
libertà cos'è mai l'uomo? Questa domanda la ripeteva a me stesso perché  davvero
era imbrogliato a rispondervi; ma la necessità mi trascinava;  un  silenzio  piú
profondo, un'attenzione piú generale mi comandava di far  presto;  nella  fretta
non cercai tanto pel sottile, e volli trovare una metafora che facesse colpo.  -
L'uomo - continuai - resta come un cane rabbioso, come un cane senza padrone!  -
Viva! viva! - Benissimo! - Polenta, polenta! - Siamo rabbiosi come cani! Viva il
signor Carlino!... - Il signor Carlino parla bene! - Il signor Carlino sa tutto,
vede tutto! Il signor Carlino non avrebbe saputo chiarir bene come un uomo senza
libertà, cioè con un padrone almeno, somigliasse ad un cane che non ha padrone e
che ha per conseguenza la maggior  libertà  possibile;  ma  quello  non  era  il
momento da perdersi in sofisticherie. - Cittadini -  ripresi  -  voi  volete  la
libertà: per conseguenza l'avrete. Quanto al pane e alla polenta  io  non  posso
darvene: se l'avessi vi inviterei tutti a  pranzo  ben  volentieri.  Ma  c'è  la
Provvidenza che pensa a tutto:  raccomandiamoci  a  lei!  Un  mormorio  lungo  e
diverso, che dinotava qualche disparità di pareri, accolse questa mia  proposta.
Poi successe un tumulto di voci, di  gridate,  di  minacce  e  di  proposte  che
dissentivano alquanto dalle mie. - Ai granai, ai granai! - Eleggiamo un podestà!
- Si corra al campanile! - Si chiami fuori  monsignor  Vescovo!  -  No  no!  Dal
Vice-capitano! - Si metta in berlina il Vice-capitano! Vinse l'impeto di  coloro
che volevano ricorrere a Monsignore; ed io sempre col mio cavallo fui  spinto  e
tirato fin dinanzi all'Episcopio. - Parli il signor Carlino!  Fuori  Monsignore!
Fuori monsignor Vescovo! Si vede che la mia parlata, senza ottenere  un  effetto
decisivo sottomettendoli in tutto e per tutto ai decreti della  Provvidenza,  li
aveva  almeno  persuasi  a  confidare  nel  suo  legittimo  rappresentante.   Ma
nell'Episcopio intanto non si stava molto tranquilli. Preti, canonici e  curiali
ognuno dava il suo parere, e nessuno avea trovato quello che  facesse  veramente
all'uopo. Il padre Pendola che vacillava da un  pezzo  sul  suo  trono  credette
opportuno il momento per saldarvisi meglio. Deliberato di tentare il gran colpo,
egli tese una mano al di dentro in segno di fidanza. Indi aperse coraggiosamente
la vetriera, e uscito sul poggiuolo, sporse mezza la persona dal davanzale.  Una
salva di urli e di fischiate salutò la sua comparsa: lo vidi  balbettar  qualche
parola, impallidire e ritirarsi a precipizio  quando  le  mani  della  folla  si
chinarono a terra per cercar qualche ciottolo. Monsignore di Sant'Andrea giubilò
sinceramente di quello smacco toccato all'ottimo padre;  e  con  lui  tutti  dal
primo all'ultimo fecero eco nel fondo del cuore agli urli e alle fischiate della
folla. Il Vescovo, ch'era un sant'uomo, guardò pietosamente il  suo  segretario,
ma gli era da un pezzo che aveva in animo di congedarlo appunto  perché  era  un
santo, e se non lo ringraziò dell'opera sua lí sui due piedi,  anche  questo  fu
effetto di santità. Egli si volse con faccia serena a monsignor di  Sant'Andrea,
pregandolo a volersi far interprete dei desiderii di quel popolo che tumultuava.
Io guardava sempre al solito poggiuolo, e vidi comparirvi alla  fine  la  figura
sinodale del canonico;  nessun  fischio,  nessun  urlo  alla  sua  comparsa;  un
bisbiglio di zitti, zitti, un mormorio di approvazione e nulla piú. - Fratelli -
cominciò egli - monsignor Vescovo vi domanda per mio mezzo  quali  desiderii  vi
menano a  romoreggiare  sotto  le  sue  finestre!...  Successe  un  silenzio  di
sbalordimento, perché nessuno e neppur io sapeva meglio degli  altri  il  perché
fossimo venuti. Ma  alfine  una  voce  proruppe:  -  Vogliamo  vedere  monsignor
Vescovo! - e allora seguí  una  nuova  tempesta  di  grida:  -  Fuori  monsignor
Vescovo!... vogliamo monsignor Vescovo! Il canonico si ritirò, e  già  fervevano
intorno a Monsignore due diversi partiti circa la convenienza o meno ch'egli  si
esponesse  agli  atti  turbolenti  di  quell'assembramento.  Egli   il   Vescovo
s'appigliò al piú coraggioso; si fece strada con dolce violenza fra i renitenti,
e seguito da chi approvava si presentò sul  poggiuolo.  Il  suo  volto  calmo  e
sereno, la dignità di cui era vestito, la santità che traluceva da tutto il  suo
aspetto commosse la folla, e mutò quasi in vergogna i suoi sentimenti di odio  e
di sfrenatezza. Quando fu sedato il tumulto promosso dalla  sua  presenza,  egli
volse al basso uno sguardo tranquillo ma severo, poi con voce quasi  di  paterno
rimprovero domandò: - Figliuoli miei, cosa volete dal padre  vostro  spirituale?
Un silenzio, come quello che aveva accolto le parole del canonico, seguí  a  una
tale dimanda: ma il pentimento soverchiava lo stupore, e già qualcheduno piegava
le ginocchia, altri levavano le braccia in segno di preghiera, quando  una  voce
unanime scoppiò da mille bocche che parvero  una  sola.  -  La  benedizione,  la
benedizione!... Tutti  s'inginocchiarono,  io  chinai  il  capo  sulla  criniera
arruffata del mio ronzino, e  la  benedizione  domandata  scese  sopra  di  noi.
Allora, prima anche che il Vescovo potesse  soggiungere,  come  voleva,  qualche
parola  di  pace,  la  folla  dié  volta  urlando  che  si  doveva  andare   dal
Vice-capitano, e colla folla io e il mio cavallo fummo trascinati  dinanzi  alla
Podesteria.  Quattro  Schiavoni  che  sedevano  alla  porta   si   precipitarono
nell'atrio chiudendo e sbarrando le imposte; indi, dopo molte chiamate  e  molte
consultazioni, il signor Vice-capitano si decise a presentarsi sulla loggia.  La
turba non aveva né schioppi né pistole, e il  degno  magistrato  ebbe  cuore  di
fidarsi:  -  Cos'è  questa  novità,  figliuoli  miei?...  -  cominciò  con  voce
tremolante. - Oggi è giorno di lavoro, ognuno di  voi  ha  famiglia,  come  l'ho
anch'io; si dovrebbe attendere ciascuno ai proprii doveri, e invece... Un evviva
alla  libertà  dei  pazzi  indemoniati  soffocò   a   questo   punto   la   voce
dell'arringatore. - La libertà ve la siete presa, mi  pare  -  continuò  con  un
piglio di vera umiltà. - Godetevela, figliuoli miei; in queste cose  io  non  ci
posso entrare... - Via gli Schiavoni!... Alla corda  gli  Schiavoni!  -  sorsero
urlando parecchi. -  I  Francesi!  viva  i  Francesi!  vogliamo  la  libertà!  -
risposero altri. Questi signori Francesi mi vennero allora in mente per la prima
volta in quel subbuglio; e misero qualche chiarezza  nelle  mie  idee.  In  pari
tempo mi ricordai di Fratta e del perché fossi venuto  a  Portogruaro;  ma  quel
signor Vice-capitano non mi pareva in  cosí  buone  acque  da  poter  pensare  a
soccorrere gli altri oltreché se stesso. Egli mostrava una grandissima voglia di
ritirarsi dalla loggia, e ci volevano le continue gridate della folla  per  fare
ch'ei rimanesse. - Ma signori miei - balbettava egli -  non  so  qual  utile  io
rechi a me ed a voi collo starmene qui sulla pergola in esposizione!...  Io  non
sono  che  un  ufficiale,  uno  strumento  cieco   dell'Eccellentissimo   signor
Luogotenente; dipendo affatto da lui... - Non, no!... Deve dipendere da  noi!  -
Non abbiamo piú padroni! - Viva la  libertà!  -  Abbasso  il  Luogotenente...  -
Badino bene,  signori!  loro  non  sono  autorità  costituite,  loro  non  hanno
legittimi magistrati... - Bene!... Ci costituiremo! Nominiamo un  avogadore.  Ai
voti ai voti l'avogadore. Ella ubbidirà al nostro avogadore!... - Ma per  carità
- si opponeva disperatamente  il  Vice-capitano  -  questa  è  vera  ribellione.
Eleggere l'avogadore  va  benissimo,  ma  diano  prima  il  tempo  di  scriverne
all'Eccellentissimo Luogotenente che ne passi parola al Serenissimo  Collegio...
- Morte al Collegio! - Vogliamo l'avogadore!  Fermi!  fermi!  Pena  la  vita  al
Vice-capitano, se osa muoversi! - Ai voti l'avogadore! Ai  voti!  La  confusione
cresceva sempre  e  con  essa  lo  schiamazzo;  e  da  questo  e  da  quello  si
bisbigliavano dieci nomi per la votazione; ma non v'è merito degli  assenti  che
vinca l'autorità dei presenti. Un villano anche questa volta si pose a  gridare:
- Nominiamo il signor Carlino! -  E  tutti  dietro  lui  a  strepitare:  -  Ecco
l'Avogadore del popolo! Viva il signor Carlino! Abbasso il Vice-capitano!...  In
verità, io non m'era avventurato in quel rimescolio con mire tanto ambiziose; ma
poiché mi vidi tanto in alto, non mi bastò il  cuore  di  scendere;  rimane  poi
sempre in dubbio se lo avrei potuto.  Cominciarono  a  stringermisi  intorno,  a
sollevare quasi sulle spalle la pancia del cavallo, a sventolarmi  il  viso  con
moccichini sudici, con cappelli e con berrette, a battermi le mani  come  ad  un
attore che abbia  ben  rappresentato  la  propria  parte.  Il  Vice-capitano  mi
guardava dalla loggia come un can grosso alla catena  guarderebbe  il  botoletto
sguinzagliato; ma ogni volta ch'egli facesse atto  di  ritirarsi,  subito  mille
facce da galera gli  si  voltavano  contro  minacciando  di  appiccar  fuoco  al
Capitanato s'egli non obbediva al nuovo avogadore.  -  Sissignori,  si  ritirino
loro, mandino di sopra il signor Avogadore... e ce la intenderemo fra noi...  La
folla tumultuava senza sapere il perché, e già  molti  dei  curiosi  se  l'erano
cavata, e alcuni fra i contadini stanchi di quella commedia avevano  ripreso  il
cammino verso casa. Per me io non sapeva in  qual  mondo  mi  fossi,  perché  mi
avessero nominato avogadore, e qual costrutto dovesse avere  l'abboccamento  cui
m'invitava il  Vice-capitano.  Ma  mi  piaceva  quell'esser  diventato  uomo  di
rilievo, e tutto  sacrificai  alla  speranza  della  gloria.  -  Apra,  apra  le
porte!... Lasci entrar l'Avogadore! - gridava la folla. - Signori miei - rispose
il Capitano - ho moglie e figliuoli, e non  ho  voglia  di  farli  morire  dallo
spavento... Aprirò le porte quando loro si sieno allontanati... Veggono che  non
ho tutto il torto... Patti chiari e amicizia lunga!... La gente non  ci  sentiva
di allontanarsi, ed io, tra perché ero stanco di stare a cavallo, tra perché  mi
tardava l'ora di trattar da paro a paro  con  un  Vice-capitano,  mi  accinsi  a
persuadernela. - Cittadini -  presi  a  dire  -  vi  ringrazio;  vi  sarò  grato
eternamente! Sono commosso ed onorato  da  tanti  contrassegni  d'affetto  e  di
stima. Tuttavia il signor  Vice-capitano  non  ha  torto.  Bisogna  dimostrargli
confidenza perch'egli si fidi  di  noi...  Sparpagliatevi,  state  tranquilli...
Aspettatemi in piazza... Intanto  io  difenderò  le  vostre  ragioni...  -  Viva
l'Avogadore!... Bene! benissimo!... in piazza, in  piazza!...  Vogliamo  che  si
apra il granaio della Podesteria!... Vogliamo  la  cassa  del  dazio  macina!...
Quello è il sangue dei poveri!... - Sí, state tranquilli... fidatevi  di  me!...
giustizia sarà fatta...  ma  nel  frattempo  restate  in  piazza  tranquilli  ad
aspettarmi...  -  In  piazza,  in  piazza!...  Viva  il  signor  Carlino!   viva
l'Avogadore!... Abbasso San Marco!... Viva la libertà! In tali  grida  la  folla
rovinò  tumultuosa  verso  la  piazza  a  saccheggiare  qualche  botteguccia  di
panettiere e d'erbivendola; ma il chiasso era  maggiore  della  fame  e  non  ci
furono guai. Alcuni de' piú diffidenti rimasero per vedere se  il  Vice-capitano
atteneva le sue promesse; io  scavalcai  con  tutto  il  piacere,  consegnai  il
ronzino ad uno di loro, e attesi alla porta che mi aprissero. Infatti, con  ogni
accorgimento di prudenza un caporale di Schiavoni aperse una fessura, ed  io  vi
entrai di sbieco; e poi si rimisero le sbarre e  i  catenacci  come  proprio  se
volessero tenermi prigione. Quel fracasso di serramenti  e  di  chiavistelli  mi
diede un  qualche  sospetto,  ma  poi  mi  ricordai  di  essere  un  personaggio
importante, un avogadore, e salii le scale a testa ritta e col braccio  inarcato
sul fianco, come appunto se avessi  in  tasca  tutto  il  mio  popolo  pronto  a
difendermi. Il Capitano rientrato premurosamente dalla loggia  mi  aspettava  in
una sala fra una combriccola di scrivani e di sbirri che non mi  andò  a  sangue
per nulla. Egli non aveva piú quella cera  umile  e  compiacente  mostrata  alla
turba un cinque minuti prima. La fronte arcigna, il labbro  arrovesciato,  e  il
piglio sbrigativo  del  Vice-capitano  non  ricordavano  per  nulla  il  pallore
verdognolo, gli sguardi errabondi, e il gesto tremante della vittima.  Mi  venne
incontro baldanzosamente chiedendomi: - Di grazia, qual è il  suo  nome?  Io  lo
ringraziai fra me di avermi sollevato dalla pena di interrogar il primo, giacché
proprio non avrei saputo a qual chiodo appiccarmi. Cosí, stuzzicato nel mio amor
proprio alzai la cresta come un galletto. - Mi chiamo Carlo Altoviti, gentiluomo
di Torcello, cancelliere di Fratta, e da poco in qua avogadore degli  uomini  di
Portogruaro. - Avogadore, avogadore! - borbottò il Vice-capitano. - È lei che lo
dice; ma spero che non vorrà torre sul serio lo scherzo  d'una  folla  ubbriaca:
sarebbe troppo rischio per lei. Quella masnada di sgherri assentí del capo  alle
parole del principale; io sentii una scalmana venirmi su pel capo, e poco  mancò
che non dessi fuori in qualche enormezza per dar loro a divedere quanto poco  mi
calesse di tali minacce. Un alto sentimento della mia dignità mi trattenne dallo
scoppiare, e risposi al Vice-capitano che certamente io non era degno del grande
onore impartitomi, ma che non intendeva scadere di piú mostrandomi  piú  dappoco
che non fossi infatti. Or dunque vedesse lui quali concessioni fosse disposto  a
fare perché il popolo mio  cliente  s'avvantaggiasse  della  libertà  nuovamente
acquistata. - Che concessioni, che libertà? io non ne so  nulla!  -  rispose  il
Vice-capitano. - Da Venezia non son venuti ordini; e la libertà è  tanto  antica
nella Serenissima Repubblica da non esservi nessun  bisogno  che  il  popolo  di
Portogruaro l'inventi oggi stesso. - Piano,  piano,  con  questa  libertà  della
Serenissima! - replicai io già addestrato a simili  dispute  pel  mio  noviziato
padovano. - Se lei per libertà intende il libero arbitrio dei tre Inquisitori di
Stato son pronto a darle ragione; essi possono  fare  alto  e  basso  come  loro
aggrada. Ma in  quanto  agli  altri  sudditi  dell'Eccellentissima  Signoria  le
domando umilmente in qual lunario  ha  ella  scoperto  che  si  possano  chiamar
liberi? - L'Inquisizione di Stato è una magistratura provata ottima da secoli  -
soggiunse il  Vice-capitano  con  una  vocina  malsicura  nella  quale  l'antica
venerazione si contemperava colla peritanza attuale. -  Fu  trovata  ottima  pei
secoli andati - soggiunsi io. - Quanto al presente siamo di diverso  parere.  Il
popolo la trova pessima, e giovandosi del suo diritto di sovranità la libera per
sempre dall'incomodo di servirla. - Signor... signor Carlino, mi pare -  riprese
il Vice-capitano - le faccio osservare che questa sovranità nessuno l'ha  ancora
data al  popolo  di  Portogruaro,  e  che  questo  popolo  nulla  ha  fatto  per
conquistarla. Io sono ancora l'officiale della Serenissima Signoria, e non posso
certo permettere... - Eh via! - lo interruppi io - cosa non hanno  permesso  gli
officiali della Serenissima a Verona a Brescia a Padova e dappertutto dove hanno
voluto  entrare  i  Francesi!  -  Fuoco  di  paglia,  signor   mio!   -   sclamò
imprudentemente il Vice-capitano.  -  Si  finge  alle  volte  di  concedere  per
riprender meglio poi. So da buona  fonte  che  il  nobile  Ottolin  tien  pronti
trentamila armati nelle valli bergamasche, e mi sapranno dire se il ritorno  dei
signori Francesi somiglierà all'andata. - Insomma, signor mio - ripigliai -  qui
non si tratta di sapere cosa avverrà domani: si  tratta  di  esaudire  o  no  le
inchieste d'un popolo libero. Si tratta di rendergli quello che gli  fu  estorto
con quel tirannico dazio delle macine, piú di aprire a suo profitto quei  granai
dell'erario che ormai sono diventati inutili perché i Schiavoni possono tornar a
casa quando loro aggrada. Un mormorio di scontento corse per le bocche di tutti,
ma il Capitano che era dilicato d'orecchio e udiva ingrossar di fuori  un  nuovo
tumulto fu piú moderato degli altri. - Io sono il Vice-capitano delle milizie  e
delle carceri - mi rispose egli. - Questi (e  m'additava  un  omaccio  grosso  e
bernoccoluto) questi è il Cassiere dei dazi;  quest'altro  (un  figuro  lungo  e
magro come la fame) è il  Conservatore  dei  pubblici  granai.  Investiti  dalla
Signoria delle nostre cariche, noi non possiamo certamente riconoscere in lei un
legittimo magistrato né obbedire al piacer suo senza un rescritto della Signoria
stessa. - Corpo e sangue! - io gridai. - Son dunque avogadore per nulla?  Quella
gente si guardò in viso allibita per tanta baldanza; laonde io piú impegnato che
mai a sostener la mia parte uscii  affatto  dai  gangheri.  -  Io,  signori,  ho
promesso di tutelare gli interessi del popolo e li tutelerò. Piú devo tornare  a
Fratta prima di sera, e prima di sera voglio dar ordine a tutte queste faccende.
Mi hanno capito, signori? Altrimenti io ricorro al popolo e lascio fare a lui. -
Ho  capito  -  rispose  con  maggior  tenacità   ch'io   non   m'aspettassi   il
Vice-capitano. - Ma senza un ordine della  Signoria  io  non  riconoscerò  altri
superiori che l'Eccellentissimo Luogotenente. E quanto al popolo esso non  vorrà
far il matto finché noi terremo lei per ostaggio in nostra compagnia. - Come, io
tenuto per ostaggio?... Un avogadore!... - Lei non è avogadore per  nulla!  Sono
io il Vice-capitano. - Grazie! vedremo anche questa. - La vedremo di sicuro:  ma
non la consiglio ad aver fretta. Già ne sappiamo alquanto sul conto suo  e  come
ella tratta con poco rispetto i fidatissimi dell'Inquisizione.  -  Ah  ne  sanno
alquante!... Me l'immagino! Il loro fidatissimo appena tornato a Fratta lo  farò
impiccare!...  Sappiamo  anche  questa!  -  Olà!  d'ordine  dell'Eccellentissima
Signoria questa persona è arrestata come rea di lesa  maestà!  A  questa  tirata
affatto tragica del Vice-capitano la sua masnada mi si schierò intorno, come per
impedirmi di fuggire; ma lo domando adesso per allora, qual  uopo  si  aveva  di
questa precauzione se tutte le porte erano serrate? Se  fossi  stato  Pompeo  mi
avrei messo il lembo della toga sul capo, invece incrociai le braccia sul  petto
e diedi a quella ciurma vigliacca il sublime  spettacolo  d'un  avogadore  senza
popolo e senza paura. Quel quadro plastico non durava  da  un  minuto,  che  uno
scalpito di cavalli, un accorrere e un urlare di popolo nella sopposta  contrada
attrasse l'attenzione dei miei carcerieri. Tutti si precipitavano alle  finestre
quando s'intesero piú distinte le grida di quel nuovo tumulto. - I  Francesi!  I
Francesi! Viva la libertà!... Largo ai Francesi! Rimasero come tante statue  del
convito di Medusa, chi qua chi là per la stanza. Io solo  fui  d'un  salto  alla
finestra, e vidi giunto alla porta del Capitaniato un drappello di cavalleggieri
colle loro lance, e intorno ad essi un tramestio, una confusione  di  pazzi,  di
curiosi, di fanatici che parevano disposti a fracassarsi la testa  l'uno  contro
l'altro per le diverse passioni che li agitavano. - Vivano i Francesi!...  Largo
ai signori Francesi! Non c'era dubbio; quei cavalleggieri erano francesi,  e  si
misero a picchiare colle loro lance  nella  porta  del  Capitaniato,  urlando  e
bestemmiando con tutte le peste e i sacrebleu del loro  vocabolario.  Io  gridai
dall'alto che si sarebbe aperto sul momento; e le mie parole furono  accolte  da
un  raddoppio  di  grida  e  d'entusiasmo  nella  folla.  -  Bravo   il   signor
Avogadore!... Avanti il signor Avogadore! Commosso da tanta bontà io  m'inchinai
e corsi poi dentro per fare che si aprisse. Ma dentro nessuno  mi  udiva,  tutti
fuggivano all'impazzata qua e là per le stanze; alcuni  si  rimpiattavano  negli
armadi  vuoti  dell'archivio;  altri  cercavano  le  chiavi  delle  carceri  per
mescolarsi ai prigionieri; gli Schiavoni di scolta se l'erano data a  gambe  per
la porticciuola del vicolo, e dovetti scendere io stesso per togliere le  sbarre
alla porta.  Si  salvi  chi  può;  appena  socchiuse  le  imposte  si  precipitò
nell'atrio col cavallo e colla lancia un  dannato  sergente  che  per  poco  non
m'infilzò da banda a banda; e dietro a lui tutti quegli altri  spiritati  benché
davanti alle soglie ci fosse una gradinata di sette scalini:  e  poi  nell'atrio
volteggiavano di gran trotto alla rinfusa quasi per infilar la scala e salir Dio
sa dove. Il Vice-capitano e i suoi satelliti udendo sotto i piedi  quel  baccano
che facea tremar le muraglie si raccomandavano alla beata Vergine del Terremoto.
Io poi cercava farmi intendere dal sergente e persuaderlo a scender  da  cavallo
se intendeva salir le scale come pareva sua idea. Il  sergente  con  grande  mia
meraviglia mi rispose in  buon  italiano  che  cercava  del  Sopraintendente  ai
granai, che cercava del Vice-capitano, e che  se  costoro  non  gli  comparivano
tosto dinanzi li avrebbe fatti impiccare all'albero  della  libertà.  Un  evviva
frenetico alla libertà sancí da parte del popolo questa  sentenza;  l'atrio  era
già invaso dalla turba e fra i cavalli dei Francesi e il gridare  dei  cittadini
succedette un bell'inferno. Finalmente il sergente, vedendo di non poter  salire
le scale a cavallo e  che  il  Vice-capitano  non  si  dava  alcuna  premura  di
scendere, balzò da cavallo, e mi disse che lo accompagnassi presso quei  signori
magistrati. Al veder me  avviato  del  pari  coll'officiale  francese,  un'altra
gridata scrollò il Capitaniato dalle fondamenta. -  Viva  il  signor  Avogadore!
Saliti che fummo io ed il sergente,  dopo  molte  indagini  ci  venne  fatto  di
stanare il Cassiere della camera dei dazi, il Sopraintendente ai  granai  ed  il
Vice-capitano, i quali si erano stretti a mucchio come tre serpenti in un  canto
della soffitta. Ma ebbimo un bel che fare a salvarli dall'unghie del popolo  che
ci aveva seguito;  e  solamente  colla  mia  autorità  spalleggiata  da  qualche
bestemmia del sergente giunsi ad imporre un po' di silenzio. Il sergente  allora
si fece a domandare coi modi piú  burberi  che  una  sovvenzione  di  cinquemila
ducati gli fosse fatta a titolo di viaria, e che i granai rimanessero aperti  in
servizio della libertà e dell'esercito francese. Il popolo  colse  anche  questo
pretesto per gridar un evviva  alla  libertà.  I  tre  magistrati  tremavano  di
conserva che parevano tre arboscelli investiti dal zefiro; ma il  Cassiere  ebbe
fiato di rispondere che non avevano ordini, che se si fosse usata la forza...  -
Che forza o non forza! - gli gridò minacciosamente il sergente.  -  Il  generale
Bonaparte ha vinto ier mattina una battaglia al Tagliamento; noi abbiamo  sparso
il nostro sangue in difesa della libertà e un popolo libero ci negherà adesso un
qualche ristoro? I cinquemila ducati devono essere sborsati prima di  un'ora,  e
il resto della cassa il Generale comanda che lo  si  metta  a  disposizione  del
popolo. Quanto ai granai, fornito che ne sia il  campo  a  Dignano,  si  lascino
aperti  alle  famiglie  piú  bisognose.  Ecco  i   benefici   intendimenti   dei
repubblicani francesi! - Vivano i Francesi! Abbasso  i  San  Marchini!  Viva  la
libertà! - gridava la turba  infuriando  nelle  sale  dell'ufficio,  fracassando
mobili e gettando carte e scaffali fuori dalle  finestre.  Gli  altri  di  fuori
strepitavano con peggiori urli per la rabbia  di  non  poter  fare  altrettanto.
Allora mi fu meraviglioso il vedere che la paura cosí  pressante  e  vicina  non
avesse  liberato  i   tre   magistrati   dal   vecchio   e   doveroso   spavento
dell'Inquisizione di  Stato.  Tutti  e  tre  concepirono  l'ugual  idea,  ma  il
Vice-capitano fu il primo che si arrischiò di esporla. - Signore - balbettò esso
- signor ufficiale pregiatissimo, il popolo, come lei dice, è libero; noi... noi
non c'entriamo per nulla... I granai  e  la  cassa  si  sa  dove  sono.  Qui  (e
accennava a me), qui c'è appunto l'illustrissimo signor Avogadore creato appunto
stamane per servizio del Comune, faccia il piacere di rivolgersi a lui. Quanto a
noi... noi abdicheremo nelle mani... nelle mani... Non sapeva nelle mani di  chi
abdicare, ma una nuova vociata  della  turba  lo  sollevò  dal  peso  di  quella
dichiarazione.  -  Viva  la  libertà!  Vivano  i  Francesi!...  Viva  il  signor
Avogadore!... Il sergente volse le spalle a quei tre  disgraziati,  mi  prese  a
braccetto e mi condusse giù per le scale. E mentre parte della folla  restava  a
trastullarsi coi suoi vecchi magistrati imponendo loro la coccarda  e  facendoli
gridare viva questo e viva quello, un altro codazzo di popolo seguí il drappello
dei  Francesi  che  accerchiando  la  mia  importantissima  persona  si  avviava
all'ufficio della cassa. Lungo la via notai  al  sergente  ch'io  non  aveva  le
chiavi, ma egli mi rispose con un sorrisetto di compassione, e cacciò gli sproni
nel ventre al cavallo per far piú  presto.  Le  porte  furono  sfondate  da  due
zappatori; il sergente penetrò nella cassa, chiuse le  somme  ritrovatevi  nella
sua valigia, dichiarò che non v'aveano se non quattromila ducati, e  riprese  il
cammino verso i granai lasciando anche là la rabbia popolare sfogarsi nei mobili
e nelle carte. Sotto i granai trovammo già pronta una lunga fila di carri, parte
soldateschi, parte requisiti dalle cascine dei dintorni,  e  scortati  da  buona
mano di cacciatori provenzali. Mediante l'opera di costoro gli orzi  i  frumenti
le farine furono insaccate e caricate in brevissimo spazio di tempo;  al  popolo
fu concesso lo spolverio delle farine che usciva  dalle  finestre,  e  nullameno
esso gridava sempre:  -  Vivano  i  Francesi!  Abbasso  San  Marco!...  Viva  la
libertà... Approntato il convoglio, il capitano che lo dirigeva ed avea raccolto
i riferimenti del sergente, mi chiamò solennemente a sé onorandomi ad  ogni  due
parole dei titoli di cittadino e di  avogadore.  Mi  proclamò  benemerito  della
libertà, salvatore della patria, e figliuolo adottivo del popolo francese.  Indi
i carri presero  la  via  in  buona  regola  verso  San  Vito,  i  cavalleggieri
scomparvero colla valigia in un nembo di  polvere,  ed  io  mi  rimasi  allibito
sorpreso scornato fra un popolo poco contento e meno  ancora  satollo.  Tuttavia
gridavano ancora: - Viva i Francesi! Viva  la  libertà!  -  solamente  si  erano
dimenticati del loro avogadore, e questo mi procurò il  vantaggio  di  potermela
svignare  appena  cominciò  ad  imbrunire.  Il  ronzino  non  aveva   tempo   di
rintracciarlo e poi non mi bastava il cuore di cimentarmi  sovr'esso  a  qualche
nuovo trionfo; capii che miglior prudenza era rimaner a piedi. A piedi dunque, e
col rammarico di aver perduto  in  superbe  frascherie  tutta  quella  giornata,
ripresi per sentieri e per traghetti il cammino di Fratta. Molte  considerazioni
politiche e  filosofiche  sull'instabilità  della  gloria  umana,  e  del  favor
popolare, e sulle bizzarre usanze dei paladini della libertà mi distoglievano la
mente dalla  paura  che  qualche  disgrazia  fosse  successa  nel  frattempo  al
castello. Peraltro le cascine deserte per le quali ebbi a passare e le tracce di
disordine e di saccheggio che osservai in esse  mi  davano  qualche  pensiero  e
fecero sí che affrettassi il passo involontariamente, e  che  mano  a  mano  che
m'avvicinava a casa mi pentissi sempre piú di aver trascurato per tante  ore  la
faccenda piú importante per la quale mi era mosso.  Pur  troppo  i  miei  timori
erano fondati. - A Fratta trovai letteralmente quello che si dice  la  casa  del
diavolo. Le case del villaggio  abbandonate;  frantumi  di  botti  di  carri  di
masserizie ammonticchiati qua e là; rimasugli di fuochi  ancora  fumanti;  sulla
piazza le tracce della piú gran gazzarra del mondo. Carnami mezzo  crudi,  mezzo
arrostiti; vino versato a pozzanghere; sacchi di farina  rovesciati,  avanzi  di
stoviglie di piatti di bicchieri: e in mezzo a questo il bestiame sciolto  dalle
stalle che pascolava e nel chiaroscuro della notte imminente dava a quella scena
l'apparenza d'una visione fantastica. Io mi precipitai nel castello  gridando  a
perdifiato: - Giacomo! Lorenzo! Faustina! -  ma  la  mia  voce  si  perdeva  nei
cortili deserti, e solo di sotto all'atrio mi rispose il  nitrir  d'un  cavallo.
Era il ronzino di Marchetto, che sbrigliatosi nel parapiglia di Portogruaro  era
tornato a casa, piú fedele e piú coraggioso il povero animale  di  tutti  quegli
altri animali che si vantavano forniti di cervello e di cuore. Un dubbio crudele
mi squarciò l'anima riguardo alla vecchia Contessa, e passai di volo i cortili e
i corritoi a rischio anche di fiaccarmi il  collo  contro  qualche  colonna.  Là
dentro, perché la luna non potea penetrare, non mi caddero sott'occhio  i  segni
della tregenda, ma ne fiutava passando il puzzo stomachevole. Inciampando  nelle
imposte scassinate, nelle mobilie fracassate,  salii  mezzo  carpone  le  scale,
nella sala fui quasi per ismarrirmi tanta era la confusione delle  cose  che  la
ingombravano; lo spavento mi rischiarava, giunsi alla camera della vecchia e  mi
vi precipitai entro in un buio terribile  gridando  da  forsennato.  Mi  rispose
dalla profonda oscurità  un  suono  spaventevole  come  d'un  respiro  affannato
insieme e minaccioso:  il  bramito  della  fiera,  il  gemito  di  un  fanciullo
armonizzavano in quel rantolo cupo e continuo. - Signora, signora! - sclamai coi
capelli irti sul capo. - Son io! Sono Carlino! Risponda! Allora udii  il  romore
d'un corpo che a stento si sollevava, e gli occhi mi si sbarravano  fuori  delle
orbite per pur discernere qualche cosa in quel mistero di tenebre. Avanzarmi per
toccare, retrocedere in cerca di lume erano partiti che non mi passavano  neppur
pel capo tanto la terribilità di quell'incertezza mi rendeva attonito ed inerte.
- Ascolta; - cominciò allora una voce la quale a stento io riconobbi per  quella
della  Contessa  vecchia  -  ascolta,  Carlino:  giacché  non  ho  prete  voglio
confessarmi a te. Sappi... dunque...  sappi  che  la  mia  volontà  non  ha  mai
consentito a male alcuno... che ho fatto tutto, tutto il bene che  ho  potuto...
che ho amato i  miei  figliuoli,  le  mie  nipoti,  i  miei  parenti...  che  ho
beneficato il prossimo...  che  ho  sperato  in  Dio...  Ed  ora  ho  cent'anni;
cent'anni, Carlino! cosa mi serve aver vissuto un secolo?... Ora  ho  cent'anni,
Carlino, e muoio nella solitudine, nel dolore, nella disperazione!... Io  tremai
tutto da capo a fondo; e sviscerando coll'occhio della pietà tutti i misteri  di
quell'anima ravvivata soltanto per sentire il terror della morte:  -  Signora  -
gridai - signora, non crede ella in Dio?... - Gli ho creduto finora - mi rispose
con voce che s'andava spegnendo. E indovinai da quelle parole un  sorriso  senza
speranza. Allora non udendola piú moversi né respirare avanzai fino alla  sponda
del letto, e toccai rabbrividendo un braccio già aggranchito dalla morte. Fu  un
momento che mi parve di vederla; mi parve  di  vederla,  benché  le  tenebre  si
affoltassero sempre piú in quella stanza funeraria, e sentii le punte avvelenate
de' suoi ultimi sguardi figgermisi in  cuore  senza  misericordia,  e  quasi  mi
sembrò che l'anima sua abbandonando l'antico compagno mi soffiasse in volto  una
maledizione. Maledetta questa vita lusinghiera e fugace che ci  mena  a  diporto
per golfi ameni e incantevoli e ci avventa poi naufraghi  disperati  contro  uno
scoglio!... Maledetta l'aria che ci accarezza giovani  adulti  e  decrepiti  per
soffocarci moribondi!... Maledetta la famiglia che ci vezzeggia, che ne circonda
lieti e felici, e si sparpaglia qua e là e ci abbandona negli istanti supremi  e
nella  solitudine  della   disperazione!   Maledetta   la   pace   che   finisce
coll'angoscia, la fede che si  volge  in  bestemmia,  la  carità  che  raccoglie
l'ingratitudine! Maledetto... La mia mente in questi tetri delirii vacillava fra
il furore e la stupidità; quella vita santa e centenaria troncata  a  quel  modo
negli spasimi dello spavento mi travolgeva la ragione, e stetti lunga pezza  con
quel braccio gelato tra mano che non avrei saputo dire se fossi  vivo  o  morto.
Finalmente mi riscossi vedendo  farsi  luce  nella  stanza,  e  vidi  essere  il
Cappellano che si maravigliò non poco di trovarmi in quel luogo.  Lo  Spaccafumo
gli veniva dietro recando una candela. In  tutt'altro  momento  la  scompostezza
delle loro figure, il pallore del viso, l'infossamento degli occhi, il sanguinar
delle carni mi avrebbe messo raccapriccio; allora invece non vi  badai  nemmeno.
Il prete s'accostò senza parole al letto della vecchia, e sollevato l'altro  suo
braccio lo lasciò ricadere. - Cani di Francesi! - mormorò egli. - Ecco ch'ella è
morta senza i conforti della religione!... E sí, io non ne ho colpa, mio Dio?...
Ciò dicendo egli si  guardava  la  persona  tutta  pesta  e  lacerata  pei  mali
trattamenti dei soldati, dei quali avea sfidato la collera col voler rimanere al
letto  dell'inferma.  Lo  avevano  trascinato  fuori  di  là  sbeffeggiandolo  e
percotendolo, ma egli avea ronzato sempre intorno al castello e  tornava  allora
non appena i saccheggiatori si erano dileguati.  Quanto  allo  Spaccafumo,  egli
indovinava cento miglia lontano le disgrazie del Cappellano e non mancava mai di
accorrere in  buon  punto;  l'era  proprio  una  seconda  vista  aguzzata  dalla
gratitudine e dall'amicizia. Io, né potei forse allora né volli poi  amareggiare
il dolore del buon prete raccontandogli la morte della signora. Tacqui dunque  e
m'inginocchiai con esso loro a recitare le litanie dei morti; nell'animo mio piú
per conforto ai vivi che  per  suffragio  alla  defunta.  Indi  ricomponemmo  il
cadavere in un'attitudine cristiana; ma l'idea impressa dalla  morte  su  quelle
sembianze sformate contrastava spaventosamente colle mani  giunte  in  croce  in
atto di preghiera. Io che volgeva nell'anima il segreto  di  quel  contrasto  mi
allontanai poco dopo, lasciando il prete ed il suo compagno recitare con  devoto
fervore le orazioni dei defunti. Vagai a lungo per la campagna come uno spettro;
indi tornato in paese seppi da qualche fuggiasco la storia terribile  di  quella
scorreria  soldatesca  che  dopo  aver  insozzato  tutto  il  territorio   s'era
rovesciato col furore dell'ubbriachezza sul castello di Fratta. I  vitùperi  che
una masnada di sicari doveva aver commesso su quella povera vecchia che sola era
rimasta ad affrontarli, non voleva immaginarmeli.  Ma  quel  poco  che  ne  avea
veduto il Cappellano, lo stato  miserevole  del  cadavere,  il  disordine  della
stanza attestavano degli scherni spietati ch'ella aveva sofferto.  Confesso  che
il mio entusiasmo pei Francesi si rallentò d'assai; ma poi a ripensarvi mi parve
impossible che premeditatamente si lasciassero commettere  tali  mostruosità,  e
divisando che le dovevano imputarsi  al  talento  bestiale  di  alcuni  soldati,
decisi di trarne giustizia. La fama dipingeva il general Bonaparte come un  vero
repubblicano, il difensore della libertà; mi cacciai in capo di ricorrere a lui,
e due giorni dopo, quando il corpo della Contessa fu deposto  coi  soliti  onori
nella tomba gentilizia, mi misi in viaggio per Udine ove aveva allora sua stanza
lo  Stato  Maggiore  dell'esercito  francese.  Dai  dati  raccolti  avea  potuto
argomentare che i colpevoli appartenessero all'ugual battaglione di  bersaglieri
che scortava il convoglio dei grani partito quel giorno stesso  da  Portogruaro:
perciò non disperava che  verrebbe  fatto  di  rintracciarli  e  di  punirli  ad
esemplare castigo. La virtù antica del giovine liberatore d'Italia era  caparra,
secondo me, di pronta giustizia. Ad  Udine  trovai  la  solita  confusione.  Gli
ospiti che comandavano, i padroni che ubbidivano. Le  autorità  veneziane  senza
forza senza dignità senza consiglio; il popolo e i signori del paese spartiti in
diverse opinioni le une piú strane e fallaci  delle  altre.  Ma  moltissimi  che
giorni prima aveano gridato evviva  agli  usseri  d'Ungheria  e  ai  dragoni  di
Boemia, plaudivano allora ai sanculotti di Parigi. Questo era  il  frutto  della
nullaggine politica di tanti secoli: non si credeva piú di essere al  mondo  che
per guardare; spettatori e non attori. Gli attori si fanno pagare, e chi sta  in
poltrona è giusto che compensi quelli che si movono per lui...  Il  generale  in
capite Napoleone Buonaparte (cosí lo chiamavano allora) dimorava in casa Florio.
Chiesi  di  abboccarmi  con  essolui  affermando  di  aver  a  fare   gravissime
comunicazioni sopra cose avvenute nella provincia, e siccome egli mestava in fin
d'allora  nel  torbido  coi  malcontenti  veneziani,  cosí  mi  venne   concessa
un'udienza. Questo perché non lo seppi che in appresso. Il  Generale  era  nelle
mani del suo cameriere che gli radeva la barba; allora non disdegnava  di  farsi
vedere uomo, anzi ostentava una certa semplicità catoniana,  cosicché  al  primo
aspetto rimasi confortato d'assai. Era magro sparuto irrequieto; lunghi  capelli
stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca fin giù oltre  al  collare
del vestito. Somigliava appunto a quel  bel  ritratto  che  ce  ne  ha  lasciato
l'Appiani, e che si osserva alla villa Melzi a Bellagio: dono del Primo  Console
Presidente al Vicepresidente, superba lusinga del lupo all'agnello. Solamente  a
quel tempo era piú sfilato ancora tantoché gli si avrebbero dati pochi  anni  di
vita, ed anzi una tal sembianza di gracilità aggiungeva  l'aureola  del  martire
alla gloria del liberatore. Egli sacrificava la sua vita al bene dei popoli; chi
non si sarebbe sacrificato per lui? - Cosa volete,  cittadino?  -  mi  diss'egli
ricisamente, fregandosi le  labbra  col  pizzo  dello  sciugatoio.  -  Cittadino
generale  -  risposi  con  un  inchino  lievissimo  per  non  offendere  la  sua
repubblicana modestia - le cose di cui  vengo  a  parlarvi  sono  della  massima
importanza e  della  maggior  delicatezza.  -  Parlate  pure  -  egli  soggiunse
accennando il cameriere  che  continuava  l'opera  sua.  -  Mercier  non  ne  sa
d'italiano piú che il mio cavallo. - Allora - ripresi - mi spiegherò  con  tutta
l'ingenuità d'un uomo che si affida alla giustizia di chi combatte  appunto  per
la giustizia e per la libertà. Un orrendo delitto fu commesso tre giorni sono al
castello di Fratta da alcuni bersaglieri francesi. Mentre il grosso  della  loro
schiera  saccheggiava  arbitrariamente  i  pubblici   granai   e   l'erario   di
Portogruaro,  alcuni  sbandati  invasero  una  onorevole   casa   signorile,   e
svillaneggiarono e  straziarono  tanto  una  vecchia  signora  inferma  piú  che
centenaria rimasta sola in quella casa, che ella ne morí di  disperazione  e  di
crepacuore. - Ecco come la Serenissima Signoria inacerbisce i  miei  soldati!  -
gridò il Generale  balzando  in  piedi,  poiché  il  cameriere  avea  finito  di
sciacquargli il mento. - Si predica al  popolo  che  sono  assassini,  che  sono
eretici: al loro comparire tutti fuggono, tutti abbandonano le case. Come volete
che  simili   accoglienze   predispongano   gli   animi   all'umanità   e   alla
moderazione?... Ve lo dico io; bisognerà che mi  volga  indietro  a  pulirmi  la
strada da questi insetti molesti. - Cittadino generale, capisco anch'io  che  la
fama bugiarda può aver impedito la cordialità dei primi accoglimenti;  ma  vi  è
una maniera di smentir questa fama, mi pare, e se con  un  esempio  luminoso  di
giustizia... - E sí, parlatemi proprio di giustizia, oggi che siamo alla vigilia
d'una battaglia campale sull'Isonzo!... La giustizia bisognava che fosse fatta a
noi fin da due o tre anni fa!... Adesso raccolgono quello che hanno mietuto.  Ma
ho il conforto di vedere che il peggior danno non vien loro da' miei  soldati...
Bergamo Brescia e Crema hanno già divorziato da San Marco, e  quella  stupida  e
frodolenta oligarchia s'accorgerà finalmente che i loro veri nemici non  sono  i
Francesi. L'ora della libertà è suonata; bisogna levarsi in piedi  e  combattere
per essa, o lasciarsi schiacciare. La Repubblica francese porge la mano a  tutti
i popoli perché si rifacciano liberi,  nel  pieno  esercizio  dei  loro  diritti
innati e imprescrivibili.  La  libertà  val  bene  qualche  sacrifizio!  Bisogna
rassegnarsi. - Ma, cittadino generale, io non parlo di rifiutarmi a nessun utile
sacrifizio per la causa della libertà. Soltanto mi sembra che il martirio  d'una
vecchia contessa... - Ve lo ripeto, cittadino; chi  ha  esacerbato  l'animo  de'
miei soldati? chi ha volto contro di essi il talento dei preti di campagna e dei
contadini?... È stato il Senato, è stata l'Inquisizione di Venezia. Non dubitate
che giustizia sarà fatta sopra i veri colpevoli... - Pure, mi  parrebbe  che  un
esempio per ovviare a simili disordini nel futuro... - L'esempio,  cittadino,  i
miei bersaglieri lo daranno sul campo di battaglia. Non dubitate. Giustizia sarà
fatta anche sopr'essi; già non pretendereste  che  li  ammazzassi  tutti!...  Or
bene; saranno nella prima fila; laveranno col loro sangue e a pro' della libertà
l'onta della colpa commessa. Cosí il male sarà volto in bene,  e  la  causa  del
popolo si  sarà  avvantaggiata  degli  stessi  delitti  che  la  deturparono!  -
Cittadino generale, vi prego di osservare... - Basta,  cittadino:  ho  osservato
tutto. Il bene della Repubblica innanzi ad ogni cosa. Volete essere un  eroe?...
Dimenticate ogni privato puntiglio e unitevi a noi, unitevi  con  quegli  uomini
integri e leali che fanno anche nel  vostro  paese  una  guerra  lunga  ostinata
sotterranea ai privilegi dell'imbecillità e della podagra.  Di  qui  a  quindici
giorni mi rivedrete. Allora la pace la  gloria  la  libertà  universale  avranno
cancellato la memoria di questi eccessi momentanei. In  queste  parole  il  gran
Napoleone aveva finito di vestirsi, e si mosse verso la  camera  vicina  ove  lo
attendevano alcuni officiali superiori. Vedendo ch'egli né  era  molto  contento
della mia visita, né pareva disposto a badarmi oltre, io  m'avviai  mogio  mogio
giù per la scala riandando il tenore di tutto quel colloquio. Non ci  capii  per
verità molto addentro; ma pure que' suoi gran paroloni di popolo e di libertà, e
quel suo piglio riciso  ed  austero  m'avevano  annebbiato  l'intelletto,  e  mi
partii, a conti fatti, che l'odio contro i patrizi  veneziani  superava  d'assai
perfino il risentimento contro i bersaglieri  francesi.  La  tremenda  disgrazia
della Contessa mi parve una goccia d'acqua in confronto al mare  di  beatitudine
che ci sarebbe venuto addosso pel valido patrocinio dell'esercito  repubblicano.
Quel cittadino Bonaparte mi pareva un po' aspro un po' sordo un po' anche  senza
cuore, ma lo scusai pensando che il suo mestiere lo voleva pel momento cosí. E a
questo modo lasciai a poco a poco darsi pace la morta, e tornai col pensiero  ai
vivi: cosicché nella lettera che scrissi a Venezia  per  partecipare  il  triste
caso alla famiglia, ne affibbiai forse  piú  la  colpa  all'improvvidenza  delle
venete  magistrature,  e  alla  sciocca  paura  del  popolo,  che  alla  barbara
sfrenatezza degli invasori. Il  Cappellano  fu  molto  meravigliato  di  vedermi
tornar a Fratta colle mani piene di mosche, e tuttavia piú calmo e  contento  di
quando n'era partito. Monsignore e il  Capitano  che  s'erano  raccovacciati  in
castello  udirono  con  terrore  il  racconto  del  mio  colloquio  col  general
Bonaparte. - L'avete proprio veduto? - mi chiese il Capitano. - Capperi se  l'ho
veduto! si faceva anzi la barba. - Ah! si rade anche la barba? io  invece  avrei
creduto che la portasse lunga. - A proposito - saltò su  Monsignore  -  dopo  la
morte della mamma (un lungo sospiro) non mi son piú  raso  né  il  mento  né  la
chierica. Faustina, dico, (anche  costei  era  tornata)  mettete  su  la  cocoma
dell'acqua!... Cosí sentiva i proprii dolori e le  pubbliche  miserie  monsignor
Orlando di Fratta. Son io a dirlo che le bestie si mostrarono le  piú  sensibili
fra tutti gli abitanti del castello in quella  congiuntura:  non  eccettuato  me
medesimo cui un tardo e vano pentimento non varrà certo  a  purgare  dall'odiosa
smemorataggine di quella tremenda giornata. Non contando il ronzino di Marchetto
che lasciò il tafferuglio per tornarsene a casa come doveva far  io,  ci  fu  il
cane del Capitano, il vecchio Marocco, che sdegnò di  accompagnarsi  al  padrone
nella sua fuga verso Lugugnana. Ed egli rimase  vagante  pel  deserto  castello,
fiutando qua e là come in cerca d'un'anima migliore della sua; ma non gli  venne
fatto di trovarla: e un francesino scapestrato si  divertí  a  forarlo  parte  a
parte colla baionetta nel bel mezzo del cortile. Reduce a casa, quella frotta di
vigliacchi restò tanto attonita e confusa, che non sentirono neppur il puzzo  di
quella carogna che appestava l'aria da  tre  giorni.  Toccò  accorgermene  a  me
tornato che fui da Udine; e allora diedi ordine  a  un  contadino  perché  fosse
gettata in qualche fogna. Ma il contadino,  uscito  per  questa  pia  opera,  mi
chiamò indi a poco acciocché contemplassi anch'io  una  cosa  meravigliosa.  Sul
cadavere già verminoso di Marocco aveva preso stanza  il  gattone  soriano,  suo
compagno di tanti anni, e non c'era verso di poternelo snidare. Carezze  minacce
e strappate non valsero, tantoché me ne impietosii, e  presi  anche  in  qualche
venerazione quel povero morto che  avea  saputo  destare  in  un  gatto  una  sí
profonda amicizia. Lo feci staccare  a  forza,  e  comandai  che  Marocco  fosse
seppellito là dove aveva ricevuto  il  funesto  premio  della  sua  fedeltà.  Il
contadino gli affondò per tre braccia la buca e poi gli buttò sopra la  terra  e
credette di aver fornito la bisogna. Ma per mesi e mesi  continui  bisognò  ogni
mattino rimettere quella terra al suo posto perché il gatto fedele  occupava  le
sue notti a rasparla fuori per riposare ancora  sugli  avanzi  dell'amico.  Cosa
volete? io rispettai il dolore di  quella  bestia,  né  mi  bastò  il  cuore  di
trafugargli quelle spoglie tanto  dilette  a  lui  e  cosí  lungamente  incomode
all'olfatto dei castellani. Le feci coprire con una pietra. Allora il  gatto  vi
posò sopra giorno e notte  lamentandosi  continuamente,  e  girando  intorno  al
sepolcro con un miagolio melanconico. Là visse ancora qualche mese, e poi  morí;
e lo so di sicuro perché non mancai poscia d'informarmi come fosse finita quella
tragica amicizia. Diranno poi  che  i  gatti  non  hanno  la  loro  porzioncella
d'anima! Quanto ai cani la loro fama in proposito è bastevolmente assicurata. Il
loro affetto ha posto tra gli affetti familiari; l'ultimo posto certo, ma il piú
costante. Il primo che fece festa al ritorno del figliuol prodigo, scommetto  io
che fu il cane di casa! E quando mi si gracchia  intorno  sull'inutilità  ed  il
pericolo di questa numerosa famiglia canina che litiga all'umana il  nutrimento,
e le inocula talvolta una malattia spaventosa e incurabile, io non posso  far  a
meno di sclamare: - Rispettate i cani! - forse adesso si può star in bilico,  ma
forse anche, e Dio non voglia, verrà un  tempo  che  si  giudicheranno  migliori
affatto di noi! Di questi tempi ne furono altre volte nella storia dell'umanità.
Noi bipedi tentenniamo fra l'eroe ed il carnefice, fra l'angelo  e  Belzebù.  Il
cane è sempre lo stesso; non cambia mai come la stella  polare.  Sempre  amoroso
paziente e devoto fino alla morte. Ne vorreste di piú, voi che non avreste cuore
di distruggere neppure una tribù di cannibali?... Intanto io  deggio  confessare
che, quanto a me, la dimora di Fratta non mi pareva piú né  cosí  tranquilla  né
cosí degna come un mese prima. I Francesi mi frullavano  pel  capo;  sognava  di
diventare qualche coso d'importanza; e questa mi sembrava  la  miglior  via  per
racquistar l'amore della Pisana. Pensava sempre a Venezia, alla  caduta  di  San
Marco, al nuovo ordinamento che ne sarebbe sorto, alla libertà,  all'uguaglianza
dei popoli. Quel tal general Bonaparte di poco era piú attempato di  me.  Perché
non poteva anch'io mutarmi di  sbalzo  in  un  vincitore  di  battaglie,  in  un
salvatore di popoli? L'ambizione mi  adescava  a  braccetto  dell'amore:  e  non
sentiva piú quel pietoso rispetto per la dolorosa passione di Giulio Del  Ponte.
Trascurava le faccende di cancelleria, e il piú  del  mio  tempo  lo  perdeva  a
dottrineggiar di politica con Donato, o a  lottare  di  scherma  o  al  tiro  al
bersaglio con Bruto Provedoni. Bruto era il piú infervorato dei giovani fratelli
per la causa della libertà e spesso la Bradamante e l'Aquilina ce ne  davano  la
baia. Esse aveano veduto i Francesi senza concepirne per  verità  la  favorevole
opinione che ne avevamo concepita noi,  e  noi  dal  canto  nostro  andavamo  in
collera quando esse, per divertirci da questo incantesimo, ci tornavano a  mente
alcune  delle  nefandità  commesse  da  quei   propagatori   dell'incivilimento.
Soprattutto lo strazio della  vecchia  Contessa  di  Fratta  non  voleva  udirlo
nominare. Sentiva che avevano ragione, ma non voleva concederlo;  e  per  questo
inveleniva a tre doppi. Non so come avrei finito, se le  cose  andavano  per  la
solita strada; ma la fortuna s'intromise a farla vincere a me  coi  miei  grilli
d'ambizione e di superbia. Un bel giorno  (eravamo  agli  ultimi  di  marzo)  mi
capita da Venezia una  lettera  della  signora  Contessa.  Leggo  e  rileggo  la
sottoscrizione. Non c'è caso: l'è proprio lei. Mi reca sommo stupore ch'ella  mi
scriva e piú ancora che la incominci in capo a pagina con un  caro  nipote.  Fui
per gettar via la testa dalla maraviglia, ma ebbi il buon senso di tenermela per
capire il resto. Figuratevi chi era giunto a Venezia?... Mio  padre!  nientemeno
che mio padre!... Ma doveva crederlo?... Un uomo che si credeva morto,  che  non
si era fatto vedere per venticinque anni! La ragione quasi si rifiutava,  ma  il
cuore avido d'amare diceva di sí, e già egli volava sulla via di Venezia che non
era giunto al fine della lettera. Gli è vero che a leggerla tutta credo d'avervi
impiegato una mezza giornata, e poi durante il viaggio la riscorreva ogni  tanto
per paura di aver frainteso  e  di  essermi  lusingato  indarno.  Consegnata  la
cancelleria a quel buon capo di Fulgenzio, io partii il giorno stesso. Aveva  il
cuore che non si voleva star cheto; e nel cervello  poi  mi  sobbollivano  tante
speranze condite di memorie, di passioni, di desiderii, d'impossibile,  che  non
ebbi piú pace. La Contessa mi ammoniva di prepararmi a riprendere nella  società
il posto concesso ad un  rappresentante  del  patrizio  casato  degli  Altoviti;
aggiungeva che mio padre non iscriveva lui perché  avea  disimparato  l'alfabeto
italiano, che smontassi intanto presso di lei non piú in casa Frumier ma in casa
Perabini in Canarregio, e finiva col mandare al diletto nipote  i  baci  suoi  e
della cugina Pisana. Mio padre e costei mi stavano sul  cuore  assai  piú  della
zia.


CAPITOLO DECIMOPRIMO

Come a Venezia si accorgessero che gli Stati della  Serenissima  facevano  parte
dell'Italia e del mondo.  Mio  ingresso  nel  Maggior  Consiglio  come  patrizio
veneziano al dí primo di maggio 1797. Macchinazioni contro il governo  fomentate
dagli amici e dai nemici della patria. Cade la Repubblica di San Marco  come  il
gigante di Nabucco, ed io divento segretario della nuova Municipalità.

La prima persona che vidi e che abbracciai a Venezia fu la Pisana; la prima  che
mi parlò fu la signora Contessa la quale dal  fondo  dell'appartamento  correndo
verso di me s'affaccendava a gridarmi: - Bravo, il mio Carlino,  bravo!...  Come
ti vedo volentieri!... Su dunque, un bel bacione da vero nipote!... - Io  passai
di malissima voglia dai baci della Pisana a  quelli  della  Contessa  ancor  piú
gialla e uncinata che per l'addietro. Ma anche in quel tumulto di affetti che mi
turbava allora, rimase un buon cantuccio  per  la  meraviglia  d'un  sí  inusato
accoglimento. Mi rassegnai a chiarirmene in seguito e intanto la Contessa  mandò
fuori la Rosa in cerca di mio padre. Questa missione  della  fida  cameriera  mi
sorprese anche un poco, tanto piú che essa, non piú giovane ma sempre  bisbetica
com'era  stata,  vi  si  disponeva  con  assai  borbottamenti.  Tali   incarichi
appartenevano agli staffieri, e  cominciai  a  dubitare  che  il  seguito  della
Contessa non fosse molto numeroso. Infatti, stando  lí  ad  aspettare,  osservai
nelle camere quello che non parrebbe possibile, un grandissimo  disordine  nella
stessa nudità: polvere e ragnatele  componevano  gli  addobbi;  qualche  mobile,
qualche infisso nel muro; poche seggiole sparute e tisicuzze qua e  là;  insomma
la vera miseria abitante in un palazzo. Ma quello che distoglieva  la  mente  da
queste melanconie era l'aspetto della Pisana. Piú bella piú fresca piú  gioconda
io non l'aveva veduta mai; e tale ella sapeva di essere, benché con mille  vezzi
imparati novellamente a Venezia cercasse di offuscare lo splendor di quei pregi.
Ma fosse dono di natura, o cecità mia, perfino gli artifizi prendevano nelle sue
fattezze un incanto di leggiadria. Peraltro la ritrovai ancor  piú  taciturna  e
meno espansiva del solito; la mi guardava a tratti coll'anima negli occhi,  indi
chinava  gli  sguardi  arrossendo,  e  le  mie  parole   sembravano   dilettarle
voluttuosamente l'orecchio senzaché colla  mente  arrivasse  a  comprenderle.  A
tutto ciò io badava mentre  la  Contessa  zia  mi  annegava  in  un  subisso  di
chiacchiere, ed io non ne capiva un iota; soltanto mi ferí spesse volte il  nome
di mio padre, e mi parve accorgermi ch'ella  pure  fosse  molto  lieta  del  suo
inaspettato e miracoloso ritorno. - E non torna mai quella sciocca  di  Rosa!  -
borbottava la signora. - Io non ho voluto  che  ci  andassi  tu,  perché  voglio
proprio ridonartelo io il tuo papà, ed esser  presente  alla  gioia  del  vostro
riconoscimento. Oh che buon papà che hai, il mio  Carlino!...  Mi  parve  che  a
quelle parole la Pisana arrossasse piú del solito, e fosse turbata dagli sguardi
ch'io teneva fermi continuamente in lei. Finalmente tornò la Rosa a dire che  il
mio signor padre finito un affare in Piazza sarebbe stato da noi,  e  allora  io
volli ancora uscire in traccia di lui per anticiparmi la  gioia  di  quel  soave
momento, ma la Contessa mi  sforzò  tanto  che  dovetti  rimanere.  Un'ora  dopo
squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d'una gamba, mezzo turco e
mezzo cristiano al vestito, entrò  saltabeccando  nell'anticamera.  Io  gli  era
corso incontro fin là; la Contessa,  venutami  dietro,  si  pose  a  gridare:  -
Carlino, è tuo padre!... abbraccia tuo padre! - Io infatti mi abbandonai fra  le
braccia del nuovo arrivato versando fra le pieghe della sua  zimarra  armena  le
prime lagrime di gioia che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me né  molto
affettuoso né troppo discorsivo; si  maravigliò  assaissimo  che  col  nome  che
portava  mi  fossi  nicchiato  in  un  cosí  oscuro  bugigattolo  come  era  una
cancelleria di campagna, e mi promise, che  inscritto  che  io  fossi  come  suo
legittimo figliuolo nel Libro d'Oro, avrei fatto la mia gran figura nel  Maggior
Consiglio. Quell'accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare che
non si sapeva se fosse da burla o da senno; e ad ogni punto e virgola, quasi per
corroborar l'argomento, usava battere col rovescio della mano sul  taschino  del
sottabito da dove rispondevagli un lusinghiero tintinno di zecchini e di  doble.
Ad ognuno di  questi  accordi  metallici  il  viso  giallognolo  della  Contessa
s'irraggiava d'un  roseo  riflesso,  come  il  cielo  scuriccio  d'un  temporale
all'occhiata di traverso che gli manda il sole.  Io  poi  ascoltava  e  guardava
quasi trasognato. Quel signor padre capitatomi di Turchia,  colla  ricchezza  in
una mano, la potenza nell'altra, e una larghissima dose di canzonatura in  tutte
le sue maniere, mi faceva  un  effetto  maraviglioso.  Io  non  mi  stancava  di
osservare quei suoi occhietti bigi un po' sanguigni un po' loschi, che per tanti
anni avevano guardato il sole d'Oriente, e quelle rughe capricciose  e  profonde
formatesi sotto il turbante al lavorio corrosivo di Dio  sa  quali  pensieri,  e
quei gesti un po' autorevoli un po' marinareschi  che  armeggiavano  sempre  per
commentare la zoppicante oscurità di un gergo piú arabo che veneziano. Si vedeva
un uomo avvezzo alla vita; il che vuol dire che non si fa piú caso di nulla, che
crede a poco, che spera meno ancora, e che sacrificatosi per  lungo  tempo  alla
speranza d'una futura commodità, trova tutto agiato tutto commodo  perché  tutto
mena all'ugual fine. Cosí  i  mezzi  sono  alle  volte  scuola  ed  esercizio  a
disprezzar il fine. In tal  modo  almeno  io  giudicai  mio  padre;  e  confesso
sinceramente che mi misi intorno a lui fin dapprincipio  con  maggior  curiosità
che amore. Mi pareva che tali dovessero  essere  stati  que'  vecchi  mercatanti
veneziani della Tana o di Smirne, che a furia  di  furberia,  di  chiacchiere  e
d'attività facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza  di  fede.
Turchi a Costantinopoli, cristiani a San Marco,  e  mercanti  dovunque,  avevano
essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d'allora.  Perfino  una  certa
barbetta rada grigia e  stizzosa  accostava  la  fisonomia  di  mio  padre  alla
maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno
di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi che  dopo
calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l'indomani. Tuttociò senza
alcun pregiudizio della paterna autorità. Intrattenutici un pochino,  con  molte
interiezioni di cordialità e di maraviglia della  signora  Contessa,  e  qualche
sospiro represso della Pisana, il signor padre m'invitò ad uscire con essolui: e
mi menò infatti a San Zaccaria dove aveva preso alloggio in una  bella  casa,  e
addobbatala quasi alla turchesca con tappeti divani e pipe  a  bizzeffe.  Vi  si
desideravano le tavole, e qualche forziere da riporre le robe,  ma  vi  era  per
compenso un gran numero di armadi donde si cavava come per incanto ogni cosa che
si potesse desiderare. Una mulatta scurissima, di oltre quarant'anni,  ammanniva
il caffè da mane a sera, e tra lei e il padrone se l'intendevano  a  cenni  e  a
monosillabi, che era un trastullo a vederli; non credo  che  parlassero  nessuna
lingua di questo mondo, e potrebbe darsi che i diavoli  favellassero  come  loro
nelle escursioni terrestri. Il signor padre depose il cappello a tre  corni,  si
tirò sulle orecchie un berrettone moresco, accese la pipa, si  fece  versare  il
caffè, e volle che sedessi come lui incrocicchiando le gambe sopra  un  tappeto.
Ecco un futuro patrizio del Maggior Consiglio occupato a compitare il galateo di
Bagdad. Mi disse che era grato a sua moglie di  avergli  essa  lasciato  una  sí
bella eredità come io era, in compenso forse delle poche delizie  procacciategli
col matrimonio; mi lasciò travedere che egli chiudeva  un  occhio  sopra  alcuni
rancidi sospetti che aveano guastato la loro concordia e ricondotto mia madre  a
Venezia; finí col confessare che  io  gli  somigliava,  massime  negli  occhi  e
nell'apertura delle  narici;  tanto  bastava  per  ricongiungerlo  d'un  affetto
immortale al suo figliuolo unigenito. Io lo  ringraziai  a  mia  volta  di  cosí
benigni sentimenti a mio riguardo; lo pregai di scusarmi dove trovasse difettiva
la mia educazione, per la condizione di orfano  nella  quale  era  vissuto;  non
volli  aprirgli  gli  occhi  sulla  maniera  poco  onorevole  della   protezione
accordatami dagli zii alla sua venuta; e col mio modesto contegno  m'accaparrai,
credo, la sua stima fin da quel primo colloquio. Egli mi  osservava  colla  coda
dell'occhio, e quanto sembrava poco attento alle  parole,  tanto  notava  in  me
tutti gli altri segni dai quali per lunga esperienza aveva imparato a  conoscere
gli uomini. Ebbi dal suo criterio una sentenza piuttosto favorevole. Almeno cosí
dovetti inferire dal maggior affetto dimostratomi in seguito. Indi  volle  ch'io
gli narrassi della contessina Clara, come si  era  fatta  monaca;  e  mi  nominò
sovente il dottor Lucilio col massimo segno di rispetto, maravigliandosi come la
famiglia  di  Fratta  non  si  tenesse  onorata  di  imparentarsi  con  essolui.
L'ugualità mussulmana  temperava  in  lui  l'aristocrazia  naturale;  almeno  lo
credetti, e piú  mi  confermai  in  questa  opinione,  quand'egli  tirò  innanzi
beffandosi dell'illustrissimo Partistagno che  voleva  tener  dietro  il  secolo
collo spadone di suo nonno. Io mi stupii di trovar mio padre istruito al pari di
me in cotali faccende e che egli ne chiedesse contezza agli altri dove tanta  ne
aveva lui. Peraltro le cose val meglio saperle da due bocche che da una; ed egli
si regolava giusta il sapiente dettato di questo proverbio. Mi parlò poi cosí in
via di discorso della Pisana e dei gran corteggiatori che aveva a Venezia, e del
suo torto marcio di non appigliarsi al piú ricco per ristorarne la dignità della
casa e la fortuna della mamma. "Ahi, ahi!" pensai fra  me  "ecco  l'aristocrazia
che rigermoglia!". Giulio Del Ponte, soprattutto, gli pareva, per  usar  la  sua
frase, un saltamartino. La Pisana adoperava male a non torselo d'infra i  piedi,
che l'era un cantastorie pieno di tossi, di miserie e di  melanconia.  Le  belle
ragazze devono badare ai bei giovani, e quei mezzi  omiciattoli  in  Levante  si
mandano a vender bagiggi per le contrade. Io mi scaldava tutto a questi aforismi
del signor padre; e quasi sarei stato lí per fargli  una  confessione  generale.
Non mi tratteneva piú la compassione  per  Giulio,  ma  una  certa  vergogna  di
mostrarmi ragazzo e innamorato ad un  uomo  cosí  esperto  e  ragionatore.  Egli
continuava a codiarmi, e intanto narrava le dilapidazioni della Contessa,  e  la
ruinosa indifferenza del conte  Rinaldo  che  si  perdeva  a  far  lunari  nelle
biblioteche, mentre la bassetta e il faraone strappavano di mano a sua madre  le
ultime razzolature del loro scrigno. Mi confessò con maligna compiacenza che  la
Contessa avea cercato di sentir il peso delle sue doble, ma che non avea  potuto
vederne neppur il colore; e in questo batteva la mano al taschino  sulla  solita
sonagliera di monete. Tale guardinga taccagneria non mi andò a' versi affatto, e
son quasi certo ch'egli se ne avvide. Ma non  usò  per  questo  la  cortesia  di
cambiar registro, anzi vi ribadí sopra  come  un  uomo  incapato  nella  propria
opinione che il danaro sia la cosa meglio apprezzata ed apprezzabile. Io  invece
dei pochi ducati che aveva in tasca ne avrei dato la metà al primo accattone che
me li chiedesse; e forse la pensava cosí perché ne aveva sempre avuti pochi.  La
povertà mi fu maestra di generosità; ed  i  suoi  precetti  mi  giovarono  anche
quando io non l'ebbi piú per aia e per compagna. Peraltro ebbi campo indi a poco
a rilevare che mio padre non era uno spilorcio. Egli mi trasse quel giorno  alle
migliori botteghe, perché vi provvedessi da raffazzonarmi come  il  piú  compito
damerino di San Marco. Indi mi condusse alla mia  stanza  che  aveva  una  porta
libera sulla scala, e mi lasciò colla promessa ch'egli avrebbe fatto  di  me  il
secondo capostipite della famiglia Altoviti. - I nostri antenati  furono  tra  i
fondatori di Venezia: - mi diss'egli prima di partire - venivano da Aquileia  ed
erano romani della stirpe Metella. Ora che Venezia tende a rifarsi, bisogna  che
un Altoviti ci ponga le mani. Lascia fare a me! Il  signor  padre  sbruffava  in
tali parole tutta la boria proverbiale della povera nobiltà di Torcello;  ma  le
doble levantine s'adoperarono tanto che il mio diritto all'iscrizione nel  Libro
d'Oro fu riconosciuto immantinente, ed io  comparvi  per  la  prima  volta  come
patrizio votante al Maggior Consiglio nella seduta del 2 aprile 1797.  Quanto  a
lui, egli non voleva immischiarsene; pareva non si tenesse  degno  di  porsi  in
cima al rinnovamento del casato e che stesse contento  di  fornirmene  i  mezzi.
Quei pochi giorni vissuti signorilmente a Venezia, e per mezzo della Contessa di
Fratta e degli eccellentissimi Frumier nelle migliori conversazioni, mi  avevano
fruttato una fama straordinaria. Non era spiacevole di figura, le mie maniere si
stoglievano un poco dalle solite leziosaggini, la coltura non mancava affatto ma
non soffocava neppure colle pedanterie quel modesto brio concessomi  da  natura;
piú di tutto poi credo che la voce di  dovizioso  mi  accreditasse  come  ottimo
partito presso tutte le zitelle, o presso le madri che ne  avevano.  Carlino  di
qua, Carlino di là, tutti  mi  chiamavano,  tutti  mi  volevano.  Anche  qualche
sposina non fece la disdegnosa; e insomma io non ebbi che a scegliere fra  molte
maniere di felicità. Per allora non ne scelsi alcuna,  e  la  novità  mi  occupò
talmente, che perfin la Pisana non mi  dava  piú  da  pensare  una  volta  ch'io
l'avessi fuori degli occhi. Ella forse se ne stizziva; ma per essere in una fase
di superbia non si degnava di mostrarlo, e soltanto si  accontentava  di  sfogar
quella stizza contro il povero Giulio. Mi ricorda  che  a  quel  tempo  lo  vidi
parecchie volte, e  sarei  anche  tornato  ad  averne  compassione,  se  le  mie
occupazioni me ne porgevano il tempo nulla nulla. Il povero giovine stava sempre
fra la vita e la morte e dàlli una volta e dàlli due, s'era ridotto a  tale  che
ad ogni mosca che ronzasse intorno alla Pisana sdilinquiva di paura. Intanto  le
cose d'Italia si stravolgevano sempre piú.  Già  da  piú  che  sei  mesi  Modena
Bologna e Ferrara aveano dato l'esempio di una servile  imitazione  di  Francia,
dietro eccitamento francese: aveano improvvisato, come una bolla di  sapone,  la
Repubblica cispadana. Carlo Emanuele succedeva a Vittorio Amedeo  nel  regno  di
Sardegna già occupato e ridotto in provincia  militare  francese.  Tutta  Italia
s'insudiciava i ginocchi dietro le orme trionfali di Bonaparte ed egli ingannava
questi, sbeffeggiava quelli con alleanze con lusinghe  con  mezzi  termini.  Gli
Stati veneziani di terraferma da lui astutamente stuzzicati si levavano a romore
contro lo stendardo del Leone: sorgevano per tutto alberi  della  libertà;  egli
solo sapeva con quanta radice. E fu un  momento  ch'egli  dubitò  della  propria
fortuna pel gran nugolo di nemici che aveva dinanzi a combattere, per la  grande
distanza di provincie non tanto fedeli né pienamente illuse che lo  divideva  da
Francia; ma rifiutatigli i proposti negoziati, buttò via ogni timore e andò fino
a Leoben ad imporre all'Austria i preliminari di pace. La  Serenissima  Signoria
aveva veduto passarsi dinanzi quel turbine di  guerra,  come  l'agonizzante  che
travede nell'annebbiata fantasia lo spettro della morte. Altro  non  avea  fatto
che avvilirsi, pazientare, pregare e supplicare, dinanzi  al  nemico  prepotente
che la schiacciava oncia ad oncia, disonorandola cogli inganni e  col  vitupero.
Francesco Battaja, Provveditore straordinario in terraferma, fu l'interprete piú
degno di cotali vilissimi sensi di servitù; e infamò peggiormente la sua codarda
obbedienza coll'inobbedienza e col tradimento piú codardi ancora. Alle umilianti
proteste contro l'invasione delle città,  l'occupazione  dei  castelli  e  delle
fortezze, il sollevamento delle popolazioni, lo spoglio delle pubbliche casse, e
la  devastazione  universale.  Buonaparte  rispondeva  con   beffarde   proposte
d'alleanza, con ironici lamenti,  e  con  domande  di  tributi.  Il  procuratore
Francesco Pesaro e Giambattista Cornes, Savio di terraferma, si erano  abboccati
con lui a Gorizia per protestare contro la parte  presa  da  officiali  francesi
nelle rivoluzioni di Brescia e di Bergamo,  nonché  contro  le  piraterie  degli
armatori francesi negli intimi recessi del golfo. Ne ebbero tale  risposta  che,
sulla chiusa del loro rapporto, i due inviati non  esitarono  ad  affermare  che
soltanto dalla  divina  assistenza  bisognava  sperare  alla  loro  negoziazione
quell'esito che dalle durissime circostanze non era permesso in  alcun  modo  di
attendere. Francesco Pesaro ebbe animo  retto  e  chiara  antiveggenza;  ma  gli
mancavano la costanza e l'entusiasmo, come  mostrò  dappoi;  per  questo  né  fu
capace di salvar la Repubblica né di imprimere alla sua caduta  un  suggello  di
grandezza. I  turbolenti  intanto  romoreggiavano;  i  paurosi  davano  ansa  al
partito, e fu veduto nel Maggior Consiglio lo strano caso che la filosofia e  la
paura votassero contro la stabilità e il coraggio. Ma la vera filosofia  a  quei
giorni avrebbe dovuto consigliare di cercar la salute nella propria dignità, non
di chiederla in ginocchione alla sapienza politica d'un condottiero. Io  per  me
fui degli illusi, e me ne pento e me ne dolgo; ma  operava  a  fin  di  bene,  e
d'altra parte l'amicizia di Amilcare ancora prigione, Lucilio intrinseco affatto
dell'ambasciatore francese, e mio padre piú  di  tutti  fiducioso  nel  prossimo
rinnovamento di Venezia, mi spingevano per quella via. O terribile insegnamento!
Ripudiare, schernire le virtù antiche senza prima essersi ricinti il cuore colle
nuove, e implorare la libertà col lievito della servitù già  gonfio  nell'animo!
Vi sono diritti che sol meritati possono  chiamarsi  tali;  la  libertà  non  si
domanda ma si vuole: a chi la domanda vilmente è giusto rispondere cogli  sputi:
e Bonaparte aveva ragione e Venezia torto. Soltanto anche un eroe che ha ragione
può esser codardo nei modi di farsela. Il partito democratico, che allora poteva
chiamarsi ed era infatti francese, non predominava forse a Venezia  per  numero;
sibbene per gagliardia d'animo, per forza d'azione,  e  sopratutto  per  potenza
d'aiuti. I contrari non formavano partito;  ma  un  volume  inerte  di  viltà  e
d'impotenza, che dalla grandezza non riceveva alcun accrescimento  di  forza.  I
nervi ubbidiscono all'anima, le braccia all'idea, e dove non vi sono né idee  né
anima, o intorpidisce il letargo o la vita  stultizza.  I  perrucconi  veneziani
erano nel primo caso. La Legazione francese non il Senato  né  il  Collegio  dei
Savi  governava  allora.  Essa  sotto  l'occhio  stesso  e  a  marcio   dispetto
dell'Inquisizione preparava i fili della trama che dovea precipitare  dal  trono
la sfibrata aristocrazia; e buona parte della gente di lettere  e  di  garbo  le
dava mano in cotali macchinazioni. I Piombi ed i Pozzi erano vani spauracchi; un
monitorio dell'ambasciatore Lallement spalancava ai rei di  Stato  quelle  porte
che non si riaprivano di solito che ai condannati del capo  o  ai  cadaveri.  Il
dottor Lucilio si facea notare per la sua fervorosa  devozione  alla  causa  dei
Francesi; e forse l'addentellato a questo zelo virile si trovava da lungo  tempo
disposto nelle misteriose turbolenze della sua gioventù. Si sa già ch'egli  era,
come allora si diceva, filosofo; e fra i filosofi principalmente si cernevano  i
caporioni delle società secrete, che serpeggiavano fin d'allora cupe e corrosive
sotto la vernice  crepolante  della  vecchia  società.  Ad  ogni  modo  nel  suo
apostolato liberalesco ei ci metteva tutto il calore tutta l'accortezza  di  cui
era capace; e i patrizi  che  lo  incontravano  in  Piazza,  tremavano,  come  i
peccatori alla notturna apparizione d'un demonio. Gli è vero che se  uno  d'essi
ammalava, non era restio dal ricorrere a  questo  demonio,  perché  trovasse  il
bandolo di guarirlo. Allora il  celebre  medico  tastava  quei  polsi,  guardava
quelle facce con un certo ghigno che lo vendicava dell'odio sofferto. Pareva che
dicesse: "Io vi disprezzo tanto che voglio anche guarirvi, e  so  che  mi  siete
nemici, ma non me ne cale." Le signore  dimostravano  a  Lucilio  quel  rispetto
timido e vergognoso che pare uno stregamento, e suole ad una sola occhiata ad un
sol cenno trasformarsi piú che in amore in venerazione e  in  servitù.  Dicevano
ch'egli fosse maestro  nell'arte  di  Mesmer  e  ne  contavano  miracoli;  certo
peraltro di quel suo potere egli usava assai parcamente. E non vi fu  donna  che
potesse dire di aver raccolto da' suoi occhi il lampo  d'un  desiderio.  Serbava
l'indipendenza la castità il mistero del mago; ed io  solo  conosceva  forse  il
segreto di tale sua ritenutezza, poiché i costumi d'allora e piú la sua fama  di
gran medico, di gran filosofo, non consentivano il sospetto d'un  amore  che  lo
preoccupasse tutto. Eppur era; e ve lo posso dir io; e quell'amore,  allargatosi
in un'anima capace come la sua, pigliava oggimai la forza e la  grandezza  d'una
passione irresistibile. Direte voi che egli avea lasciata  tranquilla  la  Clara
presso sua madre, che non s'era sbizzarrito nel darle la scalata al  balcone,  o
nel cantarle la serenata dalla gondola, ché l'avea lasciata entrare in  convento
e che so io. Ma l'amor suo non apparteneva ai comuni: egli non voleva rapire  ma
ottenere: sicuro della Clara e ch'essa lo  avrebbe  aspettato  un  secolo  senza
piegare e senza disperarsi, egli agognava e maturava con ogni fervore d'opere  e
di sacrifici il momento quando lo avrebbero pregato  di  prendersela,  tenendosi
onorati del suo parentado. L'amore e la religione politica s'erano confusi in un
solo sentimento tanto vivace tanto potente tanto ostinato quanto possono esserlo
tutte le forze d'un'indole cosí robusta, strette  e  attortigliate  in  un  solo
fascio. Quand'egli si abbatteva nel viso adunco e orgoglioso della  Contessa,  o
nella faccia nebbiosa slavata aristocratica del conte Rinaldo, o in quei visetti
mobili graziosi sdolcinati di casa Frumier, egli sorrideva di sottecchi. Sentiva
che era prossimo a diventar il padrone lui, e allora avrebbe potuto  intimare  a
quei vanarelli i patti qualunque da lui stimati convenevoli. La loro  pieghevole
natura e la facilità degli spaventi lo assicuravano dal timore  di  un'importuna
opposizione. Ma la Contessa dal canto suo non si stava colle mani alla  cintola;
essa conosceva Lucilio piú forse ch'egli non credesse, e le mura d'un  monastero
le sembravano debole riparo contro la sua temerità.  Perciò  aveva  raccomandato
particolarmente la figliuola a una certa madre Redenta Navagero che era  la  piú
gran santa  e  astuta  monaca  del  convento,  perché  con  altri  argomenti  le
rafforzasse l'anima contro le tentazioni del demonio. Infatti costei ci si  mise
di gran lena e non dirò che a quel tempo fosse ita molto innanzi, ma avea  fatto
già uscire del capo alla Clara se non Lucilio certo  tutte  le  altre  cose  del
mondo. Non era poco; molti fili erano  tagliati;  restava  il  capo  grosso,  la
gomena maestra, ma scuoti sega e risega, non disperava di recidere anche quello,
e di ridurre quella diletta animina al beato isolamento dell'estasi  claustrale.
La Clara per mezzo d'una servigiale del monastero riceveva  qualche  notizia  di
Lucilio; ma ciò succedeva di rado e  negli  intervalli  chiedeva  conforto  alle
reminiscenze e alla  devozione.  Ma  la  divozione  spostò  a  poco  a  poco  le
reminiscenze, massime quando il confessore e la madre Redenta la ebbero persuasa
a non divagare troppo in immagini  mondane,  e  ad  abbondare  nella  preghiera,
allora che se ne avea tanto bisogno per gli urgenti pericoli della Repubblica  e
della religione. Per quelle monache, quasi tutte  patrizie,  Repubblica  di  San
Marco e religione cristiana formavano un solo impasto; e a udirle parlare  delle
cose di Francia e dei Francesi sarebbe stato  il  gusto  piú  matto  del  mondo.
Nominar Parigi o l'inferno era per esse l'egual cosa; e le piú vecchie tremavano
di raccapriccio pensando le orrende cose che avrebbero  potuto  commettere  quei
diavoli incarnati una volta entrati in Venezia. Le piú giovani dicevano:  -  Non
bisogna spaventarsi, Iddio ci aiuterà! - E taluna fors'anco che  aveva  fatto  i
voti per ubbidienza o per distrazione, sperava di abbisognare quandocchessia  di
questo soccorso divino. Qui non è il caso di dire che sarebbe stato il  soccorso
di Pisa; ma ad ogni modo  chi  non  ebbe  una  decisiva  vocazione,  non  è  poi
obbligato a cercare e ad adorare la necessità  di  fingere  d'averla  avuta.  La
Clara, piú sincera e meno bigotta, si  scandolezzava  di  queste  mezze  eresie.
Quanto ai Francesi, ella stava colle vecchie, massime  dopo  l'orrenda  tragedia
della nonna, che sebbene contata a lei con tutti i debiti riguardi, pure l'aveva
fatta piangere lunghi giorni e lunghissime notti.  Ella  li  credeva  con  tutta
buona fede eretici, bestiali, indemoniati; e nelle litanie dei santi, dopo  aver
pregato il Signore per l'allontanamento di ogni male, lo supplicava  mentalmente
di liberar Venezia dai Francesi che  le  sembravano  il  male  piú  grosso.  Per
Venezia infatti se non il piú grosso erano certo il male piú nuovo ed imminente.
Le altre disgrazie già incancrenite non davano piú sentore di sé. Quella era  la
piaga viva e sanguinosa che si dilatava nello Stato, facendone rifluir al  cuore
gli umori  guasti  e  stagnanti.  Ogni  giorno  recava  l'annunzio  d'una  nuova
defezione, d'un nuovo tradimento, di un'altra ribellione. Il Doge si  scomponeva
il corno sul capo anche nelle grandi cerimonie; i  Savi  perdevano  la  testa  e
commettevano al Nobile di Parigi che comperasse da qualche  portiere  i  segreti
del Direttorio. Tentarono anche di giungere al cuore di Bonaparte per una  lunga
trafila d'amici, di cui il primo capo era  un  banchiere  francese  stabilito  a
Venezia e pagato perciò,  credo,  alcune  migliaia  di  ducati.  Figuratevi  che
puntelli da sostenere un governo pericolante! - La storia  della  Repubblica  di
Venezia si trovò nel caso eguale degli spettacoli comici d'inverno; una tragedia
non basta ad occupare le ore troppo lunghe, ci vuole dopo la farsa. E  la  farsa
ci fu, ma non tutta da ridere. Molti giovinastri, non per liberalità d'opinione,
ma per ruzzata da bravi, si perdevano a far la satira di que'  parrucconi  senza
cervello; come succede a tutti i grandi diventati piccoli,  a  tutti  i  potenti
ridotti inetti che s'hanno subito addosso le maledizioni il danno e le beffe.  I
libelli, i versacci, le cantafere che andarono attorno a quel  tempo,  servirono
lunga pezza dappoi a incartocciar sardelle; ma sembra impossibile il merito  che
allor si faceva agli autori di quelle sconce e vili parodie. Giulio  Del  Ponte,
letteratuzzo sparvierato, non gli parve vero d'impiegare il proprio ingegno a sí
alta usura e si mescolò per bene in tali pettegolezzi. Egli  godeva  di  vedersi
segnato a dito; e bisogna anche dire che  le  sue  composizioni  si  stoglievano
dalle solite; e taluna non mancava né  di  forza  né  di  brio  né  quasi  anche
d'opportunità. La Pisana, nel vederlo tanto  stimato  e  temuto,  gli  concedeva
qualcheduna delle sue occhiate d'una volta, e a merito di  queste  egli  sfidava
gli atti villani, e perfino i rabbuffi della Contessa. Io poi,  anch'io  le  era
andato in uggia alla signora zia pei miei grilli democratici, ma  le  doble  del
signor padre me la tenevano buona; e spesso ella lavorava di gomito nelle  coste
alla figliuola perché mi usasse maggior  cortesia.  Queste  gomitate  e  il  mio
svagamento continuo davano  la  stizza  alla  Pisana,  e  la  allontanavano  col
pensiero da me: rimaneva però sempre qualche sguardo fuggitivo,  qualche  subito
rossore, che ad osservarlo come andava osservato, mi avrebbe  potuto  lusingare.
Giulio Del Ponte se ne accorgeva e ne diventava giallo di bile;  ma  cercava  un
compenso nella vanità, e correva a' suoi amici che lo incensavano mattina e sera
come il Persio e il Giovenale o l'Aristofane del suo tempo. Soltanto  il  dottor
Lucilio, benché simile d'opinioni, gli avea  parlato  chiaro  dimostrandogli  il
pericolo  di  infervorarsi  a  un  alto  ministero  civile  non  già  per  salda
persuasione e per istudio del pubblico bene, ma per frivolezza e per albagia.  -
Che ne sapete voi? - gli rispondeva Giulio.  -  Posso  ben  avere  anch'io  come
pretendete averla voi la vera virtù del cittadino!... Devo  proprio  prendere  a
prestito tutte le idee dall'orgoglio e dall'irrequietudine?... Lucilio squassava
il capo vedendo quel cervellino gonfio di boria sfarfallare in tali  gradassate;
ma forse impietosiva entro sé a tante belle doti già appassite  in  una  persona
esile e diroccata. Il dottore ci vedeva a doppio nell'anima e nel corpo.  Là  in
Giulio egli ebbe tantosto indovinato i segni  d'una  passione,  ed  erano  segni
fatali; di piú s'accorgeva che  la  calma  di  quella  passione  non  bastava  a
cancellarli; e perciò guai per lui s'ella risorgesse mai con tutta la sua misera
violenza! - Il giovinotto invece non badava a tali paure: omai persuaso di valer
qualche cosa, se la Pisana  lo  disdegnava  egli  s'arrischiava  a  punirla  con
un'ombra d'indifferenza. Poco dopo se  ne  pentiva,  perché  la  banderuola  era
pronta a piegar  altrove;  e  raddoppiava  allora  di  premura  e  di  brio  per
rendersele  desiderabile  e  gradito.  E  sopratutto  in  mio   confronto   egli
s'affaccendava a primeggiare, perché nelle maniere usate dalla Pisana  verso  di
me aveva fiutato una vogliuzza non mai sazia, una rimembranza non ancora  spenta
d'amore. Io non mi rassegnava tanto facilmente a sparir dietro  a  lui,  massime
dopo le belle accoglienze ch'era usato a ricevere per tutta Venezia. E a poco  a
poco ne nacque un astio, una inimicizia  scambievole  che  scoppiò  molte  volte
perfino dinanzi alla Pisana stessa in rimbrotti e in improperi. Giulio  cominciò
a tacciarmi di aristocratico  e  di  sammarchino;  io  presi  dal  canto  mio  a
trascendere nei sentimenti di libertà e d'eguaglianza; la Pisana in tali dispute
si scaldava anch'ella, e in breve ella diventò, al pari di noi, la piú  sfrenata
e incorreggibile libertina. Credo che simili contese, nelle quali tutti andavamo
d'accordo e ognuno anzi non faceva che correr innanzi al compagno nei disegni  e
nelle speranze, non possano rinnovarsi cosí di leggieri.  I  Francesi  erano  il
tema prediletto de' nostri discorsi; e senza di essi non vedevamo salute. Giulio
li cantava in versi, io li invocava in prosa, la Pisana ne sognava  fuori  tanti
paladini della libertà colla fiamma dell'eroismo accesa sulla fronte. E sí,  che
giorni prima, praticando nel convento di sua sorella, essa era giunta  a  vincer
le  monache  nel  loro  odio  contro  di  essi.  Un  giorno  capita  la  notizia
dell'entrata dei Francesi in Verona, creduta fino allora la città piú  restía  a
far novità. I villici armati s'eran dispersi, le  truppe  raccolte  per  ridurre
Bergamo e Brescia, ritirate a Padova e a  Vicenza.  Fu  una  gran  baldoria  pei
fautori di Francia. Alcuni giorni dopo succede lo spavento delle tremende Pasque
Veronesi, e con tutte  le  atrocità  sopra  i  Francesi  che  le  contaminarono.
Giungono le furiose proteste di Bonaparte, e l'intimazione di  guerra  in  tutta
regola. Senatori, Savi, Consiglieri, e tutti, cominciano a  credere  che  quello
che ha durato molto possa anche finire; essi di buon accordo  si  danno  attorno
per provvedere di viveri la Serenissima Dominante; quanto alla difesa ci pensano
poco, perché a dirla chiara, nessuno ci crede. Finalmente il  generale  Baraguay
d'Hilliers cinge col suo campo l'estuario; le comunicazioni  sono  intercettate;
Donà e Giustinian, inviati al general Bonaparte, svelano le intenzioni di questo
che una nuova forma piú libera e piú larga  sia  introdotta  nel  Governo  della
Repubblica. Egli impone di piú che l'Ammiraglio del Porto e gli  Inquisitori  di
Stato siano consegnati nelle sue mani, come colpevoli di atti ostili contro  una
nave francese che voleva sforzare l'ingresso del porto di Lido. I  signori  Savi
capirono l'avvertimento e si disposero umilmente a servire il generale di  barba
e di perrucca, come si dice a Venezia. Parve a loro  che  le  deliberazioni  del
Maggior  Consiglio  fossero  troppo  lente   alla   stretta   del   bisogno,   e
improvvisarono una specie di magistratura funeraria, un collegio di becchini per
la moribonda Repubblica, il quale si componeva di tutte le cariche componenti la
Signoria, dei Savi di Consiglio, dei tre Capi del Consiglio dei Dieci e dei  tre
Avogadori del Comune; in tutto quarantuna persona, e il Serenissimo Doge a capo,
col titolo comodissimo di  Conferenza.  Intanto  si  ciarlava  per  Venezia  che
sedicimila congiurati coi loro  pugnali  fossero  già  appostati  in  città  per
rinnovare su tutti i nobili la strage degli innocenti.  Figurarsi  che  conforto
per la Conferenza! - Mi ricordo che con modi da furbo  io  domandai  Lucilio  di
quello ch'egli credesse esservi di vero in quella voce,  e  che  il  dottore  mi
rispose squassando le spalle: - Oh  Carlino  mio!  credete  che  siano  pazzi  i
Francesi ad assoldare sedicimila congiurati  reali,  mentre  facendoli  balenare
affatto immaginari si ottiene lo stesso effetto?... Credetemi  che  in  tuttociò
non c'è di vero la punta d'un chiodo, eppure sarà come fosse vero, perché questi
patrizi non è necessario ammazzarli! Sono già belli e morti!  La  Conferenza  si
radunò per la prima volta la sera del trenta aprile  nelle  camere  private  del
Doge. Questi spifferò un esordio che principiava: "La gravità e l'angustia delle
presenti circostanze ", ma le sciocchezze che vi si dissero poi, se  designarono
bassamente l'angustia, non  corrisposero  affatto  all'accennata  gravità  delle
circostanze. Si tornò a proporre di toccar il cuore del  general  Bonaparte  per
mezzo di certo Haller suo amicissimo. E il cavalier Dolfin fu  ritrovatore  d'un
sí decisivo consiglio. Il Procuratore Antonio Cappello, da me conosciuto in casa
Frumier, si levò a deriderne la puerilità; e con lui si strinse  il  Pesaro  per
far deliberare sulla costanza nella difesa e nulla piú.  Infatti  le  intenzioni
dei Francesi non avean  oggimai  bisogno  di  esser  chiarite,  ed  era  inutile
illudersi con vane chimere. Ma i Savi adoperarono in modo  che  si  perdesse  il
filo di questo discorso; quando sul piú bello giunse al Savio  di  settimana  un
piego dell'ammiraglio Tommaso Condulmer, che riferiva l'avanzarsi  dei  Francesi
sulla laguna coll'aiuto di botti galleggianti. La costernazione fu  subitanea  e
quasi generale; alcuni cercavano di cavarsela, altri proponevano si trattasse, o
meglio si offrisse, la resa. Fu in quella circostanza che  il  Serenissimo  Doge
Lodovico Manin, passeggiando su e giù per la stanza e tirandosi la brachesse sul
ventre, pronunciò quelle memorabili parole: "Sta notte no semo sicuri gnanca nel
nostro letto ". Il Procurator Cappello mi assicurava che la  maggior  parte  dei
consiglieri uguagliava Sua Serenità in altezza d'animo ed in coraggio. Fu deciso
a rompicollo che si proporrebbe al Maggior Consiglio la parte, per  cui  ai  due
deputati fosse concesso di trattare col Bonaparte sui  cambiamenti  nella  forma
del governo. Il Pesaro, indignato di sí vigliacca deliberazione, proruppe  colle
lagrime agli occhi in parole di  compassione  sulla  rovina  della  patria,  già
sicura; e dichiarò di voler partire quella notte stessa da Venezia per ritirarsi
fra gli Svizzeri. Il che egli non fece poi, e credo che l'andasse per le poste a
Vienna. Davvero che a me non basta l'animo di palliare per  un  misero  orgoglio
nazionale la viltà buffonesca di tutte queste scene. Raccolgono esse un grande e
severo insegnamento. Siate uomini se volete esser cittadini; credete alla  virtù
vostra, se ne avete; non all'altrui che vi può  mancare,  non  all'indulgenza  o
alla giustizia d'un vincitore, che non ha piú freno di  paure  e  di  leggi.  Il
primo maggio colla mia toga e la mia perrucca io entrai nel Maggior Consiglio  a
braccetto del nobiluomo Agostino Frumier, secondogenito del Senatore.  Il  primo
apparteneva al partito di Pesaro e sdegnava far comunella con noi.  Quel  giorno
il consesso era scarso; appena giungeva al numero di 600 votanti senza il quale,
per legge, nessuna deliberazione era valida.  I  vecchi  erano  pallidi  non  di
dolore ma di paura, i giovani ostentavano un portamento altero  e  contento;  ma
molti sapevano dentro a sé di esser costretti a darsi  la  zappa  sui  piedi,  e
quell'allegria non era  sincera.  Si  lesse  il  decreto  che  dava  facoltà  ai
negoziatori di mutare a lor grado la Repubblica, e che prometteva a Bonaparte la
liberazione di tutti gli arrestati politici  dal  primo  ingresso  delle  armate
francesi in Italia. In questa ultima clausola io conobbi l'influenza del  dottor
Lucilio,  pensai  ad  Amilcare,  e  fui  forse  il  solo  che  ne  gioisse   non
indecorosamente. Del resto era un capo d'oca a non intendere la vigliaccheria di
quella promessa, e a trovarla giusta  per  un  sentimento  affatto  privato.  Il
decreto fu approvato con soli sette voti contrari; altri quattordici  ne  furono
di non sinceri, cioè di quelli che né accoglievano né rigettavano la proposta ma
ne negavano la presente opportunità. E appena esso fu noto in piazza,  subito  i
favoreggiatori dei Francesi, che vi tulmultuavano, corsero con gran impeto  alle
carceri. Coi buoni uscirono i galeotti, coi fanatici i tristi, e la  favola  dei
sedicimila congiurati ottenne maggior fede di prima. I patrizi  credettero  aver
dato prova di  sommo  coraggio  col  non  deliberare  sulla  consegna  richiesta
dell'Ammiraglio del Lido e dei tre Inquisitori. Ma ecco che il general Bonaparte
torna da capo col dichiarare al Donà e al Giustinian che non li accoglierà  come
inviati del Maggior  Consiglio  se  prima  quei  quattro  magistrati  non  siano
imprigionati e puniti. L'umilissimo Maggior Consiglio si inchinò un'altra volta,
non piú con cinquecento ma con settecento voti: e il Capitano del Porto e i  tre
Inquisitori furono carcerati quel giorno stesso per lo strano  delitto  di  aver
ubbidito meno infedelmente  degli  altri  alle  leggi  della  patria.  Francesco
Battaja, il traditore, fu tra gli Avogadori di Comune incaricato dell'esecuzione
di quel sacrilego decreto. Ma questo non bastava né all'impazienza dei  novatori
né alla spaventata condiscendenza dei nobili. La solita  Conferenza  ammanní  un
altro decreto nel quale veniva ordinato al  Condulmer  di  non  resistere  colla
forza alle operazioni militari dei Francesi, ma soltanto di  persuaderli  a  non
entrare nella Serenissima Dominante, finché si avesse il tempo di allontanar gli
Schiavoni a scanso di spiacevoli  conseguenze...  Volevano  tosarsi  perfino  le
unghie per non dare in isbaglio  qualche  graffiatura  a  chi  si  apprestava  a
soffocarli. Se questa non fu mansuetudine meravigliosa anzi unica al  mondo,  io
sfido i pecori ad inventarne una migliore. Mio  padre  era  proprio  tornato  di
Turchia a tempo, per far me poverello partecipe senza saperlo  di  tali  codarde
castronerie. E d'altra parte  cosa  valeva  il  sapere?  Il  dottor  Lucilio  fu
invischiato peggio di me in quella brutta pece. Guai anche ai sapienti  cui  non
corrisponde la virtù dei contemporanei: sorretti dalla confidenza nelle  proprie
dottrine essi salgono facilmente ad abitar le nuvole: e se non  disperano  prima
per discrezione di criterio, disperano poi per necessità d'esperienza.  Amilcare
intanto era uscito di prigione e secolui avevamo rappiccato  l'antica  amicizia;
un altro invasato anche lui, che vedeva nei Francesi i liberatori del  mondo,  e
fin lí forse il ragionamento si reggeva; ma zoppicava poi, quando li  credeva  i
liberatori di Venezia. Ciò non toglie che Amilcare non cooperasse a  infervorare
e persuadere maggiormente anche me: poiché il suo ardore  non  era  chiuso  come
quello di Lucilio ma tendeva a dilatarsi con tutta l'espansione della  gioventù.
Insieme  ad   Amilcare   indovinate   mo   chi   fu   liberato   dagli   artigli
dell'Inquisizione? - Il signor  di  Venchieredo.  Non  ve  l'aspettavate  forse,
perché il suo delitto non era certo di favoreggiare i Francesi. Ma io credo  che
o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che  la  grazia  fosse  concessa
anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse  prossima  a  finire.  Il
fatto sta che Lucilio mi diede  sue  novelle,  aggiungendo  misteriosamente  che
dalla Rocca d'Anfo egli era corso a Milano dove era allora la stanza del general
Bonaparte, e dove si  agitavano  diplomaticamente  i  destini  della  Repubblica
veneta. Una sera (già si correva precipitosamente all'abisso del dodici  maggio)
mio padre  mi  chiamò  nella  sua  camera,  dicendo  che  aveva  grandi  cose  a
comunicarmi, e che stessi ben  attento  e  ponderassi  tutto  perché  dalla  mia
destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della  famiglia.  -  Domani  -
egli mi disse - si compirà la rivoluzione a Venezia. Io diedi  un  strabalzo  di
sorpresa,  perché  colla  duttile  arrendevolezza  del  Maggior  Consiglio  e  i
negoziati pendenti ancora a Milano non mi entrava quel bisogno di rivoluzione. -
Sí - egli riprese - non fartene le meraviglie: poiché stasera sarai chiarito  di
tutto. Intanto io voglio metterti sulla buona via perché non ti  perda  poi  nel
momento decisivo.  Sai  tu,  figliuol  mio,  cosa  voglia  dire  una  repubblica
democratica? - Oh certo! - io sclamai coll'ingenuo entusiasmo  d'un  giovane  di
ventiquattr'anni. - Essa è  la  concordia  della  giustizia  ideale  colla  vita
pratica, è il regno non di questo o di  quell'uomo  ma  del  pensiero  libero  e
collettivo di tutta la società. Chi pensa rettamente, ha diritto di governare  e
governerà bene. Ecco il suo motto.  -  Va  bene,  va  bene,  Carlino  -  riprese
biascicando mio padre. - Questo sarà un bel concetto scientifico  e  mettilo  da
una banda perché il signor Giulio se ne faccia bello in qualche  canzonetta.  Ma
un governo di tutti, cercato da pochi, imposto da pochissimi,  e  creato  da  un
generale còrso; un governo libero di gente che non vuole e non può esser libera,
sai tu qual piega sia disposto a prendere? Io mi guardai intorno confuso, perché
in tali materie usava far i  conti  senza  pensare  agli  uomini;  e  sommava  e
moltiplicava, e divideva come se  tutto  fosse  oro,  ma  alla  fine  invece  di
trovarmi innanzi una somma netta e liquida di zecchini, poteva  darsi  benissimo
che rimanessi con un ciarpame di soldatacci e di quattrinelli. Io,  come  dissi,
non ci pensava, e perciò mi confusi affatto alla domanda di mio padre. - Ascolta
- continuò egli col fare paziente del maestro che riprende l'insegnamento da bel
principio. - Queste cose, che tu abbellisci di sogni e di illusioni,  io  le  ho
prevedute da anni, tali quali devono essere. Non capisco per verità né  pretendo
capire a fondo le tue immaginazioni, ma ci veggo per entro  una  buona  dose  di
gioventù e d'inesperienza. Se fosti stato per qualche tempo alle  prese  con  un
bascià o col Gran Visir, credo che sputeresti meno  filosofia,  ma  ci  vedresti
meglio e piú da lontano. La grossaccia furberia  dei  Mamelucchi  ci  insegna  a
conoscere quella sottilissima dei cristiani. Credilo a me che  l'ho  provato.  E
non l'ho provato per nulla, giacché lavorava al mio buon fine, ed ora  sarei  in
ballo io, se tornando a Venezia non mi fosse risovvenuto  di  te.  Figurati  che
allora ho pensato: "Per Allah! che la Provvidenza ti  manda  la  palla  in  buon
punto! Tu eri vecchio ed essa ti ringiovanisce di quarant'anni con un  giochetto
di mano. Coraggio, Bey. Cedi il  posto  al  cavallo  piú  giovine  e  giungerete
prima!". In poche parole, Carlino, io  ti  ho  preso  per  mio  figlio  certo  e
legittimo, e ho voluto  cederti  anche  prima  di  morire  l'eredità  delle  mie
speranze. Sarai tu tale da raccoglierla?... Ecco quello che si vedrà in breve. -
Parlate, padre mio - soggiunsi io, vedendo prolungarsi la pausa dopo quella gran
chiacchierata mezzo maomettana. - Parlare, parlare!... non è tanto facile quanto
credi. Son cose da capirsi al volo. Ma pure, veduta la tua  ignoranza,  guarderò
di spiegarmi meglio. Sappi dunque che io ho qualche merito con questi  signorini
infranciosati e cogli stessi Francesi che reggono ora le cose  d'Italia.  Meriti
arcani, lontanetti se vuoi, ma pur sempre meriti. Di piú mi fanno corona  alcuni
milioni di piastre che non corteggiano male coi loro raggi brillantati il  fuoco
centrale della mia gloria. Carlino, io ti cedo tutto, io dono tutto a te, purché
tu mi assicuri un divano, una pipa, e dieci tazzine di caffè il giorno. Ti  cedo
tutto pel maggior lustro di casa Altoviti. Cosa vuoi? È la mia idea fissa! Avere
un doge in famiglia! - Ti assicuro che ci riesciremo se vorrai fidarti di me!  -
Che? io... io doge? - sclamai colla voce sospesa e non osando quasi respirare. -
Vorreste che di punto in bianco io diventassi doge? - Ottimamente,  Carlino,  tu
pigli le cose di volo, come non avrei sperato. Il mestiere  del  doge  diventerà
tanto piú proficuo, quanto meno seccante e pericoloso. Tu guadagnerai ducati, io
li farò fruttare. Dopo  sei  anni  compreremo  tutto  Torcello,  e  la  famiglia
Altoviti diventerà una dinastia. - Padre mio, padre mio,  cosa  dite  mai!...  -
(V'accerto proprio ch'io lo credetti agli ultimi guizzi per diventar  matto.)  -
Ma già - egli riprese - e non c'è da stupirsene. Coi nuovi  ordinamenti  che  ci
incastreranno, ognuno che ha meriti dovrebbe soverchiare chi non ne  ha.  Questo
in via di astrazione. Ma nel concreto colle vostre abitudini coi vostri  costumi
credi tu che il piú ricco ed il piú furbo non abbia ad esser  giudicato  il  piú
meritevole?... Ogni tempo ha i suoi fortunati, figliuolo mio; e saremmo corbelli
a non farcene il nostro pro'!... -  Per  carità,  come  vedete  tutto  brutto  e
corrotto! Qual trista  parte  mi  date  a  sostenere  a  me  che  m'accingeva  a
combattere per la libertà e la giustizia! - Benone, Carlino!  Per  accingersi  a
questo non c'è che la mia strada; perché del resto se rimani al disotto ti sfido
io a combattere, sarai schiacciato. Dunque per far trionfare il vero e il  buono
bisogna farsi posto fra i primi, a gomitate anche, non importa. Ma  figurati  il
gran danno che ne verrebbe se in quei posti ci  spuntassero  dei  tristi  e  dei
fannulloni! Or dunque avanti, figliuol, per far poi ire  innanzi  gli  altri;  e
l'intenzione scusi la maniera. Non dico che tu voglia farti doge domani o  dopo;
ma pazienza un pochino, e le nespole matureranno piú presto  di  quello  che  si
crede!... Intanto io ti voglio avvertire perché tu assecondi le  mire  de'  tuoi
amici e non ti abbia a tirare indietro per falsa  modestia.  Credi  tu  di  aver
retto animo e buone e sode intenzioni?... Credi tu che sia utilissimo  metter  a
capo della cosa pubblica uno che ami il proprio paese e non scenda a  patti  coi
suoi nemici? - Oh, sí! padre mio, lo credo! - Animo dunque, Carlino! Stasera  il
signor Lucilio ti parlerà piú  chiaro.  Allora  intenderai,  vedrai,  deciderai.
Tienti daccosto a lui. Non  tentennare,  non  indietreggiare.  Chi  ha  cuore  e
coscienza deve farsi  innanzi  coraggiosamente  generosamente  non  per  proprio
orgoglio ma per l'utilità di tutti. - Non temete, padre mio. Mi farò innanzi.  -
Basta per ora  che  tu  ti  lasci  spingere.  Intanto  siamo  intesi.  Tu  sarai
spalleggiato dai nobili ed hai il favore dei democratici:  la  fortuna  non  può
fallirti. Io vado dal signor Villetard  per  metter  in  ordine  qualche  ultima
clausola.  Ci  rivedremo  stasera.  Dopo  un  tale  colloquio  io  rimasi  tanto
strabiliato e perplesso che non sapeva a qual  muro  dar  il  capo.  Il  maggior
malanno si era che ci intendeva ben poco. Io salire ai primi posti, al piú  alto
seggio forse della Repubblica? Cosa volevan dire cotali sogni? - Certo mio padre
avea recato seco dall'Oriente qualche volume  di  appendice  alle  Mille  e  una
notte. E cosa volevan dire quelle sue vaghe parole di rivoluzione, di  clausole,
di che so io? - Il signor Villetard era un giovine  segretario  della  Legazione
francese, ma quale autorità aveva il mio signor padre d'ingerirsi con essolui in
faccende di Stato? - Piú ci pensava e  piú  i  miei  pensieri  volavano  fra  le
nuvole. Non ne sarei disceso piú, se non veniva  Lucilio  a  orizzontarmi.  Egli
m'invitò  a  seguirlo  in  un  luogo  ove  si  aveva  a  deliberare  sopra  cose
importantissime al pubblico  bene:  nella  calle  ci  unimmo  ad  altre  persone
sconosciute che lo aspettavano, e tutti insieme  prendemmo  via  verso  uno  dei
sentieri piú deserti della  città,  dietro  il  ponte  dell'Arsenale.  Dopo  una
camminata lunga sollecita e silenziosa entrammo in un salone buio  e  spopolato;
salimmo la scala al dubbio chiarore d'un lumicino  d'olio;  nessuno  ci  aperse,
nessuno ci introdusse;  somigliavano  una  coorte  di  fantasmi  che  andasse  a
spaventare i sonni d'un malandrino. Finalmente  entrati  in  una  sala  umida  e
ignuda, ci fu concessa una luce  meno  avara:  e  al  lume  di  quattro  candele
poggiate sopra una tavola vidi ad una ad una tutte le persone della radunanza  e
ne distinsi bene o male le fattezze. Eravamo in trenta all'incirca,  la  maggior
parte giovani: ravvisai fra questi Amilcare e Giulio Del Ponte: il primo  acceso
in volto e coll'impazienza negli occhi, il secondo pallidissimo e  con  un  fare
neghittoso che sconsolava. V'era l'Agostino Frumier,  v'era  anche  il  Barzoni,
giovane robusto, impetuoso, innamorato di Plutarco e de' suoi eroi:  quello  che
scrisse poi un libello contro i Francesi intitolandolo I Romani in Grecia. Tra i
piú attempati conobbi l'avogadore Francesco  Battaja,  il  droghiere  Zorzi,  il
vecchio general Salimbeni, un Giuliani da Desenzano, Vidiman, il  piú  onesto  e
liberale patrizio di Venezia, e un certo Dandolo che aveva acquistato gran  fama
di sussurrone nei crocchi piú tempestosi; gli altri mi erano quasi  sconosciuti,
benché di taluno non mi comparissero nuove le sembianze. Costoro si  stringevano
con grande impegno intorno ad un omiciattolo lattimoso e  rossigno  che  parlava
poco e sotto voce, ma agitava le braccia come  un  primo  ballerino.  Il  dottor
Lucilio s'aggirava per  la  sala  muto  e  pensoso;  tutti  gli  facevano  largo
rispettosamente e pareva attendessero i comandi da lui solo. Vi  fu  un  momento
che il Battaja tentò primeggiar a lui colla voce e attirare a sé l'attenzione di
tutti; ma non gli badarono; uno  scantonò  di  qua  e  l'altro  di  là;  chi  si
raschiava in gola e chi tossiva nel fazzoletto; nessuno si fidava ed egli  restò
come il corvo dopo ch'ebbe cantato. Cosí  si  rimase  lunga  pezza  senzaché  io
potessi capir nulla né dalle mie previsioni né dalle parole tronche di  Amilcare
né dai sospiri di Giulio; finalmente  un  altro  perruccone  giallo,  sfinito  e
livido di paura si precipitò nella stanza. Lucilio  gli  era  ito  incontro  fin
sulla soglia, e alla sua comparsa tutta l'adunanza si dispose  in  cerchio  come
per udire qualche grande ed  aspettata  novella.  -  È  il  Savio  supplente  in
settimana! - mi bisbigliò all'orecchio Amilcare. - Ora vedremo se sono  disposti
a cedere colle buone. Io finsi di  capire,  e  considerai  piú  attentamente  il
perruccone che non sembrava per nulla agevolato a sfoggiar l'eloquenza da quella
numerosa combriccola che lo circondava. Il Battaja se  gli  fece  ai  panni  per
interrogarlo, ma Lucilio gli  tagliò  la  strada,  e  tutti  stettero  zitti  ad
ascoltare quanto diceva. - Signor Procuratore -  cominciò  egli  -  ella  sa  il
deplorabile stato di questa Serenissima Dominante dappoiché tutte  le  provincie
di terraferma  hanno  inalberato  lo  stendardo  della  vera  libertà.  Ella  sa
l'inettitudine del governo dopo l'imbarco dei primi reggimenti schiavoni,  e  la
fatica durata finora ad imbrigliare la rabbia del popolo. - Sí... sissignore, so
tutto - balbettò il Savio di settimana. - Io ho ritenuto mio dovere di  chiarire
all'Eccellentissimo  Procuratore  tali  tristi  condizioni  della  Repubblica  -
soggiunse il Battaja. Lucilio, senza degnarsi di badare  a  costui,  riprese  la
parola. - Ella conosce del pari, signor Procuratore,  gli  estremi  sommari  del
trattato che si firmerà fra breve a Milano fra il cessante Maggior  Consiglio  e
il  Direttorio  di  Francia!  Questo  crudele  ricordo  cavò  dagli  occhi   del
Procuratore due lagrimone che se non accennavano il coraggio non erano  peraltro
senza una tal qual dignità  di  mestizia  e  di  rassegnazione.  Esse  bagnarono
tortuose la cipria di cui aveva spruzzolata la pelle, e ne divenne piú giallo  e
men bello di prima. - Signor Procuratore - riprese Lucilio - io sono un semplice
cittadino; ma cerco il bene, il vero bene di tutti  i  cittadini!  Dico  che  si
farebbe atto di patria carità e  prova  d'indipendenza  correndo  incontro  alle
ottime intenzioni degli altri; cosí si risparmierebbero molti disordini  interni
che non mancheranno di intorbidare le cose se ancora si tarda la conclusione del
trattato. Io per me son alieno da qualunque ambizione, e lo vedranno  dal  posto
che mi si è voluto concedere nel quadro della  futura  Municipalità.  Il  signor
Villetard (e accennava l'ometto irrequieto e rossigno) ha favorito  scrivere  le
condizioni, a tenor delle quali cambiatesi le forme  del  governo,  un  presidio
francese entrerà a proteggere  il  primo  stabilimento  della  vera  libertà  in
Venezia. Sono i soliti articoli (prendeva in ciò dire dalla tavola uno scritto e
lo scorreva rapidamente):  erezione  dell'albero  della  libertà,  proclamazione
della  democrazia  con  rappresentanti  scelti  dal  popolo,  una   Municipalità
provvisoria di ventiquattro veneziani alla testa dei  quali  l'ex-doge  Manin  e
Giovanni Spada, ingresso  di  quattromila  Francesi  come  alleati  in  Venezia,
richiamo della flotta, invito alle città di  terraferma,  di  Dalmazia  e  delle
isole ad unirsi colla madre  patria,  licenziamento  definivo  degli  Schiavoni,
arresto del signor d'Entragues, manutengolo dei Borboni, e  cessione  delle  sua
carte al Direttorio pel canale della Legazione francese. Son tutte cose  note  e
concesse dall'unanime assenso  del  popolo.  Infatti  ieri  stesso  il  Doge  si
dichiarò pronto in piena assemblea a deporre le insegne ducali e a rimettere  le
redini del governo in mano dei democratici. Noi chiediamo meno di  quello  ch'ei
sia disposto a concedere. Vogliamo ch'egli resti a capo del nuovo governo,  arra
di stabilità e d'indipendenza per la  futura  Repubblica;  non  è  vero,  signor
Villetard? L'omiciattolo accennò di sí con gran lavorio di gesti e di  boccacce.
Lucilio si rivolse allora di bel nuovo al Savio di settimana e gli porse  quello
scritto che aveva scorso poco prima. - Ecco, signor Procuratore - egli soggiunse
- qui stanno i destini della patria: guardi  ella  di  capacitarne  l'animo  del
Serenissimo Doge e degli  altri  nobili  colleghi,  altrimenti...  Dio  protegga
Venezia! io avrò fatto per salvarla  quanto  umanamente  poteva.  Rispose  colle
lagrime agli occhi il Procuratore: - Io sono veramente grato a  tanto  deferenza
di loro illustri signori;  -  (Gli  incorruttibili  cittadini  rabbrividirono  a
questi titoli scomunicati) - Il Serenissimo Doge ed i colleghi Procuratori, come
cariche perpetue della Repubblica, sono pronti a sacrificarsi per la sua  salute
- (sacrificarsi voleva  dire  cavarsela)  -  tanto  piú  che  la  fedeltà  degli
Schiavoni rimasti comincia a tentennare, e non ci meraviglierebbe per  nulla  di
vederli unirsi ai nostri nemici... - (Il Procuratore s'accorse d'aver  detto  un
sproposito e tossí e tossí che divenne scarlatto come la sua tonaca) -  dico  di
vederli unirsi ai nostri amici, che... che...  che...  vogliono  salvarci...  ad
ogni costo. Dunque io mi riprometto che  queste  condizioni  -  (e  mostrava  il
foglio come se stringesse fra le dita una vipera) - saranno accettate con  tutto
il cuore dalla Serenissima Signoria, che  il  Maggior  Consiglio  ratificherà  i
nostri salutari intendimenti, e  che  presto  formeremo  una  sola  famiglia  di
cittadini uguali e felici. La  voce  moriva  in  gola  al  Procuratore  come  un
singhiozzo; ma le sue ultime parole furono coperte da  una  salva  di  applausi.
Egli ne arrossí, il poveruomo, certo di vergogna, e poi  s'affrettò  a  chiedere
che taluno di quella egregia adunanza volesse accompagnarsi con  lui  per  recar
quel foglio a Sua Serenità. Fu scelto a voti unanimi il Zorzi: un  droghiere  da
appaiarsi ad un procuratore, per intimar l'abdicazione ad un doge!... Due secoli
prima l'intero Consiglio dei Dieci si era presentato al Foscari, per  chiedergli
il corno e l'anello. Venezia tutta silenziosa e tremante aspettava sulla  soglia
del Palazzo la gran novella dell'ubbidienza o del rifiuto. Il vecchio e glorioso
Doge preferí l'ubbidienza e ne morí di dolore: ultima scena terribile e  solenne
d'un dramma misterioso. Qual divario di tempi!... L'abdicazione del  doge  Manin
potrebbe entrare come incidente in  una  commedia  del  Goldoni  senza  tema  di
derogare alla propria gravità. Intanto partirono  il  Procuratore  e  lo  Zorzi,
partí il Villetard col Battaja e alcuni altri patrizi, stupidamente traditori di
se stessi: restammo noi pochi, l'eletta, il fiore della democrazia veneziana. Il
Dandolo era quello che parlava di piú, io  certo  quello  che  ci  capiva  meno.
Lucilio s'era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare.  Tutto  ad  un  tratto
egli si volse a noi con cera poco contenta, e disse quasi pensando a voce  alta:
- Temo che faremo un bel buco nell'acqua! - - Come? - gli diede  sulla  voce  il
Dandolo. - Un buco nell'acqua ora che tutto arride alle nostre brame?... Ora che
i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per  infrangerne
i ceppi? Ora che il mondo redento alla  giustizia  ci  prepara  un  posto  degno
onorato indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d'Italia,
il domatore della  tirannide  ci  porge  la  mano  egli  stesso  per  sollevarci
dall'abiezione ove eravamo caduti? - Io  sono  medico  -  soggiunse  pacatamente
Lucilio. - Indovinare i mali è il  mio  ministero.  Temo  che  le  nostre  buone
intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo. - Cittadino,  non  disperare
della virtù al pari di Bruto! - uscí a dire come ruggendo  un  giovinetto  quasi
imberbe e di fisonomia tempestosa.  -  Bruto  disperò  morendo,  noi  siamo  per
nascere! Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d'un  chirurgo  di
vascello della Repubblica, e dopo  la  morte  del  padre  avea  preso  stanza  a
Venezia. Le sue opinioni non erano state le piú salde in fino allora, perché  si
bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo  di  farsi
prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta
tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso
sul teatro di  Sant'Angelo,  avea  furoreggiato  per  sette  sere  filate.  Quel
giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del  Ponte,  che
non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli  mandò
di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo  c'era
l'invidia dell'ingegno, la piú fredda e accanita di  tutte  le  gelosie;  ma  il
povero  Giulio  s'accorgeva  di  restar  soperchiato,   e   credeva   ricattarsi
coll'accrescere veleno al proprio rancore. Il  leoncino  di  Zante  non  degnava
neppur d'uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l'orecchio, o se  gli  dava
qualche zaffata era piú per noia che per altro. In fondo in fondo egli aveva una
buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor  dei  Sepolcri  abbia
mai uguagliato i desiderii e le speranze dell'autor di Tieste. Allora meglio che
un letterato egli era il piú strano e  comico  esemplare  di  cittadino  che  si
potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e  intrattabile;  un
modello di virtù  civica  che  volentieri  si  sarebbe  esposto  all'ammirazione
universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò  gli  altri,  e  quel
gran principio dell'eguaglianza lo  aveva  preso  sul  serio,  tantoché  avrebbe
scritto a tu per tu una lettera di consiglio all'Imperator  delle  Russie  e  si
sarebbe stizzito che le  imperiali  orecchie  non  lo  ascoltassero.  Del  resto
sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate  lugubri  e  de'
suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi  di
passione e di vita, non si rassegnano cosí  facilmente  né  all'apatia  né  alla
morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta. -
Giulio Del Ponte non fu il solo  che  si  scotesse  alla  romana  apostrofe  del
Foscolo; anche Lucilio la onorò d'un sorriso tra l'amichevole e il  pietoso;  ma
non credette opportuno rispondere direttamente. - Chi di voi - soggiunse egli  -
chi di voi  ha  badato  questa  sera  al  Villetard  mentr'io  esponeva  le  sue
condizioni all'ex-Procuratore? - Ci ho badato io - soggiunse un uomo alto e  ben
tarchiato che seppi esser lo Spada, quello che volean dare per compagno al Manin
nel nuovo governo. - Egli mi avea viso di traditore! - Bravo cittadino Spada!  -
riprese Lucilio - soltanto  egli  crederà  di  esser  niente  piú  che  un  buon
servitore del proprio paese, un ministro accorto  e  fortunato.  Già  è  qualche
tempo che sulle bandiere di Francia la gloria ha preso il posto della libertà! -
E che volete farci? - sclamò rozzamente lo Spada. - Nulla - continuò  Lucilio  -
perché non ci possiamo nulla.  Soltanto,  per  chi  ancor  nol  sapesse,  voglio
dichiarare la mente nostra nell'operare questa rivoluzione prima che ce ne venga
il comando formale da Milano. Gli è appunto che la diffidenza è un'ottima  virtù
sopratutto pei deboli, ma temo che non basti. Si vorrebbe che i Francesi fossero
aiuto e non esecutori; ecco l'idea. Vorremmo mutarci da noi, non farci mutare da
altri come gente che ha perduto la facoltà di moversi. I  Francesi  ci  dovranno
venire perché lo possono e lo vogliono; ma trovino almeno tutto fatto, e non  ci
si incastrino nei fianchi come padrini!... - Vengano i Francesi  a  risparmiarci
la guerra civile, e le proscrizioni di Silla! - sclamò il Foscolo.  Il  Barzoni,
che non aveva mai parlato, alzò il capo per fulminar d'una occhiata l'imprudente
oratore. - Ben detto - riprese tuttavia Lucilio -  ma  dovevi  dire:  vengano  a
risparmiarci un altro  secolo  di  torpore  uguale  ai  decorsi  e  con  diverse
apparenze. Vengano a scuoterci, a spaventarci, a  farci  vergognare  di  noi,  a
sollecitare colla paura di lor tirannia lo svegliarsi operoso  e  sublime  della
nostra libertà... Ecco quello che dovevi aggiungere!... Se noi  saremo  tali  da
prenderli per emuli e non per  padroni,  lo  sapremo  di  qui  a  qualche  mese.
Villetard ne dubita e ne teme, e ciò mi fa supporre che piú in alto  di  lui  si
desideri altrimenti! - Che importa questo?  -  lo  interruppe  Amilcare.  -  Noi
rispettiamo le tue parole,  cittadino  Vianello,  ma  sentiamo  i  nostri  polsi
intolleranti di schiavitù, e ci ridiamo di Villetard e di chi sta sopra di  lui,
come ci ridiamo di San Marco, degli Schiavoni, e del procurator Pesaro!  Lucilio
stornò la mente da tali considerazioni forse troppo tristi o tardive per lui,  e
si volse a me con un fare quasi paterno. - Cittadino Altoviti  -  egli  disse  -
vostro padre si è adoperato moltissimo a vantaggio della libertà;  gli  si  deve
una ricompensa ch'egli vuol cedere a noi. Non se gli avrebbe badato se la vostra
indole e la vostra condotta non davano lusinga di veder continuati  in  voi  gli
esempi famigliari. Voi siete uno dei membri piú giovani del  Maggior  Consiglio,
siete uno fra i pochi, anzi fra i pochissimi che voterete per la libertà non per
codardia ma per altezza di animo. Vi notifico adunque che foste scelto per primo
segretario del nuovo governo. Un mormorio di maraviglia dei giovani lí  presenti
accolse tali parole. - Sí - proseguí Lucilio - e chi ha speso qualche milione  a
Costantinopoli per volgere la Turchia a  danno  della  Sacra  Alleanza,  chi  ha
sacrificato molti anni della propria vita a rannodare  nel  lontano  Oriente  le
trame di quest'opera di redenzione che ci farà forse liberi e certo uomini,  chi
ha fatto questo pretenda altrettanto pel figliuol suo!... Lo dico io,  lo  posso
dir io che all'indomani del trionfo tornerò nell'ospitale  a  salassare  i  miei
malati! Un applauso unanime scoppiò da tutta  la  radunanza,  e  dieci  paia  di
braccia si litigarono il dottor Vianello per istringerlo al cuore. Io  scomparvi
affatto in questa frenesia d'entusiasmo, e restai da un canto pensieroso,  colla
pietra di mulino sul petto del mio segretariato. Allora  il  discorrere  diventò
generale; si parlava della flotta, della  Dalmazia,  del  modo  piú  sicuro  per
ottener l'adesione del general Bonaparte alla nuova forma di governo.  Si  buttò
via molto fiato fino a mezzanotte  quando  lo  Zorzi  rientrò  nella  sala,  col
portamento autorevole d'un bottegaio che ha rovesciato  un  governo  di  tredici
secoli. - E cosí? - gli domandarono tutti. - E cosí - rispose lo Zorzi - il Doge
mi ha pregato di  recarmi  da  Villetard  per  ottenere  le  sue  condizioni  in
iscritto; non sapeva sua Serenità che  noi  le  avevamo  già  in  tasca.  Domani
adunque sarà proposta nel Maggior Consiglio la parte di adottar sul momento  per
la Repubblica di Venezia il sistema democratico del nuovo governo provvisorio da
noi ideato. - Viva la libertà! - gridarono tutti. E fu un tal fremito di gioia e
d'entusiasmo che io pure mi sentii scorrere per le vene  come  una  striscia  di
fuoco. Se in quel momento mi avessero comandato di credere alla risurrezione  di
Roma coi Camilli e coi Manlii, non ci avrei trovato nulla di strano ad ubbidire.
Indi a poco ci separammo, e benché l'ora fosse tardissima il  galateo  veneziano
permise a me ed a Giulio di passare in casa della Contessa. Io era fuori  di  me
addirittura senza saperne il perché: tale deve sentirsi un cavallo  generoso  al
sonar della tromba. Giulio all'incontro pareva malcontento  della  parte  troppo
modesta da lui sostenuta nell'adunanza di quella sera; e sí  che  doveva  essere
avvezzo a tali combriccole, perché tanto egli che Foscolo erano  stati  imputati
di immischiarsi in tali faccende, e la madre  di  quest'ultimo  dicevasi  averlo
consigliato a perire piuttosto  che  svelare  alcuno  de'  suoi  compagni.  Cosí
tornavano allora di moda le madri spartane. Il fatto sta che la Pisana in quella
sera non ebbe occhi che per me, ma io era troppo addentro nel pensiero del nuovo
governo, del Maggior Consiglio della dimane e dei pronostici di  mio  padre  per
fermarmi in quelle amorosità. La guardava sí,  ma  come  un'attenta  scoltatrice
delle mie declamazioni, e questo mio contegno non le  garbava  punto.  Quanto  a
Giulio al vederlo cosí  uggioso  appena  lo  sopportava,  e  le  sue  affaticate
galanterie non ottenevano il premio della quarta parte di ciò che gli costavano.
Ben è vero che la Contessa ne lo  rimunerava  con  un  subisso  d'interrogazioni
sulle novelle della giornata, ma il letteratuncolo non la intendeva a quel modo,
e si arrischiava piú volentieri alla taccia  d'ingrato  che  al  martirio  della
noia. L'accorta  vecchia,  mano  a  mano  che  il  mal  tempo  cresceva,  andava
raccogliendo le vele, e ormai era ridotta a  parole  una  mezza  sanculotta.  Di
dentro poi Dio sa quanto odio e quanta bile covasse! - Cosa dice, signor Giulio!
Verranno questi Francesi?... Si casseranno i crediti ipotecati sopra le  rendite
feudali?... E i patrizi che sieno sicuri d'una pensione o d'una  carica?  E  san
Marco  che  sia  conservato  sugli  stendardi?  Giulio  sospirava,  sbadigliava,
digrignava, si storceva, ma l'inesorabile Contessa voleva  pur  cavarne  qualche
risposta, e credo ch'egli con maggior buona grazia si sarebbe lasciato cavar  un
dente. Io intanto non poteva resistere al piacere di pavoneggiarmi dinanzi  alla
Pisana colle mie future splendidezze, e lasciava travedere che nel nuovo governo
ci sarebbe stato un bel seggio anche per me. -  Davvero  Carlino?  -  mi  chiese
cheta cheta la donzella. - Ma non siamo intesi che  dobbiate  metter  sul  trono
l'eguaglianza?  Io  alzai   le   spalle   dispettosamente.   Andate   dunque   a
filosofeggiare con donne! Non so peraltro se tacqui per disdegno o per non saper
cosa rispondere. Il fatto sta che per quella sera l'ambizione  scavalcò  affatto
l'amore, e che mi partii dalla Pisana che non avrei nemmen saputo dire  di  qual
colore avesse gli occhi. Salutai Giulio soprappensiero in Frezzeria, e  m'avviai
soletto e ballonzolando d'impazienza per la Riva degli Schiavoni.  Mi  ricorderò
sempre di quella sera memorabile dell'undici maggio!... Era una sera cosí  bella
cosí tiepida e serena che parea fatta  pei  colloqui  d'amore  per  le  solinghe
fantasie per le allegre serenate e nulla piú. Invece fra tanta calma di cielo  e
di terra, in un incanto sí poetico di vita e di primavera una gran repubblica si
sfasciava, come  un  corpo  marcio  di  scorbuto;  moriva  una  gran  regina  di
quattordici secoli,  senza  lagrime,  senza  dignità,  senza  funerali.  I  suoi
figliuoli o dormivano indifferenti o tremavano di paura; essa, ombra vergognosa,
vagolava pel Canal Grande in un fantastico bucintoro, e a poco a poco l'onda  si
alzava e bucintoro e fantasma scomparivano in quel liquido sepolcro. Fosse stato
almeno cosí!... Invece quella morta larva rimase esposta per alcuni mesi, tronca
e sfigurata, alle contumelie del mondo; il mare, l'antico sposo, rifiutò le  sue
ceneri; e un caporale di Francia le sperperò ai quattro venti, dono fatale a chi
osava raccoglierle! Ci fu un momento ch'io alzai involontariamente gli occhi sul
Palazzo Ducale e vidi la luna che abbelliva  d'una  vernice  di  poesia  le  sue
lunghe logge e i bizzarri finestroni. Mi pareva che migliaia  di  teste  coperte
dell'antico cappuccio marinaresco  o  della  guerresca  celata  sporgessero  per
l'ultima volta da quei mille trafori i loro vacui sguardi di  fantasma;  poi  un
sibilo d'aria veniva pel mare che somigliava un lamento. Vi assicuro che tremai;
e sí ch'io odiava l'aristocrazia e sperava dal suo sterminio  il  trionfo  della
libertà e della giustizia. Non c'è caso; vedere le grandi  cose  adombrarsi  nel
passato e scomparire per sempre è una grave e inesprimibile mestizia. Ma  quanto
piú son grandi queste cose umane, tanto piú esse resiston anche colle  compagini
fiacche e inanimate all'alito distruttore del tempo;  finché  sopraggiunge  quel
piccolo urto che polverizza il cadavere, e gli toglie le apparenze e  perfin  la
memoria della vita. Chi  s'accorse  della  caduta  dell'Impero  d'Occidente  con
Romolo Augustolo? - Egli era caduto coll'abdicazione di Diocleziano. - Chi  notò
nel 1806 la fine del Sacro Romano Impero di Germania? - Egli era scomparso dalla
vista dei popoli coll'abdicazione di Carlo V.  -  Chi  pianse  all'ingresso  dei
Francesi in Venezia la rovina d'una grande repubblica,  erede  della  civiltà  e
della sapienza romana, e mediatrice della cristianità per tutto il Medio Evo?  -
Essa si era tolta volontariamente all'attenzione del mondo dopo l'abdicazione di
Foscari. Le abdicazioni segnano il tracollo degli stati;  perché  il  pilota  né
abbandona né è costretto ad abbandonare il timone d'una nave  che  sia  guernita
d'ogni sua manovra e di ciurme esperte  e  disciplinate.  Le  disperazioni,  gli
abbattimenti, l'indifferenza, la sfiducia precedono di poco lo sfasciarsi  e  il
naufragio. Io volsi dunque gli occhi al Palazzo  Ducale  e  tremai.  Perché  non
distruggere quella mole superba e misteriosa, allora che l'ultimo spirito che la
animava si perdeva per l'aria?... In quei marmi rigidi eterni, io presentiva piú
che una memoria un rimorso. E intanto vedeva piú in  giù  sulla  riva  i  fedeli
Schiavoni  che  mesti  e  silenziosi  s'imbarcavano;  forse  le   loro   lagrime
consolarono sole la moribonda deità di Venezia. Allora mi sorse  nell'anima  una
paura piú distinta.  Quella  nuova  libertà  quella  felice  eguaglianza  quella
imparziale giustizia coi Francesi  per  casa  cominciò  ad  andarmi  un  po'  di
traverso. Avea  ben  avvisato  Lucilio  di  operare  la  rivoluzione  prima  che
Bonaparte ce ne mandasse da Milano l'ordine e le istruzioni; ma ciò non toglieva
che i Francesi sarebbero venuti da Mestre: e una volta venuti,  chi  sa!...  Fui
pronto ad evocare la magnanima  superbia  d'Amilcare  per  liberarmi  da  queste
paure. "Oh bella!" pensai "siam poi uomini come gli altri; e questo nuovo  fuoco
di libertà che ci anima sarà all'uopo fecondo di prodigi. Di  piú  l'Europa  non
potrà esserci ingrata; il  suo  proprio  interesse  non  gliel  consente.  Colla
costanza con la buona volontà torneremo ad esser noi: e  gli  aiuti  non  devono
mancare o da poggia o da orza!...". Con tali conforti tornai verso casa ove  mio
padre mi significò che era molto contento del posto a me riserbato nella  futura
Municipalità; e che badassi a condurmi bene e ad assecondare i suoi consigli, se
voleva andare piú in su. Non mi ricordo cosa gli risposi; so che andai a letto e
che non chiusi occhio fino alla mattina. Potevano esser le  otto  e  tre  quarti
quando sonò la campana del Maggior Consiglio, ed io m'avviai verso la Scala  dei
Giganti. Per quanto avessero fretta i  signori  nobili  di  commettere  il  gran
matricidio, le delizie del letto non consentirono che si  anticipasse  piú  d'un
quarto d'ora sul solito  orario.  I  comparsi  furono  cinquecento  trentasette;
numero illegale giacché per inviolabile statuto ogni deliberazione  che  non  si
fosse  discussa  in  un'adunanza  di  almeno  seicento  membri  si   considerava
illegittima e nulla. La maggior parte tremava di paura e  d'impazienza;  avevano
fretta di sbrigarsi, di tornare a casa, di  svestir  quella  toga,  omai  troppo
pericolosa insegna d'un impero decaduto. Alcuni ostentavano sicurezza  e  gioia;
erano i traditori; altri sfavillavano d'un vero contento, d'un orgoglio bello  e
generoso pel sacrifizio che cassandoli dal  Libro  d'Oro  li  rendeva  liberi  e
cittadini. Fra questi io ed Agostino Frumier sedevamo stringendoci per mano.  In
un canto della sala venti patrizi al  piú  stavano  ravvolti  nelle  loro  toghe
rigidi e silenziosi. Alcuni vecchioni venerandi che non comparivano da piú  anni
al Consiglio e vi venivano quella mattina ad onorare la patria del loro ultimo e
impotente suffragio; qualche  giovinetto  fra  loro,  qualche  uomo  onesto  che
s'inspirava dai magnanimi sentimenti dell'avo del suocero del padre.  Mi  stupii
non poco di vedere in mezzo a  questi  il  senatore  Frumier  e  il  suo  figlio
primogenito Alfonso; giacché  li  sapeva  devoti  a  San  Marco,  ma  non  tanto
coraggiosamente, come mi fu veduto allora.  Stavano  uniti  e  quasi  stretti  a
crocchio fra loro; guardavano i compagni non colla burbanza dello sprezzo né col
livore dell'odio, ma colla fermezza e la mansuetudine del martirio. Benedetta la
religione della patria e del giuramento! Là essa risplendeva d'un ultimo  raggio
senza  speranza  e  tuttavia  ripieno  di  fede  e  di  maestà.  Non  erano  gli
aristocratici, non erano i tiranni; né gli inquisitori; erano i nipoti dei  Zeno
e dei Dandolo che ricordavano per l'ultima volta alle aule regali le glorie e le
virtù  degli  avi.  Li  guardai  allora  stupito  ed  ostile;  li  ricordo   ora
meravigliato e commosso; almeno io posso ridere in faccia alle storie  bugiarde,
e non evocare dall'ultimo Maggior Consiglio di Venezia una maledizione all'umana
natura. In tutta la sala era un sussurrio, un fremito indistinto; solo  in  quel
canto oscuro e riposto regnavano la mestizia e  il  silenzio.  Fuori  il  popolo
tumultuava; le navi che tornavano dal disarmamento dell'estuario, alcuni  ultimi
drappelli di Schiavoni che s'imbarcavano, le guardie  che  contro  ogni  costume
custodivano gli anditi del Palazzo Ducale, tutti presagi funesti. Oh è ben  duro
il sonno della morte, se non si svegliarono allora, se  non  uscirono  dai  loro
sepolcri gli eroi, i dogi, i capitani dell'antica Repubblica!... Il Doge  s'alzò
in piedi pallido e tremante, dinanzi alla sovranità del Maggior Consiglio di cui
egli era il rappresentante, e alla quale osava proporre una viltà senza esempio.
Egli aveva letto le condizioni proposte dal  Villetard  per  farsi  incontro  ai
desiderii del  Direttorio  francese,  e  placar  meglio  i  furori  del  general
Bonaparte. Le approvava per ignoranza, le  sosteneva  per  dappocaggine,  e  non
sapeva che il Villetard, traditore per forza, aveva promesso quello che  nessuno
aveva in animo di mantenere: Bonaparte meno di tutti gli altri.  Lodovico  Manin
balbettò alcune parole sulla necessità di  accettare  quelle  condizioni,  sulla
resistenza inutile, anzi impossibile, sulla magnanimità del  general  Bonaparte,
sulle lusinghe che si avevano di fortuna migliore per  mezzo  delle  consigliate
riforme. Infine propose  sfacciatamente  l'abolizione  delle  vecchie  forme  di
governo e lo stabilimento della democrazia. Per la metà di un tale delitto Marin
Faliero era morto sul patibolo; Lodovico Manin seguitava a disonorare  coi  suoi
balbettamenti sé, il Maggior Consiglio, la patria, e non vi fu mano  d'uomo  che
osasse strappargli dalle spalle il manto  ducale,  e  stritolare  la  sua  testa
codarda su quel pavimento dove avevano piegato il capo i ministri  dei  re  e  i
legati dei pontefici! - Io stesso ne ebbi pietà; io che nell'avvilimento e nella
paura d'un doge  non  vedeva  altro  allora  che  il  trionfo  della  libertà  e
dell'eguaglianza. Tutto ad un tratto rimbombano alcune scariche di moschetteria:
il Doge si ferma costernato e vuol discendere i gradini del trono; una folla  di
patrizi spaventata se gli accalca intorno gridando: - Alla parte, ai voti! -  Il
popolo urla di fuori; di dentro crescono la confusione e lo sgomento.  Sono  gli
Schiavoni ribelli! (gli ultimi partivano allora e salutavano  con  quegli  spari
l'ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati (i sogni  di  Lucilio).  È  il
popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (il  popolo  nonché  preferire
l'obbedienza a que' nobili, alla piú dura servitù che lo minacciava, amava  anzi
quell'obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti,  la
fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono  la
parte  non  ancor  letta,  che  conteneva  l'abdicazione  della  nobiltà,  e  lo
stabilimento d'un Governo Provvisorio Democratico, sempreché s'incontrassero con
esso i desiderii del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano  i  supremi
voleri del medesimo e il trattato che si stava  stipulando,  davasi  per  motivo
l'urgenza dell'interno pericolo. Venti soli  voti  si  opposero  a  questo  vile
precipizio;  cinque  ne  furono  di  non  sinceri.  Lo  spettacolo   di   quella
deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte  fisonomie,  che  vidi
allora in quella torma di pecori avvilita tremante vergognosa,  le  veggo  anche
ora dopo sessant'anni con profondo  avvilimento.  Ancora  ricordo  le  sembianze
cadaveriche sformate di alcuni, l'aspetto smarrito e come ubbriaco di  altri,  e
l'angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred'io, gettati dalle  finestre
per abbandonare piú presto la scena della loro viltà. Il  Doge  corse  alle  sue
stanze svestendosi per via delle sue insegne, e  ordinando  che  si  togliessero
dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi
a scordare il proprio vitupero nello  spettacolo  d'un  vitupero  maggiore.  Chi
usciva in Piazza aveva cura prima di gettare la perrucca e la toga patrizia. Noi
soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi  (eravamo
cinque o sei), corsimo alle finestre e alla scala gridando: - Viva la libertà! -
Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle  bocche  di  quelli
che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi;
il romore il gridio  cresceva  sempre;  io  credetti  che  un  puro  e  generoso
entusiasmo trasformasse quei mezzi uomini in eroi, e mi precipitai nella Piazza,
gettando in aria la mia perrucca e urlando a perdifiato: - Viva la libertà! - Il
general Salimbeni, appostato con qualche altro cospiratore, s'era  già  messo  a
strepitare in mezzo al popolo eccitandolo al tripudio e al tumulto. Ma la  turba
gli si scagliò contro furibonda, e lo costrinse a gridare: - Viva San  Marco!  -
Quelle nuove grida soffocarono le prime. Molti, massime  i  lontani,  credettero
che la vecchia  Repubblica  fosse  uscita  salva  dal  terribile  cimento  della
votazione. - Viva la Repubblica! Viva San Marco! - fu una sola voce in tutta  la
piazza gremita di gente;  le  bandiere  furono  inalberate  sulle  tre  antenne;
l'immagine dell'Evangelista fu portata  in  trionfo;  e  un'onda  minacciosa  di
popolo corse alle case di quei patrizi che erano in voce d'aver  congiurato  per
la chiamata dei Francesi. In  mezzo  alla  folla,  incerto  confuso  diviso  dai
compagni, m'incontrai in mio padre e  in  Lucilio  forse  meno  confusi  ma  piú
avviliti di me. Essi mi presero fra loro e mi trascinarono verso  la  Frezzeria.
Quei pochi patrizi che aveano votato per l'indipendenza  e  la  stabilità  della
patria ci passarono rasente colle loro perrucche, colle loro toghe strascicanti.
Il popolo faceva largo senza improperi ma senza plauso. Lucilio  mi  strinse  il
braccio. - Li vedi? - mi bisbigliò all'orecchio - il  popolo  grida:  "Viva  San
Marco!" e non ha poi il coraggio di portar in trionfo, e di crear  doge  uno  di
questi ultimi e degni padroni che  gli  restano!...  Servi,  servi,  eternamente
servi! Mio padre non si perdeva in sofisticherie; egli affrettava il passo  come
meglio poteva, e gli tardava l'ora di trovarsi nella sua camera per meditare  al
sicuro il pro' ed il contro. Un proclama della nuova Municipalità che  dipingeva
la vile condiscendenza dei patrizi come un libero e  spontaneo  sacrifizio  alla
sapienza dei tempi, alla giustizia e al bene di tutti rimise la tranquillità nel
buon popolo veneziano. Come il dente d'un topo basta per far calare a fondo  una
nave tarlata, cosí l'intrigo di un segretariuccio parigino, di quattro o  cinque
traditori, e d'alcuni repubblicani avea bastato  per  rovesciare  quell'edifizio
politico che aveva resistito a Solimano II e alla lega di Cambrai.  Rivolgimenti
senza  grandezza  perché  senza  scopo;  ai  quali  dovrebbero   chiedere   lume
d'esperienza i caporioni di partito, quando la fortuna consegna alle  loro  mani
le sorti della patria. Quattro giorni dopo barche veneziane condussero a Venezia
truppe francesi: e una città difesa pochi giorni prima da undicimila  Schiavoni,
da ottocento pezzi  d'artiglieria,  e  da  duecento  legni  armati  si  consegnò
spoglia, volontaria incatenata alla soldatesca balía di  quattromila  venturieri
capitanati da Baraguay d'Hilliers. La Municipalità fece codazzo a costoro fra il
silenzio e il disprezzo della folla. Io pure come segretario ebbi la  mia  parte
di quei taciti insulti; ma l'entusiasmo della Pisana, e le  esortazioni  di  mio
padre mi animavano a tutto sopportare per amore della  libertà.  Compativa  agli
ignoranti né credeva di compatire ai  miseri.  Il  mio  coraggio  fu  debolmente
smosso dalle risposte venuteci dalle provincie di terraferma al nostro invito di
accedere al nuovo governo.  I  podestà  tentennavano,  i  generali  francesi  si
beffavano di noi. Venezia rimase sola  colla  sua  libertà  di  falso  conio.  -
L'Istria e la Dalmazia venivano intanto occupate dall'Austria, giusta la facoltà
concessa dai segreti preliminari di Leoben. Anche questo non mi andava a  versi.
La  Francia  con  flotte  veneziane  s'impadroniva   de'   nostri   possedimenti
nell'Albania e nell'Ionio; minaccia di peggiori oltracontanze. Povero segretario
io non aveva testa bastevole per accordare tutte queste contraddizioni e farmene
un criterio. Sospirava, lavorava, e aspettava di meglio. Intanto gioverà  notare
il peccato per cui cadde Venezia inonorata e incompianta dopo quattordici secoli
di vita meritoria e gloriosa. Nessuno, credo io, avvisò fino ad ora o formulò  a
dovere la causa della sua rovina. Venezia non era piú che  una  città  e  voleva
essere un popolo. I popoli soli nella storia moderna vivono,  combattono,  e  se
cadono, cadono forti e onorati, perché certi di risorgere.


CAPITOLO DECIMOSECONDO

Nel quale, dopo un patetico addio alla spensierata  giovinezza,  si  comincia  a
vivere ed a pensare sul serio: ma pur troppo non ebbi il  vento  in  poppa.  Fin
d'allora era pericoloso fidarsi alle promesse degli ospiti che volevano farla da
padroni: ma gli ospiti, se  non  altro  furono  benemeriti  di  averci  dato  la
sveglia. Nel frattempo la Clara si fa monaca,  la  Pisana  si  marita  con  S.E.
Navagero, ed io seguito a scriver protocolli. Venezia cade la seconda  volta  in
punizione della prima, e i patrioti si ricoverano sbuffando nella Cisalpina.  Io
resto, a quanto sembra, per far compagnia a mio padre.

Addio, fresca e spensierata  giovinezza,  eterna  beatitudine  dei  vecchi  numi
d'Olimpo, e dono celeste ma  caduco  a  noi  mortali!  Addio  rugiadose  aurore,
sfavillanti di sorrisi e di promesse, annuvolate soltanto dai bei  colori  delle
illusioni! Addio tramonti sereni, contemplati oziosamente  dal  margine  ombroso
del ruscello, o dal balcone fiorito dell'amante! Addio vergine luna, ispiratrice
della vaga melanconia e dei poetici amori, tu  che  semplice  scherzi  col  capo
ricciutello dei bambini, e vezzeggi innamorata le pensose pupille  dei  giovani!
Passa l'alba della vita come l'alba d'un giorno; e le notturne lagrime del cielo
si convertono nell'immensa natura in umori turbolenti e vitali. Non piú ozio, ma
lavoro; non piú bellezza, ma attività; non piú immaginazione e pace, ma verità e
battaglia. Il sole ci risveglia ai gravi pensieri, alle opere  affaticate,  alle
lunghe e vane speranze; egli s'asconde la sera lasciandoci un breve e desiderato
premio d'obblio. La luna ascende allora la curva stellata del cielo, e  diffonde
sulle notti insonni un velo azzurrino e vaporoso, tessuto di luce di mestizia di
rimembranze e  di  sconforto.  Sopraggiungono  gli  anni  sempre  piú  torvi  ed
accigliati,  come  padroni  malcontenti  dei  servi;  sembrano  vecchi   cadenti
all'aspetto, e piú son canute le fronti, piú le orme loro  trapassano  rapide  e
leggiere.  È  il  passo  dell'ombra  che  diventa  gigante  nell'appressarsi  al
tramonto. - Addio atrii lucenti, giardini  incantati,  preludi  armoniosi  della
vita!... Addio verdi campagne, piene di erranti sentieri, di  pose  meditabonde,
di bellezze infinite, e di luce, e di libertà, e di canto d'augelli! Addio primo
nido dell'infanzia, case vaste ed operose, grandi a noi fanciulli, come il mondo
agli uomini, dove ci fu diletto il lavoro degli  altri,  dove  l'angelo  custode
vegliava i nostri sonni  consolandoli  di  mille  visioni  incantevoli!  Eravamo
contenti senza fatica, felici senza saperlo; e il  cipiglio  del  maestro,  o  i
rimbrotti dell'aia erano le sole rughe che portasse in fronte il  loro  destino!
L'universo finiva al muricciuolo del cortile; là dentro se non era  la  pienezza
di ogni beatitudine, almeno i desiderii si moderavano, e l'ingiustizia  prendeva
un contegno cosí fanciullesco, che il giorno dopo se ne rideva come d'una burla.
I vecchi servitori, il prete grave e sereno, i parenti arcigni e misteriosi,  le
fantesche volubili e ciarliere, i  rissosi  compagni,  le  fanciullette  vivaci,
petulanti, e lusinghiere ci passavano dinanzi come le apparizioni d'una lanterna
magica. Si avea paura dei gatti che ruzzavano sotto la credenza, si  accarezzava
vicino al fuoco il vecchio cane da caccia, e si  ammirava  il  cocchiere  quando
stregghiava i cavalli senza timore di calci. Per me gli è vero ci  fu  anche  lo
spiedo da girare; ma perdono anche allo spiedo, e torrei volentieri  di  girarlo
ancora per riavere l'innocente felicità d'una  di  quelle  sere  beate,  fra  le
ginocchia di Martino, o  accanto  alla  culla  della  Pisana.  Ombre  dilette  e
melanconiche delle persone che amai,  voi  vivete  ancora  in  me:  fedeli  alla
vecchiaia voi non fuggite né il suo seno gelato né il  suo  rigido  aspetto;  vi
veggo sempre vagolare a me dintorno come in una nube di pensiero e d'affetto;  e
scomparir poi lontano lontano nell'iride variopinta  della  mia  giovinezza.  Il
tempo non è tempo che per chi ha denari a frutto: esso per me non fu  mai  altro
che memoria desiderio  amore  speranza.  La  gioventù  rimase  viva  alla  mente
dell'uomo; e il vecchio raccolse senza maledizione l'esperienza della  virilità.
Oh come mai avrà a finire in nulla un tesoro di affetti e di pensieri che sempre
s'accumula e cresce?... L'intelligenza è un mare di cui noi siamo i rivoli  e  i
fiumi. Oceano senza fondo e senza confine della divinità, io affido senza  paura
ai tuoi memori flutti questa mia vita omai stanca di correre.  Il  tempo  non  è
tempo ma eternità, per chi si sente  immortale.  E  cosí  ho  scritto  un  degno
epitaffio su quegli anni deliziosi da me vissuti nel mondo  vecchio;  nel  mondo
della cipria, dei buli e delle giurisdizioni feudali. Ne uscii  segretario  d'un
governo democratico che non aveva nulla da governare; coi  capelli  cimati  alla
Bruto, il cappello rotondo  colle  ali  rialzate  ai  lati,  gli  spallacci  del
giubbone rigonfi come due mortadelle di Bologna, i calzoni lunghi, e  stivali  e
tacchi cosí prepotenti che mi si  udiva  venire  dall'un  capo  all'altro  delle
Procuratie. - Figuratevi che salto dagli scarpini morbidetti  e  scivolanti  dei
vecchi nobiluomini! Fu la piú  gran  rivoluzione  che  accadesse  per  allora  a
Venezia. Del resto l'acqua andava per la china secondo  il  solito,  salvoché  i
signori francesi si scervellavano ogni giorno  per  trovar  una  nuova  arte  da
piluccarci meglio. Erano begli ingegni e ce la trovavano a meraviglia. I quadri,
le medaglie, i codici, le statue, i quattro cavalli  di  san  Marco  viaggiavano
verso Parigi: consoliamoci che la scienza non avesse ancor inventato il modo  di
smuovere gli edifici e trasportar le torri  e  le  cupole:  Venezia  ne  sarebbe
rimasta qual fu al tempo del primo successore di Attila. Bergamo e Crema s'erano
già occupate definitivamente per riquadrare la Cisalpina; dalle altre  provincie
si vollero radunar a Bassano deputati che giudicassero sul partito da prendersi.
Berthier, destreggiatore, presiedeva per attraversare ogni utile  deliberazione;
io scriveva a Bassano i desiderii dei Municipali, e ne riceveva le risposte.  Il
dottor Lucilio, che senza parerlo seguitava ad esser l'anima del nuovo  governo,
non voleva che si abbandonasse quell'ultima àncora di salute, e  destreggiava  e
si ostinava anche lui. Sembrava che si fosse prossimi ad un  accordo  di  comune
gradimento quando il furbo Berthier dichiarò  a  precipizio  che  l'accordo  era
impossibile, e buona notte! Venezia restò colle sue ostriche, e le provincie coi
loro  presidenti,  coi  loro  generali  francesi.  Victor  a  Padova  gracchiava
impudentemente che non si badasse ai Veneziani, razza putrida  e  incorreggibile
d'aristocratici. Bernadotte, piú sincero, proibiva che da  Udine  si  mandassero
deputati alla commediola di Bassano. I tempi erano cosí tristi che  la  crudeltà
era poco men che pietosa, e certo piú  meritoria  dell'ipocrisia.  Nondimeno  io
tirava innanzi colla benda agli occhi e colla penna in mano, credendo di correre
incontro ai tempi di Camillo o di Cincinnato. Mio padre squassava  il  capo;  io
non gli badava per nulla, e credeva  forse  che  la  volontà  o  la  presunzione
d'alcune teste calde avrebbe bastato a slattare quella  libertà  bambina  e  già
peggio che decrepita. Una sera io vado in cerca della Contessa  di  Fratta  alla
solita casa, e mi dicono che essa ha sloggiato e  che  l'è  ita  a  stare  sulle
Zattere all'altro capo della città. Trotto fino colà, mi arrampico per una scala
di legno malconcia e tarlata e guadagno finalmente un appartamento umido  oscuro
e quasi sprovvisto di suppellettili. Non poteva tornare in me dalla  maraviglia.
Nell'anticamera mi viene incontro la Pisana col lume; lo stupore  cresce,  e  la
seguo  quasi  trasognato  fino  alla  camera  di  ricevimento.  Mio  Dio,   qual
compassione!... Trovai la  Contessa  accasciata  in  un  seggiolone  di  vecchio
marrocchino nero tutto spelato; una  lucernetta  ad  olio  agonizzava  sopra  un
tavolino appoggiatosi al muro per non cadere.  Del  resto  una  vera  camera  da
affittare, senza mobilie, senza cortine, col pavimento di assicelle sconnesse, e
il solaio di travi malamente incalcinati. Le pareti nude e lebbrose, le porte  e
le finestre tanto ben riparate che la  fiamma  miserabile  della  lucerna  stava
sempre per ispegnersi. Accanto alla  Contessa  un  vecchietto  slavato,  bianco,
paffutello sedeva sopra una scranna di paglia; egli  portava  l'elegante  arnese
dei patrizi, ma una tossicina  ostinatella  e  grassiccia  contrastava  alquanto
colla gioventù di quell'acconciatura. La Contessa lesse sulle mie  sembianze  la
maraviglia e il rammarico; laonde si compose alla sua piú bella cera  d'allegria
per darmi una smentita. - Vedi, Carlino? - mi diss'ella con  un  brio  piuttosto
forzato, - Vedi, Carlino, se  sono  una  madre  di  famiglia  ben  avveduta?  La
rivoluzione ci ha rovinati, ed io mi rassegno a ristringermi  a  sparagnare  per
queste care viscere di figliuoli!... - E in ciò dire guardava la Pisana, che  le
si era seduta a fianco rimpetto al nobiluomo, e teneva gli occhi sul petto e  le
mani nelle tasche del grembiale. - Ti presento mio cugino,  il  nobiluomo  Mauro
Navagero - continuò ella - un cugino generoso e disposto a stringere vieppiù con
noi i vincoli della parentela. In poche parole fino da questa mattina egli è  il
promesso sposo della nostra Pisana! Io credo che vidi in quell'istante tutte  le
stelle del firmamento come se un macigno piombatomi addosso m'avesse schiacciato
il petto: indi, a quel balenio di stelle successe una cecità d'alcuni secondi, e
poi tornai ad ascoltare e a guardare senzaché  potessi  raccapezzarci  nulla  di
quelle facce che aveva intorno e del ronzio che mi  sussurrava  nelle  orecchie.
M'immagino che la Contessa si sarà dilungata a magnificarmi il  decoro  di  quel
parentado; certo che il nobiluomo Navagero per la sua tosse, e la Pisana per  la
confusione, non aveano tempo da perdere in  chiacchiere.  Confesso  che  l'amore
della libertà, l'ambizione e tutti gli altri grilli, ficcatimi  in  corpo  dalla
generosità della stessa mia indole e dai raggiri di mio  padre,  fuggirono  via,
come cani scottati da un rovescio d'acqua bollente. La Pisana mi rimase in mente
sola e regina; mi pentii, mi compunsi, mi  disperai  di  averla  trascurata  per
tutto quel tempo, e m'accorsi che io era troppo debole o viziato per trovare  la
felicità nelle grandi astrazioni. Benedetto quello stato civile dove gli affetti
privati sono scala alle virtù civili; e dove  l'educazione  morale  e  domestica
prepara nell'uomo il cittadino e l'eroe! Ma io era nato da un'altra  fungaia;  i
miei affetti contrastavano pur troppo  fra  loro,  come  i  costumi  del  secolo
passato colle aspirazioni del presente. Malanno che si perpetua  nella  gioventù
d'adesso, e di cui si piangono i guasti, senza pensare o senza poter  provvedere
al rimedio. Quando osai rivolgere  gli  occhi  alla  fanciulla  sentii  come  un
impedimento che me li faceva stornare; erano gli sguardi freddi e permalosi  del
frollo fidanzato che erravano dal volto della Pisana  al  mio  coll'inquietudine
dell'avaro. Vi sono certe occhiate che si sentono prima di  vederle;  quelle  di
Sua Eccellenza Navagero ferivano direttamente l'anima senza incommodare il nervo
ottico. Però mi incommodavano tutto quanto, per modo che dovetti  ricorrere  per
ultimo e disperato rifugio al viso raggruzzolito della Contessa. Costei appariva
cosí raggiante di contentezza che ne arrabbiai a tre tanti e finii col perder la
bussola affatto. Uno sprovveduto che appicca lite in un crocchio dove tutti  gli
stanno contro, sarebbe in una condizione migliore assai della mia  d'allora.  La
Pisana col suo riserbo quasi beffardo mi inveleniva peggio  degli  altri.  Stava
per alzarmi, per scappar via disperato a sfogare dovechessia il mio accoramento,
quando entrò a saltacchioni il mio signor padre. Egli era piú vispo, piú  strano
del consueto; e pareva a notizia  di  tutto  ciò  che  aveva  tanto  sorpreso  e
sconsolato me, poiché si congratulò della buona fortuna col  Navagero,  e  volse
alla sposina uno di que'  suoi  occhietti  che  parlavano  meglio  d'una  lingua
qualunque. Cosa volete? quel vedere  anche  mio  padre  schierarsi  fra  i  miei
nemici, a papparsi come tanta manna la mia disgrazia, mi diede un furor tale che
non pensai piú  ad  andarmene,  e  sentii  nell'animo  qualche  cosa  di  simile
all'eroismo d'Orazio solo contro Toscana tutta. Mi rassettai sulla mia  seggiola
sfidando  orgogliosamente  il  risolino  della  Contessa,  l'indifferenza  della
Pisana, la gelosia del Navagero, e la crudeltà di mio padre. Quando poi convenne
alzarsi per partire, m'avvidi troppo tardi che le ginocchia mi reggevano appena,
e chi ci avesse osservato camminare, me, mio padre, e il nobiluomo Navagero,  ci
avrebbe scambiati per tre felicissimi ubbriachi in grado diverso. Non poteva dar
retta ai discorsi che mi facevano, e per la prima volta mi ficcai in letto senza
pensare al corno dorato del futuro doge democratico di  Venezia.  Mille  disegni
varii, bizzarri, spaventevoli mi improvvisavano nel cervello tali arabeschi  che
non arrivava a tenerci dietro. Sfidare a stocco e spada il Navagero,  infilzarlo
come un ranocchio, indi intimare  alla  Pisana  la  mia  solenne  maledizione  e
gettarmi nel canale per la comoda via  della  finestra;  ovvero  dopo  ammazzato
colui prender fra le braccia costei, trafugarla sopra uno stambecco di Smirne, e
menarla meco alla vita del deserto, fra le rovine  di  Palmira  o  sulle  sabbie
dell'Arabia Petrea, ecco i  miei  voli  pindarici  meno  arrisicati.  Del  resto
poetava senza numeri senza accenti senza rime: non pensava né  al  difficile  né
all'impossibile, e avessi avuto in istalla un ippogrifo e nelle tasche i  tesori
di  Creso,  non  avrei  edificato  castelli  in  aria  con  maggior  libertà   e
magnificenza.  Cosí  sognando  m'addormentai,  e  sognai  poscia   dormendo,   e
svegliatomi di buon mattino  rappiccai  il  filo  ai  sogni  del  giorno  prima.
Amilcare mi domandò ragione di quella mia continua fantasticaggine, ed io  fuori
a contargliene piú forse che non avrebbe voluto. - Vergogna! un segretario della
Municipalità perdersi in cotali giullerie! Oh non arrossiva di esser  geloso  di
un vecchio aristocratico bavoso e slombato; e di  sdilinquire  scioccamente  per
una vanerella che pur di maritarsi avrebbe sposato un satiro?... Questo  già  si
vedeva apertamente; e il bel contratto che sarebbe stato il mio di sostenere una
tal parte!... Meglio attendere a mostrarsi uomo, darsi  tutto  alla  patria,  al
culto della libertà, allora appunto che ci stava addosso tanto bisogno! Amilcare
parlava col cuore e mi persuase; non valeva proprio la pena di inasinire  dietro
la Pisana; invece le cure del governo esigevano tutto il mio tempo, tutta la mia
premura. Feci forza a me stesso; perdonai la vita al Navagero,  e  quella  scena
ch'io aveva immaginata di rappresentarla alla Pisana prima  di  annegarmi  o  di
partire per l'Arabia, la mutai in una tacita apostrofe: - "Sta' pure, spergiura!
Sei indegna di me!" - Che io avessi diritto di pronunciare una tale sentenza, ne
dubito alquanto. Primo punto la ragazza nulla mi aveva  giurato,  e  in  secondo
luogo la mia pietosa cessione in favore di Giulio  Del  Ponte  e  la  successiva
trascuraggine potevano averle dato a credere che mi fosse uscita dal cuore  ogni
smania di farla mia. Invece io so benissimo che mai non  ne  ho  smaniato  tanto
come allora; ma la bizzarria e l'incredibilità del mio temperamento mi obbligava
appunto a non tenerle nascoste le sue intime transazioni. Il fatto sta peraltro,
che decisi di romperla colla ferma convinzione di esser io la vittima: e  questo
mi autorizzava a farle ancora il patito piú che non me lo consentissero  i  miei
intendimenti eroici e la pazienza del Navagero. Il conte Rinaldo, che rade volte
compariva nella camera di sua madre, usciva in qualche moto di stizza a  vedermi
tortoreggiare dinanzi a sua sorella. Anch'egli, poveretto, dava addosso al  cane
con tutti gli altri; ed io non mi convertiva d'un punto, persuaso  persuasissimo
di essere tutto nella mia segreteria, e di non pensare alla Pisana,  né  al  suo
matrimonio. Gli affari della casa di Fratta s'imbrogliavano peggio che  mai.  La
signora Contessa giocava sempre accanitamente, e quando non  c'erano  denari  ne
cercava al Monte di Pietà. La filosofia del Contino e  la  spensieratezza  della
Pisana non se ne incaricavano punto; e credo che Sua Eccellenza  Navagero  fosse
destinato secondo essi  a  raccomodare  tutti  quegli  sdrucii.  Quello  che  mi
maravigliava assaissimo si era la dimestichezza che continuava fra la Contessa e
mio padre, benché questi non avesse allentato d'un punto le cordicelle della sua
borsa e avesse attraversato con mille modi il disegno che covava la Contessa  di
un buon matrimonio fra me e la Pisana. Io aveva capito cosí in ombra che  a  mio
padre non garbavano questi progetti, e che egli senza parlarmene  indovinava  la
mia propensione e studiavasi di sviarla. Ma come aveva poi fatto  a  contrastare
le mire della Contessa  serbandosele  in  grazia  lo  stesso?  Ecco  quello  che
m'insegnai di chiarire; e scopersi bel bello che egli era stato il sensale dello
sposalizio col cugino Navagero, e che la mia sfortuna io la doveva soprattutto a
lui. Quanto a me, egli, il  vecchio  negoziante,  aveva  delle  alte  idee;  una
donzella ricchissima della famiglia Contarini gli sarebbe piaciuta per nuora,  e
non  mancava  di  darmi  qualche  colpetto  di  tanto  in  tanto  perché  io  la
distinguessi fra le molte ragazze, le quali (bando alla superbia) non  avrebbero
sdegnato a quel tempo di unire il mio al loro nome. Tutti gli attori hanno sulle
scene del mondo la loro  beneficiata;  e  allora  toccava  a  me.  Il  cittadino
Carletto Altoviti, ex-gentiluomo di  Torcello,  segretario  della  Municipalità,
prediletto del dottor Lucilio, e celebre in Piazza  San  Marco  pei  suoi  begli
abiti, per la sua disinvoltura, e sopratutto pei milioni del signor  padre,  non
era un uomo da buttarlo in un canto. Io peraltro,  raumiliato  nella  mia  boria
dalla ribellione della Pisana, non mi gonfiava piú per cotali meriti; e in  onta
alle esortazioni di Amilcare non sapeva piú sostenere  il  mio  volo  nel  cielo
sublime della libertà e della gloria.  Quel  cielo  cominciava  ad  oscurarsi  a
minacciare tutto all'intorno grossi temporali. Mi fosse anche crollata la  terra
sotto i piedi, non ci mancava altro! Tuttavia  siccome  era  uomo  di  cuore  ed
onorato, non trasandava le mie occupazioni al Palazzo  Municipale.  Soltanto  mi
piaceva piú di rodermi di rabbia al fianco della  Pisana  che  fiutare  in  quel
palazzo la futura aura dogale pronosticatami da mio padre. In quel torno, quando
le faccende di Venezia s'erano già acconciate alla servitù francese, e alla vaga
aspettazione d'un avvenire che appariva sempre piú  triste,  il  dottor  Lucilio
comparve in casa della Contessa di Fratta. Costei temeva già da un  mese  quella
visita e non avea piú il coraggio di  rifiutarla.  Il  dottore  sedette  adunque
dinanzi alla Contessa con quel suo solito fare  né  umile  né  arrogante,  e  le
chiese nei debiti modi la mano della Clara. La Contessa finse una gran  sorpresa
e di essere scandolezzata da una tale domanda; rispose che la sua figliuola  era
prossima a pronunciar i voti e non intendeva per nulla avventurarsi ai  pericoli
del mondo, da lei con tanta prudenza schivati; accennò  da  ultimo,  ai  diritti
anteriori  del  signor  Partistagno  il  quale  seguitava   sempre   ad   empire
bestialmente Venezia delle sue lamentazioni sul sacrifizio imposto alla Clara, e
certo non avrebbe consentito che ella uscisse di convento per  isposarsi  ad  un
altro. Lucilio rimbeccò netto e tondo che la Clara s'era promessa  a  lui  prima
che a nessuno, che i voti non erano ancor pronunciati, che le leggi democratiche
non impedivano omai la loro unione per nessun conto, che la Clara aveva  toccato
la maggiore età, e che in quanto al Partistagno, egli se ne rideva come de' suoi
sussurri che divertivano da un anno i crocchi d'ogni ceto. La Contessa soggiunse
colle labbra strette e con un sorriso maligno che, giacché aveva messo in  campo
l'età omai adulta della Clara, poteva rivolgersi direttamente a lei,  e  che  si
congratulava di vederlo cosí fermo ne'  suoi  propositi,  benché  forse  un  po'
tardivo a decidersi, e che gli augurava del resto che tutto  andasse  a  seconda
de' suoi desiderii. - Signora Contessa  -  conchiuse  Lucilio  -  io  son  fermo
com'ella dice ne' miei propositi, e lo fui sempre da molti anni a questa  parte,
benché volessi piuttosto in grazia loro capovolgere il  mondo  che  violare  una
convenienza od implorare a mani giunte un favore.  Ora  che  le  circostanze  ci
hanno messo del pari,  non  esito  a  chiedere  quello  che  altri  è  pronto  a
concedermi. Io sono ben fortunato che ella  non  voglia  opporsi  colla  materna
autorità alle piú soavi ed ostinate speranze. - S'accomodi, s'accomodi  pure!  -
aggiunse in fretta la Contessa. Pareva che cosí parlasse per paura  di  Lucilio,
ma forse ella pensava alla madre Redenta e derogava fiduciosamente a lei  quello
scabroso incarico di difendere  l'anima  della  Clara  contro  gli  artigli  del
diavolo. La reverenda madre stava alle vedette da un pezzo; e il dottor  Lucilio
nell'accomiatarsi dalla Contessa non credette  forse  di  esser  ancora  al  bel
principio dell'impresa. Tuttavia che fosse molto sicuro non lo vorrei affermare.
Egli avea procrastinato di giorno in giorno per veder prima assicurato a Venezia
il trionfo del suo partito e delle opinioni democratiche.  Allora,  forse  prima
d'ogni altro, fiutava il vento  contrario;  e  superbo  in  volto  ma  disperato
nell'animo s'affrettava a giovarsi di quegli ultimi favori  della  fortuna,  per
soddisfare il voto supremo del suo cuore. Vedeva capitombolare que' bei castelli
in aria di libertà politica, di gloria, e  di  pubblica  prosperità,  e  sperava
salvarsi, aggrappandosi con un'àncora alla felicità domestica. Con tali pensieri
pel capo s'avviò al convento di Santa Teresa, annunciò alla portinaia il proprio
nome, e chiese di  avere  in  parlatorio  la  contessina  Clara  di  Fratta.  La
portinaia scomparve nel monastero e tornò indi a poco a riferire che  la  nobile
donzella desiderava sapere la cagione della sua visita, che ella avrebbe cercato
di soddisfarlo senza distogliersi dal raccoglimento claustrale. Lucilio trabalzò
di sorpresa e di rabbia; ma vide sotto questa risposta una gherminella fratesca,
e tornò a ripetere alla portinaia che un suo colloquio colla signorina Clara era
necessario, indispensabile; e che la signorina doveva ben saperlo anche  lei,  e
che nessuno al mondo  poteva  negargli  il  diritto  di  reclamarlo.  Allora  la
conversa rientrò ancora; e tornò dopo pochi istanti a dire  con  faccia  arcigna
che la donzella sarebbe discesa indi a poco in compagnia della  madre  compagna.
Questa madre compagna non andava giù pel gozzo a Lucilio, ma egli non  era  uomo
da prendersi soggezione d'una monaca, e aspettò un po' irrequieto,  misurando  a
gran passi il pavimento marmoreo, rosso e bianco del parlatorio.  Passeggiava  a
quel modo da lunga pezza quando entrarono la madre Redenta e  la  Clara:  quella
col collo torto cogli occhi bassi colle mani incrocicchiate sullo stomaco,  e  i
mustacchietti del labbro superiore piú irti del solito: questa  invece  calma  e
serena come sempre; ma  la  sua  bellezza  erasi  illanguidita  pel  chiuso  del
monastero, e l'anima ne traluceva piú pura e ardente che mai, come stella da una
nebbia che va diradando. Erano molti anni che i due amanti non si vedevano  cosí
dappresso; pure non diedero segno di gran turbamento; la  loro  forza,  il  loro
amore stavano cosí profondi nel cuore, che alle sembianze non ne giungeva che un
riflesso fioco e lontano. La madre Redenta cercava fra le  folte  siepaie  delle
sue ciglia un traforo per cui spiare  senz'essere  osservata;  le  sue  orecchie
vigilavano cosí spalancate che avrebbero sentito volare una mosca all'altro capo
della stanza. - Clara - cominciò a dire Lucilio  con  voce  forse  piú  commossa
ch'ei non voleva - Clara, io vengo dopo un lunghissimo tempo a ricordarvi quello
che mi avete promesso; credo che anche per voi come per me  questi  lunghi  anni
non saranno stati che un sol giorno di  aspettazione.  Ora  nessun  ostacolo  si
oppone  ai  desiderii  del  cuor  nostro;  non  piú  coll'impazienza   e   colla
sbadataggine  della  giovinezza,  ma  col  senno  afforzato,  e  col   proposito
immutabile dell'età matura, io domando  che  mi  ripetiate  con  una  parola  la
promessa di felicità che m'avete fatta al cospetto  del  cielo.  Né  volontà  di
parenti né tirannia di leggi né convenienze sociali impediscono  piú  la  vostra
libertà o la mia delicatezza. Io vi offro un cuore, pieno di  un  solo  affetto,
acceso tutto d'una fiamma che non morrà mai  piú,  e  provato  e  riprovato  dal
lavoro dalla pazienza dalla sventura. Clara, guardatemi in volto. Quando  è  che
sarete mia?... La donzella tremò da capo a piedi, ma fu un attimo; ella appoggiò
sul petto una mano che contrastava pallidissima colla nera tonaca delle novizie,
e alzò nel volto di Lucilio uno sguardo lungo e misterioso che  pareva  cercasse
traverso ad ogni cosa le speranze del cielo. - Lucilio - rispose  ella  premendo
alquanto quella mano sul cuore - io ho giurato  innanzi  a  Dio  di  amarvi,  ho
giurato nel mio cuore di farvi felice per quanto starà in  me.  È  vero:  me  ne
sovvengo sempre, e mi  adopero  sempre  perché  le  mie  promesse  abbiano  quel
maggiore effetto che Dio  loro  consente.  -  Come  sarebbe  a  dire?  -  sclamò
ansiosamente Lucilio. La madre Redenta s'arrischiò a sollevare le palpebre,  per
metter fuori due occhi cosí spaventati come se appunto l'avesse veduto le  corna
di Berlicche. Ma il calmo aspetto  della  Clara  rimise  piú  tranquilli  quegli
sguardi di dietro le solite feritoie. - Vi dirò tutto - soggiungeva  intanto  la
donzella - vi dirò tutto, Lucilio, e voi giudicherete. Io son entrata in  questo
luogo di pace per fidare l'anima mia a Dio e alla sua Provvidenza; vi ho trovato
affetti pensieri e conforti che mi fanno omai guardare con ribrezzo al resto del
mondo... Oh no, no Lucilio! Non vi sdegnate! Le anime nostre non erano fatte per
trovare la felicità in questo secolo di vizio e di perdizione. Rassegnamoci e la
troveremo lassù! - Che dite mai? quali parole pronunciate ora, che mi  straziano
il cuore ed escono dalle vostre labbra colla soavità d'una melodia?  Clara,  per
carità tornate in voi!... Pensate a me!... Guardatemi in volto!... Ve lo  ripeto
con le mani in croce: pensate a me! -  Oh  ci  penso!  ci  penso  anche  troppo,
Lucilio; perché son troppo impigliata nelle cose mondane per sollevarmi  pura  e
semplice a Dio!... Ma che volete, Lucilio che volete  da  me?...  La  Repubblica
nostra è caduta in balía di uomini stranieri senza religione e senza  fede.  Non
v'è piú bene non v'è piú speranza, altro che nel cielo per le anime timorate  di
Dio. Perché fidarsi, Lucilio, alle lusinghe di quaggiù?... Perché stabilire  una
famiglia in questa società che non ha piú rispetto  a  Dio  ed  alla  Chiesa?...
Perché?... - Basta, basta, Clara!... Non  prendetevi  scherno  del  mio  dolore,
della mia rabbia! Pensate a quello che  dite,  Clara;  pensate  che  voi  dovete
render conto dell'anima mia a quel Dio che adorate e che intendete servir meglio
consumando un sí atroce delitto. La Repubblica è caduta?... la  religione  è  in
pericolo?... Ma che ha a far tutto ciò con le promesse  ch'io  ebbi  da  voi?...
Clara, pensate che il primo precetto e il piú sublime del Vangelo vi comanda  di
amare il vostro prossimo. Ora, come prossimo, nulla piú che come prossimo, io vi
domando che vi ricordiate dei vostri giuramenti e che non vi facciate un  merito
presso a Dio di essere spergiura!... Dio abborre e condanna gli  spergiuri;  Dio
rifiuta i sacrifizi offerti a prezzo delle lagrime e del  sangue  altrui!...  Se
volete sacrificarvi, or  bene  sacrificatevi  a  me!...  Se  non  come  felicità
accettatemi come martirio!... La madre Redenta tossí romorosamente per  guastare
l'effetto di queste parole recitate da Lucilio con un furor tale di disperazione
e di preghiera che spezzava l'anima. Ma la Clara si volse a  lei  rassicurandola
con un gesto, indi levato uno sguardo al cielo non temé di avvicinarsi a Lucilio
e di mettergli castamente una mano sulla spalla.  Il  povero  sapiente  indovinò
tutto da quello sguardo, da quell'atto, e sentí col cuore lacerato di non  poter
seguire in cielo quell'anima che gli sfuggiva, beata nei proprii  dolori.  -  Ma
perché, perché mai, o Clara? - proseguí egli senza  pur  aspettare  ch'essa  gli
dichiarasse il senso terribile di quei  movimenti.  -  Perché  volete  uccidermi
mentre potreste risuscitarmi?... Perché vi dimenticate dell'amore  santo  eterno
indissolubile che m'avete giurato? - Oh quest'amore, piú santo  piú  eterno  piú
indissolubile di prima ve lo giuro  anche  adesso!  -  rispose  la  donzella.  -
Soltanto le nostre nozze siano in cielo poiché sulla terra Iddio le proibisce ai
suoi fedeli!... Ve lo giuro, Lucilio! Io vi amo sempre, io non amo  che  voi!...
Quest'amore ho potuto purificarlo santificarlo, ma non potrei strapparmelo dalle
viscere senza morire! Da ciò appunto vedete se la mia vocazione è vera e tenace.
Vi amerò sempre, vivrò sempre con voi in comunione di preghiere e di spirito. Ma
di piú, Lucilio, voi non avete diritto di chiedermi...  Di  piú  io  non  potrei
concedervi perché Dio me lo proibisce! - Dio adunque vi comanda di uccidermi!  -
esclamò  con  un  urlo  Lucilio.  La  madre  Redenta  gli  corse   dappresso   a
raccomandargli la temperanza perché le suore stavano  allora  in  meditazione  e
potevano aver molestia da quelle vociate. La Clara abbassò gli occhi; pianse  la
poveretta; ma né si piegò né si scosse  dal  suo  fermo  proposito.  Le  torture
ch'ella provava erano immense; ma la suora  compagna  avea  contato  bene  sulle
astuzie adoperate per affatturarla  in  quel  modo.  Omai  l'anima  della  Clara
abitava in cielo, e le cose di quaggiù non  le  vedeva  che  da  quelle  altezze
infinite. Avrebbe scontato colla propria morte un peccato veniale di Lucilio, ma
l'avrebbe anche ucciso per assicurargli la salute eterna. Infatti ella  tramortí
e tremò tutta, ma  si  strinse  piú  vicina  a  lui,  e  riavendosi  subitamente
soggiunse: - Lucilio, mi amate? Or bene fuggitemi!... Ci  incontreremo,  siatene
certo, in luogo migliore di questo... Io pregherò per voi, pregherò per voi  nei
cilici e nel digiuno... - Bestemmia! - gridò l'altro allora. - Voi  pregare  per
me?... Il carnefice che intercede per la vittima!... Dio  avrà  orrore  di  tali
preghiere!  -  Lucilio!  -  soggiunse  modestamente  la  Clara.  -  Tutti  siamo
peccatori, ma quando... La  madre  Redenta  interruppe  queste  parole  con  una
opportuna gomitata. - Umiltà, umiltà, figliuola!  -  brontolò  essa.  -  Non  vi
bisogna parlare né insegnare altrui quando non  ne  sia  mestieri  strettamente.
Lucilio sbalestrò alla vecchia un'occhiata quale ne suol  dardeggiare  il  leone
tra le sbarre della sua  gabbia.  -  No,  no  -  soggiunse  egli  amaramente.  -
Insegnatemi anzi, ché  son  molto  novizio  in  quest'arte,  e  morrò  certo  di
crepacuore prima d'averla imparata!... - Ed io, credete  ch'io  brami  e  voglia
vivere un pezzo? - soggiunse mestamente la Clara. - Sappiate che nessuna  grazia
domando alla Madonna con tanta insistenza con tanto  fervore  quanto  questa  di
morir fra breve e di salire in cielo a intercedere  per  voi!...  -  Ma  io,  io
sdegno le vostre preghiere! - scoppiò  rugghiando  Lucilio.  -  Io  voglio  voi!
voglio la mia felicità, il ben  mio!...  -  Calmatevi!  abbiate  compassione  di
me!... Nel mondo non v'è piú bene, lo so pur troppo!... Sapete che corre già  la
voce dell'abolizione di tutti gli Ordini  religiosi,  e  della  demolizione  dei
conventi!... - Sí sí; e questa voce si  avvererà!...  Ve  lo  giuro  io  che  si
avvererà. Io stesso farò sí che di questi sepolcri  di  viventi  non  resti  piú
pietra sopra pietra!... - Tacete, Lucilio, per carità tacete! - riprese la Clara
guardando affannosamente la madre compagna che si  dimenava  forse  con  segreta
compiacenza sulla sua seggiola. - Convertitevi al timore di Dio e alla fede vera
fuor della quale non v'è salute!... Non commettete questi peccati di eresia  che
vi fanno colpevole mortalmente dinanzi a Dio!  Non  oltraggiate  la  santità  di
quelle anime che sposano su questa terra  il  loro  Creatore  per  renderlo  piú
clemente verso i loro fratelli d'esilio!... -  Anime  ipocrite,  anime  false  e
corrotte - esclamò digrignando Lucilio - le quali adoperano per accalappiare per
domare altre anime semplici e deboli!... - No,  signor  dottore  carissimo;  non
voglia calunniarci cosí alla cieca - entrò a dire con voce  secca  e  nasale  la
madre compagna. - Queste anime ipocrite che  sacrificano  la  vita  intiera  per
afforzare e per salvare le deboli, sono le sole che difendano omai la fede  e  i
buoni costumi contro le perversità mondane. È merito loro se molte anime  deboli
diventano cosí forti e  sublimi  da  appoggiare  ogni  speranza  in  Dio,  e  da
riguardar le parole d'un semplice voto come una  barriera  insuperabile  che  le
divide per sempre dal consorzio dei tristi e  degli  increduli.  Gli  è  vero  -
soggiunse ella chinando il capo - che restiamo congiunte  ad  essi  col  vincolo
spirituale dell'orazione,  la  quale,  vogliamo  sperarlo,  gioverà  a  salvarne
qualcuno dagli artigli infernali. - Oh presto presto i tristi  e  gli  increduli
sciorranno i vostri voti! - sclamò Lucilio con voce  tonante.  -  La  società  è
opera di Dio e chi si ritragge da essa ha il rimorso del delitto o  la  codardia
dello spavento, o la dappocaggine dell'inerzia nell'animo!... - In quanto a  voi
(e si volgeva specialmente alla Clara), in quanto a voi che avete pervertito  la
coscienza vostra disumanandola, quanto a voi che salite al cielo calpestando  il
cadavere d'uno che vi ama, che non vede, che non vive, che  non  pensa  che  per
voi, oh abbiatevi sul capo l'ira e la maledizione... - Basta Lucilio!  -  sclamò
la donzella con piglio solenne. - Volete saper tutto? Or bene ve lo  dirò!...  I
voti ch'io pronuncerò domenica solennemente dinanzi all'altare di Dio, li ho già
espressi col cuore dinanzi al medesimo Dio in quella notte fatale che  i  nemici
della religione e di Venezia entrarono in questa città. Fummo otto  ad  offerire
la nostra libertà la nostra vita per l'allontanamento di  quel  flagello,  e  se
quegli infami quegli scellerati saranno costretti ad  abbandonare  la  preda  sí
vilmente  guadagnata,  Dio  avrà  forse  benignamente   riguardato   il   nostro
sacrifizio!... La madre Redenta ghignò sotto la cuffia, Lucilio dimise  un  poco
del suo furore e mosse alcun passo verso l'uscio: indi  tornò  presso  la  Clara
quasi gli fosse impossibile di abbandonarla a quel modo. - Clara - riprese  egli
- io non vi pregherò piú; lo veggo, sarebbe inutile. Ma vi darò lo spettacolo di
tanta infelicità che i rimorsi vi perseguiteranno fin nel silenzio e nella  pace
del chiostro. Oh voi non sapete, non avete mai saputo quanto vi  amassi!...  Non
avete misurato gli abissi profondi ed infiammati dell'anima mia tutti  pieni  di
voi: non avete dimenticato voi stessa,  come  io  dimenticava  affatto  me,  per
vivere sempre in voi. I sacrifizi ve li imponete con mille sottigliezze mentali,
non li accettate dalla  santa  spontaneità  dell'affetto  e  del  sentimento!...
Clara, io vi lascio a Dio, ma Dio vi vorrà egli?... L'adulterio è egli  permesso
da quei santi comandamenti che sono il sublime compendio dei nostri doveri?  Non
so se cosí parlando Lucilio intendesse di capitolare  o  di  tentare  un  ultimo
colpo. Del resto fra lui e la Clara combattevano come due schermitori  fuori  di
misura, contendevano come due litiganti ognuno de' quali  adoperava  una  lingua
sconosciuta all'altro. La madre Redenta trionfava sotto la sua  cuffia  di  quel
potente e instancabile macchinatore che, si può dire, aveva dato l'ultimo crollo
ad un governo di quattordici secoli, e mutato  faccia  ad  una  bella  parte  di
mondo. Perché mai godeva ella di adoperare cosí?... Prima di  tutto  perché  non
v'ha orgoglio che superi l'orgoglio degli umili; indi perché si vendicava  sugli
altri della infelicità  propria,  e  da  ultimo  perché  voleva  mantenere  alla
Contessa ciò che le aveva promesso. Dopo tanti anni di  lento  lavorio  ammirava
allora nella costanza della Clara l'opera  propria,  e  non  avrebbe  dato  quei
momenti per l'abbazia piú cospicua dell'Ordine. Quanto  a  Lucilio,  dopo  tanti
anni di fatica,  di  perseveranza  e  di  sicurezza,  dopo  aver  superato  ogni
impedimento, e atterrato ogni ostacolo, vedersi respinto senza remissione  dallo
scrupolo divoto d'una donzella, e non poter conquidere un'anima dov'egli  sapeva
di regnar ancora, era per lui un delirio che vinceva la stessa immaginazione!...
Con ogni sforzo di  mente  e  di  cuore  era  giunto  là  dove  era  impossibile
l'avanzare e il retrocedere: era giunto a diffidare di sé,  dopo  una  sí  lunga
sequela di continui trionfi. La fiducia avuta  per  l'addietro  aggiungeva  alla
sconfitta una vera disperazione. Tuttavia non credo ch'egli si desse per  vinto:
giacché egli era di quella tempra che cede solamente alla frattura della  morte.
Ma l'amore diventò in lui rabbia,  odio,  furore:  e  in  quelle  ultime  parole
rivolte amaramente alla Clara la sola superbia  lottava  forse  ancora.  L'amore
s'era sprofondato dentro l'anima sua ad attizzarvi un incendio di  tutte  quelle
passioni che prima servivano a lui ubbidienti e quasi ragionevoli.  La  donzella
nulla rispose agli insulti ch'egli le scagliava; ma quel silenzio esprimeva  piú
cose d'un lungo discorso, e Lucilio tornò a saltargli contro con  un  impeto  di
rimbrotti e d'imprecazioni, come  il  toro  furibondo,  che  impedito  di  uscir
dall'arena, si spacca il cranio contro lo steccato.  Infuriò  a  sua  posta  con
grande scandalo della madre Redenta, e molta compassione della  Clara:  indi  la
volontà riebbe il freno di quelle furie scomposte, e fu tanto forte e orgogliosa
da persuaderlo ad andarsene, lasciando  per  ultimo  saluto  alla  donzella  uno
sguardo  di  pietà  insieme  e  di  sfida.  Lo  ripeto  ancora  che  la   ferita
dell'orgoglio fu in lui forse piú profonda che quella dell'amore; infatti  anche
in quei terribili momenti egli ebbe campo a pensare di ritirarsi coll'onor delle
armi. Io sarei morto ingenuamente di crepacuore; egli si  sforzò  a  vivere  per
persuadere se stesso che delle proprie passioni  della  propria  vita  egli  era
sempre il solo padrone. Fosse poi  vero  non  potrei  assicurarlo.  Anzi  io  mi
ricordo averlo veduto a quei giorni; e benché fossi anche  troppo  occupato  de'
casi miei, pure non mi sfuggí affatto una tal  quale  costernazione  ch'egli  si
studiava indarno di celare sotto la solita austera imperturbabilità.  A  poco  a
poco peraltro vinse l'uomo vecchio; egli si rizzò ancora, l'orgoglioso  gigante,
dalla  sua  breve  sconfitta;  le  sventure  della  patria  lo  trovarono  forte
invincibile a sopportarle; forse tanto piú forte ed invincibile quanto  era  piú
disperato di sé. La Clara pronunciò solennemente i suoi voti,  e  Lucilio  serbò
tutta per sé l'angoscia e la rabbia per questa perdita irrimediabile. La  Pisana
si sposò poco dopo al nobiluomo Navagero: e Giulio Del Ponte li seguí all'altare
col sorriso della speranza sul volto. Egli non l'amava come l'amava io. Io  solo
adunque rimasi a  fare  spettacolo  per  ogni  luogo  del  mio  furore  del  mio
accoramento.  Non  potea  darmi  pace,  non  potea  pensar   al   futuro   senza
rabbrividire; eppur non osava neppur allora nei delirii del dolore maledire alla
Pisana; e tutte le mie maledizioni le serbava per la Contessa che aveva avvilito
la propria figlia in un  matrimonio  mostruoso  per  godere  l'abbondanza  e  le
comodità di casa Navagero. Seppi poi di piú, che anche le astuzie adoperate  per
imbigottire la Clara dipendevano da una questione di quattrini. La  vecchia  non
avea pagato al convento che metà della dote e promesso il resto ed  assicuratolo
sopra le sue gioie: ma lo scrigno era vuoto, le gioie  brillavano  al  Monte  di
Pietà, ed essa temeva sul serio che la  Clara  maritandosi  le  avrebbe  chiesto
conto di ogni suo avere. Ecco molti guai dovuti alla smania troppo furiosa d'una
dama per la bassetta e pel faraone. Il conte Rinaldo si era  salvato  da  quella
rovina e dal disonorevole patrocinio del cognato accettando un posto oscurissimo
nella Ragioneria del governo. Un ducato d'argento  al  giorno  e  la  Biblioteca
Marciana lo assicuravano da tutti i bisogni della vita. Ma io  lo  vedeva  anche
lui camminare per via col capo e cogli occhi internati; scommetto  che  non  era
l'ultimo a sentire dolorosamente la viltà di quei costumi,  di  quei  tempi.  Lo
confesso colla vergogna sul volto; era proprio  viltà.  Tutti  sapevano  ove  si
precipitava e  ognuno  faceva  le  viste  di  non  saperlo  per  esser  liberato
dall'incommodo di disperarsene. Il solo Barzoni fra i letterati  osò  alzare  la
voce contro i Francesi con quel suo libro già in addietro accennato  dei  Romani
in  Grecia.  Ma  questa  erudizione  falsificata  in  libello,   questa   satira
stiracchiata  colle  analogie  è  già  indizio  di  temperamento  fiacco,  e  di
letteratura evirata. Fu un gran sussurro intorno a  quel  libro  ed  all'anonimo
autore; ma lo leggevano a porte chiuse col solo testimonio della candela, pronti
a gettarlo sul fuoco al minimo sussurro ed a proclamare il giorno dopo sui caffè
che  le  depredazioni  di  Lucullo  e  l'astuta  generosità  di   Flaminio   non
somigliavano per nulla al governo generoso e liberale di Bonaparte. Infatti egli
ci spogliava della camicia per farne un presente  alla  libertà  di  Francia;  i
futuri servi dovevano restare ignudi come gli iloti di Sparta.  Egli  aveva  già
rimpastato intorno a Milano la Repubblica Cisalpina, minaccia piú  che  promessa
alla sempre provvisoria Municipalità  di  Venezia.  La  liberazione  del  signor
d'Entragues, ministro borbonico, vilmente consegnatogli dalla scaduta  Signoria,
lo aveva messo in voce di galantuomo presso gli emigrati; ne speravano un  Monk;
guardate che nasi! Invece i  repubblicani  incorreggibili,  i  demolitori  della
Bastiglia, gli adoratori  degli  alberi,  i  Bruti,  i  Curzi,  i  Timoleoni  lo
adocchiavano di sbieco, tacciandolo  sottovoce  di  alterigia,  di  falsità,  di
tirannia. La Municipalità, che dopo lo scacco di Bassano si sentiva mancar sotto
i piedi il terreno, ebbe l'ingenuo capriccio di chieder  l'incorporamento  degli
Stati veneziani nella nuova Repubblica  lombarda.  Ma  i  governanti  di  questa
risposero parole  dure  ed  altiere;  sarebbe  un  fratricidio,  se  la  volontà
sottintesa del Bonaparte non lo spiegasse per servilità. Ad  ogni  modo  restino
infamati per sempre i nomi di coloro che sottoscrissero un foglio dove si negava
aiuto a una città sorella, sventurata e pericolante. Meglio annegare insieme che
salvarsi senza stendere una mano al congiunto all'amico che implora pietosamente
soccorso. Io per me sperava come gli altri nella venuta  del  Generale;  sperava
che i segni i monumenti della nostra grandezza  passata  lo  avrebbero  distolto
dalla crudele e premeditata indifferenza ch'egli già cominciava  a  ostentare  a
nostro riguardo. Ma invece del Generale, trattenuto da rimorsi  o  da  vergogna,
non ci capitò che sua moglie, la bella Giuseppina. Essa sbarcò in Piazzetta  con
tutta la pompa d'una dogaressa; e ne aveva se non la maestà certo  lo  splendore
in quelle sembianze di vera creola. Tutta Venezia fu a' suoi piedi;  coloro  che
avevano accarezzato Haller, il banchiere, l'amico di  Bonaparte,  per  ottenerne
una prolungazione di agonia alla vecchia Repubblica,  accarezzarono,  adularono,
venerarono allora la moglie del sensale dei  popoli,  perché  non  si  uccidesse
prima della nascita quell'aborto nuovo di libertà. Io pure mi pavoneggiai  colla
mia splendida tracolla di segretario nel corteggio dell'Aspasia  parigina.  Vidi
la sua bella bocca  sorridere  alle  gentilezze  veneziane,  udii  la  sua  voce
carezzevole bisbigliare il francese quasi come un  dialetto  italiano;  io,  che
n'avea studiato  un  pochino  in  quei  tempi  di  infranciosamento  universale,
balbettava a mia volta l'oui e il n'est pas con taluno degli aiutanti  di  campo
che l'accompagnava. Infine fosse prestigio di bellezza,  o  apparenza  di  buona
volontà, o tenacità di lusinghe, le speranze degli illusi ebbero qualche ristoro
dalla visita di quella donna. Perfino mio padre non iscrollava piú il capo, e mi
spingeva ad avanzarmi a farmi vedere nella prima  fila  degli  adulatori.  -  Le
donne, figliuol mio, le donne son tutto - mi diceva egli. -  Chi  sa?  forse  il
cielo ce l'ha mandata: da picciol seme nascono le grandi piante; non mi stupirei
di nulla. Invece il dottor Lucilio, che addomesticato col ministro di Francia fu
ammesso  piú  d'ogni  altro  all'intrinsichezza  della  bella  visitatrice,  non
partecipò, per quanto mi pare, a codesto invasamento generale.  Egli  studiò  in
Giuseppina non la donna ma la  moglie;  da  questa  indovinò  il  marito,  e  il
pronostico che ne trasse per la nostra sorte che stava nelle  sue  mani  non  fu
molto favorevole. Si confermò piucchemai nella sua profonda disperazione;  e  lo
vidi a quei giorni piú tetro e misterioso del solito. Gli  altri  ballonzolavano
tutti  che  parevano  alla  vigilia  del  millennio.  Municipali,   capi-popolo,
ex-senatori, ex-nobili, dame, donzelle, abati e gondolieri s'affoltavano  dietro
la moglie del gran capitano. La bellezza può  molto  a  Venezia;  essa  potrebbe
tutto quando fosse avvivata internamente da qualche alto  sentimento,  e  ce  ne
diedero tempi piú vicini una prova. Le donne fanno gli uomini,  ma  l'entusiasmo
improvvisa le donne anche dove l'educazione non ha preparato che delle  bambole.
Piú volte facendo codazzo alla Beauharnais, o nelle sue anticamere, la Pisana  e
il suo frollo sposino mi passarono rasente il gomito. Io ne guizzava tutto, come
se mi rovesciassero una catinella d'acqua sul dorso; ma mi sovveniva  della  mia
dignità, delle raccomandazioni di mio padre e mi faceva pettoruto  e  disinvolto
per attrar l'attenzione dell'ospite illustre. Essa infatti mi osservò, e la vidi
chieder conto di me a Sua Eccellenza Cappello che  le  reggeva  il  braccio:  si
parlarono sottovoce, ella mi sorrise e mi porse la mano  che  baciai  con  molto
rispetto. Cosí si trattavano allora le mogli dei liberatori, con bocca devota  e
ginocchi piegati. Gli è vero che quella mano era cosí paffutella cosí morbida  e
perfetta da far uscir di capo  che  la  appartenesse  ad  una  cittadina;  molte
imperatrici ne avrebbero desiderato un paio di simili, e  Catterina  II  non  le
ebbe mai, per quanti saponi ed acque nanfe le componessero i suoi  distillatori.
Allora io diventai, dico dopo quel bacio, un personaggio di gran momento,  e  la
Pisana mi onorò d'un'occhiata che non era  certo  indifferente.  Sua  Eccellenza
Navagero mi guardò anch'esso con minore indifferenza della moglie, né ci  voleva
di piú per farmi smarrire affatto. In buon punto soccorse Giulio Del Ponte,  che
seguiva a quanto sembra la coppia fortunata, e mi volsi tutto confuso a  parlare
con lui. Non so di che discorressi, ma mi ricorda che cascammo alla Pisana ed al
suo matrimonio. Giulio non era piú felice l'un per cento di quanto aveva sperato
di poterlo diventare il giorno delle loro nozze; infatti lo adocchiai allora,  e
lo vidi incadaverito, come  un  amante  in  procinto  di  fallire.  La  malattia
dell'animo lo aveva ripreso; e rodeva lentamente un corpo gracile  di  natura  e
già offeso da precedenti  disgrazie.  Però  non  lo  compatii  allora  come  per
l'addietro: aveva capito di qual tempra fosse l'amor  suo,  e  non  lo  reputava
degno né di stima né di pietà. Io mi maraviglio ancora che colla maniera di  mia
educazione, avessi potuto serbare una tal rettitudine  di  giudizio  nelle  cose
morali. Ma dubito ancora che l'avessi a danno degli altri, e  che  verso  di  me
sarei stato di gran lunga piú indulgente. Comunque la sia non entrai a parte per
quella volta dell'accoramento di Giulio, e lo lasciai smaniare  a  disperarsi  a
sua posta senza piangere: tanto piú che allora non poteva fargli cessione  della
Pisana, né cancellare a suo conforto  quella  larva  incommodissima  di  marito.
Infatti l'occhiuta e pettegola gelosia di  costui  era  il  primo  tormento  del
povero Giulio; ma  se  ne  aggiungeva  uno  di  peggiore  assai.  -  Vedi  -  mi
bisbigliava egli all'orecchio con un rabbioso scricchiolio di denti - vedi  quel
lesto ufficialino che tien sempre dietro alla Pisana, e saltella dal  fianco  di
lei a quello del marito, ed ora si avvicina  alla  bella  Beauharnais  e  le  fa
riverenza e le stringe il dito mignolo con tanta leggiadria?... Or bene,  quello
è il cittadino Ascanio Minato, di Ajaccio, un mezzo italiano e  mezzo  francese,
un compaesano di Bonaparte, aiutante di campo del generale Baraguay d'Hilliers e
alloggiato per ordine della Municipalità nel palazzo Navagero... Come vedi è  un
bel giovine, un brunetto svelto e di alta corporatura, pieno di brio di superbia
e di salute; coraggioso, dicono, come un disperato,  e  spadaccino  piú  di  don
Chisciotte... Per giunta poi ha l'assisa del soldato che alle  donne  piace  piú
della virtù. Il vecchio Navagero che non vuol per casa damerini e cascamorti  di
Venezia ha ben dovuto sopportar in pace questo intruso d'oltremare. Il poveretto
ha paura, e per non  incorrere  nel  sospetto  d'aristocratico  o  di  misogallo
sarebbe anche capace di lasciarsi... Basta!... È l'eroismo della paura e gli sta
bene a quel visetto decrepito e bambinesco, chiazzato di giallo e di rosso  come
l'erba pappagallo. La signorina diventa francese ogni giorno piú;  già  ella  ne
cinguetta mezzo  dizionario  come  una  parigina,  e  temo  che  le  parole  piú
interessanti  le  abbia  già  fatte  entrare  nel  dialogo.  S'intende  già  che
l'ufficiale còrso non si degna dell'italiano... Io non  parlo  che  italiano!...
Figurati!... Ma se n'accorgeranno, se n'accorgeranno di questi liberatori! Hanno
cancellato il Pax tibi Marce dal libro  del  Leone  per  inscrivervi  i  Diritti
dell'uomo. Peggio per noi che l'abbiamo voluto!... Peggio mille volte tanto  per
quelli che si rassegnano!... Oh la si vuol vedere bella!... Fin qui  io  lasciai
correre senza argine quel fiume di eloquenza; ma  quando  egli  si  mise  a  far
gazzarra d'una sí triste speranza, e a desiderar quasi da  un  pubblica  e  cosí
grande sventura la vendetta d'un proprio torto affatto privato, allora mi sentii
gonfiar entro un temporale di sdegno e scoppiai  in  un'apostrofe  che  lo  fece
restare come una statua. - E tu ti rassegneresti a vederla? - gli dissi  io  con
uno stupore pieno di sprezzo negli occhi. Vi ripeto ch'egli  rimase  lí  a  modo
d'una statua: salvoché respirava con tanta fatica che almeno  le  statue  questa
fatica non l'hanno. Pure un qualche cruccio lo provava anch'io per questo  nuovo
trascorso della Pisana ch'egli mi raccontava; e nullameno lo giuro  che  non  mi
rimase posto nel cuore per un tale  rammarico,  tanto  mi  aveva  inorridito  la
cinica scappata di Giulio.  Seguitai  a  rampognarlo  a  tempestarlo  della  sua
sacrilega speranza; e gli dimostrai che non sono i piú  codardi  quelli  che  si
rassegnano, appetto di coloro che mettono  la  loro  soddisfazione  nella  viltà
altrui e nella rovina della patria. M'infervorava tanto che rimasimo soli  senza
che me ne avvedessi: la comitiva avea seguito la Beauharnais nel Tesoro  di  San
Marco, donde si doveva estrarre una magnifica  collana  di  cammei  per  farlene
presente. Quando ci avviammo per raggiungerli  erano  già  usciti  in  Piazza  e
tornavano verso il Palazzo del  governo.  Voi  non  vi  figurerete  mai  la  mia
grandissima sorpresa nel discernere fra la gente che  corteggiava  la  francese,
Raimondo Venchieredo; e misti colla folla, Leopardo Provedoni e sua moglie,  che
anch'essi si lasciavano menare dalla curiosità in quella processione.  Per  quel
giorno la cerimonia era finita, onde io, abbandonando  il  Del  Ponte  alla  sua
stizza m'accostai a questi ultimi, colle festose accoglienze e con quei tanti oh
di maraviglia e di piacere che si usano coi compaesani e  coi  vecchi  amici  in
paese forestiero... La Doretta aveva gli occhi perduti dietro  a  Raimondo,  che
era scomparso nell'atrio del Palazzo coi cortigiani piú sfegatati;  Leopardo  mi
strinse la mano e non ebbe coraggio di  sorridermi.  Peraltro  condotta  ch'egli
ebbe la moglie a casa in due stanzette vicino al Ponte Storto,  e  rimasto  solo
con me, rimise un poco di quella sostenutezza e mi diede il perché e il  percome
di quella loro venuta a Venezia. Il vecchio signor di Venchieredo  pareva  fosse
molto domestico a Milano del general Bonaparte; lo aveva seguito a Montebello in
un segreto abboccamento coi ministri dell'Austria, e poi  aveva  fatto  un  gran
correre da Milano a Gorizia, da Gorizia a Vienna, e da Vienna  ancora  a  Milano
per tornar poi a Vienna indi a poco. Reduce da quest'ultimo viaggio  e  ravviato
per Lombardia avea fatto sosta a Venchieredo per veder il figliuolo, e gli  avea
comandato di recarsi tosto a Venezia, ove un prossimo rivolgimento di  cose  gli
preparava grandi fortune. Il signor  Raimondo  non  volendo  separarsi  dal  suo
segretario, Leopardo e la Doretta avean dovuto spiantar casa pur essi; e cosí si
trovavano a Venezia. Ma questi non ne era punto contento e se non fossero  state
le preghiere della moglie si sarebbe fermato volentieri  in  Friuli.  Il  povero
giovine in tali discorsi diventava di  tutti  i  colori,  e  durava  uno  stento
grandissimo a non iscoppiare. Io me n'accorsi, e ne  lo  sviai  col  domandargli
novelle del paese nostro e de' miei  amici  e  conoscenti.  Cosí  conversando  e
passeggiando per calli e per fondamenta egli si svagò dalla solita tetraggine, e
quasi dimenticava le proprie sciagure:  ma  io  soffriva  per  lui  pensando  al
momento quando se ne sarebbe pur troppo risovvenuto. Intanto egli mi confermò la
novella della tristissima piega che prendevano  gli  affari  della  famiglia  di
Fratta. Il Capitano e Monsignore non pensavano che a banchettare e  ad  attizzar
il fuoco: ai vecchi servitori o morti o licenziati era sottentrata una  mano  di
ladroncelli che mettevano a  ruba  quel  poco  che  rimaneva.  Non  c'erano  piú
cazzeruole o tegami che bastassero pel pranzo di Monsignore. La  Faustina  s'era
maritata con Gaetano, lo sbirro di Venchieredo, liberato da poco dalla galera; e
partendo avea trafugato e venduto gran parte delle  biancherie.  Il  Capitano  e
Monsignore litigavano oltreché  per  l'attizzatoio  anche  per  la  camicia:  la
signora Veronica li accomodava, strapazzandoli ambidue; e il piú  buffo  si  era
che al vecchio Sandracca saltava talvolta il ticchio  della  gelosia;  e  questo
formava un terzo argomento di grandi contese fra lui ed il Canonico.  Del  resto
Fulgenzio faceva alto e basso.  Già  subito  dopo  la  mia  partenza  egli  avea
comperato un podere di casa Frumier vicino  a  Portovecchio;  e  poi  lo  veniva
arrotondando col convertire in ipoteche i sussidii che anticipava alla  famiglia
dei padroni. Per  esempio  c'era  il  frumento  in  granaio  e  da  Venezia  gli
domandavano denari; se il frumento  andava  a  buon  mercato,  egli  fingeva  di
comperarlo lui con quella somma che spediva a Venezia, e poi quando  le  derrate
crescevano di prezzo egli ne guadagnava dalla vendita il suo bel salario.  Se  i
grani calavano sempre, si scordava di quel finto contratto,  e  la  somma  della
compera si scambiava in un mutuo, pel quale egli tratteneva il sette l'otto o il
dodici per cento. Cosí conservava la pace della propria  coscienza,  accrescendo
smoderatamente gli utili del proprio ministero. I suoi figliuoli non  erano  piú
sagrestani o portinai; ma Domenico faceva pratica di  notaio  a  Portogruaro,  e
Girolamo studiava teologia in seminario. In paese si prevedeva che una  volta  o
l'altra Fulgenzio  sarebbe  divenuto  il  castellano  di  Fratta  o  poco  meno.
L'Andreini,  a  cui  il  conte  Rinaldo  avea  commesso  prima  di  partire  una
sorveglianza cosí all'ingrosso sulle faccende del castello, se la  pigliava  con
tanto comodo, che quasi quasi pareva  anche  lui  a  parte  della  mangeria.  Il
Cappellano, poveretto, aveva paura perfino dell'ex-sagrestano e non ci  guardava
pel sottile: il piovano di Teglio, veduto di mal occhio nella parrocchia pel suo
costume arcigno e tirato, aveva in casa sua troppe seccature per  poter  mettere
il naso in quelle degli altri. Già la Diocesi dopo la venuta dei Francesi  e  la
partenza del padre Pendola (costui secondo Leopardo doveva  essere  anch'egli  a
Venezia) tornava a dividersi e suddividersi in partiti ed in combriccole.  Tanto
piú credevano averne il diritto, che la  concordia  impiastricciata  dalle  mene
furbesche del reverendo non era  della  miglior  lega.  -  A  Venezia  il  padre
Pendola! - sclamai io come fra me. - Che cosa ci sia venuto a  fare?...  Non  mi
sembra né luogo né stagione per lui!... Leopardo  sospirò  sopra  a  queste  mie
parole, e soggiunse a voce sommessa che pur troppo i segni non mentiscono, e che
soltanto le carogne attirano i corvi. Ciò dicendo eravamo  giunti  in  Piazzetta
ond'egli levando gli occhi scoperse quel miracoloso edifizio del Palazzo Ducale;
e due lagrime gli corsero giù per le guance. - No, non pensiamo a ciò! - seguitò
egli squassandomi il braccio con forza erculea. - Ci penseremo a  suo  tempo!  -
Indi riprese a darmi contezza delle cose di laggiù: come sua sorella  Bradamante
si era sposata a Donato di Fossalta, e Bruto suo fratello e Sandro  il  mugnaio,
presi da furore eroico, s'erano assoldati  in  un  reggimento  francese.  Questa
novella mi sorprese non poco, ma in quanto  a  Sandro  ne  pronosticava  bene  e
pensava che avrebbe fatto buona figura, come poi i fatti non mi  diedero  torto.
Bruto, secondo me, si scalmanava troppo per  riuscire  un  soldato  perfetto;  a
menar le mani sarebbe andato di lena, ma quanto al voltare a destra e a sinistra
ne sperava poco assai. Leopardo mi toccò del gran cordoglio provato da suo padre
per quella determinazione; il povero vecchio  aveva  perduto  la  memoria  e  le
gambe, e le faccende del Comune volgevano a caso come Dio voleva. Già del  resto
l'egual guazzabuglio  c'era  in  tutto;  e  quell'interregno  di  ogni  governo,
quell'intralciarsi quel contrastarsi di tre o quattro  giurisdizioni,  impotenti
le une per vecchiaia e per debolezza, tiranniche  le  altre  per  l'indole  loro
arbitraria e militare, opprimeva la gente per modo che  pregavano  concordemente
perché venisse un padrone  solo  a  cacciar  via  quei  tre  o  quattro  che  li
angariavano  senza  esser  capaci  o  interessati  a  difenderli.   Municipalità
cittadine, congregazioni comunali e foresi, tirannia feudale,  governo  militare
francese, non si sapeva dove dar il capo per ottenere un briciolo di  giustizia.
Perciò anche in quel continuo affaccendarsi di reggitori  la  giustizia  privata
reputava necessario l'intervenire; le violenze, le risse, gli ammazzamenti erano
giornalieri; la forca lavorava a doppio, e i coltelli avevano il  loro  bel  che
fare lo stesso. Solamente dove risiedeva un quartiere generale duravano perpetue
le feste e il buon umore; colà gli ufficiali facevano scialo delle  cose  rapite
nel contado e nei paesi minori; il popolaccio gavazzava  nell'abbondanza  d'ogni
ben di Dio, e le signore civettavano per vezzo di  moda  coi  lindi  francesini.
Qual maggior comodità di diventar patrioti  e  liberali,  facendo  all'amore?...
Succedeva dappertutto come a Venezia: si guardavano in cagnesco alle  prime  per
finire coll'abbracciarsi da ottimi amici. I vizii comuni sono  mezzani  ad  ogni
viltà: e vi furono molte che senza avere il temperamento subitaneo e  il  marito
decrepito della Pisana, s'aggiustarono come lei con qualche tenentino  di  linea
per fuggir la mattana di quel tempo provvisorio.  Lo  so  che  erano  difetti  e
vigliaccherie ereditate dai padri e dai nonni; ma non bisogna poi passarle buone
perché le sono ereditate;  s'eredita  anche  la  scrofola  che  non  è  poi  una
giuggiola da tenersela cara. Quanto alla democrazia e  al  culto  della  ragione
erano piucché altro pretesti  cacciati  innanzi  dalla  paura  e  dalla  vanità;
infatti chi ballò allora  intorno  all'albero  della  libertà,  ballò  anche  al
seguente carnevale nelle sale del Ridotto in barba al trattato di Campoformio, e
s'insudiciò piú tardi i ginocchi dinanzi al nume di Austerlitz. Credo che  festa
popolare piú funebre e grottesca di quella nella quale si piantò in  piazza  San
Marco l'albero della libertà non la si possa vedere al mondo. Dietro  a  quattro
briachi, a venti pazzerelle che saltavano, si sentivano strascicate sul lastrico
le sciabole francesi; e i Municipali (io  in  mezzo  a  loro)  stavano  ritti  e
silenziosi sulla loro loggia, come quei vecchi cadaveri appena disotterrati  che
aspettano un solo buffo d'aria per cadere in polvere. Leopardo mi  accompagnò  a
quella festa, e si morsicava  le  labbra  come  un  arrabbiato.  In  una  loggia
rimpetto a noi sua moglie sedeva vicino a Raimondo, mettendo in mostra tutte  le
smorfie veneziane che aveva saputo aggiungere  alle  sue  in  una  settimana  di
tirocinio. Passavano i giorni tristi monotoni soffocanti. Mio padre era  tornato
grullo come un turco; egli non parlava che colla  sua  serva  a  sgrugnate  e  a
monosillabi; sbatteva la saccoccia  delle  doble,  e  non  mi  seccava  piú  coi
panegirici della Contarini. I Frumier stavano imbucati nel  loro  palazzo  quasi
per paura di qualche aria pestilenziale;  soltanto  Agostino  compariva  qualche
volta al caffè delle Rive per recitare altamente il suo credo giacobinesco. Egli
era fra quelli che credevano alla  durata  del  dominio  francese;  e  speravano
racquistare per amore o per forza un  grado  almeno  della  perduta  importanza.
Lucilio passava come un'ombra da casa a casa: si vedeva il medico che  non  tien
piú conto né della propria vita né dell'altrui, e  attende  a  guarire  piú  per
abitudine  che  per  convinzione  di  operar  cosí  qualche  bene  a   vantaggio
dell'umanità. Leopardo diventava sempre piú cupo e taciturno; l'ozio  finiva  di
consumargli lo spirito;  egli  non  faceva  pompa  dei  proprii  dolori,  ma  si
accontentava di morire oncia ad oncia. Raimondo e la Doretta  non  gli  badavano
punto; diventavano sfrontati  a  segno  da  recitare  in  sua  presenza  qualche
scenetta di gelosia. Egli si cacciava allora la mano nel petto e la traeva colle
unghie lorde di sangue; tuttavia  le  rughe  marmoree  della  sua  bella  fronte
coperta di nuvole non si risentivano guari di nulla. Unico ristoro  gli  era  il
versar nel mio seno non i suoi dolori ma le  fatali  rimembranze  della  perduta
felicità. Allora rompeva per breve tempo il suo silenzio da  certosino;  le  sue
parole somigliavano un canto su quelle labbra pure e  fervorose;  ricordava  con
dolore infinito, con amara voluttà, senz'ombra di  odio  e  di  rancore.  Quello
invece che smaniava daddovero  e  sempre  era  Giulio  Del  Ponte.  In  lui  era
risuscitata con maggior violenza quella malattia che l'avea  menato  in  fil  di
morte al tempo delle civetterie della Pisana col Venchieredo. Stavolta  peraltro
egli pareva piú debole, piú affranto, e il  suo  competitore  a  tre  doppi  piú
bello, piú spensierato, piú certo della vittoria. Io  non  andava  mai  in  casa
Navagero, perché ne avrei avuto troppo grave angoscia, ma  me  ne  dava  novelle
Agostino Frumier. Quello sciagurato di Giulio si ostinava indarno a posseder  un
cuore che gli sfuggiva sempre piú. Ricominciava la lotta del cadavere col  vivo;
lotta spaventevole che prolunga i dolori e lo spavento dell'agonia senza dare né
il desiderio né la pazienza della morte. Il  suo  volto,  scarnato  dall'etisia,
contraffatto dal dolore e dalla rabbia, metteva raccapriccio: lo spirito gli  si
torceva impotente e furioso in un perpetuo giro di pensieri truci  ed  orribili;
se mai si sforzava di mostrar qualche brio, i suoi occhi il sorriso la  voce  si
contrapponevano  alle  parole.  Il  fiato  gli  mancava,  il  discorso  gli   si
ingarbugliava per l'idea dolorosa e inesorabile che lo preoccupava. La stizza di
non poter essere piacevole lo guastava peggio che  mai,  e  gli  spremeva  dalla
fronte il vero sudore della morte. Il gaio officiale còrso si prendeva beffe  di
quello spettro che si frammischiava coi suoi ossi sporgenti coi capelli  irti  e
le mani tremolanti alla loro allegria. La Pisana non  si  accorgeva  di  lui,  o
accorgendosene lo trovava cosí brutto e ingrugnito che le scappava ogni volta di
guardarlo due volte. Esso le avea piaciuto per la sua vivacità e  la  magia  de'
modi, e la copia e l'incanto della parola; svanito tutto ciò, non discerneva piú
il Giulio d'altri tempi. Fosse anche restato tal quale, gli è assai dubbio se il
bel officiale non le lo avrebbe fatto dimenticare; ad ogni modo  non  lo  curava
piú, e non lo amava per nulla; forse anco non lo avea amato,  e  da  ultimo  non
voglio ficcarmi addentro in tante conghietture,  perché,  tra  la  materia  cosí
arcana  e  confusa  com'è  l'amore,  e  il  temperamento  precipitoso  variabile
indefinito della Pisana, non ci caverei un pronostico da far onore  al  lunario.
Giulio scappava alle volte colle mani alle tempie, e i furori  della  gelosia  e
dell'orgoglio offeso  nel  cuore.  Cercava  fra  le  ombre  della  notte,  sulle
fondamenta piú lontane e spopolate, quella pace che gli fuggiva dinanzi come  la
nebbia a chi sale una montagna. Là, sotto il  pallido  sguardo  della  luna,  al
fresco ventolio dell'aura marina, al lontano mormorare dell'Adriatico, un ultimo
sforzo di poesia lo faceva risorgere da quel profondo abbattimento. Pareva che i
fantasmi rinatigli d'improvviso in capo lo sospingessero a una corsa sfrenata, a
un'ultima baldoria di vita e di gioventù. Gli pareva allora di essere o un genio
che ha creato un poema come l'Iliade, o un generale che ha vinto una  battaglia,
o un santo che ha calpestato il mondo e si sente degno del cielo.  Amore  gloria
ricchezza felicità, tutto era poco per lui. Reputava spregevoli e  basse  queste
fortune terrene e passeggere, si sentiva maggiore di esse, e capace di guardarle
come il pascolo di esseri mézzi  e  striscianti.  Ergeva  alteramente  il  capo,
fissava il cielo quasi da eguale a eguale, e diceva fra sé: "Tutto che io voglia
fare lo farò! Quest'anima mia chiude tanta potenza da  sollevare  il  mondo:  il
punto di leva io l'avrei insegnato ad Archimede: è la  fortezza  dell'animo!"  -
Misere illusioni! Provatevi a toccarne una sola ed essa vi svanirà fra  le  dita
come l'ala d'una farfalla. Ognuno, almeno una volta  in  sua  vita,  ha  creduto
facile  l'impossibile,  e  onnipotente  la   propria   debolezza.   Ma   quando,
ricredendoci da questa opinione giovanile, qualche cosa di forte qualche cosa di
sano ci resta, la vita serba ancora per noi un'ora di riposo se non di gioia. La
vera disperazione ci atterra allora soltanto che, tornati alla  coscienza  della
nostra inezia, non troviamo nessun punto ove  appoggiare  la  speranza,  nessuna
nuvola da appendervi l'orgoglio. Allora  lo  smarrimento  dello  spirito  ci  fa
traballare come ubbriachi e cader supini  per  non  piú  rialzarci  a  mezzo  il
cammino della vita. Non piú labbra che  ci  sorridono,  non  piú  occhi  che  ci
invitano, e profumo di rose e varietà di prospetti e barbaglio di  luce  che  ne
persuada di andar avanti. Il buio dinanzi, ai  lati,  sul  capo;  di  dietro  la
memoria inesorabile che, colle immagini dei mali crescenti sempre e dei beni per
sempre fuggiti, ci toglie la forza della volontà e la  potenza  del  moto.  Tale
Giulio restava dopo quei notturni delirii d'impotente poesia: tanto piú misero e
abbietto, quanto meglio sentiva la vanità  di  quella  sognata  grandezza.  Come
Nerone cred'io egli avrebbe tagliato la testa al genere umano per ottenere dalla
Pisana non un sorriso d'amore ma un'occhiata di desiderio, e vedere frementi  le
labbra e sconfitta l'arrogante sicurezza di quel rivale abborrito. Mettere a  sí
alto prezzo una semplice occhiata, egli che  pochi  momenti  prima  si  dava  ad
intendere d'aver sotto i piedi ogni cosa del mondo! - Quale avvilimento!  E  non
poter nemmeno ricorrere per ultimo scampo all'idea della morte!...  No,  non  lo
poteva!... Una morte gloriosa  compianta  lagrimata  gli  avrebbe  sorriso  come
un'amica; ma allora il trionfo  del  còrso  e  l'indifferenza  della  Pisana  lo
perseguitavano perfin nel sepolcro. Ben s'arrende alla morte  chi  sa  di  poter
vivere, ma egli, senza osar confessarlo a se stesso,  fiutava  con  raccapriccio
nelle sue  carni  scalducciate  ed  inferme  l'odore  dei  vermi.  Egli  lottava
disperato nel mare della vita, ma le forze gli mancavano, l'acqua gli saliva  al
petto alla gola; già ne  avea  piene  le  fauci,  già  la  mente  si  scombuiava
nell'abisso del nulla e dell'obblio, dove non piú superbia non piú speranza;  il
nulla, il nulla, eternamente il nulla. Si scoteva dal  sogno  affannoso  con  un
ribrezzo che somigliava viltà; sentiva di aver paura, e la  paura  gli  cresceva
dalla propria dappocaggine. "Oh la vita, la vita!  datemi  ancora  un  anno,  un
mese, un giorno solo della mia vita  piena  confidente  rigogliosa  d'un  tempo!
Tanto che possa rinfiammare un lampo d'amore, bearmi di piacere e  d'orgoglio  e
morire invidiato sopra un letto di rose! Datemi un giorno solo  del  mio  bollor
giovanile, perché possa scrivere  a  caratteri  di  fuoco  una  maledizione  che
abbruci gli occhi di quelli  che  oseranno  leggerla,  e  rimanga  terribilmente
famosa fra i posteri, come il Mane Tecel Fares del convito di Baldassare!  Ch'io
muoia; sí ma che possa  coll'ultimo  grido  dell'anima  lacerata  sgominare  per
sempre gli impudenti tripudii di coloro che non  ebbero  una  lagrima  pei  miei
dolori!... Se mi è vietata la felicità d'amore, la coppa felice  degli  Dei,  mi
rimanga almeno l'immortalità di Erostrato, e la superbia dei demonii!...".  Cosí
farneticava lo sciagurato stringendo la penna  con  mano  convulsa,  e  cercando
disperatamente nella tetra  fantasia  quelle  parole  tremende,  infernali,  che
dovevano prolungare nella posterità la sua vita di martirio e  vendicarlo  delle
angosce sofferte. Da un turbine vorticoso di idee monche e cozzanti,  d'immagini
camaleontiche, di  passioni  mute  e  furenti  non  uscivano  che  due  pensieri
dozzinali e quasi codardi: la rabbia della felicità  altrui,  e  l'orrore  della
morte! - Almeno avesse egli potuto  imprimere  a  tali  pensieri  quell'impronta
straziante di verità nella quale l'uomo si specchia rabbrividito, e  non  può  a
meno d'ammirare il lugubre profeta che lo satolla d'orrore e di disperazione!...
Ma neppur questo gli veniva concesso dalla continua instabilità della paura.  Le
forze dell'anima vanno tutte raccolte per creare alla verità un'immagine vera  e
sublime; egli invece si scioglieva in fantasticherie senza colore e senza  fine.
Non era la meditazione del sapiente, ma il vaneggiamento del malato. La mistione
chimica soverchiava il lavoro spirituale, supremo castigo dell'orgoglio  pigmeo!
"Ah dover morire cosí, vedendo spegnersi ad una ad una le stelle  della  propria
mente! sentendo sciogliersi atomo  per  atomo  la  materia  che  ci  compone,  e
attirare abbrutita con sé  quell'anima  sfolgorante  e  serena  che  poco  prima
spaziava nell'aria e s'ergeva fino al cielo!  Dover  morire  come  il  topo  del
granaio e la rana della palude, senza lasciare un'orma  profonda  incancellabile
del proprio passaggio!... Morire a ventott'anni,  assetato  di  vita,  avido  di
speranza, delirante di superbia, e sazio solo d'affanno e  d'avvilimento!  Senza
un sogno, senza un fede, senza un bacio abbandonare la  vita;  sempre  col  solo
spavento, colla sola rabbia  dinanzi  agli  occhi,  di  doverla  abbandonare!...
Perché fummo generati? Perché ci educarono e ci avvezzarono a  vivere,  quasiché
durassimo eterni?... Perché la prima parola che  vi  insegnò  la  balia  non  fu
morte? Perché non ci abituarono lungamente a fissar il volto, a interrogare  con
ardito animo questa nemica ignorata e nascosta, che ci assale poi  d'improvviso,
e ci insegna che la nostra virtù non fu altro che viltà? Dove  sono  i  conforti
della sapienza, le illusioni della gloria,  le  consolazioni  degli  affetti?  -
Tutto si getta d'in sulla nave per rifuggire al naufragio; e  quando  il  flutto
vorace si spalanca per ingoiarla, rimane solamente sulla piú alta antenna nudo e
disperato il nocchiero. Son vani gli sforzi e le lagrime; vane le preghiere o le
bestemmie. La necessità è ineluttabile e il confuso fragore dell'onde attuta tre
passi lontano le grida del furente e i gemiti  del  pauroso.  Di  sotto  sta  il
nulla,  tutto  intorno  l'obblio,  di  sopra  il  mistero.  -  Che  mi  dice  il
filosofo?... Dimentica, dimentica! Ma come dimenticare? La mia mente non ha  piú
che quest'idea sola, i miei nervi non  ripercotono  al  cervello  che  una  sola
immagine; le altre idee, le altre immagini son morte per me. Io sono entrato piú
che mezzo nel gran regno delle ombre; il resto  vi  entrerà  fra  poco.  L'amore
degli uomini, la religione della libertà e della giustizia sparirono  dall'anima
mia, come fantasmi ideati per ingannare i fantasmi. Crollato il fondamento, come
reggerà la parete?... Che v'ha di saldo nell'uomo, se  l'uomo  appunto  svanisce
come il vapore del mattino?  Sfreddato  il  calore  del  sentimento,  le  parole
suonano sulle labbra come il vento in una fessura: vanità, tutto  vanità!...  ".
Eppure, ad onta di questi scorati  soliloquii,  egli  riprendeva  la  penna  per
iscrivere  qualche  inno  patriottico,  qualche   filippica   repubblicana   che
consolasse d'un'aureola di gloria il suo prossimo tramonto. Si vergognava poi di
quanto avea scritto e lo buttava sul fuoco. Quando mal si può  esprimere  quello
che piú ci  occupa  l'animo,  peggio  poi  si  tenta  d'interpretare  sentimenti
annebbiati e lontani. Giulio pensava troppo a sé e si  rinserrava  troppo  nella
considerazione del proprio destino, per poter comprendere degnamente le speranze
e gli affetti dell'umanità intera. Cotali cose egli le aveva non dirò  imparate,
ma trovate sui libri; gli si erano appiccicate al cervello come  fantasticaggini
di moda e nulla piú. Figuratevi se in  tanta  stretta  di  passioni  proprie  ed
urgenti poteva ritrarre di  colà  quell'entusiasmo  pieno  e  sincero  che  solo
incalorisce le opere d'arte!... L'erudite declamazioni di  Barzoni  e  la  greca
pedanteria del giovane Foscolo da lui sí crudamente  satireggiate  covavano  piú
fuoco di tutti i suoi pensieri politici, imbrodolati di Rousseau e di  Voltaire,
ma privi d'ogni suggello di persuasione. Egli se n'accorgeva,  e  stritolava  la
penna coi denti, e si gettava sfinito sul letto. Una tosse profonda  e  ostinata
affaticava le sue lunghe notti, mentre egli inondato di  sudore,  dolente  sopra
ogni fianco, e col volto sbigottito dalla paura si palpava il petto, e sollevava
stentatamente i polmoni sfibrati, per pur persuadersi che  la  morte  gli  stava
ancora da lunge. In quei momenti Ascanio e la Pisana, affacciati ad  un  balcone
che dava sul Canalazzo, cinguettavano d'amore con  tutte  quelle  tenerezze  del
vocabolario francese, mentre Sua Eccellenza Navagero sgomentito degli  occhiacci
dell'ufficiale sonnecchiava o fingeva di sonnecchiare sopra una poltrona. Io che
non ardiva penetrare in quella casa, passava poi nel Canalazzo colla mia gondola
a notte profonda; e vedeva profilarsi nel quadro illuminato  della  finestra  le
figure dei due amanti. Povero Giulio! Povero Carlino! La Provvidenza, a  guardar
le cose in monte, governa tutto con giustizia. Non vi sono  due  esseri  felici,
che non si oppongano loro, come ombre di un dipinto, due sventurati. Peraltro se
la mia disgrazia era forse minore, ognuno mi consentirà ch'io la meritava  assai
meno di Giulio. La sventura vendica tutto ma non santifica nulla, men  che  meno
poi la superbia, l'invidia e la libidine. Se egli volle consumarsi in queste tre
brutte passioni, fu sua la colpa;  e  noi  lo  compiangeremo,  ben  lontani  dal
glorificarlo. La croce era un patibolo, e il solo Cristo ha potuto cambiarla  in
un altare. L'estate volgeva al suo termine. Già  i  fieri  Bocchesi  di  Perasto
avevano arso piangendo l'ultimo stendardo di San Marco. La Repubblica di Venezia
era morta, e un ultimo suo spirito vagolava ancora nei  remoti  orizzonti  della
vita sulle marine di Levante. Vidiman, il governatore di Corfù, fratello al  piú
saggio, al piú generoso dei Municipali, spirava l'anima nel dolore alle continue
vessazioni dei Francesi, sbarcati colà  a  guisa  di  padroni.  Le  popolazioni,
stomacate della veneziana debolezza, sdegnavano  di  servire  ai  servi;  meglio
addirittura i Francesi o qualunque altro che la floscia  inettitudine  di  cento
patrizi. Ciò che molti secoli addietro  si  rispettava  per  la  forza,  poi  si
venerava per la prudenza, indi si tollerava per  abitudine,  allora  cadeva  nel
disprezzo che conséguita sempre all'ossequio goduto lungamente  a  torto.  Nella
Municipalità la stessa disperazione d'ogni consiglio  ingenerava  la  discordia:
Dandolo e Giuliani predicavano  la  repubblica  universale,  quest'ultimo  senza
alcun riguardo dei  sospettosi  alleati.  Vidiman  consigliava  la  moderazione,
perché la storia gli insegnava che se v'è salute pei governi nuovi, essa dipende
dalla prudenza e dalla lentezza delle mutazioni. Strepitavano fra loro in quella
sala del Gran Consiglio, ove la schietta parola d'un patrizio avea deciso  altre
volte delle sorti d'Italia. Il sommo impiccio era per me che doveva dar forma di
protocolli a interminabili chiacchierate, a vicendevoli rimbrotti senza scopo  e
senza dignità. Finalmente la gran notizia che serpeggiava negli animi  in  forma
di paura, scoppiò dalle labbra in suono di vera e certa disperazione. La Francia
consentiva pel trattato di Campoformio che gli Imperiali occupassero  Venezia  e
gli Stati di Levante e di terraferma fino all'Adige. Per sé teneva i Paesi Bassi
austriaci, e per la Repubblica Cisalpina le provincie della Lombardia veneta. Il
patto  e  le  parole  erano  degne  di  chi  le  scriveva.  Venezia   si   destò
raccapricciando dalla sua  letargia,  come  quei  moribondi  che  rinvengono  la
chiarezza della mente all'estremo momento dell'agonia.  I  municipali  mandarono
ambascerie al Direttorio, a Bonaparte, perché fosse loro permesso di difendersi.
Questa frase corrispondeva appuntino all'altra del trattato suddetto, nel  quale
si consentiva l'occupazione  di  Venezia.  Domandar  al  carnefice  un'arma  per
difendersi contro di lui, è invero un'ingenuità  fuori  d'ogni  credenza!  Ma  i
Municipali sapevano la propria impotenza e non  altro  cercavano  che  illudersi
fino all'estremo. Bonaparte cacciò in prigione gli  inviati;  quelli  di  Parigi
credo non giungessero neppur in tempo da recitare la loro  commedia.  Una  bella
mattina il Villetard, lagrimoso  coccodrillo,  capitò  ad  annunziare  in  piena
adunanza che Venezia doveva sacrificarsi  al  bene  di  tutta  Europa,  che  gli
piangeva il cuore di tale necessità, ma che dovevano subirla con  grande  animo;
che la Repubblica Cisalpina offeriva patria, cittadinanza e perfino il luogo  ad
una nuova Venezia per quanti fra essi rifuggivano dalla nuova servitù: e  che  i
danari dell'erario e la vendita dei pubblici averi servirebbe  a  confortare  il
loro esiglio  di  qualche  agiatezza.  La  superba  indole  italiana  si  rilevò
subitamente a  quest'ultima  proposta.  Deboli,  discordi,  creduli,  ciarlieri,
inetti sí; venali non mai! Tutta l'adunanza diede in un grido d'indignazione; si
rifiutarono le indegne offerte, si rifiutò di  approvare  quanto  la  Repubblica
francese aveva sí facilmente e barbaramente consentito, si decise  di  rimettere
nel popolo la somma delle cose,  dimandando  a  lui  la  scelta  fra  servitù  e
libertà. Il popolo votò frequente, raccolto, silenzioso; e il  voto  fu  per  la
libertà; indi la Municipalità si disciolse, e  molti  partirono  per  l'esiglio,
donde alcuni, Vidiman fra gli altri, non tornarono mai piú. Villetard ne scrisse
a Milano,  e  Bonaparte  rispose  altero  schernitore  ma  furibondo.  Lasciarsi
schiacciare ma non obbedire è ancora un delitto pei tiranni. Serrurier  entrò  a
quei giorni, vero beccamorti della Repubblica. Disalberò le navi, mandò a Tolone
cannoni, gomene, fregate e vascelli, diede un'ultima mano  al  saccheggio  della
cassa pubblica, delle chiese e delle gallerie, raschiò le dorature di Bucintoro,
fece baldoria del resto, e si assicurò per sempre dal rimorso di  aver  lasciato
pei nuovi padroni il  valsente  vivo  d'un  quattrino.  Questo  fu  il  rispetto
all'alleanza giurata, alla protezione promessa, ai sacrifici imposti e  vilmente
forse, piú che generosamente, consentiti. Cosí adoperarono coloro verso  Venezia
che avea difeso per tanti secoli tutta la cristianità dalla barbarie mussulmana.
Ma quei maiali non leggevano storie; preparavano orrendi  capitoli  alle  storie
future. La sera stessa che i Municipali deposero  la  propria  autorità,  quanti
eravamo rimasti  amici  della  libertà,  e  nemici  coraggiosi  del  tradimento,
convenimmo alla solita casa dietro il ponte dell'Arsenale.  Il  numero  era  piú
scarso del solito: altri si schivavano per paura, molti  eran  già  partiti  con
diversi propositi. L'adunanza fu piú per confortarsi a vicenda e per istringerci
la mano che per deliberare. Agostino Frumier non comparve, benché  sottovoce  me
ne avesse dato promessa un'ora prima; mancava il Barzoni che  dopo  un  pubblico
alterco con Villetard, s'era imbarcato per Malta proponendosi di pubblicar  colà
un giornale antifrancese: non vidi Giulio Del Ponte e ne  sospettai  il  perché.
Lucilio passeggiava come il solito su e giù per la sala col volto imperturbato e
la tempesta nel cuore: Amilcare gridava gesticolava contro il Direttorio, contro
Bonaparte, contro tutti; egli diceva che bisognava vivere  per  vendicarci;  Ugo
Foscolo sedeva da un canto colle prime parole  del  suo  Jacopo  Ortis  scolpite
sulla fronte. Io per me non so cosa avessi nell'anima, o mostrassi nel volto. Mi
sentiva nullo affatto, come chi soffre senza comprendere. Udii la maggior  parte
essere propensa a cercare ricovero nel territorio della Cisalpina,  ove  sarebbe
sempre durata qualche speranza per  Venezia;  anch'io  trovava  giusto  un  tale
partito, come quello che rendeva onorevole  e  attivo  l'esiglio,  menandolo  in
paese fraterno e già quasi  italiano.  La  permalosa  alterigia  di  taluno  che
sdegnava affidarsi ad una ospitalità offerta in nome di Francia, e dalla Francia
stessa guarentita, sconveniva troppo a quei momenti necessitosi  e  supremi.  Ci
demmo la posta per Milano dove o nel governo o nell'esercito o  colla  parola  o
colla penna o colla mano si sperava di potersi adoperare per la  salute  comune.
S'avvicendavano cosí frequenti i trabalzi e i rivolgimenti di  fortuna  in  quel
tempo che la speranza si ravvivava dalla stessa disperazione, piú fiduciosa  piú
intemperante che mai. Ad ogni modo si voleva dare un esempio  della  costanza  e
della  dignità  veneziana  contro  quelle  terribili  accuse  che  i  fatti   ci
scagliavano. Ora l'uno ora l'altro partiva per dar qualche ordine alle cose sue,
e metter insieme qualche roba prima  di  avviarsi  all'esiglio.  Chi  correva  a
baciare la madre, chi la sorella o l'amante; chi si stringeva al cuore i bambini
innocenti, chi consumava dolorosamente  quell'ultima  notte  contemplando  dalla
Riva di Piazzetta il Palazzo Ducale, le cupole  di  San  Marco,  le  Procuratie,
queste sembianze venerabili  e  contaminate  dell'antica  regina  dei  mari.  Le
lagrime scorrevano da quelle ciglia  devote,  e  furono  le  ultime  liberamente
sparse, gloriosamente commemorate. Io era restato solo col dottor Lucilio perché
non aveva la forza di muovermi, quando salí per la scala un rumore frettoloso di
passi, e Giulio Del Ponte coi colori della morte sul volto  si  precipitò  nella
stanza. Il dottore, che avea parlato pochissimo fino allora, gli si volse contro
con molta veemenza a domandargli cosa avesse e  perché  tanto  s'era  attardato.
Giulio non rispose nulla, aveva gli occhi smarriti, la lingua aderente al palato
e pareva incapace di capire quanto gli dicevano. Lucilio rabbuffò con una mano i
suoi neri capelli tra i quali traluceva già qualche filo d'argento,  strinse  il
braccio del giovane e lo trasse a forza in cospetto della lucerna. - Giulio,  te
lo dirò cos'hai; - diss'egli con voce sommessa ma ricisa,  -  tu  muori  per  un
dolor tuo, quando non è lecito morire che pel dolore di tutti!... Tu ti  arrendi
vilmente alla tisi che ti consuma quando dovresti  salire  con  animo  forte  al
martirio!... Io son medico, Giulio; non voglio ingannarti. Una passione mista di
rabbia d'orgoglio d'ambizione ti divora lentamente; il suo  morso  avvelenato  è
incurabile. Soccomberai  senza  dubbio.  Ma  credi  tu  che  l'anima  non  possa
sollevarsi sulle malattie del corpo, e prescrivere a se stessa un  fine  grande,
glorioso?... Giulio si sfregolava smarrito gli  occhi,  le  guance,  la  fronte.
Tremava da capo a piedi, tossiva di tratto in  tratto  e  non  poteva  articolar
parola. - Credi tu - riprese Lucilio - credi tu che sotto questa mia scorza dura
e ghiacciata non si celino tali tormenti che mi farebbero  preferire  l'inferno,
nonché il sepolcro, alla fatica  di  vivere?  Or  bene;  io  non  voglio  morire
piangendo  me,  compassionando  a  me,  badando  solo  a  me,  come  il   pecoro
sgozzato!... Quando le membra saranno consunte, l'anima fuggirà da  esse  libera
forte beata piucchemai!... Giulio, lascia morire il tuo corpo, ma difendi contro
la  viltà,  contro  l'abbiezione  un'intelligenza  immortale!...   Io   guardava
meravigliando il gruppo di quelle due figure, l'una delle quali pareva infondere
all'altra il coraggio e la vita. Alle parole, al contatto del dottore, Giulio si
drizzava della persona e si rianimava negli occhi; la vergogna  gli  ottenebrava
nobilmente la fronte, ma l'anima ridestata a un  grande  sentimento  coloriva  i
segni della prossima morte d'un sublime splendore. Non tossiva, non tremava piú;
il sudore dell'entusiasmo succedeva  a  quello  della  malattia;  la  sua  bocca
balbettava ancora parole tronche e confuse, ma solo per impazienza di pentimento
e di generosità. Fu un vero miracolo. - Avete ragione - rispose egli  alla  fine
con voce calma e profonda. - Fui un vile finora; non lo sarò piú.  Morire  debbo
certamente, ma morrò da forte e dallo sfacelo  del  corpo  andrà  salva  l'anima
mia!...  Vi  ringrazio  Lucilio!...  Venni  qui  a  caso   per   abitudine   per
disperazione; venni desolato avvilito infermo; partirò con voi, sicuro dignitoso
e guarito! Dite dove s'ha da andare, io son pronto!... - Partiremo domattina per
Milano; - riprese Lucilio - là vi sarà un fucile per  ciascuno  di  noi;  ad  un
soldato non si domanda se è  malato  o  sano,  ma  se  ha  forza  d'animo  e  di
volontà!... Giulio, te lo accerto, non morrai tremando di paura e desiderando la
vita. Abbandoneremo insieme questo secolo di illusioni e  di  vigliaccherie  per
ricoverarci contenti in seno dell'eternità!... - Oh io pure - esclamai - io pure
partirò con voi!... - Strinsi la mano al dottore, e buttai le braccia  al  collo
di Giulio come ad un fratello. Era cosí sorpreso e commosso  che  nessuna  sorte
vedeva migliore di quella di morire con tali compagni. - No, tu non devi partire
per ora; - soggiunse dolcemente  Lucilio  -  tuo  padre  ha  altri  disegni;  ti
consulterai con essolui, ché ne hai stretto dovere.  Quanto  al  mio,  ricevetti
oggi stesso l'annunzio della sua morte. Vedete bene che son solo  oggimai;  nudo
affatto di quegli affetti che racchiudono una gran parte di nostra vita  fra  le
pareti domestiche. Per me gli orizzonti si allargano sempre piú; dall'Alpi  alla
Sicilia, è tutta una casa. L'abito con un solo  sentimento  che  non  morrà  mai
neppure colla mia morte. Una memoria del monastero di  Santa  Teresa  attraversò
come un lampo gli occhi di  Lucilio  mentre  proferiva  queste  parole;  ma  non
commosse punto il suono tranquillo della sua voce, né lasciò orma  alcuna  sulle
sembianze di melanconia o  di  sconforto.  Ogni  affanno  scompariva  in  quella
superba sicurezza d'uno spirito che sente  in  sé  qualche  parte  d'eterno.  Ci
separammo allora; i commiati severi senza rimpianti senza lagrime. Negli  ultimi
nostri discorsi non trovarono posto i nomi della Clara e della Pisana. E sí  che
a tutti e tre,  anche  a  Lucilio,  ne  sono  certo,  un  amore  sventuratissimo
dilaniava le viscere. Essi n'andarono verso l'ospitale,  divisando  mettersi  in
viaggio il mattino all'alba; io mi avviai curvo e frettoloso  in  cerca  di  mio
padre. Non sapeva quali fossero i suoi disegni, perché Lucilio non aveva  voluto
dirmene di piú, e mi tardava l'ora di conoscerli per iscaricarmi  poi  dei  miei
dolori privati in qualche grande e non inutile sacrifizio, come il povero Giulio
me ne dava l'esempio.


CAPITOLO DECIMOTERZO

Un Jacopo Ortis e un Machiavelli veneziano. Finalmente imparo  a  conoscere  mia
madre vent'anni dopo la sua morte. Venezia fra due storie. Una famiglia greca  a
San Zaccaria. Mio padre a Costantinopoli. Spiro ed Aglaura Apostulos.

In casa non trovai mio padre; e la vecchia fantesca maomettana si  espresse  con
tanti segni e gesti negativi che io mi persuasi  la  mi  volesse  dire  che  non
sapeva nemmeno quando sarebbe tornato. Divisava fra me di aspettarlo, quand'ella
mi consegnò un polizzino facendomi motto a cenni che era cosa di  gran  premura.
Credeva quasi fosse una memorietta di mio padre, ma vidi invece che era  scritto
da Leopardo. "Non ci sei in casa" diceva  egli  "perciò  ti  lascio  queste  due
righe. Ho bisogno di te tosto per un servigio che  di  qui  a  tre  ore  non  mi
potresti piú rendere". E non c'erano altri schiarimenti. Faccio  intendere  alla
meglio alla vecchia mora che sarei di ritorno fra breve, piglio  il  cappello  e
via a precipizio fino al Ponte Storto. Cosa volete? Quel  biglietto  non  diceva
nulla, io avea lasciato la mattina stessa Leopardo grave  e  taciturno  come  il
solito, ma sano e ragionevole. Pure il cuore mi annunciava  disgrazie,  e  avrei
voluto aver l'ali ai piedi per giungere piú presto. L'uscio di casa era  aperto,
un lumicino giaceva per terra a piedi della  scala,  penetrai  nella  stanza  di
Leopardo e lo trovai seduto in una poltrona colla consueta gravità sul volto, ma
soffuso d'una maggior pallidezza. Guardava fiso  fiso  la  lucerna,  ma  al  mio
entrare volse gli occhi in me,  e  senza  parlare  mosse  un  gesto  di  saluto.
"Grazie" pareva dirmi "sei venuto ancora a tempo!". Io mi  sgomentii  di  quella
attitudine, di quel silenzio, e  gli  chiesi  con  premurosa  inquietudine  cosa
l'avesse per stare a quel modo, e in qual cosa mai potessi aiutarlo. - Nulla;  -
mi rispose egli socchiudendo a stento le labbra, come uno che parla  e  sta  per
addormentarsi - voglio che tu  mi  faccia  compagnia;  scusami  se  non  parlerò
troppo, ma ho qualche doloruccio di stomaco. -  Mio  Dio,  chiamiamo  dunque  un
medico! - io sclamai. Sapeva che Leopardo non  soleva  lamentarsi  per  poco,  e
quella chiamata notturna mi diceva i suoi timori. - Il medico!  -  riprese  egli
con un sorriso mestissimo. - Sappi, Carlino, che un'ora fa io mi  son  preso  in
corpo due grani di sublimato corrosivo!... Io misi uno strido  di  raccapriccio,
ma egli si turò le orecchie soggiungendo: - Zitto, zitto, Carlino! Mia moglie  è
di là che dorme nella seconda camera!... Sarebbe un peccato  incommodarla  tanto
piú che l'è incinta, e questo suo nuovo stato le mette malumore. -  Ma  no,  per
carità, Leopardo! lasciami andare! - (egli mi stringeva il polso  con  tutta  la
forza che aveva). - Forse siamo ancora in tempo: un  buon  emetico,  un  rimedio
eroico, che so io... lasciami, lasciami... - Carlino, tutto è inutile... Il solo
bene che  accetterò  da  te  sarà,  come  dissi,  un'ultima  ora  di  compagnia.
Rassegnati, giacché mi vedi piú ancora che rassegnato  volonteroso  d'andarmene;
l'emetico ed il dottore verrebbero tardi d'una buona mezz'ora; io ho studiato da
una settimana quel capitolo di tossicologia che mi abbisognava.  Vedi?  sono  ai
secondi sintomi!... Mi sento schizzar gli occhi  dalla  testa...  Purché  questo
prete di cui andò in cerca la portinaia capiti  presto...  Io  son  cristiano  e
voglio morire con tutte le regole.  -  Ma  no,  Leopardo,  te  ne  scongiuro!...
lasciami tentare se non altro! È  impossibile  che  ti  lasci  morire  a  questo
modo!... - Lo voglio, Carlino, lo voglio; se mi  sei  amico  devi  accontentarmi
d'una grazia. Siedi vicino a me, e finiamo conversando come Socrate. Io  conobbi
che non c'era nulla da sperare da una sí tremenda tranquillità; sedetti vicino a
lui deplorando quella triste aberrazione che perdeva cosí miseramente uno  degli
animi piú forti che io m'avessi mai conosciuto.  Quell'accorgimento  di  mandare
pel prete accusava assoluto disordine di cervello in un suicida; perché egli non
dovea ignorare che l'azione da lui commessa si riguardava dalla  religione  come
un grave e mortale peccato. Sembrò ch'egli indovinasse tali pensieri  perché  si
accinse a ribatterli senzaché io mi prendessi la  briga  di  esprimerli.  -  N'è
vero, Carlino, che ti sorprende questa mia smania di aver  un  confessore?  Cosa
vuoi?... Per una fortunata combinazione mi dimenticai  da  molti  mesi  che  Dio
proibisce il suicidio; or ora me ne sovvenne, ed è proprio vero che la vicinanza
della morte aiuta mirabilmente la memoria. Ma è troppo tardi per  fortuna!...  È
troppo tardi: il Signore mi punirà di questa lunga distrazione, ma spero che non
vorrà essere troppo severo verso di me, e che me la caverò con  una  passata  di
purgatorio. Ho sofferto tanto, Carlino, ho sofferto tanto in questa  vita!...  -
Oh maledizione, maledizione sul capo di coloro che ti spinsero ad una fine  cosí
sciagurata!... Leopardo, io ti vendicherò: ti giuro che ti vendicherò! -  Zitto,
zitto, amico mio; non destare mia moglie che  dorme.  Io  ti  esorto  intanto  a
perdonare  come  perdono  io.  Ti  nomino  anzi  legatario  perpetuo  delle  mie
perdonanze, acciocché nessuno abbia male dalla mia morte; e ti raccomando di non
far sapere ch'io me l'ho procurata. Sarebbe grave scandalo, e  altri  potrebbero
averne dispiacere o rimorso. Dirai che fu un aneurisma, un colpo fulminante, che
so io?... Già me l'intenderò meglio col prete; e cosí spero  di  morir  in  pace
lasciando dopo di me la pace. - Oh Leopardo,  Leopardo!  un'anima  come  la  tua
morire a questo modo! Con tanta bontà con tanta forza e costanza che avevi!... -
Hai ragione; due anni fa neppur io mi sarei immaginato  questa  corbelleria.  Ma
ora l'ho fatta e non c'è che dire. I dolori  gli  avvilimenti  i  disinganni  si
accumulano qui dentro - (e si toccava il petto) - finché un bel giorno  il  vaso
trabocca e addio giudizio! bisogna ch'io m'esprima cosí per iscusarmi  con  Dio.
Io vidi allora o meglio indovinai le lunghe torture di quel povero  cuore  tanto
onesto e sincero; le angosce di quell'indole  aperta  e  leale  sí  indegnamente
tradita; la delicatezza di quell'anima eroica deliberata di non veder  nulla,  e
di morire senza lasciare ai suoi assassini neppur la punizione del rimorso.  Non
mossi parola di ciò  rispettando  la  maravigliosa  discretezza  del  moribondo.
Leopardo riprese a parlare con voce piú profonda e affaticata: le membra gli  si
irrigidivano e le carni prendevano a poco a  poco  un  colore  cinereo.  -  Vedi
amico? fino a ieri ci pensava, ma mi difendeva valorosamente. Aveva  una  patria
da amare e sperava quandocchesia di servirla, e di scordare il resto. Ora  anche
quell'illusione è svanita... fu proprio  il  colpo  che  mi  decise!  -  Oh  no,
Leopardo, tutto non è svanito!... Se è cosí, guarisci, torna a vivere  con  noi:
porteremo la patria nel cuore dovunque andremo, ne insegneremo, ne  propagheremo
la santa religione. Siamo giovani; tempi migliori ci arrideranno, lasciami... Io
m'era alzato in piedi, egli mi teneva fermo pel braccio con forza convulsiva,  e
dovetti sedere ancora. Un sorriso vago e melanconico errava su  quel  volto  già
quasi disfatto dalla morte: mai  la  bellezza  dell'anima  non  ebbe  piú  pieno
trionfo su quella del corpo. Questa era sparita affatto, quella  spirava  ancora
con ogni suo splendore da quella faccia  incadaverita.  -  Rimani,  ti  dico;  -
soggiunse egli con uno sforzo compassionevole -  ad  ogni  modo  sarebbe  troppo
tardi. Serba, amico mio, la tua candida fede; questo ti raccomando, perch'ella è
se non altro incentivo potente ad imprese belle ed onorate... Quanto a me, me ne
vado senza rincrescimento... Son certo che avrei aspettato indarno. Era  stanco,
stanco, stanco!... Ciò dicendo le sue membra si sciolsero, e la testa  cadutagli
penzolone mi si appoggiò sopra una spalla. Io allora feci  per  muovermi  e  per
dimandar soccorso, ma  egli  si  riebbe  quel  tanto  da  accorgersi  delle  mie
intenzioni, e da proibirmelo. - Non  hai  capito?...  -  mormorò  fiocamente.  -
Voglio te solo... ed il prete!... Io lo compresi pur troppo, e volsi uno sguardo
pieno di odio e di ribrezzo alla porta,  dietro  la  quale  la  Doretta  dormiva
placidi i suoi sonni. Indi passai un braccio  sotto  il  collo  di  Leopardo,  e
vedendo che in quella posizione sembravano diminuire gli spasimi, mi sforzai  di
tenerlo sollevato a quel modo. Il peso mi  cresceva  sulle  braccia,  e  tremava
tutto non so bene se di fatica o di dolore,  quando  rientrò  la  portinaia  col
prete. Avendo picchiato indarno alla porta del parroco, essa ne  aveva  condotto
uno nel quale per sorte si era abbattuta. Colui, renitente dapprincipio, si  era
deciso a seguirla udendo che si trattava d'un  colpo  fulminante,  come  appunto
Leopardo avea definito alla portinaia il suo male. Ma qual non fu il mio stupore
quando levando gli occhi in quel sacerdote riconobbi il padre Pendola!...  Anche
lui, il buon padre, diede un guizzo certo non minore del mio, e cosí rimasimo un
istante, che la sorpresa ci  vietava  ogni  altro  movimento.  Leopardo  a  quel
silenzio alzò faticosamente uno sguardo e,  appena  fisatolo  in  volto  a  quel
prete, saltò in piedi come morsicato nel cuore da un serpente. Il padre si  tirò
indietro due passi, e la portinaia per la paura si lasciò cader il lume di mano.
- Non lo voglio! ch'egli vada via, che se ne  vada  tosto!  -  gridava  Leopardo
dibattendosi fra le mie braccia come un ossesso. Il reverendo aveva  una  voglia
grandissima di accettare  il  consiglio;  ma  lo  trattenne  la  vergogna  della
portinaia, e volle alla peggio salvare l'onore dell'abito. Questo gli riuscí piú
facile di quanto temeva, perché Leopardo s'era tosto acchetato da  quella  furia
subitanea, e tornava già quieto come un agnellino. Il buon padre se gli avvicinò
delicatamente con un sorriso angelico, e prese a confortargli  l'anima  con  una
vocerellina che partiva proprio dal cuore. - Padre reverendo, la prego di  andar
via! - gli bisbigliò nell'orecchio Leopardo con voce cupa  e  minacciosa.  -  Ma
figliuolo dilettissimo,  pensate  all'anima,  pensate  che  avete  ancora  pochi
momenti, e che io, quantunque indegno ministro del Signore,  posso...  -  Meglio
nessuno che lei, padre -  lo  interruppe  ricisamente  Leopardo.  La  portinaia,
pochissimo contenta di quello spettacolo, era tornata pe' fatti  suoi,  onde  il
prudentissimo padre non giudicò opportuno l'insistere. Ci  diede  la  sua  santa
benedizione e se n'andò per dove era venuto. Leopardo lo  fermò  sull'uscio  con
una chiamata. - Dal limitare del sepolcro un ultimo ricordo,  padre,  un  ultimo
ricordo spirituale a lei che suole raccomandar l'anima  agli  altri.  Ella  vede
come io muoio: tranquillo, ilare, sereno!... Or bene, per  morire  cosí  bisogna
vivere come ho vissuto io. Ella, vede,  bramerà  invano  una  tale  fortuna;  si
ricorderà di  me  in  sul  gran  punto,  e  passerà  nell'altro  mondo  tremante
spaventato, come chi si sente nelle polpe le unghiate del diavolo! Buona  notte,
padre; sull'alba io dormirò piú tranquillo di lei. Il padre  Pendola  se  l'avea
già battuta facendo un gesto di raccapriccio e di compassione; scommetto che giù
per la scala aggiunse molti altri gesti di sommo piacere  per  averla  scapolata
cosí a buon mercato. Leopardo non pensò piú a lui e mi pregò immantinente  ch'io
n'andassi per un altro confessore. Infatti lo affidai per poco alla portinaia, e
uscii e scampanellai tanto all'uscio del parroco che mi venne fatto di  stanarlo
di letto e di condurlo  dal  moribondo.  Questi  durante  la  mia  assenza  avea
peggiorato tanto che vedendolo in altro luogo  avrei  stentato  a  riconoscerlo.
Pure l'arrivo del parroco lo confortò alquanto e per poco  li  lasciai  soli;  e
rientrando lo trovai bensí alle prese coll'ultima stretta dell'agonia, ma  ancor
piú calmo e sereno del solito. - Dunque, figliuolo mio,  siete  proprio  pentito
del gravissimo peccato che  avete  commesso?  -  gli  ripeté  il  confessore.  -
Consentite con me che  avete  disperato  della  Provvidenza,  che  avete  voluto
distruggere a forza  l'opera  di  Dio,  che  ad  una  creatura  non  è  concesso
l'erigersi a giudice delle disposizioni  divine?  -  Sí,  sí,  padre  -  rispose
Leopardo con un lieve sapore d'ironia ch'egli non poté reprimere, e  ch'io  solo
forse distinsi, poiché egli stesso il moribondo non se n'accorgeva.  -  E  avete
fatto quant'era in poter vostro per impedire gli effetti del vostro  delitto?  -
domandò ancora il parroco. - Bisogna rassegnarsi... - soggiunse con un  filo  di
voce l'agonizzante - non era piú tempo... Padre, due grani di sublimato sono uno
speditivo troppo potente!... - Bene, l'assoluzione ch'io v'ho  impartito  ve  la
confermi Iddio. - E si diede a recitare le preci degli  agonizzanti.  Allora  le
vene del moribondo cominciarono a  inturgidire,  le  sue  membra  storcersi,  le
labbra a disseccarsi; gli occhi gli si stravolgevano orribilmente, e tuttavia lo
spirito regnava forte imperterrito su  quella  tempesta  di  morte  che  gli  si
agitava sotto. Parevano due esseri  diversi,  l'uno  dei  quali  contemplasse  i
patimenti dell'altro  colla  impassibilità  d'un  inquisitore.  Il  parroco  gli
amministrò allora gli ultimi sacramenti, e Leopardo si compose alla aspettazione
della morte colla grave pietà d'un vero cristiano.  La  quiete  era  tornata  in
tutta la sua persona; la quiete solenne che precede la morte: io potei  ammirare
quanto opera di grande la religione in un animo alto e virile;  ed  ebbi  allora
invidia per la prima volta di  quelle  sublimi  convinzioni  a  me  vietate  per
sempre. La morte  della  vecchia  Contessa  di  Fratta  me  le  aveva  messe  in
discredito; quella di Leopardo me le rese ancora venerabili  e  sublimi.  Gli  è
vero che la tempra di questo era tale, da far buona prova di  sé  colla  fede  e
senza. Indi a poco egli sofferse un nuovo assalto di dolori  acutissimi,  ma  fu
l'ultimo; il respiro divenne sempre  piú  fievole  e  frequente,  gli  occhi  si
socchiusero quasi alla contemplazione d'una visione incantevole, la sua mano  si
sollevava talvolta come per accarezzare taluno di  quegli  angeli  che  venivano
incontro all'anima sua.  Erano  i  fantasmi  dorati  della  giovinezza  che  gli
vagolavano dinanzi nel confuso crepuscolo del delirio; erano le sue speranze piú
belle, i piú splendidi sogni che prendevano forme visibili e sembianze di realtà
agli occhi del moribondo; era la ricompensa d'una vita virtuosa ed illibata o il
presentimento del paradiso. A tratti egli s'affisava sorridendo  in  me  e  dava
indizio di ravvisarmi; mi prendeva la mano  fra  le  sue  per  avvicinarsela  al
cuore; a quel cuore che non batteva quasi piú, eppure era cosí riboccante ancora
di valore e d'affetto! Vi fu un momento ch'egli fece per  alzarsi  e  mi  sembrò
quasi di vederlo sospeso da terra in un atteggiamento mirabile  d'ispirazione  e
di profezia. Egli pronunciò fieramente il nome di  Venezia;  indi  ricadde  come
stanco per tornare alle sue fantasie. Quando fu presso al  gran  punto  lo  vidi
aprire le labbra a un sorriso, quale da un pezzo non brillava piú su quel  volto
robusto e maestoso; si mise la mano in seno e ne trasse  uno  scapolare  su  cui
affisse a piú riprese le labbra. Ogni bacio era piú lento e meno vibrato; se  ne
staccò sorridente per esalar l'anima a Dio, e il suo  ultimo  respiro  gli  uscí
cosí pieno cosí sonoro dal petto,  che  parve  significare:  "Eccomi  finalmente
libero e felice!" - Quella reliquia cui  aveva  consacrato  l'estremo  alito  di
vita, cadde nella mia mano all'allentarsi della sua: io  la  ricevetti  come  un
pegno, come una sacra eredità, e m'inginocchiai dinanzi a  quel  morto  come  al
cospetto di Dio. Mai non mi venne veduta poi morte simile a quella;  il  parroco
asperse d'acqua benedetta il cadavere e  si  partí  asciugandosi  gli  occhi,  e
assicurandomi che gli verrebbe data sepoltura sacra per quanto forse i canoni lo
vietassero. Ma la santità di quel passaggio comandava che non  si  badasse  cosí
strettamente alle regole. Allora rimasto solo io diedi uno sfogo al mio  dolore:
baciai e ribaciai quel santo  volto  di  martire,  lo  cospersi  di  pianto,  lo
contemplai a lungo quasi innamorato della pace sovrumana  che  spirava.  Appresi
maggior virtù da un'ora  di  colloquio  con  un  morto,  che  da  tutta  la  mia
convivenza coi vivi. La lucerna era agli ultimi crepiti; il primo luccichio  del
giorno traspariva dalle persiane, quando mi venne a mente che si stava a  me  di
dar annunzio alla Doretta della  morte  del  marito.  Questo  pensiero  mi  fece
rabbrividire. Tuttavia mi accingeva a bussare alla porta quando udii avvicinarsi
dietro ad essa un fruscio di passi; l'uscio s'aperse pian piano  e  mi  comparve
dinanzi la figura un po' pallida e sospettosa di Raimondo Venchieredo. Diedi  un
tal grido che destò tutti gli echi della  casa  e  mi  slanciai  ad  abbracciare
Leopardo come per proteggerlo o consolarlo di  quel  postumo  insulto.  Raimondo
alle prime non ci capí nulla, balbettò non so  quali  parole  di  gondola  e  di
Fusina, e si affrettava ad andarsene. Seppi in seguito che  egli  aveva  mandato
Leopardo a Fusina coll'ordine di fermarvisi tutto il giorno appresso ad aspettar
suo padre che doveva arrivare colà e di consegnargli  un  piego  rilevantissimo.
Leopardo era partito infatti sull'Avemaria, ma  accortosi  a  mezzo  il  viaggio
d'aver dimenticato la lettera, era tornato per prenderla verso  le  tre  ore  di
notte. Allora avea veduto Raimondo entrar furtivo in sua  casa  e  nella  stanza
della Doretta; il resto ognuno se lo può immaginare.  È  vero  peraltro  che  il
sublimato egli lo avea provveduto presso uno speziale fin  dalla  mattina,  dopo
aver assistito  all'adunanza  dei  Municipali  nella  quale  il  Villetard  avea
pronunciato sentenza di morte  contro  Venezia.  Sembra  che  l'ultimo  vitupero
dell'onor suo non abbia  fatto  altro  che  precipitare  una  deliberazione  già
maturata e presa per molti motivi. La lettera diretta al Venchieredo e di  pugno
del padre Pendola fu trovata nel cassetto della tavola dinanzi a  lui.  Tuttociò
io non sapeva allora, ma indovinai qualche cosa di simile. Laonde  non  soffersi
che Raimondo si salvasse a quel modo senza conoscer almeno l'orrenda tragedia di
cui egli era la causa. Gli corsi dietro fin sulla soglia, lo  abbrancai  per  le
spalle, e lo trassi genuflesso e tremante dinanzi il  cadavere  di  Leopardo.  -
Guarda - gli dissi - traditore! Guarda!... Egli guardò  spaventato  e  s'accorse
solamente allora della lividezza mortale che copriva quelle  spoglie  inanimate.
Accorgersene, e metter un grido piú  acuto  piú  straziante  del  mio,  e  cader
riverso come colpito dal fulmine fu tutto ad un punto. Quel secondo grido chiamò
nella stanza la portinaia, la Doretta e quanta gente abitava la  casa.  Raimondo
s'era riavuto ma si reggeva in  piedi  a  stento,  la  Doretta  si  strappava  i
capelli, e non so ben dire se  strillasse  o  piangesse;  gli  altri  guardavano
spaventati quel lugubre spettacolo, e si  chiedevano  l'un  l'altro  sotto  voce
com'era stato. Mentire toccò a me, e non mi fu grave,  perché  pensava  cosí  di
adempiere scrupolosamente i desiderii dell'amico. Ma non potei far  a  meno  che
nell'ascrivere quella morte ad un colpo fulminante  la  mia  voce  non  parlasse
altrimenti. Raimondo e la Doretta mi intesero, e  sopportarono  dinanzi  al  mio
sguardo inesorabile la vergogna dei rei. Io partii da quella casa, ove  divisava
di tornare il giorno appresso per accompagnare l'amico alla sua  ultima  dimora;
qual fosse l'animo, quali i miei pensieri non voglio confessarlo  ora.  Guardava
talvolta con inesprimibile avidità l'acqua torbida e profonda dei canali; ma mio
padre mi aspettava ed altri martiri mi invitavano per la via di Milano alle dure
espiazioni  dell'esiglio.  Mio  padre  m'attendeva  infatti  da  un'ora   e   si
spazientiva di non vedermi tornare. Mi scusai raccontandogli l'atrocissimo caso,
ed egli mi tagliò le parole in bocca sclamando: - Matto, matto!  La  vita  è  un
tesoro; bisogna  impiegarlo  bene  sino  all'ultimo  soldo!  -  Rimasi  nauseato
alquanto di una tale pacatezza, e non ebbi voglia alcuna di  farmi  incontro  ai
suoi desiderii, come me ne aveano persuaso la sera prima le monche confidenze di
Lucilio. Egli invece senzaché io m'incommodassi entrò  subito  in  argomento.  -
Carlino - mi chiese - dimmi la verità, quanti danari all'anno ti  bisognano  per
vivere? - Son nato con un buon paio di braccia; - gli risposi freddamente  -  mi
aiuterò!... - Matto, matto anche tu! - rispose egli -  anch'io  son  nato  colle
braccia e le ho fatte lavorare a meraviglia; ma perciò non rifiutai mai un  buon
aiuto dell'amicizia. Pigliala come vuoi, io sono tuo  padre;  e  ho  diritto  di
consigliarti e al caso anche di comandarti. Non guardarmi cosí altero!... Non ci
è bisogno!... Ti compatisco; sei giovane, hai perduto la testa.  Anch'io  stetti
tutto ieri che non sapeva se fossi vivo o morto, anch'io ho sofferto, vedi,  piú
di uomo al mondo vedendo rovesciarsi tutte le mie speranze per opera  di  quelli
stessi cui le aveva affidate da compiere! Anch'io ho pianto,  sí  ho  pianto  di
rabbia trovandomi schernito beffeggiato e pagato di sette anni di servizi  e  di
sacrifizi coll'ingratitudine e col tradimento... Ma oggi; oggi me ne rido!... Ho
un gran pensiero in capo; questo mi occuperà per mesi  forse,  per  anni  molti;
spero di riuscir meglio che al primo esperimento e ci rivedremo. Un uomo,  vedi,
è un assai debole animale, un futuro parente del nulla; ma  non  è  nulla!...  e
finché non è nulla può essere il primo anello d'una catena  da  cui  dipenda  il
tutto... Bada a me, Carlino!... Io son tuo padre, io ti stimo e ti  voglio  bene
assai; tu devi accettare i consigli della mia esperienza; devi serbarti per quel
futuro che io m'adoprerò di preparare a te ed alla patria.  Pensa  che  non  sei
solo, che hai amici e parenti profughi, impotenti, bisognosi;  ti  sarà  gradito
talvolta aver un pane da spartir con loro. Qui in questo taccuino sono  parecchi
milioni ch'io consacro ad un grande tentativo di giustizia e di vendetta;  erano
destinati a te, ora non lo sono piú. Vedi che parlo aperto e  sincero!...  Usami
dunque  l'egual  confidenza,  dimmi  quanto  ti  bisogna  per  vivere  un   anno
comodamente. Io mi piegai sotto la stringente logica  paterna  e  soggiunsi  che
trecento ducati mi sarebbero stati piú che sufficienti. - Bravo, figliuol mio! -
ripigliò mio padre. - Sei un gran galantuomo. Eccoti una credenziale appunto  di
settemila  ducati  sopra  la  casa  Apostulos  in  San  Zaccaria;  la  quale  tu
consegnerai oggi stesso al rappresentante della  casa.  Troverai  ottima  gente,
generosa e leale: un vecchio ch'è la perla dei mercanti onesti e che sarà per te
un altro me stesso: un giovine appena reduce dalla Grecia che ne  compera  venti
dei nostri veneziani; una giovinetta che tu amerai come una sorella;  una  mamma
che ti amerà come mamma. Fidati ad essi: per mezzo loro avrai mie novelle poiché
conto imbarcarmi prima di mezzodí, e non voglio vedere le  nefandità  di  questo
giorno. La casa ch'io comperai per duemila ducati ti resta in proprietà;  ne  ho
già steso la donazione. Nello scrittoio troverai alcune carte che  appartenevano
a tua madre. Sono la sua eredità e la viene a te di  diritto.  Quanto  alla  tua
sorte futura non ti do consigli, perché non ne abbisogni. Altri s'affida  ancora
alle speranze francesi ed emigra nella Cisalpina. Guarda il fatto tuo;  e  pensa
sempre a Venezia; non lasciarti abbagliare né da fortuna né da ricchezze  né  da
gloria. La gloria c'è quando si ha una patria; stima la fortuna e  le  ricchezze
quando siano assicurate dalla libertà e dalla giustizia. - Non temete, padre mio
- soggiunsi piuttosto commosso da queste raccomandazioni che per essere espresse
a sbalzi e con un gergo piú moresco che veneziano non  erano  meno  generose.  -
Penserò sempre a Venezia!... Ma perché non potrei  partire  con  voi,  ed  esser
partecipe dei vostri disegni, compagno delle vostre fatiche? - Ti dirò, figliuol
mio: tu non sei abbastanza turco per approvare tutti i miei mezzi; io sono  come
un chirurgo che mentre opera non vuole intorno a sé donnicciuole  che  frignino.
Non dico per insultarti; ma te lo ripeto, non sei abbastanza turco:  questo  può
ridondare ad onor tuo; per me ci perderei la libertà d'azione che sola dà fretta
alle cose di questo mondo. E un uomo di  sessant'anni,  Carlino,  ha  fretta  ha
fretta assai! D'altronde in questi paesi non c'è abbondanza di giovani robusti e
ben pensanti come tu sei: va bene che restiate qui, se si ha da imparare  a  far
da noi. Già in un cantone o  nell'altro  la  matassa  si  deve  imbrogliare.  Ad
Ancona, a Napoli, bollono che è  una  meraviglia:  quando  l'incendio  si  fosse
dilatato, chi lo appiccò potrebbe restarne arso; allora toccherà a voi,  cioè  a
noi. Per questo ti dico di rimanere, e di lasciar me solo dove la vecchiaia  può
riescire meglio della gioventù, ed il danaro aver ragione  sopra  le  forze  del
corpo e la gagliardia dell'animo. -  Padre  mio!  che  volete  che  vi  dica?...
Resterò!... Ma si potrebbe almen sapere dove n'andate? -  In  Oriente  vado,  in
Oriente a intendermela coi Turchi, giacché qui non ebbi voce  da  farmi  capire.
Fra poco, se anche non udrai parlare di me, udrai parlare dei  Turchi.  Di'  pur
allora ch'io vi ebbi le mani in pasta. Di piú non ti  posso  dire,  perché  sono
ancora fantasmi di progetti. Mio padre  doveva  uscire  per  prender  l'ora  dal
capitano della tartana che salpava pel Levante. Io lo accompagnai, e  non  altro
potei rilevare, senonché  egli  andava  difilato  a  Costantinopoli  ove  poteva
fermarsi e molto e poco secondo le circostanze. Certo i suoi pensieri non  erano
né piccoli né vili perché ingrandivano la sua persona e le davano una  sembianza
di autorità insolita fino allora. Aveva la solita  berretta,  le  solite  brache
all'armena, ma un fuoco affatto nuovo gli lampeggiava dalle ciglia canute. Verso
le nove salí sulla nave colla fida fantesca e un  piccolo  baule;  non  mise  un
sospiro,  non  lasciò  saluti  per  nessuno,  riprese   volontario   la   strada
dell'esiglio colla baldanza  del  giovine  che  avesse  dinanzi  agli  occhi  la
certezza d'un vicino trionfo. Mi  baciò  cosí  come  all'indomani  ci  dovessimo
rivedere, mi raccomandò la visita all'Apostulos; e poi egli scese sotto coperta,
io tornai nella gondola che ci aveva condotti a bordo. Oh come  mi  trovai  solo
misero abbandonato al ritoccare il  lastrico  della  Piazzetta!...  L'anima  mia
corse con un sospiro alla Pisana; ma la fermai a mezza strada  col  pensiero  di
Giulio e dell'ufficial còrso. Mi rimisi allora a piangere la morte di  Leopardo,
e ad onorare la sua memoria di  quei  postumi  compianti  che  formano  l'elogio
funebre d'un amico. Piansi e farneticai un pezzo, finché  per  distrarmi  pensai
alla credenziale, e mi volsi a San Zaccaria per abboccarmi col negoziante greco.
Trovai un mustacchione grigio di pochissime parole, che onorò la  firma  di  mio
padre, e mi chiese senz'altro in qual modo bramassi esser  pagato.  Gli  risposi
che desiderava solo gli interessi d'anno in anno e che il capitale  lo  lascerei
volentieri in mani cosí sicure. Il vecchio allora diede una specie di  grugnito,
e comparve un giovine al quale consegnò il foglio, aggiungendo in greco  qualche
parola che non potei capire. Mi disse poi  che  quello  era  suo  figlio  e  che
n'andassi pure con lui alla cassa, ove mi sarebbe contata la  somma  secondo  il
mio  piacimento.  Quanto  era  ruvido  e  brontolone  il   vecchio   negoziante,
altrettanto suo figlio Spiridione piaceva per le sue maniere amabili e  compite.
Grande e svelto di statura, con un profilo greco moderno arditissimo, un  colore
piucché olivastro, e due occhi fulminei,  egli  mi  entrò  in  grazia  al  primo
aspetto. Intravvidi una grand'anima sotto quelle sembianze,  e  secondo  la  mia
usanza l'amai addirittura. Egli mi snocciolò  trecento  cinquanta  ducati  nuovi
fiammanti, mi chiese scusa sorridendo delle burbere accoglienze di suo padre,  e
soggiunse che non me ne spaventassi perché egli gli aveva parlato di  me  quella
stessa mattina con tutto il favore, e che sarei il benvenuto  nella  loro  casa,
ove avrei ritrovato la confidenza e la pace della famiglia. Io lo ringraziai  di
sí benevoli sentimenti soggiungendo che questo sarebbe stato il  mio  piú  soave
piacere, ove un qualche caso straordinario mi avesse fermato a Venezia. Cosí  ci
separammo, a quanto parve, amici in fin d'allora con tutta l'anima. Pranzai quel
giorno, v'immaginerete con quanta voglia, in una  bettolaccia,  ove  facchini  e
gondolieri litigavano sullo sgombero dei Francesi e l'entrata dei Tedeschi. Ebbi
campo di compiangere profondamente la  sorte  d'un  popolo  che  da  quattordici
secoli di libertà non avea tratto né un lume di criterio  né  la  coscienza  del
proprio essere. Ciò avveniva forse perché quella non era libertà vera; e avvezzi
all'oligarchia non vedevano motivo da schifare l'arbitrio soldatesco e  l'impero
di fuori. Per loro era tutto  uno;  tutto  servire;  discutevano  sull'umor  del
padrone e sul salario, e  null'altro.  Qualche  voce  meno  interessata  stonava
troppo in quel concerto, e avevano perfin paura di ascoltarla,  tanto  li  aveva
usati bene l'Inquisizione di Stato. Quand'io penso  alla  Venezia  d'allora,  mi
maraviglio che una sola generazione abbia potuto mutarla di tanto, e benedico  o
le insperate consolazioni della Provvidenza, o i misteriosi e subitanei ripieghi
dell'umana natura. Passato per casa mia me ne cacciò  tosto  la  mestizia  e  la
paura della solitudine; mi ricordo che piansi a dirotto trovando sul tappeto  la
pipa di mio padre ancor piena di cenere. Pensai che  tutto  finiva  cosí;  e  mi
entrò in cuore un involontario sospetto che quello fosse un pronostico. In  tali
disposizioni  d'animo  il  povero  Leopardo  mi  attirava   a   sé   con   forza
irresistibile; infatti il resto della giornata lo passai vicino al letto dove  i
pietosi vicini lo avevano adagiato. La portinaia mi disse che la vedova di  quel
signore se n'era ita colle sue robe lasciando  otto  ducati  per  le  spese  del
funerale; e l'avea detto prima di partire, che non le reggeva il cuore di restar
un'ora di piú sotto lo stesso tetto colle spoglie inanimate di colui  che  tanto
ell'aveva amato. -  Peraltro  -  soggiunse  la  portinaia  -  la  signora  parve
arrabbiatissima perché non venne a levarla quel bel cavaliere che era qui questa
mattina, e si stizzí anche non poco colla mia ragazzina,  perché  lasciò  cadere
per terra una sua cuffia. Dica lei, se questi sono segni di gran dolore! Io  non
risposi verbo, pregai la donna che non si incommodasse per cagion mia, e siccome
la persisteva nelle sue  chiacchiere,  nelle  sue  induzioni,  mi  voltai  senza
cerimonie dalla banda del morto.  Allora  essa  mi  lasciò  solo,  ed  io  potei
sprofondarmi a mio grado nell'oscuro abisso delle mie meditazioni. Dice bene  il
mementòmo del primo giorno di  quaresima;  tutti  si  torna  cenere.  Piccoli  e
grandi, buoni e cattivi, ignoranti e sapienti, tutti ci somigliamo,  cosí  nella
fine come nel principio. Questo è il giudizio degli occhi; ma  la  mente?  -  La
mente è troppo ardita, troppo superba  e  insaziabile  per  accontentarsi  delle
ragioni che si palpano. Le stupende e sublimi azioni inspirate dal  Vangelo  non
sono elleno figlie legittime dei pensieri della dottrina dell'anima  di  Cristo?
Ecco una divinità, un'eternità in noi che non finisce nella cenere. Quel muto  e
freddo Leopardo non viveva egli in me, non riscaldava ancora il cuor  mio  colla
bollente memoria dell'indole sua nobile e poderosa? - Ecco una  vita  spirituale
che trapassa di essere in essere, e non vede limiti al suo  futuro.  I  filosofi
trovano conforti piú saldi piú pieni; io m'appago  di  questi,  e  mi  basta  il
credere che il bene non è male, né la mia vita un  momentaneo  buco  nell'acqua.
Allora con  questi  melanconici  conforti  per  capo,  trassi  di  tasca  quello
scapolare ch'era caduto il dí prima dalla mano del moribondo nella mia, e da  un
fesso chiuso con un bottoncino trassi un'immagine della Madonna e  alcuni  pochi
fiori appassiti. Fu come un largo orizzonte che mi si scoperse  lontano  lontano
pieno di poesia, d'amore e di gioventù;  tra  quell'orizzonte  e  me  vaneggiava
allora l'abisso della morte, ma la mente lo varcava senza ribrezzo.  I  fantasmi
non sono paurosi a chi ama per sempre. Ricordai le belle e  semplici  parole  di
Leopardo; rividi la fontana di Venchieredo, e la leggiadra ninfa che vi  bagnava
l'un piede increspando coll'altro il sommo dell'acque; udii l'usignuolo  intonar
un preludio, e un concento d'amore sorgere da due anime, come da  due  strumenti
di cui l'uno ripete in sé i suoni dell'altro. Vidi uno splendore di  felicità  e
di speranza diffondersi sotto quel fitto fogliame d'ontani e di  salici...  Indi
gli sguardi tornarono da quei remoti prospetti fantastici alle cose reali che mi
stavano dintorno: rimirai con un tremito quel cadavere che mi dormiva  appresso.
Ecco un'altra felicità, ahi quanto diversa!... Dopo la luce le tenebre, dopo  la
speranza l'obblio, dopo il tutto il nulla; ma fra nulla e tutto,  fra  obblio  e
speranza, fra tenebre e luce quanta vicenda di cose, quanto fragore di tempeste,
e sguiscio di fulmini! Si armi di costanza e  di  rassegnazione  il  piloto  per
trovare un porto in quel pelago vorticoso e sconvolto; alzi sempre gli occhi  al
cielo, ed anche traverso nuvole e al velo luttuoso della procella traveda sempre
colla mente lo splendor delle stelle. Passano le navi, ora calme e leggiere come
cigni sull'onda d'un lago, or risospinte ed agitate come stormo di pellicani tra
il contrario azzuffarsi dei venti; sorgono i  flutti  minacciosi  al  cielo,  si
sprofondano quasi a squarciare  le  viscere  della  terra,  e  si  stendono  poi
graziosi e tremolanti all'occhio del sole, come serico manto sulle spalle  d'una
regina. L'aria si annebbia greve e cinerea; s'empie di nubi,  di  burrasche,  di
tuoni, nera come l'immagine del nulla  nella  notte  profonda,  grigia  come  la
chioma scapigliata delle streghe nel trasparente biancheggiar del mattino.  Indi
la brezza profumata spazza via come larve sognate quelle apparizioni spaventose;
il cielo s'incurva azzurro calmo  e  sereno,  e  non  ricorda  e  non  teme  piú
l'assalto dei mostri  aereiformi.  Ma  cento  milioni  di  miglia  sopra  quelle
effimere battaglie, le stelle siedono eterne sui loro troni di luce; l'occhio le
perde di vista talvolta e il cuore ne indovina sempre  i  raggi  benigni,  e  ne
sente e ne raccoglie l'arcano calore. O vita, o mistero, o mare senza sponde,  o
deserto popolato da oasi fuggitive, e da carovane che viaggiano sempre, che  non
giungono mai! Per consolarmi di te bisogna che io slanci il  pensiero  fuori  di
te; veggo le stelle ingrandirsi agli occhi delle generazioni venture;  veggo  il
piccolo e modesto seme delle mie speranze, covato con tanta costanza,  fecondato
da tanto sangue da tante lagrime crescere in pianta gigantesca, empir l'aria de'
suoi rami, e proteggere della sua ombra  la  famiglia  meno  infelice  de'  miei
figliuoli! Oh non vivrò io sempre in te, anima  immensa,  intelligenza  completa
dell'umanità! - Cosí pensa il giovane sul sepolcro dell'amico; cosí si  conforta
la vecchiaia nel baldanzoso aspetto  dei  giovani.  La  giustizia,  l'onore,  la
patria vivono nel mio cuore, e non morranno mai. La stanchezza mi vinse,  dormii
alcune ore sullo stesso letto dove dormiva per sempre Leopardo; e il  mio  sonno
fu profondo e tranquillo come  sul  seno  della  madre.  La  morte  veduta  cosí
davvicino in simili sembianze nulla aveva d'orribile, o  di  schifoso;  sembrava
un'amica fredda e severa bensí, ma eternamente fedele. Mi destai per porgere gli
estremi uffici all'amico, deporlo nel suo ultimo letto, e accompagnarlo  per  le
acque silenziose all'isola di San Michele. Io invidio ai morti veneziani  questo
postumo viaggio; se un lontano sentore  di  vita  rimane  in  essi,  come  pensa
l'americano Pöe, deve giungere  ben  soave  ai  loro  sensi  assopiti  il  dolce
molleggiar della gondola. In quel lido angusto e deserto, popolato  soltanto  da
croci e da uccelli marini, poche palate di  terra  mi  divisero  per  sempre  da
quelle spoglie  dilette.  Non  piansi,  tanto  era  impietrato  di  dentro  come
l'Ugolino di Dante; tornai colla stessa gondola che avea condotto la bara, e  il
vivo che tornava non era allora piú vivo del morto ch'era rimasto. Rientrato  in
Venezia osservai un andirivieni di curiosità  fra  la  gente  del  volgo,  e  un
movimento maggiore del consueto nella guarnigione francese. Udii da  taluno  che
erano giunti i Commissari imperiali per disporre le cerimonie della consegna; li
avevano veduti entrare al Palazzo  del  Governo  e  il  popolo  s'affollava  per
vederli ripassare. Non so per qual ragione mi fermai, ma credo che cercassi alla
peggio un nuovo dolore che mi distraesse dal mio sbalordimento. Indi  a  poco  i
Commissari uscirono in fatti con grande scalpore di sciabole e pompa  di  piume.
Ridevano e parlavano forte cogli ufficiali francesi che li accompagnavano;  cosí
scherzando  e  ridendo  s'imbarcarono  in  una  peota   fatta   loro   addobbare
suntuosamente da Serrurier per ricondurli al  campo.  Uno  solo  si  divise  dai
compagni per restare a Venezia; ed era nientemeno che il signore di Venchieredo.
Mezz'ora dopo lo vidi ripassare in Piazza a braccetto del padre Pendola, ma  non
aveva piú né sciabola né piume, vestiva un abito nero alla francese. Raimondo  e
il Partistagno ch'io vedeva allora a Venezia per la prima  volta,  li  seguivano
con un'aria di trionfo; l'accostarsi di quest'ultimo a simil razza di  gente  mi
spiacque non poco; non tanto per lui quanto perché era indizio del  gran  frutto
che i furbi saprebbero trarre dalla pieghevole natura degli ignoranti.  La  lama
non pensa, ma è tuttavia strumento micidiale in un pugno ben sperimentato. Finii
collo scappare a casa, perché sentiva di non poter reggere piú  a  lungo;  e  vi
confesso che in quel momento era inetto affatto a qualunque forte deliberazione.
Per quanto avessi udito bisbigliare di arresti, di condanne e  di  proscrizioni,
non mi poteva decidere a movermi di  colà.  Era  caduto  in  quello  spensierato
abbattimento nel quale ci mancano  i  nervi  e  la  volontà  per  saltare  dalla
finestra; ma un fulmine che ci colpisse,  o  una  trave  caduta  giù  pel  capo,
parrebbe un regalo del cielo. Allora soltanto  mi  risovvenne  di  quelle  carte
appartenenti a mia madre le quali io  doveva  trovare  nello  scrittoio;  misera
eredità d'una sventurata ad un orfano piú sventurato ancora.  Apersi  trepidando
il cassetto; e slegata una vecchia busta di cartone, mi misi a rovistare  alcuni
fogli polverosi e giallognoli che vi si contenevano. Scorsi prima alcune lettere
amorose piú o meno invenezianate e cosperse di errori  ortografici.  Erano  d'un
nobiluomo forse morto da gran tempo e seppellito coi fantasmi  de'  suoi  amori;
non appariva il nome, ma la nobiltà del suo casato era accertata da molti  passi
sparsi qua e là in quella lunga corrispondenza. Potrei darne qualche saggio  per
mostrar la maniera con cui si faceva  all'amore  colle  zitelle  alla  metà  del
secolo passato. Pare che le quistioni importanti non si trattassero in iscritto;
invece l'amante si dava gran cura di metter in mostra le proprie belle  qualità,
e di descrivere le impressioni avute dalle buone grazie  della  bella  in  varie
circostanze.  Il  frasario  non  era  troppo  squisito;  ma  quanto  mancava  di
squisitezza si compensava coll'ardenza; sopra tutto poi si diffondeva un incanto
di buona fede, di calma, di bontà, che adesso è relegato nelle letterine  che  i
collegiali scrivono  ai  parenti  per  le  feste  di  Natale.  Tuttavia,  potete
crederlo,  che  quella  lettura  non  si  affaceva  molto  in  quel  giorno  con
quell'umore. Passai oltre. Altre lettere di maestre e d'amiche di convento,  piú
scipite delle prime. Andai innanzi  ancora.  Successe  il  completo  epistolario
erotico di mio padre. C'era del balzano assai; ma egli pareva innamorato  quanto
mai lo può essere uomo al mondo; e l'ultimo suo biglietto stabiliva il giorno  e
l'ora di quella fuga, che avea condotto i miei genitori a concepirmi in Levante.
Come corollario a quelle lettere, trovai un libricciuolo  di  memorie  tutte  di
pugno di mia madre, datate da molte città del Levante  e  dell'Asia  Minore.  Lí
cominciava la storia. La felicità di mia madre  avea  durato  fino  a  metà  del
tragitto. Le burrasche e il mal di mare pel resto del viaggio, la miseria e  gli
alterchi nei primi loro pellegrinaggi, in seguito le malattie  gli  strapazzi  e
perfino la fame  le  avevano  smorzato  d'assai  quel  primo  incendio  d'amore.
Tuttavia non si stancava dal seguir suo marito, dal sopportare pazientemente  le
sue stranezze la sua indifferenza, e sopratutto  le  sue  gelosie  che  parevano
assai strane. Egli restava  assente  delle  settimane  intiere  dai  luoghi  ove
collocava la moglie, e questa rimaneva affidata a  qualche  povera  famiglia  di
turchi, ove le conveniva fare da fantesca  e  da  guattera  per  guadagnarsi  il
vitto. Mio padre girava  intanto  per  gli  harem  e  pei  chioschi  dei  ricchi
mussulmani commerciando di spilloni, di  specchietti  e  d'altri  ninnoli  ch'ei
sapeva vendere a prezzi incredibili; cosí almeno  affermava  mia  madre  ridotta
allo stremo di tutto. Un bel giorno sembrava che le gelosie ricominciassero  piú
violente che mai a proposito della sua  gravidanza.  L'accusato  era  un  brioso
fellah delle vicinanze; mia madre  scriveva  roba  di  fuoco  intorno  a  questa
ingiustizia del marito; sembra ch'ella sospettasse in lui un sistema premeditato
per annoiarla di quella vita, per finirla affatto o per  isforzarla  a  fuggire.
Allora la sua superbia cominciò  a  raddrizzarsi:  da  quei  lamenti  da  quelle
disperazioni tornava a trapelare la nobildonna offesa  nell'onore;  l'animo  suo
s'esasperava sempre piú in quelle noterelle buttate giù sulla carta  giorno  per
giorno con mano rabbiosa; finalmente  si  giungeva  ad  una  pagina  vuota  dove
null'altro era scritto senonché queste parole:  "Ho  deciso!"  Cosí  terminavano
quelle memorie; ma le completava una lettera scritta  da  essa  medesima  a  mio
padre, dappoiché la ebbe deciso. Non posso far a meno di riportar  quelle  poche
righe le quali serviranno a profilar meglio l'indole di mia madre. Ahimè! perché
non posso io parlarne piú a lungo?... Perché l'amore di  figlio  non  ebbe  egli
nella mia vita che un barlume lontano di confuse memorie, ove posarsi? Tale è la
sorte degli orfani. Ad  ottant'anni  dura  ancora  il  rammarico  di  non  poter
contemplare nel memore pensiero  l'immagine  della  madre.  Le  labbra  che  non
ricordano il sapore de' suoi baci  inaridiscono  piú  presto  al  fiato  maligno
dell'aria mondana. "Marito mio! (cosí  cominciava  la  scritta  ov'ella  prendea
commiato da mio padre per sempre) Io volli amarvi, io volli fidarmi  a  voi,  io
volli seguirvi fino in capo al mondo contro l'opinione de' miei parenti i  quali
mi vi dipingevano come un birbante senza  cuore,  e  senza  cervello.  Ho  avuto
ragione o torto? Lo saprà la vostra coscienza.  Io  per  me  so  che  non  debbo
sopportare piú a lungo sospetti che mi disonorano, e che la creatura di  cui  ho
già fecondo il grembo non deve imporsi per forza ad un padre che la rifiuta.  Io
fui una donna frivola, e vanitosa; l'amor vostro mi fece pagar cari questi  miei
difetti. Io mi rassegno di buon grado a farne una piú ampia penitenza. In  tutta
me non ho che venti ducati; farò il possibile di tornare a Venezia  ove  troverò
per giunta la vergogna e il disprezzo. Ma consegnata la  mia  creatura  ai  suoi
parenti che non avranno cuore di respingerla, Dio faccia pure di me  quello  che
vuole! Voi starete assente otto giorni ancora; tornando non mi troverete piú. Di
questo sono sicura. Ogni altra cosa sta nelle mani di Dio!". La lettera  portava
la data di Bagdad. Da Bagdad a Venezia per quattromila miglia di  deserto  e  di
mare, in una stagione  soffocante,  con  poca  conoscenza  della  lingua,  colla
persona affranta dall'inedia e dalla passione rividi col pensiero  la  poveretta
mia madre. Partiva con venti ducati in tasca dalla casa d'un marito sospettoso e
brutale; s'avviava attraverso un viaggio pieno di pericoli  e  di  fatiche  alle
repulse alla vergogna che l'attendevano nella sua patria.  Moglie  affettuosa  e
sacrificata sarebbe confusa colle donne da partito, e buon  per  lei  se  taluno
fosse tanto generoso tra' suoi parenti da raccogliere d'in sul lastrico  il  suo
figliuolino!... Ohimè! ed era per  cagion  mia  che  ella  avea  sofferto  tanto
vitupero, sfidato tanti  patimenti!  Sentiva  quasi  il  rimorso  d'esser  nato;
sentiva che una lunghissima vita tutta  consacrata  a  consolare,  a  far  beata
quell'anima santa avrebbe appena bastato ad appagar il  mio  cuore;  ed  io  non
aveva né contemplato il suo volto, né sorriso ai suoi sguardi, né  succhiato  un
gocciolo solo del suo latte!... L'aveva menata colla mia nascita sulla via della
perdizione; là l'aveva abbandonata senza aiuto,  senza  conforto.  Io  detestava
quasi mio padre; ringraziava Dio ch'egli fosse partito e che un grande spazio di
tempo dovesse trascorrere tra la lettura di quei fogli e il  primo  istante  che
l'avrei riveduto! Altrimenti non prevedeva qual potesse  essere  la  fine  nella
battaglia de' miei affetti. Qualche bestemmia  qualche  maledizione  mi  sarebbe
sfuggita dalle labbra. Oh se piansi quel  giorno!...  Oh  come  colsi  premuroso
quello sfogo non solo concesso ma sacro  e  generoso  dell'affetto  filiale  per
alleggerire colle lagrime il peso infinito de' miei dolori!... Come  si  univano
misteriosamente  nell'angoscia  che  mi  riboccava  dal  cuore  in  urli  e   in
singhiozzi, e la patria venduta, e l'amico  volontariamente  morto,  e  l'amante
infedele e spergiura, e  l'ombra  della  madre  impressa  ancora  il  volto  dei
patimenti della sua vita!... Oh come mi scagliava furibondo e  terribile  contro
coloro  che  avevano  cercato  d'infamare  la  memoria  di  questa  benedetta  e
allontanarmi dal rispetto della buona anima sua con sacrileghe calunnie!...  Sí,
io voleva che fossero calunnie ad ogni costo: son sempre calunnie le  accuse  ai
poveri morti, le accuse senza esame e senza pudore scagliate contro  una  tomba.
Chi credeva vogliosamente, e aggravava pur anco le colpe di  mia  madre,  sapeva
egli i suoi sacrifizi, le torture, le lagrime, il lungo martirio che avea  forse
estenuato le sue forze, e travolta la ragione?... Io mi straziava il petto colle
unghie, e mi strappava i capelli per  non  poter  sorgere  a  vendetta  di  quei
codardi improperi; il silenzio da me tenuto durante l'infanzia  appetto  a  quei
furtivi detrattori mi rimordeva come un delitto. Perché non m'era  io  alzato  a
svergognarli con tutto il coraggio dell'innocenza e la veemenza d'un figlio  che
si sente insultato nella memoria della madre? Perché i miei  piccoli  occhi  non
aveano lampeggiato di sdegno, e il cuore non avea  rifuggito  dall'accettare  la
compassione di coloro che mi faceano pagare a prezzo d'infamia un tozzo di  pane
ed un cantuccio d'ospitalità? - Mi salivano al volto le fiamme  della  vergogna;
avrei dato tutto il mio sangue tutta la mia vita per riavere uno di quei giorni,
e vendicarmi di una sí disonorevole servitù. Ma non era piú  tempo.  Mi  avevano
instillato, si può dire col latte, la pazienza, il timore  e  aggiungerei  quasi
l'impostura, i tre peccati capitali degli accattoni. Era cresciuto  buono  buono
buono; il mio temperamento rammollito dalla soggezione non cercava che  pretesti
per piegarsi e padroni per obbedire. Allora conobbi tutti  i  pericoli  di  quel
lasciarsi correre a seconda delle opinioni, e degli affetti altrui;  mi  proposi
per la prima volta di esser io, null'altro che io. Ci son riuscito in un  cotale
proponimento? A volte sí, ma piú spesso anche no. La ragione  non  è  lí  sempre
apparecchiata a tirare in senso contrario all'istinto; talvolta complice ignara,
talaltra anche maliziosamente ella usa mettersi dal lato del piú  forte:  allora
ci crediamo forti e commettiamo delle viltà, tanto  piú  spregevoli  quanto  piú
ignorate e sicure dalla  disistima  del  mondo.  Non  c'è  scampo,  o  speranza.
Nell'indole del fanciulletto sta racchiuso  il  compendio  il  tema  della  vita
intera: onde io non mi stancherò mai di ripetere: "O anime rettrici dei  popoli,
o menti fiduciose nel futuro, o  cuori  accesi  d'amore  di  fede  di  speranza,
volgetevi all'innocenza, abbiate cura dei  fanciulli!"  -  Lí  stanno  la  fede,
l'umanità, la patria. L'inventario dell'eredità materna era bell'e terminato. Ma
tra l'ultima lettera di mia madre e il cartone della busta trovai un foglio  con
alcune righe scritte, a vederle, di fresco. Infatti portavano  la  data  di  due
giorni prima, ed erano di mano di mio padre. Non  vi  posso  nascondere  che  le
guardai quasi con ribrezzo e pareva che m'abbruciassero le dita. Peraltro quando
mi fui calmato lessi quanto segue: "Figliuolo mio. Tutto ciò che  hai  letto  di
tua madre io poteva celartelo per sempre; ringraziami di averla  rialzata  nella
tua stima a scapito anche di quella che io avessi potuto inspirarti.  Ho  veduto
che hai bisogno di conforto e ho voluto  lasciartene  uno  a  costo  di  pagarne
salate le spese. Io ho sposato tua madre per amore; questo non posso negarlo; ma
io credo che non fossi fatto per questa sorta di passioni,  e  cosí  l'amore  mi
svampò troppo presto dal capo. La mia partenza pel Levante, le  mie  fatiche,  i
miei viaggi colà miravano a un altissimo scopo; in poche parole voleva  far  dei
milioni, e lo scopo lo avrei raggiunto in seguito. Ti confesso che una moglie mi
impicciava non poco. Mi si guastò l'umore; la crudeltà con cui io  tiranneggiava
me stesso riducendo i miei bisogni allo strettissimo necessario, fu  creduta  da
essa una maniera trovata apposta per martoriarla. Le mie continue  lontananze  e
le preoccupazioni di quel grande disegno che mi frullava sempre in  capo  davano
motivo ad alterchi, a risse continue. Ella  finí  col  trovarsi  ottimamente  in
qualunque compagnia turca o rinnegata che non fosse la mia. Sovente  tornando  a
casa io udiva le sue  stridule  risate  veneziane  che  echeggiavano  dietro  le
persiane; la  mia  presenza  rimenava  la  stizza,  le  sgrugnate,  le  lagrime.
Sopratutto al fianco di quel tal fellah mia moglie dimenticava assai  facilmente
il marito burbero e lontano. "Allora intervenne a me quello che  spesso  succede
nei temperamenti né troppo generosi né abbastanza sinceri.  Divenni  geloso;  ma
forse in fondo in fondo mi accorgeva che la gelosia  era  un  appiglio  per  dar
tanta noia a mia moglie ch'ella fosse costretta ad abbandonarmi. Ti giuro  ch'io
aspettava con impazienza da parte sua una qualche scena di disperazione,  e  una
domanda assoluta di tornare a Venezia. Ma era ben lontano dal temere  una  fuga.
Ella era paurosa dilicata e piuttosto portata a  parlare  che  a  fare.  La  sua
improvvisa partenza mi sorprese e mi accorò  non  poco;  ma  io  era  allora  in
Persia, non tornai che un mese dopo quando non m'era possibile neppur tentar  di
raggiungerla. Fitto piucchemai il capo nella mia impresa d'arricchire,  tutti  i
pensieri che me ne stornavano li riguardava come tanti nemici;  tu  saprai  già,
oppure ti sarà facile comprendere quello stato dell'animo nostro  nel  quale  si
propende a creder vero ed ottimo ciò che piace; e a forza  di  abitudine  lo  si
crede infatti. Per attutare i rimorsi che mi inquietavano, io mi persuasi che la
mia gelosia non era senza un buon motivo, e che io  non  ci  aveva  colpa  della
gravidanza di mia moglie. M'accostumai sí bene a questa commoda opinione che non
mi diedi piú pensiero né di essa né di ciò che fosse nato da lei. "Seppi  che  o
bene o male l'era giunta a Venezia; e  contento  di  ciò  e  d'esser  finalmente
libero da un legame che mi importunava, mi  diedi  a  tutt'uomo  e  con  maggior
pertinacia ai miei negozi. Solo tornando  in  patria  coi  sognati  milioni  già
coniati in bei zecchini e in grossi dobloni mediante la mia costanza, io ebbi il
tempo di pescare per ozio nelle carte lasciatemi da tua madre.  Una  navigazione
di quarantadue giorni mi diede commodità di  meditarvi  sopra  a  lungo.  Perciò
sbarcato a Venezia ti rividi  con  discreto  piacere:  e  i  sospetti  concepiti
intorno alla tua nascita s'andavano dileguando. Ma  cosa  vuoi?  ci  riesciva  a
stento. Sentiva di darmi la zappa sui piedi, e di fare come  quei  corbelli  che
dopo aver celato un delitto per vent'anni, corrono a confessarlo al giudice  per
farsi appiccare. Mi maraviglio e  mi  maraviglierò  sempre  che  la  mia  morale
levantina abbiami consentito questo dannoso  pentimento.  Gli  è  vero  che  coi
Turchi e cogli Armeni  io  era  avvezzo  a  trattare  come  colle  bestie;  e  a
mercanteggiarli ed assassinarli senza scrupolo; ma non aveva mai messo le unghie
in carne cristiana, e tua madre, vivaddio! checché ne dica sua sorella contessa,
era cristiana piú di alcuno fra  noi.  "Fors'anco  l'interesse  mi  conduceva  a
ravvedermi di quegli ingiusti sospetti. La risurrezione di casa  Altoviti  s'era
assorellata poco a poco nella mia mente alla risurrezione di Venezia; e  sperai,
come si dice, di prendere due colombi ad una fava. Io m'era  adoperato  assai  a
Costantinopoli per volgere i Turchi a romperla colla Sacra Alleanza e divertirne
le forze dalla Germania e dall'Italia.  Riuscito  se  non  altro  a  tenerli  in
bilico, aveva qualche merito presso i Francesi, creduti allora cosí alla lontana
i rinnovatori del mondo. Col favor  dei  Francesi,  coll'aiuto  dei  cospiratori
interni che facevano capo a me nelle loro mene d'Oriente, colla mia perspicacia,
coi miei milioni sperava di adoperare in modo che un giorno o l'altro  sarebbero
state in mia balía le sorti della Repubblica. Ti spaventi? Eppure ci mancò poco;
mancò solamente la Repubblica.  Soltanto  che  io  scopersi  di  essere  un  po'
vecchio: e qui potrei farmi un merito!... Potrei dire che  l'essermi  confessato
vecchio appena  mi  scontrai  con  te,  fu  un  buon  movimento  dell'animo  che
m'induceva a rappezzare i torti commessi. Comunque la sia, lascio volentieri  in
ombra questi profondi motivi delle  mie  azioni  che  balenano  appena  in  quel
barlume di coscienza che m'è rimasto; e non mi faccio bello di  virtù  piuttosto
dubbie che certe. Io ti vidi, ti abbracciai, ti tolsi per mio vero  e  legittimo
figliuolo, ti amai col maggior cuore che  aveva,  e  collocai  in  te  ogni  mia
ambizione. La tua domestichezza aggiunse forza e dolcezza a tali  sentimenti;  e
con questo che ora ti scrivo  sembrami  darti  una  prova  che  sono  tuo  padre
davvero. "In procinto di tornare alla mia vita avventurosa e piena  di  pericoli
per inseguir ancora quel fantasma che mi è sfuggito quando  appunto  credeva  di
averlo fra le braccia, sul momento di imbarcarmi per una spedizione che potrebbe
finire colla morte, non volli tacere un ette di quanto riguarda i nostri  legami
di sangue. Ho una gran vendetta da compiere, e la tenterò con tutti  quei  mezzi
che la fortuna mi consente: ma tu sei ancora  a  parte  delle  mie  speranze,  e
compíto quel grande atto di giustizia, a te s'aspetterà di raccoglierne  l'onore
ed il frutto. Per questo volli che tu rimanessi, oltreché per le  altre  ragioni
che ti  espressi  a  voce.  Bisogna  che  tu  stia  sotto  gli  occhi  de'  tuoi
concittadini per accaparrartene l'affetto e la stima. Rimani,  rimani,  figliuol
mio! Il fuoco della gioventù serpeggia nella gente  da  Venezia  a  Napoli;  chi
pensa di valersene per far  carbone  a  proprio  profitto,  potrebbe  da  ultimo
trovare un qualche intoppo. Cosí almeno io confido che  sarà.  Se  a  me  stesse
designarti un posto, sceglierei Ancona o Milano; ma tu  sarai  giudice  migliore
secondo le circostanze. Intanto hai saggiato a prova questi  ciarloni  francesi;
volgi contro di essi le loro arti; usane a tuo vantaggio, com'essi abusarono  di
noi a lor solo giovamento. Pensa sempre a Venezia, pensa a Venezia, dove erano i
Veneziani che comandavano. "Ora nulla ti è nascosto; puoi giudicarmi come meglio
ti aggrada, perché se non ti ho fatto colla viva  bocca  questa  confessione  fu
solamente a cagione dell'esser io  il  padre  e  tu  il  figliuolo.  Non  voleva
difendermi, voleva raccontare: vedi anzi che ho filosofato piú del  bisogno  per
chiarire la parte cosí ai buoni come ai cattivi sentimenti.  Giudicami  adunque,
ma tien conto della mia sincerità, e non dimenticare che se tua madre  fosse  al
mondo ella godrebbe di vederti amoroso ed indulgente figliuolo".  Scorsa  questa
lunga lettera tanto diversa dalla consueta cupezza di mio padre, e  nella  quale
l'indole di lui si scopriva intieramente colle sue buone doti,  coi  suoi  molti
difetti,  e  col  singolare  acume  del  suo  ingegno,  rimasi   qualche   tempo
soprappensiero. Ebbi finalmente  la  buona  ispirazione  di  sollevarmi  anch'io
all'altezza  delle  cose  sante  ed  eterne;  là  trovai  scolpito  a  caratteri
indelebili quel comandamento che è proprio degno di Dio: Onora tuo padre  e  tua
madre. Questo duplice affetto non può separarsi; e l'onorare mia madre implicava
in sé di perdonare a colui, al quale  certo  ella  avrebbe  perdonato  vedendolo
compunto e pentito del suo tristo  ed  obliquo  operare.  Per  giunta  debbo  io
confessarlo?... Quel temperamento duro e selvaggio ma tenace ed  intero  di  mio
padre esercitava sul mio una certa violenza: i piccoli sono sempre  disposti  ad
ammirare i grandi; quando poi li spinga il dovere, l'ammirazione loro  trascende
ogni misura. Pensai, pensai; e resi spontaneamente tutto il  mio  cuore  a  quel
solo che me lo chiedeva col sacro diritto del sangue. Quali fossero  quei  nuovi
disegni  che  lo  richiamavano  in  Levante,  non   mi   venne   fatto   neppure
d'immaginarmeli.  In  complesso  mi  fidava  di  lui  aspettandomi   di   vedere
quandocchesia qualche cosa di grande; e benché egli rimanesse ingannato come noi
dalle stesse illusioni, lo reputava tanto superiore per larghezza di  vedute,  e
tenacia e forza di volontà che non avrei saputo figurarmelo illuso  e  sconfitto
per la seconda volta. Allora era giovine; neppure il  dolore  mi  rintuzzava  la
speranza, e questa si facea strada dovunque in mezzo agli  sconforti  ai  timori
alle angosce dell'animo. Cosí tornato alquanto in me  da  quell'utile  esercizio
interiore, desinai d'un pezzo di pane trovato sopra un armadio; e uscii a  notte
fatta per cercare di Agostino Frumier se era ancora a Venezia e concertarmi  con
lui sulla nostra partenza. La  verità  si  era  che  una  cura  piú  profonda  e
vergognosa di parlare  in  nome  proprio  metteva  innanzi  cotale  pretesto  di
dilazione: tanto è vero che avviato a casa Frumier mi  sviai  senza  avvedermene
fino al Campo di Santa Maria Zobenigo dove sorgeva il  palazzo  Navagero.  E  là
giunto me ne pentii, ma non potei fare che non mi fermassi  a  spiare  tutte  le
finestre, e che non scendessi anche sul traghetto per guardare il palazzo  dalla
parte del Canal Grande. Le  impannate  erano  chiuse  dappertutto  e  non  potei
neppure indovinare se vi fosse lume o buio negli appartamenti. Mogio mogio colle
orecchie basse mi volsi di malavoglia a casa Frumier, ove mi fu  detto  che  sua
Eccellenza Agostino era in campagna. La settimana prima un servo non si  sarebbe
arrischiato di pronunciare a voce alta quel titolo; ma la nobiltà tornava a  far
capolino; io non me ne incaricai gran fatto; solo mi dispiacque  quel  subitaneo
girellismo, e in seguito ebbi poi tempo di  avvezzarmi  anche  a  questo.  -  In
campagna! - io sclamai con una buona dose d'incredulità. - Sí, in campagna dalla
banda di Treviso - rispose il servo - e lasciò detto che  tornerà  la  settimana
ventura. - E il nobiluomo Alfonso? - richiesi io. - L'è a letto da due ore. -  E
il signor Senatore?... - Dorme, dormono tutti!... - Buona notte! - io  conclusi.
E colla stessa parola misi in pace tutti  i  pensieri  tutte  le  paure  che  mi
venivano spunzecchiando pel capo. La parte migliore la piú civile  ed  assennata
del patriziato veneziano avrebbe finto di  dormire:  gli  altri!...  Dio  me  ne
liberi!... Non volli pensare a distribuir le parti. - Quello che è certo  è  che
la settimana  seguente,  allo  stabilirsi  del  governo  imperiale  in  Venezia,
Francesco  Pesaro,  l'incrollabile  cittadino,  l'innamorato   degli   Svizzeri,
l'Attilio Regolo della scaduta Repubblica, riceveva i giuramenti. Lo  noto  qui,
perché almeno  i  nomi  non  facciano  velame  alle  cose.  Seguitai  intanto  a
passeggiare al chiaro di luna. Pattuglie d'arsenalotti, di guardie municipali  e
di soldati francesi s'incontravano gomito a gomito nelle  calli,  si  schivavano
come appestati e andavano pei fatti loro. Il fatto dei Francesi era  d'imbarcare
quanto piú potevano delle dovizie veneziane sul naviglio  che  dovea  veleggiare
verso Tolone. I capi per consolarci  dicevano:  -  State  quieti!  È  una  mossa
strategica! Torneremo  presto!  -  Intanto  per  tutto  quello  che  non  poteva
succedere ci conciavano di sorta che a pochi doveva rimanere  il  desiderio  del
loro ritorno. Il popolo tradito, ingiuriato, spogliato a man  salva,  s'intanava
nelle case a piangere, nei templi a pregare, e dove prima pregavano Dio di tener
lontano il diavolo, lo supplicavano allora di mandar al diavolo i Francesi.  Gli
animi volgari si piegano arrendevoli alla tolleranza del minor male; né  bisogna
aspettarsi di piú da chi sente prima di pensare. Dei  beni  perduti  si  sperava
almeno di riacquistarne alcuno; la libertà è preziosa, ma pel popolo  bracciante
anche la sicurezza del lavoro, anche la pace e l'abbondanza  non  sono  cose  da
buttarsi via. È un difetto grave negli uomini di pretendere le  uguali  opinioni
da un grado diverso di coltura; come è errore massiccio e ruinoso  nei  politici
appoggiare  sopra  questa  manchevole  pretensione  le  loro   trame,   i   loro
ordinamenti! Dai Frumier passai a cercare degli Apostulos, perché la  solitudine
mi spingeva sulla strada delle deliberazioni, ed io non aveva questa gran voglia
di deliberare. Là io trovai abbastanza da perdere un paio  d'ore;  scommetto  di
piú che non mi sarei figurato giammai di perderle con tanto piacere. Il  vecchio
banchiere greco stava ancora  nello  studio;  d'intorno  ad  una  bragiera  alla
spagnuola sedeva la sua vecchia moglie, una vera figura  matronale  con  un  bel
paio d'occhiali sul naso e il Leggendario dei santi  aperto  sui  ginocchi;  una
vaga fanciulla vestita di bruni colori,  tutta  leggiadria,  tutta  greca  dalle
radici dei capelli fino ai petulanti coturni  mainotti,  e  questa  ricamava  un
paramento da altare; finalmente il simpatico Spiro che si  guardava  le  unghie.
Questi due ultimi balzarono in piedi alla mia venuta, e  la  vecchia  mi  guardò
dignitosamente di sopra agli occhiali. Indi il giovane mi  presentò  secondo  il
convenevole alla signora madre e a sua sorella Aglaura, ed io entrai quarto  nel
colloquio. Una conversazione di Greci non ci  starebbe  senza  quattro  dita  di
pipa; a me ne offersero una che andava fuori della stanza, e siccome dopo il mio
accasamento a Venezia ci avea studiato sopra anche a quest'arte  importantissima
del vivere moderno, cosí me la cavai  senza  sfigurare.  Aveva  però  tutt'altra
voglia che di fumo, e la distrazione mi mandò a traverso dei  polmoni  parecchie
boccate. - Che vi pare di Venezia? cosa avete fatto di bello  quest'oggi?  -  mi
domandò Spiro per intavolar il discorso in qualche maniera. - Venezia mi pare un
sepolcro dove ci frugano i becchini per ispogliare un cadavere - gli risposi io.
E per dirgli quello che avea fatto, gli narrai d'un mio amico che era  morto,  e
degli ultimi dolorosi uffici ch'io avea dovuto prestargli. - Ne ho udito parlare
in Piazza -  soggiunse  Spiro  -  e  lo  dicevano  avvelenato  per  disperazione
patriottica. - Certo aveva animo da disperarsi cosí altamente - ripresi io senza
assentire direttamente. - Ma credete voi che siano atti di vero coraggio questi?
- mi richiese egli. - Non so - soggiunsi io.  -  Quelli  che  non  si  ammazzano
dicono che non è coraggio; ma torna loro conto il dirlo; e d'altronde non  hanno
mai provato. Io per me credo che tanto a vivere fortemente, come  a  morire  per
propria volontà faccia d'uopo una bella  armatura  di  coraggio.  -  Sarà  anche
coraggio - riprese Spiro - ma è un coraggio cieco e male  avveduto.  Per  me  il
vero coraggio è quello che  ragiona  sull'utilità  dei  proprii  sacrifizi.  Per
esempio non chiamo coraggio il cader d'una pietra dall'alto della  montagna  che
poi si spacca in frantumi  nel  fondo  della  valle.  È  ubbidienza  alle  leggi
fisiche, è necessità. - Sicché voi credete che chi  si  toglie  di  vita  pieghi
servilmente sotto la necessità fisica che  lo  abbatte?  -  Non  so  s'io  creda
questo, ma ritengo peraltro che non sia veramente forte e coraggioso  quell'uomo
che si uccide indarno  oggi,  mentre  potrebbe  sacrificarsi  utilmente  domani.
Quando tutto il genere umano sia libero e felice,  allora  sarà  incontrastabile
eroismo il togliersi di vita. Potreste citarmi l'unico caso di  Sardanapalo,  ed
anco vi risponderei che Camillo fu piú forte  piú  animoso  di  Sardanapalo.  La
vecchia aveva chiuso il Leggendario, e la bruna Aglaura ascoltava le  parole  di
suo fratello guardandolo di sbieco e colla mano posata sul ricamo. Io adocchiava
di sottecchi la giovinetta perché mi stuzzicava  la  curiosità  quest'attitudine
risoluta e sdegnosa; ma la mamma s'intromise allora a  stornare  il  dialogo  da
quel soggetto di  tragedia,  e  l'Aglaura  tornò  tranquillamente  a  passare  e
ripassare in un bel panno pavonazzo la sua agucchiata di seta.  Parlammo  allora
delle novelle che andavano per le bocche di  tutti,  del  prossimo  sgombro  dei
Francesi, dell'ingresso in Venezia degli  Imperiali,  della  pace  gloriosamente
sperata e dispoticamente imposta; insomma si parlò di tutto, e le due  donne  si
mescolavano al discorso senza vanità e senza  sciocchezze;  proprio  con  quella
discrezione ben avveduta che sanno tenere  di  rado  le  veneziane,  peggio  poi
allora che adesso. L'Aglaura sembrava accanitissima contro i Francesi e  non  si
lasciava scappar l'occasione di chiamarli assassini, spergiuri,  e  mercanti  di
carne umana. Ma seppi in seguito che la fuga del suo amante, a cagione del nuovo
ordinamento che dovea prendere lo Stato pel trattato di Campoformio, scaldava il
sangue greco nelle sue  vene  giovanili  e  le  faceva  trascendere  in  qualche
schiamazzata. Il giorno prima ell'era stata in procinto  di  ammazzarsi,  e  suo
fratello avea impedito questo atto violento gettandole in  canale  un'ampolletta
d'arsenico già bell'e preparato: perciò lo guardava in cagnesco;  ma  dentro  di
sé,  fors'anco  a  riguardo  della  madre,  non  era  malcontenta  che  l'avesse
trattenuta. E cosí, se maturava ancora fieri propositi pel capo,  quello  almeno
di uccidersi non la molestava piú. Quando fu mezzanotte io presi commiato  dagli
Apostulos, e mi tornai verso casa rivolgendo in capo e Spiro e l'Aglaura,  e  il
Leggendario dei santi; tutto  insomma  meno  la  deliberazione  che  pur  doveva
prendere quanto alla mia sorte futura. Scrissi intanto a coloro che esulavano in
Toscana e nella Cisalpina il terribile caso di  Leopardo  che  mi  scusasse  del
ritardo. Quando anni dopo lessi le Ultime lettere di  Jacopo  Ortis  nessuno  mi
sconficcò dal capo l'opinione che Ugo Foscolo avesse preso dalla storia luttuosa
del mio amico qualche colore, qualche disegno fors'anco del cupo suo quadro. Del
resto mi sovviene che in  quella  notte  mi  sognai  piú  della  Pisana  che  di
Leopardo; e ciò serva a smascherare l'astuzia.


CAPITOLO DECIMOQUARTO

Nel quale si scopre che Armida non è una favola e che Rinaldo può  vivere  anche
molti secoli dopo le crociate. La sbirraglia mi rimette sulla via maestra  della
coscienza; ma nel viaggio incappo in un'altra maga. Cosa sarà?

Il giorno appresso, non  mi  vergogna  il  dirlo,  ronzai  tutta  mattina  nelle
vicinanze di Santa Maria Zobenigo, ma  mi  dava  non  poco  pensiero  il  vedere
affatto chiuse le finestre del palazzo Navagero. Mi scontrai, è vero, un paio di
volte nel tenente d'Ajaccio che pareva in grandi faccende; ma questo non era  il
conforto che cercava, per quanto l'inquietudine e il malumore che dimostrava  il
signor Minato fossero per me buoni pronostici. Tuttavia tornai alla mia tana col
maggior grugno del mondo, pensando  che  se  anche  i  Francesi  partivano,  non
partiva perciò né isteriliva la semenza dei vaghi officiali; e che,  per  giunta
all'ostacolo del marito, ci avrei avuto  contro  anche  quest'altra  mostruosità
della Pisana. In quel momento né la lettura degli Enciclopedisti né la  frenesia
della libertà me la scusavano di quel  subito  invagarsi  d'uno  sbarbatello  in
assisa. Mi chiusi in casa e poi in camera a rosicchiare come la vigilia un tozzo
di pane ammuffito; in tre giorni era diventato magro come un chiodo,  ma  neppur
la fame mi induceva a capitolare. Cosí alla superficie del mio cervello  era  un
pelago di sdegni patriottici, d'elegie funerarie, e di aerei disegni; a  guardar
sotto si sarebbe trovato il mio pensieruccio di sedici anni  addietro  vigile  e
tenace come una sentinella. Quell'allontanarmi dalla Pisana, Dio sa  per  quanto
tempo, senza vederla, senza parlarle, senza aiutarla del mio consiglio contro  i
pericoli che la circondavano, mi dava uno sgomento cosí  grande,  che  piuttosto
avrei arrischiato il collo per rimanere. E questi rischi che io correva infatti,
rimanendo anche dopo lo sloggio dei Francesi, servivano a puntellarmi contro  la
coscienza che di tanto in tanto mi faceva memore di coloro che  m'attendevano  a
Milano.  Peraltro  cominciava  nell'animo  qualche  avvisaglia   d'un   prossimo
conflitto. Le parole di mio padre  m'intronavano  le  orecchie,  vedeva  lontano
lontano quell'occhiata  severa  e  fulminante  di  Lucilio...  Oimè!  credo  che
soltanto il timore di questa mi facesse correre pel baule; ma nel mentre appunto
ch'io lo spolverava, ed aveva acceso un lume per vedere in un  camerone  buio  e
profondo, ecco scrollarsi una gran  tirata  di  campanello.  "Chi  può  essere?"
pensai. E i buli degli Inquisitori, e le guardie di sicurezza  francesi,  e  gli
scorridori tedeschi mi si ingarbugliarono dinanzi la fantasia.  Volli  piuttosto
scender la scala che tirare la corda, e per  le  fessure  dell'uscio  diedi  uno
strepitoso: - Chi va là? Mi rispose una voce tremante di donna: - Son io;  apri,
Carlino! Ma perché ella fosse tremante non la conobbi meno, e mi  precipitai  ad
aprire col petto in angoscia cosí profonda che appena  bastava  a  frenarmi.  La
Pisana vestita a nero, coi suoi begli occhi rossi di sdegno e  di  lagrime,  coi
capelli disciolti e il solo zendado sul capo mi si gettò fra le braccia gridando
che la salvassi. Credendo che l'avessero insultata  per  istrada,  io  feci  per
balzar fuori della porta a vendicarla contro chi che si fosse, ma ella mi  fermò
per un braccio, e appoggiandovisi sopra mi menò verso la scala  e  su  per  essa
fino alla stanza di ricevimento, come se appunto la  conoscesse  tutti  i  buchi
della casa; e sí che a mio credere non la ci era mai stata. Quando fummo  seduti
l'un vicino all'altra sul divano turchesco di mio padre, e si fu sedato  in  lei
il respiro affannoso che le affaticava il petto, non potei ristare dal chiederle
tosto cosa significasse quello smarrimento,  quel  tremore  e  quella  subitanea
apparizione. - Cosa significa? - rispose la Pisana con una vocina  rabbiosa  che
si arrotava contro i denti prima di uscir dalle labbra. - Te lo  spiego  ora  io
cosa significa! Ho piantato mio marito, sono stanca di mia madre,  fui  respinta
dai miei parenti. Vengo a stare con te!... - Misericordia! Fu proprio questa  la
mia esclamazione: me la ricordo come fosse ora;  del  pari  mi  ricordo  che  la
Pisana non se ne adontò per nulla, e  non  si  ritrasse  d'un  atomo  dalla  sua
risoluzione. Quanto a me non mi maraviglio punto che il  precipizio  d'un  cotal
cambiamento di scena mi fosse cagione  d'una  penosa  confusione,  maggiore  pel
momento d'ogni gioia e d'ogni paura. Comunque fosse, mi  sentii  sbalzato  tanto
fuori  dall'aria  solita  a  respirarsi,  ch'ebbi  alla  gola  una   specie   di
strozzamento; e soltanto dopo qualche istante mi venne fatto di rinsennare e  di
chiedere alla Pisana qual fosse la ventura che me le rendeva  utile  in  qualche
modo. - Ecco - soggiunse ella - già sai  che  a  sbalzi  io  sono  anche  troppo
sincera, come son bugiarda alcune altre volte, e chiusa e riservata per costume.
Oggi non posso tacerti nulla: ho tutta l'anima sulla punta della lingua, e  buon
per te che imparerai a conoscermi a fondo. Io mi maritai per far dispetto a te e
piacere a mia madre, ma son vendette e sacrifizi che presto vengono  a  noia,  e
col mio temperamento  non  si  può  voler  bene  ventiquattr'ore  ad  un  marito
decrepito, magagnato, e geloso. Dal  signor  Giulio  io  avea  sofferto  qualche
omaggio per tua intercessione, ma era stizzita contro di te;  figurati  poi  col
tuo raccomandato!... Per giunta io aveva l'anima riboccante d'amor di  patria  e
di smania di libertà; mentre mio marito  veniva  colla  tosse  a  predicarmi  la
calma, la moderazione; ché  non  sapeva  mai  come  potessero  volger  le  cose.
Figurati se andavamo d'accordo ogni giorno meglio!...  Io  m'accontentava  sulle
prime di veder mia madre gustare saporitamente i manicaretti di casa Navagero, e
perdere alla bassetta i zecchini del genero; ma  poco  stante  mi  vergognai  di
quello che innanzi mi appagava, e allora tra mio marito, mia madre e  tutti  gli
altri vecchi, mediconzoli e barbassori che mi  si  stringevano  alle  coste,  mi
parve proprio di essere la pecora in mezzo ai lupi.  Mi  annoiava,  Carlino,  mi
annoiava tanto, che fui le cento volte per iscriverti una lettera, buttando  via
ogni superbia; ma mi tratteneva... mi tratteneva per paura di un rifiuto.  -  Oh
che ti pensi ora? - io sclamai. -  Un  rifiuto  da  me?...  Non  è  cosa  neppur
possibile all'immaginazione! Come si vede, durante il discorso della  Pisana  io
aveva cercato e trovato il filo per uscire dal laberinto; questo era di  amarla,
di amarla sopratutto, senza cercare  il  pelo  nell'uovo,  e  senza  passare  al
lambicco della ragione il voto eterno del mio cuore. - Sí,  temeva  un  rifiuto,
perché non ti aveva dato caparra di condotta molto esemplare; - ella soggiunse -
ed ora voglio dartene  una  col  mettere  a  nudo  tutte  le  mie  piaghette,  e
stomacartene, se posso. Io feci un gesto  negativo,  sorridendo  di  questa  sua
nuova paura; ella racconciandosi i capelli sulle tempie,  e  puntandosi  qualche
spillo malfermo nel corsetto, continuò a parlare. - In quel torno fu  alloggiato
in casa di mio marito un officiale francese, un certo  Ascanio  Minato...  -  Lo
conosco - diss'io. - Ah! lo conosci?... Bene! non potrai dire che non sia un bel
giovine, d'aspetto maschio e generoso, benché lo abbia poi trovato al cimento un
perfido, uno spergiuro, un disleale, un vero capo d'oca col cuore di lepre... Io
ascoltai con molto  malgarbo  questa  infilzata  d'improperi  che,  secondo  me,
chiariva anche troppo la verità di quanto Giulio Del Ponte mi avea raccontato il
giorno delle feste per  la  Beauharnais.  E  la  Pisana  non  si  vergognava  di
confessare sfacciatamente la propria  scostumatezza;  e  non  si  accorgeva  del
dolore che mi avrebbe recato la  sua  importuna  sincerità.  Io  mi  mordeva  le
labbra, mi rosicchiava le unghie, e  rimproverava  la  Provvidenza  che  non  mi
avesse fatto sordo come Martino. - Sí - tirava innanzi ella  -  mi  pento  e  mi
vergogno di quel poco di fede che aveva riposto in  lui.  Credeva  che  i  Còrsi
fossero animosi e gagliardi, ma vedo che  Rousseau  aveva  torto  di  aspettarsi
dalla loro schiatta qualche grande esempio di fortezza e di sapienza  civile!...
"Rousseau,  Rousseau!"  pensava  io.  Queste  filippiche  e   queste   citazioni
m'infastidivano; avrei voluto giungere alla fine e  saperla  tutta  senza  tante
virgole; laonde mi dimenava sui cuscini e pestava un po' i piedi, presso a  poco
alla maniera d'un ragazzo ch'è stufo della predica. - Cosa gli chiedeva io? cosa
pretendeva da lui?  -  riprese  con  maggior  impeto  la  Pisana  -  forse  cose
soprannaturali, o impossibili, o vili?... Non gli chiedeva altro che di farsi il
benefattore dell'umanità, il Timoleone  della  mia  patria!...  Voleva  renderlo
l'idolo il padre salvatore d'un popolo intero; e in aggiunta a questo  dono  gli
prometteva anche il mio cuore, tutto quello ch'egli  avrebbe  voluto  da  me!...
Codardo, scellerato!... E mi si inginocchiava dinanzi, e giurava  e  spergiurava
d'amarmi piú della sua vita, piú del suo Dio!... Oh cosa credeva? ch'io  volessi
offrirmi al primo capitano pei suoi begli occhi, pei suoi  lucenti  spallini?...
S'accontenti allora di portar impressi sul viso i segni d'uno schiaffo di donna.
Già dove non ci sono uomini,  tocca  proprio  alle  donne.  -  Calmati,  Pisana,
calmati! - le andava dicendo dubbioso ancora di  non  aver  capito  a  dovere  -
racconta le cose per ordine: dimmi da che nacquero queste  tue  ire  col  signor
Minato... cosa egli chiedeva da te, e cosa tu di rimando pretendevi  da  lui?  -
Cosa egli mi chiedeva?... Che facessimo all'amore insieme, sotto gli  occhi  del
geloso  che  avrebbero  finto  di  dormire  per  troppo  rispetto   alla   furia
francese!... Cosa pretendeva io da lui?... Pretendeva che egli persuadesse,  che
egli eccitasse i suoi commilitoni a un atto di solenne giustizia, a contrapporsi
concordi alle spergiure concessioni del Direttorio e di Bonaparte, ad unirsi con
noi, e  a  difendere  Venezia  contro  chi  domani  ne  diverrà  impunemente  il
padrone!... Tuttociò ognuno  di  essi  anche  il  piú  imbecille  anche  il  piú
pusillanime sarebbe tenuto a farlo  senz'altra  persuasiva  che  la  rettitudine
della coscienza, e l'abborrimento di comandi ingiusti e sleali!...  Ma  uno  che
amasse una donna, e si udisse  profferta  da  lei  questa  nobile  impresa,  non
dovrebbe anzi fare di piú?... Non dovrebbe adottare la patria di quella donna  e
ripudiare la propria vergognosamente  colpevole  d'un  tanto  misfatto?...  Ogni
francese che udisse simili esortazioni dalla bocca di  colei  ch'egli  giura  di
amare, non dovrebbe alzar la visiera come Coriolano, e dichiarare un odio eterno
e avventarsi furibondo contro questa Medea che divora i propri parti? Che  resta
la patria senza umanità e senza onore?... Manlio condannò a morte  i  figliuoli,
Bruto uccise il proprio padre! Ecco gli esempi per  chi  ha  cuore  e  polsi  da
imitarli!... Vi confesso ch'io non avrei avuto né cuore né  polsi  da  sfoderare
una tirata cosí violenta come questa della Pisana; ma aveva cuore e intendimento
bastevole per  comprenderla,  onde  ammirando  piucché  altro  quei  fieri  moti
d'un'indole ardente e generosa, mi pentii di averla assai  mal  giudicata  dalle
prime parole. Gli epiteti con  cui  ella  infamava  il  repubblicano  tiepido  e
neghittoso, io li avea creduti rivolti all'amante malfermo o infedele. Cosí alle
volte si pigliano de' grossi granchi trascurando  l'osservazione  generale  d'un
temperamento per metterne in conto solamente una  parte.  -  E  dimmi,  dimmi  -
soggiunsi - come sei venuta a questo scoppio vulcanico contro di esso  e  contro
tutti? - Ci son venuta perché il tempo stringeva, perché da  un  pezzo  egli  mi
menava d'oggi in domani  con  certi  sorrisi,  con  certi  attucci  che  non  mi
assicuravano punto, credendo  forse  ch'io  mi  drappeggiassi  alla  romana  per
innamorarlo meglio, e che da ultimo poi gli avrei  tutto  concesso  per  le  sue
sdolcerie!... Oh l'ha veduta ora! e  son  proprio  contenta  che  quest'italiano
bastardo abbia imparato a conoscere una vera italiana!... Sai  già  che  ieri  i
Commissari imperiali vennero a trattare per le forme della consegna;  io  dunque
mi vidi alle strette, e  mi  affrettai  a  stringere,  tanto  piú  che  egli  si
incaloriva piucchemai, e figurati cosa ha avuto  l'audacia  di  propormi!...  Mi
invitava ad abbandonare Sua Eccellenza Navagero ed a partire con lui  quando  la
guarnigione francese si sarebbe ritirata da Venezia! "Sí" gli risposi "io  verrò
con voi quando voi avrete proclamata in piazza  la  libertà  della  mia  patria,
quando guiderete i vostri commilitoni a sorprendere a vincere a sgominare coloro
che si credettero d'impadronirsene senza colpo ferire!... Allora  sarò  con  voi
sposa amante serva, quello che vorrete!..." E quello che diceva lo avrei  fatto;
me ne sento capace. L'amor mio non so, ma ben tutta me stessa  io  darei  a  chi
tentasse questa illustre vendetta!... Tutta me gli darei  col  cieco  entusiasmo
d'una martire, se non colla voluttà di un'amante!... Vuoi invece sapere com'egli
mi rispose?... S'attorcigliò dispettosamente il labbro superiore; poi si  rimise
alla buona e stendendomi la mano per una  carezza  ch'io  rifiutai,  balbettò  a
mezza voce: "Sei un'incantevole pazzerella!" Oh se mi avessi  veduta  allora!...
Tutte le mie forze si condensarono in queste cinque dita, e  gli  stampai  sulla
guancia uno schiaffo cosí strepitoso che mia madre  mio  marito  i  servi  e  le
cameriere accorsero al romore dalle stanze  vicine...  Il  bell'ufficiale  ruggí
come un leone. Bugiardo!... con quel cuore di coniglio!... Egli corse colla mano
alla spada ma si ravvide tosto vedendosi ritto coraggiosamente  dinanzi  il  mio
petto di donna: allora si precipitò fuori della stanza movendo intorno  occhiate
di furore e gesti di sfida. - "Che hai mai fatto?... Per carità! Guarda! Sei  la
rovina della casa! Bisogna tollerar il male per fuggir il  peggio...".  Ecco  le
parole con cui  mia  madre  e  mio  marito  mi  ricompensarono;  ma  mio  marito
sopratutto mi moveva a schifo... Dire ch'egli era  geloso!...  "Ah  io  sono  il
cattivo augurio della casa?" io gridai. "Or bene cambierò casa e vi  lascerò  in
pace!" E tosto uscii correndo senzaché alcuno mi trattenesse, e preso un zendado
all'infretta nella mia camera, andai in traccia di mio  fratello.  Non  sapevano
dove fosse, lo credevano partito!  Chiesi  allora  degli  zii  Frumier  al  loro
palazzo. Dormivano tutti, aveano comandato che  nessuno  entrasse,  né  uomo  né
donna né parente né amico. Che mi rimaneva da ultimo?... Carlino, non mi restava
che tu!... - (Grazie del complimento.) - Mi pentii di non essere  ricorsa  a  te
pel primo. - (Meno male!) - Seppi alla porta dei Frumier che  tu  eri  ancora  a
Venezia e dove abitavi; ed adesso eccomi  in  tua  balía  senza  paura  e  senza
riguardo, perché a dirla schietta io ho voluto proprio bene a te solo  e  se  tu
non me ne vuoi piú per le stranezze e per le scioccaggini che commisi, la  colpa
il danno il dispiacere sarà tutto mio. Una  buona  parte  peraltro  ne  toccherà
anche a te, perché ad ogni modo, in virtù della nostra antica amicizia,  commoda
o incommoda, piacevole o noiosa, io mi ti pianto alle coste e non mi  movo  piú.
Se tuo padre volesse darti ancora la Contarini, ch'egli te la dia pure in  santa
pace; ma le converrà alla sposina sopportar con pazienza  questa  pillola  amara
d'avere almeno almeno una cognata fra i piedi... Ciò dicendo la Pisana si  diede
a saltacchiare sul divano quasi per confermarvi la sua parte di padronanza; e ad
averla udita  due  minuti  prima  e  ad  osservarla  allora,  non  sembrava  piú
certamente la stessa persona. La repubblicana spiritata, la filosofessa greca  e
romana erasi convertita in una donnetta spensierata e  burbanzosa,  tantoché  lo
schiaffo del povero Ascanio poteva anche credersi non meritato. Tuttavia  quelle
due persone cosí diverse  e  compenetrate  in  una  sola  pensavano,  parlavano,
operavano coll'uguale sincerità, cadauna nel suo giro di tempo. La prima, ne son
sicuro, avrebbe disprezzato la seconda, come la seconda non si  ricordava  guari
della prima; e cosí vivevano fra loro in buonissima armonia come il  sole  e  la
luna. Ma il caso piú strano si era il mio, che mi trovava  innamorato  di  tutte
due non sapendo a cui dare la preferenza. L'una per copia di vita,  per  altezza
di sentimenti, per facondia di parola, l'altra per  tenerezza,  per  confidenza,
per avvenenza mi portava via il cuore: insomma, o  a  dritto  o  a  ragione  era
innamorato fradicio; ma ognuno  de'  miei  lettori  trovandosi  nei  miei  panni
sarebbe stato altrettanto. Soltanto quelle due brune pupille che  mi  guardavano
tra  supplici  pietose  e  spaventate  di  mezzo  alle  sopracciglia,  lasciando
arieggiare sotto esse il bianco azzurrognolo  dell'occhio,  avrebbero  vinto  la
causa. Senza contare il resto,  che  ce  n'era  da  far  belle  una  dozzina  di
morlacche. D'altronde, se quella parte  tragica  sostenuta  con  tanta  veemenza
dalla Pisana mi dava soggezione, ci aveva anche argomenti da  consolarmene.  Era
effetto di troppe letture abborracciate avidamente in  un  cervello  volubile  e
impetuoso; quel fuoco di paglia si  sarebbe  svampato;  sarebbe  rimasta  quella
scintilla di generosità che l'aveva acceso, e con essa io vivrei  di  buonissimo
accordo, come una mia antica conoscenza che la era. Di piú la sfogata  eloquenza
e la pompa classica di quelle parlate mi assicuravano ch'ella sarebbe  stata  un
bel pezzo senza batter becco. Cosí si argomentava durante  la  sua  infanzia;  e
sovente la Faustina, per consolarsi d'una domenica irrequieta e rabbiosa, diceva
fra sé: "Oggi la signorina ha la lingua fuori dei denti, e il pepe  nel  sangue!
Buon per noi che ci lascerà in pace per tutto il resto della settimana!" Infatti
cosí avveniva. Né io ebbi a sbagliar mai anche piú tardi, mettendo in  opera  il
ragionamento della Faustina. Io risposi adunque di tutto cuore alla  Pisana  che
la era la benvenuta in mia casa; e fattole prima osservare il grave passo che la
arrischiava, ed il danno che massime nella riputazione le  ne  poteva  derivare,
vedendola ciononostante ferma nel suo proposito, mi limitai a dirle che  la  era
dessa la padrona di sé, di me, e delle cose mie. La conosceva troppo per credere
che ella si sarebbe ritratta dalle sue idee per  le  mie  obbiezioni;  fors'anco
l'amava troppo per tentarlo, ma questo è null'altro che un dubbio, non  già  una
confessione. Accettato ch'io ebbi cosí all'ingrosso e senza  tanti  scrupoli  il
suo disegno, si venne a metterlo in pratica; allora nel minuto  mi  si  opposero
parecchie difficoltà. Prima di tutto poteva io assumere  una  specie  di  tutela
sopra di lei, incerto com'era di fermarmi a Venezia, anzi  sicuro  per  le  date
promesse e per legge d'onore di dovermene allontanare? E cosa ne  avrebbe  detto
la sua famiglia, e Sua Eccellenza Navagero piú di tutti,  il  marito  vecchio  e
geloso? Non si avrebbe trovato a mezzo loro qualche pretesto per darmi il bando?
E a me si stava di farmi complice dell'ingiuria che la Pisana scagliava sopra di
loro? E  non  bastava;  c'era  l'ultimo  scrupolo,  l'impiccio  piú  grosso,  la
difficoltà capitale. Come doveva io coonestare agli occhi del mondo e alla lunga
alla lunga anche alla mia coscienza quella vita  intrinseca  e  comune  con  una
bella giovane che amava, e dalla quale  aveva  tutte  le  ragioni  per  credermi
amato? - Doveva io dire che aspettavamo  cosí  meno  noiosamente  la  morte  del
marito? - Peggiore la rappezzatura che il buco, si dice da noi. - E tutti questi
impicci  mi  saltavano  agli  occhi,  mi  affaticavano  inutilmente  la   mente,
intantoché la Pisana  si  consolava,  cantando  e  ballando,  della  racquistata
libertà, e non si dava un fastidio al mondo di quello che potrebbe mormorarne la
gente. Ella si fece condurre per tutta la  casa  dalla  cantina  alla  soffitta,
trovò di suo grado i tappeti i divani e perfino  le  pipe;  m'assicurò  che  noi
staremmo là dentro come due principi, e non si prendeva cura né delle  apparenze
né della modestia. Sapete bene che quando una donna non  si  sgomenta  di  certe
coserelle, sgomentirsene non tocca a noi; piú che ridicolaggine di  chietineria,
sarebbe un'offesa alla sua delicatezza, e non vanno lodati quei  confessori  che
suggeriscono i peccati alle penitenti. Tutto  ad  un  tratto  mentr'io  ammirava
l'allegra e sfrontata  spensieratezza  della  Pisana,  non  sapendo  se  dovessi
ascriverla a sincero amore per me, a scioltezza di costumi, o a pura  levità  di
cervello, ella si fermò colle braccia in croce nel mezzo della  sala:  levò  gli
occhi un po' turbata nei miei dicendo: - E tuo padre? Allora solo  mi  saltò  in
mente ch'ella non sapea nulla della sua partenza; e mi maravigliai a  tre  doppi
della sua franchezza nel venirsi a stabilire presso di me, mentreché  ci  vedeva
nello stesso tempo meno trascurato il pudor femminile. Quando c'è  un  padre  di
mezzo, due giovani son piú sicuri dalle  tentazioni,  e  dalle  chiacchiere  dei
vicini. Insieme a questo pensiero me ne balenò alla mente un altro,  ch'ella  si
spaventasse di trovarmi solo e si ritraesse dalla sua eccessiva confidenza. Poco
prima mi doleva  di  doverla  credere  noncurante  del  proprio  onore  e  delle
convenienze sociali, allora avrei voluto che  la  fosse  anche  piú  svergognata
d'una sgualdrina purché la stesse contenta della mia  compagnia.  Guardate  come
siam fatti! Peraltro il desiderio grandissimo che nutriva  di  averla  meco  non
andò tant'oltre da  mettermi  in  bocca  delle  menzogne.  Le  raccontai  dunque
schiettamente la partenza di mio padre, e come io abitassi soletto  quella  casa
senza neppure una serva che scopasse i ragnateli. - Meglio, meglio! - gridò ella
con un salto battendo le mani. - Tuo padre mi dava soggezione, e chi  sa  se  mi
avrebbe veduto di buon occhio. Ma dopo questo scoppio di giocondità s'impensierí
tutto d'un colpo, e non ebbe fiato di andar innanzi. Le si strinsero  le  labbra
come per voglia di piangere, e le sue belle guance si scolorarono.  -  Che  hai,
Pisana? - le chiesi - che hai ora che t'ingrugni tanto? Hai paura di  me,  o  di
trovarti con me solo? - Non ho nulla - rispose ella  un  po'  stizzita,  ma  piú
contro sé stessa, mi parve, che contro nessuno. E poi fece un paio di  giri  per
la stanza guardandosi le punte dei piedi.  Io  aspettava  la  mia  sentenza  col
tremito d'un innocente che ha una discreta paura  di  esser  condannato;  ma  la
sospensione della Pisana mi blandiva soavemente il cuore,  come  quella  che  mi
dava a conoscere che io era proprio amato come voleva io. Finallora  quella  sua
sicurezza a tutta prova e quella  soverchia  confidenza  mi  avevano  un  sapore
affatto fraterno che non mi solleticava punto il palato. - Dove  mi  metterai  a
dormire? - uscí ella a chiedere di sbalzo con un tal tremito di voce e  un  cosí
vago rossore sul volto che la rabbellí cento volte. Mi ricordo ch'ella mi guardò
in faccia sulla prima di quelle quattro parole, ma le  altre  le  pronunciò  piú
sommesse, e cogli occhi erranti qua e là. "Sul mio cuore!" io  ebbi  volontà  di
risponderle "sul mio cuore ove hai dormito tante volte essendo bambina e non hai
avuto a lagnartene!". Ma la Pisana s'era fatta tanto leggiadra in quel movimento
mescolato d'amore e di vergogna, di sfacciataggine e di riservatezza, ch'io  fui
costretto a rispettare una sí bella opera  di  virtù,  e  trattenni  persino  il
soffio del desiderio per non appannarne la purezza. Giunsi financo a dimenticare
la dimestichezza in altri tempi avuta con lei, e a credere che se  avessi  osato
toccarla allora, sarebbe stato proprio la prima  volta.  Somigliava  un  valente
sonatore di violino che si propone le piú ardue difficoltà per aver  il  piacere
di superarle; ed egli è certo del fatto suo,  ma  se  ne  compiace  sempre  come
d'altrettante sorprese. - Pisana -  le  risposi  con  voce  assai  calma  e  una
modestia esemplarissima - qui tu sei la padrona, te l'ho detto fin da principio.
Tu mi onori della tua confidenza, e si spetta a me il  mostrarmene  degno.  Ogni
camera ha solidi catenacci e questa è la chiave di casa; tu puoi serrarmi  fuori
sulla calle, se vuoi, che non me ne lamenterò. Ella per sola risposta  mi  buttò
le braccia al collo, e riconobbi in quel subito trasporto la  mia  Pisana  d'una
volta. Tuttavia ebbi la delicatezza e l'accorgimento di non prevalermene,  e  le
diedi tempo a riaversi e a correggere colla parola la  soverchia  ingenuità  del
cuore. - Siamo come fratelli, n'è vero? - soggiunse  ella  imbrogliandosi  colla
lingua in queste parole, e rassettando l'imbroglio con un colpo di tosse. -  N'è
vero che staremo bene insieme, come ai nostri giorni beati di Fratta? Si  stette
allora a me di scrollarmi tutto per un brivido che corse per tutte le vene; e la
Pisana stoglieva lo sguardo e  non  sapeva  cosa  aggiungere,  e  alla  fine  io
m'addiedi in tempo che per la prima sera eravamo iti anche troppo innanzi e  che
conveniva  separarsi.  -  Ecco  -  ripresi  io  facendo  forza  a  me  stesso  e
conducendola nella camera di mio padre - qui tu starai secura, e  libera  a  tuo
grado; il letto te lo acconcerò io in quattro salti...  -  Figurati  se  lascerò
fare il letto a te!... È faccenda che s'appartiene alle donne per diritto;  anzi
io voglio fare anche il tuo, e domattina, giacché c'è qui la caffettiera  -  (ve
n'avea una per ogni canto nella stanza di mio padre) - voglio portarti il caffè.
Allora ci fu una piccola gara di cortesie che ci svagò dalle prime tentazioni; e
contento di essermi fermato lí, io m'affrettai a ritirarmi beato di dormire o di
non dormire ancora una notte in compagnia dei desiderii: compagnia  molestissima
quando non si ha speranza di esserne abbandonati, ma che  è  piena  di  delicati
piaceri e di poetiche gioie per chi si crede vicino a perderla. Io mi credeva  a
torto o a ragione in quest'ultimo caso; ma bestia che sono! ci aveva anzi  tutte
le ragioni, e me lo provò la  notte  seguente.  Qui  poi  sarebbe  il  luogo  da
rispondere a una dilicata domanda che poche lettrici ma molti lettori  sarebbero
audaci di farmi. A che punto era a quel tempo la virtù della Pisana? - In verità
io ho parlato finora di lei con pochissimo rispetto, mettendone in piena luce  i
difetti, e affermando le cento volte che la era piú  disposta  al  male  che  al
bene. Ma le disposizioni non son tutto. In realtà, di quanti  gradini  era  ella
scesa per questa scala del male? E infatti s'era ella calata giù  con  tutta  la
persona mano a mano che vi scendeva l'immaginazione, fors'anco il  desiderio?  -
Non parrà forse, ma dal fiutare una rosa allo spiccarla e al mettersela in  seno
ci corre un bel tratto. Ogni giardiniere per quanto sia geloso non  vi  proibirà
mai di odorar un fiore; ma se fate  motto  di  volerlo  toccare,  oh  allora  sí
ch'egli si fa brutto, e si affretta a condurvi fuori della stufa!... La  domanda
è dilicata; ma dilicatissimo è l'obbligo di rispondere. Come potete credere, una
piena malleveria io non vorrei farla per nessuno; ma in quanto  alla  Pisana  io
credo fermamente che suo marito l'ebbe se non casta certo vergine sposa, e  tale
la lasciò per la necessaria ritenutezza dell'età canuta. Sia stato merito suo  o
della precoce malizia che  la  illuminava,  ci  sia  entrata  la  fortuna  o  la
Provvidenza, il fatto sta che per le mie ottime ragioni io  credo  cosí.  E  con
quel temperamento, con quegli esempi, con quella libertà, con quella educazione,
colla compagnia della signora Veronica e della Faustina non fu piccolo miracolo.
È inutile il negarlo. La religione è per le donne il  freno  piú  potente;  come
quella che domina il sentimento con un sentimento piú forte  ed  elevato.  Anche
l'onore non è freno bastevole, perché affatto nell'arbitrio nostro, e imposto  a
noi soltanto da noi stessi. La religione invece ha il momento della sua forza in
un luogo inaccessibile agli umani giudizi. Essa ci comanda di  non  fare  perché
cosí vuole chi può tutto, chi vede tutto, chi punisce e premia le  azioni  degli
uomini secondo il loro intimo valore. Non c'è scampo  dalla  sua  giustizia,  né
sotterfugi contro i suoi decreti: non  v'hanno  rispetti  umani,  né  doveri  né
circostanze che rendano lecito ciò  ch'ella  ha  proibito  assolutamente  e  per
sempre. La Pisana sprovveduta di questo aiuto, con un'opinione molto  imperfetta
dell'onore, fu assai fortunata di arrestarsi alla  premeditazione  del  peccato,
senza consumarlo. Non voglio inferirne  per  lei  un  gran  merito,  poiché,  lo
ripeto, mi sembra ancora piuttosto miracolo che altro:  ma  debbo  stabilire  un
fatto, e soddisfare anche di ciò la curiosità dei  lettori.  Mi  si  perdoni  di
trattare un po' alla distesa questa materia,  perché  racconto  di  tempi  assai
diversi dai nostri in tale argomento. Gli è  vero  che  la  differenza  potrebbe
essere piú nella vernice che nella cosa. La mattina dopo, non  erano  ancora  le
otto che la Pisana mi capitò in camera col caffè. Ella voleva, mi disse, fin dal
primo giorno prendere le costumanze d'una buona e  diligente  massaia.  I  sogni
innamorati della notte nei quali aveva  perduto  la  memoria  di  tutte  le  mie
afflizioni, la mezza oscurità della stanza protetta contro il sole già  alto  da
cortine azzurre di seta all'orientale, le rimembranze nostre che ci  sprizzavano
fuori da ogni sguardo, da ogni parola, da ogni atto, la bellezza incantevole del
suo visino sorridente, dove le rose si rincoloravano appena allora di  sotto  ai
madori del sonno, tutto mi eccitava a rappiccar un anello di quella  catena  che
era rimasta per tanto tempo sospesa. Presi dalle sue labbra un solo bacio; ve lo
giuro; un bacio  solo  dalle  sua  labbra,  ed  anco  ne  mescolai  la  dolcezza
coll'amaro del caffè. Si dirà poi che al secolo passato non c'era  virtù!...  Ce
n'era sí; ma la costava doppia fatica per la  nessuna  cura  che  si  davano  di
educarla in abitudine. Vi assicuro che sant'Antonio non  ebbe  tanto  merito  di
resistere nel deserto alle tentazioni del demonio,  quanto  io  di  ritirare  le
labbra dalla coppa, prima di avermi levata la sete. Cionullameno io era certo  e
deliberato a levarmela un giorno o l'altro; questo potrebbe mutare la mia  virtù
in un raffinamento di  ghiottornia.  Allora,  appena  fui  alzato,  ci  convenne
pensare a vivere: cioè ad ire in traccia d'una donna che attendesse alla  cucina
e ai fatti piú grossolani della casa.  Non  si  potea  campare  di  solo  caffè,
massime coll'amore che ci divorava. Io stesso per la prima volta in mia vita  mi
occupai con tutto il piacere di queste  minute  faccenduole.  Conosceva  qualche
comare nel Campo vicino, mi raccomandai a questa e a quella, e  mi  accomodarono
d'una serva che almeno a vederla dovea bastare di per sé  a  guardare  una  casa
contro i Turchi e gli Uscocchi. Brutta come l'accidente, ed alta e scarnata  che
pareva un granatiere dopo quattro mesi di campagna; con occhi e capelli grigi  e
un fazzoletto rosso attorcigliato intorno al capo alla foggia  dei  serpenti  di
Medusa. Era un pochettino losca, e  discretamente  barbuta,  con  una  vociaccia
sonata pel naso che non parlava né veneziano, né schiavone, ma  un  certo  gergo
imbastardito a mezza strada. Costei aveva ricevuto da madre natura tutte le  piú
brutte impronte della fedeltà: perché io ho  sempre  osservato  che  fedeltà  ed
avvenenza litigano sovente fra loro e s'acconciano assai  di  rado  a  una  vita
tranquilla e comune. Di piú  era  certo  che  chi  volesse  entrare  in  casa  e
s'affacciasse a quello spettacolo, sarebbe ito piuttosto a casa del diavolo  che
avanzar un passo oltre la soglia; tanto era graziosa e piacevole. S'intende  che
io le diedi precetto assoluto di dir sempre ed a tutti che i padroni eran  fuori
di Venezia; e di restar nascosto ci aveva molti buoni  perché.  Sarebbe  bastato
quello della felicità; che già appena  gli  altri  uomini  se  n'accorgono,  non
possono fare a meno di saltarvi addosso per  guastarvela.  Or  dunque  appostato
questo mio Cerbero alla cucina, e provveduto  che  ebbi  alla  sicurezza  ed  al
vitto, tornai alla Pisana e mi dimenticai di tutto il resto.  Forse  quello  non
era il miglior punto; forse, Dio mel perdoni, altri doveri allora m'incombevano,
e non era tempo da svagarsi come Rinaldo nel giardino d'Armida; ma badate che io
non dissi di avermi fatto violenza per dimenticare il resto;  me  ne  dimenticai
anzi cosí spontaneamente, che quando ulteriori circostanze mi richiamarono  alla
vita pubblica, mi parve tutto un mondo nuovo. Se furono  mai  scuse  ai  delirii
dell'amore, e all'ubbriachezza dei piaceri, io certo le  aveva  tutte.  Peraltro
non voglio nascondere le mie colpe, e me ne confesserò  sempre  peccatore.  Quel
mese smemorato di beatitudine e di voluttà, vissuto durante l'avvilimento  della
mia patria, e rubato alla decorosa miseria dell'esilio, mi lasciò nell'anima  un
eterno rimorso. Oh quanta distanza ci corre  dal  meschino  accattonaggio  delle
scuse alla superba indipendenza dell'innocenza! Con  quante  bugie  non  fui  io
costretto a nascondere agli occhi degli altri quella mia felicità clandestina  e
codarda! No, io non sarò mai indulgente verso di me  né  d'un  momento  solo  di
smemorataggine, quando l'onore ci comanda di ricordarsi robustamente  e  sempre.
La Pisana, poveretta, pianse assai quando vide da ultimo che tutti i suoi sforzi
per rendermi felice non riuscivano ad altro che a interrompere con qualche lampo
di spensieratezza un malcontento che sempre cresceva e mi faceva vergognar di me
stesso. Oh, perché non si volse ella a me con quell'amore  inspirato  e  robusto
che aveva sgomentito l'animetta galante di  Ascanio  Minato?  Perché  invece  di
domandarmi baci, carezze, piaceri, non m'impose ella qualche grande  sacrifizio,
qualche impresa disperata e sublime? - Sarei morto  da  eroe,  mentre  vissi  da
porco. - Pur troppo i sentimenti nostri ubbidiscono ad una legge  che  li  guida
sempre per quella strada ove sono  incamminati  da  principio.  Quella  bizzarra
passione per l'ufficiale d'Ajaccio, nata piú che da amore da rabbia,  e  nudrita
dai maschi pensieri che guardavano alla rovina della patria e al pericolo  della
libertà, fu in procinto di diventar grande pel santo ardore che  la  infiammava.
L'amor mio, antico  di  molti  anni,  ricco  di  sentimenti  e  di  memorie,  ma
sprovveduto affatto di pensiero era dannato a poltrire su quel letto di  voluttà
che l'avea veduto nascere. Io sentiva la vergogna di  non  poter  ispirare  alla
Pisana quello che le aveva  ispirato  un  vagheggino  di  dozzina:  scoperto  il
peccato originale dell'amor nostro, m'era impossibile  goderne  cosí  pienamente
com'ella  avrebbe  voluto.  Tuttavia  le  giornate  passavano,  brevi,   ignare,
deliranti: io non ci vedeva scampo da uscirne, e non ne sentiva né la volontà né
il coraggio. Avrei bensí potuto tentare sulla Pisana il  miracolo  ch'ella  avea
tentato sul giovane còrso, e sollevar l'animo suo a quell'altezza  dove  l'amore
diventa cagione di opere grandi e di nobili imprese. Ma non mi dava il cuore  di
pensar solamente ad una separazione; e quanto al farla compagna della mia  vita,
del mio esiglio, della mia povertà, non credeva averne  il  diritto.  Soprastava
dunque  ad  ogni  deliberazione  aspettando  consiglio  dagli   avvenimenti,   e
compensato abbastanza delle mie interne torture dalla felicità  che  risplendeva
bella e raggiante sulle sembianze di lei. A  vedere  come  il  suo  umore  s'era
cambiato, e ammorbidito in quei pochi giorni beati, io non potea  ristare  dalle
grandi maraviglie; mai un rimpianto, mai uno  sguardo  bieco,  mai  un  atto  di
stizza o un movimento di vanità. Pareva si  fosse  prefissa  di  ravvedermi  dal
tristo giudizio altre volte fatto di lei. Una fanciulla uscita allor  allora  di
convento e affidata alle cure d'una madre amorosa non sarebbe stata  piú  serena
piú allegra ed ingenua. Tutto ciò che  era  fuori  dell'amor  nostro  o  che  in
qualche modo non si rappiccava ad esso non la occupava punto. I racconti che  la
mi faceva della sua vita passata  ad  altro  non  tendevano  che  a  persuadermi
dell'amor suo continuo e fervoroso benché vario e bizzarro per  me.  Mi  narrava
degli eccitamenti di sua madre a far bel viso a  questo  o  a  quello  de'  suoi
corteggiatori, per accalappiarne un buon partito. - E cosa vuoi? -  soggiungeva.
- Piú erano splendidi belli graziosi, piú mi venivano in uggia;  laonde  se  mai
dava segno di qualche gentilezza o di aggradimento, l'era  sempre  verso  i  piú
brutti e sparuti, con gran maraviglia mia e di quelli  che  mi  circondavano;  e
credevano  quella  stranezza  un'arte  squisita  di  civetteria.  In  verità  io
lusingava quelli che mi parevano troppo sgraziati per lusingarsi alla lor volta;
e se quelle mie gentilezze erano insulti, Dio mel perdoni,  ma  non  potea  fare
altrimenti!... Mi scoperse poi certi segreti di  casa  che  avrei  amato  meglio
ignorare tanto mi stomacarono. La Contessa sua madre  giocava  disperatamente  e
non volea saperne di miseria, tantoché l'era sempre in sul chieder  quattrini  a
questo ed a quello; quando si trovava proprio alle strette, macchinavano qualche
gherminella tra lei e la Rosa, quella sua antica cameriera, per cavarne di tasca
ai conoscenti e agli amici. Siccome  poi  costoro  s'erano  stancati  d'un  tale
spillamento, la Rosa avea proposto di metter in ballo la Pisana, e d'impietosire
col racconto delle sue strettezze quelli che  sembravano  piú  devoti  adoratori
della sua bellezza. Cosí, senza saperlo,  ella  viveva  di  turpi  e  spregevoli
elemosine. Ma finalmente  la  se  n'era  accorta,  e  in  onta  alla  silenziosa
indifferenza della Contessa, ella sui due piedi avea cacciato la Rosa  fuori  di
casa. Questo anche era stato un motivo che l'aveva indotta ad accettar  la  mano
del Navagero, perché si vergognava di vedersi esposta dalla stessa sua  madre  a
tali  infamie.  Io  le  chiesi  allora  perché  non  ricorresse  piuttosto  alla
generosità dei Frumier; ma la mi rispose che anche i  Frumier  si  trovavano  in
male acque, e che se qualche sacrifizio lo avrebbero potuto  fare  per  salvarle
dall'inedia,  non  intendevano  poi  rovinarsi  affatto  per  pascere  il  vizio
insaziabile della Contessa. Io allora mi maravigliava che  questa  passione  del
gioco fosse in lei andata tanto innanzi. - Oh non me  ne  maraviglio  io!  -  mi
rispose la Pisana. - Ella è sempre tanto sicura di vincere, che le  parrebbe  di
far un torto a non giocare; e quello poi che  è  piú  bello,  ella  pretende  di
averci sempre guadagnato e che fummo noi, io e mio fratello, a consumarle mano a
mano tutti quegli immensi guadagni! Figurati! Per me non ebbi mai indosso che un
vestitello di tela, e ho sempre lasciato nelle sue mani i frutti degli  ottomila
ducati. Mio fratello poi mangia e veste come un frate e  per  quattro  soldi  il
giorno io torrei di mantenerlo. Ma la è tanto persuasa delle sue ragioni che non
giova parlarne, ed io la compatisco, poveretta, perché l'era avvezza a  mangiare
la pappa fatta, e non tenendo conto di ciò che si  riscuote  e  di  ciò  che  si
spende, è impossibile saperne una di schietta. Del resto la sua passione  non  è
un caso strano, e tutte le dame di Venezia ne sono adesso invasate, tantoché  le
migliori casate si rovinano alle tavole di gioco. Non ci capisco nulla!... tutte
si rovinano e nessuna si ristora! - Gli è -  soggiunsi  io  -  per  quell'antico
proverbio, che farina del diavolo non dà buon pane. Chi arrischia al faraone  la
fortuna dei proprii figliuoli, non  diverrà  certo  cosí  previdente  domani  da
investire i guadagni al cinque per cento. Si consumano tutti in vani dispendi, e
resta netto solo il guadagno delle perdite. Ma tua  madre  fu  piú  inescusabile
delle altre quando per accontentare i  proprii  capricci  non  si  vergognò  del
metter a repentaglio la fama della figlia!... - Oh cosa dici mai!  -  sclamò  la
Pisana - io la compatisco anche di questo! Era quella ghiotta di Rosa che le  ne
dava ad intendere, e per me credo che  si  mangiasse  ella  la  buona  metà  dei
regali... Eppoi giacché l'avea prima chiesto a suo nome, la poteva pur  chiedere
anche al mio. Non l'è poi mia madre per niente! - Sai, Pisana, che la tua  bontà
trascende in eccesso!... Non voglio che tu ti  avvezzi  a  ragionare  in  questo
modo, se no tutto si scusa,  tutto  si  perdona,  e  tra  il  male  ed  il  bene
scompariscono i confini. L'indulgenza è un'ottima cosa,  ma  sia  verso  sé  che
verso gli altri bisogna ch'ella vada innanzi cogli occhi in testa. Perdoniamo le
colpe sí, quando sono perdonabili; ma chiamiamole colpe.  Se  le  si  mettono  a
mazzo coi meriti, si perde affatto ogni regola! La Pisana sorrise, dicendo ch'io
era troppo severo, e scherzando soggiunse che se scusava tutto, gli era  appunto
perché altri scusasse lei dei suoi  difettucci.  Per  allora  non  la  ne  aveva
neppure uno, se non forse quello di farsi amar troppo, il quale era piú  difetto
mio che suo; ed io le misi la mano sulla bocca sclamando: - Taci, non vendicarti
ora della mia ingiusta severità d'una volta!... Dopo qualche settimana  di  vita
tutta casa ed amore,  pensai  che  fosse  tempo  di  andare  dagli  Apostulos  a
prendervi notizie di mio padre. Mi rimordeva di averlo dimenticato anche troppo,
e  voleva  compensare  questa  dimenticanza  con  una  premura  che,  attesa  la
strettezza  del  tempo,  doveva  certo  riuscir  inutile.  Ma  quando   vogliamo
persuaderci di non aver fallato non si bada a ragionevolezza. Giacché usciva, la
Pisana mi pregò di volerla condurre  fino  al  monastero  di  Santa  Teresa  per
visitarvi sua sorella. Io acconsentii, e  andammo  fuori  a  braccetto:  io  col
cappello sugli occhi, ella col velo fin  sotto  il  mento,  guardandoci  attorno
sospettosamente per ischivare, se era  possibile,  le  fermate  dei  conoscenti.
Infatti io vidi alla lontana Raimondo Venchieredo e il Partistagno ma mi  riuscí
di scantonare a tempo, e lasciai la mia compagna alla porta del  convento;  indi
mi volsi alla casa dei banchieri greci. Come ben  potete  immaginarvi,  in  cosí
breve tempo mio padre non poteva esser giunto a Costantinopoli  e  aver  mandato
notizia di colà. Si maravigliarono tutti, massimamente Spiro, di vedermi  ancora
a Venezia;  laonde  io  risposi  arrossendo  che  non  era  partito  per  alcuni
gravissimi negozi che mi trattenevano, e che  del  resto  mi  conveniva  sfidare
moltissimi rischi a rimanere, pei sospetti che si avevano di me. Non  arrischiai
nemmeno di aggiungere chi poteva avere questi cotali sospetti,  perché  ignorava
quali fossero di certo i padroni di Venezia, e  mi  immaginava  che  i  Francesi
fossero partiti, ma non ne aveva prove sicure. L'Aglaura mi domandò  allora  ove
contassi rivolgermi quando fossero terminati questi miei negozi, ed  io  risposi
balbettando  che  probabilmente  a  Milano.  La  giovinetta  chinò   gli   occhi
rabbrividendo, e suo fratello le mandò di traverso  un'occhiata  fulminante.  Io
avea ben altro pel capo che di badare al  significato  di  questa  pantomima,  e
presi congedo assicurandoli che ci saremmo veduti prima della  partenza.  Tornai
indi in istrada, ma aveva piú paura di prima di  esser  veduto;  anzi  ci  aveva
vergogna per giunta alla paura. Mi importava moltissimo di non esser  osservato,
perché la  perfetta  libertà  da  ogni  molestia  nella  quale  eravamo  rimasti
fin'allora io e la Pisana mi persuadeva che i suoi parenti  ignorassero  la  mia
presenza in Venezia. Se fosse stato altrimenti, oh non era facile  l'immaginarsi
che ella si fosse rifuggita presso di me? Non mi figurava allora  che  la  scena
della Pisana col tenente Minato avesse fatto gran chiasso  e  che  soltanto  per
timore di compromettersi il Navagero e la Contessa  non  ne  chiedessero  conto.
Allo svoltar d'una calle mi trovai faccia a  faccia  con  Agostino  Frumier  piú
fresco e rubicondo del solito. Ambidue per scambievole consenso finsimo  di  non
ci riconoscere: ma egli si maravigliò di me piú ch'io non  mi  maravigliassi  di
lui, e la vergogna fu maggiore dal mio canto. Finalmente giunsi al convento  che
le pietre mi scottavano sotto i piedi e mi pentiva ad ogni  passo  di  non  aver
aspettato la notte per quella passeggiata. Ben mi prefiggeva  fra  me  di  aprir
l'animo mio alla Pisana alla prima occasione e di dimostrarle come  la  felicità
di cui ella m'inebbriava fosse tutta a carico dell'onor mio, e come il  rispetto
alla patria, la fede agli amici, l'osservanza dei giuramenti mi  stringessero  a
partire. In cotali pensieri entrai nel parlatorio senza pensare che la reverenda
poteva maravigliarsi di veder sua sorella in  mia  compagnia;  ma  non  ci  avea
pensato la Pisana ed io pure non ci badai. Era la  prima  volta  che  vedeva  la
Clara dopo i suoi voti. La  trovai  pallida  e  consunta  da  far  pietà,  colla
trasparenza di quei vasi d'alabastro nei quali si mette ad ardere  un  lumicino:
un po' anche incurvata quasi per  lunga  abitudine  d'ubbidienza  e  d'orazione.
Sulle sue labbra, all'indulgente sorriso d'una volta  era  succeduta  la  fredda
rigidità monastica: oramai si vedeva che l'isolamento dalle cose terrene,  tanto
sospirato  dalla  madre  Redenta,  lo  aveva  anch'essa  raggiunto;   non   solo
disprezzava e dimenticava, ma non comprendeva piú il mondo. Infatti  la  non  si
maravigliò punto della mia dimestichezza colla Pisana,  come  io  aveva  temuto:
diede a me ed a lei saggi consigli in buon dato; non nominò mai  il  passato  se
non per raccapricciarne, ed una sola volta vidi rammollirsi  la  piega  ritta  e
sottile delle sue labbra  quand'io  le  nominai  la  sua  ottima  nonna.  Quanti
pensieri in quel mezzo sorriso!... Ma se ne pentí tosto,  e  riprese  la  solita
freddezza che era il vestimento forzato dell'anima  sua,  come  la  nera  tonaca
dovea vestirle invariabilmente le membra. Io credetti che in quel momento  anche
Lucilio le balenasse al pensiero; ma che fuggisse spaventata da quella  memoria.
Dov'era infatti allora Lucilio? Che faceva egli? - Questa  terribile  incertezza
doveva entrarle talora nell'anima col  succhiello  invisibile  ma  profondo  del
rimorso. Ella durò infatti qualche fatica a tornar marmorea e severa come prima;
le sue pupille non erano piú tanto immobili, né la sua voce  cosí  tranquilla  e
monotona. - Ohimè! - diss'ella ad un tratto - io promisi alla buon'anima di  mia
nonna di suffragarla con cento messe, e non fui ancora in grado di  compiere  il
voto. Ecco l'unica spina che ho adesso nel cuore!... La  Pisana  si  affrettò  a
rispondere colla solita bontà spensierata che quello spino poteva cavarselo  dal
cuore a sua posta, e che l'avrebbe aiutata a ciò, e che avrebbe  fatto  celebrar
quelle messe ella stessa secondo le intenzioni di  lei.  -  Oh  grazie!  grazie,
sorella mia in Cristo! - sclamò la reverenda. - Portami la scheda del  sacerdote
che le avrà celebrate e tu avrai  acquisito  un  diritto  grandissimo  alle  mie
orazioni ed un merito ancor maggiore presso Dio.  Io  non  mi  trovava  bene  in
cotali discorsi, e mi sorprendeva fra  me  della  facilità  con  cui  la  Pisana
intonava i proprii sentimenti sopra il tenore degli altrui.  Ma  buona  come  la
era, e maestra finitissima di  bugie,  doveva  anzi  maravigliarmi  se  l'avesse
adoperato altrimenti.  Intanto,  salutata  ch'ebbimo  la  Clara,  e  tornati  in
istrada, mi riprese la paura che fossimo veduti assieme e proposi alla Pisana di
andarcene a casa scompagnati,  ognuno  per  una  strada  diversa.  Infatti  cosí
fecimo, ed ebbi campo a rallegrarmene, perché  mossi  cento  passi  mi  scontrai
ancora nel Venchieredo e nel Partistagno, che questa volta  mi  si  misero  alla
calcagna e non m'abbandonarono piú.  I  giri  che  feci  loro  fare  per  quegli
inestricabili laberinti di Venezia non saprei ripeterli ora; ma  io  mi  stancai
prima di loro, perché mi doleva di lasciar sola tanto tempo la Pisana. Mi decisi
dunque a volgermi verso casa, ma qual fu il mio stupore quando  sulla  porta  mi
scontrai nella Pisana, la quale doveva esser arrivata da un pezzo e pur si stava
lí chiacchierando amichevolmente con quella tal Rosa, con quella  cameriera  che
le faceva questuar l'elemosina dai suoi adoratori? Ella non  parve  turbata  per
nulla della mia presenza; salutò la Rosa  di  buonissimo  garbo,  invitandola  a
visitarla e si fece poi entro l'uscio insieme con me  sgridandomi  perché  aveva
tardato. Colla coda dell'occhi vidi Raimondo e il Partistagno che ci osservavano
ancora da un canto vicino, onde chiusi con qualche impeto la porta  e  salii  le
scale un po' musonato. Di sopra che fui non sapeva da qual banda principiare per
far accorta la Pisana della sconvenienza del suo procedere; mi decisi alla  fine
di affrontarla direttamente, tanto piú che mi vi incitava anche un  certo  umore
turbolento di stizza. Le dissi adunque che mi era stupito assai  di  vederla  in
istretto colloquio con una  svergognata  di  quella  natura,  dalla  quale  avea
ricevuto offese imperdonabili; e che non ci vedeva il perché la si fosse fermata
a cinguettare sull'uscio di casa con tutto l'interesse che avevamo a  non  farci
osservare. Ella mi rispose che si era fermata senza pensarci  e  che  in  quanto
alla Rosa le avea fatto compassione il vederla coperta di cenci e intristita  in
viso per la miseria. Anzi l'avea  pregata  di  venirla  a  trovare  appunto  per
questo, che sperava in qualche modo di sollevarla, e del resto se l'era  pentita
de' suoi torti, ell'era obbligata a perdonarle; e le perdonava in  fatti,  anche
perché dessa le avea protestato di non aver mai inteso  di  ingiuriarla,  e  che
avea sempre adoperato a fin di bene e dietro istigazione della signora Contessa.
La Pisana pareva tanto persuasa di  quest'ultimo  argomento,  che  le  rimordeva
quasi d'aver cacciato la Rosa, e  pigliava  sulla  propria  coscienza  tutte  le
incommodità che costei diceva  aver  sofferto  per  la  sua  sdegnosa  severità.
Indarno io me le contrapposi dimostrandole che certi torti non  si  possono  mai
scusare, e che l'onore è forse la sola cosa che si abbia  diritto  e  dovere  di
difendere anche a costo della vita propria e dell'altrui.  La  Pisana  soggiunse
che non la pensava cosí, che in cotali materie bisogna badare al  sentimento,  e
che il sentimento suo  le  consigliava  di  riparare  i  mali  involontariamente
cagionati a quella poveretta. Pertanto mi pregò di darle mano  in  questa  buona
opera, concedendo per primo punto alla Rosa una camera della casa per  abitarvi.
Sopra questa domanda io mi diedi a gridare, ed essa a gridare ed a piangere.  Si
finí con questo accordo, che io avrei  pagato  la  pigione  della  Rosa  ove  la
dimorava allora, e soltanto dopo questa promessa la Pisana fu  contenta  di  non
tirarmela in casa. Fu  quella  la  prima  volta  che  si  dimenticò  l'amore,  e
tornarono i nostri temperamenti a trovarsi un po' ruvidi assieme. Mi coricai con
molti cattivi presentimenti, ed anche quelle  occhiate  beffarde  e  curiose  di
Raimondo  mi  rimasero  tutta  notte  traverso  alla  gola.  Il  mattino   altra
scaramuccia. La Pisana mi pregò che volessi uscire per disporre la  celebrazione
delle cento messe per conto di sua sorella. Figuratevi quanto mi andava a sangue
questo bel grillo colla carestia di denari che cominciava a  stringermi!...  Per
uno scrupolo evidente di delicatezza, io avea tralasciato di  significarle  come
mio padre era partito con ogni  sua  ricchezza  non  altro  lasciandomi  che  un
moderatissimo peculio. Tra le spese  occorrenti  alla  casa,  il  salario  della
serva, e qualche compera fatta dalla Pisana che si era ricoverata presso  di  me
poco meno che in camicia, m'era già scivolato d'infra le  dita  buona  parte  di
quello che dovea bastarmi per tutto l'anno. Tuttavia io stentava  a  discoprirle
questa mia miseria, e studiavami  d'impedire  con  altre  cento  ragioni  quella
generosità delle messe. La Pisana non mi voleva ascoltare ad alcun  patto.  Essa
aveva promesso, ci andava della quiete di sua sorella, e se le voleva bene nulla
nulla, doveva soddisfarla. Allora le dichiarai netta e tonda la cosa come stava.
- Non c'è altra difficoltà? - rispos'ella colla miglior  cera  del  mondo.  -  È
facile accomodarsi. Prima di tutto adempiremo agli obblighi assunti,  e  poi  si
digiunerà se non ne resta per noi. - Hai  un  bel  dire  col  tuo  digiunare!  -
soggiunsi io. - Vorrei un po' vederti al fatto come  te  la  caveresti  per  non
reggerti in piedi! - Cascherò se non potrò reggermi: ma non sarà mai  detto  che
io m'ingrassi con quello che può servire al bene degli altri. - Pensa  che  dopo
le cento messe poche lire mi resteranno! - Ah sí! è vero, Carlino! non è  giusto
ch'io sacrifichi te per un mio capriccio. È meglio ch'io me ne vada...  andrò  a
stare colla Rosa... lavorerò di cucito e di ricamo... - Cosa  ti  salta  ora?  -
gridai tutto sdegnato. - Piuttosto mi caverei anche la pelle che lasciarti  cosí
a mal partito!... - Allora, Carlino,  siamo  intesi.  Fammi  contenta  di  tutto
quello che ti domando, e dopo pensi la Provvidenza, che  tocca  a  lei.  -  Sai,
Pisana, che mi fai proprio stupire!  Io  non  ti  vidi  mai  cosí  rassegnata  e
fiduciosa nella Provvidenza come ora che la  Provvidenza  non  sembra  darsi  il
benché minimo pensiero di te. - Che sia vero? ne godrei molto che  questa  virtù
mi crescesse a seconda del bisogno. Tuttavia ti dirò che  se  comincio  ad  aver
fede nella Provvidenza, gli è che me ne sento il coraggio e la forza.  In  fondo
al cuore di noi altre donne un po' di devozione ci resta sempre; or bene! io  mi
abbandono nelle braccia di Dio! Ti assicuro che se rimanessimo  nudi  di  tutto,
non troveresti due  braccia  che  lavorassero  piú  valorosamente  delle  mie  a
continua
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