Online Utenti | Main site | mappa sito | pagina gratis | e-mail gratis | guadagna | blog | (?) |
|
Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italianoIppolito Nievoguadagnar la vita per tutti e due. Io scrollai il capo, ché non ebbi molta fede in quel coraggio lontano ancora dalla prova; ma per quanto ci credessi poco, dovetti pagare le cento messe e la pigione della Rosa, e finalmente la vidi contenta quando non ci restavano che venti ducati all'incirca per scongiurare il futuro. Ma c'era poco lontano gente che si prendeva gran cura dei fatti miei e lavorava sott'acqua per cavarmi d'impiccio: volevano precipitarmi dalla padella nelle bragie e ci riescirono. Il dover mio era di farmi abbrustolire già da un mese prima, e potrei anche ringraziarli del gran merito ch'essi acquistarono presso la mia coscienza. La scena della Pisana coll'ufficiale còrso avea fatto chiasso, come dissi, per tutta Venezia; la sua disparizione dalla casa del marito aggiungeva mistero all'avventura, e se ne contavano di cosí strane, di cosí grosse che a ripeterle sembrerebbero fole. Chi la vedeva vagare vestita di bianco sotto le Procuratie nella profondità della notte; chi affermava di averla incontrata in qualche calle deserta con un pugnale in mano e una face resinosa nell'altra, come la statua della discordia; i barcaiuoli narravano ch'ella errava tutta notte per le lagune, soletta sopra una gondola che avanzava senza remi e lasciava dietro di sé per le acque silenziose un solco fosforescente. Alcuni tonfi si udivano di tanto in tanto intorno alla misteriosa apparizione; erano i nemici di Venezia da lei strappati magicamente alla quiete del sonno e precipitati nei gorghi del canale. Queste chiacchiere immaginose, cui la credulità popolare aggiungeva ogni giorno alcun fiore poetico, garbavano poco o nulla al nuovo governo provvisorio stabilito dagli Imperiali dopo la partenza di Serrurier. Erano sintomi di poca simpatia, e conveniva guarire la gente di questo ticchio poetico. Perciò si davano attorno per iscoprire la dimora della Pisana; ma le indagini rimanevano senza effetto, e nessuno certo si sarebbe immaginato ch'ella abitasse con me, mentre io stesso era creduto a quei giorni ben lontano dalle lagune. La nostra zingara era stata incorruttibile; a qualche sbirro travestito che era venuto a chieder conto dei padroni di casa, ell'aveva risposto che da gran tempo mancavano da Venezia, e cosí non ci avevano seccato piú. Sapendo che mio padre s'era imbarcato pel Levante, mi giudicavan partito con lui, o con gli altri disgraziati che aveano cercato una patria nelle tranquille città della Toscana o nelle tumultuanti provincie della Cisalpina. La scoperta fatta da Raimondo Venchieredo mise la sbirraglia sulle mie tracce. Egli ne parlò a suo padre come d'una curiosità; il vecchio volpone ne tenne conto come d'un grasso guadagno, e cosí, dopo consultatosi col reverendo padre Pendola, decise di farsi un merito presso il Governo col dipingermi per un pericoloso macchinatore appiattato a Venezia e disposto a Dio sa qual colpo disperato. La mia convivenza con quella furiosa eroina, che avea fatto parlar tanto il volgo e gli sfaccendati, aggiungeva nerbo all'accusa. Infatti una bella mattina che sorseggiava tranquillamente il caffè pensando alla maniera di prolungar piucché fosse possibile l'utilissimo servizio di sette o otto ducati che mi rimanevano, sentii un furioso scampanellare alla porta, e poi una confusione di voci che gridavano rispondevano s'incrociavano dalla finestra alla calle, e dalla calle alla finestra. Mentre porgeva l'orecchio a quel fracasso, udii un grande strepitio come d'una porta sgangherata a forza, e poi successe un secondo colpo piú forte del primo, e un gridare e un tempestare che non finiva piú. Stavamo appunto io e la Pisana per uscire ad osservare cosa succedeva, quando la nostra zingara si precipitò nella stanza col naso insanguinato, la veste tutta a brandelli, e un'enorme paletta da fuoco tra mano. Era quella che mio padre adoperava per far i profumi secondo la usanza di Costantinopoli. - Signor padrone - gridava ella, sfiatata pel gran correre - ne ho fatto prigioniero uno che è di là chiuso in cucina colla faccia spiattita come una torta... ma fuori ne sono altri dodici... Si salvi chi può... Vengono per arrestarlo... Dicono che l'è un reo di Stato... La Pisana non la lasciò continuare; corse a chiudere la porta, e adocchiando la finestra che dava sul canale, cominciò a dirmi che badassi a me, a scappare, a salvarmi, che questo urgeva piú di tutto. Io non sapeva che fare, e un salto dalla finestra mi parve la maniera piú commoda di cavarmela. Pensare e fare fu ad un punto; mi buttai fuori senza guardar prima né dove né come cadessi, persuasissimo che acqua o terra qualche cosa avrei incontrato. Incontrai invece una gondola dentro la quale travidi durante il volo la faccia di Raimondo Venchieredo che spiava le nostre finestre. Il colpo che diedi sopra il fondo della barca mi sconciò quasi una spalla, ma le capriole della mia infanzia e la ginnastica di Marchetto mi avevano usato le ossa a simili scompigli. Mi rizzai come un gatto, piú svelto di prima, corsi verso la prora per balzare sull'altra riva, ma mi si oppose involontariamente Raimondo che stava allora per uscire di sotto al felze, e si fermò spaventato dal quel corpo che nel cadere gli avea fatto dondolare sotto i piedi la gondola. - Ah sei tu, sciagurato? - gli dissi io rabbiosamente. - Prenditi la mercede del tuo spionaggio! E gli menai un tal manrovescio che lo mandò a rotolare sulla forcola ove per poco non si ebbe a cavar gli occhi. Intanto io avea guadagnato la riva e salutato d'un gesto la Pisana che mi guardava dal balcone e mi esortava a far presto e a fuggire. La zingara mia salvatrice stava ancora colla sua paletta dinanzi alla porta sgangherata spaventando colla sua attitudine guerresca i dodici sbirri, nessuno dei quali si sentiva volontà di seguire il caporione nella casa per incontrarvi quella brutta sorte che forse egli vi aveva incontrato. Badando meglio essi lo avrebbero udito strillare; chiuso nella cucina e col muso pestato dalla tremenda paletta egli si lamentava sulla nota piú alta della sua scala di basso, come un vero porcellino condotto al mercato. Io avea veduto tuttociò in un lampo e prima che Raimondo si riavesse o i birri mi scoprissero era scomparso per una calletta che tagliava giù lí presso. In quella confusione di fatti e di idee fu una vera provvidenza che mi saltasse in capo di rifugiarmi presso gli Apostulos. Come anche feci e arrivai a salvamento senza nessun maggiore fastidio che quell'arrischiatissimo salto dalla finestra. I miei amici furono contentissimi di vedermi salvo da sí grave pericolo; ma pur troppo non si poteva ancora cantar vittoria, e finché non fossi fuori dalle lagune, anzi dalle provincie di qua dall'Adige, la mia libertà correva grandissimo rischio. - Dunque dove fareste conto di andare? - mi chiese il vecchio banchiere. - Ma... a Milano! - risposi io, non sapendo neppure cosa mi dicessi. - Proprio persistete nell'idea d'andar a Milano? - mi domandò a sua volta l'Aglaura. - Pare il miglior partito - io soggiunsi - e laggiù ci ho infatti i miei migliori amici, e mi aspettano da un pezzo. Spiro era corso da basso a licenziare la gente dello studio mentre si facevano cotali discorsi, e l'Aglaura pareva disposta a muovermi qualche altra inchiesta quand'egli tornò. Allora ella mutò viso e stette ad ascoltare come si prendesse cura di nulla; ma ella mi spiava premurosamente ogniqualvolta suo fratello voltava via l'occhio, e la udii sospirare quando suo padre mi disse che con un travestimento greco e il passaporto d'un loro commesso io avrei potuto partire l'indomani mattina. - Non prima - soggiunse egli - perché tutte le polizie sono molto occhiute e guardinghe sui primi momenti e cadreste facilmente nelle loro unghie. Domani invece non guarderanno tanto pel sottile perché vi crederanno già uscito di città, ed essendo festa i doganieri saranno occupatissimi a riveder le tasche dei campagnuoli che entrano. La vecchia, che era accorsa anco lei a congratularsi del mio salvamento, approvò del capo. Spiro soggiunse che sbarcato a Padova farei benissimo a spogliarmi del mio travestimento, e a prendere qualche strada di traverso per toccar il confine; il vestir alla greca avrebbe dato troppo nell'occhio. Io risposi a tutti di sí, e venni ad un altro argomento, a quello dei denari. Coi sette ducati che avea in tasca non potea già sognarmi di giungere a Milano; mi occorreva proprio una sommetta; e siccome anche i frutti anticipati d'un anno non mi bastavano, e d'altra parte qualche mezzo di sussistenza voleva lasciarlo alla Pisana, cosí proposi al greco che mi pagasse mille ducati, e del restante capitale contasse d'anno in anno gli interessi nelle mani della nobile contessina Pisana di Fratta, dama Navagero. Il greco ne fu contentissimo: stesi la ricevuta e la procura in regola e avvisai la Pisana con una lettera di queste mie provvidenze, includendole anche una carta colla quale la investiva dell'usufrutto della mia casa. Non si sapeva mai quanto potessi restarmene assente, e il meglio si era provvedere per un pezzo; né io temeva che la Pisana si sarebbe tenuta offesa di queste mie prestazioni, perché il nostro amore non era di quelli che si credono avviliti per simili minuzzoli. Chi ne ha ne dia; è la regola generale per tutto il prossimo; figuratevi poi tra due amanti che piú che prossimi devono esser tra loro una cosa sola! Or dunque dato che ebbimo ordine a questi negozi, si pensò a metter in grado il mio stomaco di sostener le fatiche del primo giorno d'esiglio. Era già sera, io non avea preso da ventiquattr'ore null'altro che un caffè, pure non avea piú fame che se mi fossi alzato allor allora da un banchetto di nozze. Cosa volete? Sulla mensa vi avevano a destra ed a sinistra de' gran bottiglioni di Cipro, io mi fidai di quelli, e mentre gli altri mangiavano e m'incoraggiavano a mangiare, mi diedi invece a bere per la disperazione. Bevetti tanto che non intesi piú nulla dei gran discorsi che mi tennero dopo cena; soltanto mi parve che rimasto un momento solo colle donne l'Aglaura mi sussurrasse qualche parola all'orecchio, e che seguitasse poi a premermi il ginocchio e ad urtarmi il piede sotto la tavola quando Spiro e suo padre furono tornati. Per garbo d'ospitalità essi l'avevano collocata nel posto vicino al mio. Io non ci capiva nulla di quella manovra; mi trascinai bene o male fino al letto che mi fu assegnato e dormii tanto porcellescamente che mi sentiva russare. Ma alla mattina quando mi svegliarono fu un altro paio di maniche! Alla tempesta era succeduta la calma, allo sbalordimento il dolore. Fino allora avea prolungato ostinatamente le mie speranze, come il tisico; ma alla fine dava di cozzo nella brutta necessità, né ritrarsi né sperare valeva piú. Non potei nemmen dire che ebbi la forza di uscire dal letto, di vestire i miei nuovi arnesi alla greca, e di congedarmi dai miei ospiti. In questi movimenti il mio corpo non si prestava che colla sciocca ubbidienza d'un automa, e quanto all'anima io potea credere d'averla lasciata nel vino di Cipro. Spiro m'accompagnò alla Riva del Carbone donde partiva allora la corriera di Padova; mi promise che le notizie di mio padre mi sarebbero puntualmente comunicate e mi lasciò con una stretta di mano. Io stetti lí sul ponte a guardare Venezia, a contemplare mestamente le cupe acque del Canal Grande dove i palazzi degli ammiragli e dei dogi sembravano specchiarsi quasi desiderosi dell'abisso. Sentiva di dentro un laceramento come dei visceri che mi fossero strappati; indi rimasi immobile smarrito privo affatto di vita come chi si trova di fronte ad una sventura che finirà solo colla morte. Non mi accorsi della partenza della barca; eravamo già al largo sulla laguna che io vedeva ancora il Palazzo Foscari e il ponte di Rialto. Ma quando si giunse alla dogana, e ci fu data la voce di fermarsi con un accento che non era certo veneziano, allora uscii a un tratto da quelle angosce fantastiche per rientrare nella stretta d'un vero e profondo dolore! Allora tutte le sventure della mia patria mi si schierarono dinanzi mescolate alle mie, e tutte una per una mi ficcarono dentro nel cuore il loro coltello! Ci eravamo spiccati appena dall'approdo della dogana, quando fummo sopraggiunti da un veloce caiccio che ci gridava di aspettare. Il pilota fermò infatti e fui maravigliatissimo un minuto dopo di rivedere il giovane Apostulos sulla tolda della corriera. Mi accostò con qualche turbamento adocchiando a diritta ed a sinistra e disse, un po' confuso, che si avea dato fretta di raggiungermi per dirmi il nome d'altri suoi amici che potevano a Milano giovarmi oltremodo. Io mi stupii d'una tale premura, giacché si usa in tali circostanze munire il viaggiatore di commendatizie: ciononostante lo ringraziai, ed egli si partí cercando del padrone della barca al quale diceva di volermi raccomandare. Con tale pretesto scese nel casotto e lo vidi infatti bisbigliare qualche parola all'orecchio del padrone: questi si affaccendava a rispondergli di no, e gli faceva cenno come di accomodarsi pure e di guardare dove voleva. Spiro andò innanzi fino in fondo al casotto, vide alcuni barcaiuoli che dormivano ravvolti nel loro cappotto, e tornò indietro con un viso che voleva parere indifferente. - Capperi! che corriera di lusso ci avete! - sclamò egli spiandola tutta da prora a poppa coi suoi occhi di falco; e ficcò il naso in tutti i bugigattoli con qualche stizza del piloto a cui tardava di dar la volta al timone. - Posso partire? - chiese costui al capitano per dar fretta di andarsene a quell'importuno visitatore. - Aspettate prima che me ne vada io! - soggiunse Spiro saltando dalla corriera nel caiccio, e salutandomi astrattamente con un gesto. Io capiva che pel solo motivo dettomi egli non avea raggiunto la barca e visitatala con tutta diligenza: ma era troppo sconvolto e addolorato per dilettarmi di castelli in aria, e cosí in breve egli mi uscí di mente, e tornai a guardare Venezia che si allontanava sempre piú in mezzo alla nebbia azzurrognola delle sue lagune. La pareva oggimai un sipario da teatro scolorato dalla polvere e dal fumo della ribalta. O Venezia, o madre antica di sapienza e di libertà! Ben lo spirito tuo era allora piú sparuto e piú nebbioso dell'aspetto! Egli svaniva oggimai in quella cieca oscurità del passato che distrugge perfino le orme della vita; restano le memorie, ma altro non sono che fantasmi; resta la speranza, il lungo sogno dei dormenti. T'aveva io amato moribonda e decrepita?... Non so, non voglio dirlo. - Ma quando ti vidi ravvolta nel sudario del sepolcro, quando ti ammirai bella e maestosa fra le braccia della morte, quando sentii freddo il tuo cuore e spento sulle labbra l'ultimo alito, allora una tempesta di dolore di disperazione di rimorso mi sollevò le profonde passioni dell'anima!... Allora provai la rabbia del proscritto, la desolazione dell'orfano, il tormento del parricida!... Parricidio, parricidio! gridano ancora gli echi luttuosi del Palazzo Ducale. Potevate lasciarsi addormentare in pace la vostra madre che moriva, sulle bandiere di Lepanto e della Morea: invece la strappaste con nefanda audacia da quel letto venerabile, la metteste a giacere sul lastrico, le danzaste intorno ubbriachi e codardi, e porgeste ai suoi nemici il laccio per soffocarla!... V'hanno certi momenti supremi nella vita dei popoli che gli inetti son traditori, quando si arrogano i diritti del valore e della sapienza. Eravate impotenti a salvarla? Perché non lo avete confessato alla faccia del mondo? Perché vi siete mescolati coi suoi carnefici? Perché alcuni tra voi dopo aver inorridito del nefando mercato stesero la mano alle elemosine dei compratori? Pesaro fu solo nella virtù; ma primo e piú vile di tutti nell'umiliarsi, ebbe molti ebbe troppi imitatori. Ora io non accuso ma vendico; non insulto ma confesso. Confesso quello che avrei dovuto fare e non feci; quello che poteva e non volli vedere; quello che commisi per avventatezza, e deplorerò sempre come un vile delitto. Il Direttorio e Buonaparte ci tradirono, è vero; ma a quel modo si lasciano tradire solamente i codardi. Buonaparte usò con Venezia come coll'amica che intende l'amore per servitù e bacia la mano di chi la percote. La trascurò in principio, la oltraggiò poi, godette in seguito d'ingannarla, di sbeffeggiarla, da ultimo se la pose sotto i piedi, la calpestò come una baldracca, e le disse schernendola: - Vatti, cerca un altro padrone!... Nessuno potrà forse comprendere senza averlo provato il profondo abbattimento che mi veniva nell'anima da tali pensieri. Quando poi lo raffrontava all'allegra e spensierata felicità che me lo aveva ritardato d'alcuni giorni, crescevano, se era possibile, lo sconforto e l'ambascia. Era proprio vero. Io avea toccato l'apice dei miei desiderii; aveva stretto fra le mie braccia bella contenta amorosa la prima la sola donna che avessi mai amato; quella che io aveva figurato fin dai primi anni essere la consolazione della mia vita, e il rimedio d'ogni dolore, mi aveva colmato inebbriato di quante voluttà possono mai capire in seno mortale!... E cosa stringeva in pugno di tutto ciò? Un rimorso! Ebbro ma non satollo, vergognoso ma non pentito, io lasciava le vie dell'amore per quelle dell'esiglio, e se gli sbirri non si fossero presi la briga di avvertirmene io sarei rimasto a profanare il funebre lutto di Venezia colla sfacciataggine de' miei piaceri. Cosí perfino il nutrimento dell'anima mi si volgeva in veleno, ed era costretto a disprezzar quello che ancora desiderava possedere piú ardentemente che mai. Pallido stravolto agitato, senza toccar cibo né bevanda, senza né guardar in viso né rispondere alle domande de' miei compagni di viaggio, lasciandomi sobbalzare qua e là dai gomiti poco guardinghi dei barcaiuoli, giunsi finalmente a Padova. Scesi a terra non ricordandomi quasi piú dove mi fossi, e non conoscendo quell'argine del canale ove tante volte avea passeggiato con Amilcare. Domandai pertanto d'un'osteria, e me ne fu additata una alla destra di Porta Codalunga, ove appunto pochi anni or sono fu costruito il gazometro. Mi vi avviai col mio fardello sotto il braccio, seguitato da alcuni birichini che ammiravano il mio vestimento orientale: entratovi chiesi una stanza, e qualche cosa da ristorarmi. Là mi cangiai di abito, presi un po' di cibo, non volli saperne di vino, e pagato il piccolo scotto, uscii dalla bettola dicendo a voce alta che vestito a quel modo sperava di non dar nell'occhio ai monelli della città. Infatti feci le viste di avviarmivi; ma giunto alla porta tirai oltre e la diedi giù per un viottolo che a mia memoria doveva riuscire sulla strada di Vicenza. Uscendo dall'osteria avea sbirciato un tale che aveva muso di tenermi dietro avvisatamente; e voleva chiarirmi della verità. Infatti guardando di traverso io vedeva sempre quest'ombra che seguitava la mia, che allentava sollecitava e fermava il passo con me. Svoltato giù per quel viottolo udiva del pari un passo leggiero e prudente che mi accompagnava; sicché non v'aveva piú dubbio, quel cotale era lí proprio per me. Pensai subito al Venchieredo, al padre Pendola, all'avvocato Ormenta e ai loro spioni: allora non sapeva che il degno avvocato sedeva al governo per la accorta protezione del reverendo. Tuttavia mi parve che la franchezza fosse il miglior partito e quando ebbi tirato il mio cagnotto da ferma nell'aperta campagna mi volsi precipitosamente, e mi slanciai sopra di lui per ghermirlo, se si poteva, e pagarlo con doppia moneta della non chiesta compagnia. Con mia gran sorpresa colui né si mosse né diede segno di spavento; anzi aveva intorno un cappotto da marinaio e ne abbassò il cappuccio per discoprirsi meglio. Io allora deposi anch'io la parte piú pericolosa della mia rabbia, e mi accontentai di tenergli ricordato che non era lecito starsi a quel modo sulle calcagna d'un galantuomo. Mentre io gli parlava ed egli mi guardava con un cipiglio piuttosto indeciso e turbato, mi parve di travedere nelle sue sembianze la memoria d'una persona a me notissima. Passai rapidamente in rassegna tutti i miei amici di Padova; ma nessuno gli somigliava per nulla, invece un certo presentimento si ostinava a presentarmi quella figura come veduta poco tempo prima, e viva ancora, vivissima nelle mie rimembranze. - Dunque non vuol proprio conoscermi? - mi disse colui mettendosi la palma della mano sul volto, e con tal voce che mi rischiarò subito il discernimento. - Aglaura, Aglaura! - io sclamai. - Vedo o stravedo? - Sí, sono Aglaura, son io che vi seguo fino da Venezia, che stetti con voi nella medesima barca, che mi refocillai alla stessa osteria, e che non avrei avuto il coraggio di scoprirmi a voi se i vostri sospetti non vi facevano rivolgere a me. - Adunque - io soggiunsi fuori di me per la sorpresa - adunque Spiro cercava di voi questa mattina?... - Sí, egli cercava di me. Rientrando a casa e non trovandomi piú perché io era venuta intanto alla corriera dopo avermi cangiati gli abiti presso la nostra lavandaia, egli si sarà insospettito di quanto già temeva da lungo tempo. È vero ch'era uscita colla cameriera; ma costei sarà tornata narrando com'io l'avea pregata di lasciarmi sola in chiesa e i sospetti gli saranno cresciuti. Fortuna che per la fretta non ebbe tempo di chiarirsi se quella fosse la verità od una scusa; e cosí quando domandò al padrone se non aveva donne a bordo e colui gli rispose di no, credette davvero ch'io fossi rimasta a pregare, e cercassi forse nella preghiera la forza di resistere alle tentazioni che da tanto tempo mi assediavano. Povero Spiro!... Egli mi vuole bene, ma non m'intende, non mi compatisce!... Anziché intercedere per me egli sarà quello che si farà esecutore delle maledizioni di mio padre!... Da queste parole dal suono della voce dal tenor degli sguardi io mi persuasi che la povera Aglaura era innamorata di me, e che il dolore di perdermi l'avea menata a quel consiglio disperato di seguirmi. Io mi sentiva pieno di riconoscenza di compassione per lei. Se la Pisana fosse rimasta con Sua Eccellenza Navagero, o fosse scappata col tenente Minato, credo che avrei amato di colpo l'Aglaura non foss'altro per riconoscenza. Ma sono stanco di scrivere, e voglio chiudere il capitolo lasciandovi nell'incertezza di quello che ne avvenne poi. CAPITOLO DECIMOQUINTO Il viaggio può esser buono benché fu cattiva la partenza. Arriviamo a Milano il giorno della Festa per la Federazione della Repubblica Cisalpina. Io comincio a veder chiaro, ma forse anche a sperar troppo nelle cose di questo mondo. I soldati cisalpini e la Legione Partenopea di Ettore Carafa. Di punto in bianco divento ufficiale di questa. Perdonatemi la mala creanza d'avervi impiantati cosí sgarbatamente; ma non ce n'ho colpa. La vita d'un uomo raccontata cosí alla buona non porge motivo alcuno ond'essere spartita a disegno, e per questo io ho preso l'usanza di scrivere ogni giorno un capitolo terminandolo appunto quando il sonno mi fa cascare la penna. Ieri sera ne fui colto quando piú mi facean d'uopo tutti i miei sentimenti chiari e svegliati per continuare il racconto, e cosí ho creduto di far bene sospendendolo fino ad oggi. Già non ne aveste altro incommodo che di dover voltare una pagina e leggere quattro righe di piú. La giovine greca nelle sue spoglie marinaresche era bella come una pittura del Giorgione. Aveva un certo miscuglio di robusto e di molle, d'arditezza e di modestia che un romito della Tebaide se ne sarebbe innamorato. Però io non mi lasciai vincere da questi pregi incantevoli; e con uno sforzo supremo m'apprestava a farla capace del suo strambo operare, a rammemorarla de' suoi genitori, di suo fratello, dei suoi doveri di morale e di religione, a persuaderla fors'anco che il suo non era amore ma momentanea frenesia che in due giorni si sarebbe sfreddata, a protestarle di piú schiettamente se n'era il bisogno, che il mio cuore era già preoccupato e che sarebbe stato inutile ogni sforzo per conquistarlo. A tanto giungeva il mio eroismo. Fortuna che non fu di mestieri; e che la sincerità della donzella mi sparagnò la ridicolaggine donchisciottesca d'una battaglia contro un mulino. - Non condannatemi! - riprese ella dopo aver parlato come esposi in addietro, e imponendomi silenzio d'un gesto - prima dovete ascoltarmi!... Emilio è il mio promesso sposo; egli non pensava certamente a mescolarsi in brighe di Stato, in macchinazioni e in congiure quando lo conobbi; fui io a spingerlo per quella via, e a procurargli la proscrizione che nudo di tutto, senza parenti senza amici e cagionevole di salute lo manda a soffrire, a morir forse in un paese lontano e straniero!... Giudicatemi ora; non era dover mio quello di tutto abbandonare, di sacrificar tutto per menomare i cattivi effetti delle mie esortazioni?... Lo vedete bene: Spiro avea torto nel volermi trattenere. Non è l'amore soltanto che mi fa fuggire la mia casa; è la pietà, la religione, il dovere!... Perisca tutto, ma che non mi resti nel cuore un sí atroce rimorso! Io rimasi, come si dice, di princisbecco; ma feci dignitosamente l'indiano e benché la vergogna mi salisse alle guance del granchio ch'era stato per prendere, pure trovai qualche parola che non dicesse nulla, e velasse momentaneamente il mio imbroglio. Soprattutto mi imbarazzava quel signor Emilio, nudo di tutto, malato, interessante che l'Aglaura diceva essere il suo promesso sposo e del quale io non avea mai sentito mover parola dai suoi. Probabilmente ella supponeva che Spiro me ne avesse parlato, infatti ella tirò innanzi a raccontare come se ne sapessi quanto lei. - La settimana passata - diss'ella - era assalita continuamente dall'idea di ammazzarmi: ma quando prima vidi voi, e sentii che avevate intenzione d'andare a Milano, un altro pensiero meno funesto per me e consolante per tutti mi balenò in capo. Perché non vi avrei seguito? Emilio era a Milano anch'esso. Un lungo silenzio mi teneva allo scuro di tutto ciò che lo riguardava. Uccidendomi non ne avrei saputo piú di prima, e neppure gli avrei recato alcun conforto; mentre invece raggiungendolo, mettendomigli al fianco, rimanendo sempre con lui, chi sa? avrei potuto attenuare le disgrazie che gli aveva tirato addosso colle mie smanie liberalesche. Decisi adunque che sarei partita con voi; perché in quanto al pormi in viaggio da sola, il pensarvi senz'altro mi spaventava. Figuratevi! Avvezza a metter cosí raramente il piede fuori di casa! Il coraggio no, ma mi sarebbe mancata la pratica e chi sa in quali impicci avrei potuto cascare! Invece colla scorta d'un amico onesto e fidato sarei ita sicura in capo al mondo. Presa questa deliberazione ne ventilai un'altra. Doveva io parteciparvi il mio disegno o seguirvi a vostra insaputa finché la nostra scambievole posizione vi obbligasse vostro malgrado a prendermi per compagna? La mia franchezza propendeva al primo partito; ma il timor d'un rifiuto e la cura della segretezza mi sforzarono al secondo. Tuttavia il maggior ostacolo restava da superarsi, ed era mio fratello. Fra lui e me formiamo siffattamente una anima sola che i pensieri si disegnano in lui mentre si coloriscono in me: siamo due liuti di cui l'uno ripete spontaneo e un po' confusamente i suoni toccati sulle corde dell'altro. Egli infatti travide il mio disegno fin dalla prima volta che voi foste in nostra casa; non dico ch'egli indovinasse il pensiero ch'io avea formato di accompagnarmi a voi, ma mi lesse chiara negli occhi la volontà di fuggire a Milano. Tanto bastava per render impossibile o almeno molto difficile questa fuga, perché io conosco l'immenso affetto serbatomi da mio fratello e ch'egli piuttosto torrebbe di morire che di separarsi da me. Cosa volete? Alle volte mi sembra che per un fratello questo amore sia troppo; ma egli è fatto cosí, e bisogna convenire che è un bel difetto. Non potreste immaginare le astuzie da me adoperate per cavargli di capo i suoi sospetti, le menzogne che sciorinai coll'aspetto piú ingenuo del mondo, le carezze che gli feci maggiori d'ogni consueto, l'affetto e la cura che dimostrava a tutte le cose di famiglia! Solamente chi si crede chiamata da Dio e dalla propria coscienza alla riparazione delle proprie colpe può far altrettanto e confessarlo senza morire di crepacuore e di vergogna. I miei vecchi genitori, Spiro stesso rimase ingannato. Guardate, io ne piango anche adesso! Ma Dio vuole cosí; sia fatta la sua volontà! Rimasero tutti ingannati come vi dico, e certo stamattina quando dissi le orazioni colla mamma e diedi il buon giorno al papà, nessuno avrebbe sospettato ch'io covava il disegno di abbandonarli dopo una mezz'ora, di mutarmi nell'arnese d'un marinaio, e di correre il mondo insieme a voi in penitenza de' miei peccati!... Omai son risoluta; il gran passo è fatto. Se Dio mi forní la forza di dissimulare per tanto tempo, e l'astuzia di ingannare guardiani cosí accorti ed amorosi, è segno ch'egli approva e difende la mia condotta. Egli provveda a riparar i mali che la mia fuga può cagionare!... Quanto ai miei genitori non ne ho gran paura!... Sia il mio sesso, o lo scarso merito, o la loro grave età volgente all'egoismo, io non m'accorsi mai che il loro affetto per me oltrepassasse i limiti della discrezione. Mia madre sembra alle volte pentita di avermi trascurata a lungo e mi colma di carezze che vorrebbero essere materne ma sono un po' troppo studiate; mio padre poi non si dà questa briga, egli si dimentica di me le intere giornate, e pare che mi tratti come gli fossi capitata in casa oggi e dovessi uscirne domani. Infatti noi femmine siamo pei padri un bene passeggiero, un trastullo per alcuni anni; ci considerano, credo, come roba d'altri, e certo mio padre non dimostrò mai ch'egli mi ritenesse per sua. Cosí vi dico, in quanto a loro non mi do grande affanno: saranno abbastanza tranquilli, se mi sapranno viva: ma è in riguardo a Spiro che non posso far a meno d'inquietarmi!... Io conosco la sua indole fiera e precipitosa, il suo cuore che non soffre né pazienza né misura! Chi sa quale scompiglio ne potrebbe nascere! Ma spero che l'amore e il rispetto ai nostri comuni genitori gli farà tenere qualche riserbo. D'altro canto gli scriverò, lo metterò in quiete, e pregherò sempre il cielo che mi conceda la grazia di riunirci. Cosí parlando ella s'era già rimessa a camminare verso dove io era avviato prima che mi rivolgessi ad affrontarla, ed io pure spensatamente le procedeva del paro. Ma quando ella terminò il suo racconto io mi fermai sui due piedi, dicendo: - Aglaura, dove n'andiamo ora? - A Milano dove n'andate voi - rispose ella. Confesso che tanta sicurezza mi confuse e mi rimasero in tasca inoperosi tutti gli argomenti che mi prefiggeva adoperare per dissuaderla da quell'avventato disegno. Vidi che non c'era rimedio, e pensai involontariamente alle parole di mio padre quando mi diceva che nella figliuola degli Apostulos io avrei trovato una sorella e che come tale l'avrei amata. Ch'egli fosse stato profeta? Pareva di sí; ad ogni modo io deliberai di non abbandonare la ragazza, di sorreggerla coi miei consigli, di seguirla sempre, di prestare insomma quei fraterni uffici che le venivano di diritto per l'antica amicizia professata da mio padre al padre suo. Se non fratelli eravamo a questo modo un pochetto cugini; e cosí mi posi in quiete, deciso di regolarmi in seguito secondo le circostanze e di non trascurar mezzo alcuno che valesse a ricondurre l'Aglaura nel seno della propria famiglia. Intanto non cangiai per nulla il mio progetto che era di tirar innanzi a piedi fino a un paesello lí presso; di guadagnar di colà il pedemonte con una carrettella, e cosí poi di carrettella in carrettella, di paese in paese, sguisciando fra le città e la montagna giungere al lago di Garda e farmi buttare da un battello sulla riva bresciana. Peraltro prima di mettere ad effetto la prima parte di questo piano chiesi con solennità alla donzella se veramente quel signor Emilio era il suo promesso sposo, e se l'aveva certe novelle ch'egli si trovasse infermo a Milano. - Mi domanda se Emilio è il mio fidanzato? Non conosce Emilio Tornoni? - sclamò con gran sorpresa l'Aglaura. - Ma dunque Spiro non ve n'ha mai parlato? - No, ch'io mi sappia - risposi io. - È una cosa molto strana - bisbigliò ella affatto tra i denti. Poi senza rompersi altro il capo mi dichiarò in breve come già prima che Spiro tornasse dalla Grecia ove si era fermato quindici anni presso un suo zio, ella era stata chiesta in isposa da Emilio, un bel giovine a udirla lei, e delle migliori famiglie dell'Istria, stabilito come ufficial d'arsenale a Venezia. Il ritorno del fratello e piú alcuni dissesti di fortuna che lo aveano reso necessario, ritardarono sulle prime le nozze; poi sopraggiunta la rivoluzione avea lasciato tutto sospeso, finché Emilio avea dovuto fuggire con tutti gli altri per la nefandità del trattato di Campoformio; ed ella continuava a protestarsi l'unica origine di questo guaio, come quella che aveva riscaldato il capo ad Emilio e distoltolo dalle sue occupazioni marinaresche per mescolarlo nei baccanali di quell'effimera libertà. Io me le opposi dimostrandole che un uomo è sempre responsabile delle proprie azioni, e suo danno se si lascia menar pel naso dalle donne. Ma l'Aglaura non volle rimettersi a quest'opinione, e persisteva nel ritenersi obbligata a raggiungere il suo fidanzato per compensarlo in qualche maniera di ciò che gli faceva soffrire. Circa alla sua malattia, e al trovarsi egli in Milano non poteva dubitarne, perché nell'ultima lettera le avea fatto sapere ch'egli non si sarebbe mosso di colà, e che se non riceveva suoi scritti in seguito, la ritenesse pure ch'egli era o morto o gravemente infermo. Forse il povero esule scrivendo quelle parole sentiva già i primi sintomi di quella malattia che lo teneva allora inchiodato sul letto pestilente d'uno spedale. L'immaginazione dell'Aglaura era cosí vivace che le pareva quasi di vederlo abbandonato all'incuria piucché alle cure d'un infermiere mercenario, e disperato di dover morire senza un suo bacio almeno sulle labbra. In questi discorsi giunsimo a un piccolo villaggio e là ci accomodammo d'un birroccio che ci trascinò fino a Cittadella. Narrarvi come l'Aglaura pigliasse filosoficamente gli incommodi e le fatiche di quel viaggiare alla soldatesca, sarebbe cosa da ridere. La notte si dormiva in qualche bettolaccia di campagna, dove c'era le piú volte una camera sola con un letto solo. Gli è vero che questo era pel solito tanto vasto da albergare un reggimento, ma la pudicizia, capite bene, non permetteva certi rischi. Appena entrati nella stanza si smorzava il lume; ella si spogliava e si metteva a giacere sul letto; io mi rannicchiava alla meglio sopra una tavola o in qualche seggiola di paglia. Guai se fossi stato avvezzo per tutta la mia vita alle mollezze dei materassi e dei piumini veneziani! In un paio di notti mi avrei logorato le ossa. Ma queste si ricordavano ancora per fortuna del covacciolo di Fratta e dei bernoccoli implacabili di quei pagliericci; perciò reggevano valorosamente al cimento e potevano sfidare al giorno seguente i trabalzi balzani d'una nuova carrettaccia. Cosí stentando, balzellando e convien dirlo anche ridendo, traversammo il Vicentino, il Veronese e giunsimo sul quarto giorno a Bardolino in riva alle acque dell'azzurro Benaco. In onta alle mie sventure, ai miei timori e alle distrazioni impostemi dalla compagna, mi ricordai di Virgilio, e salutai il gran lago che con fremito marino gonfia talvolta i suoi flutti e li innalza verso il cielo. Da lontano si protendeva nelle acque la vaga Sirmione, la pupilla del lago, la regina delle isole e delle penisole, come la chiama Catullo, il dolce amante di Lesbia. Vedeva il colore melanconico de' suoi oliveti, m'immaginava sotto le loro ombre vagante con soavi versi sulle labbra il poeta delle grazie latine. Rimuginava beatamente al lume della luna le mie memorie classiche; ringraziando in cuor mio il vecchio piovano di Teglio che m'avea dischiuso la sorgente di piaceri cosí puri, di conforti cosí potenti nella loro semplicità. Orfano si potea dire di genitori e di patria, balestrato non sapeva dove da un destino misterioso, tutore per forza d'una fanciulla che non m'era stretta da alcun legame né di parentela né d'amore, rivedeva tuttavia un barlume di felicità nelle poetiche immaginazioni di uomini vissuti diciotto secoli prima. Oh benedetta la poesia! eco armonioso e non fugace di quanto l'umanità sente di piú grande ed immagina di piú bello!... alba vergine e risplendente dell'umana ragione!... tramonto vaporoso e infocato della divinità nella mente inspirata del genio! Ella precede sui sentieri eterni ed invita a sé una per una le generazioni della terra: ed ogni passo che avanziamo per quella strada sublime ci dischiude un piú largo orizzonte di virtù di felicità di bellezza!... S'incurvino pure gli anatomici a esaminare a tagliuzzare il cadavere; il sentimento il pensiero sfuggono al loro coltello e avvolti nel mistico ed eterno rogo dell'intelligenza slanciano verso il cielo le loro lingue di fiamma. Andavamo via per la costa della collina, mentre l'oste ci imbandiva la cena d'una piccola trota e di poche sardelle. Io pensava a Virgilio a Catullo alla poesia; e Venezia e la Pisana e Leopardo e Lucilio e Giulio Del Ponte ed Amilcare e tutti morti vivi moribondi gli affetti del cuore tremolavano soavemente nei miei vaghi pensieri. L'Aglaura mi veniva appresso ravvolta nel suo cappotto e grave anch'essa la fronte di melanconiche fantasie. La luna le batteva per mezzo al volto e disegnandone il dilicato profilo ne vezzeggiava a tre tanti la greca bellezza. Mi pareva la musa della tragedia, quando prima si rivelò pensosa e severa all'estro di Eschilo. Tutto ad un tratto dopo un'erta faticosa della via giunsimo dov'essa radeva il sommo d'una rupe che impendeva precipitosa sul lago. La frana cadeva giù nera e cavernosa, sbiancata mestamente dalla luna in qualche nodo piú rilevato; di sotto l'acqua nereggiava profonda e silenziosa; il cielo vi si specchiava entro senza illuminarla, come succede sempre quando la luce non viene di traverso ma a piombo. Io mi fermai a contemplare quel tetro e solenne spettacolo che meriterebbe una descrizione finita da una penna piú maestra o temeraria della mia. L'Aglaura si protese sulla repente caduta della roccia, e parve assorta per un istante in piú tetre meditazioni. Ohimè! io pensava intanto ai tranquilli orizzonti, alle verdi praterie, alle tremolanti marine di Fratta; rivedeva col pensiero il bastione di Attila e il suo vasto e maraviglioso panorama che primo m'avea incurvato la fronte dinanzi la deità ordinatrice dell'universo. Quanti fiori di mille disegni, di mille colori racchiude la natura nel suo grembo, per ispanderli poi sulla faccia multiforme dei mondi!... Mi riscossi da cotali memorie a un lungo e profondo sospiro della mia compagna: allora la vidi avventarsi in avanti e rovinar capovolta nell'abisso che le vaneggiava a' piedi. Mi scoppiò dalla gola un grido cosí straziante che impaurí quasi me stesso; lo spavento mi drizzava i capelli sul capo e mi sentiva attirare anch'io dal vorticoso delirio del vuoto. Ma raccapricciava al pensiero di volgere un'occhiata a quella profondità e fermarla forse nelle spoglie inanimate e sanguinose della misera Aglaura. In quella mi parve udire sotto di me e non molto lontano un fioco lamento. Mi chinai sul ciglio della rupe, intesi l'orecchio e raccolsi un gemito piú distinto; era dessa, non v'avea dubbio: viveva ancora. Aguzzai gli occhi a tutto potere e scorsi finalmente fra un macchione di cespugli una cosa nera che somigliava un corpo e pareva esservi rimasta appesa. Impaziente di recarle soccorso e di sottrarla al pericolo imminente d'un ramo che si spezzasse o d'una radice che cedesse, mi calai giù risoluto per la parete quasi verticale della roccia. Strisciava lungh'essa rapidamente col viso coi ginocchi coi gomiti, ma lo strisciamento stesso e qualche cespo d'erba cui mi aggrappava nel passare rompevano il soverchio precipizio della discesa. Non so per qual miracolo arrivassi sano e salvo, cioè almeno colle gambe intiere e colle vertebre bene inanellate, alla macchia di cornioli che l'aveva trattenuta. Allora non avea tempo da maravigliarmi; la ritrassi dalla spinaia in cui era impigliata coi gheroni del cappotto e la addossai ancor semiviva al dirupo. Senz'acqua senza nessun aiuto in quel ginepraio che aveva figura d'un gran nido di aquilotti, io non poteva altro che aspettare ch'ella rinvenisse o guardarla morire. Aveva udito dire che anche il soffio giovasse a ridonare i sensi agli smarriti per qualche commozione violenta, e mi diedi a soffiare negli occhi e sulle tempie spiando ansiosamente ogni suo minimo movimento. Ella dischiuse alfine le ciglia; io respirai come se mi si togliesse di sopra al petto un enorme macigno. - Ahimè! sono ancor viva! - mormorò ella. - Dunque è proprio segno che Dio lo vuole!... - Aglaura, Aglaura! - le diss'io all'orecchio con voce supplichevole ed affettuosa - ma dunque non avete nessuna fede in me?... dunque la mia protezione, la mia compagnia hanno finito di rendervi fastidiosa la vita!.... - Voi, voi? - soggiunse languidamente - voi siete il piú fido e diletto amico ch'io m'abbia: per voi io mi condannerei a vivere, se fosse di bisogno, il doppio del tempo destinatomi dalla sorte. Ma che valore ha mai la mia vita pel bene degli altri?... - Ne ha uno di grandissimo, Aglaura! Prima di tutto pei vostri genitori, per vostro fratello che vi ama, vi adora, e voi sola ne sapete il quanto! indi perché vi è un cuore al mondo che ha diritto d'amore e di padronanza sul vostro. Voi amate, Aglaura; voi avete perduto il diritto d'uccidervi, dato che persona possa mai avere questo diritto. - Ah sí è vero, io amo! - rispose la donzella con un certo suono di voce che non avvisai se provenisse da affanno di respiro o da amarezza d'ironia. - Io amo! - ripeté ella, e questa volta con tutta la sincerità dell'anima. - Deggio vivere per amare: avete ragione, amico!... Datemi braccio che torneremo a casa. Io le feci osservare che di colà non si poteva né salire né scendere senza pericolo, e che ad ogni modo non sarebbe stata prudenza l'avventurarvisi dopo il suo lungo svenimento. - Son piú greca che veneziana - sclamò ella rizzandosi alteramente. - Svenni per oppressione di respiro, non per dolore né per paura; ve ne prevengo e credetemelo. Quanto al partire di qui, se salire non si può, scendere si potrà sempre. Non vedete quanto maestrevolmente vi siamo discesi noi! I miei ginocchi s'accorgevano della maestria, ed ella s'era calata a volo, ma non son prove da tentarsi due volte. Tuttavia non opposi obbiezioni temendo ch'ella mi giudicasse piú veneziano che greco. - Laggiù lungo il lago - riprese ella - è un renaio che seguita, mi pare, fino al porto di Bardolino. Messivi i piedi sopra saremo sicuri della strada. - Il piú bello sarà di metterveli i piedi - soggiunsi io. - Badate - diss'ella - e seguitemi. In queste parole abbrancandosi ad un ramo che sporgeva noderoso e flessibile si spenzolò dalla rupe; indi abbandonò il ramo e la vidi scendere strisciando come poco prima avea fatto io. Un minuto dopo ella poggiava le piante sulla sabbia molle e umidetta dove veniva a sussurreggiare morendo l'onda del lago. Potete credere che non volli mostrarmi dammeno d'una donna; arrischiai anch'io il gran salto, e con un secondo screzio di botte e di scorticature la raggiunsi che non mi parve vero di averla pagata cara. Allora volsi al cielo un sospiro cosí pieno di ringraziamenti che l'aria dovette accorgersene al peso; la mia compagna invece camminava lesta e saltellante come uscisse dal ballo o dal teatro. E dire che un quarto d'ora prima s'era precipitata volontariamente da un'altezza di due campanili! Donne, donne, donne!... quali sono i nomi dei centomila elementi, sempre nuovi, sempre varii, sempre discordi che vi compongono? - Io non aveva mai veduta l'Aglaura cosí lieta, cosí briosa come allora dopo avermi giuocato quel mal tiro da disperata. Soltanto quand'io voleva ridurla a darmene ragione ella stornava il discorso con un poco di broncio; ma lo ravvivava indi a un istante con maggior brio e con doppia petulanza. - Volete proprio saperlo?... Son pazza, e finiamola! Cosí mi chiuse la bocca da ultimo, e non se ne parlò piú infatti. Tanto fu allegra spensierata ciarliera nel resto della passeggiata che comunicò anche a me qualche parte del suo buon umore, e se i miei ginocchi ricordavano molto, la mente per quella mezz'ora si dimenticò di tutto. - Quello che mi dispiace si è che mangeremo la trota fredda e le sardelle rinvenute! - disse scherzando l'Aglaura quando eravamo per toccare il lastrico del porto. Dico il vero che per quanto mi fossi riavuto, non aveva ancora le idee cosí chiare da ripescarvi per entro le sardelle e la trota. Però risi a fior di labbra di questo rammarico dell'Aglaura, e le promisi una frittata se il pesce non conferiva. - Ben venga la frittata e voglio voltarla io! - sclamò la fanciulla. Saffo che dopo il salto di Leucade rivolta la frittata è un personaggio affatto nuovo nel gran dramma della vita umana. Or bene, io vi posso assicurare che quel personaggio non è una grottesca finzione poetica, ma ch'esso ha vissuto in carne ed ossa, come appunto viviamo io e voi. Infatti l'Aglaura, non trovando di suo grado la trota, si mise alla padella a sbattervi le ova; io credo che la povera trota fosse ignominiosamente calunniata pel ruzzo ch'era saltato alla donzella di cavarsi questo capriccio. Io ammirava a bocca aperta. China col ginocchio sul focolare, col manico della padella in una mano, e il coperchio nell'altra che le difendeva il viso dal fuoco, ella pareva il mozzo d'un bastimento levantino che si ammannisce la colazione. La frittata riuscí eccellente, e dopo di essa anche la trota si vendicò del sofferto dispregio facendosi mangiare. Le sardelle adoperarono del loro meglio per entrare anch'esse dov'era entrata la trota. Infine non rimasero sui piatti che le reste, e d'allora in poi io mi persuasi che nulla serve meglio ad aguzzar l'appetito quanto l'aver cercato di ammazzarsi un'oretta prima. L'Aglaura non ci pensava piú affatto; io pure m'avvezzava a riguardare quel brutto accidente come un sogno ed una burla, e lo stomaco lavorava con sí buona voglia che mi pareva impossibile dopo l'affannoso batticuore di pochi momenti prima. Confesso che anche ora ci veggo della magia in quel furioso appetito; quando non fosse l'Aglaura che mi stregava. Ogni sardella che inghiottiva era un brutto pensiero che volava ed un gaio e ridente che capitava. Rosicchiando la coda dell'ultima giunsi a immaginare la felicità che avrei provato in un tempo di calma di amore d'armonia goduto insieme alla Pisana su quelle piagge incantevoli. "Chi sa!" pensai trangugiando il boccone. Ed era tutto dire tanta confidenza nella buona stella dopo il temporalone di quella sera! Tanto è vero che gli estremi si toccano, come dice il proverbio, e che Bertoldo aveva ragione di sperar maggiormente il sereno durante la piova. Quella infine fu la serata piú gioconda e piacevole che passassi coll'Aglaura durante quel viaggio; ma molto forse ci poteva la contentezza di vederci salvi da un sí gran pericolo. Accompagnandola nella sua stanza (l'osteria di Bardolino aveva fino dal secolo scorso pretensione d'albergo) non mi potei trattenere dal dirle: - Non me ne farete piú, Aglaura, di cotali paure, n'è vero? - No, certo, e ve lo giuro - mi rispose ella stringendomi la mano. Infatti il mattino appresso traversando il lago, e i giorni seguenti viaggiando pei neonati dipartimenti della Repubblica Cisalpina ella fu cosí serena e composta che me ne stupiva sempre. Ed io piú volte m'arrischiai allora di toccarla sul tasto di quella stramba volata, ma ella sempre mi dava sulla voce, dicendo che già me lo avea confessato le cento volte che la era pazza, e che rimanessi pur tranquillo che almeno in quella pazzia non ci sarebbe incappata piú. Cosí entrammo abbastanza felici in Milano dove l'eroe Buonaparte con una dozzina di piastricciatori lombardi si dava attorno per improvvisare un ritratto abbozzaticcio della Repubblica Francese una ed indivisibile. Era il ventuno novembre; una folla immensa e festosa traboccava di contrada in contrada sul corso di Porta Orientale e di là fuori nel campo del Lazzaretto, battezzato novellamente pel campo della Federazione. Tuonavano le artiglierie, migliaia di bandiere tricolori sventolavano; era uno scampanio a festa, un gridare, un lanciar di cappelli, un agitarsi di fazzoletti di teste di braccia in quella calca allegra tumultuosa e non pertanto calma e dignitosa. Né io né l'Aglaura ebbimo cuore di fermarci in una camera mentre alla luce del sole, alla libera aria del cielo doveva inaugurarsi poco stante il governo stabile ed italiano della Repubblica Cisalpina. Posto giù il mio fagotto e senza ch'ella volesse deporre il travestimento virile ci mescolammo alla gente, contentissimi di esser giunti in tempo di quel solenne e memorabile spettacolo. Giunti al luogo dove l'Arcivescovo benediceva le bandiere fra l'altare di Dio e quello della patria, in mezzo ad un popolo innumerevole e fremente, dinanzi all'autorità popolare del nuovo governo, e alla gloriosa tutela di Bonaparte che assisteva in un seggio speciale, confesso anch'io che tutti gli scrupoli m'uscirono di capo. Quella era proprio la vita d'un popolo, e fossero stati Francesi o Turchi a risvegliarla, non ci trovava nulla a ridire. Quei volti quei petti quelle grida erano piene di entusiasmo e di fausti e grandi presagi: quella subita concordia di molte provincie divelte da varia soggezione straniera per comporre una sola indipendenza una sola libertà, era incentivo alle immaginazioni di maggiori speranze. Quando il Serbelloni, presidente del nuovo Direttorio, giurò per la memoria di Curzio di Catone e di Scevola che manterrebbe se fosse d'uopo colla vita il Direttorio la costituzione le leggi, quei grandi nomi romani s'intonavano perfettamente alla solennità del momento. Se ne ride ora che sappiamo il futuro di quel passato; ma allora la fiducia era immensa; le virtù repubblicane e la operosa libertà del Medio Evo parevano cosa da poco; si riappiccavano arditamente alla gran larva scongiurata da Cesare. Fra quel carnovale della libertà la mente mi corse talora a Venezia, e sentiva inumidirmisi gli occhi; ma l'imponenza presente scacciava la memoria lontana. I manifesti e le dicerie di quel giorno furono cose tanto pregne, che le lusinghe lasciate travedere dal Villetard ai Veneziani non parevano né bugiarde né fallaci. I Veneziani che assistevano alla festa piangevano piuttosto di commozione che di dolore, e d'altronde si stimava impossibile che la Francia, dopo aver donato la libertà a provincie serve e dapprima indifferenti, volesse negarla a chi l'avea sempre posseduta, e mostrato fino all'estremo di averla carissima. Bonaparte tornava in cima nell'affetto e nell'ammirazione di tutti; al piú si mormorava del Direttorio francese che gli tenea legate le mani, solita scusa di questi ladri e truffatori della pubblica gratitudine. Io pure mi diedi a credere che il trattato di Campoformio fosse una necessità del momento, una concessione temporanea per riprender poscia piú di quanto si era dato; e a veder daccosto le opere di quei Francesi e la civiltà dei Cisalpini, non mi sorprese piú che Amilcare mi scrivesse, affatto guarito dai suoi delirii di Bruto, e che Giulio Del Ponte e Lucilio si fossero inscritti nella nuova Legione lombarda, nocciolo di eserciti futuri. Io cercava dello sguardo questi miei amici nelle schiere delle milizie disposte a rassegna nel campo del Lazzaretto; e mi parve infatti discernerli benché per la distanza non mi potessi assicurare. Quello che raffigurai perfettamente fu a capo d'un drappello francese Sandro, il mio amico mugnaio, con grandi pennacchi in testa e ori e fiocchi sulle spalle ed al fianco. Mi pareva impossibile che l'avessero fregiato di tanti splendori in sí breve tempo, ma l'era proprio lui, e se fosse stato un altro, bisognava gettar via la testa, tanto ingannava la rassomiglianza. Chiesi anco all'Aglaura se le venisse fatto di scernere il signor Emilio, ma la mi soggiunse asciutto asciutto che non lo vedeva. Ella sembrava occuparsi piucché altro della festa, e le sue grida e il suo picchiar di mani colpirono tanto i piú vicini che le fu fatto bozzolo intorno. - Aglaura, Aglaura! - le bisbigliava io. - Ricordati che sei donna! - Sia donna o uomo che importa? - rispose ella ad altissima voce. - Gli adoratori della libertà non hanno differenza di sesso. Sono tutti eroi. - Bravo! brava! Ben detto! È un uomo! È una donna! Viva la Repubblica! Viva Bonaparte!... Viva la donna forte!... Dovetti trascinarla via perché non me la portassero in trionfo; ella si sarebbe accomodata, credo, molto volentieri di questa cerimonia, e le vedeva errare negli occhi un certo fuoco che ricordava il furore d'una Pizia. A gran fatica potei condurla in un altro canto dove si raccoglieva una gran turba femminile, la piú molesta e ciarliera che avesse mai empito un mercato. Era una vera repubblica, anzi un'anarchia di cervelli leggieri e svampati; per me non conosco essere che dica tante bestialità quanto una donna politica. Giudicatene da quanto ne udii allora! - Ehi - diceva una - non ti pare che avrebbero fatto meglio a vestirlo di rosso il nostro Direttorio?... Cosí tinti in verdone coi ricami d'argento mi sembrano i cerimonieri dell'ex-Governatore. - Taci, là! sciocca - rispondeva l'interrogata - la severità repubblicana porta i colori oscuri. - Ah ci chiama severità lei? - s'intromise una terza. - Se sapesse cos'hanno fatto due tenentelli francesi alla figlia di mia sorella!... - Eh calunnie! saranno nobili travestiti!... Morte ai nobili!... Viva l'eguaglianza! - Viva, viva: ma intanto dicono che quei signori del Direttorio siano quasi tutti aristocratici. - Sí, lo erano, figliuola mia; ma li hanno purificati. - Diavolo! come si fa questa operazione?... - Eh non lo sai, no?... Non hai mai visto in San Calimero il quadro della Purificazione?... Si portano in chiesa due tortore e due colombini. - E dee proprio bastare? - Il resto lo sapranno i preti; per me mi basta che siano purificati e non m'importa tanto del cerimoniale! Ehi! Lucrezia, Lucrezia! guarda là tuo fratello che bella figura ci fa col suo schioppo in ispalla e la coccarda sul cappello! - Eh lo vedo io! Se non fossi sua sorella me ne innamorerei!... Sai ch'egli ha giurato di ammazzare tutti i re, tutti i principi e perfino il papa?... - Sí?... Bravo lui, per diana! è capace di mantener la promessa. L'ho veduto io rompere il muso ad uno sbirro perché gli avea pestato sul piede all'osteria. Viva la Repubblica!... Tutte quelle gole infaticabili si unirono allora a quel grido frenetico. Viva la Repubblica!... Viva Buonaparte!... Viva la Repubblica Cisalpina!... - Ehi! - chiese timidamente alle compagne quella che voleva vestir di scarlatto il Direttorio. - Sapresti dirmi dov'è e che cos'è questa Repubblica?... Io non la vedo... È forse come Maria Teresa che stava sempre a Vienna e ci mandava qui un sottocuoco! - Morte al Governatore! - gridò l'altra per purificarsi intanto le orecchie dalle memorie servili richiamatele dalla compagna. - Indi si mise a darle una idea chiara di quel che fosse Repubblica, accertandola ch'essa era come una padrona che non si prende cura di nulla, che vive e lascia vivere, e non fa lavorare la povera gente a profitto dei ricchi. - Vedi - soggiungeva essa. - La Repubblica c'è ma nessuno l'ha mai veduta; cosí non se ne prendono soggezione, e ciascuno può gridare fare girare strepitare a sua posta; come se non ci fosse nessuno. - Eh cosa dite mai che non c'è nessuno? - s'intromise con una vociaccia arrocata dal gran gridare la Lucrezia. - Non vedete che ci sono i Francesi ed anco i Cisalpini? - Giust'appunto - tornò a chiedere la prima - cosa vuol dire questa Cisalpina? - Caspita! è un nome come Teresina, Giuseppina e tanti altri. - No, no, ve lo dirò io cosa vuol dire! - soggiunse la Lucrezia - costei non ne sa proprio nulla. - Come non ne so nulla?... Tu eh, sei proprio la dottorona! - Minchiona! non vuoi che me ne intenda? ho ballato intorno all'albero facendo la parte del Genio della libertà; e ho mio fratello nella Legione Repubblicana!... Io aspettava con tanto d'orecchi questa definizione della Repubblica che stentava a venire, e non badava ai delegati di Mantova e delle Legazioni, non ancora unite alla Cisalpina, che oravano in quel frattempo dinanzi al Direttorio, con grande e nuova testimonianza d'italiana concordia. - Dunque dunque, via, cos'è questa Repubblica Cisalpina? - chiese con mio gran conforto quella che mi pareva la piú sciocca e pettegola. - Cos'è? cosa vuol dire? - gridò fieramente la Lucrezia. - Vuol dire che la Cisalpina c'è e che la Repubblica saprà mantenerla. L'ha detto e giurato anche il Serbelloni: e il general Buonaparte è d'accordo con lui. - Per me non mi piace nulla quel general Buonaparte; è magro come un quattrino, e ha i capelli morbidi come chiodi. - Oh non è nulla, figliuola mia! ne vedrai ben di piú belle! È il continuo furore delle battaglie che gli ha ridotto le guance e la capigliatura a quel modo. Vedrai mio fratello quando tornerà dalla guerra. Scommetto che non potrà piú mettersi il cappello! - Fai ingiuria a tua cognata, Lucrezia! non dire di queste cose!... Lí successe un nuovo diverbio per l'improntitudine di questo scherzo in momenti tanto solenni. Le donne finirono coll'accapigliarsi, e le vicine a dar loro addosso perché si calmassero. Intervenne un caporale francese che col calcio del fucile mise ordine a tutto. Avea ben ragione quella che aveva affermato poco prima che anziché esserci nessuno c'erano i Cisalpini e per giunta anche i Francesi. Dei Francesi sopratutto non si potea dubitare che non ci fossero. A guardarci bene essi aveano ordinato il Governo, scelto il Direttorio, nominati i membri delle congregazioni, i segretari, i ministri; e s'aveano riserbato il diritto di eleggere a suo tempo i membri del Consiglio grande e di quello dei Seniori. Ma il popolo nuovo a quel fervore di vita aveva anche troppo che fare nell'eseguire. Dall'ubbidire pecorilmente e male all'ubbidire attivamente e bene s'avea fatto un gran salto; il resto verrebbe dopo, Buonaparte mallevadore. Confesso che allora anch'io partecipai generosamente alle illusioni comuni, né peraltro le chiamo illusioni se non pel tracollo che diedero poi. Del resto s'avevano grandissimi ed ottimi argomenti di sperare. Quel giorno infatti fu un gran giorno, e degno di essere onorato dai posteri italiani. Segnò il primo risorgimento della vita e del pensier nazionale: e Napoleone, in cui sperava allora e del quale mi sfidai poscia, avrà pur sempre qualche parte della mia gratitudine per averlo esso affrettato nei nostri annali. Venezia doveva cadere; egli ne accelerò e ne disonorò la caduta. Vergogna! Il gran sogno di Macchiavello dovea staccarsi quandocchesia dal mondo dei fantasmi per incombere attivamente sui fatti. Egli ne operò la metamorfosi. Fu vero merito, vera gloria. E se il caso gliela donò, s'egli cercolla allora per mire future d'ambizione, non resta men vero che il favore del caso e l'interesse della sua ambizione cospirarono un istante colla salute della nazione italiana, e le imposero il primo passo al risorgimento. Napoleone, colla sua superbia, coi suoi errori, colla sua tirannia, fu fatale alla vecchia Repubblica di Venezia, ma utile all'Italia. Mi strappo ora dal cuore le piccole ire, i piccoli odii, i piccoli affetti. Bugiardo ingiusto tiranno, egli fu il benvenuto. Se cosí infervorato era io, figuratevi poi l'Aglaura; la quale, senza ch'io vel dica, avrete già conosciuto che aveva una testa voltata affatto a quegli entusiasmi di repubblica e di libertà! A cotali sue preoccupazioni io ascrissi per quel giorno la poca cura ch'ella si avea dato del suo Emilio; ma la sera le ne mossi parola quando ci fummo allogati in due camerette d'un'umilissima locanda sul corso di Porta Romana. - Siete voi - mi rispose ella - a immaginarvi ch'io non me ne prenda cura! Invece stamattina non ho fatto altro che cercarlo cogli occhi, e se non m'è riescito di scoprirlo, non è mia colpa... Ma non avete voi qui a Milano molti amici veneziani de' quali vi proponete andar in traccia questa sera?... Or bene, uscite dunque e menateli; per mezzo loro saprò qualche cosa. Io mi aggiusterò intanto alla meglio queste vesti di donna che mi avete comperato. Grazie, sapete, amico mio! Vi giuro che ve ne sarò grata eternamente. Ma sopratutto se incontraste Spiro fate il gnorri sul conto mio. Non mi maraviglierei punto ch'egli ci avesse preceduto a Milano. Io le promisi di fare com'ella domandava, ma la pregai dal canto mio di mantenere la sua promessa e di dar contezza di sé ai genitori. Ella me lo promise, ed io n'andai per primo passo alla posta a vedere se ci erano lettere per me e per lei. Ve n'aveano quattro, tre delle quali per me; e due di queste della Pisana. Questa mi dava notizia nell'una di quanto era accaduto dopo la mia fuga; l'altra non recava che lamenti sospiri lagrime per la mia assenza, e smanie di riabbracciarsi presto. Rimasi strabiliato di quanto mi narrava. Sua Eccellenza Navagero aveva mandato fuori di casa sua la cugina contessa; e questa era tornata col figlio, che aveva racquistato il suo posto nella Ragioneria. Il Venchieredo padre avea strepitato assai per la mia fuga; e gridato e tempestato che avrebbe posto il sequestro sopra tutti i miei beni; ma siccome null'altro avea trovato che una grama casuccia, cosí s'era calmato da quella febbre di zelo, ed anche la casa se l'erano dimenticata e la Pisana continuava ad abitarvi. Sembra peraltro che le intercessioni di Raimondo avessero potuto molto a imporre qualche misura a cotali rappresaglie; perché il destro giovinotto non s'aveva scordato affatto le civetterie della Pisana, e allora anzi pareva che vi ripensasse sul grave. Almeno io ne sospettai qualche cosa per avermi dessa scritto che un giorno impensatamente aveva ricevuto una visita della Doretta. Certo era opera di Raimondo che per mezzo della ganza cercava introdursi; la Doretta lo serviva ciecamente, libero poi a lui buttar via lo strumento quando ne avesse ottenuto lo scopo. La dimestichezza di questa genia colla Pisana non mi garbava né punto né poco; e deliberai di scriverlene una paterna solenne perché badasse a tenersela lontana. Gli è vero ch'ella rideva e ci scherzava sopra, ma non si può preveder tutto; e con quel suo cervellino!... "Basta!" pensava "facciano presto i Francesi a raccendere la miccia, se no me la vedo proprio brutta. Quella pazzerella vuol essere amata molto e molto davvicino per continuar ad amare; e questo esperimento della lontananza non vorrei prolungarlo di troppo". Altre due notizie molto mirabili erano il chiasso che menava ancora il Partistagno per la Clara, e l'insediamento del padre Pendola in un canonicato di San Marco. Il primo, fatto da poco capitano di cavalleria negli eserciti imperiali, credo mediante la protezione del famoso zio barone, sussurrava coi suoi sproni notte e giorno dinanzi il convento di Santa Teresa; tantoché la madre Redenta aveva chiesto una sentinella per rinforzare la difesa della portinaia. E la sentinella s'affacendava notte e giorno a presentar l'arma al terribile Partistagno che passava e ripassava continuamente. Gli aveano proprio fatto credere che la Contessa avesse sforzato la Clara a monacarsi per invidia ed odio che nutriva contro la famiglia di lui. Perciò s'era riscaldato ancora a volersene vendicare: e fra le altre avea messo in opera anche il mezzo pericolosissimo di comperare molti crediti ipotecari sui poderi di Fratta, e tempestare con petizioni e con precetti esecutivi sulle ultime reliquie di quello sfortunato patrimonio. Certo il Partistagno di per sé non era capace di astuzie cosí diaboliche; ma vi si travedeva sotto la zampa infernale del vecchio Venchieredo che dopo la sua condanna avea giurato un odio infinito alla famiglia del Conte di Fratta fino all'ultima generazione. Intanto fra le sue angherie, quelle del Partistagno, i rubamenti di Fulgenzio che lo secondavano, e l'incuria del conte Rinaldo che coronava l'opera, la sostanza di attiva s'era fatta passiva, e un fallimento poteva essere poco meno che una buona speculazione. Il castello abbandonato da tutti cadeva in rovina; e appena la camera di Monsignore aveva le imposte alle finestre ed agli usci. Nelle altre, fattori gastaldi e malandrini aveano fatto man bassa: chi vendeva i vetri, chi le serrature, chi i mattoni dei pavimenti, chi le travi del soffitto. Al povero Capitano aveano sconficcato la porta; per cui la signora Veronica soffriva peggio che mai di tossi e di raffreddori e a lui era cresciuta del cinquanta per uno la gravezza della croce maritale. Marchetto avea lasciato il castello, e di cavallante s'era mutato in sagrestano della parrocchia. Bizzarra mascherata!... Ma i buli non si usavano piú e bisognava diventar santi. Quello che v'aveva di piú terribile in tutto ciò si era che la Contessa, anziché ricavar danari dalle possessioni, non riceveva altro che cedole di crediti e minacce esecutive. Non la sapeva piú da qual banda voltarsi, e se non fossero stati quei pochi frutti della dote della Pisana le sarebbe mancato addirittura il pane. Tuttavia la giocava sempre, e le scarse mesate di Rinaldo passavano il piú delle volte nelle tasche senza fondo di qualche baro matricolato. Le notizie di Fratta la Pisana diceva averle avute dai suoi zii di Cisterna che coi loro figliuoli s'erano accasati a Venezia sperando di avviarli utilmente in qualche carriera pel favore che la loro famiglia godeva presso i Tedeschi. Sí da un partito che dall'altro era una gran ressa di mani intorno ai denari del povero pubblico. Chi volete che restasse in mezzo o lontano da ambidue, dove non c'era lusinga di beccar nulla al mondo? Confesso la verità che di cotali miracoli ne vidi pochissimi in mia vita; e nessuno quasi in uomini d'età matura. Il disprezzo degli onori e delle ricchezze si appartiene alla gioventù. Sappia ella tenersi cara questa sua dote santissima, la quale sola rende possibili i grandi intendimenti e facili le magnanime imprese. L'altra lettera che mi capitava era del vecchio Apostulos. Avvisavami della fuga della figlia e delle misure prese per rintracciarla in ogni luogo fuori che a Milano. In questa città un tale incarico era affidato a me. Ne chiedessi conto, la cercassi; e trovatala o la rimandassi a Venezia o la trattenessi meco secondo il miglior grado di lei. Certo egli non vorrebbe usare i diritti della paternità sopra una figlia ribelle e fuggitiva. Facesse ella di suo capo; egli non la malediceva, ché i pazzi non lo meritano, ma la dimenticava. Peraltro in un poscritto aggiungeva che aveva disposto per le indagini piú minute nelle altre città di terraferma, e che di colà i suoi corrispondenti avevano ordine di riaccompagnargli tosto la colpevole. Solo transigeva in favor mio: e se vedeva che l'aberrazione della ragazza potesse guarirsi meglio a Milano che a Venezia, adoperassi secondo le circostanze. - Queste ultime parole erano sottosegnate, ma io non ne capii affatto il recondito significato. Pensai di chiederne lo schiarimento all'Aglaura, se con esse forse non si alludesse ad un matrimonio col signor Emilio; ma non intendeva allora la ragione di parlarne con tanto mistero. Era certo un curioso destino il mio di esser creduto da ciascuna parte il confidente dell'altra; e tutti mi parlavano a cenni, a mezze parole, dalle quali non ci capiva piú che sull'arabo. Del resto, di mio padre nessuna nuova ancora; ma non se ne speravano fino al Natale, e le notizie generali di Levante erano buone. Con tutto questo viluppo di pensieri, di novità, di imbrogli, di misteri pel capo, mi fermai ad un caffè a chiedere ove fosse la caserma della Legione Cisalpina. Mi risposero a Santa Vicenzina, due passi dalla Piazza d'Armi. Io ne sapeva con ciò meno di prima; ma a forza di domandare, di voltare, di ridomandare e di camminare ancora, giunsi ove desiderava. La disciplina non era molto esemplare in quella caserma; si entrava e si usciva come in un porto franco. La confusione il rumore e il disordine non potevano esser maggiori. I capi attendevano a pavoneggiarsi nelle loro nuove assise e a farsene argomento di conquista sul cuor delle belle prima di recarle in campo, spavento dei nemici. I subalterni e i minimi litigavano sempre fra loro, perché ai primi sembrava dover essere primi per ragione di grado; e i secondi del pari per la prammatica repubblicana che tendeva a rialzar gli ultimi. S'avrà un bel che fare ma questo viluppo dell'uguaglianza e della dipendenza stenteremo ad accomodarlo; massime tra noi dove non v'è capo d'oca che non si appropri il famoso Tu regere imperio populos di Virgilio: "ed un Marcel diventa Ogni villan che parteggiando viene!" ebbe a dire anche Dante. Sarà forse un pregio dell'indole italiana tralignato in difetto per le condizioni mutate dei tempi. Com'è certo che la superbia si affà molto al leone nel deserto ma gli sconviene affatto in gabbia. Peraltro, direte voi, quello che fu potrebbe essere, e col battere e ribattere, coll'educazione, coll'abitudine molto si ottiene. Io pure vi dirò che ci spero non poco, massime se non ci aduleremo a vicenda; e del resto mi appiglio piú volentieri alla boria permalosa dell'Italiano, che alla genuflessa obbedienza dello Slavo ubbriaco. Qui ci sarebbe posto ad una gran dissertazione sopra l'opinione di coloro che si aspettano dagli Slavi l'ultima verniciatura di civiltà; come fanno merito alla Germania del maggior lavoro; e a noi, poveretti bastarducci di Roma, non lasciano altro vanto che quello d'un primo disegno, un po' ideale, un po' falso se volete, ma pure un po' nostro a quanto pare. Contro cotali detrattori delle razze latine sarebbe tempo perduto lo scrivere dei volumi; basterà additare ed aprire quelli già stampati. L'Italia il passato, la Francia ha in mano, checché ne dicano, il presente del mondo. E il futuro? lasciamolo agli Slavi, ai Calmucchi anche, se se ne accontentano. Io per me credo che quel futuro sarà sempre futuro. Tuttociò peraltro non iscusava per nulla della sua trasandatezza, della sua insubordinazione la Legione Cisalpina. Lasciamo da un canto la questione del valore; ma vi assicuro che in quanto a disciplina e a bell'assetto le famose Cernide di Ravignano ci avrebbero fatto un'onesta figura. Cosa ne avrebbe detto il teorico teoricissimo capitano Sandracca il quale affermava che in un reggimento ben ordinato un soldato dovea somigliare all'altro piú che fratello a fratello, tanta aveva ad essere l'influenza assimilatrice della disciplina?... Io scommetto invece che, a chi avesse trovato fra i legionari lombardi due che portassero l'ugual taglio di barba, si avrebbe potuto regalare il costo del Duomo di Milano. La storia della moda ci aveva in questo particolare i suoi esemplari da Adamo fino ai Babilonesi agli Ostrogoti e ai granatieri di Federico II. Chiesi conto del dottor Lucilio Vianello, di Amilcare Dossi, e di Giulio Del Ponte ad un soldatuccio sudicio ed ingrognato che per la mercede d'un mezzo boccale lustrava rabbiosamente le scarpe d'un suo collega. - Sono della prima schiera: voltate a sinistra - mi rispose quell'ilota dell'eguaglianza. Io voltai a sinistra e ripetei la mia inchiesta ad un altro milite ancor piú sporco del primo che strofinava con olio e stoppacci la canna d'un fucile. - Canchero, che Dio li maledica, li conosco tutti e tre! - rispose costui. - Vianello è appunto il medico della compagnia, quello che ci scanna tutti per ordine dei Francesi che sono stanchi di noi... Sapete, cittadino, che hanno chiuso la Sala dell'Istruzione pubblica?... - Non ne so nulla - diss'io - ma dove potrei... - Aspettate; come vi diceva, Vianello è il medico, Dossi è l'alfiere della mia compagnia, e Del Ponte è il caporale, una figura di morte briaca che non può regger in piedi, e mi butta sulle spalle tutti gli incommodi del servizio. Guardate, questo è il suo schioppo che mi tocca sfregolare!... Colla bella festa di stamattina!... Farci star dieci ore ritti ritti come pali a odorar il vento che sapeva d'inverno piú del bisogno!... Canchero, ci siamo inscritti per far la guerra, per distruggere la stirpe dei re e degli aristocratici, noi! non per far la corte al Direttorio e portargli la candela in processione!... Per cotal mestiere mandino a chiamare gli staffieri dell'Arciduca Governatore. È una vera ignominia... Non ho bevuto in tutt'oggi che un terzino di Canneto... E sí che per niente non si dovrebbe essere repubblicani!... Cittadino, mi onorereste d'un piccolo prestito per comperarne una pinta?... Giacomo Dalla Porta, capofila nella prima schiera della Legione Cisalpina ai vostri comandi. Io gli sporsi, s'intende a titolo di prestito, una lira di Milano, col patto che mi conducesse senz'altre chiacchiere da alcuno di quei tre che gli aveva nominato. Buttò via lo schioppo, l'olio, gli stoppacci; fece quattro salti proprio alla meneghina con quella liretta fra il pollice e l'indice, e squadrandomi l'altra mano ben aperta sul naso, corse giù per la scala in cerca dell'oste. "Fidatevi della probità repubblicana!" pensai brontolando come un vecchio. - M'era uscito di capo che, con una carta stampata, e una festa nel campo della Federazione, si può bensí avviare ma non compiere il rinnovamento dei costumi, e che d'altronde della gente cui va piú a sangue il vino che far piacere al prossimo ne rimarrà sempre in tutte le repubbliche della terra. Finalmente trovai per un corritoio un altro soldatino azzimato, ben composto quasi elegante che corrispose al mio saluto con un inchino quasi cortigianesco, e mi diede del cittadino come quattro mesi prima mi avrebbe dato del conte e dell'eccellenza. Tanto era il bel garbo e la tornitezza della voce. Doveva essere qualche marchese, invasato dall'amore della libertà, che avea pensato farsi frate di cotal nuova religione ascrivendosi ai legionari cisalpini. Martiri eleganti e spensierati che abbondano in tutte le rivoluzioni, e dei quali chi dice male merita la scomunica, perché finiscono con un poco di pazienza a diventar eroi. E ne abbiamo parecchi e di fresca data nel nostro calendario; per esempio il Manara, milanese anche lui come l'anonimo marchesino che mi fece parlare. Costui insomma, per sbrigarmi, mi condusse con molta compitezza fino alla stanza del dottor Lucilio: e là tornammo a riverirci scambievolmente che sembravamo due primi ministri dopo una conferenza. Entrai. Non vi posso dire la sorpresa le congratulazioni gli abbracciamenti del dottore, e di Giulio che era con lui. Certo credo che per un fratello non avrebbero fatto maggiori feste e da ciò conobbi che mi volevano un briciolo di bene. Io sentii come un rimorso di stringermi Giulio sul cuore e di baciarlo. Si può dire ch'io aveva tuttora calde le labbra di quelle della Pisana, di colei ch'egli pure aveva amato e che forse colla sua spensieratezza colla sua civetteria gli aveva instillato nelle vene il fuoco febbrile che lo consumava. Ma d'altronde egli ci avea rinunciato per un amore piú degno e fortunato; lo ritrovava pallido e scarno bensí ma non certo a peggior partito di quello che fosse a Venezia, ad onta della vita disagiata e soldatesca della caserma. Lucilio mi rassicurò sul suo conto assicurandomi che la malattia non avea fatto progressi; e che il buon umore, la occupazione moderata e continua, il cibo parco e regolare, avrebbero forse indotto alla lunga qualche miglioramento. Giulio sorrideva come chi crede forse ma non estima prezzo dell'opera lo sperare; s'era fatto soldato per morire non per guarire, e s'era tanto accostumato a quell'idea, che la menava innanzi allegramente, e come Anacreonte s'incoronava di rose coll'un piede nel sepolcro. Li domandai delle loro speranze, delle occupazioni, della vita. Tutto andava pel meglio. Speranze impazienti e grandissime per la rivoluzione che fremeva a Roma, a Genova, in Piemonte, a Napoli, pel movimento unitario che incominciava dalla prossima aggregazione di Bologna di Modena e perfino di Pesaro e di Rimini alla Cisalpina. - Toccheremo a Massa il Mediterraneo; - diceva Lucilio - come c'impediranno che si tocchi a Venezia l'Adriatico?... - E i Francesi? - gli domandai. - I Francesi ci aiutano bene, perché noi non saremmo in grado di aiutarci da noi. Sicuro che bisogna stare cogli occhi aperti, e non sorbire le frottole come da quello sciocco di Villetard: e sopratutto tener salde colle unghie e coi denti le nostre franchigie e non lasciarcele tôrre per oro al mondo. Erano presso a poco le mie idee; ma dal calore della voce, dalla vivacità del gesto capii di leggieri che la grandiosa solennità del mattino aveva riscaldato anche la guardinga immaginazione di Lucilio, e ch'egli non era in quella sera il medico spassionato di due mesi prima. Cosí mi piaceva di piú; ma era meno infallibile e per quanto i suoi pronostici concordassero coi miei, non volli ancora fidarmene alla cieca. Gli mossi adunque un qualche dubbio sull'ignoranza e sull'inesperienza del popolo che mi pareva non atto alla sapiente civiltà degli ordinamenti repubblicani, e sull'insubordinazione che aveva osservato io stesso nelle milizie recentemente formate. - Sono due obiezioni cui si risponde con un solo ragionamento - soggiunse Lucilio. - Che si vuole ad educare dei soldati disciplinati?... La disciplina. Che si vuole a formare dei veri virtuosi integri repubblicani?... La repubblica. Né soldati né repubblicani nascono spontaneamente: tutti nasciamo uomini, cioè esseri da educare o bene o male, futuri servi, futuri Catoni secondoché capitiamo in mani scellerate od oneste. Mi consentirai del resto che se la repubblica non varrà a formare i perfetti repubblicani, di poco sarà piú destra o volonterosa la tirannia a prepararli! - Chi sa! - io sclamai. - La Roma di Bruto sorse dalla Roma di Tarquinio! - Eh! statti pure in pace, Carlino, su questo punto; ché de' Tarquinii non ne mancarono a noi in quattro o cinque secoli di pazzie e di servitù!... Dovremmo essere educati abbastanza. Dimmi piuttosto qualche cosa di te. Oh perché ti sei attardato fino ad ora a Venezia? Come t'ingegnavi a poter vivere colà? Io recai ancora innanzi per iscusa la morte di Leopardo, i negozi lasciati sospesi da mio padre, e finalmente mi diedi coraggio, mandai un'occhiata di soppiatto a Giulio, e nominai la Pisana. Allora ambidue mi chiesero a gara com'era stato quel tramestio con un ufficiale francese di cui qualche cosa s'avea buccinato fino a Milano. Io esposi la cosa per filo; e come gli incommodi e i pericoli che n'erano derivati alla Pisana avessero costretto me a trattenermi colà per difenderla e consolarla in qualche maniera. Mi diffusi soprattutto nella descrizione della mia fuga per far risaltare ai loro occhi il rischio ch'io sfidava rimanendo a Venezia, e che certo non avrei voluto espormivi se una grave necessità non mi sforzava. In poche parole mi confessava colpevole entro di me di quell'indolente tardanza, ma non voleva che altri potesse raccoglier argomenti da formulare un'accusa. Per non fermarmi poi troppo sopra questo punto che mi scottava in mano, discorsi delle condizioni provvisorie di Venezia, degli ultimi spogli del Serrurier, del nuovo governo stabilitosi nel quale il Venchieredo mi pareva avere qualche influenza. - Caspita! non lo sai? - soggiunse Lucilio. - L'era il corriere fra gli Imperiali di Gorizia e il Direttorio di Parigi!... - O piuttosto il Bonaparte di Milano - corresse Giulio. - Sia anche: già è lo stesso. Buonaparte non potea disfare quello che il Direttorio aveva già ordito. Il fatto sta che il Venchieredo fu pagato bene, ma temo o spero che gli andrà alla peggio, perché serve sempre male ed ha il danno e le beffe chi serve troppo. - A proposito - chiesi io - e di Sandro di Fratta che ne dite?... L'ho veduto stamattina alla festa con tante costellazioni intorno che pareva il Zodiaco! - Adesso si chiama il capitano Alessandro Giorgi dei Cacciatori a piedi - mi rispose Lucilio. - Si è fatto grande onore nel reprimere i moti sediziosi del contadiname del Genovesato. Ora si va innanzi. L'han fatto tenente e poi capitano in un mese; ma della sua compagnia, tra le schioppettate, gli assassinamenti, e le grandi fatiche credo ne siano rimasti quattro soli di vivi. Uno per forza doveva diventar capitano: gli altri erano due ciabattini e un mandriano. Fu scelto, com'era di dovere, il mugnaio!... Lo troverai; e vedrai come gonfia! È un bravo e buon figliuolo che offre la sua protezione a quanti incontra e non si starà dall'offrirla anche a te. - Grazie - risposi io - l'accetterò al bisogno. - Non per ora - replicò Lucilio - ché il tuo posto è con noi e con Amilcare. Mi dissero allora di quest'ultimo com'era piú fiero e sgangherato che mai, e si manteneva l'anima della loro brigata coi ripieghi che sapeva trovare ai peggiori frangenti. Ridotti a vivere della paga, si può immaginare che sovente erano al verde; toccava allora ad Amilcare trovar ispedienti per far denaro, e avuto questo, ingegnarsi di sparagnarlo fino al toccar delle nuove paghe. Amilcare mi fece tornar in mente anche Bruto Provedoni che dicevano partito insieme col Giorgi e non ne avea piú saputo novella. Egli era tuttavia alle guerricciuole liguri e piemontesi dove ad onta che il Re fosse buon amico e miglior servitore del Direttorio, questi s'adoperava sempre a mantener viva la resistenza per averne appiglio quandochessia a qualche bel colpo. Aveva intanto stuzzicato la rintonacata Repubblica Ligure a movergli guerra, e vietato a lui di difendersi; il povero Re non sapeva da qual banda volgersi; dappertutto precipizi. Fortuna che l'armigero e fedele Piemonte non somigliava per nulla la sonnacchiosa Venezia; ché altrimenti si sarebbe veduta qualche simile ignominia. Ignominia ci fu, ma tutta dal lato dei Francesi. - Mi venne allora comodissimo di chiedere anche d'Emilio Tornoni, fingendo di conoscerlo e desiderarne qualche contezza. Lucilio sporse il labbro, e nulla rispose. Giulio mi disse ghignando ch'era partito per Roma con una bella contessa milanese a farci probabilmente la rivoluzione. I loro atti dispregiativi mi diedero qualche sospetto ma non potei cavarne di piú. Indi a poco rientrò quel capo svasato di Amilcare; nuovi baci, nuova maraviglia. L'era diventato negro come un arabo, con una certa voce che pareva accordata allo strepito della moschetteria; ma mi spiegarono poi che se l'aveva guastata a quel modo insegnando camminare alle reclute. Infatti il mover un passo, che è per sé cosa facilissima, i tattici di guerra l'hanno ridotta l'arte piú malagevole del mondo e bisogna dire che prima di Federico II si combattessero le battaglie o senza camminare o camminando assai male; e non è incredibile che di qui a cent'anni s'insegni ai soldati a batter le terzine e marciare a passo di polka. Quella sera non volea terminare piú, tante cose avevamo da raccontarci; ma eravamo usciti sui bastioni, e al sonar dei tamburi Lucilio fece motto agli altri due ch'era tempo di ritirarsi. - Eh sí! - disse Amilcare stringendosi nelle spalle. - Un ufficiale par mio ubbidirà al tamburo! - Ed io sono malato; e fo conto d'essere allo spedale - soggiunse Giulio. Io mi fidava che Lucilio li avrebbe chiamati al dovere, perché mi tardava l'ora di abboccarmi coll'Aglaura e portarle la lettera e le notizie d'Emilio; ma i due coscritti non badavano punto alle parole del dottore e mi convenne godere la loro compagnia fin'oltre le nove. Allora vollero accompagnarmi al mio alloggio, e siccome non li invitai a salire e videro il lume alle finestre e un'ombra come di donna disegnarsi sulla cortina, cominciarono a darmi la baia, e far mille conghietture, e a consolarsi con me della mia fortuna. Insomma, sussurrava quel disperatello di Amilcare che io temeva ogni poco di veder l'Aglaura al balcone. Quando Dio volle Lucilio li persuase d'andarsene, e potei salire dalla giovinetta e confortarla della sua penosa solitudine. Le porsi la lettera e la vidi sospirare e quasi piangere nel leggerla, ma faceva forza a non lasciarsi vedere. - Se è lecito, chi vi scrive? - le chiesi. Mi rispose ch'era Spiro suo fratello. Ma schivò frettolosamente tutte le altre domande che le indirizzai, e solamente mi comunicò ch'egli s'era apposto benissimo e che la credeva a Milano in mia compagnia. Com'era dunque che non veniva a raggiungerla con quel grande affetto che le aveva? - Ecco quello che non seppe chiarire; ma lo chiarii in seguito quando seppi che Spiro era stato sostenuto in carcere come manutengolo della mia fuga. Appunto quella lettera usciva della prigione e perciò l'Aglaura se n'era intenerita. Mi chiese ella poi se io pure avessi ricevuto lettere da Venezia, e rispostole che sí, me ne domandò notizia. Io senz'altro le porsi la lettera di suo padre, e quella ove la Pisana raccontava i rimescolamenti di Venezia. Lesse tutto senza batter ciglio; solamente quando giunse al punto ove erano nominati Raimondo Venchieredo e la Doretta ella dié un piccolo guizzo di sorpresa, e ripeté fra sé come per accertarsene quel nome di Doretta. - Che è? - diss'io. - Eh nulla! gli è che io pure conosco questa signora cosí di riverbero; e mi maravigliai di trovarne il nome in una lettera indirizzata a voi. Se avessi pensato che il Venchieredo è delle vostre parti non mi sarei stupita tanto. - E come conoscete i Venchieredo voi? - Li conosco, oh bella, perché li conosco!... Anzi no, voglio dirvelo. Erano essi in qualche corrispondenza, di interessi suppongo, con Emilio. - A proposito, deggio darvi una triste notizia. - Quale? - Il signor Emilio Tornoni è partito per Roma. (Tacqui, per prudenza, della contessa). - Lo sapeva; ma tornerà - rispose l'Aglaura con piglio quasi di sfida. - Vi pregherò intanto di informarvi domani se fosse qui il signor Ascanio Minato, aiutante del generale Baraguay d'Hilliers, e il signor d'Hauteville segretario del generale Berthier. Sono persone che mi premono per le notizie di Emilio che posso averne all'uopo. - Sarete servita. - E ditemi, avete saputo null'altro di lui? - Null'altro! - Nulla, nulla?... proprio nulla? - Nulla vi dico. - Era quasi per prender soggezione della giovinetta udendola parlare con tanta indifferenza d'aiutanti e di generali; ma non volli significarle il tacito disprezzo da me notato negli atti di Lucilio e di Del Ponte quando ebbi loro a nominare il Tornoni. Sapeva quanto piacere si dà alle innamorate sparlando dei loro belli. - Aglaura - ripresi dopo un istante di silenzio per ravvivare la conversazione - voi siete abbastanza misteriosa, e converrete che la mia bontà e la mia discrezione... - Sono senza pari - aggiunse ella. - No, non voleva dir questo, avrei soggiunto invece che meritano un granino di confidenza da parte vostra. - È vero, amico mio. Chiedete e risponderò. - Se vi pianterete cosí seria e pettoruta come una regina mi morranno le parole in bocca. Via, siate ilare e modesta come la prima sera che vi ho veduta... Cosí, cosí per l'appunto mi piacete!... Ditemi dunque ora come avete tanto domestici tutti questi nomi e cognomi dello Stato Maggiore francese... Mi sembravate poco fa un generale in capo che disponesse le schiere per una battaglia! - Altro non volete sapere? - Nient'altro: la mia curiosità per ora è tutta qui. - Or bene: quei signori erano amicissimi d'Emilio; ecco perché li conosco. - Anche il signor Minato. - Quello anzi piú degli altri; ma gli è anche il piú galantuomo, vale a dire il meno birbante di tutti questi ladroni. - Parlate piano, Aglaura!... Non siete piú quella di questa mane!... Come mai svillaneggiate or quelli stessi che levaste a cielo poche ore fa?... - Io?... Io ho levato al cielo la Repubblica, non chi l'ha fabbricata. Anche l'asino talora può andar carico di pietre preziose... Del resto ladri in camera possono essere eroi all'aperto; ma eroi macellai, non... - E ditemi un poco, Spiro vi scrive di venirvi a prendere, o che n'andiate a Venezia? - Perché questa domanda?... Siete stufo d'avermi? - Felice notte, Aglaura: parleremo domani. Oggi siete maldisposta. Infatti mi ritrassi nella mia stanzuccia dietro della sua, e mi coricai pensando alla Pisana, alle strettezze che dovevano angustiarla, ai pericoli della sua solitudine. Sopratutto quel rappaciamento colla Rosa e le visite della Doretta mi davano ombra: Raimondo veniva poi; giacché capiva che egli era il grosso caprone che sarebbe passato pei buchi fatti dalle pecore. Aggiustai fin d'allora di mio capo un certo letterone da scrivere il giorno dopo, e dal pensiero della Pisana passai a quello dell'Aglaura che se stringeva meno s'oscurava anche di piú. Chi potea vedere un barlume di chiaro in quel turbine di testolina? - Io no per certo. - Da Padova a Milano ella m'avea menato sempre di sorpresa in sorpresa; pareva non già una fanciulla occupata a vivere, ma un romanziere francese inteso a comporre un'epopea. Le sue azioni le sue parole s'avvicendavano si ritiravano si scavalcavano a fatti a contrapposti a sorprese come le strofe di un'ode di Pindaro mal raffazzonate dagli scoliasti. Ci sognai dietro tutta notte, la osservai buona parte del mattino, e uscii colla lettera per la Pisana in tasca senza essermi avvantaggiato di nulla. Dentro ne inclusi una per l'Apostulos ove gli significava tutta la condotta dell'Aglaura, mettendomi ai suoi comandi in quanto poteva concernerla; lo pregava anche di prestarsi in quanto abbisognasse alla Pisana come per un altro me stesso. S'intende ch'io misi il tutto alla posta senza nulla dire alla giovine, perché lí era in ballo la mia coscienza e non si volean cerimonie. Far da papà sí, ma non da birbone per amor suo. Sul mezzogiorno mi abboccai con Lucilio al caffè del Duomo che a que' tempi era il convegno di moda, e dove ci avevamo dato l'appostamento. Egli si mostrò spiacentissimo di non avermi potuto inscrivere nella Legione Cisalpina dove non c'era proprio piú nessun posto vacante; ma piuttosto che lasciar ozioso un par mio, diceva egli, avrebbe cercato inspirazione dal diavolo, e poteva esser contento che gliene era saltata una di ottima. - Ora ti menerò dal tuo generale - diss'egli - generale, comandante, capitano, commilitone, tutto quello che vorrai! È uno di quegli uomini che sono troppo superiori agli altri per darsi la briga di accorgersene di mostrarlo: non si può credere ad alcun patto che in lui sia un'anima sola, e sembra che la sua immensa attività dovrebbe stancarne una dozzina al giorno. Contuttociò ammira i tranquilli e compatisce perfino gli indolenti. Sul campo io scommetto che da solo basterebbe a vincere una battaglia, purché non gli ferissero gli occhi nei quali risiede la sua potenza piú straordinaria. È napoletano, e a Napoli direbbero che ha la jettatura, ovvero, come dicono nei nostri paesi, il mal'occhio; da non confondersi peraltro coll'occhio cattivo, anzi pessimo del fu cancelliere di Fratta. - E chi è questa fenice? - gli chiesi. - Lo vedrai, e se non ti va a sangue mi faccio sbattezzare. In queste parole mi tirò fuori del caffè, e giù a passo sforzato oltre al Naviglio di Porta Nuova verso i bastioni. Entrammo in una vasta casa dove il cortile era pieno affollato di cavalli di stallieri di scozzoni di selle di bardature come in una caserma di cavalleria. Per la scala era un su e giù di soldati di sergenti d'ordinanze come al palazzo del Quartier Generale. Nell'anticamera altri soldati, altre armi disposte a trofeo o gettate a fasci nei cantoni: v'avea anche ammassato in un canto un piccolo magazzino di tuniche di tracolle e di scarponi soldateschi. "Chi è?" pensava io "forseché è l'Arsenale?..." Lucilio tirava diritto senza scomporsi, come persona di casa. Infatti senza neppur farsi annunziare nell'ultima anticamera da una specie d'aiutante che stava là contando i travi, schiuse la porta ed entrò tenendomi per mano dinanzi allo strano padrone di quel ginnasio militare. Era un giovine alto, di trent'anni all'incirca, un vero tipo di venturiero, il ritratto animato d'uno di quegli Orsini, di quei Colonna, di quei Medici la cui vita fu una serie continua di battaglie, di saccheggi, di duelli, di prigionie. Si chiamava invece Ettore Carafa; nobilissimo nome fatto piú illustre dall'indipendenza di chi lo portava, dal suo amore per la libertà e per la patria. Per le sue trame repubblicane aveva egli sofferto lunga carcerazione nel famoso Castel Sant'Elmo; indi fuggitone s'era ricoverato a Roma, e di là a Milano a formarvi a proprie spese una legione per liberar Napoli. Aveva uno di quegli animi che uniti o soli vogliono fare ad ogni costo; e questa magnanimità gli respirava dignitosamente nella grand'aria del viso. Soltanto tramezzo un ciglio gli calava giù una piccola cicatrice contornata da un'aureola di pallore; sembrava il segno d'una trista fatalità fra le nobili speranze d'un valoroso. Egli s'alzò dal lettuccio sul quale stava disteso, tese la mano a Lucilio e si congratulò secolui del bell'ufficiale che gli accompagnava. - Ufficiale di poco conto - gli risposi io. - La vera arte militare io non la conosco che di nome. - Avete cuore di farvi ammazzare per difendere la patria e l'onor vostro? - riprese il Carafa. - Non una ma cento vite - soggiunsi - darei per sí nobili ragioni. - Ecco amico mio; vi permetto di potervi credere fin d'ora perfetto soldato. - Soldato sí - s'intromise Lucilio - ma ufficiale?... - A questo lasciate che ci pensi io!... Sapete nulla montar a cavallo, caricare uno schioppo, e maneggiar la spada? - So qualche cosa di tuttociò (Era merito di Marchetto e ne lo ringraziai allora, come poco prima avea ringraziato il Piovano della sua classica istruzione). - Allora, eccovi anche ufficiale. In una legione come la mia che farà la guerra alla spicciolata, l'occhio e la buona volontà faranno piú del sapere. Stasera tornate da me all'ora della ritirata. Vi consegnerò la vostra schiera, e state di buon animo che di qui a tre mesi avremo conquistato il Regno di Napoli. Mi pareva di udir parlare Roberto Guiscardo o qualche paladino dell'Ariosto, ma parlava sul serio e me ne accorsi poi alla prova. Stentava a dimandargli se avrei potuto dormire fuori di caserma, ma gliene chiesi alfine e mi disse sorridendo che era diritto degli ufficiali. - Capisco; - soggiunse - avete le notti impegnate con un altro colonnello. Io m'imbrogliai e non dissi di no; Lucilio sorrise anch'esso; il fatto poi stava che non poteva lasciar sola l'Aglaura, ma qual piacere ritraessi io dal farle la guardia lo sapeva il cielo. Io fui soddisfattissimo allora del signor Ettore Carafa, e meglio due tanti in seguito. Ricorderò sempre con piacere quella vita frugale operosa e soldatesca. Alla mattina gli esercizi coi miei soldati, poi il pranzo e qualche gran seduta di chiacchiere con Amilcare con Giulio con Lucilio; il dopopranzo e la sera conversazione coll'Aglaura che aspettava sempre Emilio e non voleva saperne di tornar a Venezia. Frammezzo, qualche lettera agrodolce della Pisana. Ecco come giungemmo al tempo della rivoluzione di Roma, la quale doveva dar piede alle operazioni militari del Carafa nel Regno. CAPITOLO DECIMOSESTO Nel quale si svolge il piú incredibile dramma familiare che possa immaginarsi. Digressione sulle vicende di Roma, sopra Foscolo e Parini ed altri personaggi della Repubblica Cisalpina. Io guadagno una sorella, e do a Spiro Apostulos una sposa. Mantova, Firenze e Roma. Avvisaglie al confine napoletano. La ninfa Egeria di Ettore Carafa. Una scommessa mi fa riguadagnar la Pisana; ma alle prime non ne son molto lusingato. Il dí quindici febbraio 1798 cinque notai in Campo Vaccino avevano rogato l'atto di libertà del popolo romano. Assisteva liberatore quel Berthier che aveva assistito traditore al congresso di Bassano per la conservazione della Repubblica Veneta. Il Papa stava chiuso nel Vaticano fra svizzeri e preti; e negando egli di svestirsi dell'autorità temporale fu levato di Roma militarmente e condotto in Toscana. Unico esempio di inflessibilità italiana in quel tempo di continui mutamenti, di sùbite paure; e fu in Pio VI. Per quanto poco cristiano mi fossi, ricordo che ammirai la costanza del gran vecchio, e comparandola alla tremula debolezza del doge Manin, faceva doloroso raffronto fra quei due piú antichi governi d'Italia. Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani; l'uccisione del general Duphot, pretesto alla guerra, fu suffragata con esequie, con luminarie e colla spogliazione di tutte le chiese. Casse gravi di pietre preziose s'incamminavano per Francia, mentre l'esercito restava stremo di tutto e tumultuava contro Massena succeduto a Berthier. Le campagne insorgevano ed erano piene d'assassinii; cominciava insomma uno di quei drammi sociali rimasti solamente possibili nel mezzogiorno d'Italia e nella Spagna. In quel torno, compiuto l'ordinamento della legione del Carafa, non altro si aspettava che l'assenso del general in capo francese per partire a quella volta. Io mi trovava in un bell'imbroglio. L'Aglaura voleva partirsi con me giacché il viaggio di Roma s'accordava alle sue idee; io né voleva rifiutarmi né esporla ai pericoli d'una lunghissima marcia in stagione disastrosa come quella. Scriveva perciò a Venezia; non rispondevano. La Pisana stessa mi teneva allo scuro di sue novelle da un pezzo. Quella spedizione di Roma mi si presentava sotto auspicii tristissimi. Tuttavia sperava sempre dall'oggi in domani; e mentre il Carafa tempestava per quel benedetto assenso sempre ritardato, io me ne confortava come d'un maggior campo che ancora mi rimaneva a qualche vaga speranza. I miei tre amici con parte della Legione lombarda, erano già calati verso Roma. Restava proprio solo, e non aveva altra compagnia che quella dello splendido capitano Alessandro. Il peggio si era che, venuta da Venezia o da Milano, il fatto sta che la voce s'era sparsa della mia convivenza con una bella greca: ed erano continue le baiate sopra di ciò dei miei commilitoni. Immaginatevi qual consolazione col bel costrutto che ce ne cavava! Vi assicuro che avrei dato una mano, come Muzio Scevola, perché Emilio si stancasse della contessa milanese e venisse a riprendersi l'Aglaura. Non ch'ella mi pesasse molto, ché mi ci era avvezzato, e la mi faceva da governante con una pazienza mirabile, ma mi seccava di aver l'apparenza d'una felicità che in fatto apparteneva ad un altro. Mi fu svagamento a tali fastidi l'amicizia rappiccata col Foscolo reduce da qualche tempo a Milano. La sua focosa e convulsa eloquenza mi ammaliava; lo udii per piú di due ore bestemmiare e sparlare di tutto, dei Veneziani, dei Francesi, dei Tedeschi, dei re, dei democratici, dei Cisalpini, e gridava sempre alla tirannia, alla licenza; vedeva fuori di sé gli eccessi della propria anima. Pure Milano di allora gli era degno teatro. Colà s'erano riuniti i piú valenti e generosi uomini d'Italia; e l'antica donna, che sparsi non li aveva contati, gloriavasi allora a buon dritto di quell'improvviso ed illustre areopago. Aldini, Paradisi, Rasori, Gioia, Fontana, Gianni, i due Pindemonte, erano personaggi da riscaldare la potente loquela di Foscolo. Per mezzo suo conobbi anche i poeti Monti e Parini, l'armonioso adulatore, e il severo ed attico censore. La figura grave serena ed affabile del Parini mi resterà sempre impressa nella memoria; i suoi piedi quasi storpi, lo conducevano a rilento; ma il fuoco dell'anima lampeggiava ancora dalle ciglia canute. La lettera in cui Jacopo Ortis racconta il suo dialogo con Parini è certo una viva e storica reminiscenza di quel tempo; potrei farne testimonianza. Io stesso vidi alcuna volta il cadente abate e il giovin impetuoso seder vicini sotto un albero nel sobborgo fuor di Porta Orientale. Li raggiungeva e piangevamo insieme le cose, ahi, tanto minori dei nomi!... Ben era quel Parini che richiesto di gridare Viva la Repubblica e muoiano i tiranni, rispose: - Viva la Repubblica e morte a nessuno! - Ben era quel Foscolo che diede l'ultima pennellata al suo ritratto dicendo: - Morte sol mi darà pace e riposo. - Io non era che un umile alfiere della Legione Partenopea; ma col cuore, lo dico a fronte alta, potevo reggere del paro con quei grandi, perciò li capiva, e mi si affaceva la loro compagnia. Anche Foscolo s'era fatto ufficiale nell'esercito cisalpino. Si creavano a quel tempo gli ufficiali, come gli uomini dai denti di Cadmo. Medici, legali, letterati cingevano la spada; e la toga cedeva alle armi. I giovani delle migliori famiglie continuavano a darne il buon esempio; la costanza il fervore l'emulazione supplivano alla strettezza del tempo. In onta a passeggieri disordini, e a repubblicane insubordinazioni, il nucleo del futuro esercito italico s'era già formato. Carafa temeva che i generali francesi volessero stancheggiarlo menarlo per le lunghe acciocché s'afforzasse anche della sua legione la forza cisalpina. Napoletano anzi tutto, di spiriti ardenti e vendicativi, figuratevi se imbizzarriva per questo sospetto!... Credo che avrebbe intimato la guerra ai Francesi se nulla nulla lo molestavano. Finalmente arrivò l'assenso tanto sospirato. Ai primi di marzo doveva la legione moversi alla volta di Roma a raggiungervi l'esercito franco-cisalpino per le imprese future. Non s'avea piú tempo da confidare nella fortuna. L'Aglaura mi restava sulle braccia, e dovea partire senza saper nulla della Pisana e di mio padre. Se il sentimento dell'onore, l'amore della patria e della libertà non fossero stati in me molto potenti, certo avrei fatto qualche grosso sproposito. Intanto romoreggiava fra le nuvole la gragnuola che doveva pestarmi il capo, ed io non m'accorgeva di nulla. Disperato del lungo silenzio della Pisana e degli Apostulos, io aveva scritto ad Agostino Frumier, pregandolo per la nostra vecchia amicizia di volermi dar contezza di persone che mi stavano tanto a cuore. Di questa lettera io non avea fatto cenno ad alcuno perché sí Lucilio che gli altri veneziani l'avevano molto col Frumier e lo consideravano come un disertore. Contuttociò la spedii poiché non sapeva cui meglio rivolgermi; e aspetta, aspetta, io aveva già perduto ogni speranza quando me ne capitò la risposta. Ma indovinate mo chi mi scriveva?... Sí, era Raimondo Venchieredo. Certo il Frumier, adombratosi di mantener corrispondenza con un esule con un proscritto, avea passato l'incarico a quell'altro: e Raimondo poi mi scriveva che tutti a Venezia si maravigliavano di sapermi ignaro della Pisana da tanto tempo, egli in primo luogo; che s'avevano ottime ragioni per crederla a Milano con mio assenso, consenso e compartecipazione dei frutti; che avea tardato a scrivermi appunto per questo che lo giudicava superfluo per la mia quiete, non essendo le mie smanie altro che astuzie per darla ad intendere alla vecchia Contessa, al conte Rinaldo ed al Navagero. Costoro del resto se ne davano pace, e dicessi alla Pisana che in quanto a lui se l'avea pigliata con pace del pari, ma che non sarebbe mancato tempo ad una buona rivincita. Cosí finiva recisamente la lettera, onde ebbi il cervello occupato un'altra volta a fabbricar romanzi sulle allusioni degli altri. A che miravano quelle ire di Raimondo colla Pisana? E cosa mi augurava il disparimento di costei da Venezia?... Fosse proprio vero?... Dimorasse ella a Milano senza farmene motto? - Non mi sembrava possibile. - E poi con quali mezzi mettersi ad un viaggio e ad una vita dispendiosa sopra gli alberghi?... Gli è vero che aveva qualche diamante, e poteva anche aver ricorso agli Apostulos. Ma di costoro Raimondo non moveva neppur parola. Cosa ne fosse avvenuto?... Che Spiro languisse ancora in carcere?... Ma suo padre allora perché non iscriveva? - Insomma, le notizie ricevute da Venezia non aggiunsero che una spina di piú a quelle che aveva già nel cuore, e mi disponeva di malissima voglia alla partenza. Anche il Carafa non sembrava piú tanto impaziente; cioè, mi spiego, non guardava piú con tanta stizza alla mia volontà mal dissimulata di tardare. Un giorno, mi ricordo, egli mi prese da un lato a quattr'occhi e mi fece sostenere uno stranissimo interrogatorio. Chi era quella bella greca che dimorava con me; perché vivevamo insieme (non lo sapeva neppur io), se aveva altre amanti, e dove, e chi fossero. Insomma, mi pareva il confessor d'un contino appena tornato dal prim'anno di università. Io risposi sinceramente, ma con qualche imbroglio, massime in punto all'Aglaura. Sfido io! Era materia tanto imbrogliata per sé che ci voleva assai meno della sorpresa di quella inquisizione per renderla addirittura inestricabile. - Dunque voi amate una signorina di Venezia, e convivete cionnonostante a Milano con questa bellissima greca? - Pur troppo la è cosí. - Stento un po' a crederla, tanto è singolare. Anzi non ve la credo, non ve la credo! Addio Carlino! E andò via allegro allegro come se il non credermi quella freddura dovesse importare a lui qualche smisurata fortuna. Però m'ero avvezzo ai ghiribizzi del signor Ettore, e conchiusi ch'egli era felice di poter sempre ridere. Per me dopo la partenza di Amilcare non sentiva piú neppur il solletico; e se qualcheduno mi spianava un po' la fronte si era l'Aglaura colla sua briosa testardaggine. La mi doveva questo piccolo compenso per tutte le rabbie e le inquietudini che m'avea fatto soffrire senza apparente motivo dopo il nostro incontro a Padova. Una sera, eravamo in procinto di partire, io sedeva secolei nella nostra cameretta di Porta Romana, ove due bauletti e la nudità degli armadi e dei cassetti ci tenevano a mente il viaggio che dovevamo intraprendere, se anche non ce ne fossimo ricordati anche troppo pei timori che ne avevamo ambidue senza volerceli scambievolmente confessare. Da qualche giorno io teneva all'Aglaura un poco di broncio; quella sua ostinazione di volermi seguir a Roma, benché priva d'ogni notizia de' suoi, mi metteva in sospetto sul suo buon cuore. Stava quasi per lanciare la bomba e per dichiararle la perfidia e l'infedeltà di colui al quale ella sembrava pronta a sacrificar tutto, perfino i sacrosanti doveri di figlia, quando, non so come, ad un suo sguardo pieno d'umiltà e di dolore mi sentii rammollir tutto. E di giudice ch'esser voleva, mi sentii cambiare a poco a poco in penitente. Le angosce le incertezze che da tanto tempo mi laceravano erano cresciute tanto che richiedevano un qualche sfogo. Quell'occhiata dell'Aglaura m'invitava cosí pietosamente che non seppi resistere, e le narrai il sospetto in cui viveva della Pisana, il suo lungo e crudele silenzio, la sua partenza da Venezia, lasciatami ignorare. - Ohimè! - sclamai - pur troppo sarebbe pazzia il volermi illudere!... La è tornata quale fu sempre. La lontananza ha lasciato morire l'amor suo d'inedia. Si sarà appigliata ad un altro; a qualche ricco forse, a qualche scapestrato che la sazierà di piaceri un anno e due, e poi... Oh Aglaura! il disprezzare quell'unica persona che si ama piú della propria vita è un tormento superiore ad ogni forza d'uomo! L'Aglaura m'impugnò furiosamente la mano ch'io aveva alzata al cielo nel pronunciare queste parole. Aveva l'occhio fiammeggiante, le narici dilatate e due lagrime sforzate rabbiose riflettevano al chiarore della lucerna il fuoco sinistro de' suoi sguardi. - Sí! - gridò essa quasi fuori di sé. - Maledicete, maledicete anche a nome mio i vili e i traditori! Con quella mano che innalzaste a Dio come per affidargli le vostre vendette, rapite un fascio de' suoi fulmini e scagliatelo loro sul capo!... Compresi di aver toccato una piaga secreta e sanguinosa del suo cuore, e la simpatia del mio dolore col suo m'aperse l'animo piucchemai alla confidenza e alla compassione. Mi parve aver trovato in lei un'amica, anzi una vera sorella, e lasciai scorrere nel suo seno le lagrime che da tanto tempo mi si aggruppavano dentro. Anche il suo sdegno nel punto istesso s'era mitigato per la commozione della pietà, e abbracciati come due fratelli piangevamo insieme, piangevamo dirottamente; conforto misero dei miseri. In quella s'aperse violentemente la porta, e un uomo coperto da un mantello spruzzato di neve entrò nella stanza. Diede uno strido, gettò indietro il mantello, e ravvisammo ambidue le pallide sembianze di Spiro. - Giungo forse troppo tardi? - domandò egli con tal suono di voce che non mi dimenticherò mai piú. Io fui il primo a slanciarmigli fra le braccia. - Oh che tu sia benedetto! - balbettai coprendogli il volto di baci. - Da quanto tempo sperava la tua venuta!... Spiro, Spiro, fratel mio! Egli mi respingeva colle braccia, si strappava con forza il collare come si sentisse soffocare, e non rispondeva ai miei baci che con un profondo ruggito. - Spiro, per carità, cos'hai? - gli disse timidamente l'Aglaura, appendendoglisi al collo. Al contatto di quella mano, al suono di quella voce egli tremò tutto; sentii raffreddarsi di repente il sudore che gli inondava le guance; mi volse uno sguardo tale che una tigre non ne lancerebbe uno piú formidabile a chi le trucida i suoi figli; indi con una potente scrollata ci respinse ambidue fino contro al letto, e restò solo minaccioso nel mezzo della stanza. Pareva l'angelo del terrore che ha traversato l'inferno per precipitarsi a punire una colpa. Senza fiato, smarriti dall'angoscia e dallo spavento, noi restammo curvi e silenziosi dinanzi a lui in guisa di colpevoli. Quella nostra attitudine serví ad ingannarlo forse completamente e a persuadergli ciò che temeva e che punto non era. - Ascoltatemi, Aglaura - incominciò egli con voce che voleva esser calma e serbava tuttavia il moto scomposto e lo stridulo suono della tempesta. - Ascoltatemi, s'io v'ho amato!... Stava per correre dietro a voi, quando me lo vietò la prigione. In carcere ogni giorno ogni minuto fu uno studio continuo di fuggire per raggiungervi, per salvarvi dal precipizio ove siete caduta. Finalmente riuscii!... Una tartana mi condusse fino a Ravenna; di là avvisava di venire a Milano, perché il cuor mel diceva che eravate qui. Quando, giunto a Bologna, alcuni veneziani rifugiatisi colà mi danno contezza di Emilio Tornoni che avea traversato quella città fuggendo da Milano con una signora, e diretto per Roma... Capite bene che non potea perder tempo a raffrontare scrupolosamente i connotati e le date. Le mie congetture, cosí all'ingrosso, ci stavano; mi volsi a precipizio verso Roma, e vi giunsi che la Repubblica era già proclamata!... Or bene sappiatelo, Aglaura!... Il vostro Emilio era un vile, un traditore; ve l'ho sempre detto e non volevate ascoltarmi... Egli vi tradiva per una nobile baldracca di Milano!... Egli tradiva i Veneziani pei francesi, tradiva questi e quelli per zecchini imperiali che il signor Venchieredo gli portava da Gorizia!... Egli non era corso a Roma che per tradire!... Colle commendatizie d'un reverendo padre di Venezia s'era addentrato nelle grazie di qualche cardinale per espilare la buona fede del Papa, asserendosi amico influentissimo di Berthier. Ingannava intanto Berthier trafugando a proprio utile gran parte dello spoglio di Roma. Il popolo sdegnato lo arrestò mentre comandava il saccheggio d'una chiesa: Francesi e Romani ne godettero. Fu solennemente impiccato in Campidoglio!... La sua ganza avea fatto vela il giorno prima per Ancona col suo amicissimo Ascanio Minato!... L'Aglaura diventava di tutti i colori durante questa furibonda invettiva di Spiro. Quand'egli tacque, s'era già ricomposta alla solita gravità. - Or bene - diss'ella guardando nel volto Spiro con occhio sicuro - or bene, la giustizia ha avuto effetto. Dio la serbò per sé, e non ha voluto ch'io me ne macchiassi le mani. Benedetta la clemenza di Dio!... - Ah è proprio vero? - soggiunse Spiro amaramente, saettandomi delle sue occhiate sempre piú truci e sinistre. - E avete anche la sfrontatezza di confessarmelo?... Non lo amavate piú?... Temetemi, o Aglaura! Perché una mia sola parola può vendicarmi della vostra impudenza!... - Temervi? - riprese sempre con calma l'Aglaura - due cose sole io temo, la mia coscienza e Dio!... Fra poco non temerò piú nessuno. - Che pensereste di fare? - le domandò Spiro quasi minacciosamente. - Uccidermi - rispose fredda e sdegnosa l'Aglaura. - No, per tutti i santi! - le dissi io allora interponendomi. - Io ebbi un vostro giuramento; lo manterrete. - Avete ragione, Carlino - rispose ella - non mi ucciderò!... Ma infelice voi, infelice io: faremo causa comune. Ci sposeremo, e pensi Dio al resto. Credetti che mi crollasse il soffitto sul capo, di tal forza fu l'urlo che scoppiò allora dalle viscere di Spiro. Si gettò innanzi cogli occhi chiusi e colle braccia protese. Credo che se ci avesse abbrancati saremmo rimasti stritolati. Io mi gettai davanti all'Aglaura e feci schermo del mio corpo a quel briaco furore. Allora egli si riebbe dall'improvviso delirio, gli si incolorò la fronte d'una rabbia quasi infernale, e aperse le labbra a parlare, ma gli morí nelle fauci la voce. Vidi che un grande castigo pendeva allora da quelle labbra, e per sopportarlo aveva ristretto ogni mia forza intorno al cuore: ma egli finí col mordersi le mani, volgendo sopra di noi un'occhiata insieme di compassione e di scherno... - E se... - aveva egli cominciato a dire come rispondendo a un interno sospetto che non andò piú innanzi, e subito le sue sembianze si ricomposero, il pallore gli si stese sul volto, le membra cessarono di tremare; tornò insomma uomo, fin'allora sembrava proprio una fiera. Tutti questi particolari mi rimasero fitti in capo tanto per ordine, dacché tutta la notte seguente altro non feci che volgerli rivolgerli e commentarli per indovinare da essi le tremende e misteriose passioni che agitavano l'animo di Spiro. Mi sembrava impossibile che lo sdegno d'un fratello dovesse scoppiare cosí bestiale e violento. Dopo avere racquistato quella calma, almeno apparente, il giovine greco sedette in mezzo a noi; e ben accorgemmo lo sforzo da lui fatto per rimanere, ma non osammo rimproverarglielo. Egli ci spiava ambidue con occhio furtivo, e di volta in volta la compassione l'abbattimento e un ultimo resto di rabbia alternavano i loro colori sulle irrequiete sembianze. Ci narrò allora che la mancanza di lettere da parte di suo padre proveniva da questo ch'egli avea dovuto partire precipitosamente per l'Albania e per la Grecia donde non era tornato peranco. - E cosí - soggiunse egli - è cosí, Aglaura, voi non volete seguirmi a Venezia ove rimango solo, senza felicità e senza speranza? - No, Spiro, non posso seguirvi - rispose la giovinetta chinando gli occhi sotto gli sguardi infiammati del giovine. Spiro mi guardò ancora, che se la sua occhiata non mi divorò fu proprio perché non la poteva: indi si volse ancora alla fanciulla. - Che speranza mai vi mena ora pel mondo, Aglaura!... Per carità, ditelo!... finalmente ho diritto di saperlo!... Son vostro fratello! Queste ultime parole gli stridevan tanto fra i denti che le intesi appena. - Ditemi se avete legami di affetto o di doveri - continuò egli. - Vi giuro che vi aiuterò a santificarli. (Qui un nuovo stridore, ma piú tormentoso e diabolico di prima). - No, non ho nulla! - rispose con voce semispenta l'Aglaura. - E dunque perché non mi segui? - le domandò Spiro, rizzandosi dinanzi a lei come il padrone dinanzi ad una schiava. - Temo che voi lo sappiate!... - disse l'Aglaura lasciando cadere una ad una queste parole sull'ira di Spiro già pronta e rinfiammarsi. E infatti ottennero l'effetto di calmarlo ancora. Egli volse per la stanza uno sguardo lungo e indagatore; indi partí dicendone che il domani ci avrebbe veduti e che tutto in un modo o nell'altro sarebbe finito. Allora, per quanto io supplicassi l'Aglaura perché mi chiarisse alcune parti del dialogo che non giungeva a comprendere, mi fu impossibile cavarne una sola parola. Piangeva, si stracciava i capelli, ma non voleva confessarsi d'una sillaba. Un poco sdegnato un po' impietosito io mi ritirai nella mia stanza, ma non mi venne fatto di pormi a giacere, e una tormentosa fantasticaggine mi tenne alzato fin dopo mezzanotte. Allora sentii picchiare alla mia camera e credendo che fossero ordini del mio capitano dissi stizzosamente che entrassero. La camera dava sulla scala e m'avea dimenticato di dare il chiavistello alla porta. Con mia somma meraviglia, invece d'un soldato rividi Spiro: ma cosí cambiato in un paio d'ore, che non mi sembrava piú lui. Mi pregò umilmente di perdonargli le furibonde escandescenze di prima; e mi supplicò per quanto avevo di piú sacro che mi adoperassi presso alla Aglaura per ottenergli del pari il perdono. Davvero ch'io ci perdeva la testa, ed egli finí di farmela perdere, gridando cogli occhi sbarrati che egli l'amava e che non poteva piú trattenersi. - L'amate? - gli risposi io - ma mi pare che siate perfettamente in regola! Non siete dello stesso sangue, figliuoli degli stessi genitori?... Amatevi dunque, che Dio vi benedica! - Non mi comprendete, Carlo - soggiunse Spiro. - Or bene, mi comprenderete ora! Aglaura non è mia sorella; essa è figliuola di vostra madre; voi siete suo fratello!... Allora un lampo subitaneo rischiarò il buio dei miei pensieri, ma stava appunto per domandar spiegazioni di questo straordinario viluppo quando l'Aglaura, avendo udito quelle parole pronunciate a voce alta da Spiro, si precipitò nella stanza e addirittura nelle mie braccia, piangendo di consolazione. - Lo sentiva - diceva ella - lo sentiva e non osava pensarlo! Smarrito, confuso, non sapendo cosa credere, ma commosso fin nel profondo del cuore io stringeva sul mio seno la faccia lagrimosa dell'Aglaura. Avrei chiesto dopo schiarimenti e prove; intanto godeva il supremo conforto di trovare un'anima sorella in quel mondo dove io m'aggirava desolato come un orfano. Spiro ci contemplava con un muto raccoglimento che lo dimostrava insieme e compagno della nostra gioia e pentito delle sue furie. Come poi ci riebbimo da quel dolce e tenerissimo sfogo, egli ci narrò che mia madre avea mandato l'Aglaura al padre suo dall'ospedale ove l'avea partorita ed era morta pochi giorni dopo. Mio padre, avuta contezza di ciò, avea scritto da Costantinopoli all'Apostulos ch'egli s'incaricherebbe a suo tempo della bambina, come figliuola che la era di sua moglie; ma che la tenesse intanto per sua, onde ella non avesse a vergognare della sua nascita. - Chi avrebbe sospettato tanto amore tanta delicatezza in mio padre? - Io ne lo benedissi con tutta l'anima; e pensai che spesso fra i sassi piú ruvidi e greggi s'asconde il diamante. Spiro raccontò poi le tronche parole di sua madre dalle quali avea indovinato il mistero della nascita d'Aglaura già prima di partire per la Grecia. Tornando coi sogni di quei quindici anni pel capo, vederla e innamorarsene era stato tutt'uno: ma se gli era opposto invincibile l'amore di quell'Emilio al quale senza conoscerlo aveva votato un odio immortale. L'odio si convertí in furore, e l'amore s'accrebbe di tutta la tenerezza della pietà quando avea saputo l'infame condotta, l'impostura e i tradimenti di quel giovane, di cui qualche barlume doveva essere trapelato anche all'Aglaura. - Oh sí! certo; - saltò a dire l'Aglaura - per cos'altro credete ch'io mi movessi di Venezia se non per punirlo della sua perfidia verso la patria? - Oh perché dunque mi proibivi sempre di biasimarlo? - soggiunse Spiro. - Perché? - riprese l'Aglaura con un filettino di voce. - Aveva paura di te... di te, mio fratello! - Ah! è vero! - gridò il povero giovane. - Era un infame!... Ma come comandar sempre ai proprii occhi?... Come crederti e trattarti come sorella quando sapeva che non lo eri, quando covava per te un amore antico di quindici anni e rafforzato da tutti gli stimoli della lontananza?... Perdona agli occhi miei, Aglaura!... S'essi peccarono talvolta, non ne ebbe colpa la volontà!... - Oh vi perdono! Spiro - sclamò singhiozzando l'Aglaura. - Ma se mi fossi sentita veramente vostra sorella, avrei io diffidato di quelle occhiate; lasciatemi credere che la malizia non fosse né mia né vostra, o almeno divisa per metà! Io chiesi allora a Spiro con bastevole ingenuità perché tre ore prima non ci avesse scoperto quel dolce segreto, e si fosse divertito invece a rappresentarci quella feroce scena da Oreste. Egli non sapeva come rispondere; pur finalmente si sforzò a farlo, dicendo che, dopo saputi i nuovi amori di Emilio e che la signora fuggita con essolui da Milano a Roma non era l'Aglaura, dei mostruosi sospetti gli avevano martoriato il cuore. - Qui - soggiunse egli - qui stasera a prima giunta trovandovi abbracciati insieme quei sospetti finirono di travolgermi la ragione!... Mio Dio! quale sventura! dico sventura, perché non ne avreste avuto colpa, e tuttavia sono fatalità che come i delitti piú tremendi lasciano nell'anima eterni rimorsi... Mi capite ora, Carlo!... Io era pazzo! Infatti io rabbrividii figurandomi quanto egli avrebbe dovuto soffrire. - Pure non ci svelaste nulla! - io replicai. - Oh fu un momento, fu un momento che tutto fui per isvelare! cosí credeva che mi sarei vendicato! - E vi tratteneste? - Per compassione, Carlo, per giustizia mi trattenni! Se il male era già avvenuto, perché punir voi innocenti? Meglio era ch'io partissi recando altrove la mia disperazione la mia gelosia, e lasciando a voi la felicità piuttostoché cambiarla in un rimorso irreparabile!... - Oh Spiro! quanto eravate generoso! - io sclamai. - Un'anima come la vostra piú che l'amore e la gratitudine comanda l'ammirazione!... L'Aglaura piangeva a cald'occhi stringendomi il braccio con una mano e guardando forse Spiro tra le dita dell'altra. - Ditemi ora dove foste per tutte queste ore - io richiesi volgendomi a Spiro. - Prima di tutto fui all'aperto, all'aria libera a respirare, a chieder ispirazione da Dio; indi come il cuore mi consigliava tornai in questa casa, interrogai i padroni, i portinai... Oh ci volle poco, Carlo, ci volle poco perché mi ricredessi!... Quel vapore di disperazione s'era disciolto; già mi pareva impossibile che Dio permettesse colle sembianze dell'innocenza una tanta nefandità. Quando poi udii la vita che voi menavate qui, proprio come fratello e sorella, semplice modesta riservata! quando udii i delicati riguardi da voi tenuti sempre verso l'Aglaura, allora la certezza della vostra innocenza mi slargò il cuore, allora compiansi maledii la mia stolta precipitazione e giurai che non avrei lasciato passare una notte senza togliervi dal cuore il coltello ch'io vi aveva confitto!... Deh per carità, Carlo!... Aglaura, se mai col mio grande affetto meritai nulla da voi, compatitemi, perdonatemi, serbatemi se non altro un cantuccio nella vostra memoria... e se la mia presenza vi richiama qualche crucciosa rimembranza... allora... Io mi volsi tacitamente all'Aglaura, ché per me non mi sentiva da tanto di rimeritare la bella magnanimità di Spiro. Ella mi comprese o comprese forse il proprio cuore: onde prese la mano del giovine, e mettendola nella mia, cosí com'eravamo uniti tutti e tre in una sola stretta, soggiunse: - Basta, Spiro! Ecco la nostra risposta! Formeremo una sola famiglia!... Il resto della notte fu goduto in amichevoli e lieti conversari e nell'esaminare le carte recate da Spiro e lasciate dal padre suo a Venezia, dalle quali era comprovata evidentemente la nascita dell'Aglaura nell'ospitale di Venezia e dalla povera mia madre. Il nome del padre non appariva; e come ben potete figurarvi, nessuno si sognò di notare questa spiacevolissima mancanza. Tirammo innanzi come se appunto il padre fosse una comparsa superflua nel mistero della generazione; io sapeva abbastanza i non pochi disordini della buon'anima di mia madre nell'ultimo stadio di sua vita, li compativa anche, ma né la pietà filiale né il rispetto di me medesimo e del nome paterno mi consigliavano di metterli in luce. Accettai dunque l'Aglaura per sorella di tutto cuore, ne ringraziai il cielo come d'un insperato e prezioso presente, e m'adoperai a tutt'uomo perché il presente fosse reso piú gradito a mille tanti col cambiare in parentela l'amicizia che mi univa a Spiro. Fu un po' malagevole per l'Aglaura questo passaggio dall'idee di morte di odio di vendetta a quelle di pace d'amore e di nozze; ma col mio aiuto e con quello di Spiro le superò. D'altronde ella vedeva che cosí tutto si accomodava e le donne per far tutti contenti sono anche capaci di maritarsi, quando peraltro con questi ripieghi accontentino prima di tutti se stesse. A quei tempi c'erano poche formalità per un matrimonio. Interpretando la tacita volontà di Spiro io m'ingegnai tanto e con sí felice esito che, prima della partenza della legione, ebbi la consolazione di vederlo sposo dell'Aglaura. Partimmo poi da Milano di conserva perché il signor Ettore mi concesse di buona voglia il permesso di accompagnarli fino a Mantova; di colà io l'avrei raggiunto a Firenze per la via di Ferrara. Quella breve meteora di contentezza famigliare m'era necessaria per rompere il buio del mio orizzonte che cominciava a minacciar troppo. Benché anche di mio padre Spiro mi avea recato qualche notizia se non diretta certo credibilissima. Lo dicevano giunto felicemente a Costantinopoli e inteso piucchemai all'opera gravissima che lo preoccupava, nella quale peraltro improvvisi ostacoli lo avevano ritardato. Stava bene, e avrebbe mandato sue nuove o sarebbe tornato ad impresa fornita. La partenza per la Grecia del vecchio Apostulos poteva addentellarsi alle macchinazioni di mio padre in Turchia, ma capii che Spiro o non ne sapeva o non potea dirne di piú, e cambiai discorso raccomandandogli soltanto di farmi giungere al piú presto e ovunque mi trovassi qualunque novella di mio padre fosse per arrivare. L'Aglaura, che avea preso il partito di aver comune con me il padre giacché aveva la madre, mi rispose in nome suo che sarebbe fatto, e che ella cercherebbe ogni modo d'averne contezza sovente, poiché anche a lei stava a cuore un sí buon papà. Ci separammo a Mantova proprio il giorno che quella città aveva ottenuto il permesso definitivo di aggregarsi alla Cisalpina; la mestizia dei commiati nostri andava perduta nella gioia nella speranza universale. Io aveva ritrovato una sorella, mi pareva di esser sulla buona via per trovare una patria; ben mi stava di vivere s'anco avessi perduto per sempre l'amore. Intanto ci demmo la posta a Venezia, tutti repubblicani, liberi, contenti! Essi scomparvero in un calesse sulla via di Verona, io ripresi a piedi la strada della città, fuor della quale li aveva accompagnati un buon miglio. Quell'ammasso di case di torri di cupole in mezzo all'acqua del Mincio mi fece pensare a Venezia: cosa volete? Invece di sorridere, sospirai; il passato poteva sopra di me assai piú del futuro, o lo stesso futuro mi traspariva qual doveva essere, di gran lunga diverso dalla creatura prediletta dell'immaginazione. Cionullameno quella festa d'una città italiana, già signora di sé, con corte, con leggi, con privilegi proprii, la quale si metteva uguale colle altre per esser libera o serva, felice od infelice insieme alle altre, mi saldò nel cuore un bel germoglio di speranze. Sono di quelle speranze che son sicure di crescere, e che morti noi, crescono nel petto dei figliuoli e dei nipoti finché tutte le loro parti abbiano avuto effetto di realtà. Anche i Gonzaghi diventavano omai una vecchia memoria storica. Parce sepultis, purché non facciano la burla di Lazzaro; ma costoro non ce la faranno mai; ove trovar Marta che preghi per essi?... In fin dei conti hanno stipendiato Mantegna, hanno fatto dipingere a Giulio Romano la volta dei Giganti, hanno liberato il Tasso dallo spedale, hanno vinto o perduto nella persona del condottiero la battaglia di Fornuovo, vi par poco? Era tempo che si mettessero anch'essi a giacere a canto dei Visconti, degli Sforza, dei Torriani, dei Bentivoglio, dei Doria, dei Colonna, dei Varano e di tutti gli altri. Fortunatissimi che furono gli ultimi; ma temo che abbiano dormito un bel pezzo ritti come i fanciulli ostinati: e chi dovea vegliare dopo essi pestava inutilmente i piedi. Comunque la sia io partii da Mantova di miglior umore che non mi sarei immaginato. La mia borsa affatto smilza (figuratevi se i mille ducati avean poco sofferto della lunga dimora mia e dell'Aglaura a Milano), la mia borsa, e insieme una certa modestia soldatesca non mi permisero che un biroccino fino Bologna; uno di quei veicoli che danno al paziente alcuna delle illusioni di chi siede in carrozza, con tutti gli incommodi di chi trotta sopra un cavallo da mugnaio. Le carrettelle del Vicentino e dell'alto Vicentino non ci avevan nulla a che fare; somigliavano gondole a paraggio di questi frulloni. Or dunque arrivai a Bologna coi nervi tutti offesi e accavalcati; fu per istirarmeli che mi accinsi pedestre al passaggio dell'Appennino. Oh qual viaggio incantevole! oh che scene da paradiso!... Credo che se fossi stato proprio felice di dentro, avrei detto anch'io al Signore, come san Pietro: "Vi prego, piantiamo qui i nostri padiglioni". Ho poi udito dire che ci domini troppo il vento in quegli ingroppamenti di montagne; ma allora, benché ridesse appena lievemente la primavera, era tuttavia una pace un tepore una ricchezza di colori e di forme in quel cantoncino di mondo, che ben ci si accorgeva di essere sulla strada di Firenze e di Roma. Giunto poi a Pratolino donde l'occhio divalla sulla sottoposta Toscana il mio entusiasmo non conobbe misura; e credo che se avessi conosciuto i piedi e gli accenti, avrei improvvisato un cantico sul fare di quello di Mosè. Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell'ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le creste azzurrine degli Appennini e le candidissime dell'Alpi, sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti, spirito e gloria, nelle eterne pagine della storia, nell'eloquente grandezza dei monumenti, nella viva gratitudine dei popoli, sempre apparisci sublime, sapiente, regina! A cercarti dentro di noi, intorno a noi, tu ti nascondi talora per vergogna la fronte; ma te la rialza la speranza, e gridi che delle nazioni del mondo tu sola non moristi mai! Allora infatti l'Italia era forse ai primordi della sua terza vita; primordi ignari e sconvolti come i primi passi d'un bambino. In Toscana come in Piemonte v'aveva la strana sconcordanza d'un principe che regnava e d'un general francese che imperava. Parevami proprio vedere i re della Bitinia, della Cappadocia o di Pergamo con Silla, Lucullo, e quegli altri dabbenuomini ai panni. Morivano essi lasciando erede il popolo romano; ma né Lucullo né Silla né i generali francesi di sessant'anni fa avevano scrupolo di prelevare qualche legato... A Firenze trovai il Carafa, ma non l'intera legione che s'era avviata verso Ancona per le rimostranze di neutralità fatte dal Granduca. Il signor Ettore pareva molto pensieroso; io credeva pensasse ai suoi soldati, ma egli si stizzí anzi ch'io glieli avessi recati a mente. Malediceva a denti stretti le donne, dicendo ch'è una vera sciocchezza la nostra il degnarsi di uscire alla luce da cotali demonii. - Diavolo, capitano, e donde vorreste nascere? - gli chiesi. - Dal Vesuvio, dall'Etna, dai gorghi tempestosi del mare! - egli mi rispose. - Non già da questi mostricciuoli armati di forza viperea che si vendicano di averci fatto nascere col toglierci oncia ad oncia la vita!... - Capitano, siete proprio infelice e pessimista in amore?... - Lo credo io!... Con un'amante che mi ama e non mi ama; cioè mi ha amato o si è lasciata amare come vorrei io una settimana, ed ora vuol amarmi alla sua maniera, che è la piú strana ed insopportabile della terra! - Quale maniera, capitano? - Quella dei datteri, che fanno all'amore l'uno in Sicilia e l'altro in Barberia. Io ne risi un poco di questo paragone; ma in fondo in fondo quando si veniva sul discorso di guai amorosi ci aveva pochissima voglia di ridere. Siccome poi non reputava il signor Ettore maestro consumato in tali faccende, e del resto gli voleva bene assai, cosí mi presi la libertà di suggerirgli un consiglio. - Offendetela nella superbia - gli dissi. - Improvvisatele una rivale. - Vedrò: - soggiunse egli - intanto tu raggiungi i nostri ad Ancona. A Roma ti saprò dire della bontà o meno del tuo consiglio, che mi ha idea di esser molto vecchio e corrotto dal lungo uso. - Sapienza vecchia dà frutto nuovo - io replicai. E corsi via per vedere cosí all'ingrosso Firenze, prima di ripartire per le Marche. A Firenze tutto mi piacque meno l'Arno, che per avere cosí bel nome, è molto piccolo fiume. Però giustizia vuole si osservi che tutti i fiumi soffrono dal piú al meno un tal calo sopra i meriti decretati loro dalla fama. Io trovai soltanto il Tamigi che attenesse la promessa; ed anco fui avvilito di vederlo andar a ritroso ad un minimo buffo d'aria. Per un cosí immenso fiume l'è invero arrendevolezza schifosa! Ma quanti uomini grossi che somigliano al Tamigi! Quante donne che somigliano a Londra! cioè, scusatemi, s'appoggiano volentieri a un fiume che ha molta acqua, molta vastità e dubbia corrente!... Vi fu un pacioloso padovano che in una nota barcarola cantava alla sua bella: Vieni, somiglia a Londra, Sei un basin d'amor! Egli non avrebbe creduto che io sudassi tanto un giorno per giustificare la lezione un po' arrischiata della sua strofa. Dall'Arno all'Adriatico furono tre giorni; e da Ancona a Roma dieci, perché s'avanzava coll'intera legione e non essendo avvezzi a camminar molto, bisognava cominciare con precauzione. Allora ebbi agio a convincermi che i primi nemici che un esercito nuovo incontra nelle sue imprese sono i polli ed i preti. Non valevano né minacce né rimproveri né castighi. Pollo voleva dir schioppettata, e prete burle e baldoria. Ammazzavano i polli per mangiarli in casa del prete e bere del suo vino; del resto tutto finiva lí, e se gli abati erano gente della legge, con un cicino di disinvoltura e una patina politica finivamo col separarci ottimi amici. Uno di cotali arcipreti bastava per un giorno a far propendere in favore di Pio VI gli animi della intera legione; gli è vero che a quel tempo il cardinal Chiaramonti aveva messo d'accordo Religione e Repubblica colla sua famosa Omelia, e si poteva propendere in favore di tutti. Per me, piú vado innanzi e piú m'avvedo che ogni religione ci guadagna assai a tenersi lontana dalla politica; gli è inutile; né l'olio si mescolerà mai coll'aceto, né il sentimento alla ragione, senzaché nascano sostanze spurie e scipite. Eccoci finalmente a Roma. Io ne aveva una voglia che non ne poteva piú. Sentiva che Roma solamente avrebbe potuto farmi dimenticar la Pisana; e mentre pur mi confidava in una cotale dimenticanza, andava almanaccando che cosa ne poteva esser di lei, architettava conghietture, creava e ingigantiva paure, dava corpo e movimento alle ombre piú mostruose che si potessero vedere. I suoi cugini di Cisterna, capitati da poco a Venezia, Agostino Frumier, quello slavo, Raimondo Venchieredo, lo schernitore, mi parevano ad ora ad ora altrettanti rivali; ma tutte quelle supposizioni svanirono quando lettere dell'Aglaura e di Spiro mi confermarono l'assenza della Pisana e che la sua famiglia nulla sapeva e poco curava sapere di lei. La Contessa pappava il frutto degli ottomila ducati e le bastava; il conte Rinaldo passava dall'ufficio alla Biblioteca, dalla Biblioteca alla tavola e al letto senza darsi pensiero che altri uomini vivessero al mondo: ambidue miserabili, miserabilissimi; ma non si curavano di affannarsi pegli altri. Convenite con me che se non eroismo fu certamente una bella costanza la mia di starmene a ordinar piuoli e a comandar movimenti sul monte Pincio, mentre avrei corso e frugato tutto il mondo per trovar la mia bella! La amava, sapete, proprio piú che me stesso; e per me che non vendo ciurmerie di frasi ma faccio professione di narrare la verità, questo è tutto dire. Nonostante aveva il coraggio di metter innanzi la patria, e benché facessi allora uno sforzo a inchiudere anche Napoli in quest'idea, Roma mi aiutava a vincer la prova. Roma è il nodo gordiano dei nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra schiatta, Roma è la nostra arca di salvazione, che colla sua luce snebbia d'improvviso tutte le storte e confuse immaginazioni degli Italiani. Volete sapere se un cotal ordinamento politico, se quella cospirazione di civiltà e di progresso può reggere e portar buon frutto alla nazione nostra?... Nominate Roma; è la pietra di paragone che scernerà l'ottone dall'oro. Roma è la lupa che ci nutre delle sue mammelle; e chi non bevve di quel latte, non se ne intende. Né voglio negare che il mirar troppo a Roma abbia fatto trascurare talvolta scopi piú vicini ed accessibili, dei quali avremmo potuto giovarci come di gradini a ulteriore salite; ma certo il mirar troppo non fu né tanto dannoso né cosí disonorevole come il mirar nulla; e nessun periodo di storia italiana fu confuso ed illogico al pari di quello che aggiunse mostruosamente all'Impero di Francia il Dipartimento del Tevere. Intanto, giunto che fui a Roma, successe del mio dolore quello che d'ogni piccola cosa al soverchiar d'una grande. Restò stupito, soffocato, dimenticato quasi. Che può essere infatti l'infelicità d'un uomo in cospetto dei lutti d'un'intera nazione?... Io ritrovava quasi una pace stanca, una mestizia senza amaritudine contemplando gli avanzi fulminati della gran caduta: sopra di essi mi parevano giuochi e freddure le pompe le minutaglie dei secoli cristiani. Solo nelle catacombe vagolava uno spirito di fede e di martirio che sublimava il cristianesimo sopra i grandiosi sepolcri pagani. Io mi curvava tremebondo sotto quelle sante memorie di sacrifizio e di sangue; e le torture e le flagellazioni e i vituperi e gli strazii e la morte lietamente sofferta per un'idea ch'io ammirava senza comprenderla, impiccolivano agli occhi miei quella soma d'affanni ch'io mi dava ad intendere di non poter trascinare. Nell'emulazione dei grandi sta la redenzione dei piccoli. Peraltro se il vivere nella Roma antica dei consoli e dei martiri mi dava qualche conforto, la Roma d'allora invece mi empieva di rammarico e quasi di spavento. Il Papa n'era andato senza scherni e senza plauso; perché avendo dovuto rimettere molto della pompa e della magnificenza colle quali era solito vivere, il popolo non si accorgeva piú di lui. Dallo splendore della corte e delle cerimonie, piú che dalla virtù e dalla santità della vita si misurava l'eccellenza del principe del cristianesimo. Una confusione di cose venerabili per religione e per età ladramente vituperate, di schifezze levate a cielo e splendidamente decorate, di stupidi superstiziosi e di vili rinnegati, di saccheggi e di carestie, di epuloni e di affamati, di frati cacciati dai conventi, di monache strappate ai loro ritiri, di cardinali inseguiti dai cavalleggieri, e di cavalleggieri scannati dai briganti; tutto andava a soqquadro, si rovesciava alla perdizione; giudice del bene o del male il talento annebbiato od illuso d'ognuno: un mescolarsi di resistenze pretesche, di arbitrii francesi, di licenze popolari e di assassinii privati; un mettersi avanti di grandi ed onesti nomi per coprire l'infamia dei piccoli; continui mutamenti senza fede senza sicurezza, cagionati dalla rapacità di chi amava pescare nel torbido. E Francesi che bestemmiavano ai traditori italiani e transteverini che insorgevano, gridando: - Viva Maria!... - Il sangue scorreva nei boschi, sulle maremme, nelle caverne; città e campagna s'armavano con egual furore; ma fin nei cunicoli del Culiseo, fin nei montani ricoveri, in braccio alla moglie, ai piedi dei vecchi genitori erano perseguitati i ribelli. Murat ammazzava fucilava impiccava; i superstiti andavano al remo, e chi li diceva martiri chi galeotti. Nessuna semente maggiore di discordia e di ribellione future che questa opinione dei popoli che cambia in altare il patibolo. Quattro commissari del Direttorio francese eran venuti a risuscitare le vecchie parole di consolato, senato, tribunato e questura; togliendo loro autorità coll'adoperarle a coprire cose affatto nuove e piuttosto che repubblicane, servili, pel precipizio con cui erano imposte. I cinque consoli si cambiavano ad ogni cambiar d'umore del generale francese; tuttavia la confederazione della Repubblica Romana (grave nome a portarsi) fu celebrata coll'egual solennità della Cisalpina. E fu coniata una medaglia che portava sulla doppia faccia le due scritte: Berthier restitutor urbis, e Gallia salus generis humani. Alla prima seppimo quanto credere: la seconda, Dio lo voglia! In un cotanto disordine anzi smembramento e tracollo della cosa pubblica quali potessero essere argomenti da rendere ai Romani assetto di nazione civilmente e secondo i proprii bisogni ordinata, io certo non lo so. Per questo non mi dà il cuore di biasimare davvantaggio quegli uomini che vi accudirono allora, e con effetto impari certo ai disegni. V'hanno certi dissesti morali ed economici nella vita d'un popolo, originati da lunghi secoli di corruzione di ozio e di servitù, per riparar ai quali non basta l'accorgimento e la tolleranza del paziente stesso, come per guarire non basta all'infermo sapersi malato e desiderar salute. Medici arditi e sapienti si vogliono che operino coraggiosamente e impongano al malato la quiete la fiducia la pazienza. Per sanare i guasti d'un dispotismo cancrenoso e immorale, nulla di meglio che una dittatura vigorosa e leale. S'anche taluni torcessero il naso a questa opinione, la storia risponde loro trionfalmente coi suoi argomenti veramente filosofici e invitti, che si chiamano necessità. Odiar le dittature si può, ma bisogna sopportarle; bisogna, come castigo ed espiazione. I legislatori del secolo passato, che dopo il trafugamento di Pio VI si tolsero di dare una costituzione alle Romagne, ebbero sulle spalle a mio credere il peso piú imponente che dorso politico abbia mai tentato di sollevare. S'accasciarono sotto; ma chi sarebbe stato ritto?... Cesare forse con trenta legioni, senz'altri amminicoli legali. Dopo il sollevamento generale del contado, l'esercito quasi tutto raccolto in Roma fu sperperato a pattuglie a guarnigioni a rinforzi nelle varie cittaduzze e altri luoghi murati delle Romagne. Fummo assieme pochi giorni con Lucilio con Amilcare con Giulio, e con essi visitai le belle cose di Roma e dei dintorni; ma quando avvenne il frastagliamento dell'occupazione militare, Giulio ed Amilcare furono mandati a Spoleto, io e Lucilio restammo nel Castel Sant'Angelo. La mia legione aspettava sempre il suo capitano che tardava a giungere da Firenze; ma forse non si dava fretta perché la pochezza delle forze francesi e le grandi fortificazioni interne di re Ferdinando non lasciavano lusinga per allora d'una guerra napoletana. Per poltrire in un seggiolone, com'è il destino del soldato in tempo di pace, tanto valeva un caffè di Firenze come quelli tutti di Roma. Almeno io spiegava cosí la tardanza del Carafa. Intanto continuava con Lucilio a godermi le belle antichità di Roma e a studiarmi la storia coll'aiuto dei monumenti. Era l'unico svagamento che mi restasse contro lo sconforto che mi aggravava sempre piú per le mancanti notizie di Venezia. Mia sorella e il cognato scrivevano; perfino mio padre scrissemi per mezzo loro da Costantinopoli che attendessi a sperare e a prepararmi; erano scarsi aiuti, nessuno sapeva darmi contezza della Pisana neppur per sospetto o per conghiettura. Udiva anzi che a Venezia si trattava di ventilare la sua eredità, segno che la credevano o la speravano morta; e questa faccenda nella quale ravvisai la crudele avidità della Contessa non vi so dire in qual furore mi mise. A questo s'aggiungevano i disinganni politici che cominciavano a tempestare. Le mutazioni imposte agli Statuti cisalpini da Trouvé, ambasciatore di Francia coll'aiuto delle baionette francesi, davano a divedere di qual lega fosse la libertà concessa alle repubbliche italiane. Securi contro l'Austria per la pace già stabilita, vollero stringer il freno, per aver piú pronta la direzione delle cose. Si tornava a mutare per cambiar poi di nuovo, soldatescamente tirannicamente sempre. Tantoché le menti piú forti ed illuminate si separarono da quel governo servile d'un altro governo pazzo e capriccioso, e fra i diversi combattenti, fra i varii partiti stranieri, cominciarono non a fare ma a sperare da sé. Nell'esercito cisalpino furono molti di cotali uomini indipendenti; principali Lahoz, Pino e Teulliet. Noi subalterni e gregari secondavamo, come è solito, le opinioni dei capi; e un odio sordo una profonda diffidenza contro i Francesi preparava sventuratamente il terreno alla nuova invasione austro-russa. Quando Dio volle arrivò il Carafa da Firenze, ma irto ringhioso severo quanto mai. Egli si fregava sempre colla mano quella cicatrice che aveva sul sopracciglio ed era pessimo segno. Il peggio poi si fu che volendo egli, se non poteva assaltar Napoli, accostarsi almeno al confine napoletano, tolse la sua legione e me con essa da Castel Sant'Angelo e ci mandò a stanziare a Velletri, una cittaduzza campagnuola, quali se ne vedono tante nella campagna di Roma, pittoresca di fuori, orribile sozza puzzolente di dentro: piena il giorno d'aratri, di carri, e di mandre di buoi e di cavalli che vengono e vanno; la notte ricreata dal muggir delle vacche, dal canto dei galli, e dalle campanelle dei conventi. Un vero sito da ficcarvi un poveruomo per guarirlo dalla malattia dei bei paesi e dei larghi orizzonti. Il Carafa alloggiava fuori di città in un convento saccheggiato dai repubblicani francesi, dov'egli avea mandato innanzi da Roma quanto bisognava per renderlo, se non splendido, almeno commodo ed abitabile. Poche guardie lo difendevano; e un paio di cannoncelli da campagna tirati da muli. Nelle intime stanze nessuno poteva entrare fuori del suo cameriere, che nella legione aveva voce di mago. Del resto le pastorelle che giravano pei dintorni, e quelle che recavano il latte al convento, dicevano di aver veduto alla finestra una gran bella signora: e doveva essere l'amante del signor Ettore. Gli altri soldati piú antichi di me al suo servizio, che l'avevano sempre veduto continente come uno che non ha tempo di pensare a simili freddure, non credevano a tali baie; e novellavano piuttosto che quella fosse una maga, o una qualche principessa napoletana ch'egli voleva mettere al posto della regina Carolina. I luoghi possono molto sull'immaginazione della gente: e i dintorni di Velletri inspirerebbero ad ogni sano intelletto stregonerie e fiabe, come i pascoli e le cascine del Lodigiano inspirano gli elogi del cacio e della pannera. Io solo forse mi serbava alieno da tali gotiche credenze, sapendo benissimo che si può durare un bel pezzo nella continenza, e sfrenarsi poi a farne una per colore con la ghiottornia di chi fu digiuno per un pezzo. Ad esempio vi recherò Amilcare, il quale raccontava di non aver assaggiato vino infino ai vent'anni; dai vent'anni in su, nessuno ne beveva tanto quanto lui. Lo stesso caso poteva esser succeduto al Carafa. Or dunque io credeva piú ad un genuino e fiero innamoramento che a qualunque stregheria, e sopra ciò fra me ed i compagni correvano frequenti alterchi e perfino scommesse. Dopo la mia separazione da Lucilio mi era fatto cosí burbanzoso e intrattabile che poco ci voleva a farmi saltare la mosca al naso: diedi dei capi guasti e dei credenzoni a chi vedeva meraviglie e magie. Fui rimbrottato come uomo migliore a parole che a fatti; ed eccomi nella necessità di dimostrar loro che non era vero. D'altra parte il martello continuo che mi pestava di dentro e la noia di quella vitaccia poltra e bestiale mi rendevano incresciosa la quiete e mi congratulai d'aver trovato un appiglio a muovermi, a fare non foss'altro delle corbellerie. Il capitano aveva proibito, pena la vita, che ufficiali o soldati, fuor quelli di fazione, s'avvicinassero al convento, ove avea fermato il quartier generale. Quel luogo era vicinissimo al confine; il nuovo esercito napoletano, per formar il quale s'eran tassati perfino i preti e le monache, s'addensava ogni giorno piú nei finitimi confini dell'Abruzzo; qualche avvisaglia poteva nascere, anzi era già nata, piú per impazienza dei gregari, che per deliberato volere dei capi; non voleva il Carafa che col disperdersi la legione da quella parte s'incontrasse qualche spiacevolezza affatto fuori di tempo. Ma questi dettami di prudenza sconcordavano assai dalla solita temerità, e il vero si era ch'egli non voleva occhi importuni intorno al convento. Io giurai ai miei compagni che sarei andato, che avrei veduto, nascesse quel che poteva nascere, e una sera di domenica fu scelta pel gran cimento. Il mio disegno era questo: di dar una voce d'allarme alla guarnigione del convento, e di girar le mura e penetrare nell'orto per la cinta ruinosa del medesimo mentre tutti avrebbero badato al luogo dove si aspettava il nemico. Quella sera, per esser festa, il grosso della truppa era sparpagliato per le bettole di Velletri; e grandi scompigli non potevano nascere. L'inganno si sarebbe scoperto, ed io avrei fornito il fatto mio prima che gli ufficiali avessero raccozzato le loro schiere. Il Carafa, uscito certamente per dar gli ordini, non poteva vedermi, le altre persone del convento, qualunque si fossero, certo non conoscevano me; e l'unico pericolo, abbastanza grande per verità, si era ch'io fossi scoperto nello scappar fuori del convento; ma la scusa non mancava di esser penetrato per salvarmi da una scorreria di cavalli napoletani. Credessero o no, non me ne importava; e dovessi anche pagare quel capriccio a prezzo di sangue, aveva promesso e voleva mantenere. Infatti verso il cader del sole, pigliando argomento da un gran polverio che si vedeva sorgere rimpetto al convento dalla parte della montagna (ed erano forse mandre che scendevano), io e alcuni de' miei compagni interessati alla scommessa, fingendoci sorpresi in una bettola vicina, corsimo fino alla prima scolta gridando che si avanzavano i Napoletani, e che dessero il segno mentre noi salivamo di gran fretta a Velletri ad ordinare il resto. In pochi momenti la piccola guarnigione fu pronta, perché il Carafa prevedendo simili casi aveva immaginato un'imboscata sul lato sinistro della strada, e non lasciò cosí che una sentinella o due intorno al monastero, divisando che l'era sempre a tempo a ritirarvisi, e che il grosso della legione scendendo intanto da Velletri avrebbe preso il nemico fra due fuochi. Mentr'egli disponeva cosí la sua piccola schiera in catena sopra certe colline coronate di cipressi e di lauri che fiancheggiavano la strada, e in mezzo ad essi attendeva a collocare i due cannoncelli colla solita antiveggenza ed operosità che non si riscontravano in altri che in lui, io e i miei compagni ridendo allegramente di quel parapiglia con un breve giro per la campagna ci ridussimo alla parte posteriore del convento dove l'orto combaciava quasi colla maremma. Essi stettero osservando; io scavalcai lievemente il muro; e via per mezzo all'orto dove i cavoli in semenza e il verziere abbruciato dal sole attestavano la non finita quaresima dei proscritti cappuccini. Quando fui giunto al fabbricato del convento, spiai le finestre e la porta per trovare un buco da entrarvi; ma era faccenda piú disagevole di quanto m'avea figurato. Le finestre erano munite d'inferriate solidissime, e le porte d'imposte di acero che avrebbero resistito ad una catapulta. Mi trovava, come si dice, a Roma, e non potea veder il Papa. In quella vidi lí presso fra alcuni alberi una scala a piuoli che avea dovuto servire all'ortolano dei frati per dispiccar le pesche, e pensai che gli aditi del piano superiore non erano forse cosí gelosamente guardati come quelli del terreno. Adattai la scala e mi misi alla prova. Le imposte infatti della prima finestra che tentai, erano solamente accostate senza alcuna sicurtà di chiavacci e di sbarre. Le apersi pian piano, vidi ch'era una specie di guardaroba cambiata dal signor Ettore in armeria, e buttai dentro una gamba. Ma mentre stava per passar coll'altra, un romore uno scalpito un gridio udito poco lontano mi fece restar sospeso, cosí com'era, a cavalcione del davanzale. Sullo stesso muro da me scavalcato vidi sorgere un cappello a tre punte, indi un altro e un altro ancora. Era gente che aveva gran fretta di entrare, e pareva piú disposta a fracassarsi il capo precipitando dalla muraglia nell'orto, che a restare dall'altra. Uno di essi giunto al sommo s'apprestava a discendere, quando tuonò come un'archibugiata; egli stese le braccia, e giù come un vero morto. Intanto quelli ch'eran già passati la davano a gambe traverso i cavoli; li ravvisai pei miei compagni, e non li ebbi conosciuti appena, che sul solito muro cominciarono a sorgere altri cappelli, e dietro i cappelli altre teste e braccia e gambe che non finivano piú. Ne calava uno e ne sorgevan dieci; una vera invasione, la vera piaga delle locuste che oscuravano l'aria. - I Napoletani! i Napoletani! - gridavano i miei compagni arrivati sotto al muro e arrampicandosi frettolosamente su per la scala in capo alla quale io sedeva. - Piano, adagio! - rispondeva io. - Se no vi ammazzerete tutti senza aspettare che vi ammazzino essi. Infatti la scala con un uomo per ogni piuolo scricchiolava come un pero troppo carico di frutta. Io prudentemente mi era ritirato con ambedue le gambe nella stanza, e credeva fare piú che non fossi obbligato, col tenerli forniti di buoni consigli. - Uno alla volta!... Non intralciatevi le gambe gli uni cogli altri!... Non isquassate tanto la scala!... Tutto in un momento un fischio di qua un fischio di là, uno scoppio per l'aria come di quattro o cinque saette che s'azzuffassero, e vicino a me uno scotimento tale che mandò in pezzi i cristalli. Sette dei miei colleghi balzarono nella stanza, uno rimase fuori morto, fortuna che fu proprio morto e non ferito; aggiungendosi l'altro ucciso mentre scavalcava il muro si aveva il conto giusto, che eravamo proprio in dieci. Corbezzoli! non v'avea proprio dubbio; le erano state schioppettate e ferme al loro indirizzo!... Sentiva allora per la prima volta l'odor della polvere. A me la fece l'effetto d'una convulsione di riso, come di chi l'ha scapolata bella. Peraltro non vorrei giurare che non avessi nulla, proprio nulla di paura: almeno mi si lasci il vanto della sincerità. Tuttavia se ebbi paura, non ne ebbi tanta che mi vietasse di tornar alla finestra e far un certo gesto molto espressivo a quei scuriscioni napoletani, che guardavano in alto senza poter seguirci per aver noi ritirato con molta bravura la scala. Quel gesto fu il tocco magico che mise l'entusiasmo in petto ai miei compagni; ma anche i nemici non burlavano, e cominciarono una certa musica coi loro schioppi che non dava gran voglia di affacciarsi al balcone per guardar il tempo. Noi ci eravamo serviti di fucili di coltelli e di pistole in quell'armeria cosí opportunamente disposta; rendevamo i saluti con tutta compitezza; e mentre essi a noi sforacchiavano i cappelli, noi a loro spalancavamo il cranio e la pancia. Non so se fossero contenti del cambio. Peraltro la continuazione di quella commedia ci dava da pensare. Da dove fossero sbucati quei Napoletani?... Che il capitano non ne sospettasse nulla? Che essi fossero già in cammino da senno dalla parte della maremma mentre noi gridavamo il falso allarme verso la montagna? Cosí era successo infatti; e una semplice bizzarria potea costarmi salata a me, a tutta la legione, e dar anche ad uno scherzo ad una bravata l'apparenza del tradimento. Intanto si continuava a schioppettare dall'alto in basso con maggior fortuna che dal basso in alto, quando credemmo accorgerci che i nemici rallentassero non poco della loro vivacità. Qualcuno di noi s'apparecchiava a cantar vittoria e fors'anche a dare addosso a quei pochi ostinati che non volevano ritirarsi e scorazzavano dietro le piante del verziere, quando s'udí sotto i nostri piedi un fragore come d'uno scoppio sotterraneo, e poco stante un correre uno scalpitare nelle stanze terrene susseguito da grida da urli da bestemmie e da giaculatorie secondo il pio costume dei Napoletani quando vanno in guerra. Ciascuno di noi fu soprappreso da terrore; mentre i bersaglieri ci tenevano a bada, il grosso degli assalitori avea sfondato una porta con una piccola mina; il convento era invaso; uno contro dieci sarebbe stato vano il pensiero di resistere. Io allora, che mi sentiva nella coscienza tutto il rimorso di quella malaugurata fazione, mi slanciai coraggiosamente alla testa dei compagni. Poche parole, un pronto e buon esempio, e capii che mi avrebbero secondato a dovere. - Amici, vadano le nostre vite, ma non cediamo il piano superiore!... Pensate all'onor vostro, all'onore della legione!... - Cosí dicendo m'era gettato fuori della guardaroba, e giunto sulla scala m'era ingegnato a barricare la porta con armadi con tavole ed altri mobili che potemmo raccozzare. I Napoletani salivano sicuri, ma trovarono tra le fessure alcune bocche di moschetto ben appostate che li fecero dar indietro gli uni sugli altri. - Coraggio, amici! - soggiunsi - un soccorso non può tardare!... - Infatti mi pareva impossibile che al rumore delle archibugiate il signor Ettore non ispiccasse taluno a vedere di che si trattava. Non mi sarei mai figurato che quel giorno appunto fosse destinato alla prima mossa dell'esercito napoletano, e che egli fosse da parte sua molto affaccendato a tenerne lontani gli scorridori, perché la legione avesse campo di uscir da Velletri. Ad ogni modo ci adoperammo tanto bene dietro il buon riparo d'una doppia porta di quercia che i nemici dimisero affatto il pensiero di salire per la scala. Ci avvidimo peraltro ch'essi lo avevano dimesso per entrare in un altro piú pericoloso ancora; pareva che avessero appiccato il fuoco sotto i nostri piedi; il fumo pei fessi del solaio penetrava nell'andito ove eravamo e ci toglieva il respiro; poco dopo cominciarono a crepitare le travi, e le fiamme a farsi strada tra i mattoni arroventati. Fuggimmo a precipizio nelle stanze vicine, e un minuto dopo quel pavimento crollava con fracasso spaventevole. Ma anche nelle altre stanze la sicurezza non era maggiore; l'incendio s'era dilatato in un attimo, perché c'erano sotto appunto i magazzini della paglia; bisognava uscire o rassegnarsi a morire abbrustoliti. I miei compagni con pistole fra mano e la spada fra i denti si precipitarono dalle finestre, e sgominando per la sorpresa i pochi nemici distratti dalla vista dell'incendio, si ritrassero a salvamento sulla collina. Uno solo, inciampato nel cadere, si slogò e si ruppe una gamba, benché il salto da quella parte fosse discretissimo; e subito quei sicari gli furono addosso come lupi ad un agnello, e a dirvi le torture e gli strazii che gli fecero soffrire, sarei tacciato senza fallo di bugiardo, perché sembrerebbe impossibile che tanto si infierisse contro una creatura umana in un attimo di tempo. Io mi ritrassi raccapricciando; pure una forza sovrumana mi comandava di non fuggire; mi relegava fra quelle muraglie già invase dalle fiamme. Altre creature vi erano chiuse, non sapeva chi; ma bastava perché io, cagione innocente di quell'eccidio, mi sacrificassi ad una lontana lusinga di poterle salvare. Correva come un pazzo pei lunghi corritoi, passava da porta a porta per le innumerevoli celle e pei profondi appartamenti del chiostro; l'aria si riscaldava sempre piú come d'un forno in cui si rattizzi mano a mano la fiamma. Dappertutto era solitudine e silenzio; solo gli urli di fuori e un lontano strepito d'archibugiate aggiungeva terrore a quegli angosciosi momenti. Deliberato a non tentare la fuga se prima non era ben certo che anima umana non restasse in quell'inferno, mi avventurai a un disperato passaggio sopra quell'andito il cui pavimento ci era quasi crollato sotto ai piedi. Restavano alcune travi fumiganti e da un lato della muraglia una specie di volta che copriva una scala sottoposta. Passai correndo sopra questa, e mi diedi a vagare dissennato per quell'altra parte dell'edifizio. Giunsi ad una porta chiusa che non avrebbe resistito certamente all'urto di due braccia animate come le mie dalla disperazione. Tuttavia gridai prima angosciosamente: - Aprite, aprite! - Mi rispose uno strido che mi parve di donna, e in pari tempo una palla di pistola, uscita da un traforo dell'uscio, mi passò rasente le tempie e andò a conficcarsi nel muro dirimpetto. - Amici! amici! - io gridai. Ma nuove strida soffocarono la mia voce, e un nuovo colpo di pistola partí dalla porta, che mi sfiorò un braccio e me ne fece zampillare il sangue. Io diedi entro disperatamente coll'una spalla in quella porta, deciso a salvarli anche loro malgrado se erano amici, a farmi uccidere se nemici. L'uscio cadde in pezzi, e affumicato sanguinoso colle vesti arse e stracciate io mi precipitai in quella stanza che parvi certamente un dannato. Rovesciai nel mio impeto una donna che correva qua e là per la stanza colle palme levate al cielo o accapigliate nelle trecce come ossessa dalla paura. Un'altra donna mi fuggiva dinanzi, e parve disposta a volersi salvare precipitandosi dalla finestra; ma io fui piú presto a raggiungerla, e la cinsi delle mie braccia mentre appunto il suo corpo spenzolava dal davanzale. Le vampe che uscivano dal piano sopposto le incenerirono i capelli, due o tre archibugiate salutarono la nostra apparizione alla finestra; io la sollevai per ritrarla da quella posizione cosí pericolosa dicendole che era amico, accorso per salvarla, che non temesse o eravamo perduti... Il suo volto, bello d'una sublime disperazione, si volse precipitosamente... Io fui per cadere come colto da una palla nel petto... Era la Pisana! La Pisana!... Mio Dio! Chi potrebbe esprimere la tempesta che mi si sollevò nel cuore?... Chi può dar un nome a ciascuna di quelle passioni che me lo sconvolgevano? L'amore, l'amore fu la prima, la piú forte, la sola che raddoppiò la virtù del mio petto, e diede all'animo mio un'audacia invincibile! La sollevai sulle spalle, e via con essa tra le fiamme, tra i solai scricchiolanti, le mura rovinose, e il rimbombo delle volte crollanti!... Scesi sul dinanzi dove le vampe lasciavano ancora un passaggio; ma da destra e da sinistra sentiva da un'aria infocata affogarmi la gola. Un ultimo sforzo! Chi dirà mai ch'io cada con un tal peso sulle braccia?... Chi dirà mai ch'io abbandoni alle fiamme queste belle membra ch'io ammirai tante volte come l'opera piú perfetta della natura, e questo volto incantevole dove la generosa anima sua trapela lampeggiante, come la folgore tra le nubi?... Io avrei traversato un vulcano senza paura di allentar d'un capello la stretta con cui cingeva quel corpo prezioso e quasi esanime. Foss'ella morta, e io sarei morto io pure per poter pensare nell'istante supremo: "Son caduto per lei e con lei!...". Timori, sospetti, gelosie, vendette che mi avevano gonfiato il cuore un istante s'erano dileguati; l'amore era rimasto solo, colla sua fede che rinasce dalle ceneri come la fenice, colla sua forza che vince la stessa morte perché la disprezza e l'obblia. Colla Pisana in collo, colla disperazione nel cuore, la minaccia piú spaventosa negli occhi, rotando forsennato una spada sgominai una fila di nemici che si scaldava spensierata all'incendio del convento. Mi ricorda aver traveduto fra essi un frate che pregava il cielo e arringava devotamente i soldati. Era il priore del convento che avea guidato i soldati della Santa Fede a quella tremenda vendetta; egli diceva che i nemici della religione erano rimasti arrostiti nel proprio unto. Ma l'ultimo di questi invece, non nemico della religione ma dei fanatici che le mettono l'armi alla mano, sfuggiva miracolosamente al loro furore. Se Dio guardava in quel momento sopra Velletri, certo che i suoi favori furono per la Pisana e per me. Sempre correndo giunsi alle colline dov'era disposta l'imboscata del Carafa, ma là le sorti del combattimento erano state ben diverse. Incontrammo i piú indiavolati dei legionari che dopo aver ributtato i Napoletani fin nelle gole della montagna tornavano per voltarsi contro gli incendiatori del convento. Ettore stesso, che solo in quel momento avea ricevuto l'annunzio di quanto avveniva alle sue spalle, si precipitava colà alla testa de' suoi, incerto se sarebbe giunto in tempo, certo che la difesa o la vendetta sarebbero state tremende e irresistibili al pari. Io mi nascosi fra i lauri di quella costiera finché fu passato; ma poi ne ebbi pietà, e fermato un caporale che gli teneva dietro con un nuovo drappello raccozzato a Velletri, lo incaricai di dirgli che colei ch'egli sapeva era già in salvo nella città. Infatti, mossi ancora alcuni passi e imbattutomi in due de' miei soldati, consegnai loro la Pisana perché la portassero; quanto a me era proprio sfinito e durai fatica a tener loro dietro fino sul monte che porta sulla cima Velletri. Colà arrivato, la acconciai nel mio letto, le feci aprir la vena da un barbiere lí presso, e finch'ella rinveniva, per toglierle la commozione della sorpresa, uscii sopra un loggiato che prospettava la campagna. Si vedeva il convento simile in tutto ad un gran rogo, le fiamme rossastre e fumose si disegnavano sempre meglio sopra il cielo che s'imbruniva, e al loro tetro bagliore si vedevano luccicare le baionette dei legionari che premevano alle reni i fuggiaschi Napoletani. La battaglia era vinta e tristi presagi circondavano il primo ingresso dei liberatori nei confini della Repubblica Romana. Quando rientrai, la Pisana s'era già posta a sedere sul letto e mi accolse con minor confusione di quanto mi sarei aspettato. Fu anzi ella la prima a parlare, il che mi sorprese assai per l'economia di fiato ch'ella usava fare anche in momenti d'assai meno scabroso discorso. - Carlo - mi diss'ella - perché non mi hai lasciato dov'era?... Sarei morta da eroina e a Roma mi avrebbero messa nel nuovo Panteon. Io la guardai esterrefatto, giacché quelle parole mi sapevano di pazzia; ma ella mostrava ragionare col suo miglior senno, e dovetti rispondere a tono. - Lasciando te avrei dovuto restare anch'io! - soggiunsi con voce tanto commossa che stentava a tirar innanzi. - Ti giuro, Pisana, che sul primo momento che ti ravvisai ebbi una gran voglia di ucciderti e di morire! - Oh perché non lo hai fatto? - gridò ella con tale accento del quale mi fu forza riconoscere la sincerità e la disperazione. - Non l'ho fatto... non l'ho fatto, perché ti amo! - le risposi colla fronte china come chi confessasse una propria vergogna. Ella non fu per nulla umiliata da quel mio cipiglio; anzi levando fieramente le ciglia, come una vergine offesa: - Ah mi ami, mi ami? - esclamò. - Empio, traditore, spergiuro! Che il cielo ascolti le tue menzogne e te le faccia colare in gola mutate in piombo rovente!... Tu mi hai calpestato come una schiava, mi hai ingannato come una scimunita; e al mio fianco, fra le mie braccia stesse, meditavi il tradimento che hai consumato!... Oh felice te! Felice, che un uomo s'interpose fra te e me!... Ch'egli tolse di mano a me la vendetta, e me ne porse un'altra che forma la mia vergogna, il mio tormento di ogni giorno, d'ogni minuto! Altrimenti sul seno stesso della tua druda t'avrei piantato un pugnale nel cuore; e aveva tanta forza in questo mio braccio che d'un colpo solo v'avrei annientati ambidue!... Va', ora va'!... Godi della mia umiliazione, e del tuo trionfo!... Mi hai salvata la vita!... Il generoso sei tu!... Alla prossima decade avrai una corona civica intorno alle tempia; ma io sarò tanto imperterrita da rifiutare la feccia di quel calice disonorevole che mi si vuol imporre! Avrò il coraggio di sfidare quell'amor furibondo cui mi sono rabbiosamente venduta!... Sono sei mesi ch'io lo schernisco, ora lo sbeffeggerò!... Vendetta per vendetta!... Una pugnalata di sua mano recherà a me la morte, ed al tuo cuore pusillanime un rimorso senza fine!... Udirmi maledire in tal modo da colei che m'aveva tradito cosí orrendamente, alla quale io avea serbato una fede candida un amore costante, e pur allora lo aveva provato coll'esporre la mia vita nel salvare la sua, per quanto il modo ed il luogo dove la trovava dovessero inviperire la mia rabbia, e convertir l'affetto in furore, vederla furibonda e sdegnosa contro di me, mentre l'aspettava umile e tremante, fu un cotal colpo che mi lacerò le viscere. L'ira mia si sollevò fino contro Dio, il quale permetteva che l'innocenza fosse maltrattata cosí indegnamente, e che il vizio armato di fulmini si godesse di atterrirla dall'alto del suo trono di vergogne. - Pisana - gridai con voce soffocata e travolta da singhiozzi - Pisana, basta! Non voglio, non posso piú ascoltarti!... Le parole che ora pronunciasti sono piú vili piú oscene dei tuoi tradimenti!... Oh non istà a te, non istà a te l'accusarmi!... Mentre confessi il delitto piú mostruoso che l'amante possa commettere contro l'amante, hai ancora la crudeltà e la baldanza di pascerti delle mie lagrime, di godere de' miei tormenti, e di fingerti offesa e vituperata per minacciarmi una vendetta piú sanguinosa, ma pur sempre meno indegna di quella che hai già consumato contro di me!... Taci, Pisana; non una sola parola di piú: o io rinnego quanto v'è ancora di giusto e di santo al mondo; io mi strappo dal petto l'onore e lo butto ai cani come un abbominio!... Sí, rinnego anche quell'onore bugiardo che soffre quaggiù la vergogna dovuta agli spergiuri senza rispondere con uno scoppio di vulcano a sí sfrontate calunnie! La Pisana si strinse la fronte colle mani e si mise a piangere; indi improvvisamente balzò dal letto, ove l'avevano adagiata vestita com'era, e fece motto di voler uscire dalla stanza; io la trattenni. - Dove vuoi andare ora? - Voglio andare dal signor Ettore Carafa: conducimi tosto dal signor Ettore. - Il signor capitano sarà ora occupatissimo nel dare la caccia ai Napoletani, e non ci sarebbe tanto facile trovarlo; d'altronde egli fu avvertito del tuo salvamento e non può fare che non ti raggiunga appena lo potrà. Queste ultime parole io le condii d'un discreto sapore d'ironia, ond'ella inalberandomisi dinanzi: - Guai a lui, o guai a te! - sclamò con atto profetico. - Guai a nessuno - io le risposi con fronte sicura - guai a nessuno; pur troppo!... Io sarei ben fortunato di poter uccidere taluno!... - Perché non uccidi me? - uscí ella a dire con molta ingenuità. - Perché... perché... perché sei troppo bella... perché mi ricordo che fosti anche buona! - Taci, Carlo, taci!... Credi che verrà presto il signor Ettore? - Non te lo dissi?... Appena potrà!... Ella tacque allora per lunga pezza, e al dubbio chiarore della luna che entrava dalla loggia vicina, vidi che molti e varii pensieri le traversavano la fronte. Ora fosca, ora raggiante, ora tempestosa come un cielo carico di nuvole, ora calma e serena come il mare d'estate; si componeva talvolta all'attitudine della preghiera, poco dopo stringeva il pugno come avesse in mano uno stilo e ne ferisse a piú riprese un petto aborrito. Colle vesti discinte, brutte di sangue e di polvere, coi capelli semiarsi e scarmigliati, colle sembianze scomposte dalle vicende terribili di quella mezza giornata, ella poggiava il gomito sulla tavola affumicata e sanguinosa pur essa. Sembrava qualche negra pitonessa uscita dall'Erebo allora e meditante gli spaventevoli misteri della visione infernale. Io non osava rompere quel tetro silenzio, avea anch'io bisogno di raccogliermi e di pensare, prima di provocare le rivelazioni della tetra Sibilla. La storia del cuor suo e quella della sua vita dopo la mia partenza si illuminavano a sprazzi nella mia atterrita fantasia; ma aveva ribrezzo di guardare, sentiva che pel momento era uno sforzo superiore alle mie forze. Se taluno mi avesse detto: "a prezzo di farti stupido io prometto convincerti della innocenza della Pisana", certo io avrei accettato il contratto. Indi a un'ora circa il signor Ettore Carafa solo, accigliato, entrò nella stanza. Non aveva cappello, ché l'aveva perduto nella mischia, cingeva il fodero senza spada perché l'aveva spezzata nel cranio d'un dragone dopo avergli segato l'elmo per mezzo alla cresta; la sua cicatrice s'imbiancava d'un pallore quasi incandescente. Salutò, si mise tra me e la Pisana, e aspettò che alcuno di noi parlasse. Ma la Pisana non lo lasciò aspettare a lungo, ché con fare superbo e stizzoso gli domandò che ripetesse la storia de' miei amori colla bella greca; e narrasse la cosa ingenuamente come l'aveva narrata a lei. Il Carafa infatti, chiestone a me licenza, narrò senza scomporsi quello che aveva saputo di tali amori nei crocchi di Milano, e della bella giovane, e della gelosia con cui la teneva nascosta agli occhi di tutti. - Ecco, Pisana, cosa vi narrai - conchiuse egli - quando appena giunta a Milano veniste da me a chiedermi se nulla sapeva di Carlo Altoviti mio ufficiale e degli amori suoi che facevano tanto chiasso appunto pel loro mistero. Narrando ciò, non facea che ripetere la voce di tutti, e ne andava certamente illeso l'onore di colui ch'era l'eroe di quei tali amori. Ho fallato?... Non mi pare!... Di null'altro debbo render conto a nessuno! La Pisana parve soddisfatta abbastanza di questa temperatissima arringa del Carafa, e si volse a me, come il giudice al reo dopo la deposizione d'un testimonio irrefragabile. - Pisana, perché mi guardate a quel modo? - soggiunsi. - Perché? - diss'ella - perché vi odio, perché vi disprezzo, perché vorrei potervi fare piú onta che non vi feci col buttarmi nelle braccia d'un altro... Io inorridii di tanto cinismo; ella se n'avvide e si contorse tutta come uno scorpione toccato da una bragia. Si pentiva d'essersi mostrata qual era, veramente diabolica ed insensata in quel momento di rabbia. - Sí - riprese ella - guardami pure!... Io posso amare un uomo ogni giorno, quando tu giuravi di amar me, e macchinavi già di rapire l'Aglaura!... - Insensata! - gridai. Corsi al mio baule, ne trassi alcune lettere di mia sorella, e le buttai sulla tavola dinanzi a lei. - Un lume! - ordinai poi sulla porta; ed avutolo lo posi vicino alla Pisana, e le dissi: - Leggete! La fortuna mi aiutava col lasciarle ignorare ch'io non conosceva la mia parentela coll'Aglaura quand'eravamo fuggiti da Venezia; avvisai utile il lasciarglielo ignorare anch'io, per non inviluppare piucchemai i mille particolari di quella scena dolorosa e malagevole. Ella lesse due o tre di quelle lettere, le passò ad Ettore dicendo: - Leggete anche voi! - e mentr'egli le scorreva in fretta dando segno di maraviglia e di dispiacere, ella andava dicendo fra i denti: - Mi hanno tradita!... È stata una congiura!... Maledetti, maledetti!... Li divorerò tutti!... - No, Pisana, nessuno ti ha tradito; - le dissi io - tu fosti a tradir me!... Sí, tu!... Non difenderti!... Non invelenirti contro di me!... Ma se m'avessi amato davvero, oh io poteva essere spergiuro infame scellerato che mi ameresti ancora!... Lo sai, Pisana, lo sai perché te lo dico?... gli è perché lo sento. Gli è perché tal quale or sei, mi vergogno a dirlo, io t'amo, io t'adoro ancora!... No, non sgomentirti! Ti fuggirò, non mi vedrai mai piú!... Ma lasciami prendere di te questa sola vendetta, che tu sappia di aver fatto l'eterna sventura di quell'uomo al quale potevi essere gioia, conforto, felicità per tutta la vita!... Carafa aveva scorso intanto alcune delle lettere e me le rese dicendo: - Perdonate; m'ingannò la voce pubblica, ma non ebbi intenzione d'ingannare. Una cotal scusa in bocca d'un tal uomo mi commosse a segno che a stento frenava le lagrime; infatti io vedeva il gran sforzo indurato dal signor Ettore per poter ottener tanto dal proprio animo. L'alterigia piegava sbuffando sotto la forza inesorabile della volontà. La Pisana piangeva e una doppia vergogna le impediva di rivolgersi al pari al signor Ettore e a me. Questi ebbe compassione, non so bene se di me o di lei, e mi chiamò per qualche momento, diss'egli, fuori della stanza. Mi narrò com'era stato il suo primo abboccamento colla Pisana, com'ella sapendomi ufficiale al suo servigio si rivolgesse a lui per piú certa contezza, e che ella era già delirante di gelosia, ed egli invaghito di lei al primo sguardo. Insomma mi confessò che, credendomi innamorato morto della mia greca, non aveva creduto illecito il giovarsi di quella fortuna che gli capitava in mano; tanto piú soave e desiderata, quanto pochissime volte l'amore era penetrato nel suo duro petto di soldato. Si era perciò ingegnato di volgere a suo pro' il furore della Pisana, e vi era infatti riescito in quei primi giorni. - Ma poi - soggiunse egli - non ci fu piú verso ch'ella volesse ricordarsi di quei primi giorni d'ebbrezza. A Milano, a Firenze, a Roma mi seguí sempre muta, altera, insensibile; godendo delle mie smanie, rispondendo alle mie preghiere e alle minacce con questa acerba parola: "Mi son vendicata anche troppo!". Oh quanto soffersi, Carlo! Quanto soffersi! Ve lo giuro che foste vendicato anche voi! Pregava, supplicava, piangeva, faceva voti a Dio ed ai santi, non mi riconosceva proprio piú!... Perfino alla corruzione ricorsi, e tentai coll'oro la sua cameriera, una certa veneziana dalla quale non volle mai separarsi... - Chi? - esclamai io - come si chiamava? - L'era una certa Rosa; una disgraziata che avrebbe venduto una sorella per dieci carlini. Ma oggi fu punita spaventosamente di ogni suo trascorso; e l'ho veduta fatta carbone fra le rovine del convento!... Or bene, neppure per l'infame intercessione di colei ottenni nulla; mi era avvilito abbastanza, mi sembra. La tolsi di Roma per menarla qui in questa solitudine, ove avea deliberato di ricorrere anche alla forza per ricondurla a' miei desideri!... Vani pensieri, o Carlo!... La forza cade in ginocchio dinanzi ad un suo sguardo!... Io capiva che qualche suprema deliberazione, qualche passione invincibile me l'avea tolta per sempre dopo le concessioni quasi involontarie d'un momento di sorpresa!... Io vi scopersi tutta intera la verità, benché non debba esserne gran fatto vanitoso; traetene voi il vostro giudizio, e regolatevi a vostra posta. Il mio quartier generale sarà domani sera a Frascati, perché il general in capo Championnet ha ordinato una ritirata completa sopra tutta la linea. Consultatevi colla Pisana. La mia casa le sarà sempre aperta, perché io non dimentico mai né i favori altrui, né le mie proprie promesse. Ciò dicendo il Carafa mi strinse la mano senza molta effusione e si ritirò ripigliando il suo fiero cipiglio guerresco; mi parve che nel rilevare il petto e nello scuotere leggermente i capelli, egli gettasse le spoglie del gineceo per rivestire la pelle leonina d'Alcide. Io rientrai dalla Pisana senza far parola, e aspettava ch'ella m'interrogasse. - Dov'è andato il signor Carafa? - chies'ella infatti con molta premura. - Ad ordinare la ritirata sopra Frascati - risposi. - E pianta qua me?... E non mi dice nemmeno dove va? - Egli ha detto a me che lo significassi a voi. Vedete ch'egli non manca ad alcuno de' suoi doveri di cavalleria, e che non si rifiuta dall'osservare gli obblighi contratti con voi! - Obblighi con me?... lui?... Me ne meraviglio!... Egli non avrebbe altr'obbligo che di rendermi quello che m'ha rubato; ma son cose che non si restituiscono. Infine poi non sarò la prima donna che si sia fatta rispettare senza avere al fianco la spada ignuda d'un paladino!... Favorite chiamare la mia cameriera! - Vi dimenticate dove l'abbiamo lasciata?... Ella restò vittima dell'incendio! - Chi?... La Rosa?... La Rosa è morta?... Oh poveretta me, oh disgraziata me! Son io, son io che l'ho lasciata perire a quel modo!... Me ne sono dimenticata quando appunto dovea prenderne maggior cura! Maledizione a me che avrò sempre sulla coscienza il sangue d'una innocente! Io mi sforzai a darle ad intendere che essendo ella svenuta in quel parapiglia e bisognevole del mio soccorso per fuggire, non la potea già darsi pensiero né della Rosa né di nessuno. Ella seguitò a lamentarsi, a sospirare, a parlare con una volubilità incredibile, senza peraltro far parola piú di seguire il Carafa o di volersi partire da sola. Per me aveva tanta compassione di lei che l'amor mio non avrebbe sdegnato di tornar umile e carezzevole come una volta, purché l'avesse fatto le viste di desiderarlo. - Carlino - mi diss'ella ad un tratto - quando partiste da Venezia voi non sapevate che l'Aglaura fosse vostra sorella, perché altrimenti me l'avreste detto. - No, non lo sapeva - risposi non vedendo ragione di mentir oltre. - E tuttavia viveste insieme proprio come fratello e sorella. - Era impossibile altrimenti. - E quanto tempo durò questa vostra vita innocente e comune? - Certo parecchi mesi. La Pisana ci meditò sopra un pochino, indi soggiunse: - Se io dormissi qui sopra questa seggiola, Carlo, ve ne avreste a male? Le risposi ch'ella poteva anche adagiarsi nel letto a sua posta, che io aveva da basso un altro giaciglio ove avrei cercato di pigliar sonno. Infatti si mostrò molto lieta di questa licenza, ma aspettò per approfittarne che io fossi disceso dalla scala. E allora, siccome per curiosità mi era fermato ad origliare, la udii dare il chiavaccio alla porta con molta cura di non far romore. L'anno prima a Venezia non avrebbe fatto cosí, ma dalle precauzioni usate a non farsi intendere capii che tutto era effetto di vergogna. Il giorno dopo non si parlò piú del giorno prima; cosa facilissima per la Pisana che si dimenticava di tutto e difficilissima per me che non costumo nutrir d'altro il mio presente che delle memorie passate. Mi chiese in che modo saremmo partiti, cosí come se da qualche anno fossimo avvezzi a viaggiar insieme; acconciati alla meglio in un curricolo, la sua festività naturale mi fece parer brevissima la gita fino a Frascati. L'amore non venne piú in ballo, ma un'amicizia come di fratelli, piena di compassione e d'obblio, gli era succeduta. Notate che io parlo dei discorsi e delle maniere; quanto a ciò che bolliva sotto, non vorrei far sicurtà, e alle volte io credetti sorprendermi in qualche movimento di stizza per la dabbenaggine con cui aveva accettato quel tacito e freddo compromesso. La Pisana sembrava beata di esser non dirò amata ma sofferta da me; cosí ingenua, cosí ubbidiente, cosí amorevole si serbava, che una figliuola non avrebbe potuto esser di meglio. Era, credo, una muta maniera di domandar perdono; ma non l'aveva ottenuto? Pur troppo io ebbi sovente quella facilità censurata tante volte in lei di perdonare e dimenticare torti affatto imperdonabili! Tuttavia non ismetteva nulla del mio dignitoso contegno: e a Spoleto a Nepi ad Acquapendente a Perugia in tutti i luoghi dove Championnet condusse l'esercito per raccozzarne le membra sparse ed apparecchiarle meglio alla riscossa, noi menammo la vita di due fratelli d'armi, che hanno goduto la loro gioventù, e danno giù, come si dice, ogni giorno peggio nel brentone del positivo. Intanto re Ferdinando di Napoli e Mack suo generale entravano trionfalmente in Roma. I Francesi s'erano ritirati per prudenza, e l'esimio generale ne dava invece il merito a' suoi complicatissimi piani strategici. La Repubblica Romana era ita a soqquadro come un edificio di carte da giuoco: si stabiliva sotto il patrocinio del Re un governo provvisorio. Ma intanto il barone Mack non istava colle mani alla cintola e complicava sempre piú i proprii piani per cacciar Championnet dallo Stato romano e forse forse da tutta Italia. Naselli era sbarcato a Livorno, Ruggiero di Damas ad Orbetello; egli, spartito l'esercito in cinque corpi, s'avanzava sulle due sponde del Tevere. Championnet senza tante complicazioni tempestò ruppe sbaragliò da tergo, sulla fronte, a destra ed a sinistra. Mack imbrogliato nei proprii fili si vide costretto a fuggire. Il suo re lo precedette sulla via di Caserta e di Napoli; e dopo diciassette giorni di catalessia risorgeva la Repubblica Romana alla sua misera vita. Championnet premeva vittorioso i confini del Regno: Rusca coi Cisalpini, Carafa colla Legione Partenopea scaramucciavano sulla prima fila. Già la rivoluzione mugolava minacciosa alle porte di Napoli. CAPITOLO DECIMOSETTIMO Epopea napoletana del 1799. La Repubblica Partenopea e la spedizione di Puglia. I Francesi abbandonano il Regno, Ruffo lo invade coi briganti, coi Turchi, coi Russi, cogli Inglesi. Ritrovo mio padre per vederlo morire e cader prigioniero di Mammone. Ma son liberato dalla Pisana, e mentre il sangue piú nobile e generoso d'Italia scorre sul patibolo, noi due insieme con Lucilio salpiamo per Genova ultimo e scrollato baluardo della libertà. Quel popolo di Napoli, che armato in campo erasi sperperato dinanzi ad un pugno di Francesi per la complicatissima ignoranza del barone Mack, quel popolo stesso abbandonato dal Re, dalla Regina e da Acton, rovina del Regno, venduto dal vice-re Pignatelli ad un armistizio vile e precipitoso, senz'armi e senz'ordine, in una città vastissima e aperta d'ogni lato, si difese due giorni contro la cresciuta baldanza dei vincitori. Si ritrasse nelle sue tane vinto ma non scoraggiato; e Championnet, entrando trionfalmente il ventidue gennaio millesettecentonovantanove, sentí sotto i piedi il suolo vulcanico che rimbombava. Sorse una nuova Repubblica Partenopea; insigne per una singolare onestà fortezza e sapienza dei capi, compassionevole per l'anarchia, per le passioni spietate e perverse che la dilaniarono, sventurata e mirabile per la tragica fine. Non erasi ancora stabilito a dovere il nuovo governo che il cardinal Ruffo colle sue bande sbarcava di Sicilia nelle Calabrie e poneva in grave pericolo l'autorità repubblicana in quell'estremo lembo d'Italia. Alcune terre lo accoglievano come un liberatore, altre lo ributtavano come assassino, e fortunatamente si difendevano, o venivano prese, arse, smantellate. Masnade di briganti capitanate da Mammone, da Sciarpa, da Fra Diavolo secondavano le mosse del Cardinale. Sette emigrati còrsi, spacciando uno di loro per principe ereditario, avevan bastato per levar a romore buona parte degli Abruzzi; ma i Francesi si opponevano gagliardamente, e ne impiccavano taluni con esempio solenne di giustizia. Non era quella una guerra tra uomini, ma uno sbranarsi tra fiere. Si attendeva in Napoli a rafforzare il governo, ad instillare nel popolo sentimenti repubblicani, a fargli insegnare un vangelo democratico tradotto in dialetto da un cappuccino, a dargli ad intendere che san Gennaro era diventato democratico. Ma da lontano strepitavano le armi russe di Suwarow e le austriache di Kray accennando all'Italia; la flotta di Nelson, vincitrice di Abouckir, e le flotte russe e ottomane, padrone delle isole Jonie, correvano l'Adriatico ed il Mediterraneo. Bonaparte, il beniamino della vittoria, si divertiva a trinciarla da profeta coi Beduini e coi Mamalucchi; con lui la fortuna avea disertato le bandiere francesi, e il solo valore le difendeva ancora sulle terre straniere ov'egli, fulmineo vincitore, le aveva piantate. Dopo alcuni mesi si avverò quanto si temeva. Macdonald succeduto a Championnet fu richiamato nell'alta Italia contro gli Austro-Russi che l'avevano invasa; lasciata qualche piccola guarnigione nel Castello di Sant'Elmo, a Capua, a Gaeta, egli dovette aprirsi il passo coll'armi alla mano, tanto la ribellione imbaldanziva oggimai anche sui confini dello Stato romano. Io m'era abbattuto molte volte in Lucilio in Amilcare e in Giulio Del Ponte, durante quella guerra disordinata; ma sempre per pochissimi istanti, giacché le nostre colonne giovavano assai in quelle fazioni per lo piú d'imboscata e di montagna, e le adoperavano senza remissione a destra e sinistra sull'Adriatico e sul Mediterraneo. Aveva collocato la Pisana presso la Principessa di Santacroce, sorella d'un principe romano ch'era morto pochi mesi prima ad Aversa difendendo la Repubblica contro l'invasione di Mack. Era tranquillo per lei; il Carafa mi trattava con molta amorevolezza e riponeva in me una speciale confidenza. Null'altra brama aveva, null'altra passione che di veder trionfare quella causa della libertà cui mi era corpo ed anima consacrato. La partenza dei Francesi fu pei repubblicani di Napoli un colpo terribile. S'eran dati attorno assai, ma non quanto sarebbe bisognato per sopperire alla mancanza d'un sí valido aiuto. Lucilio, Amilcare, e il Del Ponte non vollero partire ad ogni costo; e chiesero d'esser ammessi alla legione di volontari che si formava allora sotto il comando di Schipani: il povero Giulio dopo tante marce, tante guerre, tante fatiche moveva veramente a pietà. In cento azzuffamenti, in dieci battaglie, egli era ito chiedendo l'elemosina d'una palla che non gli veniva concessa mai. Le forze gli venivano meno giorno per giorno, e raccapricciava all'idea di morire sul pagliericcio verminoso degli ospitali militari d'allora. I due amici lo confortavano ma con qual cuore! L'entusiasmo di Amilcare s'era convertito in un rabbioso furore, e la fede di Lucilio in una stoica rassegnazione. Se da cotali sentimenti possono esser ispirate parole di conforto, anche un disperato qualunque potrebbe dar lezioni di pazienza e di moderazione prima di appendersi al laccio. In quel tempo la colonna di Ettore Carafa fu spedita nella Puglia per opporsi alla ribellione che guadagnava terreno anche in quella provincia. Io partii dopo aver baciato gli amici e la Pisana, forse per l'ultima volta. La presenza di costei a Napoli era nota soltanto a Lucilio; Giulio la sospettava, ma non osava parlarne; Amilcare aveva ben altro a che pensare! Non vedeva che Ruffo, Sciarpa, Mammone, e non li vedeva coll'immaginazione senza strangolarli almeno col desiderio. Quanto alla Pisana, fu quello il primo bacio che ebbe e sofferse da me dopo l'incontro di Velletri; voleva serbarsi fredda e contegnosa, ma quando le nostre labbra si toccarono, né l'uno né l'altra potemmo raffrenare l'impeto del cuore, ed io mi raddrizzai che tremava tutto, ed ella col viso irrigato di lagrime. - Ci rivedremo! - mi gridò ella da lunge con uno sguardo pieno di fede. Io risposi con un gesto di rassegnazione e m'allontanai. La Principessa di Santacroce, mandandomi pochi giorni dopo alcune lettere capitate per me a Napoli, mi scrisse d'un accesso di disperazione che avea menato la Pisana in fil di morte dopo la mia partenza. Ella si straziava furiosamente il petto e le guance, gridando che senza il mio perdono le era impossibile di vivere. La buona Principessa non diceva di sapere a qual perdono alludesse la poveretta, e cosí circondava di delicatezza le sue cure pietose; ma io non volli essere meno generoso di lei, e scrissi direttamente alla Pisana ch'io le chiedeva scusa del contegno freddo e superbo tenuto secolei negli ultimi mesi; che ben sapeva che quell'affettazione di fraterna amicizia equivaleva ad un insulto, e che appunto per questo reputandomi colpevole le offriva per riparazione tutto l'amor mio, piú affettuoso piú veemente piú devoto che mai. Cosí sperava ridonarle la pace dell'animo anche a prezzo del mio decoro; di piú, fingendo ignorare quanto la Principessa m'avea scritto, dava alle mie proteste tutto il colore della spontaneità. Seppi dappoi che quel mio atto generoso avea dato alla Pisana grandissimo conforto, e che si lodava sempre di me alla sua protettrice dichiarandomi l'uomo piú magnanimo e amabile che si potesse trovare al mondo. Se la Principessa mi avesse raccontato tante belle cose per cooperare alla nostra piena riconciliazione, ancora io le sarei riconoscente di un grandissimo beneficio. Il soverchio sussiego nuoce verso le donne; e nel trattar con esse bisogna che le virtù stesse acquistino la morbidezza della loro indole. Si può essere fin troppo buoni senza sospetto di viltà o di paura. Intanto io era giunto in Puglia abbastanza contento di me e delle cose mie. Da Venezia mi davano ottime novelle; l'Aglaura era incinta, il vecchio Apostulos tornato felicemente, mio padre in viaggio per ritornare; e quanto a quest'ultimo, che pel momento mi premeva piú di tutti, mi si lasciavano travedere delle grandi cose, delle grandi speranze! Io ci almanaccava dietro da un pezzo; ma solamente da qualche mezza parola di Lucilio avea potuto ricavar qualche lume. Pareva come, che, costituiti in repubblica da Milano a Napoli, volessero o fosse intendimento d'alcuni di dare il ben servito ai Francesi, e fare da sé. Perciò si voleva indurre la Porta Ottomana a collegarsi colla Russia e a dare addosso a Francia nel Mediterraneo; da potenze cosí lontane non temevasi una diretta preponderanza; si intendeva anzi di opporle all'influenza di governi piú vicini ed opportuni a stabili signorie. Da ciò venni in sospetto che mio padre si fosse affaccendato in fin allora in quell'alleanza turco-russa che avea fatto maravigliare il mondo per la sua prestezza e mostruosità. Ma cosa volessero cavarne, allora appunto che i Francesi sembravano disposti piú a ritirarsi che a spadroneggiare, io non lo vedeva davvero. Pareva al mio debole giudizio che la nostra indipendenza appoggiata ai Turchi ed ai Russi avrebbe fatto pessima prova della propria solidità. Ma v'avea gente allora che portava piú oltre assai le proprie illusioni e lo si comprenderà dalla morte miserrima del generale Lahoz nelle vicinanze d'Ancona. Intanto fermiamoci in Puglia ad osservare i vascelli turco-russi che dai conquistati porti di Zante e di Corfù si volgono alle spiagge tumultuanti della Puglia. Ettore Carafa non era l'uomo delle mezze misure. Giunto dinanzi al suo feudo di Andria i cui abitanti parteggiavano per Ruffo, diede loro assai buone parole di moderazione e di pace. Non ascoltato sfoderò la spada, ordinò l'assalto; e un assalto del Carafa voleva dire una vittoria. Invulnerabile come Achille, egli precedeva sempre la legione; valente soldato colla spada, col moschetto, sul cannone, si mescolava colle abitudini del soldato, e riprendeva a suo grado le maniere di capitano senza dar nell'occhio per soverchia burbanza. Ultimamente alla sua guerriera rozzezza erasi mescolata un'ombra di mestizia: i subalterni ne lo amavano piucchemai, io l'ammirava e lo compiangeva. Ma egli era di quegli uomini che nella propria religione politica trovano un conforto un usbergo contro qualunque sventura; tempre di fuoco e d'acciaio che confondono Dio colla patria la patria con Dio e non sanno pensare a se stessi quando il pubblico bene e la difesa della libertà cingono loro la spada degli eroi. Aveva nella sua grandezza qualche parte di barbaro; non credeva, per esempio, di onorare la valentia dei nemici perdonando e salvando; giudicava gli altri da sé, e passava a fil di spada i vinti in quei casi stessi nei quali egli avrebbe voluto essere ucciso piuttosto che serbato in vita a ornamento del trionfo. Questo splendore antico di feroce virtù e il nome suo potente e famoso in quei paesi gli fecero soggetta in breve tutta la provincia. Egli aveva podestà dittatoria; e se il governo di Napoli avesse avuto altri cinque condottieri simili a lui, né Ruffo né Mammone avrebbero rotto a Marigliano sulle porte di Napoli le ultime reliquie dei repubblicani partenopei. Invece il governo si ingelosí stoltamente di Carafa. Era ben quello tempo da gelosie! - Come se Roma avesse temuto della dittatura di Fabio, quando solo ei restava a difenderla contro il vincitore cartaginese! - Si disse che la Puglia era pacificata, che si voleva adoperare efficacemente la sua attività, che nell'Abruzzo, ove lo si mandava, avrebbe avuto campo di rendere servizi importantissimi. Ettore aveva l'ingenuità e la docilità d'un vero repubblicano; non vide che gatta ci covava sotto queste melate parole e s'avviò per gli Abruzzi. Soltanto, siccome gli sembrava che la provincia senza di lui non fosse per rimanere tanto fedele e sicura quanto si figuravano, cosí di suo capo dispose che io e Francesco Martelli, altro ufficiale della legione, ci stessimo nelle Puglie alla testa d'una piccola guerricciola di bosco che poteva giovar molto contro le insorgenze parziali che avrebbero ripullulato. Egli fidava grandemente in me; e non senza lagrime di riconoscenza e d'orgoglio io noto la fiducia riposta in me da un tant'uomo. Che l'anima sua generosa e benedetta abbia in altro luogo quel premio che quaggiù non ottenne benché lo avesse valorosamente meritato! Martelli era un giovane napoletano che aveva abbandonato moglie figliuoli ed affari per brandir la spada a difesa della libertà. Ambidue usciti nei campi dal foro, ambidue d'indole mite ma risoluta ci eravamo stretti di fervidissima amicizia fin dalla fazione di Velletri. Egli era stato uno di quei miei compagni che avean scommesso contro di me per la visita del convento; tantoché, siccome quella scommessa era stata d'una cena e d'una festa di ballo per tutti gli ufficiali della legione, e nessuno avea pensato a pagarla, egli si tolse il ghiribizzo di saldare il debito di tutti in Puglia quando a tutt'altro si pensava che a cene ed a feste di ballo. Tornando coi nostri cinquanta uomini dallo aver inseguito alcuni briganti che sotto colore di realisti eran venuti a saccheggiare una cascina poco lontana, trovai una sera il castello d'Andria illuminato, e la gran sala disposta pel ballo e dentrovi buona copia di forosette e di donzelle dei paesi vicini le quali per darsi spasso una sera vollero ben dimenticarsi che noi eravamo repubblicani scomunicati. Martelli m'additò la festa con gesto principesco, dicendo: - Eccoti pagato del debito di Velletri, e avrai anche la cena!... Non si sa cosa possa succedere; domani potremmo esser morti, e ho voluto mettermi in regola. - Morti o non morti il domani, quella sera si ballò di lena, sicché molte volte mi tornò in mente il mio buon Friuli, e quelle famose sagre di San Paolo, di Cordovado, di Rivignano ove si balla, si balla tanto da perderne i sentimenti e le scarpe. Anche i Napoletani e i Pugliesi saltano peraltro la loro parte; e dal sommo all'imo di questa povera Italia non siamo per tanto diversi gli uni dagli altri come vorrebbero darci a credere. Anzi delle somiglianze ve n'hanno di cosí strambe che non si riscontrano in veruna altra nazione. Per esempio un contadino del Friuli ha tutta l'avarizia, tutta la cocciutaggine d'un mercante genovese, e un gondolier veneziano tutto l'atticismo d'un bellimbusto fiorentino, e un sensale veronese e un barone di Napoli si somigliano nelle spacconate, come un birro modenese e un prete romano nella furberia. Ufficiali piemontesi e letterati di Milano hanno l'eguale sussiego, l'ugual fare di padronanza: acquaioli di Caserta e dottori bolognesi gareggiano nell'eloquenza, briganti calabresi e bersaglieri d'Aosta nel valore, lazzaroni napoletani e pescatori chiozzotti nella pazienza e nella superstizione. Le donne poi, oh le donne si somigliano tutte dall'Alpi al Lilibeo! Sono tagliate sul vero stampo della donna donna, non della donna automa, della donna aritmetica, e della donna uomo che si usano in Francia in Inghilterra in Germania. Checché ne dicano i signori stranieri, dove vengono i loro poeti a cercare ad accattare un sorsellino d'amore?... Qui da noi: proprio da noi, perché solamente in Italia vivono donne che sanno inspirarlo e mantenerlo. E se cianciano dei nostri bordelli, e noi rispondiamo loro... No, non rispondiamo nulla; perché le grandi prostituzioni non iscusano le piccole. L'incarico affidato a me ed a Martelli non era dei piú agevoli. Avevamo a che fare con popolazioni ignoranti e selvatiche; con baroni duri e ringhiosi peggio che robespierrini se repubblicani, e armati della piú maledetta ipocrisia se partitanti di Ruffo; con curati incolti e credenzoni che mi ricordavano con qualche aggiunta peggiorativa il cappellano di Fratta; con nemici astuti e per nulla schifiltosi nella scelta dei mezzi da nuocere. Tuttavia l'autorità del Carafa nel cui nome si comandava, l'esempio di Trani saccheggiata ed incesa per la sua pervicacia nella ribellione, imponevano qualche riguardo alla gente, e il governo della Repubblica era tacitamente tollerato sopra tutta la costiera dell'Adriatico. Nei paesi meno barbari e dove qualche coltura era disseminata nel ceto mezzano si aveva paura delle bande del Cardinale, e piucché le intemperanze dei Francesi, gli eccidi di Gravina e d'Altamura comandati da Ruffo tenevano gli animi in sospetto. A quei giorni mi potei convincere di quello strano fenomeno morale che nel Regno di Napoli concentra una massima civiltà e una squisita educazione in pochissimi uomini per lo piú di nobili o egregi casati, e lascia poltrire le plebi nell'abbiezione dell'ignoranza e delle superstizioni. Difetto di governo assoluto geloso e quasi dispotico all'orientale, che tenendo lontane da sé le menti meglio illuminate, le avventa senza freno alle piú strambe teorie, e per riparo poi deve appoggiarsi allo zelo fanatico e accarezzato d'un volgo vizioso. Canonici come monsignor di Sant'Andrea e patrizi filosofi come il Frumier se ne contavano a centinaia nelle cittadelle delle Puglie, e di costoro s'afforzava massimamente il partito repubblicano. Ma allora era tempo di menar le mani, e i briganti la spuntavano sui dotti. Capita un giorno la notizia che le flotte alleate di Russia e Turchia sono in vista della Puglia. Non avevamo precise istruzioni intorno a questo caso, ma il Carafa ci aveva prevenuti di non sgomentirci, perché di poche forze poteva operarsi lo sbarco. Infatti, anziché intimorirci, noi accorsimo a Bisceglie dove pareva tendessero a concentrarsi gli sparsi bastimenti, e là, giovandoci del grande spirito degli abitanti e d'alcuni cannoni trovati nel castello, si guardò alla meglio d'armare la spiaggia. Avevamo sparso la voce che quelle flotte erano cariche di masnade albanesi e saracine pronte a vomitarsi sul Regno per metterlo tutto a ferro e fuoco. Siccome l'odio contro la nazione turchesca è tradizionale in quelle regioni, la gente ci spalleggiava a tutto potere. Cosí s'era tutto disposto a ribattere validamente un primo attacco a Bisceglie quando capitò a spron battuto un messo da Molfetta, sette miglia lontano, che recava d'uno sbarco che si tentava colà, e della grande opera che il popolo faceva per impedirlo. Vedendo le cose di Bisceglie bene accomodate, giudicammo opportuno io e Martelli di volger colà dove nessuna provvidenza s'avea presa contro il nemico. Disperavamo di difenderci a lungo, ma volevamo perdere piuttosto la vita che la certezza di aver fatto quanto da noi si poteva per la salute della Repubblica. Lasciammo buona parte della nostra gente a Bisceglie; e noi, insellati quanti cavalli si potevano trovare, corsimo a briglia sciolta sulla strada. Non so cosa m'avessi quel giorno, ma mi sentia venir meno la costanza e le forze: forse era certezza che la nostra causa era perduta e che non si combatteva omai per altro che per l'onore. Ai presentimenti si vuol credere molto a rilento. Martelli piú disperato ma piú forte di me veniami riconfortando a non disanimarmi, a non ismetter nulla di quella sicurezza miracolosa che finallora ci avea servito meglio d'un esercito a serbar in fede il contado della Puglia. Rispondeva che si desse pace, che avrei combattuto fino all'estremo, ma che una stanchezza invincibile mi rammolliva di dentro mio malgrado. Circa un miglio fuori da Molfetta cominciammo a veder il fumo ed ad udir lo scoppio delle archibugiate. Si vedeva anche in mare qualche legno che cercava avvicinarsi al porto, ma le onde un po' grosse lo impedivano. Entrati in paese trovammo lo scompiglio al colmo. Turchi e Albanesi sbarcati con qualche scialuppa s'eran messi a saccheggiare a massacrare con tanta crudeltà che pareva essere tornati ai tempi di Bajazette. Io imprecai furiosamente alla barbarie di coloro che davano cosí bella parte d'Italia in preda a quei mostri, e mi avventai con Martelli e coi compagni a una tremenda vendetta. Quanti ne incontrammo tanti furono tagliati a pezzi dalle nostre spade, calpestati dai cavalli, e fatti a brani dalla folla disperata che ci si ingrossava alle spalle. Sulla piazza ove si era già ritratto il maggior numero per riguadagnare le lance e buttarsi in mare, la carneficina fu piú lunga e piú terribile. Fu quella l'unica volta ch'io godetti barbaramente di veder il sangue dei miei simili spillar dalle vene, e i loro corpi sanguinosi ammucchiarsi boccheggianti e ferirsi l'un l'altro nelle convulsioni dell'agonia. La folla urlava frenetica e si saziava di sangue; già taluni piú arditi s'erano impadroniti delle lance; ogni scampo era intercetto; l'ultimo di quegli sciagurati venne ad infilzarsi da sé nella mia baionetta; e subito cento mani rabbiose mi contesero lo schifoso trofeo. Molfetta era salva. I nipoti di Solimano avevano imparato a loro spese che non si può senza danno andar nella storia a ritroso: e che Maometto II (ne chieggo scusa alla cronologia) è da essi tanto remoto quanto Traiano da noi. Intanto le strade e la piazza riboccavano di gente che correva alla chiesa per ringraziar la Madonna di quella vittoria. Unitamente alla Beata Vergine del Presidio, i nomi dei capitani Altoviti e Martelli per migliaia di bocche erano levati a cielo. Avendo noi lasciato ordine a Bisceglie che ci si desse premuroso annunzio d'ogni novità, e non vedendosi alcuno e volendo d'altra parte concedere qualche riposo alla nostra gente, che oltremodo ne bisognava, ci ritrassimo ad un'osteria per ivi posare fino all'alba. Anche si temeva che acchetandosi il mare nuovi sbarchi di Turchi o di Russi venissero a trar vendetta delle lance perdute; gli è vero che soffiava uno scilocco indiavolato e che da questo lato le precauzioni erano piucché altro soverchie. Ciononostante i nostri accolsero con molto giubilo la proposta di questa brevissima tregua, e i tripudii coi marinai e colle donne del paese ebbero ben presto cancellato dalla loro memoria le fatiche e i pericoli della giornata. Martelli era uscito sul molo con qualche persona autorevole del luogo a speculare il tempo e a disporre le scolte; soletto melanconico io me ne stava nell'androne dell'osteria, coi gomiti sulla tavola, e gli occhi fissi nella lucernetta d'una Madonna di Loreto addossata al muro dirimpetto, o svagati a guardar nel cortile le tarantelle improvvisate sotto il fogliame d'una vite dai nostri soldati. L'allegra vita meridionale riprendeva come niente fosse le sue gioconde abitudini a venti passi da quel piazzale ove il sangue correva ancora, e venti o trenta cadaveri aspettavano la sepoltura. Le mie idee non erano certamente né animose né liete ad onta di quell'effimero trionfo; maladiceva fra me a quel perverso istinto che ci fa vivere piú che nelle contentezze di oggi nelle paure dell'indomani, e invidiava la sprovvedutezza di coloro che ballavano e trincavano senza darsi un pensiero al mondo di quello ch'era e di ciò che sarebbe stato. Cosí passava da melanconia a melanconia quando un vecchio prete curvo e quasi cencioso mi si avvicinò timidamente, domandando se io fossi il capitano Altoviti. Risposi un po' ruvidamente di sí, perché una discreta esperienza non mi faceva molto tenero del clero napoletano, ed anco quelli erano tempi che il collare non era presso i repubblicani una gran raccomandazione. Il vecchio non si scompose per nulla alle mie aspre parole, e facendomisi piú vicino mi disse d'aver cose importantissime a comunicarmi, e che persona legata a me con vincoli sacri di parentela desiderava vedermi prima di morire. Io balzai in piedi perché la mente mi corse subito a qualche stranezze della Pisana, ed era tanto disposto a veder ogni dove disgrazie, che ricorreva subito alle piú funeste ed irreparabili. Temeva che avendomi saputo solo nelle Puglie le fosse saltato il ticchio di raggiungermi e che avvolta in quel massacro di Molfetta ne fosse rimasta vittima. Afferrai adunque il braccio del prete e lo trascinai fuori dell'osteria avvertendolo con ciò che se avesse voluto corbellarmi non era io l'uomo disposto a sopportarlo. Quando fummo nel buio d'una contrada solitaria: - Signor capitano - mi bisbigliò sommessamente nell'orecchio il prete. - È suo padre... Non lo lasciai proseguire. - Mio padre! - sclamai. - Cosa dice ella di mio padre?... - L'ho salvato oggi di mezzo a quei furibondi che ci hanno assaltato oggi - soggiunse il prete. - È un vecchio piccolo e sparuto che udendo proclamare il nome del signor capitano ha cominciato a dibattersi sul letto ov'io l'aveva fatto adagiare, e mi ha chiesto conto di lei, e dice e sacramenta ch'egli è suo padre, e che non morrà contento se non giunge prima a vederlo. - Mio padre! - seguitava io a balbettare quasi fuori di me; correndo piú che non potessero tenermi dietro le gambe del vecchio abate. Potete immaginarvi se in quel momento poteva metter ordine ai pensieri che mi stravolgevano la mente! Dopo alcuni minuti di quella corsa precipitosa giunsimo ad una porta fra due colonne che pareva d'un monastero; e il vecchio prete apertala e impugnato un lampioncino che ardeva nel vestibolo, mi guidò fino ad una stanza donde usciva un lamento come di moribondo. Io entrai convulso dalla meraviglia e dal dolore e caddi con uno strido sul letto dove mio padre mortalmente ferito alla gola combatteva ostinatamente colla morte. - Padre mio! padre mio - io mormorava. Non aveva né fiato né mente a pronunciare altra parola. Quel colpo era cosí imprevisto, cosí terribile che mi toglieva affatto quell'ultimo fiato di coraggio rimastomi. Egli tentò allora sollevarsi sul gomito e vi riuscí infatti per cercarsi colla mano non so che cosa intorno alla cintura. Coll'aiuto del prete si cavò di sotto alle larghe brache albanesi una lunga borsa di pelle, dicendomi con molta fatica che quello era quanto poteva darmi d'ogni sua sostanza e che del resto chiedessi ragione al Gran Visir... Era per soggiungere un nome quando gli uscí dalla gola un largo fiotto di sangue e ricadde sui guanciali respirando affannosamente. - Oh per pietà, padre mio! - gli veniva dicendo. - Pensate a vivere! non vogliate morire!... Abbandonarmi ora che tutti mi hanno abbandonato!... - Carlo - soggiunse mio padre, e questa volta con voce fioca ma chiara perché quell'ultimo sbocco di sangue pareva lo avesse sollevato di molto - Carlo, nessuno è abbandonato quaggiù finché vivono persone che non si devono abbandonare. Tu perdi tuo padre, ma hai una sorella, ignota finora a te... - Oh no, padre! io la conosco, io la amo da un pezzo. È l'Aglaura!... - Ah la conosci e la ami? Meglio cosí! Muoio piú contento di quello che avrei creduto... Senti, figlio mio, un ultimo ricordo voglio lasciarti come preziosa eredità... Mai, mai, mai, per cambiar d'uomini o di tempi non appoggiare la speranza d'una causa nobile generosa imperitura, all'interesse all'avarizia altrui. Io, vedi, in questa idea falsa inetta triviale consumai le mie ricchezze l'ingegno la vita e ne ebbi... ne ebbi la certezza di aver fallato e di non poter rimediare... Oh, i Turchi, i Turchi!... Ma non biasimarmi, figliuol mio, perché io avessi riposto le mie speranze nei Turchi. Per noi son tutti gli stessi... Credilo!... Io aveva creduto di adoperar i Turchi a cacciare i Francesi, e cosí dopo saremmo rimasti noi... Sciocco che era!... Sciocco!... Oggi, oggi vidi cosa cercavano i Turchi!... Ciò dicendo egli pareva in preda d'un violento delirio; invano io m'ingegnava di calmarlo e di sostenerlo in tal modo che meno dolorasse della sua ferita; egli seguitava a smaniare, a gridare che tutti erano Turchi. Il prete mi avvisava che appunto nell'opporsi alle violenze che gli Ottomani commettevano appena sbarcati sui miseri abitanti, mio padre avea toccato quella tremenda ferita di scimitarra alla gola, e che rimasto sul lastrico quelli del paese lo avrebbero certamente fatto a brani se egli non lo trafugava pietosamente dopo essere stato testimonio di tutta la scena da un finestrello del campanile. Io ringraziai con uno sguardo il vecchio prete di tanta cristiana pietà, e gli dissi anche sottovoce se non ci fossero nel paese medici o chirurghi da ricorrere all'opera loro per qualche tentativo. Il moribondo si scosse a queste parole e accennò col capo di no... - No, no - soggiunse indi a poco tirando a stento un filo di voce. - Ricordati dei Turchi!... Cosa servono i medici?... Ricordati di Venezia... e se puoi rivederla grande, signora di sé e del mare... cinta da una selva di navi, e da un'aureola di gloria... Figlio mio, che il cielo ti benedica!... E spirò... Una tal morte non era di quelle che rendono attoniti e quasi codardi nel riprender la vita: essa era un esempio un conforto un invito. Chiusi con reverenza gli occhi ancora animati di mio padre; lo spirito suo forte ed operoso lasciava quasi un'impronta di attività su quelle spoglie già morte. Lo baciai in fronte; e non so se pregassi ma le mie labbra mormorarono qualche parola che non ho poscia ripetuto mai piú. Sarei restato lunga pezza in compagnia dell'estinto e dei suoi ultimi pensieri che formicolavano in me, se la sua stessa immagine non mi avesse richiamato a quei sublimi doveri dei quali egli era stato il martire ignoto, inconsapevole, errante qualche volta, fermo e incrollabile sempre. "Padre mio" pensai "tu mi saprai grado che io mi privi del mesto conforto di accompagnarti alla tua ultima dimora per attendere alla salute omai disperata della Repubblica nostra!...". Parve perfino che sulle sue labbra arieggiasse un sorriso di assentimento. Io mi precipitai fuori della stanza col cuore che mi andava a pezzi. A fatica feci accettare alcune doble al vecchio prete pei funerali e per suffragar l'anima del defunto: indi tornai all'osteria che già il Martelli avea disposto la piccola schiera per la partenza; ed erano molto inquieti di non vedermi comparire. L'alba scherzava sul mare spargendo dalle bianche sue dita tutti i colori dell'iride; ma lo scilocco della sera prima aveva lasciato le onde piuttosto sconvolte, e all'orizzonte non si vedeva piú né un albero solo di nave. La campana della chiesa chiamava i pescatori alla prima messa, le femminette cianciavano sulla porta dei sofferti spaventi: e qualche mozzo mattiniero inalberando la vela cantava il ritornello della sua barcarola. Nulla, nulla in quella terra in quel cielo in quella vita s'accordava compassionevolmente al lutto d'un figlio che avea chiuso gli occhi al cadavere di suo padre!... - Dove sei stato?... cos'hai? - mi chiese Martelli piegandosi sulla criniera del suo cavallo. Io balzai d'un salto sul mio, e cacciandogli gli sproni nel ventre rovinai fuori a galoppo senza rispondergli: per un pezzo ci seguirono gli evviva degli abitanti usciti a salutare la nostra partenza. Si galoppò a quel modo un buon paio di miglia, quando il rimbombo vicino del cannone ci fermò di botto in ascolto. Ognuno voleva dire la sua; in quel mentre uno dei nostri, che ci veniva incontro a precipizio senz'armi e senza cappello sopra un cavallo sfiancato dal gran correre, ci tolse la sospensione. Una barca parlamentare era entrata nel porto di Bisceglie. Gli abitanti vedendo che non erano Turchi, ma sibbene Russi capitanati dal cavalier Micheroux, generale di S.M. Ferdinando, che chiedevano sbarcare solamente per cacciar dal Regno i Francesi rimasti a Capua ed a Gaeta, s'erano messi a gridar evviva, e a gettar i fucili e a sventolare i fazzoletti. Millequattrocento Russi erano sbarcati e s'avviavano alla volta di Foggia per cogliervi la gente all'epoca della fiera e spaventare ad un punto solo tutta la provincia. Io e Martelli ci consultammo con uno sguardo. Prevenire i Russi a Foggia, e metter la città in istato di difesa, era il piano piú ovvio. Volgemmo dunque sulla destra per Ruvo ed Andria; ma all'entrata di quest'ultimo castello fummo circondati da una folla armata e tumultuante. Era una masnada di Ruffo mandata a ricongiungersi coi Russi di Micheroux. Avvistici troppo tardi di esser caduti in quel vespaio, ebbimo un bel menar le mani per cavarcela. Il Martelli con diciassette altri giunsero a fuggire; dieci rimasero morti; otto, fra i quali io, tutti piú o meno feriti fummo salvati per adornamento alle forche in qualche giorno festivo. Cosí diceva, al paragrafo dei prigionieri, il Codice militare di Ruffo. La masnada di cui fui prigioniero era capitanata dal celebre Mammone, l'uomo piú brutto e bestiale ch'io mi abbia mai conosciuto, il quale portava molte medagliette sul cappello come la buon'anima di Luigi XI. Trascinato in coda ad essa a piedi nudi, ed esposto a continui vituperii, vagai a lungo per quella Puglia stessa dove aveva regnato cinque o sei giorni prima poco men che padrone. Vi confesso che quella vita mi garbava pochissimo, e che siccome i ferri alle mani ed ai piedi m'impedivano di fuggire, null'altra speranza coltivava che quella di essere alla bell'e prima impiccato. Una sera peraltro, mentre giungevamo al feudo di Andria, sede della mia passata grandezza, un pastore mi si avvicinò come per farmi insulto ad usanza degli altri, e dopo avermi detto a voce alta le piú sfacciate indegnità che fantasia napoletana possa immaginare, aggiunse tanto sommessamente che appena lo intesi: - Coraggio, padroncino! in castello si pensa a voi! - Mi parve allora ravvisare in esso uno dei piú fidati coloni del Carafa; e poi levando gli occhi al castello mi stupii infatti di vederne le finestre illuminate, sendoché pochi giorni prima io l'avea lasciato chiuso e deserto e il suo padrone si trovava ancora negli Abruzzi, anzi lo dicevano assediato dagli insorti nella cittadella di Pescara. Tuttavia non avendo che fare di meglio, per quella sera mi diedi a sperare. Quando fummo verso la mezzanotte uno di quei briganti venne a togliermi dal pagliaio ove m'avevano confitto, e fatto vedere alle guardie un ordine del capitano, mi sciolse i ferri dalle mani e dai piedi e mi disse di seguirlo lungo la via. Giunti ad una casipola lontana da Andria un trar di mano, mi consegnò ad un uomo piuttosto piccolo e misteriosamente intabarrato che gli rispose asciutto un - Va bene! - e il brigante tornò per dov'era venuto, ed io rimasi con quel nuovo padrone. Era cosí in bilico se di rimanere in fatti o di darmela a gambe, quando un'altra persona che mi parve tosto una donna sbucò di dietro a quello del tabarro, e mi si precipitò addosso coi piú caldi abbracciamenti del mondo. Non conobbi ma sentii la Pisana. Ma quello del tabarro non fu contento di questa scena e ci tenne a mente che non v'avea tempo da perdere. Io conobbi anche la voce di questo, e mormorai ancor piú commosso che stupito: - Lucilio! - Zitto! - soggiunse egli, menandoci ad un canto oscuro dietro la casa, ove tre generosi corridori mordevano il freno. Ci fece montar in sella, e benché da dodici ore non avessi toccato cibo né bevanda non mi accorsi di aver varcato otto leghe in due ore. Le strade erano orribili, la notte scura quanto mai, la Pisana, stretta col suo cavallo in mezzo ai nostri, pendeva ora a destra ora a sinistra, impedita di cadere solo dalle nostre spalle che se la rimandavano a vicenda. Era la prima volta che montava a cavallo; e di tratto in tratto aveva coraggio di ridere!... - Mi direte poi con quale stregheria giungeste ad ottener tanto dal signor Mammone! - le chiese Lucilio che a quanto pare in certa parte di quel mistero ne sapeva quanto me. - Capperi! - rispose la Pisana parlando come lo permetteva lo strabalzar continuo del cavallo. - Egli mi disse che son molto bella; io gli promisi tutto quello che mi domandò; anzi giurai per tutte le medaglie che porta sul cappello. Alle due dopo mezzanotte doveva andarsene ad Andria a ricevere il prezzo della sua generosità! Ah! Ah! - (Rideva la sfacciata del suo generoso spergiuro). - Ah per questo vi stava tanto a cuore di partire prima delle due! Ora capisco! Allora toccò a me chiedere schiarimenti su tutto il resto: e seppi come, avviati a raggiungermi la Pisana e Lucilio con potenti commendatizie del Carafa, avessero incontrato qualche fuggiasco della banda del Martelli che li avvertí della mia prigionia. Udendo che Mammone dovea giungere l'indomane ad Andria, ve lo aveano preceduto; e là la Pisana avea copiato in parte dalla storia di Giuditta l'astuzia che mi avea salvo dalla forca. Non so tra Mammone ed Oloferne chi fu peggiormente canzonato. Sul far del giorno giunsimo alle prime vedette del campo repubblicano di Schipani, ove Giulio ed Amilcare furono sorpresi e contenti di udire i pericoli da me corsi e fortunatamente superati. Le feste, i baci, le gioie, le congratulazioni furono infinite: ma in mezzo a tutto ciò essi recavano in fronte una profonda mestizia per la prossima e inevitabile rovina della Repubblica: io celava un altro benché diverso lutto nel cuore per la tragica morte di mio padre. Il primo col quale m'apersi fu Lucilio. Egli m'ascoltò piú addolorato che sorpreso, e - Pur troppo - soggiunse - dovea finire cosí! Anch'io fui partecipe di cotali errori!... anch'io piango ora tanto tempo, tanti ingegni, tante vite cosí inutilmente sprecate!... Attendi al mio presagio!... Presto un simile caso funesterà le vicinanze d'Ancona!... Non capii a che volesse alludere ma feci tesoro di quelle parole e mi ricordai alcun mese dopo quando Lahoz, generale cisalpino, disertore dai Francesi per la fede rotta da essi alla libertà della sua patria, si volgeva ai sollevati Romagnuoli e agli Austriaci per scrollare l'ultimo baluardo che rimanesse alla Repubblica in quella parte d'Italia, la fortezza d'Ancona. Ammazzato dai suoi fratelli stessi che militavano fedeli sotto il francese Monnier, pronunciava prima di morire grandi parole di devozione all'Italia; ma moriva in campo non italiano, fra braccia non italiane. E cosí cadeva miseramente l'anima di quella società secreta che diramandosi da Bologna per tutta Italia si proponeva di tutelare l'indipendenza fra l'antagonismo delle varie potenze che se la disputavano. Vollero appoggiarsi a questi per debellar quelli; bisognava appoggiarsi a nessuno e saper morire. Giunsimo a Napoli colla colonna di Schipani ributtata sulla capitale dalle turbe sempre crescenti di Ruffo. La confusione il tumulto la paura erano agli estremi. Tuttavia si disposero presidii nelle torri nei castelli, e se non vi fu guerra vi furono morti da eroi. Francesco Martelli fu posto a difesa della Torre di Vigliena. Deliberato a morire piuttosto che cedere, mi scrisse una lettera raccomandandomi la moglie ed i figli. Giulio Del Ponte piucchemai languente del suo male e quasi sfinito affatto chiese per grazia di avere comune col Martelli quel posto pericoloso e l'ottenne. Quando partí da Napoli per quella trista destinazione la Pisana gli posò un bacio sulle labbra, il bacio dell'ultimo commiato. Giulio sorrise mestamente e volse a me un lungo e rassegnato sguardo d'invidia. Due giorni dopo i comandanti della Torre di Vigliena stretti da Ruffo, da reali, e da briganti, e impotenti omai a resistere appiccavano il fuoco alla mina, e saltavano in aria con un buon centinaio di nemici. I loro cadaveri ricadevano in brandelli in frantumi sul suolo fumigante che l'eco della montagna ripeteva ancora il loro ultimo grido: - Viva la libertà! Viva l'Italia! Nell'anarchia di quegli ultimi giorni perdemmo di vista Amilcare, e solo qualche mese dopo seppi ch'egli avea finito a vivere da vero brigante nelle montagne del Sannio. Sorte non insolita delle indoli forti e impetuose in tempi e in governi contrari! Entravano pochi giorni dopo in Napoli, per viltà schifosa di Megeant, comandante francese di Sant'Elmo, Russi, Inglesi, e malandrini di Ruffo. Nelson d'un tratto annullava la capitolazione dicendo che un re non capitola coi sudditi ribelli: allora cominciarono gli assassinii, i martirii. Fu un vero ciclo eroico; una tragedia che non ha altro paragone nella storia che l'eccidio della scuola pitagorica nell'istessa regione della Magna Grecia. Mario Pagano, Vincenzo Russo, Cirillo! tre luminari delle scienze italiane; semplici grandi come gli antichi. Morirono da forti sul patibolo. Eleonora Fonseca! una donna. Bevette il caffè prima d'ascender la scala della forca e recitò il verso Forsan haec olim meminisse juvabit. Federici maresciallo, Caracciolo ammiraglio! il fiore della nobiltà napoletana, il decoro delle lettere delle arti delle scienze in quella nobile parte d'Italia, erano condannati a perire per mano del boia... E gli Inglesi e Nelson tiravano i piedi! Restava Ettore Carafa. - Avea difeso fino all'ultimo la fortezza di Pescara. Consegnato dallo stesso governo repubblicano di Napoli ai reali, sotto sicurtà della capitolazione fu condotto a Napoli. Lo condannarono a morte. Il giorno ch'egli salí sul patibolo, io, Lucilio e la Pisana uscimmo furtivi da un bastimento portoghese sul quale ci eravamo rifugiati, ed ebbimo la fortuna di poterlo salutare. Egli guardò la Pisana, poi me e Lucilio, poi la Pisana ancora: e sorrise!... Oh benedetta questa debole umanità che con un solo di quei sorrisi può redimersi da un secolo di abiezione! Io e la Pisana chinammo gli occhi piangendo; Lucilio lo guardò morire. Egli volle esser decapitato supino per guardar il filo della mannaia, e forse il cielo, e forse quell'unica donna ch'egli aveva amato infelicemente come la patria. Nulla omai piú ci tratteneva a Napoli. Raccomandata la vedova e i figliuoli del Martelli alla Principessa Santacroce, e fornitili d'una piccola pensione sul peculio lasciatomi da mio padre, salpammo per Genova, unica rocca oggimai dell'italiana libertà. Per la gloriosa caduta di Napoli, per la capitolazione di Ancona, per le vittorie di Suwarow e di Kray in Lombardia, tutto il resto d'Italia al principio del 1800 stava in poter dei confederati. CAPITOLO DECIMOTTAVO Il milleottocento. Sventura d'un gatto, e mia felicità amorosa durante l'assedio di Genova. L'amore mi abbandona e sono visitato dall'ambizione. Ma guarisco in breve dalla peste burocratica, e quando Napoleone si fa Imperatore e Re, io pianto l'Intendenza di Bologna, e torno di buon grado miserabile. Il nostro secolo (perdonate; dico nostro a nome di tutti voi; quanto a me ho qualche diritto anche sul passato, e quello d'adesso non lo tengo già piú che colle punte delle dita), il nostro secolo o il vostro adunque che sia, è uscito nel mondo in una maniera molto bizzarra: volle farla tenere ai fratelli che lo avevano preceduto, e mostrare che per chi cerca novità ad ogni costo, la messe non manca mai. Infatti egli capovolse tutti i sistemi, tutti i ragionamenti che affaticavano i cervelli da cinquant'anni prima; e cogli stessi uomini si è messo in capo di raggiungere scopi perfettamente contrari. Abbondarono poi gli empirici che incamuffato di sillogismi il paradosso lo cambiarono in un perfetto accordo dialettico: ma io che non sono un giocoliero resterò sempre della mia opinione. Si fa, e si disfà; e disfacendo non si finisce per nulla ciò che s'era fatto: tuttaltro! Or dunque all'anno che finiva coi martirii repubblicani e colle vittorie dei confederati, ne successe un altro che distrusse a Marengo l'effetto di queste e di quelli, e recò in mano di Bonaparte reduce dall'Egitto le sorti d'Europa. Il Primo Console di trent'anni non era piú il generale di ventisei che dava udienza radendosi la barba: egli andava già maturando fra sé e sé i paragrafi del cerimoniale di corte. Vi chieggo scusa di intromettervi in quest'ultima parte della mia storia col fastoso esordio delle ambizioni consolari, che finiranno poi al solito nel meschino racconto di poche e comuni fanciullaggini. Ma la luce mi attira, e bisogna che la guardi dovessi perderne gli occhi. Vi sarete anche accorti che aveva gran fretta di uscire da quel doloroso viluppo delle mie vicende napoletane. Tutte le volte che mi fermo a contemplare quelle tetre ma generose memorie l'anima mia spicca un tal volo che quasi le traversa tutte d'un balzo. Mi paiono racchiuse in un giorno, in un attimo solo, tanto sono diverse dalle altre che le precedettero e le seguirono. Non credo quasi possibile che chi ha sonnecchiato dieci anni della sua vita in una cucina, aspettandosi ogni tanto gridate e scappellotti e guardando grattare il formaggio, abbia poi vissuto un anno pieno di tante e cosí sublimi e svariate sensazioni. Sarei disposto a figurarmi che quello fu il sogno d'un anno ristretto in un minuto. Ad ogni modo Napoli è rimasto per me un certo paese magico e misterioso dove le vicende del mondo non camminano ma galoppano, non s'ingranano ma s'accavalcano, e dove il sole sfrutta in un giorno quello che nelle altre regioni tarda un mese a fiorire. A voler narrare senza date la storia della Repubblica Partenopea ognuno, credo, immaginerebbe che comprendesse il giro di molti anni; e furono pochi mesi! Gli uomini empiono il tempo, e le grandi opere lo allargano. Il secolo in cui nacque Dante è piú lungo di tutti i quattrocento anni che corsero poi fino alla guerra della successione di Spagna. Certo, fra tutte le repubblichette che pullularono in Italia al fecondo alito della Francese, Cispadana, Cisalpina, Ligure, Anconitana, Romana, Partenopea, quest'ultima fu la piú splendida per virtù e fatti repubblicani. La Cisalpina portò maggiori effetti per la lunghezza della durata, la stabilità degli ordinamenti, e fors'anco la maggiore o piú equabile coltura dei popoli; ma chi direbbe a leggerla che la storia della Cisalpina abbraccia spazio maggiore di tempo che quella della Partenopea? Sarà fors'anco che la virtù e la storia si compiacciono meglio delle grandi e fragorose catastrofi. Intanto noi eravamo giunti a Genova; io e la Pisana assai maltrattati dal mal di mare, e guariti per sua bontà da ogn'altra preoccupazione, Lucilio sempre piú cupo e meditabondo come chi comincia ma non vuol disperare. Le forze a lui gli crescevano secondo i bisogni; e proprio aveva un'anima romana, fatta per comandare anche dagli infimi posti, dono piuttosto comune e fatale agli Italiani che cagiona molte delle nostre sventure e qualcheduna delle glorie piú luttuose. Le società secrete sono un rifugio all'attività sdegnosa e al talento imperativo di coloro che o sdegnano o non possono adoperarsi nell'angustissimo spazio concesso dai governi. Da un pezzo m'era accorto che Lucilio apparteneva, forse fin dagli anni d'Università, a qualche setta filosofica d'illuminati o di franchi muratori; ma poi mano a mano m'avvidi che le tendenze filosofiche piegavano al politico, e le combriccole della cessata Cisalpina, e le ultime vicende d'Ancona ne davano indizio. Lucilio teneva dietro con grandissima premura a cotali novelle, e alcune anche talvolta ne prediceva, con maravigliosa aggiustatezza. Fosse avvisato antecedentemente, o sincero profeta nol so: ma propendo a quest'ultima opinione, perché né egli usava discorrere di quanto gli veniva comunicato, né a que' tempi nella nostra condizione era molto agevole ricever lettere scritte di fresco. A Genova poi non entravano né fresche né salate: e le ultime notizie di Venezia le ebbimo da un prigioniero tedesco ch'era stato d'alloggio un mese prima presso il marito della Pisana, forse nelle camere stesse del tenente Minato. Questo signor tenente fu una delle piú spiacevoli novità che trovai in Genova: la seconda fu la fame: perché il giorno dopo al nostro arrivo cominciò la flotta inglese lo strettissimo blocco, e in poche settimane ci ridusse alla caccia dei gatti. Aveva peraltro un gran conforto e questo era la protezione offertami in ogni incontro dall'amico Alessandro mugnaio, trovato pur esso a Genova e non piú capitano, ma colonnello. Chi viveva a quel tempo andava innanzi presto. Il colonnello Giorgi non aveva ventisett'anni, sopravanzava del capo tutti gli uomini del suo reggimento, e comandava a destra e a sinistra con un vero vocione da mugnaio. Non sapeva cosa volesse dire paura, e si scaldava nel furor della mischia senza mai dimenticarsi delle schiere che doveva condurre e governare: questi erano i suoi meriti. Scriveva passabilmente e con qualche intoppo d'ortografia, non conosceva che da un mese circa e soltanto di nome Vauban e Federico II; ecco i difetti. Pare che si desse maggior peso ai meriti, se in due anni e mezzo era diventato colonnello; ma il merito maggiore fu la carneficina di tutto il suo battaglione che, come dissimo, lo lasciò capitano per necessità. Un giorno lo incontrai che già i magazzini cominciavano a impoverire, e chi aveva derrate a tenerle per sé. Aveva la Pisana piuttosto malata e non m'era ancor venuto fatto di trovarle una libbra di carne pel brodo. - Ohé, Carlino - mi disse - come la va? - Vedi! - gli risposi - son vivo ancora, ma temo per domani o per dopodimani. La Pisana si sente male, e andiamo di male in peggio. - Che? la Contessina è malata?... Corpo del diavolo!... Vuoi che ti procuri otto o nove medici di reggimento?... I reggimenti non ci sono piú, ma sopravvivono i medici; segno del loro gran sapere. - Grazie, grazie! ho il dottor Vianello che mi basta. - Sicuro che deve bastare; ma diceva cosí per consulto per curiosità! - No, no, il male è già conosciuto; dipende da difetto d'aria e di nutrimento. - Non ha altro? Fidati di me! domani son di guardia alla Polcevera e là le farò respirare tanta aria in un'ora quanta a Fratta non se ne respira in un giorno. - Sí, eh, alla Polcevera, con quei finocchietti che vi va regalando Melas! - Ah! è vero, mi dimenticava che è una contessina e che le bombe la possono infastidire. Allora non c'è rimedio; menala a spasso sui tetti. - Se avesse la volontà e la forza occorrente, farebbero anche i tetti, ma una malaticcia che si nutre di brodo di lattuga non può certo avere una gran vigoria. - Pover'a lei! Peraltro io posso trarti d'impiccio!... Vedi ch'io mi conservo abbastanza grasso e tondo, mi pare! - Davvero sembri un cappellano del Duomo di Portogruaro. - Eh! altro che cappellani! Di' mo che a cantar in coro si guadagnano muscoli di questa sorte! - e tendeva e gonfiava un braccio che per poco non faceva scoppiare le cuciture. - Io, vedi, mi son mantenuto cosí grazie alla mia previdenza. Ho ammazzato i miei due cavalli, li ho fatti salare e me li pappo a quattro libbre il giorno. Dopo sarà quel che sarà. Ma se vuoi entrar a parte della cuccagna... - Figurati! per me volentieri, e mi rimorderebbe di privar te; ma per la Pisana il cavallo salato non le conviene. - Allora un altro ripiego; la mia padrona di casa è tirata come una genovese e non mangia altro che erbe cotte, tagliate da un suo cortiletto che onora col nome di orto. Ma già credo che anche prima dell'assedio non mangiasse meglio, e la vita non è altro per lei che un lunghissimo blocco. T'immagineresti ch'essa tien sempre sui ginocchi un vecchio gatto d'Angora cosí grasso cosí morbido che parrebbe una golaggine a qualunque milanese? - Vada pel gatto d'Angora! - io esclamai. - Alla Pisana non le piacciono molto i gatti vivi, ch'io mi sappia; ma le si faranno piacer morti. E tutto starà a darle ad intendere che è brodo di pollo e non di gatto. Mi procurerò una manata di piume e guarderò di spanderla per la casa... - Se posso io per le piuma... - Grazie, Alessandro; mi sovviene che in camera ne ho pieni i cuscini del letto. Piuttosto, come farai ad impadronirti del gatto d'in sui ginocchi della signora?... Lí il bravo colonnello tirò il mento nel collare e se lo sfregolava che pareva lui un gattone in ruzzo di farsi bello. - Sí, perdiana, come farai, s'ella è tanto invaghita del suo gatto? - Carlino, ho avuto la disgrazia di piacerle piú del gatto; e mi perseguita sempre che è una disperazione. - È dunque brutta se ti dà tanto noia? - Brutta, caro; spaventevole! Come farebbe un'avara ad esser bella? Mi par di vedere la signora Sandracca con qualche dente di meno. Io diedi un guizzo di raccapriccio. - Ma sta' pur cheto! non te la farò vedere: terrò tutto il gusto per me e in riguardo tuo e della Contessina rischierei anche di peggio. Ma spero di cavarmela collo spavento. Tutte le mattine ella usa bussare alla mia porta e domandarmi se ho dormito bene, girando il chiavistello come per entrare: ma io fingo di non m'accorger mai di questa voglietta e alla sera ci metto di mezzo tanto di catenaccio. Piuttosto mi dimenticherei di cavarmi gli stivali che di prendere una tal misura di sicurezza. Domani invece me ne dimenticherò a bella posta: la signora entrerà, e nel frattempo la mia ordinanza farà la festa al gatto. - Ben immaginato, perbacco: diventerai generale presto con queste maravigliose attitudini. Grazie adunque, e ricordati che aspetto dal tuo gatto la salute di mia cugina. Il giorno dopo Alessandro venne a trovarmi nella mia stanza che sonava mezzogiorno: aveva la cera negra e il viso imbronciato. - Che fu mai? - gli dissi io correndogli incontro. - Arpia maledetta! - sclamò il colonnello. - Te lo saresti immaginato tu, che venisse a picchiare al mio uscio col suo stupido gatto sotto il braccio?... - E cosí? - E cosí dovetti sorbirmi mezz'oretta di conversazione, che ne ho ancora sconvolte tutte le interiora, e scommetto che son bianco di bile come quando stava nel mulino!... Oh la maniera di dividerla da quel gatto indiavolato, dimmela tu se la sai immaginare! - Per esempio, se tu facessi per abbracciarla? Il povero Alessandro fece un atto come se gli avessi dato a fiutare una carogna. - Temo che sia l'unica - egli rispose - ma se poi il gatto non se ne va, se tarda ad andarsene?... - Oh diavolo! ad un capitano par tuo mancano mezzi da tirar in lungo una battaglia? Alessandro assunse a queste mie parole una cera grave e dignitosa; non ne scerneva il perché, quando fui come rischiarato da un lampo. - Scusa sai - aggiunsi - ho adoperato il vocabolo capitano nella sua significazione etimologica di capo; come si chiamano capitani Giulio Cesare, Annibale, Alessandro, Federico II! Non mi dimentico mai il grado che occupi ora! A questa dichiarazione e piú al nome di Federico II la faccia del colonnello si rischiarò. - Benone - riprese egli contentissimo, accarezzandosi le guance. - Io farò cosí un qualche vezzo all'arpia... ma adesso che ci penso, cosa dirà la cameriera? - Che c'entra in tuttociò la cameriera? - C'entra, c'entra... oh bella! c'entra perché ci entro io. - È giovine e bella la cameriera? - Fresca, perdio, e salda come un pomino non ben maturo: con certe imbottiture intorno che ricordano le nostre paesane, e una bocchina che a Genova non se ne vedono di compagne. - Allora capisco perché c'entri tu, e perché c'entra lei. Son tutte conseguenze di conseguenze!... La cameriera potresti mandarla fuori a comperarti, che so io, della polvere di Tripoli per gli speroni. - No, no, amico, mi tirerei addosso le gelosie della figliuola della portinaia! - Ma caro il mio Alessandro, tu sei il cucco delle donne...? Bisogna proprio dire che pel sesso debole certi stimoli siano piú urgenti di quelli della fame! - Sarà un accidente, Carlo!... Ma del resto fra queste cere da assedio il mio colorito la mia corporatura devono far colpo per forza!... E poi tra Genovesi e Friulani per forza bisogna intendersi a motti; abbiamo due dialetti cosí incomprensibili che a dimandar pane si piglierebbero sassate. - Buona la ragione! ma guai se non avessi il tuo cavallo salato! Peraltro alla cameriera potresti consegnare qualche cosa da stirare!... - Sí, sí, vedo io, capisco io, lascia fare a me!... Domani avrai il tuo gatto, da far il brodo per quindici giorni. - Ti raccomando, sai! Perché oggi ho potuto trovare un mezzo piccione e l'ho pagato un occhio della testa, ma domani siamo proprio sprovvisti affatto. Il valoroso colonnello mi lasciò con un gesto di promessa immanchevole; e pensò forse lungo la strada al modo di non esporsi troppo coi vezzi che avrebbe dovuto fare alla padrona di casa per isnidarle il gatto dal seno. Il giorno appresso non erano le dieci che l'ordinanza di Alessandro mi portò in casa la famosa fiera: infatti il peso non era minore della fama, e non mi ricordava mai d'aver veduto neppur nella cucina di Fratta un gatto cosí smisurato. - E cosa n'è del tuo padrone? - chiesi con fare svagato all'ordinanza. - L'ho lasciato nella sua stanza che strepitava con tutte le donne della casa - mi rispose il soldato. - Ma egli è avvezzo a tener testa ai Russi, né avrà paura di quattro gonnelle. Un quarto d'ora dopo io avea già consegnato la bestia alla cuoca che ne cavasse la maggior quantità possibile di brodo, intorbidandogli il sapore gattesco con sedani e cipolline, quando mi capitò dinanzi Alessandro tutto sconvolto ed arruffato che pareva Oreste perseguitato dalle Furie, e rappresentato dal Salvini. Appena entrato in camera si buttò sopra una poltrona strepitando e bofonchiando che piuttosto che dar la caccia a un altro gatto sarebbe uscito dai castelli per conquistar un bue contro i Tedeschi, i Russi e quanti altri ne volessero venire. Io aveva piú voglia di ridere che di piangere; ma mi trattenni per non fargli dispiacere. - Senti cosa mi capita! - diss'egli dopo aver buttato via il cappello dispettosamente. - Io avea pensato di mandar la portinaia fuori di casa, e la cameriera in cerca della portinaia; sicché in quel frattempo la padrona saliva da me, io le faceva la burletta del gatto, e l'ordinanza aveva libero il campo per accomodarlo a suo modo; intanto portinaia o cameriera tornavano e mi toglievano d'impiccio. Invece, cosa succede?... La portinaia e la cameriera s'incontrano per le scale e cominciano a litigare fra loro; io, dopo aver buttato a terra il gatto, con una specie di abbracciamento alla signora padrona, non so piú andare né innanzi né indietro: quel maledetto gatto mi si ostina fra i piedi e la vecchia al collo!... Pesta di qua pesta di là riesco finalmente a metter in fuga la bestia... Ma in quella appunto, cameriera e portinaia entrano accapigliandosi fra loro e veggono me alle prese colla signora. Urla una e strilla quell'altra, credo che diedero la sveglia a tutto il vicinato. La signora era rossa piú per la stizza che per la vergogna; io piú pallido di spavento che di stizza: ma quella diversione mi rese i colori. Cominciai a gridare che non era nulla e che stava provando alla signora la tracolla della sciabola. La cameriera si buttò addirittura addosso alla padrona minacciandola che se non le pagava i salari le avrebbe cavato gli occhi, e che non era quella la maniera di mantenere le sue promesse che il servizio dell'ufficial francese sarebbesi lasciato tutto a lei. Intanto si udivano da basso gli ultimi miagolamenti del povero gatto sgozzato dalla mia ordinanza colle forbici della padrona che furono poi trovate tutte insanguinate. Anzi bisognerà che gli tiri le orecchie a quello sciocco per questa castroneria! Figurati che parapiglia! La signora, che m'aveva lasciato, voleva tornarmi ad abbracciare, la cameriera mi teneva pel collo, e la portinaia per l'abito; ciascuna voleva la sua parte, ma avevano fatto i conti senza l'oste. Stufo delle loro moine io diedi una tal vociata che restarono tutte e tre quasi istupidite e mi lasciarono libero di movermi. Io infilai la porta, presi il cappello nell'anticamera, ed eccomi qui di volo: ma giuraddio, se avessi sostenuto in carré una carica di cosacchi non sbufferei di piú!... Io consolai il giovine colonnello delle sue disgrazie; e lo menai poscia dalla Pisana a ricevere i ringraziamenti dovutigli; ma ebbimo cura di cambiar il gatto in un pollo d'India, e perciò non risaltarono tanto i pericoli corsi dal paladino per conquistarlo. Ad ogni modo, grazie alla furberia della cuoca piemontese il brodo ottenne l'aggradimento della padrona; lo si disse un po' insipido per esser di pollo d'India, ma siccome anche i polli soffrivano per la carestia, non ci badò tanto pel sottile. Sono storielle un po' insulse dopo la grande epopea delle mie imprese di Napoli; ma ad ogni stagione i suoi frutti; e quella reclusione di Genova accennava sul principio di volgere in buffo. Soltanto Lucilio non rimetteva nulla della sua consueta gravità; e succiava seriamente le sue radici di cicoria come le fossero polpette di selvaggina, o salsicciotti di pollo. Un'altra volta il mugnaio colonnello mi venne a trovare meno rosso e giovialone del solito. Io ne dava la colpa al cavallo salato che cominciava a mancare, ma mi rispose d'aver ben altro pel capo e che m'avrebbe condotto in tal luogo dove forse anch'io sarei partito con tutt'altra voglia che di berteggiare. Per verità io non trovava piú allettamento a simili improvvisate; ma per quanto ne stringessi Alessandro, egli nulla volle dirmi e rispondeva sempre che avrei veduto all'indomane. Mi venne infatti a prendere il giorno appresso per condurmi allo Spedal militare. Là trovammo il povero Bruto Provedoni che cominciava ad alzarsi allora da una lunga malattia; ma si era alzato con una gamba di legno. Immaginatevi la brutta sorpresa! Anche Alessandro avea ignorato un pezzo la disgrazia dell'amico e non avendone novella da un secolo la credeva forse ancor peggiore; quando cercando per gli spedali d'un suo soldato che non si trovava piú, e lo dicevano infermo, avea dato il naso nell'amico. Tuttavia di noi tre lo stesso Bruto era il meno costernato. Egli rideva, cantava e si provava a camminare e a ballare sulla sua gamba di legno cogli attucci piú grotteschi del mondo. Diceva soltanto che si pentiva di non aver tardato a perder la gamba fin nel tempo dell'assedio, che allora avrebbe potuto mangiarsela con molto piacere. Mi consolai d'averlo trovato, ché in qualche maniera poteva essergli utile. Infatti tutta la sua convalescenza egli la passò in casa nostra colla Pisana e con Lucilio, e schivò le noie e gli incommodi degli spedali militari. A Genova rividi anche Ugo Foscolo, ufficiale della Legione lombarda, e fu l'ultima volta che stetti con lui sul piede dell'antica dimestichezza. Egli stava già sul tirato come un uomo di genio, si ritraeva dall'amicizia, massime degli uomini, per ottener meglio l'ammirazione; e scriveva odi alle sue amiche con tutto il classicismo d'Anacreonte e d'Orazio. Questo serva a provare che non si era sempre occupati a morire di fame, e che anche il vitto di cicoria né spegne l'estro poetico né attuta affatto il buon umore della gioventù. A lungo andare peraltro l'estro poetico svaporava, e il buon umore andava appassendo. Una fava costò perfino tre soldi, e quattro franchi un'oncia di pane: a non voler mangiare che pane e fave c'era da rovinarsi in una settimana. Io non aveva in tutto me un ventimila lire tra denari sonanti e cedole austriache; ma di queste non era quello il luogo da ottenere il pagamento e cosí tutto l'aver mio si riduceva a un centinaio di doble. Volendo curare la salute vacillante della Pisana e alimentarla d'altro che di zucchero candito e di sorci ci andava comodamente una dobla al giorno. Da ultimo fui ben fortunato di ricorrere al cavallo salato di Alessandro. Ma dàlli e dàlli, non ne rimasero che le ossa; e allora ci convenne far come tutti; vivere di pesce marcio, di fieno bollito quando si trovava gramigna, e di zuccherini, de' quali era in Genova grande abbondanza, perché formavano un importantissimo ramo di commercio. S'aggiunsero febbri e petecchie per ultimo conforto; ma appunto in casa nostra cominciò a rifiorir la salute, quando si corrompeva di fuori. I zuccherini conferivano alla Pisana; ella racquistò le belle rose delle guance e il suo umorino strano e bisbetico che durante la malattia s'era fatto cosí buono ed uguale da farmi temere qualche grosso guaio. Allora mi racconsolai, giudicando che nulla v'avea di guasto, e che i visceri erano quelli di prima: anzi la consolazione andò tant'oltre che cominciai anche a spaventarmene. Alle volte saltava su per mordere come una vipera; e s'ingrugnava e aveva il coraggio di tener il broncio un'intera giornata. Voleva poi tutto a modo suo e dal silenzio ostinato passava in men ch'io non dico ad una garrulità quasi favolosa. Cosí ella ebbe il vanto di cancellare dalla mia memoria tutti quegli anni vissuti frammezzo e di ricondurmi alle tempestose fanciullaggini di Fratta. Davvero che a chiuder gli occhi avrei creduto di essere non già a Genova quasi veterano d'una guerra lunga e accanita, ma in riva alle fosse delle nostre praterie a bucar chiocciole e a lustrar sassolini. Mi sentiva imbambolire come un bisnonno; e sí che non era ancora padre né aveva premura di diventarlo. Questo era per esempio un punto sempre controverso tra me e lei: ch'ella avrebbe voluto un bambino ad ogni costo, ed io, per quanto mi scaldassi a dimostrarle che nella nostra posizione, in quel luogo, in quei tempi, un figliuolo sarebbe stato il peggiore degli imbrogli, dovevo sempre metter le pive nel sacco. Altrimenti pel gran sussurro mi sarebbe crollato il soffitto sul capo. Cominciarono i soliti dissapori, gli alterchi, le gelosie: tutto per quel benedetto bambino; eppur vi giuro che se la Provvidenza non ce lo mandava, io non ce ne aveva né colpa né rimorso. Finallora io m'era sempre congratulato colla Pisana che non aveva mai sospettato di me, e queste congratulazioni, se volete, erano intinte un pochino d'ironia, perché la sua sicurezza mi pareva originata o da freddezza d'amore o da piena confidenza nei proprii meriti. Ma allora almeno non fui piú in grado di lamentarmi. Non poteva arrischiare un'occhiata fuori della finestra, ch'ella non mi allungasse tanto di grugno. Non me ne diceva la cagione, ma me la lasciava travedere. Rimpetto dimoravano due crestaie, una stiratrice, la moglie d'un arsenalotto e una mammana. Ella mi diceva invaghito di tutta questa marmaglia e non era il miglior elogio al mio buon gusto; massime quanto alla mammana ch'era piú brutta d'un peccato non commesso. Indarno io teneva i miei occhi a casa come san Luigi; faceva per fintaggine, e me lo diceva con un sogghignetto piú pestifero di qualunque impertinenza. Stufa, diceva ella, di farmi la buona moglie, cominciò ad uscire, a volerne star a zonzo le mezze giornate: e sí che la città non dava motivo ad allegre passeggiate. Dappertutto era un puzzo d'ospedale o di cataletto, e bare si gettavano dalle finestre, e ammalati che si trasportavano a braccia, e immondizie che si rimescolavano per litigare ai vermi qualche avanzo di carogna. Finalmente volle ad ogni costo che la menassi fin sui castelli per far visita a' miei amici ch'erano in fazione. S'io non mi mostrava di buona voglia m'accagionava di paura e quasi di codardia: non contento di far nulla voleva anche frodare quelli che facevano, di quel po' di conforto che sarebbe loro venuto dalla compagnia di qualche buon'anima. Conveniva adattarsi e menarla. Se avesse preteso che la conducessi nel campo trincerato di Otto o fra le turbe monferrine raccolte dall'Azzeretto a minacciar piú che Genova gli scrigni dei Genovesi, scommetto che avrei accondisceso; tanto m'aveva ridotto grullo e marito. Un giorno tornavamo da una visita fatta al colonnello Alessandro nel forte di Quezza, ch'era uno dei piú esposti. Le bombe piovevano sulle casematte mentre noi facevamo un brindisi col Malaga alla fortuna di Bonaparte e alla costanza di Massena. La Pisana baccheggiava come una vivandiera, e in quel momento le avrei dato uno schiaffo; ma si serbava sempre cosí bella cosí bella per quante pazzie e scioccaggini commettesse, che avrei temuto di guastarla. Uscendo dal forte, Alessandro ci gridava dietro che badassimo ai bei fuochi d'artifizio; infatti le bombe di Otto descrivevano per aria le piú vezzose parabole, e se non ci fosse stato il tonfo della caduta e il fragore e la rovina dello scoppio, sarebbe stato un onestissimo divertimento. Io affrettava il passo; e ve lo assicuro, non tanto per me quanto per veder la Pisana fuori di quel gran pericolo; ma ella se ne aveva a male, e borbottava della mia dappocaggine, e mi faceva montar la stizza portando a cielo Alessandro, e le sue belle maniere soldatesche, e i suoi frizzi e le sue baiate che non erano poi d'un gusto molto raffinato. Ma la Pisana aveva la passione dei tipi; e certo le sarebbe spiaciuto un lazzerone senza cenci e senza maccheroni, come un colonnello mugnaio senza pizzicotti e senza bestemmie. Io mi difendeva con dignitoso silenzio; ma ella dava a divedere d'ascrivere questa ritenutezza ad invidia. Allora la mia bile sforzò il turacciolo, e diedi una gran vociata gridando che se fossi stato donna io avrei voluto lodarmi piuttosto di Monsignore suo zio che di quel zoticone di colonnello. Lí appiccammo una lite; ché ella mi tacciava d'ingratitudine, ed io lei di soverchia indulgenza per le scurrili maniere di Alessandro. Terminammo a casa col sederci allo scuro io sopra una seggiola ed ella sopra un'altra col viso rivolto alla parete. Lucilio rientrando indi a poco ci trovò addormentati, segno evidentissimo che la tempesta aveva appena sfiorato i nostri umori biliosi; e sí che vento di parole non n'era mancato. La Pisana per farmi dispetto seguitò lunga pezza a lodare e magnificare i buoni portamenti e il valore stragrande del colonnello Alessandro, dicendo che per farsi di mugnaio esperto soldato in cosí breve tempo si voleva un ingegno sperticato, e che ella già aveva sempre augurato bene di quel giovine distinguendolo dagli altri fin da piccino. Io ingelosiva furiosamente di questi richiami ad un tempo, nel quale molte volte aveva dovuto soffrire la fortunata rivalità del piccolo Sandro; e vedendo compiacersi lei di cotali memorie, ognuno si figurerà i sospetti che ne induceva. Cosí, gelosi ambidue, stancheggiati dal digiuno, divisi dal resto del mondo, e con un futuro dinanzi che non dava nulla da sperare, noi cercavamo del nostro meglio ogni via per infastidirci scambievolmente. Ma appena poi il bell'Alessandro mostrava volersi ingalluzzire per le lusingherie della Pisana, ecco ch'ella se ne ritraeva quasi spaventata. E toccava a me farle veduto che certe schifiltosità non istanno bene, che bisogna compatire alle educazioni un po' precipitate, e che la trivialità d'un bravo e dabben soldataccio non va guari confusa colle oscene allusioni d'un bellimbusto sboccato. Alessandro, in uggia a me mentre era careggiato dalla Pisana, e difeso invece quando ella lo aspreggiava, non sapeva piú per qual manico prendere il coltello; e stava nella nostra conversazione come un ballerino sulla corda prima di essersi bilanciato. Peraltro quando la Pisana si mostrava affatto ingiusta col povero colonnello io aveva ancora un mezzo di farle cadere la stizza; ed era il ricordarle quel buon brodo di pollo d'India procuratole da lui solo. Ella che ne aveva gran desiderio da un pezzo, perché i zuccherini cominciavano a impastarle la bocca, gli tornava allora dietro coi piú dolci vezzi del mondo; e Alessandro s'incatorzoliva tutto per la contentezza. Ma quand'io gli accennava cosí in ombra la ragione di quelle carezze, s'imbrunava in faccia brontolando che la sua padrona non aveva altri gatti e che buon per lui, giacché al secondo rischio Dio sa cosa poteva avvenire. Crescevano intanto le strettezze dei viveri, cresceva la pressura degli assedianti e non si combatteva piú per alcuna speranza di libertà o d'indipendenza. Che voleva Massena? Far di Genova una nuova Pompei popolata di cadaveri invece che di scheletri, o piú che coll'armi, colla paura della pestilenza allontanare i nemici dalle mura combattute? - Era un lamento, un furore universale. Egli solo, il generale, aveva le sue idee per ritardare ad ogni costo d'un mese d'un giorno la resa della piazza: Bonaparte in quel mezzo avrebbe raccolto gli ultimi ardori repubblicani di Francia per incendiarne una seconda volta l'Europa. A forza di disagi, di patimenti, di costanza e di crudeltà si giunse ai primi di giugno, quando già Bonaparte era precipitato come un fulmine a turbare le tranquillissime guerricciole di Melas contro Suchet, e s'erano rialzate in Milano le speranze degli Italiani. La resa di Genova si chiamò convenzione e non capitolazione, gli ottomila uomini di Massena passarono opportuni ad ingrossare l'armata del Varo, e dai nuovi conquistatori della Liguria non si parlò allora di ristaurare l'antico governo come non se ne parlava punto in Piemonte. Ma era ben tempo quello da pensare a ristaurazioni! Melas a marce forzate raccozzava i corpi sparsi dell'esercito sulle rive della Bormida, proprio rimpetto a quel punto dove Napoleone prima di partir da Parigi avea messo il dito sulla carta geografica dicendo: - Lo romperò qui! - E cosí questi s'affrettava a lasciar Milano, a passar il Po, a vincere col luogotenente Lannes a Montebello, a stringer il nemico intorno ad Alessandria. Stranissima posizione di due eserciti ciascuno de' quali aveva la propria patria alle spalle dell'inimico! In questo mezzo gli esulanti di Genova, secondo i patti della convenzione, si trasportavano sopra navi inglesi ad Antibo. Io, la Pisana, Lucilio e Bruto Provedoni eravamo del numero. Bruttissimo viaggio e che mi privò delle mie ultime doble. A Marsiglia fui contentissimo di trovar un usuraio che mi scambiasse al trenta per cento le cedole austriache e siccome era già pervenuta la notizia della vittoria di Marengo, ripigliammo tutti insieme la strada d'Italia. Si sperava assai; si sperava piú che non si riconquistò, e il riconquisto d'allora fu quasi miracolo. Ma nessuno avrebbe immaginato che Melas si disanimasse per una prima sconfitta; e la continuazione della guerra allargava il campo delle lusinghe fino a far travedere in lontananza la restituzione di Venezia in libertà o il suo aggiungimento alla Cisalpina. Invece incontrammo per istrada la nuova della capitolazione di Alessandria, per cui Melas si ritraeva dietro al Po ed al Mincio e i Francesi rioccupavano Piemonte, Lombardia, Liguria, i Ducati, la Toscana, le Legazioni. Il nuovo Papa, eletto a Venezia e da poco rientrato in Roma fra le fastose accoglienze degli alleati napoletani, credeva aver che fare a riconquistar il potere dalle mani troppo tenaci degli amici; invece dovette accettarlo dalla clemenza dei nemici firmando con Francia un concordato ai 15 luglio. Ma il Primo Console s'atteggiava allora a protettore dell'ordine della religione della pace; e Pio VII, il buon Chiaramonti, gli credeva senza ritegno. Le nuove consulte provvisorie pullulavano ovunque, con questo nuovo sapore di pace di ordine di religione. Lucilio e tutti i vecchi democratici ne torcevano il grugno; ma Bonaparte blandiva ubbriacava il popolo, accarezzava i potenti, premiava largamente i soldati, e contro simili ragioni non v'ha stizza repubblicana che tenga. Io per me, fedele agli antichi principii, sperava nelle nuove cose, perché non sapea figurarmi che di tanto avessero cangiato gli uomini in cosí breve tempo. Per questo non mi andò a verso che Lucilio rifiutasse una carica cospicua offertagli dal nuovo governo; e per me accettai volentieri un posto d'auditore nel Tribunal militare. Indi, siccome si abbisognava di amministratori galantuomini, mi traslocarono segretario di Finanza a Ferrara. Non mi spiaceva il guadagnarmi onoratamente un pane, perché tra le dodicimila lire lasciate alla vedova del Martelli sopra una casa bancaria di Napoli, le doble spese a Genova, e le cedole negoziate a Marsiglia tutto il peculio consegnatomi da mio padre prima di morire se n'era ito in fumo. Il colonnello Giorgi mi veniva dicendo, anche allora a Milano, che mi raccomandassi a lui e che m'avrebbe fatto creare maggiore del Genio o dell'artiglieria; ma vivendo io colla Pisana, la carriera militare non mi quadrava, e mi si attagliavano meglio gli impieghi civili. Infatti a Ferrara ci accasammo molto onorevolmente. Bruto Provedoni che ci aveva accompagnato fin là diretto per Venezia e pel Friuli ci promise che avrebbe scritto amplissime informazioni sopra tutto ciò che ci premeva sapere; e noi contenti di esserci salvati con tanta fortuna da quel turbine che aveva inghiottito gente piú grande ed accorta di noi, stettimo ad aspettare con pazienza che imprevisti avvenimenti finissero di mettere la nostra vita perfettamente in regola. La morte di Sua Eccellenza Navagero che non doveva esser lontana mi stava molto a cuore. Poveretto! Non gli augurava male; ma dopo aver vissuto abbastanza felice oltre ad una settantina d'anni poteva bene lasciar il posto a un pochetto di felicità per noi. Senza volerlo, credo che mi moderassi anch'io secondo le opinioni piú discrete di quel secondo periodo repubblicano: quell'amore spensierato ubbriaco delirante, che correva naturalmente fra le passioni ardenti e sfrenate della rivoluzione, sconcordava alquanto colle idee legali sobrie compassate che tornavano a galla. Infine il concordato colla Santa Sede mi piegava mio malgrado a pensieri di matrimonio. La Pisana non dava alcun sentore di quello che sperasse o disegnasse fare. Tornata alla vita solita era tornata alle solite disuguaglianze d'umore, alla solita taciturnità variata da improvvisi eccessi di ciarle e di riso, al solito amore condito di rabbia di gelosie e di spensieratezza. Ascanio Minato, ch'era divenuto capitano e avea lasciato a Milano la volubile contessa rubata ad Emilio, ottenne in quel torno d'essere di guarnigione a Ferrara. Anche a Genova egli ronzava intorno alla Pisana senza poterla avvicinare per la nessuna cura che costei si dava di lui nelle diversissime occupazioni di quel tempo. Ma a Ferrara non le parve vero di poter variare d'alcun poco la noia domestica, e s'adoperò tanto che dovetti consentire l'ingresso in mia casa al brillante ufficiale. Costui mi spiaceva per tutte le ragioni: per le sue gesta anteriori, pel mio amor proprio, per la memoria del povero Giulio, per la baldanza del portamento e del parlare, per l'affettazione francese, buffa e spregevole in un còrso. Ma mi guardava bene dal dargli carico di tutto ciò in presenza della Pisana; sapeva che alle volte nulla piú nuoce d'un biasimo inopportuno, massime presso le indoli che amano l'assurdo e la contraddizione. Perciò stava composto e con bella creanza; come si conviene ad un magistrato ad un padrone di casa; ma teneva ben aperti gli occhi in testa, e il signor Minato aveva raramente il coraggio di incontrarli coi suoi. L'Aglaura e Spiro scrivevano da Venezia notizie piuttosto varie che buone. Avevano avuto un secondo bambino, ma la loro madre era morta, e ne vivevano inconsolabili; il commercio loro prosperava, ma la cosa pubblica sembrava in balía piú dei tristi che dei buoni. Il Venchieredo padre spadroneggiava senza pudore ostentando maniere linguaggio e alterigia forestiere. Spiro, che avea dovuto presentarglisi per implorar la liberazione d'un suo compatriota relegato a Cattaro coi repubblicani catturati in terraferma, avea dovuto convenire che i padroni stranieri valgono meglio dei fattori e castaldi nazionali. L'avvocato Ormenta era compagno al Venchieredo in quella trista opera, ma s'infamava meglio per occulte ladrerie che per aperte sopraffazioni. Operavano i consigli del padre Pendola; il quale ad onta della cacciata da Portogruaro e del discredito in cui era tenuto dalla Curia di Venezia avea saputo formarsi un certo partito nel clero meno educato; e da taluni era tenuto per un martire, da altri per un birbante. I vecchi Frumier erano morti ambidue a un mese di distanza l'un dell'altro; dei giovani, Alfonso avea rinunciato al matrimonio per ottenere una commenda dell'Ordine di Malta, e non si sapeva nemmeno ch'egli esistesse; ma si diceva ch'egli corteggiasse una certa dama Dolfin piú vecchia di lui d'una quindicina d'anni, e stata già moglie d'un correggitore a Portogruaro. - Io me ne sovvenni, la ricordai alla Pisana, e ne risimo assieme. Agostino invece avea brigato un posto nel nuovo governo, perché altrimenti non sapeva come vivere, essendosi per la morte dei genitori perduto ogni loro patrimonio. Lo avevano fatto controllore di Dogana, ed egli n'era umiliato, il fervido repubblicano. Peraltro pensava di riguadagnar la partita con un buon matrimonio; e c'era qualche maneggio con quella donzella Contarini che mio padre avea voluto affibbiarmi col pretesto della dote e del futuro dogado. La Contessa di Fratta, come zia, batteva l'acciarino: ma piú che l'affetto pel nipote la lusingava la speranza d'una ricca senseria, perché la sua passione pel gioco continuava sempre e il patrimonio della famiglia calava sempre trovandosi omai ridotto ad un centinaio di campi intorno al castello di Fratta, sui quali erano ipotecati i crediti delle figlie. La reverenda Clara dopo la morte della madre Redenta era diventata la grande testa del convento e volevano farla badessa. Perciò meno che mai si angustiava per quello che avveniva di brutto o di bello nel secolo. Il conte Rinaldo sgobbava sempre alla Ragioneria e nelle biblioteche; Raimondo Venchieredo se gli aveva offerto di fargli ottenere un avanzamento negli uffici amministrativi, ma aveva ostinatamente rifiutato; andava via unto e cencioso col suo ducato al giorno, pelatogli anche questo dalla madre; ma non voleva, a mio credere, curvar la schiena piú che non fosse strettamente necessario. L'Aglaura in particolare mi dava notizie della Doretta che come sapete era stata altre volte in qualche relazione con lei e precisamente le aveva recato per parte del Venchieredo qualche lettera d'Emilio dopo la partenza di costui per Milano. La sciagurata, abbandonata da Raimondo, aveva perduto ogni ritegno; e di amante in amante sempre piú basso era caduta nei sitacci piú fetidi e infami di Venezia. - Vedi, a chi ti fidavi? - dissi io alla Pisana. Ella m'avea confessato che la Doretta era stata a narrarle il mio amore e la mia fuga coll'Aglaura; nella qual cosa la stupida bagascia serviva alle mire di Raimondo contro il suo proprio interesse. - Che vuoi che ti risponda? - soggiunse la Pisana. - Già sai che quando si è stizziti con alcuno meglio ci entrano le parole cattive che le buone. E se ti confessassi ora che Raimondo stesso mi ti dipingeva come un imbroglione, rimasto a Venezia piú tardi degli altri e partito poi per Milano alla sfuggita, solamente per pescar nel torbido, ma in un torbido molto puzzolente!? - Ah birbante! - sclamai. - Questo ti diceva Raimondo?... L'avrà a fare con me!... - Io però non ci credeva molto - riprese la Pisana - o se ci credeva non glie ne venne alcun utile, perché cercava forse di staccarmi da te e non fece altro che precipitare la mia venuta a Milano. - Basta, basta! - diss'io che non udiva ricordare molto volentieri questa parte della nostra vita. - Vediamo ora cosa ne scrive da Cordovado Bruto Provedoni. E lessimo la lettera tanto sospirata del povero invalido. Io potrei anche, come ho fatto finora, darvene il compendio; ma la modestia di scrittore non lo permette; qui bisogna cedere il campo ad uno migliore di me, e vedrete come un animo generoso sa sopportar la sciagura e guardar dall'alto le cose del mondo senza negar loro né cooperazione né pietà. La lettera l'ho ancora fra le mie cose piú care; nel reliquario della memoria che principia colla ciocca di capelli fattasi strappare dalla Pisana, e finisce colla spada di mio figlio che ieri mi giunse dall'America insieme con la tarda conferma della sua morte. Povero Giulio! era nato per esser grande; e non poté esserlo che nella sventura. Ma torniamo al principio del secolo, e leggete intanto cosa mi scriveva a Ferrara Bruto Provedoni, tornato da poco tempo nel suo paesucolo con una gamba di meno, e molti affanni di piú. "Carlino amatissimo! "Ho volontà di scrivervi a lungo, perché molte sono le cose che vorrei dirvi e tante le dolorose impressioni che m'ebbi tornando, che mi pare non dovrei mai finire dal raccontarvele. Ma son poco avvezzo a tener la penna in mano, e spesso mi bisogna lasciar da una banda i pensieri e limitarmi a quelle cose materiali che posso alla meglio esprimere. Peraltro di voi non ho soggezione, e lascerò che l'animo parli a suo modo. Dov'egli non si esprimesse a dovere voi lo capirete egualmente, e in ogni caso mi compatirete della mia ignoranza piena di buona volontà. "Se vedeste questi paesi, Carlino!... Non li conoscereste piú!... Dove sono andate le sagre, le riunioni, le feste che allegravano di tanto in tanto la nostra giovinezza?... come sono scomparse tante famiglie che erano il decoro del territorio, e serbavano incorrotte le antiche tradizioni dell'ospitalità, della pazienza cristiana, e della religione?... Per qual incanto s'è assopita ad un tratto quella vita di chiassi, di gare fra villaggio e villaggio, di contese e di risse per le occhiate d'una bella, per l'elezione d'un parroco, o per la preminenza d'un diritto? - In quattro anni sembra che ne sian passati cinquanta. Non ci fu carestia, e si lagnano ogni dove della miseria; non ci furono leve di soldati né pestilenze come in Piemonte ed in Francia; e le campagne sono spopolate e le case deserte dei migliori lavoratori. Chi emigrò in Germania, chi nella Cisalpina; chi accorse per far fortuna a Venezia e chi sta zitto per paura nei poderi piú nascosti e lontani. La differenza d'opinioni ha disfatto le famiglie; i dolori, i patimenti, le soperchierie della guerra hanno ucciso i vecchi e invecchiato gli adulti. Non si celebrano piú matrimoni, e di rado assai il campanello suona pel battesimo. Se si ode la campana si può giurare ch'è per un'agonia o per un morto. La vigoria ch'era rimasta nei nostri compaesani e che s'esercitava o bene o male in piccoli negozi di casa o di comune, ora s'è sfiancata del tutto. Rimasti senza armi senza danari senza fiducia non pensano piú che ciascuno a se stesso e pei bisogni dell'oggi; tutti lavorano dal canto loro ad assicurarsi un covacciolo contro le insidie del prossimo e le prepotenze dei superiori. L'incertezza delle sorti pubbliche e delle leggi fa sí che si schivino dal contrattare, e che si speculi sulla buona fede altrui piuttosto che affidarvisi. "Come sapete, furono tolte le antiche giurisdizioni gentilizie; e Venchieredo e Fratta non sono piú altro che villaggi, soggetti anch'essi, come Teglio e Bagnara, alla Pretura di Portogruaro. Cosí si chiama un nuovo magistrato stabilito ad amministrar la giustizia; ma per quanto sia utile e corrispondente ai tempi una tal innovazione, i contadini non ci credono. Io sono troppo ignorante per avvisarne le cause; ma essi forse non si aspettano nulla di bene da coloro che colla guerra hanno fatto finora tanto male. Quello che è certo si è che coloro che in questo frattempo si sono ingrassati furono i tristi; i dabbene rimasero soverchiati, e impoveriti per non aver coraggio di fare il loro pro' delle sciagure pubbliche. I cattivi conoscono i buoni; sanno di potersene fidare e li pelano a man salva. Nei contratti con cui sottoscrivono alla propria rovina essi non si provvedono né appigli a future liti né scappatoie; danno nella rete ingenuamente, e sono infilzati senza misericordia. Alcuni fattori delle grandi famiglie, gli usurai, gli accaparratori di grano, i fornitori dei comuni per le requisizioni soldatesche, ecco la genia che sorse nell'abbattimento di tutti. Costoro, villani o servitori pur ieri, hanno piú boria dei loro padroni d'una volta, e dal freno dell'educazione o dei costumi cavallereschi non sono neppur costretti a dare alla propria tristizia l'apparenza dell'onestà. Hanno perduto ogni scienza del bene e del male; vogliono essere rispettati, ubbiditi, serviti perché sono ricchi. Carlino! La rivoluzione per ora ci fa piú male che bene. Ho gran paura che avremo di qui a qualche anno superbamente insediata un'aristocrazia del denaro, che farà desiderare quella della nascita. Ma ho detto per ora, e non mi ritratto; giacché se gli uomini hanno riconosciuto la vanità di diritto appoggiati unicamente ai meriti dei bisnonni e dei trisarcavoli, piú presto conosceranno la mostruosità d'una potenza che non si appoggia ad alcun merito né presente né passato, ma solamente al diritto del danaro che è tutt'uno con quello della forza. Che chi ha danaro se lo tenga e lo spenda e ne usi; va bene; ma che con esso si comperi quell'autorità che è dovuta solamente al sapere e alla virtù, questa non la potrò mai digerire. È un difettaccio barbaro ed immorale del quale deve purgarsi ad ogni costo l'umana natura. "Oh se vedessi ora il castello di Fratta!... Le muraglie sono ancora ritte; la torre s'innalza ancora tra il fogliame dei pioppi e dei salici che circondano le fosse; ma nel resto qual desolazione! Non piú gente che va e viene e cani che abbaiano e cavalli che nitriscono, e il vecchio Germano che lustra gli schioppi sul ponte, o il signor Cancelliere che esce col Conte, o i villani che si schierano facendo di cappello alle Contessine! Tutto è solitudine, silenzio, rovina. Il ponte levatoio è caduto fradicio; e hanno empiuto la fossa con carri di rottami e di calcinacci tolti via dalla casa dell'ortolano che è cascata. L'erba cresce pei cortili, le finestre non solo sono prive d'imposte, ma gli stipiti e i davanzali si sgretolano al gocciolar continuo della pioggia. Si dice che alcuni creditori, o ladri, o che so io, abbiano venduto perfino le travature del granaio; io non ne so nulla; veggo solamente che manca un gran pezzo di tetto e che ci piove e nevica entro, con quanto danno degli appartamenti ve lo potete immaginare!... Marchetto, che è a Teglio per sagrestano e s'è fatto grullo come un cappone, va ancora di tanto in tanto per vecchia abitudine al castello. Egli mi ha raccontato che la signora Veronica è morta, che monsignor Orlando e il Capitano non hanno piú che la serva del Cappellano, la Giustina, che tenga conto delle robe loro, e prepari il pranzo e la cena. Monsignore sospira perché non può piú ber vino: il Capitano si lamenta perché ha promesso in articulo mortis alla sua Veronica di non pigliar altra moglie, ed ora c'è a Fossalta la vedova dello speziale che è matta, e vorrebbe sposarlo, non so con qual'idea. D'inverno fanno notte alle cinque, e Monsignore si difende col gran dormire. Di tutte le sue antiche relazioni soltanto il Cappellano ha tenuto saldo, e sembra anzi stringerglisi di piú ad ogni nuova disgrazia. Monsignore di Sant'Andrea e il piovano di Teglio sono morti anch'essi. Insomma, ve lo diceva fin dapprincipio, ch'io son partito da un paese e torno in un cimitero; ma ancora non sapete tutto. "Quanto alla maniera di camparla questi signori vivono sulle onoranze e quasi sulle elemosine di quei quattro coloni che son loro rimasti; perché l'entrata viva cola tutta a Venezia. Fattori castaldi ed agenti se la sono fatta, dopo essersi ben rimpannucciati a spese dei gonzi. Fulgenzio già aveva comperato la casa Frumier a Portogruaro, e la trinciava avaramente da signore quand'io sono partito; ora suo figlio Domenico è notaio ed ha avuto un posto a Venezia, l'altro ha detto ieri la prima messa e starà in Curia per cancelliere. È un bel pretino questo don Girolamo, e tutto sommato mi piace piú di suo fratello e di suo padre, benché sia furbo come la volpe anche lui. "Ora, Carlino, veniamo a piú gravi disgrazie; dico gravi, perché toccano me piú davvicino e le ho tenute le ultime perché, se ne discorreva dapprincipio, non avrei potuto risolvermi a parlar d'altro. Mio padre ha tenuto dietro a mia madre, ch'era già morta da un mese quand'io mi sono assoldato con Sandro Giorgi. Egli è spirato, poveretto, fra le braccia dell'Aquilina, perché gli altri suoi figliuoli erano in rotta con lui, e non volevano credere ch'egli avesse a morire. La Bradamante giaceva in letto di parto e non ha potuto esser compagna alla sorella in quegli ultimi e pietosi uffici. Io non voglio dir male dei miei fratelli ma il primo per ignoranza, i piú giovani per braveria hanno finito di metter a soqquadro tutta la casa. Porta via di qua, strascina di là, sciupa, vendi, impresta, trovai le camere vuote: cioè no; correggo, Leone, che s'è trapiantato colla famiglia a San Vito a far il fattore, ha creduto bene di affittar la casa, ad eccezione di tre stanze lasciate all'Aquilina e a Mastino: ché in quanto a Grifone era partito per l'Illirico col suo mestiero di capo-mastro. Tre mesi dopo venne offerto a Mastino un posto di scritturante ad Udine, e se la svignò lasciando sola soletta in quelle tre camere una ragazza di quattordici anni. Gli è vero ch'è assai bene sviluppata, e fui molto contento delle lodi che mi fece l'arciprete della di lei condotta: ma ad operare in quel modo bisognava proprio aver nelle calcagna la carità fraterna. "Di tutte queste disgrazie, Carlino, alcuna ne avea già saputa per lettera, altre ne temeva, ma ti dico la verità che a toccarle con mano mi fecero un effetto terribile e quale non mi sarei mai aspettato. Forse anco il vedermi cosí storpio e impotente a mettervi riparo, finí di amareggiare il mio dolore già per sé acerbissimo. Ma un altro colpo mi dovea toccare che appena giunto mi ha proprio buttato a terra. L'Aquilina fra le tante mi avea raccontato anche la morte del dottor Natalino avvenuta un paio di mesi prima. Una sera indovinereste chi mi capitò in casa?... Mia cognata, quella sciagurata della Doretta!... Aveva insieme uno scribacchiante, un mingherlino che si diceva figliuolo d'un avvocato Ormenta di Venezia, e veniva con lei a reclamare la sua dote e l'eredità del marito. Cosa ne dici eh!... Che cuori!... La dote che nessuno ci aveva mai pagata!... L'eredità d'un uomo ch'ella aveva si può dire ammazzato!... Ma siccome ell'aveva una confessione di debito scritta di pugno di Leopardo otto mesi dopo il loro matrimonio, e d'altronde si commiserava della propria posizione, e il mingherlino mi diceva sotto voce che senza il sussidio di quei danari l'onore di mia cognata avrebbe corso grave pericolo, cosí e per ritirarla se è possibile dalla mala via in cui si è messa e per rispetto al nostro nome e alla memoria di mio fratello, ho cercato a tutt'uomo i mezzi di pagarla. Ho venduto quanto restava di mio nel podere lasciato da mio padre; le ho consegnato i danari e se n'è andata con Dio; ma il giovinetto sembrava molto premuroso di liberarla dall'incommodo di portare il sacchetto. Ho poi saputo che quel peculio le serví come dote per entrare in un istituto di convertite novellamente aperto a Venezia per cura di alcuni sacerdoti oscuri di nome, ma di cuore cristiano e di onestissime intenzioni. Ella restò nel ritiro un mese, ma poi ne scappò, dicono, indemoniata; ed adesso ho grave timore che non la sia in peggiori condizioni di prima, perché già il dono della dote era irrevocabile, e d'altronde non l'era una tal somma da poterle assicurare una vita indipendente. "Ora voi sapete lo stato nostro e presso a poco anche del paese. Faccio da padre all'Aquilina, amministro quei dieci campi che le sono rimasti e per me mi guadagno il vitto dando qualche lezione di calligrafia in paese e in qualche buona famiglia che vuol forse palliare cosí una caritatevole elemosina. Le domeniche, Donato nostro cognato viene a prenderci colla carrettella e ci conduce a Fossalto a trovare la Bradamante che ha già tre ragazzini, il primo che sgambetta come una gru, e l'ultimo appeso ancora alla mammella. In onta alla mia gamba di legno io faccio grandi prodezze col primo, e insegno a camminare alla seconda, perché la è una bambina abbastanza poltroncella per la sua età. Non so se questo sia uno stabilimento definitivo, o un ripiego per miglior fortuna, o una tregua per peggiori disgrazie. So che ho fatto il mio dovere, che lo farò sempre, che se ho preso qualche deliberazione precipitata si fu perché una voce mi chiamava, e infatti le opere mie non hanno mai fatto torto a quelle deliberazioni. Infine le cose potevano andare assai meglio; ma io non do la mia povertà e nemmeno la mia gamba di legno per tutte le ricchezze per tutti gli agi e per la sfacciata salute d'un birbone. Dico bene, Carlino? So che siete del mio parere e perciò vi parlo col cuor in mano. Del resto le mie speranze non si fermano tutte sotto i coppi della mia casa, alcuna ne ho che viene in cerca di voi; altre che rifanno il cammino da me percorso e non vogliono starsi chete alla triste esperienza delle guerre passate. Il nostro Primo Console ha vinto a Marengo, ma dei bei campi di battaglia potremo offrirgliene anche noi, ed egli li conosce da un pezzo e gli furono fausti. Oh se ci potessimo vedere allora! Come farei ballare di gusto la mia gamba di legno... Come bacerei di cuore voi, la Pisana, il dottor Lucilio... A proposito, è vero che il dottore si è fermato a Milano?... Sappiate intanto che Sandro Giorgi fu mandato col suo reggimento alla guerra di Germania. Se le guerre continuano farà certo fortuna, ed io gliela auguro perché in mezzo a' suoi difettucci ha un cuore un cuore che si farebbe a fette per gli altri. Oh ma io non finirei piú di chiacchierare con voi!... Amatemi dunque, scrivetemi, ricordatemi alla Pisana, e non dimenticatevi di far il possibile perché ci possiamo vedere". Bell'anima d'amico! E si scusava di non saper scrivere! dove si sente il cuore, chi bada alle parole? Chi cerca lo stile quando l'anima ha toccato dolcemente l'anima nostra? - Non mi vergogno a dirvi ch'io piansi su quella lettera, non per le frasi in sé, che forse nessuno ci troverebbe da commoversi, ma appunto per quello studio gentile e pietoso di non commovere, per quella cura dilicata e faticosa di non iscoprire ai lontani tutte le nostre piaghe, acciocché il piacere di aver nuove dell'amico non sia troppo amareggiato dal dolore di saperlo infelice! La morte del padre, lo sperperamento della famiglia, il cattivo cuore dei fratelli; io m'immaginava che tutti questi colpi l'uno sopra l'altro avean dovuto ferire l'animo di Bruto piú di quanto egli voleva mostrare. Me lo figurava vicino all'Aquilina, a quella cara e leggiadra ragazzetta cosí grave cosí amorosa e che nell'infanzia dimostrava il piú soave e compassionevole cuore di donna che si potesse desiderare! Ella avrebbe lenito colla sua ingenuità coi suoi sorrisi celesti i dolori di Bruto, lo avrebbe compensato delle cure che si prendeva per lei; e n'era certo che quelle due creature riunite insieme dopo tante procelle avrebbero trovato nell'amicizia fraterna la felicità e la pace. La Pisana si univa meco in queste semplici speranze. Cervellino poetico anzitutto ella cercava i robusti contrapposti e la fiera agitazione della tragedia ma comprendeva la rosea innocenza e la pace pastorale dell'idillio. Posando fra Bruto e l'Aquilina le nostre fantasie rivedevano i tranquilli orizzonti delle praterie fra Cordovado e Fratta, le belle acque correnti in mezzo a campagne smaltate di fiori, i cespugli odorosi di madresilva e di ginepro, i bei contorni della fontana di Venchieredo cogli ombrosi sentieruoli e i freschi marginetti di musco! Speravamo per essi, e godevamo per noi. Peccato che quella gamba di legno si attraversasse a tutti i bei romanzi che si potevano immaginare a benefizio di Bruto! Nei paesi un cotal difetto non si perdona, e un eroe zoppo vale assai meno d'un mascalzone ben piantato. Le donne di città son talora piú indulgenti; benché anche in questa indulgenza c'entri forse per poco assai l'adorazione dell'eroismo. Ma pure se Bruto non avesse avuto quella gamba di legno sarebbe egli tornato a Cordovado? - Dov'era Amilcare, dov'erano Giulio del Ponte, Lucilio, Alessandro Giorgi, e dov'era finalmente io, benché meno di essi trasportato da furore di indole a imprese arrischiate? Profughi, esuli, morti, vaganti qua e là, come servi cacciati a lavorare sopra campi non nostri, senza tetto certo, senza famiglia, senza patria sulla terra stessa della patria! - Poiché chi poteva assicurare che una patria concessa dal capriccio del conquistatore dal capriccio stesso non ci sarebbe ritolta?... Già in Francia si cominciava a bisbigliare d'un nuovo ordinamento di governo; e s'accorgevano che il Consolato non era una sedia curule, ma un gradino a soglio piú eccelso. Bruto era omai escluso dall'agone ove noi andavamo giostrando alla cieca senza sapere qual sarebbe il premio di tanti tornei. Almeno avea ritrovato il focolare paterno, il nido della sua infanzia, una sorella da amare e da proteggere! Il suo destino gli stava scritto dinanzi agli occhi non glorioso forse né grande ma calmo, ricco di affetti e sicuro. Le sue speranze avrebbero sciolto il volo dietro alle nostre o sarebbero cadute con esse senza il rimorso di aver oziato per infingardaggine, senza lo sconforto di aver faticato indarno ad inseguire un fantasma. Cosí io veniva invidiando la sorte d'un giovine soldato che tornava al suo paese, storpio d'una gamba, e invece delle braccia di suo padre in cui gettarsi non trovava che una fossa da irrigare di pianto. Pure io non era de' piú sfortunati. Moderato di voglie di speranze di passioni, quando i miei mezzi privati cominciavano a mancarmi, il soccorso pubblico mi era venuto incontro. Senza protezioni, senza brogli, in paese forestiero, ottenere a ventisei anni un posto di segretario in un ramo cosí importante e nuovo della pubblica amministrazione, com'erano allora le Finanze, non fu piccola né spregevole fortuna: e non me ne contentava. Tutti mi verranno addosso con baie e con rimbrotti. Ma io lo confesso senza vergognarmene: ebbi sempre gli istinti quieti della lumaca, ogniqualvolta il turbine non mi portò via con sé. Fare, lavorare sgobbare mi piaceva per prepararmi una famiglia una patria una felicità; quando poi questa meta della mia ambizione non mi sorrideva piú né vicina né sicura, allora tornava naturalmente col desiderio al mio orticello, alla mia siepe, dove almeno il vento non tirava troppo impetuoso, e dove sarei vissuto preparando i miei figliuoli a tempi meglio operosi e fortunati. Io non aveva né la furia cieca e infrenabile d'Amilcare che slanciata una volta non poteva piú indietreggiare, né l'instancabile pertinacia di Lucilio che respinto da una strada ne cercava un'altra, e attraversato in questa se ne apriva una di nuova sempre per tendere a uno scopo generoso sublime, ma alle volte dopo quattr'anni di sudori piú incerto e lontano che non fosse dapprincipio. Per me vedeva quella gran via maestra del miglioramento morale, della concordia, e dell'educazione, alla quale si doveva piegare ogniqualvolta le scorciatoie ci avessero fuorviato. Mi sarei dunque messo in quella molto volentieri per uscirne soltanto quando un bisogno urgente mi chiamasse. Invece la sorte mi faceva battere la campagna a destra ed a mancina. L'anno prima bocca inutile a Genova, allora segretario a Ferrara; i geroglifici del mio pronostico si disegnavano con caratteri tanto varii che a volerne comporre una parola bisognava stiracchiare affatto il buon senso. Fortuna che la Pisana mi dava frequentissimi svagamenti da queste mie melensaggini. Le sue rappresaglie donnesche col capitano Minato, e le bizzarrie continue che davano a parlare per un mese alla già sordo-muta società di Ferrara mi tenevano occupato per quelle poche ore che mi restavano libere dal trebbiatoio dell'ufficio. Passare dalle somme, dalle sottrazioni e dalle operazioni scalari delle imposte agli accorgimenti strategici d'un amante geloso non era impresa da cavarsene come a sorbir un uovo. Anzi mi faceva mestieri tutta la ginnastica dello spirito, e tutta la prontezza acquistata in simili evoluzioni da quindici e piú anni d'esercizio. Del resto v'aveano giorni che la Pisana s'occupava sempre di me, e di sorvegliarmi come un ragazzaccio che meditasse qualche scappata; allora, o fingeva di non m'accorgere di una cotal diffidenza, o ne metteva il broncio, ma davvero che ne aveva un gusto matto, perché poteva riposarmi delle fatiche passate e preparar lena pel futuro. Se mai vi fu amante o marito che si affannasse per ben governar la sua donna senza farle sentire il peso delle redini, fui certo io in quel tempo vissuto a Ferrara. I galanti papallini, i lindi ufficialetti francesi andavano dicendo: - Che buona pasta d'uomo! - ma mi avrebbero forse voluto un po' piú fuori dei piedi; e li pestassi anche e facessi il cattivo, non se l'avrebbero legata al dito. Ero, per dirla tutta, un buon incommodo; e qui stava il peggio, ché non potevano lagnarsene, né appormi la ridicolaggine d'un Otello finanziere. A rompere questo armeggio di schermi e di difese cascò in mezzo a noi la notizia d'una malattia della Contessa di Fratta. Era il conte Rinaldo che la partecipava alla Pisana senza aggiungere commenti: diceva soltanto che non potendo la reverenda Clara uscir di convento, sua madre rimaneva sola, affidata alle cure certo poco premurose d'una guattera: sapendo poi la Pisana a Ferrara, avea creduto dover suo trascendere ogni riguardo e farle nota questa grave disgrazia che li minacciava. La Pisana mi guardò in viso; io senza por tempo in mezzo dissi: - Bisogna che tu vada! - Ma vi assicuro che mi costò assai il dirlo; e fu un sacrifizio all'opinione pubblica, che altrimenti m'avrebbe tacciato di snaturare una figliuola ne' suoi piú doverosi riguardi verso la madre. La Pisana invece la tolse pel cattivo verso; e benché io credo che se avessi taciuto io, ella avrebbe parlato come me, pure si diede a brontolare, che già ero stanco di lei, e che non cercavo nulla di meglio che un appiglio qualunque per levarmela d'attorno. Ne converrete che fu una ingiustizia solenne. Io risposi, scrollando le spalle, che ella invece a mio credere andava a caccia tutto il giorno de' piú strani pretesti per rincrescermi, e che mi doveva anzi esser grata dell'esser stato il primo a proporle un viaggio a me per ogni conto spiacevole ed incommodo. Infatti, lasciando andare la solitudine nella quale restava, a quel tempo si stentava anche non poco in punto a quattrini. A me piacque sempre il ben vivere, la Pisana non ha mai saputo far un conto in sua vita, e non s'è presa mai il benché menomo pensiero né della sua borsa né di quella degli altri: insomma si spendeva a tutto andare ed anche si piantava qua e là per le botteghe qualche piccolo chiodarello. Tuttavia la voleva bisticciare con me e ci riescí. Non ho mai capito questo talento di martoriarmi appunto allora ch'eravamo in procinto di dividerci, col gran bene che la mi voleva; perché vi assicuro io che si sarebbe fatta a pezzi per me. Io m'immagino che il dispiacere di doversene andare le guastasse l'umore, e che colla sua solita sventatezza se ne sfogasse addosso a me. Qualche volta le venivano rossi gli occhi, mi veniva dietro per casa come una ragazzina dietro la mamma; e s'io poi le volgeva uno sguardo amorevole una parola di conforto, s'oscurava in viso come l'ora di notte, e si volgeva da un altro canto facendo forza di non badare a me. Insomma le vi parranno le solite ragazzate; ma bisogna ch'io ve le racconti per dimostrare il continuo sospetto in che io vissi dell'animo della Pisana inverso di me, ed anche perché la sua indole fu cosí straordinaria che merita una storia apposita. Adunque pochi giorni dopo, raggranellati i denari occorrenti al viaggio, io la condussi in calesse fino a Pontelagoscuro, e di colà in barca si avviò per Venezia. Quello, cioè, il Po, si era il confine fra le provincie venete occupate dai Tedeschi e la Repubblica Cisalpina; né io poteva accompagnarla oltre. Pertanto in capo ad una settimana ebbi notizia da lei che sua madre era affatto fuori di pericolo, ma che la convalescenza vorrebbe essere un po' lunga, e che perciò ci rassegnassimo a una separazione di qualche mese. Ciò mi diede noia non poco, ma in vista delle altre buone notizie che mi dava cercai consolarmene. L'Aglaura e Spiro vivevano in perfetta concordia con due bambinelli ch'era una delizia a vederli; i negozi loro prosperavano viemmeglio, e ci si profferivano a me ed a lei in ogni cosa che ne potesse occorrere. Il Conte suo fratello, in onta alla freddezza della lettera, l'avea poi trattata con ogni amorevolezza; un'altra novità c'era che poteva convenire non poco ad ambedue. Sua Eccellenza Navagero colpito da una paralisi generale e da completa imbecillità giaceva in letto da un mese: ella mi comunicava le tristi condizioni del marito colle parole piú compassionevoli del mondo, ma la cura presa di descriverle appunto tristissime e disperate dinotava una facile rassegnazione all'ultimo colpo che si aspettava di giorno in giorno. Perciò io mi adattai con minor uggia al mio isolamento; e mi cacciai intanto a tutt'uomo nelle cure d'ufficio per sentirne meno i fastidi. In quella s'era adunata la Consulta di Lione pel riordinamento della Cisalpina, la quale ne uscí col battesimo d'Italiana, ma riordinata per bene, cioè secondo i nuovi disegni di Bonaparte Primo Console, che ne fu eletto Presidente per dieci anni. Il Vice-presidente, che ebbe poi a governare in persona, fu Francesco Melzi, uomo invero liberale e di sentimenti grandi e patriottici, ma che per la sua magnificenza e per la nobiltà dell'origine non collimava coi gusti dei democratici piú ardenti. Lucilio mi avvisò da Milano di cotali mutamenti e con una certa livida rabbia che mi diceva assai piú che non osasse scrivere: certo egli s'aspettava che io rinunziassi al mio posto e che rifiutassi di servire un governo dal quale erasi allontanato ogni vero repubblicano. Io in verità ne sentii qualche voglia, e non tanto per la repubblica in sé, quanto perché il fervore repubblicano era ormai il solo incentivo di quelle mie ostinate speranze sopra Venezia per le quali soltanto m'induceva a durare negli uffici della Cisalpina. Ma avvenne allora un caso che mi stornò da cotale idea. Ricevetti nientemeno che la nomina d'Intendente, vale a dire Prefetto delle Finanze, a Bologna. Fosse che il nuovo governo mi giudicasse proclive alle sue massime d'ordine e di moderazione, o che mi ricompensassero del lavoro assiduo e utilissimo di quegli ultimi mesi, il fatto sta che la nomina io la ebbi e con mia grande sorpresa. Forse anco si abbisognava per quel posto d'un uomo laborioso attento infaticabile, e a cotal uopo fu creduto atto piú un giovane che un magistrato provetto. Io per me fui portato via da un tal delirio d'ambizione che per due o tre mesi non mi ricordai piú né di Lucilio né quasi anche della Pisana. Mi pareva già che il Ministero delle Finanze mi sarebbe toccato alla prima occasione; e una volta là in alto, chi sa?... Il cambiar poltrona è impresa sí agevole quando si è tutti insieme in una stessa sala! Pensava alle antiche lusinghe di mio padre e non le trovava piú né strane né irragionevoli; soltanto quella presidenza decennale di Bonaparte mi angustiava un poco, e per quanto fossi temerario non giunsi, lo confesso, nemmeno in sogno a spuntarla con lui. Mi pareva un pezzo troppo grosso da sollevare. Quanto agli altri avrei adoperato Prina come savio amministratore; e con Melzi ci saremmo intesi. Sapeva della sua crescente dissensione col Console per quel fare da sé e quello stare da sé che dipendeva dalla sua natura tutta italiana, e tendeva per opera sua a regolare gli andamenti del governo italiano appetto del francese. Di ciò mi sarei giovato con arte con furberia: fermo sempre che tutta la mia ambizione tutte le mie mire sarebbero volte ad allargare fino a Venezia la Repubblica Italiana. E questa fu la scusa della mia pazzia. Impiantato a Bologna con questi grandi propositi pel capo fui un intendente di Finanza molto facondo e munifico: voleva prepararmi la strada alle future grandezze: seppi al contrario in seguito che, per cotali gonfiamenti mi chiamavano, nel loro gergo maligno bolognese, l'intendente Soffia. Dopo qualche mese di boriosa beatitudine e di ostinato lavoro nella sana disposizione dell'imposte, cosa insolita nella Legazione, cominciai a credere che non fossi ancora in paradiso, ed a sperare che il ritorno della Pisana avrebbe supplito a quel tanto che sentiva mancarmi. Infatti non due non tre ma sei mesi erano trascorsi dalla sua partenza da Ferrara, e non solo non tornava, ma da ultimo anche dopo il mio passaggio a Bologna scarseggiavano le lettere. Fu gran ventura che avessi il capo nelle nuvole, altrimenti l'avrei dato nelle pareti. La Pisana aveva questo di singolare nel suo stile epistolare, che non rispondeva mai subito alle lettere che riceveva; ma le metteva da un canto e poi le riscontrava tre quattro otto giorni dopo, sicché, non ricordandosi ella piú di quanto aveva letto, la risposta entrava in materia affatto nuova, e si giocava alle bastonate alla guisa dei ciechi. Molte e molte volte io le aveva scritto ch'era stufo di restar solo, che non sapeva che pensare di lei, che si decidesse a tornare, che mi scoprisse almeno la vera cagione di quella inconcepibile tardanza. E nulla! Era un battere al muro. Mi rispondeva di volermi bene piucchemai, che io badassi a non dimenticarmi di lei, che a Venezia si annoiava, che sua mamma stava proprio benino, e che sarebbe venuta appena le circostanze lo permetterebbero. Io riscriveva a posta corrente domandando quali fossero queste circostanze, e se le abbisognavano denari; o se non poteva venire per qualche gran motivo, e che lo dicesse pure perché in questo caso avrei domandato un passaporto e sarei ito a tenerle compagnia per tutta la durata del mio permesso. Non mancava poi mai di chiederle informazioni della preziosissima salute di Sua Eccellenza Navagero, il quale, secondo me, doveva esser andato al diavolo da un pezzo: eppur la Pisana non mi rispondeva mai neppure in qual mondo egli fosse. La trascuranza di ciò ch'ella sapeva dovermi tanto premere finí di punzecchiare l'amor proprio del magnifico Intendente di Bologna. Per completare la mia grandezza, perché il carro del mio trionfo avesse tutte quattro le ruote mi bisognava una moglie; e questa non poteva aspettarla che dalla morte del Navagero. Mi stupiva quasi come questo inutile nobiluomo non si fosse affrettato a morire per far piacere ad un intendente par mio. Se poi era la Pisana che me ne tardava a bella posta la novella, l'avrebbe a che fare con me!... Voleva che sospirasse almeno un anno la mano del futuro ministro delle Finanze... e poi?... oh, il mio cuore non sapeva resistere piú a lungo, nemmeno in idea. L'avrei assunta al mio trono, come fece Assuero dell'umile Ester; e le avrei detto: - Mi amasti piccolo, grande te ne ricompenso! - Sarebbe stato un bel colpo; me ne congratulava con me stesso, passeggiando su e giù per la stanza, sfregolandomi il mento, e masticando fra i denti le paroline che avrei soggiunto ai ringraziamenti infocati della Pisana. I subalterni che entravano con fasci di carte da firmare, si fermavano sulla soglia e andavano poi fuori a raccontare che l'intendente Soffia era tanto in sul soffiare che pareva matto. Peraltro quei giorni meno che gli altri avevano a lagnarsi di me: e in generale, siccome lavorava molto io, ed era paziente e corrivo cogli altri, in onta al mio soffiare aveano preso a volermi bene. Gli uomini bolognesi sono i piú gentili mordaci e dabbene di tutta Italia; per cui anche avendoli amici, e amici a tutta prova, bisogna permetter loro di dir male e di prendersi beffa di voi almeno un paio di volte il mese. Senza questo sfogo creperebbero; voi ne perdereste degli amici servizievoli e devoti, ed il mondo degli spiritini allegri e frizzanti. Quanto alle donne, sono le piú liete e disimpacciate che si possano desiderare: sicché il governo dei preti non va accagionato di renderle impalate e selvatiche. Se questo si osservò un tempo a Verona a Modena e in qualche altra città di costumi bigotti, vuol dire che ne avranno avuto colpa piú le monache le madri i mariti che i preti. La religione cattolica non è né arcigna né selvatica né inesorabile; infatti se volete trovare l'obesità, la rigidezza e lo spleen bisogna andare fra i protestanti. Non so se compensino queste magagne con altre doti bellissime; io guardo, noto senza parzialità, e tiro innanzi. Anche un rabbino mi assicurò l'altro giorno che la sua religione è la piú filosofica di tutte; ed io lo lasciai dire, benché, sapendo che il rabbino è filosofo, avrei potuto rispondergli: "Padron mio, tutti i filosofi maomettani, bramini, cristiani ed ebrei trovarono sempre la propria religione piú filosofica delle altre. Cosí il cieco definisce il rosso il piú sonante di tutti i colori. La religione si sente e si crede, la filosofia si forma e si esamina: non mescoliamo di grazia una cosa coll'altra!...". Per finir poi di parlarvi di Bologna, dirò che vi si viveva allora e vi si vive sempre allegramente, lautamente, con grandi agevolezze di buone amicizie, e di festive brigate. La città dà mano alla villa e la villa alla città: belle case, bei giardini, e grandi commodi senza le stiracchiature di quel lusso provinciale che dice: "rispettatemi perché costo troppo e devo durare assai!". Sempre in attività, sempre in movimento tutte le funzioni vitali. Ciarlieri e vivaci per affrontare il brio e la ciarla altrui; lesti per piacere a quelle care donnine cosí leste e compagnevoli; agili e svelti per correre di qua e di là e non mancare al gentil desiderio di nessuno. Si mangia piú a Bologna in un anno che a Venezia in due, a Roma in tre, a Torino in cinque ed a Genova in venti. Benché a Venezia si mangia meno in colpa dello scilocco, e a Milano piú in grazia dei cuochi... Quanto a Firenze a Napoli a Palermo, la prima è troppo smorfiosa per animare i suoi ospiti alle scorpacciate; e nelle altre due la vita contemplativa empie lo stomaco per mezzo dei pori senza affaticar le mascelle. Si vive coll'aria impregnata dell'olio volatile dei cedri e del fecondo polline dei fichi. Come ci sta poi col resto la question del mangiare? Ci sta a pennello perché la digestione lavora in ragione dell'operosità e del buon umore. Una pronta e svariata conversazione che scorra sopra tutti i sentimenti dell'animo vostro, come la mano sopra una tastiera, che vi eserciti la mente e la lingua a correre a balzare di qua e di là dove sono chiamate, che ecciti che sovrecciti la vostra vita intellettuale, vi prepara meglio al pranzo di tutti gli assenzi e di tutti i Vermutti della terra. Il Vermuth han fatto bene a inventarlo a Torino dove si parla e si ride poco, fuori che alle Camere: del resto quando l'hanno inventato non avevano lo Statuto. Ora dell'attività ce n'è, ma di quella che aiuta a fare, non di quella che stimola a mangiare. Fortuna per chi spera in bene e pei fabbricatori di Vermuth. Ad onta di tutte queste chiacchiere che infilzo adesso, la Pisana allora non faceva mostra per nulla di voler tornare; e Bologna perdeva a poco a poco il merito di stuzzicarmi l'appetito. Un amore lontano per un intendente di ventott'anni non è disgrazia da metterla in burla. Passi per un mese o due; ma otto, nove, quasi un anno! Io non aveva fatto nessuno dei tre voti monastici e doveva osservarne il piú scabroso. Capperi! come vi veggo ora rider tutti della mia capocchieria... Ma non voglio ritrattarmi d'un punto. La Pisana a quel tempo io l'amava tanto, che tutte le altre donne mi sembravano a dir poco uomini. Ometti bellini, piacevoli, eleganti, in rispetto alle bolognesi; ma sempre uomini; e non era né rusticità né chietineria, ma tutto amore era. Cosí non mi vergogno a confessarvi d'aver fatto parecchie volte il Giuseppe Ebreo; mentre invece nella successiva separazione dalla Pisana andai soggetto a varie distrazioni. Vuol dire che non l'amava meno, ma in modo diverso; e, checché ne dicano i platonici, io sopportai la seconda lontananza con molto miglior animo che la prima. Allora peraltro, avendo una gran fretta e un furore indiavolato di riavere la Pisana, non potendo saperne una di chiara da lei, mi volsi all'Aglaura pregandola, se aveva viscere di carità fraterna, a volermi significare senza misteri senza palliativi quanto concerneva mia cugina. In fino allora mia sorella s'era schivata sempre di rispondere esplicitamente alle mie inchieste sopra tale proposito; e col credere o col non sapere se la cavava dai freschi. Ma quella volta, conoscendo dal tenor della lettera che veramente io era sgomentatissimo e in procinto di fare qualche pazzia, mi rispose subito che aveva sempre taciuto pregata di ciò dalla Pisana stessa, che allora peraltro voleva accontentarmi perché vedeva l'agitazione della mia vita; che sapessi dunque esser già da sei mesi la Pisana in casa di suo marito, occupatissima a fargli d'infermiera, e che non pareva disposta ad abbandonarlo. Mi dessi pace che ella mi amava sempre, e che la sua vita a Venezia era proprio quella d'un'infermiera. Oh se avessi allora avuto fra le unghie Sua Eccellenza Navagero!... Credo che non avrebbe abbisognato piú a lungo di infermieri. Cosa gli saltava a quel putrido carcame di rubarmi la mia parte di vita?... C'era mo giustizia che una giovane come sua moglie... Mi fermai un poco su questa parola di moglie, perché mi balenò in capo che le promesse giurate appiè dell'altare potessero per avventura contar qualche cosa. Ma diedi di frego a questo scrupolo con somma premura. "Sí, sí" ripigliai "c'è giustizia che sua moglie resti appiccicata a lui, come un vivo a un cadavere?... Nemmeno per sogno!... Oh, per bacco, penserò io a distaccarli, a terminare questo mostruoso supplizio. Dopo tutto, anche non volendo dire che la carità principia da noi stessi, non è forse secondo le regole di natura ch'egli muoia piuttosto che me? Senza contare che io ne morrò davvero; ed egli sarà capace di tirar innanzi anni ed anni a questo modo, l'imbecille!...". Afferrai la mia magnifica penna d'intendente e scrissi un tal letterone che avrebbe fatto onore ad un re in collera colla regina. Il succo era che se ella non veniva piú che presto a rimettermi un po' di fiato in corpo, io, la mia gloria, la mia fortuna saremmo andati sotterra. Questa mia lettera rimase senza risposta un paio di settimane, in capo alle quali quand'appunto io pensava seriamente ad andarmene, non dirò sotterra, ma a Venezia, capitò inaspettata la Pisana. Aveva il broncio della donna che ha dovuto fare a modo altrui, e prima di ricevere né un bacio né un saluto, volle ch'io le promettessi di lasciarla ripartire a suo grado. Poi vedendo che questo discorso mi toglieva metà del piacere di sua venuta, mi saltò colle braccia al collo, e addio signor Intendente! - Io era impazientissimo di farle osservare tutti gli agi annessi alla mia nuova dignità; un sontuoso appartamento, portieri a bizzeffe, olio, legna, tabacco a spese dello Stato. Fumava come il povero mio padre per non lasciar indietro nessun privilegio, e mangiava d'olio tre giorni per settimana come un certosino; ma avea messo da un canto una bella sommetta per far figurar degnamente la Pisana nella società bolognese; era pel mio temperamento una tal prova d'amore che la doveva cadermi sbasita dinanzi. Invece non ci badò quasi; perché per intendere il merito di cotali sforzi bisogna esserne capaci, ed ella, benedetta, avea piú buchi nelle tasche e nelle mani che non ne abbia nella giubba un accattone romagnuolo. Soltanto fece due occhioni tondi tondi sentendo nominare quattrocento scudi; pareva che da un pezzo ella avesse perduto l'abitudine di udir perfino nominare sí grossa somma di danaro. Al fatto per altro non fu tanto grossa come si credeva. Abiti, cappellini, smanigli, gite, rinfreschi mi misero perfettamente in corrente colla paga e gli scudi non mi si invecchiavano piú di quindici giorni nel taschino. Svagata di qua di là la Pisana mi scoperse in breve un altro lato nuovissimo del suo temperamento. Diventò la piú allegra e ciarliera donnetta di Bologna; ne teneva a bada quattro, sei, otto; non si musonava né si stancava mai; non si sprofondava né in un'osservazione né in un pensiero né in una sbadataggine a segno di dimenticarsi degli altri; anzi sapeva cosí bene distribuire parolette e sorrisi, che n'era un poco per tutti e troppo per nessuno. Poteva fidarmi di lei, ed erano finite le tormentose fatiche di Ferrara. Tutti intanto parlavano chi della cugina chi della moglie chi dell'amante del signor Intendente; v'aveva chi volea sposarla, e chi pretendeva sedurla o rapirmela. Ella s'accorgeva di tutto, ne rideva garbatamente e se il brio lo dispensava ogni dove, l'amore poi lo serbava per me. Donne cosí fatte piacciono in breve anche alle donne, perché gli uomini si stancano di cascar morti per nulla e finiscono col corteggiarle per vezzo, tenendo poi saldi i loro amori in qualche altro luogo. Cosí dopo un mese la mia Pisana, adorata dagli uomini, festeggiata dalle donne, passava per le vie di Bologna come in trionfo, e perfino i birichini le correvano dietro gridando: - È la bella veneziana! è la sposa del signor Intendente! - Non voglio dire se ella ne invanisse di queste grandi fortune, ma certo sapeva farsene merito presso di me col miglior garbo della terra. E a me s'intende toccava amare, com'era giusto, in proporzione dei desiderii che le formicolavano intorno. Cosí, menando questa vita di continui piaceri, e di domestica felicità, non si parlava piú di ripartire. Quando giungevano lettere da Venezia, appena era se vi metteva sopra gli occhi; ma se la scrittura voltava pagina, ella non la voltava di sicuro, e piantavala a mezzo. Io poi me le leggeva da capo a fondo, ma aveva cura di nasconderle tutta la premura che di tanto in tanto sua madre od il marito le facevano di tornare. Questi pareva non fosse piú né tanto geloso né cosí prossimo a morire; parlava di me con vera effusione d'amicizia, come d'uno stretto e carissimo parente, e degli anni futuri come d'una cuccagna che non doveva finir mai. - Mostro d'un moribondo! - borbottava io. - Pur troppo è risuscitato! - E quasi quasi mi sentiva in grado io di far il geloso per tutto quel tempo che la Pisana aveva dimorato presso di lui. Ma ella sbellicava delle risa per queste ubbie: ed io ci rideva anch'io: però trafugava le lettere, e, buttate ch'ella le avesse da un canto, mi prendeva ogni briga perché non le capitassero piú in mano. La sua smemorataggine mi serviva in ciò a cappello. Quanto alla sua lunga dimora a Venezia, ecco come stava la cosa; o meglio com'essa me l'ebbe a raccontare a pezzi a bocconi secondoché l'estro lo permetteva. Sua madre convalescente l'avea pregata almeno per convenienza di far una visita al marito moribondo, la quale, diceva lei, sarebbe riescita graditissima. Infatti la Pisana si era adattata; e poi lo stato del poveruomo, le sue strettezze finanziarie (a tanto ei si diceva scaduto dalla pristina opulenza), l'abbandono nel quale viveva, le aveano toccato il cuore e persuasala a rimanere presso di lui, com'egli ne mostrava desiderio. Era stata tutta bontà: ed io pur lamentandone i brutti effetti per me, non potei a meno di lodarnela in fondo al cuore, e di innamorarmene vieppiù. Peraltro potete credere che io andava molto cauto nello strapparle di bocca tali confidenze; e non vi insisteva mai che un attimo un lampo, perché col batterla troppo aveva una paura smisurata di ravvivarle in mente tutte quelle cagioni di pietà, e di metterla in voglia di partire. Io era abbastanza giusto per lodare, abbastanza egoista per impedire questi atti di eroica virtù; e per avventura, essendo la Pisana una creatura molto buona e pietosa ma ancor piú sbadata a tre tanti, mi venne fatto di trattenerla in feste in canti in risa per quasi sei mesi. Tuttavia io vedeva crescere con ispavento il numero e l'eccitamento delle lettere; ma vedendo che non ne veniva alcun guaio, mi ci abituai, e credetti che quella beatitudine non dovesse finir piú. Di ministro delle Finanze, e vice-presidente e presidente della Repubblica, m'era ridotto ancora modestamente tranquillamente al mio posto; e se gli altri facevano le belle cose che frullavano in capo a me, avrei giudicato comodissimo di non mi muovere. Poveri mortali, come son caduche le nostre felicità!... L'istituzione d'una diligenza tra Padova e Bologna fu che mi rovinò. Il conte Rinaldo, che non avrebbe sofferto per la sua debolezza di stomaco un viaggio per acqua fino a Ferrara o a Ravenna, approfittò con assai piacere della diligenza, mi venne tra i piedi a Bologna, eppur nessuno l'aveva chiamato; si fece condurre alla Madonna di Monte, alla Montagnola, a San Petronio, e per mercede di tutto ciò mi condusse via la Pisana sul terzo giorno. Alla vista del fratello tutta la sua compassione s'era raccesa, tutti i suoi scrupoli la punzecchiavano; e non ch'ella accondiscendesse ad un suo invito, ma fu anzi la prima a proporglisi per compagna nel ritorno. Quell'assassino non disse nulla; non rispose nemmeno ch'egli era venuto espressamente per ciò. Volle lasciarmi nella credula illusione ch'egli avesse trottato da Venezia a Bologna per la curiosità di veder San Petronio. Ma io gli avea letto negli occhi fin dal primo sguardo; e mi arrabbiai di vederlo riescire nel suo intento senza pur l'incommodo di una parola. Che dovesse esser piú destro e potente in politica donnesca un topo di libreria sucido unto e cisposo, che un amante bellino giovine ed Intendente? - In certi casi sembra di sí: io rimasi a soffiare ed a mordermene le dita. Mi rimisi dunque al fatto mio, di schiena; per isvagarmi se non altro dalla noia che mi tormentava. E lavorando molto, e dimenticando il piú che poteva, diventai a poco a poco un altr'uomo; sta a voi a decidere se migliore o peggiore. M'andarono svaporando dal capo i fumi della poesia; cominciai a sentir il peso dei trent'anni che già stavano per piombarmi addosso, ed a fermarmi volentieri a tavola ed a dividere l'amore che sta nell'anima da quello che solletica il corpo. Scusate; mi pare di avervi detto che mi faceva altr'uomo; ma la mia opinione si è che mi veniva facendo bestia. Per me chi perde la gioventù della mente non può che scadere dallo stato umano a qualche altra piú bassa condizione animalesca. La parte di ragione che ci differenzia dai bruti non è quella che calcola il proprio utile e procaccia i commodi e fugge la fatica, ma l'altra che appoggia i proprii giudizi alle belle fantasie e alle grandi speranze dell'anima. Anche il cane sa scegliere il miglior boccone, e scavarsi il letto nella paglia prima di accovacciarvisi; se questa è ragione, date dunque ai cani la patente di uomini di proposito. Peraltro vi dirò che quella vita cosí miope e bracciante aveva allora una scusa; c'era una grande intelligenza che pensava per noi, e la cui volontà soperchiava tanto la volontà di tutti che con poca spesa d'idee si vedevano le gran belle opere. Adesso invece brillano le idee, ma di opere non se ne vedono né bianche né nere; tutto per quel gran malanno che chi ha capo non ha braccia; e a quel tempo invece le braccia di Napoleone s'allargavano per mezza Europa e per tutta Italia a sommoverne a risvegliarne le assopite forze vitali. Bastava ubbidire, perché una attività miracolosa si svolgesse ordinatamente dalle vecchie compagini della nazione. Non voglio far pronostici; ma se si fosse continuato cosí una ventina d'anni ci saremmo abituati a rivivere, e la vita intellettuale si sarebbe destata dalla materia, come nei malati che guariscono. A vedere il fervore di vita che animava allora mezzo il mondo c'era da perder la testa. La giustizia s'era impersonata una ed eguale per tutti; tutti concorrevano omai secondo la loro capacità al movimento sociale; non si intendeva, ma si faceva. S'avea voluto un esercito, e un esercito in pochi anni era sorto come per incanto. Da popolazioni sfibrate nell'ozio e viziate dal disordine si coscrivevano legioni di soldati sobri ubbidienti valorosi. La forza comandava il rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll'ordine colla disciplina. La prima volta ch'io vidi schierati in piazza i coscritti del mio Dipartimento credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere a tanto, e che cosí si potessero mansuefare con una legge quei volghi rustici quelle plebi cittadine che s'armavano infino allora soltanto per batter la campagna e svaligiare i passeggieri. Da questi principii m'aspettava miracoli e persuaso d'essere in buone mani non cercai piú dove si correva per ammirare il modo. Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni. Il pacificatore della Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue imprese future; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina che presagiva nuovi ed altissimi destini. Quando Lucilio mi scriveva che s'andava di male in peggio, che abdicando dall'intelligenza sperava in un liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli dava fra me del pazzo e dell'ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava agli affari della mia intendenza. Credo che mi felicitassi perfino dell'assenza della Pisana, perché la solitudine e la quiete mi lasciavano miglior agio al lavoro e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi. - Viva il signor Ludro!... - Cosí vissi quei non pochi mesi tutto impiegato tutto lavoro tutto fiducia senza pensare da me, senza guardar fuori dal quadro che mi si poneva dinanzi agli occhi. Capisco ora che quella non è vita propria a svegliare le nostre facoltà, e a invigorire le forze dell'anima; si cessa di esser uomini per diventar carrucole. E si sa poi cosa restano le carrucole se si dimentica di ungerle al primo del mese. Fu sventura o fortuna? - Non so: ma la proclamazione dell'Impero Francese mi snebbiò un poco gli occhi. Mi guardai attorno e conobbi che non era piú padrone di me; che l'opera mia giovava ingranata in quelle altre opere che mi si svolgevano sotto e sopra a suon di tamburo. Uscir di là, guai; era un rimaner zero. Se tutti erano nel mio caso, come avea ragione di dubitarne, le paure di Lucilio non andavano troppo lontane dal vero. Cominciai un severo esame di coscienza; a riandare la mia vita passata e a vedere come la presente le corrispondeva. Trovai una diversità, una contraddizione che mi spaventava. Non erano piú le stesse massime le stesse lusinghe che dirigevano le mie azioni; prima era un operaio povero affaticato ma intelligente e libero, allora era un coso di legno ben inverniciato ben accarezzato perché mi curvassi metodicamente e stupidamente a parar innanzi una macchina. Pure volli star saldo per non precipitare un giudizio, certo oggimai che non sarei sceso un passo piú giù in quella scala di servilità. Quando arrivò la notizia del mutamento della Repubblica in un Regno d'Italia, presi le poche robe, i pochi scudi che aveva, andai difilato a Milano, e diedi la mia dimissione. Trovai altri quattro o cinque colleghi venuti per l'egual bisogna e ognuno credeva trovarne un centinaio a fare il bel colpo. Ci ringraziarono tanto, ci risero in grugno, e notarono i nostri nomi sopra un libraccio che non era una buona raccomandazione pel futuro. Napoleone capitò a Milano e si pose in capo la Corona Ferrea dicendo: - Dio me l'ha data, guai a chi la tocca! - Io mi assettai povero privato nelle antiche camerucce di Porta Romana dicendo a mia volta: - Dio mi ha dato una coscienza, nessuno la comprerà! - Ora i nemici di Napoleone trovarono ardimento e forza bastante a toccare e togliergli del capo quella fatale corona; ma né la California né l'Australia scavarono finora oro bastante per pagare la mia coscienza. - In quella circostanza io fui il piú vero e il piú forte. CAPITOLO DECIMONONO Come i mugnai e le contesse mi proteggessero nel 1805. Io perdono alcuno de' suoi torti a Napoleone, quand'egli unisce Venezia al Regno d'Italia. Tarda penitenza d'un vecchio peccato veniale, per la quale vo in fil di morte; ma la Pisana mi risuscita e mi mena secolei in Friuli. Divento marito, organista e castaldo. Intanto i vecchi attori scompaiono dalla scena. Napoleone cade due volte, e gli anni fuggono muti ed avviliti fino al 1820. Lucilio s'era rifugiato a Londra; egli aveva amici dappertutto e d'altra parte per un medico come lui tutto il mondo è paese. La Pisana mi avea sempre tenuto a bada colle sue promesse di venirmi a raggiungere: allora poi, dopo abbandonato l'ufficio, non avea nemmen coraggio di chiamarla a dividere la mia povertà. A Spiro e all'Aglaura sdegnava di ricorrere per danari; essi mi mandavano puntualmente i miei trecento ducati ad ogni Natale; ma ne avea erogato due annualità a pagamento dei debiti lasciati a Ferrara, e di quelle non poteva giovarmi. Rimasi adunque per la prima volta in vita mia senza tetto e senza pane, e con pochissima abilità per procurarmene. Volgeva in capo mille diversi progetti per ognuno dei quali si voleva qualche bel gruppetto di scudi, non foss'altro per incominciare; e cosí di scudi non avendone piú che una dozzina, mi accontentava dei progetti e tirava innanzi. Ogni giorno mi studiava di vivere con meno. Credo che l'ultimo scudo lo avrei fatto durare un secolo se il giorno della partenza di Napoleone per la Germania non me lo avesse rubato uno di quei famosi borsaiuoli che si esercitano per pia consuetudine nelle contrade di Milano. L'Imperatore s'era fatto grasso, e s'avviava allora alla vittoria di Austerlitz; io me lo ricordava magro e risplendente ancora delle glorie d'Arcole e di Rivoli: per diana, che non avrei dato il Caporalino per Sua Maestà! Vedendolo partire fra un popolo accalcato e plaudente io mi ricordo di aver pianto di rabbia. Ma erano lagrime generose, delle quali vado superbo. Pensava fra me: "Oh che non farei io se fossi in quell'uomo!" - e questo pensiero e l'idea delle grandi cose che avrei operato mi commovevano tanto. Infatti era egli allora all'apice della sua potenza. Tornava dall'aver fatto rintronare de' suoi ruggiti le caverne d'Albione attraverso l'angusto canale della Manica; e minacciava dell'artiglio onnipotente le cervici di due imperatori. La gioventù del genio di Cesare e la maturità del senno di Augusto cospiravano ad innalzare la sua fortuna fuor d'ogni umana immaginazione. Era proprio il nuovo Carlomagno e sapeva di esserlo. Ma anch'io dal mio canto inorgogliva di passargli dinanzi senza piegare il ginocchio. "Sei un gigante ma non un Dio!" gli diceva "io ti ho misurato e trovai la mia fede piú grande di molto e piú eccelsa di te!" Per un uomo che credeva d'aver in tasca uno scudo e non aveva neppur quello, ciò non era poco. Il bello si fu quando si trattò di mangiare; credo che uomo al mondo non si vide mai in peggior imbroglio. Partendo da Bologna e giovandomi della discretezza d'alcuni amici avea fatto denari d'ogni spillone d'ogni anello e d'ogni altra cosa che non mi fosse strettamente necessaria. Tuttavia facendo un nuovo inventario seppi trovare molti capi di vestiario che mi sopravanzavano; ne feci un fardello, li portai dal rigattiere e intascai quattro scudi che mi parvero un milione. Ma l'illusione non durò piú che una settimana. Allora cominciai a dar il dente anche negli oggetti bisognevoli; camicie, scarpe, collarini, vestiti, tutto viaggiava dal rigattiere; avevamo fatto tra noi una specie di amicizia. La sua bottega era sul canto della contrada dei Tre Re verso la Posta; io mi vi fermava a far conversazione andando da casa mia verso Piazza del Duomo. Alla fine diedi fondo ad ogni mia roba. Per quanto in quel frattempo avessi strolicato sulla maniera da cavarmela in un caso tanto urgente, non m'era venuta neppur un'idea. Una mattina avea incontrato il colonnello Giorgi che veniva dal campo di Boulogne e correva anch'esso in Germania colla speranza d'esser fatto in breve generale. - Entra nell'amministrazione dell'armata: - mi diss'egli - ti prometto farti ottenere un bel posto, e ti farai ricco in poco tempo. - Cosa si fa nell'armata? - soggiunsi io. - Nell'armata si vince tutta l'Europa, si corteggiano le piú belle donne del mondo, si buscano delle belle paghe, si fa gran scialo di gloria e si va innanzi. - Sí, sí; ma per conto di chi si vince l'Europa? - Vattelapesca! c'è senso comune a cercarlo? - Alessandro mio, non entrerò nell'armata, neppur come spazzino. - Peccato! ed io che sperava far di te qualche cosa! - Forse non avrei corrisposto, Alessandro! È meglio che concentri tutte le tue cure verso di te. Diventerai generale piú presto. - Ancora due battaglie che mi sbarazzino di due anziani e lo sono di diritto: le palle dei Russi e dei Tedeschi sono mie alleate: questo è il vero modo di vivere in buona armonia con tutti. Ma dunque tu vuoi proprio tenerci il broncio a noi poveri soldati? - No, Alessandro; vi ammiro e non son capace d'imitarvi. - Eh capisco! ci vuole una certa rigidezza di muscoli!... Dimmi, e di Bruto Provedoni hai notizie? - Ottime si può dire. Vive con una sua sorella di diciotto o diciannove anni, l'Aquilina, te ne ricordi? le fa da papà, le viene accumulando un po' di dote e si guadagna la vita col dar lezioni in paese. Ultimamente coll'eredità di suo fratello Grifone, ch'è morto a Lubiana per una caduta da un tetto, egli comperò dagli altri fratelli la casa a nome proprio e della sorella. Cosí si liberò anche dalla noia di vivacchiare stentamente insieme ad altri inquilini cenciosi e pettegoli. Credo che se potesse accasare decentemente l'Aquilina non sarebbe uomo piú beato di lui. - Vedi come siamo noi soldati?... Restiamo felici anche senza gambe! - Bravo, Alessandro: ma io non voglio perder le gambe per nulla. Son capitali che bisogna investirli bene o tenerseli. - E dici nulla tu, in otto anni al piú diventar generale! Non è un bell'interesse? - Sí a me garba meglio restar con questo vestito e colla mia miseria. - Dunque non posso aiutarti in nulla? To' che potrei servirti d'una trentina di scudi; non piú, vedi, perché non sono il soldato piú sparagnino, e tra il giuoco, le donne e che so io, la paga se ne va... Ma ora che ci penso; t'adatteresti anche a pigliar servizio nel civile? Il buon colonnello non vedeva nulla fuori dell'armata: egli avea già dimenticato che un quarto d'ora prima gli avea raccontato tutta la mia carriera nelle Finanze, e la mia dimissione volontaria dal posto d'intendente. Fors'anco supponeva che le Finanze non fossero altro che uffici supplettori all'esercito per provvederlo di vitto di vestito e del convenevole peculio per sostenere gli assalti del faraone e della bassetta. Alla mia risposta che mi sarei contentato d'ogni impiego che non fosse pubblico, egli fece col viso un certo atto come di chi è costretto a togliere ad alcuno buona parte della sua stima: tuttavia non ne rimase affievolita per nulla la sua insigne bontà. - A Milano ho una padrona di casa - egli soggiunse. - Sí, come l'avevi a Genova. - Eh! Tutt'altro! Quella era spilorcia come uno speziale, questa invece splendida piú d'un ministro. A quella ho dovuto rubare il gatto, e da questa se volessi potrei farmi regalare un diamante al giorno. È una riccona sfondata, che ha corso il mondo a' suoi tempi, ma ora dopo una vistosa eredità s'è rimessa in regola ed ha voce di compita signora: non piú colla lanuggine del pesco sulle guance, ma vezzosa ancora e leggiadra al bisogno; massime poi in teatro quand'è un po' animata. Figurati! Essa mi ha preso a volere un bene spropositato ed ogni volta che passo per Milano mi vuole presso di sé: mi ha perfin detto in segreto che se avesse vent'anni invece di trenta vorrebbe partir con me per la guerra. - E che c'entra questa signora con me? - Che c'entra? diavolo! tutto! Essa ha molte relazioni ben in alto; e ti raccomanderà validamente per quel posto che vorrai. Se poi ti quadra meglio un ministero privato, credo che la sua amministrazione sia abbastanza vasta per offrir impiego anche a te. - Ricordati che io non voglio rubar il pane a nessuno; e che se lo mangio intendo anche guadagnarmelo colle mie fatiche. - Eh! sta' pur cheto che non avrai scrupoli da questo lato. Tu credi forse che sia come nelle nostre fattorie del Friuli, dov'è comune la storia che il fattore si fa ricco a spalle del padrone tenendo le mani alla cintola! Eh, amico, a Milano se ne intendono! Pagano bene, ma vogliono esser serviti meglio: il ragioniere s'ingrasserà, ma il padrone non vuol diventar magro per questo. Lo so io come vanno qui le faccende! Questo disegno non mi sconveniva punto; e benché non avessi una fede cieca nelle onnipotenti raccomandazioni e nella splendida padrona del buon colonnello, pure, accortomi che solo non era buono a nulla, mi tenni contento di provar l'aiuto degli altri. Tornai a casa a spazzolarmi l'abito per la presentazione che dovea succedere l'indomani. Anch'io ricorsi alla splendidezza della mia padrona di casa per un poco di patina da lustrarmi gli stivali, e sciorinai sopra una seggiola l'unica camicia che mi rimaneva dopo quella che portava addosso. Nel candore di questa mi deliziava gli occhi, consolandoli della sparutezza del resto. Il mattino appresso venne l'ordinanza del colonnello ad avvertirmi che la signora aveva accolto benissimo la proposta, ma la desiderava ch'io le fossi presentato la sera, essendo quello giorno di gran faccende per lei. Io diedi un'occhiata agli stivali e alla camicia, lamentando quasi di non esser rimasto a letto per conservar loro l'originaria freschezza fino al solenne momento; poi pensando che di sera non vi si abbada tanto pel sottile, e che un ex-intendente doveva possedere ripieghi di vivacità e di coltura da far dimenticare la soverchia modestia del proprio arnese, risposi all'ordinanza che sarei andato a casa del colonnello verso le otto, ed uscii poco stante di casa. Venne il momento della colazione e lo lasciai passare senza palparmi il taschino; fu un'eroica deferenza per l'ora successiva del pranzo. Ma scoccata questa vi misi entro le mani e ne cavai quattro bei soldi che in tutti facevano, credo, quindici centesimi di franco. Non credeva per verità di esser tanto povero; e la quadratura del circolo mi parve problema molto piú facile del pranzo ch'io doveva cavare da sí meschina moneta. E sí che non era stato Intendente per nulla, e di bilanciare le entrate colle spese doveva intendermene piú che ogn'altro! - Adunque, senza abbattermi di coraggio, provai. - Un soldo di pane, due di salato ed uno d'acquavite per rifocillarmi lo stomaco e prepararlo alla visita della sera. - Per carità! cos'era mai un soldo di pane per uno che non avea toccato cibo da ventiquattr'ore! - Rifeci il conto; due soldi di pane, uno di cacio pecorino, e il solito di racagna. - Poi trovai che quel soldo di cacio era un pregiudizio, un'idea aristocratica per dividere il pranzo in pane ed in companatico. Era meglio addirittura far tre soldi di pane. E infatti entrai coraggiosamente da un fornaio; li comperai e in quattro morsicate furono messi a posto. M'accorsi con qualche sgomento di non sentire né una lontana ombra di sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d'un ultimo panetto e lo misi accanto agli altri. Dopo questo piccolo trattenimento i miei denti restavano ancora molto inquieti e razzolando le briciole che si erano fuorviate andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: "Che sia finita la festa?" "È proprio finita!" risposi io, e sí che mi sentiva lo stomaco ancor piú spaventato dei denti! - Allora mi presi un lecito trastullo d'immaginazione che m'avea servito anche molti giorni prima per ingannar l'appetito: feci la rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati a Milano. L'abate Parini, morto da sei anni e leggero di pranzo anche lui; Lucilio, partito per la Svizzera; Ugo Foscolo, professore d'eloquenza a Pavia; de' miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di casa dandomi la sera prima la patina aveva uncinato un certo suo nasaccio che voleva dire: "State indietro con questi brutti scherzi!" Rimaneva il colonnello Giorgi; ma vi confesso che mi vergognava: come anche dubito che mi sarei vergognato di tutti gli altri se fossero stati a Milano, e che sarei morto di fame piuttosto di farmi pagare un caffè e panna da Ugo Foscolo. Ad ogni modo era sempre una consolazione di poter pensare mentre pungeva l'appetito: cosí esaurito quel passatempo, mi trovai piú infelice di prima e peggio poi quando passando per Piazza Mercanti m'avvidi che erano appena le cinque. "Tre ore ancora!". Temeva di non arrivar vivo al momento della visita, o almeno di dovervi fare un'assai affamata figura. Diedi opera a svagarmi con un altro stratagemma. Pensai da quante parti avrei potuto aver prestiti regali soccorsi, solo che li avessi desiderati. Mio cognato Spiro, i miei amici di Bologna, i trenta scudi del colonnello Giorgi, il Gran Visir... Per bacco! fosse la fame od altro, o un favore particolare della Provvidenza, quel giorno mi fermai piú del solito su quell'idea del Gran Visir. Mi ricordai sul serio di avere nel taccuino il vaglia d'una somma ingente firmato da un certo giroglifico arabo ch'io non capiva affatto; ma la casa Apostulos aveva molti corrispondenti a Costantinopoli, e qualche autorità sui banchieri armeni che scannavano il sultano d'allora; corsi a casa senza pensar piú all'appetito; scrissi una lettera a Spiro, vi inclusi il vaglia e la portai allegramente alla Posta. Ripassando per Piazza Mercanti, l'orologio segnava sette e tre quarti; m'avviai dunque verso l'alloggio del colonnello; ma la speranza del Gran Visir l'aveva lasciata alla Posta; e proprio sull'istante solenne fatale, tornava a farsi sentire la fame. Sapete cosa ebbi il coraggio di pensare in quel momento? Ebbi il coraggio di pensare ai grassi pranzi bolognesi dell'anno prima; e di trovarmi piú contento cosí com'era allora a stomaco digiuno. Ebbi il coraggio di confortarmi meco stesso di esser solo e che il caso avesse preservato la Pisana dal farsi compagna di tanta mia inedia. Il caso? Questa parola non mi poteva passare. Il caso a guardarlo bene non è altro il piú delle volte che una manifattura degli uomini: e perciò temeva non a torto che la smemorataggine, la freddezza, fors'anco qualche altro amoruzzo della Pisana l'avessero svogliata di me. "Ma ho poi ragione di lamentarmene?" seguitava col pensiero. "Se mi ama meno, non è giustizia?... Che ho fatto io tutto l'anno passato?". Cosa volete? Trovava tutto ragionevole tutto giusto ma questo sospetto di essere dimenticato e abbandonato dalla Pisana per sempre, mi dava per lo meno tanto martello quanto la fame. Non era piú il furore, la smania gelosa d'una volta, ma uno sconforto pieno d'amarezza, un abbattimento che mi faceva perdere il desiderio di vivere. Sbattuto fra questi varii dolori, salii dal signor colonnello il quale leggeva i rapporti settimanali dei capitani fumando come aveva fumato io quand'era intendente, e inaffiandosi a tratti la gola con del buon anesone di Brescia. - Bravo Carletto! - sclamò egli offrendomi una seggiola. - Versane un bicchiere anche per te, che mi sbrigo subito. Io ringraziai, sedetti e volsi un'occhiata per la stanza a vedere se ci fosse focaccia panettone o qualche ingrediente da maritarsi coll'anesone per miglior ristoro del mio stomaco. C'era proprio nulla. Io mi versai un bicchiere colmo raso di quel liquore balsamico, e giù a piena gola che mi parve un'anima nuova che entrasse. Ma si sa cosa succede da quel tafferuglio tra l'anima vecchia e la nuova, massime in uno stomaco affamato. Successe che perdetti la tramontana, e quando mi alzai per tener dietro al colonnello, era tanto allegro tanto parolaio quanto nel sedermi era stato grullo e mutrione. Il soldataccio se ne congratulò come d'un buon pronostico, e nel salir le scale mi esortava a mostrarmi pur gaio lesto arditello, ché alle donne di mezza età e che non hanno tempo da perdere, piacciono cotali maniere. Figuratevi! io era tanto gaio che fui per dar il naso sull'ultimo gradino: peraltro insieme a tali doti me se ne sviluppò un'altra, la sincerità, e questa al solito mi fece fare il primo marrone. Quando il portiere ci ebbe aperto e il colonnello mi ebbe introdotto nell'anticamera, io ballonzolava che non mi pareva di toccare il pavimento. - Chi s'immaginerebbe mai - dissi a voce altissima - chi s'immaginerebbe mai che cosí come sono sdilinquisco per la fame? Il portiere si volse meravigliato a guardarmi per quanto i canoni del suo mestiere glielo vietassero. Alessandro mi dié una gomitata nel fianco. - Eh matto! - diss'egli - sempre colle tue baie. - Eh ti giuro che non son baie, che... ahi, ahi, ahi!... Il colonnello mi diede un tale pizzicotto che non potei tirar innanzi nella contesa e dovetti interromperla con questa triplice interiezione. Il portiere si voltò a guardarmi e questa volta con tutto il diritto. - Nulla, nulla - soggiunse il colonnello - gli ho pestato un callo! Fu un bel trovato cosí di sbalzo; ed io non giudicai opportuno di difendere la verginità de' miei piedi perché appunto in quella eravamo entrati nella sala della signora. Il colonnello s'accorgeva allora del pericolo, ma si era in ballo e bisognava ballare; un veterano di Marengo doveva ignorar l'arte delle ritirate. In una luce morta e rossigna che pioveva da lampade appese al soffitto e affiocate da cortine di seta rossa, io vidi o mi parve vedere la dea. Era seduta sopra un fianco in una di quelle sedie curuli che il gusto parigino aveva dissotterrato dai costumi repubblicani di Roma e che perdurarono tanto sotto l'impero d'Augusto che sotto quello di Napoleone. La veste breve e succinta contornava forme non dirò quanto salde, ma certo molto ricche; una metà abbondante del petto rimaneva ignuda: io non mi fermai a guardare con troppo piacere, ma sentii piuttosto un solletico ai denti, una voglia di divorare. I fumi dell'anesone mi lasciavano travedere che quella era carne, e mi lasciavano soltanto quel barbaro barlume di buonsenso che resta ai cannibali. La signora parve soddisfattissima della buona impressione prodotta sopra di me, e chiese al colonnello se fossi io quel giovane che desiderava impiegarsi in qualche amministrazione. Il colonnello si affrettò a rispondere di sí, e s'ingegnava di stornare da me l'attenzione della signora. Sembrava invece che costei s'invaghisse sempre piú del mio bel contegno perché non cessava dall'osservarmi e dal volgere il discorso a me, trascurando affatto il colonnello. - Carlo Altoviti, mi sembra - disse con gentilissimo sforzo di memoria la signora. Io m'inchinai diventando tanto rosso che mi sentiva scoppiare. Erano crampi di stomaco. - Sembrami - continuò ella - aver osservato questo nome se non isbaglio l'anno scorso nell'annuario della nostra alta magistratura. Io diedi una postuma gonfiata in memoria della mia intendenza, e mi tenni ritto e pettoruto mentre il colonnello rispondeva che infatti io era stato preposto alle Finanze di Bologna. - E c'intendiamo - soggiunse la signora a mezza voce inchinandosi verso di me - il nuovo governo... queste sue massime... insomma vi siete ritirato! - Già - risposi con molto sussiego, e senza aver nulla capito. Allora cominciarono ad entrar in sala conti, contesse, principi, abati, marchesi, i quali venivano mano a mano annunciati dalla voce stentorea del portiere: era un profluvio di don che mi tambussava le orecchie, e diciamolo imparzialmente, quel dialetto milanese raccorciato e nasale non è fatto per ischiarire le idee ad un ubbriaco. In buon punto il colonnello s'avvicinò alla padrona di casa per accomiatarsi; io non ne poteva piú. Essa gli disse all'orecchio che tutto era già combinato e che ne andassi difilato il giorno appresso alla ragioneria ove mi avrebbero assegnato il mio compito e dettomi le condizioni del servigio. Io ringraziai inchinandomi e strisciando i piedi, sicché una dozzina di quei don muti e stecchiti si volse meravigliata a guardarmi; indi battendo fieramente i tacchi al fianco del colonnello m'avviai fuori della sala. L'aria aperta mi fece bene; perché mi si rinfrescò d'un tratto il cervello, e fra i miei sentimenti si intromise un po' di vergogna dello stato in cui m'accorgeva essere, e della brutta figura che temeva aver sostenuto nella conversazione della Contessa. Peraltro mi durava ancora una buona dose di sincerità; e cominciai a lamentarmi della fame che avevo. - Non hai altro? - mi disse il colonnello. - Andiamo al Rebecchino e là te la caverai. - Non mi ricordo bene se dicesse il Rebecchino; ma mi pare di sí, e che in fin d'allora ci fosse a Milano questa mamma delle trattorie. Io mi lasciai condurre; me ne diedi una gran satolla senza trar fiato o pronunciar parola, e mano a mano che lo stomaco tornava in pace, anche il capo mi si riordinava. La vergogna mi venne crescendo sempre fino al momento di pagare; e allora stava proprio per rappresentare la commediola solita degli spiantati, di palpar cioè il taschino con molta sorpresa, e di rimproverarmi della mia maledetta sbadataggine per la borsa perduta o dimenticata; quando una piú onesta vergogna mi trattenne da questa impostura. Arrossii di essere stato piú sincero durante l'ubbriachezza che dopo, e confessai netta e schietta ad Alessandro la mia estrema povertà. Egli andò allora in collera che gliel'avessi nascosta in fino allora; volle consegnarmi a forza quei trenta scudi che aveva e che dopo pagato il conto non rimasero che ventotto; e si fece promettere che in ogni altro bisogno avrei ricorso a lui che di poco sí, ma con tutto il cuore m'avrebbe sovvenuto. - Intanto domani io devo partire senza remissione pel campo di Germania - egli soggiunse - ma parto colla lusinga che questi pochi scudi basteranno a farti aspettare senza incommodi la prima paga che ti verrà contata presto: forse anco dimani. Coraggio Carlino; e ricordati di me. Stasera devo abboccarmi coi capitani del mio reggimento per alcune istruzioni verbali; ma domattina prima di partire verrò a darti un bacio. Che dabbene d'un Alessandro! Era in lui un certo miscuglio di soldatesca rozzezza e di bontà femminile che mi commoveva: gli mancavano le cosí dette virtù civiche d'allora, le quali adesso non saprei come chiamarle, ma gliene sovrabbondavano tante altre che si poteva fare la grazia. La mattina all'alba egli fu a baciarmi ch'io dormiva ancora. Io piangeva per l'incertezza di non averlo forse a rivedere mai piú, egli piangeva sulla mia cocciutaggine di volermi rimanere oscuro impiegatuccio in Milano, mentre poteva andar dietro a lui e diventar generale senza fatica. Di cuori simili al suo se ne trovano pochi: eppure egli augurava di gran cuore la morte di tutti i suoi colleghi per avere un grostone piú alto sul cappello e trecento franchi di piú al mese. Questa è la carità fraterna insegnata anzi imposta anche agli animi pietosi e dabbene dal governo napoleonico! Quando fu ora convenevole io mi vestii con tutta la cura possibile, e n'andai alla ragioneria della contessa Migliana. Un certo signore grasso tondo sbarbato con cera e modi affatto patriarcali m'accolse si può dire a braccia aperte: era il primo ragioniere, il segretario della padrona. Egli mi condusse per prima cerimonia alla cassa ove mi furono contati sessanta scudi fiammanti per onorario del primo trimestre. Indi mi condusse ad uno scrittoio ove erano molti librattoli unti e gualciti e in mezzo un librone piú grande sul quale almeno si potevano posar le mani senza sporcarsele. Mi disse ch'io sarei stato per allora il maestro di casa il maggiordomo della signora Contessa, almeno finché restasse libero un posto piú confacente agli alti miei meriti. Infatti cascare dall'Intendenza di Bologna all'amministrazione d'una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto io sia in origine patrizio veneto dell'antichissima e romana nobiltà di Torcello, la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla piú alto il bisogno. Per me sono della opinione di Plutarco, che sopraintendeva, dicesi, agli spazzaturai di Cheronea coll'egual dignità che se avesse presieduto ai Giuochi olimpici. La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una maggiore dimestichezza colla signora Contessa: ecco due cose le quali non so se mi garbassero o meno; ma mi proponeva di togliere alla signora la brutta idea ch'ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità che cotali elogi mi sorpresero, e che alle signore milanesi dovessero piacer tanto gli ubbriachi non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò piú da pari a pari che da padrona a maggiordomo, squisitezza che mi racconsolò della mia nuova condizione, e mi fece scrivere all'Aglaura, a Lucilio, a Bruto Provedoni, al colonnello, alla Pisana, lettere piene d'entusiasmo e di gratitudine per la signora Contessa. Verso la Pisana poi io intendeva con ciò vendicarmi della sua trascuratezza; e cercare di stuzzicarla un poco colla gelosia. La strana vendetta ch'ella avea tratto altre volte d'una mia supposta infedeltà non m'avea illuminato abbastanza. Ma dopo cinque e sei giorni cominciai ad accorgermi che la Pisana non poteva avere tutto il torto ad ingelosire della mia signora padrona. Costei usava verso di me in una tal maniera che o io era un gran gonzo o m'invitava a confidenze che non entrano di regola nei diritti d'un maggiordomo. Cosa volete? Non tento né scusarmi, né nascondere. Peccai. La casa della Contessa era delle piú frequentate di Milano, ma in onta al temperamento allegro della padrona di casa le conversazioni non mi parevano né disinvolte né animate. Una certa malfidenza, un sussiego spagnolesco teneva strette le labbra e oscure le fronti di tutti quei signori; e poi, secondo me, scarseggiava la gioventù, e la poca che vi interveniva era cosí grulla cosí scipita da far pietà. Se quelle erano le speranze della patria, bisognava farsi il segno della croce e sperar in Dio. Perfino la signora, che al tu per tu o in ristretto crocchio di famiglia era vivace e corriva forse piú del bisogno, nella conversazione invece assumeva un contegno arcigno e impacciato, una guardatura tarda e severa, un modo di mover le labbra che pareva piú adatto a mordere che a parlare ed a sorridere. Io non ci capiva nulla: massime allora poi, con quel fervore di vita messoci in corpo dalla convulsa attività del governo italico. Due settimane dopo ne capii qualche cosa. Fu annunziato un ospite da Venezia, e rividi con mia somma meraviglia e dopo tanti anni l'avvocato Ormenta. Egli non mi conobbe, perché l'età e le fogge mutate mi rendevano affatto diverso dallo scolaretto di Padova; io finsi di non conoscer lui perché non mi garbava di rappiccarla per nessun verso. Sembra ch'egli venisse a Milano per raccomandare sé ed i suoi alla valida protezione della Contessa; infatti a quei giorni fu un andirivieni maggiore del solito di generali francesi e di alti dignitari italiani. Alcuni ministri del nuovo Regno stettero chiusi molte ore coll'egregio avvocato; ed io mi struggeva indarno di sapere perché mai dovesse immischiarsi nelle faccende del governo francese in Italia un consigliere principale del governo austriaco. Anche questo lo seppi poco dopo. L'accorto avvocato aveva preveduto la battaglia di Austerlitz e le sue conseguenze; egli passava dal campo di Dario a quello d'Alessandro per rimediare dal canto suo ai danni della sconfitta. A chi poi si meravigliasse di veder maneggiata da dita femminili una sí importante matassa, risponda la storia che le donne non ebbero mai tanta ingerenza nelle cose di Stato, quanto durante i predominii militari. Lo sapeva la mitologia greca che mescolò sempre nelle sue favole Venere a Marte. Le notizie prime della vittoria di Austerlitz giunsero a Milano innanzi al Natale; se ne fece un grande scalpore. E crebbe quando si ebbe contezza della pace firmata il giorno di santo Stefano a Presburgo, per la quale il Regno d'Italia s'allargava ne' suoi confini naturali fino all'Isonzo. Io dimenticai per un istante la quistione della libertà per mettermi tutto nella gioia di riveder Venezia, e la Pisana, e mia sorella e Spiro e i nipoti, e i carissimi luoghi dove s'era trastullata la mia infanzia e viveva pur sempre tanta parte dell'anima mia. Le lettere che mi scrisse allora la Pisana non voglio ridirvele per non tirarmi addosso un troppo grave cumulo d'invidia. Io non mi capacitava come tutti questi struggimenti potessero combinarsi colla noncuranza dei mesi passati; ma la contentezza presente vinceva tutto, soperchiava tutto. Pensando a null'altro, io salii dalla signora Contessa colle lagrime agli occhi, e lí le dichiarai che dopo la pace di Presburgo... - Cosa mai?... Cosa c'è di nuovo dopo la pace di Presburgo? - mi gridò la signora tirando gli occhi come una vipera. - C'e di nuovo ch'io non posso piú fare né l'intendente, né il maggiordomo... - Ah! mascalzone! E me lo dite in questa maniera?... Son proprio stata una buona donna io a mettere... tutta la mia confidenza in voi!... Uscitemi pure dai piedi e che non vi vegga mai piú!... Era tanto fuori di me dalla consolazione che questi maltrattamenti mi fecero l'effetto di carezze: non fu che dopo, al tornarci sopra, che m'accorsi della porcheria commessa nell'accomiatarmi in quel modo. Certi favori non bisogna dimenticarseli mai quando una volta furono accettati per favori, e chi se ne dimentica merita esser trattato a calci nel sedere. Se la Contessa usò meco con minore durezza, riconosco ora che fu tutta sua indulgenza; perciò non mi diede mai il cuore di unirmi ai suoi detrattori quando ne udii dire tutto il male che vedrete in appresso. La Pisana mi accolse a Venezia col giubilo piú romoroso di cui ell'era capace ne' suoi momenti d'entusiasmo. Siccome io avea provveduto che mi si lasciasse libero almeno un appartamentino della mia casa, ella voleva ad ogni costo accasarsi presso di me: ghiribizzo che troverete abbastanza strano raffrontato colla tenerezza e colle cure da lei prodigate fino allora al marito. Ma il piú strano si fu quando il vecchio Navagero, disperatissimo di cotal risoluzione della moglie e della valente infermiera che era in procinto di perdere, mi mandò a pregare in segreto che piuttosto andassi io ad abitare presso di lui che m'avrebbe veduto con tutto il piacere. L'era un portar troppo oltra la tolleranza veneziana; e da ciò capii che l'apoplessia lo aveva liberato perfettamente de' suoi umori gelosi. Ma io non mi degnai di arrendermi alle gentili preghiere del nobiluomo; feci parte di questi miei scrupoli alla Pisana, e suo malgrado pretesi che la restasse presso il marito. L'amore avrebbe riguadagnato in freschezza e in sapore quel poco che ci perdeva di facilità. Anche Spiro e l'Aglaura mi volevano con loro; ma io aveva fitto il capo nella mia casetta di San Zaccaria, e non mi volli movere di là. Cosí vissi spensierato d'ogni cosa e beatissimo fino alla primavera, stando il piú che poteva alla larga dalla Contessa di Fratta, da suo figlio, ma godendo le piú belle ore della giornata in compagnia della mia Pisana. La pietà di costei per quel vecchio e malconcio carcame del Navagero trascendeva tanto ogni misura, che talvolta mi dava perfino gelosia. Succedeva non di rado che dopo le visite piú noiose ed importune, rimasti soli un momento ella correva via di volo per cambiare il cerotto o per versar la pozione al marito. Questo zelo in eccesso mi infastidiva e non potea fare che qualche fervida preghiera non innalzassi al cielo per ottenere al povero malato le glorie del paradiso. Non c'è caso. Le donne sono amanti, sono spose, madri, sorelle; ma anzi tutto sono infermiere. Non v'è cane d'uomo cosí sozzo cosí spregevole e schifoso che lontano da ogni soccorso e caduto infermo non abbia trovato in qualche donna un pietoso e degnevole angelo custode. Una donna perderà ogni sentimento d'onore di religione di pudore; dimenticherà i doveri piú santi, gli affetti piú dolci e naturali, ma non perderà mai l'istinto di pietà e di devozione ai patimenti del prossimo. Se la donna non fosse intervenuta necessaria nella creazione come genitrice degli uomini, i nostri mali le nostre infermità l'avrebbero richiesta del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son tante, che le nostre donne sono, si può dire, dalla nascita alla morte occupate sempre a medicarci o l'anima o il corpo. Benedette le loro dita stillanti balsamo e miele! Benedette le loro labbra donde sprizza quel fuoco che abbrucia e rimargina!... Gli altri miei conoscenti di Venezia non parevano gran fatto curanti di me; ove si eccettuino i Venchieredo che cercavano in ogni modo di attirarmi, ed io mi teneva discosto con tutta la prudenza della mia ottima memoria. Dei Frumier il Cavaliere di Malta pareva sepolto vivo; l'altro, sposata la donzella Contarini e cacciato avanti nelle Finanze, era arrivato a farsi nominar segretario. L'ambizione lo spingeva per una carriera a cui per la nuova ricchezza poteva facilmente rinunciare; e con quel suo capolino di oca, giunto a disegnare la propria firma sotto un rapporto, gli pareva di poter guardare dall'alto in basso i cavalli di San Marco e gli Uomini delle Ore. Mi sorprese peraltro assaissimo che tanto lui quanto il Venchieredo l'Ormenta e taluni altri impiegati dell'usato governo continuassero ad esser sofferti dal nuovo, o nelle antiche cariche o in nuovi posti abbastanza importanti e delicati. Siccome peraltro né cogli usciti né cogli entranti io aveva a partire la mela, non m'alambicava il cervello di saperne il perché. Quello piuttosto che mi dava alcun fastidio si era che molti degli amici miei, di Lucilio d'Amilcare, e qualche intriseco di Spiro Apostulos, e mio cognato stesso mi trattassero alle volte con qualche freddezza. Io non credeva di aver demeritato della loro amicizia; perciò non mi degnava neppure di rammaricarmene, ma uscii a dirne qualche cosa coll'Aglaura e costei si schivò con dir che suo marito avea spesso la testa negli affari, e non potea badare a feste e a cerimonie. Un giorno mi venne veduto in Piazza un certo muso ch'io non aveva incontrato mai senza alquanto rincrescimento; voglio dire il capitano Minato. Io cercava sfuggirlo, ma me lo impedí dieci pertiche lontano con un "ho!" di sorpresa e di piacere: e mi convenne trangugiare in santa pace un beverone infinito di quelle sue còrse castronerie. - A proposito! - diss'egli. - Son passato per Milano; me ne congratulo con voi. Anche voi siete passato colà a tempo per ereditare le mie bellezze. - Che bellezze mi tirate fuori? - Capperi, non è una bellezza la contessina Migliana?... Da quando io le feci fare il viaggio da Roma ed Ancona, la trovai un po' appassitella; ma cosí senza confronti è ancora un'assai bella donna. - Che?... La contessa Migliana è...? - È l'amica d'Emilio Tornoni, è il mio tesoretto del novantasei! Quanti anni sono passati! - Eh, giusto! È impossibile! Mi date ad intendere delle baie!... La vostra avventuriera non si chiamava cosí, e non possedeva né la fortuna né l'entratura nel mondo della contessa Migliana! - Oh in quanto ai nomi, ve l'assicura io che la Contessa non ne ha portato nessuno piú d'un mese! Fu un delicato riguardo per ognuno de' suoi amanti. Quanto alle ricchezze, lo dovete sapere anche voi che la sua eredità non le toccò che pochi anni or sono. Del resto il mondo è troppo furbo per diniegare l'ingresso a chi sa pagarlo bene. Avrete veduto di qual razza di gente è ora circondata almeno nelle ore diplomatiche la signora Contessa: or bene, furono costoro che a prezzo d'un po' di vernice e di qualche elemosina per la pia causa, acconsentirono a porre un velo sul passato e a raccogliere la pecorella smarrita nel gran grembo dell'aristocrazia... come la chiamano a Milano?... dell'aristocrazia biscottinesca!... - E pertanto... - volli dir io. - E pertanto volevate dire che, essendo voi maggiordomo in casa sua... non so se mi spiego... ma non trovaste poi la pecorella cosí fida all'ovile da non perdersi anche talvolta in qualche pascolo romito, in qualche trastullo lascivetto e... - Signore, nessuno vi dà il diritto né di straziare l'onor d'una dama, né... - Signore, nessuno vi dà il diritto d'impedire che io parli quando parlano tutti. - Voi venite da Milano; ma qui a Venezia... - Qui a Venezia, signore, se ne parla forse piú che a Milano!... - Come?... Spero che sarà una vostra fantasia! - La notizia è venuta a quanto si dice nel taccuino del consiglier Ormenta, il quale vi fece merito dei vostri amori come d'un'opportuna conversione alla causa della Santa Fede. - Il consiglier Ormenta, voi dite? - Sí, sí, il consiglier Ormenta! Non lo conoscete? - Pur troppo lo conosco! - E mi diedi a pensare perché, dopo avermi tanto dimenticato da non ravvisarmi piú, si fosse poi dato attorno per seminare cotali spiacevoli ciarle. E non mi venne in capo che egli a sua volta si potesse credere non conosciuto da me, e che il mio nome caduto qualche volta di bocca alla Contessa lo avesse aiutato a mutare in certezza il sospetto della somiglianza. La gente del suo fare non altro cerca di meglio che spargere la diffidenza e la discordia; ecco chiarissime le cagioni del suo malizioso sparlare. E quanto al resto non m'importava un fico di saperne di meglio; tuttavia, persuasissimo che il Minato m'avesse reso un vero servigio coll'aprirmi gli occhi su quella mariuoleria, mi separai da lui con minor piacere del solito e tornai presso la Pisana per masticare meno amaramente la mia rabbia. Trovai quel giorno presso la signorina la visita di un tale che non mi sarei aspettato; di Raimondo Venchieredo. Dopo quanto avevamo discorso di lui, dopo le mire ch'io gli supponeva sul conto della Pisana, dopo le trame orditele contro a mezzo della Doretta e della Rosa, mi maravigliai moltissimo di trovarla in tal compagnia. Di piú s'aggiungeva che sapendo ella l'inimicizia non mai spenta fra me e Raimondo, la doveva anche per riguardo mio tenerselo lontano. Il furbo peraltro non giudicò opportuno incommodarmi a lungo, e se la cavò con un profondo saluto che equivaleva ad un'impertinenza bell'e buona. Partito lui ci bisticciammo fra noi. - Perché ricevi quella razza di gente? - Ricevo chi voglio io! - Non signora, che non devi! - Vediamo chi mi potrà comandare! - Non si comanda, ma si prega! - Pregare s'affà a chi ne ha il diritto. - Il diritto io l'ho acquistato mi pare con molti anni di penitenza! - Penitenza grassa! - Cosa vorresti dire? - Lo so io, e basta! Cosí continuammo un pezzetto con quegli alterchi a monosillabi che sembrano botte e risposte a morsi e ad unghiate; ma non mi venne fatto cavar da quella bocca una parola di piú. Me ne partii furibondo; ma con tutto il mio furore, la trovai tornando piú fredda e ingrognata di prima. Non solamente non volle aprirsi meglio, ma schivava ogni discorso che potesse condurre ad una dichiarazione, e di amore poi non voleva sentirne parlare come d'un sacrilegio. Alla terza alla quarta volta si peggiorava sempre; m'incontrai ancora nel suo stanzino da lavoro con Raimondo che giocarellava dimesticamente colla cagnetta. E la cagnetta si mise ad abbaiare a me! Per una volta lo sopportai; ma alla seconda uscii affatto dai gangheri; al contegno altero e beffardo di Raimondo m'accorsi a tempo della bestialità, e scappai giù per la scala perseguitato dai latrati di quella sconcia cagnetta. Oh queste bestiole sono pur barbare e sincere! Esse fanno e ritirano, a nome delle padrone, dichiarazioni d'amore che non vi si sbaglia d'un capello. Ma allora io era tanto indemoniato che di cagnetta e padrona avrei fatto un fascio per gettarlo in laguna. Dite ch'io mi vanto d'un'indole mite e rassegnata! Che avrebbe fatto nel mio caso un cervello caldo e impetuoso io non lo so. In tutto questo l'unico punto che non appariva oscuro si era la perfidia della Pisana verso di me, e il suo invasamento per Raimondo Venchieredo. Che costui poi fosse la causa della mia sventura, non lo potea dire di sicuro, ma amava crederlo per potermi scaricare sopra taluno di quel gran bollore di odio che mi sentiva dentro. Per metter il colmo al mio delirio, ebbi a quei giorni una lettera da Lucilio cosí agghiacciata, cosí enigmatica che per poco non la stracciai. Che tutti amici e nemici si fossero data la parola per menarmi all'estremo dell'avvilimento e della disperazione?... Quel colpo poi che mi veniva da Lucilio, dall'amico il di cui giudizio io poneva sopra il giudizio di tutti, da quello che avea regolato fin'allora la mia coscienza, e tenutomi luogo di quella costanza di quella robustezza che talvolta mi mancavano, un tal colpo dico, mi tolse perfino il discernimento della mia disgrazia. Cosa non aveva e cosa non avrei io fatto per conservarmi la stima di Lucilio?... Ed ecco che senza dirmi né il perché né il come, senza interrogarmi, senza chiamarmi a discolpa, egli mi dava sentore di avermela tolta. Quali orrendi delitti erano stati i miei?... Qual era lo spergiuro, la viltà, l'assassinio che m'avea meritato una tale sentenza?... Non aveva la mente ordinata a segno da cercarlo. Mi tormentava, mi struggeva, piangeva di rabbia di dolore d'umiliazione; la vergogna mi facea tener curva la fronte sul petto; quella vergogna ch'io sapeva di non aver meritato. Ma cosí fatti sono i temperamenti troppo sensibili come il mio, che sentono al pari d'una colpa la taccia anche ingiusta di essa. La sfacciataggine della virtù io non l'ho mai avuta. In quei momenti le consolazioni dell'Aglaura diffusero sui miei dolori una dolcezza inesprimibile; per la prima volta avvisai quanto bene stia racchiuso in quegli affetti calmi e devoti che non si ritraggono da noi né per mancanza di meriti né per cambiamento d'opinioni. La mia buona sorella, i suoi figlioletti mi sorridevano sempre per quanto la società mi si mostrasse barbara e nemica. Essi senza parlare prendevano le mie difese al cospetto di Spiro; giacché egli non poteva serbare il viso torvo ed arroncigliato con colui che riceveva carezze e baci continui dalla moglie, dai figlioli, dal sangue suo. Quanto la fiducia de' miei antichi compagni s'allontanava da me, altrettanto mi venivano incontro mille finezze dell'avvocato Ormenta, di suo figlio, del vecchio Venchieredo, del padre Pendola e dei loro consorti. Il buon padre s'era fatto lui il direttore spirituale in quel ritiro di convertite del quale il dottorino Ormenta governava l'economia; e ogniqualvolta m'incontravano erano scappellate, saluti e sorrisacci che mi stomacavano perché sembravano dire: "Sei tornato dei nostri! Bravo! Ti ringraziamo!". Io aveva un bel che fare, a sgambettare a salvarmi da quei loro salamelecchi; ma la gente li vedeva, li vedeva taluno a cui io era in sospetto; le calunnie pigliavano piede, e non c'era verso ch'io potessi sbarazzarmene, come da quelle caldane paludose dove, affondati una volta, per pestar che si faccia si affonda sempre piú. Confesso che fui per darmi bell'e spacciato; poiché se io non mi disperai giammai contro nemici certi e disgrazie ben misurate, non ho al contrario potuto sopportar mai un agguato nascosto e le cupe agonie d'un misterioso trabocchetto. Era lí lí per rinserrarmi in una vita morta, in quella vegetazione che protrae di qualche anno lo sfacelo del corpo dopo aver soffocate le speranze dell'anima; non vedevo piú nulla intorno a me che valesse la pena d'un giorno misurato a singhiozzi e a sospiri: io non era necessario e buono a nulla; perché dunque pensare agli altri per sentire peggio che mai il mio crepacuore?... Cosí se io non deliberava di uccidermi, mi accasciava volontario, e mi lasciava schiacciare dal peso che mi rotolava addosso. Non aveva il furore ma la stanchezza del suicida. Caduti in tanto abbattimento, le carezze degli altri uomini per quanto maligne e interessate ci trovano le molte volte deboli e credenzoni. Godiamo quasi di poter dire ai buoni: "Guardate che i tristi sono migliori di voi!". Fanciullesca vendetta che volge in nostro danno perpetuo la gioia puerile d'un momento. Gli Ormenta padre e figlio raddoppiarono verso di me di premure e di cortesie; convien dire ch'io avessi qualche grazia presso di loro o che la setta fosse tanto immiserita che non si badasse piú a fatica ed a spesa per guadagnare un neofito. Mi circondarono con loro adescatori, misero sotto mezzani e sensali; io rimasi incrollabile. Nullo sí, ma per essi no. Moriva per l'ingiustizia degli amici miei, ma non avrei mai acconsentito a volger contro di essi la punta d'un dito; dietro quegli amici ingannati ed ingiusti era la giustizia eterna che non manca mai, che mai non inganna né rimane ingannata. Questo pensiero di resistenza brulicandomi entro mi ridonò un'ombra di coraggio e un filo di forza. Guardai dietro a me per vedere se veramente l'abbandono di tutti, la perfidia dell'amore, i mancamenti dell'amicizia mi lasciavano cosí nullo e impotente com'io credeva. Allora risorsero alla mia memoria come in un baleno tutti gli ideali piaceri, tutte le robuste fatiche, e i volontari dolori della mia giovinezza: vidi raccendersi quella fiaccola della fede che m'avea guidato sicuro per tanti anni ad un fine lontano sí ma giusto ed immanchevole; vidi un sentiero seminato di spine ma consolato dagli splendori del cielo, e dalla brezza confortatrice delle speranze, che scavalcava aereo e diritto come un raggio di luce l'abisso della morte e saliva e saliva per perdersi in un sole che è il sole dell'intelligenza e l'anima ordinatrice dell'universo. Allora la mia idea diventò entusiasmo, la mia debolezza forza, la mia solitudine immensità. Sentii che l'opinione altrui valeva nulla contro l'usbergo della mia coscienza, e che in questa sola s'accumulava la maggior somma dei castighi e delle ricompense. Il mondo ha migliaia di occhi, di orecchi, di lingue; la coscienza sola ha la virtù il coraggio la fede. Mi rizzai uomo davvero. E dalla rocca inespugnabile di questa mia coscienza guardai alteramente tutti coloro di cui con tanto dolore avea sofferto il muto disprezzo. Pensai a Lucilio e per la prima volta ebbi il coraggio di dirgli in cuor mio: "Profeta, hai sbagliato! Sapiente, avesti torto!". Quanta confidenza quanta beatitudine mi venisse da questo coraggio, coloro soltanto possono saperlo che provarono le gioie sublimi dell'innocenza in mezzo alla persecuzione. Piú di ogni altra cosa poi giovava a rattemprarmi l'animo la fiducia in quell'istinto retto e generoso che misero avvilito boccheggiante pur m'avea fatto sprezzare le lusinghe dei tristi e degli impostori. Il debole che piange e si dispera d'esser trascinato al patibolo, e pur non consente a guadagnarsi la grazia col tradire i compagni, quello secondo me è piú ammirabile del forte che col sorriso sulle labbra si abbandona alle mani del boia. Tremate ma vincete: questo è il comando che può intimarsi anche ai pusillanimi; tremare è del corpo. Vincere è dell'anima che incurva il corpo sotto la verga onnipotente della volontà. Tremate ma vincete. Dopo due vittorie non tremerete piú: e guarderete senza batter ciglio lo scrosciar della folgore. Cosí feci io. Tremai lungamente; piansi ancora mio malgrado degli amici che m'avevano abbandonato; mi straziai il petto coll'ugne, e sentii il cuore battere precipitoso come impaziente di arrivar alla fine delle sue fatiche, mi disperai dell'amor mio che dopo mille lusinghe, dopo avermi aggirato scherzevole e leggiero pei giardini fioriti e per le balze capricciose della giovinezza, mi lasciava solo vedovo sconsolato ai primi passi nella selva selvaggia della vera vita militante e dolorosa. Ohimè, Pisana! quante lagrime sparsi per te! Quante lagrime di cui avrei vergognato come di una debolezza femminile allora; eppur adesso me ne glorio come d'una costanza che diede alla mia vita qualche impronta di grandezza e di virtù!... Tu fosti come l'onda che va e viene sul piede arenoso dello scoglio. Saldo come la rupe io t'attesi sempre; non mi sdegnai degli oltraggi, accolsi modestamente le carezze ed i baci. Il cielo a te avea dato la mutabilità della luna; a me la costanza del sole; ma gira e gira ogni luce s'incontra, si ripete, s'idoleggia, si confonde. E il sole e la luna nell'ultima quiete degli elementi s'adageranno eternamente rilucenti e concordi. Voli pindarici! Voli pindarici! Ma per nulla non si diedero l'ali alle rondini, il guizzo al baleno, ed alla mente umana la sublime istantaneità del pensiero. Sí, piansi molto allora e molto soffersi; ma aveva racquistato la pace della mia coscienza, e la purezza della mia fede. Piangeva e soffriva per gli altri; in me non sentiva né peccato né colpa. Ecco a mio giudizio una delle maggiori ingiustizie della natura a nostro riguardo; la coscienza per quanto pura e tranquilla non ha potenza di opporsi vittoriosamente alle immeritate afflizioni; soffriamo d'una nequizia altrui come d'un castigo. Lo sconforto, i dolori, l'avvilimento, le continue battaglie d'un'indole mite e sensibile con un destino avverso e rabbioso scossero profondamente la mia robusta salute. Conobbi allora esser vero che le passioni racchiudono in sé i primi germi di moltissime malattie che affliggono l'umanità. Dicevano i medici ch'era infiammazione di vene, o congestione del fegato; sapeva ben io cos'era, ma non mi stava il dirlo perché il male da me conosciuto era pur troppo incurabile. Vedeva da lontano la mia ora avvicinarsi lentamente minuto per minuto, battito per battito di polso. Il mio sorriso appariva rassegnato come di colui che non ha piú speranze se non eterne, e a quelle affida colla sicurezza dell'innocenza l'anima sua. Perdonate, o stizzosi moralisti; vi sembrerà ch'io fossi inverso me assai largo di manica, come si dice. Ma pur troppo io m'avea composto di mio capo una regola assai diversa dalla vostra: pur troppo, secondo voi, puzzava d'eresia; scusate, ma tutto quello che non era stato male pegli altri non lo addebitava come male a me stesso; e se male avea commesso, ne era pentito a segno che m'abbandonava senza paura alla giustizia che non muore mai, e che giudicherà non delle vostre parole ma dei fatti. Voi avreste circondato il mio letto di catene sonanti di spettri e di demonii; vi assicuro ch'io non ci vidi altro che fantasmi benigni e velati d'una nebbia azzurra di celeste melanconia, angeli misteriosi che mestamente mi sorridevano, orizzonti profondi che s'aprivano allo spirito e nei quali senza perdersi lo spirito si effondeva, come la nuvola che si dirada a poco a poco ed empie leggiera e lucente tutti gli spazii interminati dell'etere. Io non avea veduto mai fino allora cosí vicina la morte; dirò meglio che non aveva avuto agio di contemplarla con tanta pacatezza. Non la trovai né schifosa né angosciosa né spaventevole. La rivedo adesso dopo tanti anni piú vicina piú certa. È ancora lo stesso volto ombrato da una nube di melanconia e di speranza; una larva arcana ma pietosa, una madre coraggiosa e inesorabile che mormora al nostro orecchio le fatali parole dell'ultima consolazione. Sarà aspettazione, sarà espiazione, o riposo; ma non saranno piú le confuse e vane battaglie della vita. Onnipotente o cieco poserai nel grembo dell'eterna verità; se reo temi, se innocente spera e t'addormenta. Qual mai fu il sonno che non fu consolato da visioni?... La vita si ripete e si ricopia sempre. Il sonno d'una notte è la quiete e il ristoro d'un uomo; la morte di un uomo è un istante di sonno nell'umanità. M'avvicinava passo passo alla morte coi mesti conforti dell'Aglaura da un lato; col tardo ravvedimento di Spiro dall'altro, che non potea serbare la sua ostile diffidenza dinanzi all'imperturbabile serenità d'un moribondo. Dinanzi alle grandi ombre del sepolcro non vi sono né illusi né imbecilli; ognuno racquista tanta lucidità che basti a riverberargli in un terribile baleno le colpe e le virtù di tutta la vita. Chi posa gli occhi calmi e sicuri in quella notte senza fondo, sente e vede in se stesso la immagine purificata di Dio; egli non teme né le ricompense né le pene eterne, non paventa né i fluttuanti vortici del caos né gli abissi ineffabili del nulla. Convien dire che avessi scritta sulla mia fronte un'assai eloquente difesa, perché Spiro al solo guardarmi si commoveva fino alle lagrime; pure non aveva i nervi rammolliti dalla piagnoleria, e le greche fattezze del suo volto si componevano meglio alla rigidezza del giudice che alla vergogna e al pentimento del colpevole. Fu quello il primo premio che m'ebbi della mia costanza. Veder vinta dalla sola calma del mio aspetto, dalla tranquillità della voce, dalla limpidezza dello sguardo quell'anima di fuoco e d'acciaio, fu un vero trionfo. Egli né mi chiese perdono né io glielo diedi, ma ci intendemmo senza parola; le nostre mani si strinsero; e tornammo amici per malleveria della morte. I medici non parlavano dinanzi a me, ma io m'accorgeva appunto dal silenzio e dalla confusione dei pareri, che disperavano del mio male. Io m'ingegnava di usare alla meglio questi ultimi giorni col versare nell'anima di Spiro e di mia sorella l'esperienza della mia vita, col mostrar loro in qual modo s'eran venuti formando i miei sentimenti, e come l'amore, l'amicizia, l'amore della virtù e della patria eran venuti irrompendo confusamente, indi purificandosi a poco a poco, e sollevando l'anima mia. Vedeva allora le cose tanto chiare che precedetti, si può dire, una generazione; e lo dico senza superbia, le idee di Azeglio e di Balbo covavano in germe ne' miei discorsi d'allora. L'Aglaura piangeva, Spiro crollava il capo, i bambini mi guardavano sgomentiti e domandavano alla mamma perché lo zio aveva la voce cosí bassa, e voleva sempre dormire e non usciva mai dal letto. - Vegliare toccherà a voi, bambini! - io rispondeva sorridendo; indi volgendomi a Spiro - non temere, no; - continuava, - quello che ora veggo io, molti lo vedranno in appresso, e tutti da ultimo. La concordia dei pensieri mena alla concordia delle opere; e la verità non tramonta mai ma sale sempre verso il meriggio eterno. Ogni spirito veggente che sale lassù risplende a cento altri spiriti colla sua luce profetica! Spiro non si acquetava di cotali conforti; egli mi tastava il polso, mi osservava ansiosamente negli occhi come vi cercasse quell'intima cagione del mio male che ai medici era sfuggita. Finalmente un giorno che eravamo soli si diede animo e mi disse: - Carlo, in coscienza, confessati a me! Non puoi o non vuoi guarire? - Non posso, no, non posso! - io sclamai. In quel momento l'Aglaura entrò precipitosamente nella stanza, dicendomi che una persona, a me molto cara altre volte, voleva vedermi ad ogni costo. - Ch'ella entri, ch'ella entri! - io mormorai sbigottito dalla consolazione che mi veniva tanto improvvisa. Io vedeva attraverso le pareti, io leggeva nell'anima di colei che veniva a trovarmi; credo che ebbi paura di quel lampo quasi sovrumano di chiaroveggenza e che temetti di mancare al rifluir repentino di tanto impeto di vita. La Pisana entrò senza vedere senza cercare altri che me. Mi si gettò colle braccia al collo senza pianto senza voce; il suo respiro affannoso, i suoi occhi impietrati e sporgenti fuori dalle orbite mi dicevano tutto. Oh, vi sono momenti che la memoria sente ancora e sentirà sempre quasiché fossero eterni, ma non può né esaminarli né descriverli. Se poteste entrare nella lieve e aerea fiammolina d'un rogo che si spegne e immaginare cos'ella prova al riversarsi sopra di lei d'una ondata di spirito che la rianima, comprendereste forse il miracolo che si compié allora nell'esser mio!... Fui come soffocato dalla felicità; indi la vita scoppiò ribollente da quel momentaneo assopimento, e sentii un misto di calore e di freschezza corrermi salutare e voluttuoso i nervi le vene. La Pisana non volle piú staccarsi dal mio capezzale; fu questa la sua maniera di chieder perdono e di ottenerlo pronto ed intero. Che dico mai ottenerlo? A ciò avea bastato uno sguardo. Capii allora la vera cagione del mio male, la quale la superbia forse mi avea tenuto nascosta. Mi sentii rivivere, diedi la berta ai medici, e rifiutai le loro insulse pozioni. La Pisana non dormí piú una notte, non uscí un istante dalla mia stanza, non lasciò che altra mano fuori della sua toccasse le mie membra, le mie vesti, il mio letto. In tre giorni divenne cosí pallida e scarna che pareva piú malata di me. Io credo che per non vederla soffrire a lungo condensai tanto sforzo di volontà nell'adoperarmi a guarire, che accorciai la malattia di qualche settimana, e mutai in perfetta salute la convalescenza. Spiro e l'Aglaura guardavano meravigliati: la Pisana pareva che meno non si aspettasse, tanto era la fede e la sincerità dell'amor suo. Che cosa non le avrei perdonato!?... Fu di quella volta come delle altre. Le labbra tacquero, ma parlarono i cuori: ella mi avea ridonato la vita e la possibilità di amarla ancora. Me le professai debitore, e l'umiltà e la tenerezza d'un amore infinito mi compensarono dello spensierato abbandono d'un giorno. - Carlo - mi disse un giorno la Pisana poich'io fui ristabilito tanto da poter uscire - l'aria di Venezia non ti si affà molto, hai bisogno di campagna. Vuoi che facciamo una visita allo zio monsignore di Fratta? Non so come avrei potuto rispondere ad un invito che sí bene interpretava i piú ardenti voti del mio cuore. Rivedere colla Pisana i luoghi della nostra prima felicità sarebbe stato per me un vero paradiso. Mi avanzava qualche piccola somma di danaro accumulata dalle pigioni della mia casa negli ultimi quattr'anni; il ritiro in campagna avrebbe aiutato l'economia; tutto concorreva a rendere questo disegno oltreché bello, utile e salutare. D'altra parte io sapeva che Raimondo Venchieredo stava ancora in Venezia, sapeva omai delle arti basse e maligne da lui messe in opera per accertar la Pisana de' miei amori colla contessa Migliana e per giovarsi a' suoi intenti d'un momento di dispetto. Avea perdonato alla Pisana ma non a lui; né era sicuro da un impeto di furore ove mi fosse intervenuto d'incontrarlo. Per due giorni ancora la Pisana non mi parlò di partire, ma la vedeva affaccendata in altri pensieri, e mi pareva che si disponesse ad una lunga assenza. Finalmente venne a casa mia col suo baule e mi disse: - Cugino, eccomi pronta. Mio marito non è guarito; ma la sua malattia ha ripreso un andamento regolare; i medici dicono che cosí può durare ancora molti anni. Mia sorella che domani esce di convento... - Come? - io sclamai. - La Clara si sveste di monaca? - Non lo sapete? Il suo convento fu soppresso; le hanno dato una pensione, e uscirà appunto domani. Ben inteso ch'ella non ha la benché minima idea di rompere i suoi voti; e che digiunerà egualmente le sue tre quaresime all'anno. Ma intanto ella acconsente a far l'infermiera a mio marito; io l'ho persuaso che lo zio monsignore abbisogna di me, e mia madre poi, che avrà dalla mia partenza il suo tornaconto, asseconda con tutte le forze questo progetto. - Che tornaconto ha mai tua madre da questo viaggio? - Il tornaconto che le ho ceduto definitivamente non solo il godimento ma la proprietà della dote!... - Che pazzia! E per te dunque, cosa ti rimane? - Per me mi rimangono due lire al giorno che mio marito vuol passarmi ad ogni costo malgrado la strettezza della sua fortuna; e con quelle in campagna posso vivere da gran signora. - Scusa, sai, Pisana; ma il sacrifizio che hai fatto per tua madre mi sembra altrettanto imprudente che inutile. Qual vantaggio recherà a lei l'avere la proprietà oltre il godimento della dote? - Qual vantaggio? Non so; ma probabilmente quello di potersela mangiare. E poi fare questi conti non si stava a me. Mia madre mi ha mostrato le sue tristi condizioni, la sua vecchiaia che vien domandando sempre nuovi commodi, nuove spese, i debiti da cui è molestata; infine io ho veduto anche i bisogni delle sue passioncelle e non voleva che per giuocare due partite di tresette ella fosse costretta a vendere il pagliericcio. Le ho risposto dunque: "Volete cosí... Sia! Ma mi lascerete partire perché ho bisogno d'una boccata d'aria libera e di rivedere le nostre campagne." "Va', va' pure, e che il cielo ti benedica, figliuola mia" soggiunse mia madre. Io credo ch'ella si consolò tutta di vedermi in procinto d'andarmene, perché le mie suggestioni non avrebbero piú persuaso Rinaldo a comperarsi ogni tanto o un cappello nuovo o un vestito meno indecente, e cosí a lei sarebbe rimasto qualche zecchino di piú. Andai dunque da un notaio, fu stesa e firmata la scritta di cessione. Ma nel punto di consegnarla a mia madre, non ti figuri mai piú il favore ch'io le chiesi in contraccambio. - Cosa mai? Le chiedesti il diritto eventuale all'eredità Navagero, o la cessione de' suoi crediti verso la sostanza di Fratta? - Nulla di tutto questo, Carlo. Da un pezzo era pizzicata da una indiscreta curiosità messami in capo, te ne ricordi, da quella pettegola della Faustina. Domandai dunque a mia madre che proprio sinceramente colla mano sul cuore mi confessasse se io non ero figliuola di monsignore di Sant'Andrea!... - Eh va' là! Pazzerella!... E cosa ti rispose la Contessa? - Mi rispose quello che tu. Mi diede della sguaiata della pazzerella; e non volle dir nulla. Ah, Carlo! de' miei ottomila ducati non ci ho proprio ritratto un bruscolo, nemmeno tanto da cavarmi una curiosità! Questo incidente può darvi un'idea non solamente dell'indole e dell'educazione avuta dalla Pisana, ma anche fino ad un certo punto dei costumi veneziani del secolo passato. Nel punto stesso che una figliuola con sublime sacrificio si toglieva il pane di bocca, si spogliava dell'ultimo suo avere per accontentare i vizietti della madre, chiedeva in compenso di tanto benefizio una cinica confessione, e un gusterello di curiosità altrettanto inutile che scandalosa. Non aggiungo di piú. Ma basta un finestrello aperto per lumeggiare un quadro. - E a te dunque - soggiunsi io - non restano ora che due grame lirette al giorno concesseti dalla misera munificenza del nobiluomo Navagero, sicché una voltata d'umore di questo vecchio pazzo può metterti addirittura all'ospizio dei poveri!!... - Eh guà'! - disse la Pisana. - Son giovine e robusta; posso lavorare, e poi io starò con te, e il mantenimento me lo conterai per salario. Un cotale accomodamento quadrava col modo di pensare della Pisana; e non isconveniva punto a me: solamente mi sarebbe abbisognata qualche professione per accrescere di qualche cosa le mie meschinissime entrate, finché la sospirata morte del Navagero porgesse comodità di pensare ad uno stabilimento definitivo. Per allora misi da banda questa idea; l'importante era di partir subito, perché la mia salute terminasse di raffermarsi. Io aveva in borsa un centinaio di ducati, la Pisana volle a tutti i costi consegnarmene altri duecento ch'ella avea ricavato da certe gioie, e con questa gran somma ci disposimo allegramente alla partenza. Prima di lasciar Venezia ebbi anche la fortuna di rivedere per l'ultima volta il vecchio Apostulos reduce allora dalla Grecia; egli era involto in quelle macchinazioni d'allora per la liberazione della sua patria mediante il patrocinio dei cosí detti Fanarioti o Greci di Costantinopoli; e faceva un gran correre qua e là col pretesto del commercio. Spiro, che propendeva al partito piú giovane, che poi soperchiò tutti gli altri e fomentò l'ultima guerra dell'indipendenza, ubbidiva di malincuore a suo padre in quelle congiure senza grandezza, dove pescava a suo profitto l'avara ambizione di qualche principe semiturco: perciò si stavano fra loro con qualche freddezza. Il vecchio Apostulos mi diede buone notizie del mio Gran Visir: egli era stato strangolato, secondo il comodissimo sistema usato allora dalla Porta invece di quell'altro europeo, a mille doppi piú dispendioso, delle giubilazioni. Ma il successore riconosceva la validità de' miei titoli; soltanto, siccome il credito ammontava a sette milioni di piastre e il tesoro di Sua Altezza non era a quel tempo molto ben fornito, voleva soprastare d'un qualche anno al pagamento. Cosí milionari di speranze, e con trecento ducati in tasca, io e la Pisana ci misimo in barca per Portogruaro, e giunsimo il secondo giorno, dopo rotte molto alzane, e perduto assai tempo nello scambio dei cavalli e negli arenamenti, sulle beate rive del Lemene. Il viaggio fu lungo ma allegro. La Pisana aveva, se non mi sbaglio, ventott'anni, ne mostrava venti, e nel cuore e nel cervello non ne sentiva infatti piú di quindici. Io, veterano della guerra partenopea ed ex-Intendente di Bologna, mano a mano che mi avvicinava al Friuli, mi rifaceva ragazzo. Credo che sbarcato a Portogruaro ebbi volontà di far le capriuole, come ne avea fatte sovente nel giardino de' Frumier, quando aveva ancora i denti di latte. La nostra allegria fu peraltro mescolata tantosto da qualche mestizia. I nostri vecchi conoscenti erano quasi tutti morti; de' giovani o coetanei, chi qua chi là, pochissimi in paese n'erano rimasti. Fulgenzio decrepito e rimbambito aveva paura de' suoi figli, ed era caduto in balía d'una fantesca astuta ed avara che lo tiranneggiava, e sapeva mettere a profitto la sua spilorceria per raggranellarsi un capitale. Il dottor Domenico sbuffava, ma con tutta la sua dottoreria non giungeva a liberar suo padre dalle unghie di quella befana. Don Girolamo, professore in Seminario e brillante campione del partito dei bassaruoli, pigliava le cose con filosofia. Secondo lui bisognava aspettare pazientemente che il Signore toccasse il cuore a suo padre; ma il dottore, che avea somma premura di toccargli la borsa, non si stava cheto a questi conforti del fratello prete. Fulgenzio passò di questo mondo pochi giorni dopo il nostro ritorno in Friuli; la sua morte fu accompagnata da un delirio spaventevole, si sentiva strappata l'anima di corpo dai demonii, e si stringeva tanto per paura alla mano della massaia che costei fu lí lí per dar un calcio all'eredità e lasciarlo nelle mani del becchino. Tuttavia l'avarizia la fece star salda, e tanto; che poiché il padrone fu morto convenne liberarle a forza il braccio dalle unghie rabbiose di lui. Apertosi il testamento, ella ebbe una bella somma di danaro in aggiunta a quello che aveva rubato. Seguivano molti legati di messe e di dotazioni di chiese e di conventi; da ultimo coronava l'opera una somma imponente erogata dal testatore per la costruzione d'un suntuoso campanile vicino alla chiesa di Fratta. E con ciò egli credette di aver dato l'ultima mano alla pulitura della propria coscienza e saldati i suoi conti colla giustizia di Dio. Di restituzioni alla famiglia di Fratta non si parlava punto; dovevano essere abbastanza felici i miserabili eredi degli antichi castellani di deliziarsi nella contemplazione del nuovo campanile. Don Girolamo si accontentava della sua quota che gli rimaneva non tanto piccola dell'eredità anche dopo tanta dispersione di legati; ma il dottore saltò in mezzo con cause e con cavilli. Il testamento fu inoppugnabile. Ognuno ebbe il suo, e si cominciarono ad accumulare sassi e calcine sul piazzale di Fratta per dare la richiesta forma di campanile alla postuma beneficenza del defunto sagrestano. Un'altra notizia stranissima ci diedero a Portogruaro del matrimonio poco tempo prima avvenuto del capitano Sandracca colla vedova dello speziale di Fossalta ch'era passata a dimorare presso di lui con una sua rendita di sette in ottocento lire. Il Capitano, molestato dalla promessa di celibato fatta alla defunta signora Veronica, ma piú ancora dalla miseria che lo stringeva, aveva messo tutto d'accordo componendo di suo capo una parlantina che si proponeva di spifferare alla prima moglie, incontratisi che si fossero in qualche contrada dell'altro mondo. Le dimostrava che non era valida e non obbligava per nulla un poveruomo quella promessa estorta in momenti di vera disperazione, e che ad ogni modo la pietà del marito doveva vincerla sopra un suo ghiribizzo di postuma gelosia. La assicurava che il cuore di lui rimaneva sempre pieno di lei, e che della spezialessa non amava in fondo altro che le settecento lire. E con ciò si lusingava che, commosse le viscere della signora Veronica, e convinta la sua ragionevolezza, non gli avrebbe tenuto il broncio per una infedeltà affatto apparente. Del resto, sposando una zitella il guaio sarebbe stato irrimediabile, ma con una vedova le cose si accomodavano assai facilmente. Costei tornava al primo marito, egli alla prima moglie, e non avrebbero piú avuto né un fastidio né una noia per omnia saecula saeculorum. - Il signor Capitano pappava saporitamente le settecento lire colla fondatissima speranza d'un grazioso perdono. Ma intanto noi avevamo già fatto il nostro ingresso nella diroccata capitale dell'antica giurisdizione di Fratta. Solo a vederla da lontano ci si strinse il cuore di compassione. Pareva un castello saccheggiato allora allora da qualche banda indiavolata di Turchi e abitato solamente dai venti e da qualche civetta malaugurata. Il capitano Sandracca ci rivide con molta titubanza; non capiva bene se venissimo a prenderne o a portarne. Monsignore Orlando invece ci accolse cosí tranquillo e sereno come appunto tornassimo allora dalla passeggiata d'un'ora. La sua nobile gorgiera si era stradoppiata, e camminava strascicandosi dietro le gambe, e lodandosi molto della propria salute, se non fosse stato quel maledetto scirocco che gli rompeva i ginocchi. Era lo scirocco degli ottant'anni, che ora provo anch'io e che soffia da Natale a Pasqua e da Pasqua a Natale con una insistenza che si fa beffa dei lunarii. Mentre la Pisana buona e spensierata faceva festa allo zio, e si divertiva di inquietarlo sulla durata del suo scirocco, io riuscii pian piano a rappiccar conoscenza colle vecchie camere del castello. Mi ricordo ancora che s'imbruniva la notte e che ad ogni porta ad ogni svoltata di corritoio credeva di vedermi dinanzi la negra apparizione del signor Conte e del Cancelliere o la faccia aperta e rubiconda di Martino. Invece le rondini entravano ed uscivano per le finestre recando le prime pagliuzze le prime imbeccate di poltiglia pei loro nidi; i pipistrelli mi sventolavano colle loro ali grevi e malsicure; nella stanza matrimoniale dei vecchi padroni cuculiava un gufo schernitore. Io andava vagando qua e là lasciandomi guidare dalle gambe e le gambe fedeli all'antica abitudine mi portarono al mio covacciolo vicino alla frateria. Non so come vi arrivassi sano e salvo per quei solai malconci e rovinati, per mezzo a quei lunghi androni dove le travature e i calcinacci caduti dal granaio impedivano ogni poco il passo e avevano preparato comodissimi trabocchetti per precipitare ai piani sottoposti. Una rondine aveva appostato il suo nido proprio a quel travicello sotto il quale Martino usava appendere il ramicello d'oliva alla domenica delle Palme. Alla pace era succeduta l'innocenza. Mi ricordai di quel libricciuolo trovato anni prima in quella camera, e che nel mio cuore disperato avea rimessa la rassegnazione della vita e la coscienza del dovere. Mi ricordai di quella notte piú lontana ancora quando la Pisana era salita a trovarmi e per la prima volta avea sfidato per me le sgridate e le busse della Contessa. Oh quella ciocca di capelli, io l'aveva sempre con me! Avea preveduto in essa quasi il compendio simbolico dell'amor mio; né le previsioni m'avevano ingannato. La voluttà mista di pianto, l'avvilimento avvicendato alla beatitudine, e la servitù alla padronanza, le contraddizioni e gli estremi non avevano mancato alla promessa: s'erano avvolti confusamente nel mio destino. Quanti dolori, quante gioie, quante speranze, quanta vita da quel giorno!... E chi sa quant'altri affanni, e quanta varietà di venture m'attendevano al varco prima che tornassi a riporre il piede su quel pavimento crollante e polveroso!... Chi sa se la mano degli uomini o il furore delle intemperie non avrebbero consumato l'opera vandalica di Fulgenzio e degli altri devastatori rapaci di quell'antica dimora!... Chi sa se un futuro padrone non avrebbe rialzato quelle mura cadenti, rintonacato quelle pareti, e raspato loro di dosso quelle fattezze della vecchiaia che parlavano con tanto affetto con tanta potenza al mio cuore!! Tale il destino degli uomini, tale il destino delle cose: sotto un'apparenza di giovialità e di salute si nasconde sovente l'aridità dell'anima e la morte del cuore. Tornai da basso che aveva gli occhi rossi e la mente allucinata da strani fantasmi; ma le risate della Pisana e la faccia serena e rotonda di Monsignore mi snebbiarono se non altro la fronte. Io m'aspettava ad ogni momento di esser richiesto se aveva imparato la seconda parte del Confiteor. Invece il buon canonico si lamentava che le onoranze non erano piú tanto abbondanti come una volta, e che quelle birbe di coloni invece di recargli i piú bei capponi, come sarebbe stata la scrittura, non davano altro che pollastrelle e galletti sfiniti tanto che scappavano pei fessi della stia. - E dicono che son capponi - soggiungeva sospirando - ma se mi sveglio la notte, li sento cantare che ne disgradano l'accusatore di san Pietro!... Indi a poco entrò il signor Sandracca col Cappellano, invecchiati, mio Dio, che parevano ombre di quello ch'erano stati; entrò anche la signora Veneranda, la madre di Donato, sposata di fresco al Capitano. Poteva competere con Monsignore per la pinguedine, e non pareva che le settecento lire portate in dote dovessero bastare a tenerla in carne. Gli è vero che i grassi mangiano alle volte piú parcamente dei magri. Ella mise sul tagliere una fetterella di lardo e sei uova, che dovevano convertirsi in frittata e comporre una cena. Ci esibí poi anche, colla bocca un po' stretta, di prepararci alla meglio due letti; ma noi eravamo già prevenuti delle commodità che si avevano allora in castello, e sapevamo che restando noi sarebbe toccato agli sposini irsene a dormire coi polli. Ebbimo perciò compassione di loro e delle sei uova, e risalimmo in calesse per andarcene a chieder ospitalità a Bruto Provedoni, come s'era stabilito fra noi prima di partire da Portogruaro. Non vi starò ora a dire né le festose accoglienze di Bruto e dell'Aquilina, né la mirabile cordialità colla quale quei due poveretti fecero nostra tutta la casa. Tutto era già combinato per lettera; trovammo due camerette a nostra disposizione, delle quali e del mantenimento che vollimo comune con essi, una modestissima dozzina ci sdebitava. Non era una mercede; era un mettere in comune le nostre piccole forze per difenderci contro le necessità che ci stringevano da ogni parte. L'Aquilina saltellava di piacere come una pazzerella; per quanto la Pisana volesse aiutarla ai primi giorni nelle faccenduole di casa, tutto era sempre pronto ed in assetto. Bruto, uscito il mattino per le sue lezioni, tornava sull'ora del pranzo e c'intrattenevamo insieme fino a notte lavorando, ridendo, leggendo, passeggiando, che le ore volavano via come farfalle sulle ali d'un zeffiro di primavera. M'era scordato di dirvi che a Padova durante la mia intrinsichezza con Amilcare io aveva imparato a pestare la spinetta. Il mio squisitissimo orecchio mi fece acquistare qualche abilità come accordatore, e lí a Cordovado mi risovvenni in buon punto di quest'arte imparata, come dice il proverbio, e messa provvidamente da parte. Bruto mi mise in voce nei dintorni come il corista piú intonato che si potesse trovare; qualche piovano mi chiamò per l'organo; aiutato dal ferraio del paese e dalla mia sfacciataggine me la cavai con discreto onore. Allora la mia fama spiccò un volo per tutto il distretto, e non vi fu piú organo né cembalo né chitarra che non dovesse esser tormentata dalle mie mani per sonar a dovere. Il mio ministero di cancelliere m'avea reso popolare un tempo, e il mio nome non era affatto dimenticato. In campagna chi è buon cancelliere non ha difetto a farsi anche credere buon accordatore, e in fin dei conti a forza di rompere stirare e torturar corde, credo che riuscii a qualche cosa. Finalmente diedi il colmo alla mia gloria esponendomi come suonator d'organo in qualche sagra in qualche funzione. Sul principio m'azzuffava sovente cogli inesorabili cantori del Kyrie o del Gloria; ma imparai in seguito la manovra, ed ebbi il contento di vederli cantare a piena gola senza volgersi ogni tanto pietosamente a interrogare e a rimproverare cogli occhi il capriccioso organista. Anche questa ve l'ho detta. Di maggiordomo mi feci organista; e tenetevelo bene a mente, ché la genealogia de' miei mestieri non è delle piú comuni. Bensí vi posso assicurare che m'ingegnava a guadagnarmi il pane, e tra Bruto maestro di calligrafia, la Pisana sarta e cucitrice, l'Aquilina cuoca, e il vostro Carlino organista, vi giuro che alla sera si rappresentavano delle brillanti commediole tutte da ridere. Ci mettevamo in canzone a vicenda: eravamo intanto felici, e la felicità e la pace mi resero a tre tanti la salute che aveva prima. Alle volte andava a Fratta e conduceva fuori a caccia il signor Capitano e il suo cane. Il Capitano non voleva uscire da quattro pertiche di palude che sembravano da lui prese in affitto e nelle quali le anitre e le gallinelle si guardavano bene di porre il piede. Il suo cane poi aveva il vizio di fiutar troppo in aria e di guardar le piante; pareva andasse a caccia piuttosto di persici che di selvaggina; ma a furia di gridare io gl'insegnai a guardar per terra, e se non colsi in una mattina i ventiquattro beccaccini del nonno di Leopardo, mi venne fatto sovente di metterne nella bisaccia una dozzina. Cinque ne cedeva al Capitano e a Monsignore; gli altri li teneva per noi, e lo spiedo girava, ed io era tentato molte volte di mettermi nelle veci del girarrosto; ma poi mi ricordava di essere stato intendente e mi rimetteva in atto di maestà. I nostri ospiti mi entravano nel cuore ogni giorno piú. Bruto era diventato si può dire mio fratello, e l'Aquilina, non so se mia sorella o figliuola. La poverina mi voleva un bene che nulla piú; mi seguiva dovunque, non faceva cosa che non bramasse prima sapere se mi riescirebbe gradita. Vedeva si può dire cogli occhi miei, udiva colle mie orecchie, pensava colla mia mente. Io per me cercava di retribuirla di tanto affetto coll'esserle utile; le veniva insegnando un poco di francese nelle ore di ozio, e a scrivere correttamente in italiano. Fra maestro e scolara succedevano alle volte le piú buffe guerricciole nelle quali s'intromettevano a scaramucciare col miglior garbo anche la Pisana e Bruto. Avea preso tanto amore a quella ragazza che mi sentiva crescere per lei in capo il bernoccolo della paternità, e nessun pensiero aveva meglio fitto in testa che quello di accasarla bene, di trovarle un buono e bravo giovine che la rendesse felice. Di ciò si discorreva a lungo tra noi quand'ella era occupata nelle cose di famiglia; ma ella non pareva molto disposta a secondare le nostre idee; bellina com'era con quelle sue fattezze un po' strane un po' riottose, eppur buona e savia come un'agnelletta, non le mancavano adoratori. Pure se ne mostrava affatto schiva; e alla fontana o sul piazzale della Madonna stava piú volentieri con noi che collo sciame delle zitelle e dei vagheggini. La Pisana la incoraggiava a divertirsi a prendersi spasso; ma poi dispiacente di vedersi ingrognare a questi suoi eccitamenti il bel visino dell'Aquilina, se la prendeva fra le braccia e la copriva di carezze e di baci. Erano piú che due sorelle. La Pisana la amava tanto che io ne ingelosiva; se l'Aquilina la chiamava, certo ch'ella si stoglieva da me e correva da lei, capace anco di farmi il muso s'io osava trattenerla. Cosa fosse questa nuova stranezza, io non capiva allora; ma forse ci vidi entro in seguito, per quanto si può veder chiaro in un temperamento cosí misterioso e confuso come quello della Pisana. Dopo alcuni mesi di questa vita semplice laboriosa tranquilla, gli affari della famiglia di Fratta mi richiamarono a Venezia. Si trattava di ottenere dal conte Rinaldo la facoltà di alienare alcune valli infruttifere affatto verso Caorle e le quali erano richieste da un ricco signore di quelle parti che tentava una vasta bonificazione. Ma il Conte, tanto trascurato ed andante per solito, si mostrava molto restio a quella vendita e non voleva accondiscendere per quanto evidenti fossero i vantaggi che gliene doveano derivare. Egli era di quegli animi indolenti e fantastici che svampavano in sogni in progetti ogni loro attività; e appoggiano le loro speranze ai castelli in aria per esimersi appunto di fabbricare in terra qualche cosa di sodo. Nella futura coltivazione di quelle fondure paludose egli sognava il ristoro della sua famiglia e non voleva per oro al mondo frodare la propria immaginazione di quel larghissimo campo d'esercizio. Arrivato a Venezia trovai le cose mutate d'assai. Le straordinarie giubilazioni per l'aggregazione al Regno Italico aveano dato luogo mano a mano ad un criterio piú riposato del bene che ne proveniva al paese. Francia pesava addosso come qualunque altra dominazione; forse le forme erano meno assolute ma la sostanza rimaneva la stessa. Leggi volontà movimento, tutto veniva da Parigi come oggidí i cappellini e le mantiglie delle signore. Le coscrizioni eviravano letteralmente il popolo; le tasse le imposizioni mungevano la ricchezza; l'attività materiale non compensava il paese di quello stagnamento morale che intorpidiva le menti. Gli antichi nobili governanti, o avviliti nell'inerzia, o rincantucciati nei posti piú meschini dell'amministrazione pubblica; i cittadini, ceto nuovo e ancora scomposto, inetti per mancanza d'educazione al trattamento degli affari. Il commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali riducevano Venezia una cittaduzza di provincia. La miseria l'umiliazione trapelavano dappertutto, per quanto il Viceré s'ingegnasse di coprir tutto collo sfarzo glorioso del manto imperiale. Gli Ormenta, i Venchieredo duravano ancora al governo; né cacciarli si poteva perché erano i soli che se ne intendessero; ponendo poi sopra loro altri dignitari francesi e forestieri, s'avea ferito l'orgoglio municipale senza raddrizzare l'andamento obbliquo ed oscuro della cosa pubblica. A Milano, dove o bene o male erano sgusciati da una repubblica, lo spirito pubblico fermentava ancora. A Venezia la conquista succedeva alla conquista, i servitori succedevano ai servitori colla venale indifferenza di chi cerca l'interesse del padrone che paga. Io rimasi un po' sfiduciato di quei segni d'indolenza e di trascuratezza: vidi che Lucilio non avea poi tutto il torto di esser fuggito a Londra, anzi che il buonsenso pubblico stava per lui. Ma per quanto io avessi cercato di rappiccare corrispondenza con lui, egli non si degnava piú di rispondere alle mie lettere. Io mi stancai di picchiare dove non mi si voleva aprire, e m'accontentai di ricevere sue novelle di rimbalzo o da qualche conoscente di Portogruaro o dalle voci che correvano in piazza. Lo si diceva medico in gran fama a Londra, e accreditatissimo presso le principali famiglie di quell'aristocrazia. Sperava molto nell'Inghilterra per la cacciata del tiranno Bonaparte dalla Francia e pel riordinamento dell'Italia: le idee giuste e moderate non gli aveano durato a lungo; la smania del fare e del disfare lo aveva tratto fuori di strada un'altra volta. Comunque la sia io non mi fermai a Venezia che circa un mese sperando sempre di ottenere dal conte Rinaldo la sospirata procura; ma non altro mi venne fatto d'estorcergli che il permesso di vendere alcune pezze staccate di quei paduli; il resto lo volea proprio serbare per la futura redenzione della famiglia. Cosí si cavarono da quelle vendite poche migliaia di lire che servirono soltanto a fornire di qualche posta piú grossa il tavoliere da gioco della vecchia Contessa. È proprio vero che la morte ruba i migliori, e lascia gli altri; costei ch'era la rovina della casa non facea mostra di volersene andare; e cosí pure quell'incommodo marito Navagero s'ostinava a non voler lasciar vedova la moglie. Io sperava di condur meco in Friuli l'Aglaura e alcuno de' suoi ragazzini; ma la morte della suocera la trattenne in famiglia: vera disgrazia, anche perché l'aria campagnuola le avrebbe giovato per certi incommoducci che la cominciava a soffrire. Spiro, robusto come un tanghero, non voleva credere alla gracilità della moglie; ma il fatto sta che a non curarsi dapprincipio con qualche distrazione con qualche viaggio, la sua salute divenne sempre piú cagionevole econtinua |
|
Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 | Etichettato con ICRA | |
copyright © 2004 www.astalalista.tk
This page is powered by Copyright Button(TM). Click here to read how this page is protected by copyright laws. All logos and trademarks in this site are property of their respective owner. |
Manda qualunque commento al Webmaster |