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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italiano

Ippolito Nievo
guadagnar la vita per tutti e due. Io scrollai il capo, ché non ebbi molta  fede
in quel coraggio lontano ancora dalla prova; ma per  quanto  ci  credessi  poco,
dovetti pagare le cento messe e la pigione della  Rosa,  e  finalmente  la  vidi
contenta quando non ci restavano che venti ducati all'incirca per scongiurare il
futuro. Ma c'era poco lontano gente che si prendeva gran cura dei fatti  miei  e
lavorava sott'acqua per cavarmi d'impiccio: volevano precipitarmi dalla  padella
nelle bragie e ci riescirono. Il dover mio era di farmi abbrustolire già  da  un
mese prima, e potrei anche ringraziarli del  gran  merito  ch'essi  acquistarono
presso la mia coscienza. La scena della Pisana coll'ufficiale còrso  avea  fatto
chiasso, come dissi, per tutta Venezia;  la  sua  disparizione  dalla  casa  del
marito aggiungeva mistero all'avventura, e se ne contavano di  cosí  strane,  di
cosí grosse che a ripeterle sembrerebbero fole. Chi la vedeva vagare vestita  di
bianco sotto le Procuratie nella profondità della notte; chi affermava di averla
incontrata in qualche calle deserta con un pugnale in mano e una  face  resinosa
nell'altra, come la statua  della  discordia;  i  barcaiuoli  narravano  ch'ella
errava tutta notte per le lagune, soletta sopra una gondola che  avanzava  senza
remi e lasciava dietro di sé per le acque  silenziose  un  solco  fosforescente.
Alcuni tonfi si udivano di tanto in tanto intorno alla  misteriosa  apparizione;
erano i nemici di Venezia da lei strappati magicamente alla quiete del  sonno  e
precipitati nei  gorghi  del  canale.  Queste  chiacchiere  immaginose,  cui  la
credulità popolare aggiungeva ogni giorno alcun fiore poetico, garbavano poco  o
nulla al nuovo governo provvisorio stabilito dagli Imperiali dopo la partenza di
Serrurier. Erano sintomi di poca simpatia,  e  conveniva  guarire  la  gente  di
questo ticchio poetico. Perciò si davano attorno per iscoprire la  dimora  della
Pisana; ma le indagini rimanevano senza effetto,  e  nessuno  certo  si  sarebbe
immaginato ch'ella abitasse con me, mentre io stesso era creduto a  quei  giorni
ben lontano dalle lagune. La nostra zingara era stata incorruttibile; a  qualche
sbirro travestito che era venuto a chieder conto dei padroni di casa,  ell'aveva
risposto che da gran tempo mancavano da Venezia, e cosí non ci  avevano  seccato
piú. Sapendo che mio padre s'era imbarcato pel Levante,  mi  giudicavan  partito
con lui, o con gli  altri  disgraziati  che  aveano  cercato  una  patria  nelle
tranquille città della Toscana o nelle tumultuanti provincie della Cisalpina. La
scoperta fatta da Raimondo Venchieredo mise la sbirraglia sulle mie tracce. Egli
ne parlò a suo padre come d'una curiosità; il vecchio  volpone  ne  tenne  conto
come d'un grasso  guadagno,  e  cosí,  dopo  consultatosi  col  reverendo  padre
Pendola, decise di farsi un merito presso  il  Governo  col  dipingermi  per  un
pericoloso macchinatore appiattato a Venezia e disposto  a  Dio  sa  qual  colpo
disperato. La mia convivenza con quella furiosa eroina, che  avea  fatto  parlar
tanto il volgo e gli sfaccendati, aggiungeva nerbo all'accusa. Infatti una bella
mattina che sorseggiava  tranquillamente  il  caffè  pensando  alla  maniera  di
prolungar piucché fosse possibile l'utilissimo servizio di sette o  otto  ducati
che mi rimanevano, sentii  un  furioso  scampanellare  alla  porta,  e  poi  una
confusione di voci che gridavano rispondevano s'incrociavano dalla finestra alla
calle, e dalla calle alla finestra. Mentre porgeva l'orecchio a  quel  fracasso,
udii un grande strepitio come d'una porta sgangherata a forza, e poi successe un
secondo colpo piú forte del primo, e un gridare e un tempestare che  non  finiva
piú. Stavamo appunto io e la Pisana per  uscire  ad  osservare  cosa  succedeva,
quando la nostra zingara si precipitò nella stanza  col  naso  insanguinato,  la
veste tutta a brandelli, e un'enorme paletta da fuoco tra mano. Era  quella  che
mio padre adoperava per far i profumi secondo la  usanza  di  Costantinopoli.  -
Signor padrone -  gridava  ella,  sfiatata  pel  gran  correre  -  ne  ho  fatto
prigioniero uno che è di là chiuso in cucina colla  faccia  spiattita  come  una
torta... ma fuori ne sono altri  dodici...  Si  salvi  chi  può...  Vengono  per
arrestarlo... Dicono che l'è  un  reo  di  Stato...  La  Pisana  non  la  lasciò
continuare; corse a chiudere la porta, e adocchiando la finestra  che  dava  sul
canale, cominciò a dirmi che badassi a me, a scappare, a  salvarmi,  che  questo
urgeva piú di tutto. Io non sapeva che fare, e un salto dalla finestra mi  parve
la maniera piú commoda di cavarmela. Pensare e fare fu ad un  punto;  mi  buttai
fuori senza guardar prima né dove né come cadessi,  persuasissimo  che  acqua  o
terra qualche cosa avrei incontrato. Incontrai  invece  una  gondola  dentro  la
quale travidi durante il volo la faccia di Raimondo Venchieredo  che  spiava  le
nostre finestre. Il colpo che diedi sopra il fondo della barca mi sconciò  quasi
una spalla, ma le capriole della mia infanzia e la ginnastica  di  Marchetto  mi
avevano usato le ossa a simili scompigli. Mi rizzai come un gatto, piú svelto di
prima, corsi verso la prora  per  balzare  sull'altra  riva,  ma  mi  si  oppose
involontariamente Raimondo che stava allora per uscire di sotto al felze,  e  si
fermò spaventato dal quel corpo che nel cadere gli avea fatto dondolare sotto  i
piedi la gondola. - Ah sei tu, sciagurato?  -  gli  dissi  io  rabbiosamente.  -
Prenditi la mercede del tuo spionaggio! E gli menai un tal  manrovescio  che  lo
mandò a rotolare sulla forcola ove per poco non  si  ebbe  a  cavar  gli  occhi.
Intanto io avea guadagnato la riva e  salutato  d'un  gesto  la  Pisana  che  mi
guardava dal balcone e mi esortava a far presto e  a  fuggire.  La  zingara  mia
salvatrice stava  ancora  colla  sua  paletta  dinanzi  alla  porta  sgangherata
spaventando colla sua attitudine guerresca i dodici sbirri, nessuno dei quali si
sentiva volontà di seguire il caporione nella casa per incontrarvi quella brutta
sorte che forse egli vi aveva incontrato. Badando meglio essi lo avrebbero udito
strillare; chiuso nella cucina e col muso pestato dalla tremenda paletta egli si
lamentava sulla nota piú alta della sua scala di basso, come un vero  porcellino
condotto al mercato. Io avea veduto tuttociò in un lampo e prima che Raimondo si
riavesse o i birri mi scoprissero era scomparso per una  calletta  che  tagliava
giù lí presso. In quella confusione di fatti e di idee fu una  vera  provvidenza
che mi saltasse in capo di rifugiarmi presso gli Apostulos. Come  anche  feci  e
arrivai a salvamento senza nessun maggiore fastidio  che  quell'arrischiatissimo
salto dalla finestra. I miei amici furono contentissimi di vedermi salvo  da  sí
grave pericolo; ma pur troppo non si poteva ancora cantar vittoria, e finché non
fossi fuori dalle lagune, anzi dalle provincie di qua dall'Adige, la mia libertà
correva grandissimo rischio. - Dunque dove fareste conto di andare? - mi  chiese
il vecchio banchiere. - Ma... a Milano! - risposi io, non sapendo  neppure  cosa
mi dicessi. - Proprio persistete nell'idea d'andar a Milano? - mi domandò a  sua
volta l'Aglaura. - Pare il miglior partito - io  soggiunsi  -  e  laggiù  ci  ho
infatti i miei migliori amici, e mi aspettano da un pezzo. Spiro  era  corso  da
basso a licenziare la gente dello studio mentre si facevano cotali  discorsi,  e
l'Aglaura pareva disposta a muovermi qualche altra inchiesta  quand'egli  tornò.
Allora ella mutò viso e stette ad ascoltare come si prendesse cura di nulla;  ma
ella mi spiava premurosamente ogniqualvolta suo fratello voltava via l'occhio, e
la udii sospirare quando suo padre mi disse che con un travestimento greco e  il
passaporto d'un loro commesso io avrei potuto partire l'indomani mattina. -  Non
prima - soggiunse  egli  -  perché  tutte  le  polizie  sono  molto  occhiute  e
guardinghe sui primi momenti e cadreste facilmente  nelle  loro  unghie.  Domani
invece non guarderanno tanto pel sottile perché  vi  crederanno  già  uscito  di
città, ed essendo festa i doganieri saranno occupatissimi a  riveder  le  tasche
dei  campagnuoli  che  entrano.  La  vecchia,  che  era  accorsa  anco   lei   a
congratularsi del mio salvamento, approvò del capo. Spiro soggiunse che sbarcato
a Padova farei benissimo a  spogliarmi  del  mio  travestimento,  e  a  prendere
qualche strada di traverso per toccar il confine; il vestir alla  greca  avrebbe
dato troppo nell'occhio. Io  risposi  a  tutti  di  sí,  e  venni  ad  un  altro
argomento, a quello dei denari. Coi sette ducati che avea in tasca non potea già
sognarmi di giungere a Milano; mi occorreva  proprio  una  sommetta;  e  siccome
anche i frutti anticipati d'un anno non mi bastavano, e  d'altra  parte  qualche
mezzo di sussistenza voleva lasciarlo alla Pisana, cosí proposi al greco che  mi
pagasse mille ducati, e del  restante  capitale  contasse  d'anno  in  anno  gli
interessi nelle mani della nobile contessina Pisana di Fratta, dama Navagero. Il
greco ne fu contentissimo: stesi la ricevuta e la procura in regola e avvisai la
Pisana con una lettera di queste mie provvidenze, includendole anche  una  carta
colla quale la investiva dell'usufrutto della mia casa. Non si sapeva mai quanto
potessi restarmene assente, e il meglio si era provvedere per un  pezzo;  né  io
temeva che la Pisana si sarebbe tenuta offesa di queste mie prestazioni,  perché
il nostro amore non era di quelli che si credono avviliti per simili  minuzzoli.
Chi ne ha ne dia; è la regola generale per tutto il prossimo; figuratevi poi tra
due amanti che piú che prossimi devono esser tra loro una cosa sola!  Or  dunque
dato che ebbimo ordine a questi negozi, si  pensò  a  metter  in  grado  il  mio
stomaco di sostener le fatiche del primo giorno d'esiglio. Era già sera, io  non
avea preso da ventiquattr'ore null'altro che un caffè, pure non  avea  piú  fame
che se mi fossi alzato allor allora da un banchetto di nozze. Cosa volete? Sulla
mensa vi avevano a destra ed a sinistra de' gran bottiglioni  di  Cipro,  io  mi
fidai di quelli, e mentre gli altri mangiavano e m'incoraggiavano a mangiare, mi
diedi invece a bere per la disperazione. Bevetti tanto che non intesi piú  nulla
dei gran discorsi che mi tennero dopo cena; soltanto mi  parve  che  rimasto  un
momento solo colle donne l'Aglaura mi sussurrasse qualche parola all'orecchio, e
che seguitasse poi a premermi il ginocchio e ad urtarmi il piede sotto la tavola
quando Spiro e suo padre furono tornati. Per garbo d'ospitalità  essi  l'avevano
collocata nel posto vicino al mio. Io non ci capiva nulla di quella manovra;  mi
trascinai bene o male  fino  al  letto  che  mi  fu  assegnato  e  dormii  tanto
porcellescamente che mi sentiva russare. Ma alla mattina quando  mi  svegliarono
fu un altro paio  di  maniche!  Alla  tempesta  era  succeduta  la  calma,  allo
sbalordimento il dolore.  Fino  allora  avea  prolungato  ostinatamente  le  mie
speranze, come il tisico; ma alla fine dava di cozzo nella brutta necessità,  né
ritrarsi né sperare valeva piú. Non potei nemmen  dire  che  ebbi  la  forza  di
uscire dal letto, di vestire i miei nuovi arnesi alla greca, e di congedarmi dai
miei ospiti. In questi movimenti il mio corpo non si prestava che colla  sciocca
ubbidienza d'un automa, e quanto all'anima io potea  credere  d'averla  lasciata
nel vino di Cipro. Spiro m'accompagnò alla Riva del Carbone donde partiva allora
la corriera di Padova; mi promise che le  notizie  di  mio  padre  mi  sarebbero
puntualmente comunicate e mi lasciò con una stretta di mano. Io  stetti  lí  sul
ponte a guardare Venezia, a contemplare  mestamente  le  cupe  acque  del  Canal
Grande dove i palazzi degli ammiragli e dei dogi  sembravano  specchiarsi  quasi
desiderosi dell'abisso. Sentiva di dentro un laceramento come dei visceri che mi
fossero strappati; indi rimasi immobile smarrito privo affatto di vita come  chi
si trova di fronte ad una sventura che finirà solo colla morte. Non  mi  accorsi
della partenza della barca; eravamo già al largo  sulla  laguna  che  io  vedeva
ancora il Palazzo Foscari e il ponte di Rialto. Ma quando si giunse alla dogana,
e ci fu data la voce di fermarsi con un accento che  non  era  certo  veneziano,
allora uscii a un tratto da  quelle  angosce  fantastiche  per  rientrare  nella
stretta d'un vero e profondo dolore! Allora tutte le sventure della  mia  patria
mi si schierarono dinanzi mescolate alle mie, e tutte una per una  mi  ficcarono
dentro nel cuore il loro coltello! Ci eravamo spiccati appena dall'approdo della
dogana, quando fummo sopraggiunti  da  un  veloce  caiccio  che  ci  gridava  di
aspettare. Il pilota fermò infatti e fui maravigliatissimo  un  minuto  dopo  di
rivedere il giovane Apostulos sulla tolda della corriera. Mi accostò con qualche
turbamento adocchiando a diritta ed a sinistra e disse, un po' confuso,  che  si
avea dato fretta di raggiungermi per  dirmi  il  nome  d'altri  suoi  amici  che
potevano a Milano giovarmi oltremodo. Io mi stupii d'una tale  premura,  giacché
si usa in tali circostanze munire il viaggiatore di commendatizie: ciononostante
lo ringraziai, ed egli si partí cercando del padrone della barca al quale diceva
di volermi raccomandare. Con tale pretesto scese nel casotto e lo  vidi  infatti
bisbigliare qualche parola all'orecchio del padrone: questi  si  affaccendava  a
rispondergli di no, e gli faceva cenno come di accomodarsi pure  e  di  guardare
dove voleva. Spiro andò innanzi fino in fondo al casotto, vide alcuni barcaiuoli
che dormivano ravvolti nel loro cappotto, e  tornò  indietro  con  un  viso  che
voleva parere indifferente. - Capperi! che corriera di lusso ci avete! -  sclamò
egli spiandola tutta da prora a poppa coi suoi occhi di falco; e ficcò  il  naso
in tutti i bugigattoli con qualche stizza del piloto a cui  tardava  di  dar  la
volta al timone. - Posso partire? - chiese costui al capitano per dar fretta  di
andarsene a quell'importuno visitatore. - Aspettate prima che me ne vada  io!  -
soggiunse Spiro saltando dalla corriera nel caiccio, e salutandomi astrattamente
con un gesto. Io capiva che pel solo motivo dettomi egli non avea  raggiunto  la
barca e visitatala con tutta diligenza: ma era troppo sconvolto e addolorato per
dilettarmi di castelli in aria, e cosí in breve egli mi uscí di mente, e  tornai
a  guardare  Venezia  che  si  allontanava  sempre  piú  in  mezzo  alla  nebbia
azzurrognola delle sue lagune. La pareva oggimai un sipario da teatro  scolorato
dalla polvere e dal fumo della ribalta. O Venezia, o madre antica di sapienza  e
di  libertà!  Ben  lo  spirito  tuo  era  allora  piú  sparuto  e  piú  nebbioso
dell'aspetto! Egli svaniva oggimai in quella  cieca  oscurità  del  passato  che
distrugge perfino le orme della vita; restano le memorie, ma altro non sono  che
fantasmi; resta la speranza, il lungo  sogno  dei  dormenti.  T'aveva  io  amato
moribonda e decrepita?... Non so, non voglio dirlo. - Ma quando ti vidi ravvolta
nel sudario del sepolcro, quando ti ammirai bella  e  maestosa  fra  le  braccia
della morte, quando sentii freddo il tuo cuore e spento  sulle  labbra  l'ultimo
alito, allora una tempesta di dolore di disperazione di rimorso  mi  sollevò  le
profonde passioni dell'anima!... Allora provai  la  rabbia  del  proscritto,  la
desolazione dell'orfano, il tormento del parricida!...  Parricidio,  parricidio!
gridano  ancora  gli  echi  luttuosi  del  Palazzo  Ducale.  Potevate  lasciarsi
addormentare in pace la vostra madre che moriva, sulle  bandiere  di  Lepanto  e
della Morea: invece la strappaste con nefanda audacia da quel letto  venerabile,
la metteste a giacere sul lastrico, le danzaste intorno ubbriachi e  codardi,  e
porgeste ai suoi nemici il  laccio  per  soffocarla!...  V'hanno  certi  momenti
supremi nella vita dei popoli che gli inetti son traditori, quando si arrogano i
diritti del valore e della sapienza. Eravate impotenti a salvarla? Perché non lo
avete confessato alla faccia del mondo?  Perché  vi  siete  mescolati  coi  suoi
carnefici? Perché alcuni tra  voi  dopo  aver  inorridito  del  nefando  mercato
stesero la mano alle elemosine dei compratori? Pesaro fu solo  nella  virtù;  ma
primo e piú vile di tutti nell'umiliarsi, ebbe molti ebbe troppi imitatori.  Ora
io non accuso ma vendico; non insulto ma confesso.  Confesso  quello  che  avrei
dovuto fare e non feci; quello che poteva e non volli vedere; quello che commisi
per avventatezza, e deplorerò sempre come  un  vile  delitto.  Il  Direttorio  e
Buonaparte ci tradirono, è vero; ma a quel modo si lasciano tradire solamente  i
codardi. Buonaparte usò con Venezia come  coll'amica  che  intende  l'amore  per
servitù e bacia la mano  di  chi  la  percote.  La  trascurò  in  principio,  la
oltraggiò poi, godette in seguito d'ingannarla, di sbeffeggiarla, da  ultimo  se
la pose sotto i piedi, la calpestò come una baldracca, e le disse  schernendola:
- Vatti, cerca un altro padrone!... Nessuno potrà forse comprendere senza averlo
provato il profondo abbattimento che mi  veniva  nell'anima  da  tali  pensieri.
Quando poi lo raffrontava all'allegra e spensierata felicità  che  me  lo  aveva
ritardato  d'alcuni  giorni,  crescevano,  se  era  possibile,  lo  sconforto  e
l'ambascia. Era proprio vero. Io avea toccato l'apice dei miei desiderii;  aveva
stretto fra le mie braccia bella contenta amorosa la prima  la  sola  donna  che
avessi mai amato; quella che io aveva figurato fin  dai  primi  anni  essere  la
consolazione della mia vita, e  il  rimedio  d'ogni  dolore,  mi  aveva  colmato
inebbriato di quante voluttà possono mai  capire  in  seno  mortale!...  E  cosa
stringeva in pugno di tutto ciò? Un rimorso! Ebbro ma non satollo, vergognoso ma
non pentito, io lasciava le vie dell'amore per quelle  dell'esiglio,  e  se  gli
sbirri non si fossero  presi  la  briga  di  avvertirmene  io  sarei  rimasto  a
profanare il funebre lutto di Venezia colla  sfacciataggine  de'  miei  piaceri.
Cosí perfino il nutrimento dell'anima mi si volgeva in veleno, ed era  costretto
a disprezzar quello che ancora desiderava possedere piú  ardentemente  che  mai.
Pallido stravolto agitato, senza toccar cibo né bevanda,  senza  né  guardar  in
viso né rispondere alle  domande  de'  miei  compagni  di  viaggio,  lasciandomi
sobbalzare qua e là dai gomiti poco guardinghi dei barcaiuoli, giunsi finalmente
a Padova. Scesi a terra  non  ricordandomi  quasi  piú  dove  mi  fossi,  e  non
conoscendo  quell'argine  del  canale  ove  tante  volte  avea  passeggiato  con
Amilcare. Domandai pertanto d'un'osteria, e me ne fu additata una alla destra di
Porta Codalunga, ove appunto pochi anni or sono fu costruito il gazometro. Mi vi
avviai col mio fardello sotto il braccio,  seguitato  da  alcuni  birichini  che
ammiravano il mio vestimento orientale: entratovi chiesi una stanza,  e  qualche
cosa da ristorarmi. Là mi cangiai di abito, presi un  po'  di  cibo,  non  volli
saperne di vino, e pagato il piccolo scotto, uscii dalla bettola dicendo a  voce
alta che vestito a quel modo sperava di non dar  nell'occhio  ai  monelli  della
città. Infatti feci le viste di avviarmivi; ma giunto alla porta tirai  oltre  e
la diedi giù per un viottolo che a mia memoria doveva riuscire sulla  strada  di
Vicenza. Uscendo dall'osteria avea sbirciato un tale che aveva muso  di  tenermi
dietro avvisatamente; e voleva chiarirmi  della  verità.  Infatti  guardando  di
traverso io vedeva sempre  quest'ombra  che  seguitava  la  mia,  che  allentava
sollecitava e fermava il passo con me. Svoltato giù per quel viottolo udiva  del
pari un passo leggiero e prudente che mi accompagnava; sicché  non  v'aveva  piú
dubbio, quel cotale era lí proprio per me.  Pensai  subito  al  Venchieredo,  al
padre Pendola, all'avvocato Ormenta e ai loro spioni: allora non sapeva  che  il
degno avvocato sedeva al  governo  per  la  accorta  protezione  del  reverendo.
Tuttavia mi parve che la franchezza fosse  il  miglior  partito  e  quando  ebbi
tirato il mio cagnotto da ferma nell'aperta campagna mi volsi  precipitosamente,
e mi slanciai sopra di lui per ghermirlo, se si poteva,  e  pagarlo  con  doppia
moneta della non chiesta compagnia. Con mia gran sorpresa colui né si  mosse  né
diede segno di spavento; anzi aveva intorno un cappotto da marinaio e ne abbassò
il cappuccio per discoprirsi meglio. Io  allora  deposi  anch'io  la  parte  piú
pericolosa della mia rabbia, e mi accontentai di tenergli ricordato che non  era
lecito starsi a quel modo sulle calcagna d'un galantuomo. Mentre io gli  parlava
ed egli mi guardava con un cipiglio piuttosto indeciso e turbato,  mi  parve  di
travedere nelle sue sembianze la memoria d'una persona a  me  notissima.  Passai
rapidamente in rassegna tutti i miei amici di Padova; ma nessuno gli  somigliava
per nulla, invece un certo presentimento si ostinava a presentarmi quella figura
come veduta poco tempo prima, e viva ancora, vivissima nelle mie rimembranze.  -
Dunque non vuol proprio conoscermi? - mi disse colui mettendosi la  palma  della
mano sul volto, e con tal voce che  mi  rischiarò  subito  il  discernimento.  -
Aglaura, Aglaura! - io sclamai. - Vedo o stravedo? - Sí, sono  Aglaura,  son  io
che vi seguo fino da Venezia, che stetti con voi nella medesima  barca,  che  mi
refocillai alla stessa osteria, e che non avrei avuto il coraggio di scoprirmi a
voi se i vostri sospetti non  vi  facevano  rivolgere  a  me.  -  Adunque  -  io
soggiunsi fuori di me per la sorpresa - adunque  Spiro  cercava  di  voi  questa
mattina?... - Sí, egli cercava di me. Rientrando a casa  e  non  trovandomi  piú
perché io era venuta intanto alla corriera dopo avermi cangiati gli abiti presso
la nostra lavandaia, egli si sarà insospettito di quanto  già  temeva  da  lungo
tempo. È vero ch'era uscita colla cameriera; ma  costei  sarà  tornata  narrando
com'io l'avea pregata di lasciarmi sola in  chiesa  e  i  sospetti  gli  saranno
cresciuti. Fortuna che per la fretta non ebbe tempo di chiarirsi se quella fosse
la verità od una scusa; e cosí quando domandò al padrone se non  aveva  donne  a
bordo e colui gli rispose di no, credette davvero ch'io fossi rimasta a pregare,
e cercassi forse nella preghiera la forza di resistere alle  tentazioni  che  da
tanto tempo mi  assediavano.  Povero  Spiro!...  Egli  mi  vuole  bene,  ma  non
m'intende, non mi compatisce!... Anziché intercedere per me egli sarà quello che
si farà esecutore delle maledizioni di mio padre!... Da queste parole dal  suono
della voce dal tenor degli sguardi io mi persuasi  che  la  povera  Aglaura  era
innamorata di me, e che il dolore di perdermi l'avea  menata  a  quel  consiglio
disperato di seguirmi. Io mi sentiva pieno di riconoscenza  di  compassione  per
lei. Se la Pisana fosse rimasta con Sua Eccellenza Navagero,  o  fosse  scappata
col tenente Minato, credo che avrei amato di colpo l'Aglaura non foss'altro  per
riconoscenza. Ma  sono  stanco  di  scrivere,  e  voglio  chiudere  il  capitolo
lasciandovi nell'incertezza di quello che ne avvenne poi.


CAPITOLO DECIMOQUINTO

Il viaggio può esser buono benché fu cattiva la partenza. Arriviamo a Milano  il
giorno della Festa per la Federazione della Repubblica Cisalpina. Io comincio  a
veder chiaro, ma forse anche a sperar troppo  nelle  cose  di  questo  mondo.  I
soldati cisalpini e la Legione Partenopea di Ettore Carafa. Di punto  in  bianco
divento ufficiale di questa.

Perdonatemi la mala creanza d'avervi impiantati cosí sgarbatamente;  ma  non  ce
n'ho colpa. La vita d'un uomo raccontata cosí alla buona non porge motivo alcuno
ond'essere spartita a disegno, e per questo io ho  preso  l'usanza  di  scrivere
ogni giorno un capitolo terminandolo appunto quando il sonno mi  fa  cascare  la
penna. Ieri sera ne  fui  colto  quando  piú  mi  facean  d'uopo  tutti  i  miei
sentimenti chiari e svegliati per continuare il racconto, e cosí ho  creduto  di
far bene sospendendolo fino ad oggi. Già non ne aveste altro  incommodo  che  di
dover voltare una pagina e leggere quattro righe di piú. La giovine greca  nelle
sue spoglie marinaresche era bella come una  pittura  del  Giorgione.  Aveva  un
certo miscuglio di robusto e di molle, d'arditezza e di modestia che  un  romito
della Tebaide se ne sarebbe innamorato. Però io non mi lasciai vincere da questi
pregi incantevoli; e con uno sforzo supremo m'apprestava a farla capace del  suo
strambo operare, a rammemorarla de' suoi genitori, di  suo  fratello,  dei  suoi
doveri di morale e di religione, a persuaderla fors'anco  che  il  suo  non  era
amore ma  momentanea  frenesia  che  in  due  giorni  si  sarebbe  sfreddata,  a
protestarle di piú schiettamente se n'era il bisogno, che il mio cuore  era  già
preoccupato e che sarebbe stato inutile ogni sforzo per  conquistarlo.  A  tanto
giungeva il mio eroismo. Fortuna che non fu di  mestieri;  e  che  la  sincerità
della donzella mi sparagnò la  ridicolaggine  donchisciottesca  d'una  battaglia
contro un mulino. - Non condannatemi! - riprese  ella  dopo  aver  parlato  come
esposi  in  addietro,  e  imponendomi  silenzio  d'un  gesto  -   prima   dovete
ascoltarmi!... Emilio è il mio promesso sposo; egli  non  pensava  certamente  a
mescolarsi in brighe di Stato, in macchinazioni e in congiure quando lo conobbi;
fui io a spingerlo per quella via, e a procurargli la proscrizione che  nudo  di
tutto, senza parenti senza amici e cagionevole di salute lo manda a soffrire,  a
morir forse in un paese lontano e straniero!... Giudicatemi ora; non  era  dover
mio quello di tutto abbandonare, di sacrificar  tutto  per  menomare  i  cattivi
effetti delle mie esortazioni?... Lo vedete bene: Spiro avea torto  nel  volermi
trattenere. Non è l'amore soltanto che mi fa fuggire la mia casa; è la pietà, la
religione, il dovere!... Perisca tutto, ma che non mi  resti  nel  cuore  un  sí
atroce rimorso! Io rimasi, come si dice, di princisbecco; ma feci dignitosamente
l'indiano e benché la vergogna mi salisse alle guance del granchio ch'era  stato
per prendere, pure trovai qualche  parola  che  non  dicesse  nulla,  e  velasse
momentaneamente il mio imbroglio. Soprattutto mi imbarazzava quel signor Emilio,
nudo di tutto, malato, interessante che l'Aglaura diceva essere il suo  promesso
sposo e del quale io non avea mai sentito mover parola dai  suoi.  Probabilmente
ella supponeva che Spiro me ne avesse  parlato,  infatti  ella  tirò  innanzi  a
raccontare come se ne sapessi quanto lei. - La settimana passata -  diss'ella  -
era assalita continuamente dall'idea di ammazzarmi: ma quando prima vidi voi,  e
sentii che avevate intenzione d'andare a Milano, un altro pensiero meno  funesto
per me e consolante per tutti mi balenò in capo. Perché non  vi  avrei  seguito?
Emilio era a Milano anch'esso. Un lungo silenzio mi teneva allo scuro  di  tutto
ciò che lo riguardava. Uccidendomi non ne avrei saputo piú di prima,  e  neppure
gli avrei recato alcun conforto; mentre invece raggiungendolo, mettendomigli  al
fianco, rimanendo sempre con lui, chi sa? avrei potuto  attenuare  le  disgrazie
che gli aveva tirato addosso colle mie smanie liberalesche. Decisi  adunque  che
sarei partita con voi; perché in quanto al pormi in viaggio da sola, il pensarvi
senz'altro mi spaventava. Figuratevi! Avvezza a metter cosí raramente  il  piede
fuori di casa! Il coraggio no, ma mi sarebbe mancata la  pratica  e  chi  sa  in
quali impicci avrei potuto cascare! Invece colla  scorta  d'un  amico  onesto  e
fidato sarei ita sicura in capo al mondo. Presa questa deliberazione ne ventilai
un'altra. Doveva io parteciparvi il mio disegno o  seguirvi  a  vostra  insaputa
finché la nostra scambievole posizione vi obbligasse vostro malgrado a prendermi
per compagna? La mia franchezza propendeva al primo partito; ma  il  timor  d'un
rifiuto e la cura della segretezza mi sforzarono al secondo. Tuttavia il maggior
ostacolo restava da superarsi, ed era  mio  fratello.  Fra  lui  e  me  formiamo
siffattamente una anima sola che i  pensieri  si  disegnano  in  lui  mentre  si
coloriscono in me: siamo due liuti di  cui  l'uno  ripete  spontaneo  e  un  po'
confusamente i suoni toccati sulle corde dell'altro. Egli infatti travide il mio
disegno fin dalla prima volta che voi foste in nostra  casa;  non  dico  ch'egli
indovinasse il pensiero ch'io avea formato di accompagnarmi a voi, ma  mi  lesse
chiara negli occhi la volontà di fuggire a  Milano.  Tanto  bastava  per  render
impossibile o almeno molto difficile questa fuga, perché  io  conosco  l'immenso
affetto serbatomi da mio fratello e ch'egli piuttosto torrebbe di morire che  di
separarsi da me. Cosa volete? Alle volte mi sembra che per  un  fratello  questo
amore sia troppo; ma egli è fatto  cosí,  e  bisogna  convenire  che  è  un  bel
difetto. Non potreste immaginare le astuzie da me adoperate per cavargli di capo
i suoi sospetti, le menzogne che sciorinai coll'aspetto piú ingenuo  del  mondo,
le carezze che gli feci maggiori  d'ogni  consueto,  l'affetto  e  la  cura  che
dimostrava a tutte le cose di famiglia! Solamente chi si crede chiamata da Dio e
dalla propria coscienza alla riparazione delle proprie colpe può far altrettanto
e confessarlo senza morire di crepacuore e di vergogna. I miei vecchi  genitori,
Spiro stesso rimase ingannato. Guardate, io ne piango anche adesso! Ma Dio vuole
cosí; sia fatta la sua volontà! Rimasero tutti ingannati come vi dico,  e  certo
stamattina quando dissi le orazioni colla mamma e diedi il buon giorno al  papà,
nessuno avrebbe sospettato ch'io covava il  disegno  di  abbandonarli  dopo  una
mezz'ora, di mutarmi nell'arnese d'un marinaio, e di correre il mondo insieme  a
voi in penitenza de' miei peccati!... Omai son risoluta; il gran passo è  fatto.
Se Dio mi forní la  forza  di  dissimulare  per  tanto  tempo,  e  l'astuzia  di
ingannare guardiani cosí accorti ed amorosi, è segno ch'egli approva  e  difende
la  mia  condotta.  Egli  provveda  a  riparar  i  mali  che  la  mia  fuga  può
cagionare!... Quanto ai miei genitori non ne ho gran paura!... Sia il mio sesso,
o lo scarso merito, o la loro grave età volgente all'egoismo, io  non  m'accorsi
mai che il loro affetto per me oltrepassasse i  limiti  della  discrezione.  Mia
madre sembra alle volte pentita di avermi trascurata  a  lungo  e  mi  colma  di
carezze che vorrebbero essere materne ma sono un po' troppo studiate; mio  padre
poi non si dà questa briga, egli si dimentica di me le intere giornate,  e  pare
che mi tratti come gli fossi capitata in casa oggi  e  dovessi  uscirne  domani.
Infatti noi femmine siamo pei padri un bene passeggiero, un trastullo per alcuni
anni; ci considerano, credo, come roba d'altri, e certo mio padre  non  dimostrò
mai ch'egli mi ritenesse per sua. Cosí vi dico, in  quanto  a  loro  non  mi  do
grande affanno: saranno abbastanza tranquilli, se mi  sapranno  viva:  ma  è  in
riguardo a Spiro che non posso far a meno d'inquietarmi!... Io  conosco  la  sua
indole fiera e precipitosa, il suo cuore che non soffre né pazienza  né  misura!
Chi sa quale scompiglio ne potrebbe nascere! Ma spero che l'amore e il  rispetto
ai nostri comuni genitori gli farà tenere qualche  riserbo.  D'altro  canto  gli
scriverò, lo metterò in quiete, e pregherò sempre il cielo  che  mi  conceda  la
grazia di riunirci. Cosí parlando ella s'era già rimessa a camminare verso  dove
io era avviato prima che mi rivolgessi ad affrontarla, ed io pure  spensatamente
le procedeva del paro. Ma quando ella terminò il suo racconto io mi  fermai  sui
due piedi, dicendo: - Aglaura, dove n'andiamo ora? - A Milano dove n'andate  voi
- rispose ella. Confesso che tanta sicurezza mi confuse e mi rimasero  in  tasca
inoperosi tutti gli argomenti che mi prefiggeva  adoperare  per  dissuaderla  da
quell'avventato disegno. Vidi che non c'era rimedio, e pensai  involontariamente
alle parole di mio padre quando mi diceva che nella figliuola degli Apostulos io
avrei trovato una sorella e che come tale l'avrei  amata.  Ch'egli  fosse  stato
profeta? Pareva di sí; ad ogni modo io deliberai di non abbandonare la  ragazza,
di sorreggerla coi miei consigli, di seguirla sempre, di prestare  insomma  quei
fraterni uffici che le venivano di diritto per l'antica amicizia  professata  da
mio padre al padre suo. Se non  fratelli  eravamo  a  questo  modo  un  pochetto
cugini; e cosí mi posi in quiete, deciso di  regolarmi  in  seguito  secondo  le
circostanze e di non trascurar mezzo alcuno che valesse a  ricondurre  l'Aglaura
nel seno della propria famiglia. Intanto non cangiai per nulla il  mio  progetto
che era di tirar innanzi a piedi fino a un paesello lí presso; di  guadagnar  di
colà il pedemonte con una carrettella, e cosí poi di carrettella in carrettella,
di paese in paese, sguisciando fra le città e la montagna giungere  al  lago  di
Garda e farmi buttare da un battello sulla riva  bresciana.  Peraltro  prima  di
mettere ad effetto la prima parte di questo  piano  chiesi  con  solennità  alla
donzella se veramente quel signor Emilio era il suo promesso sposo, e se l'aveva
certe novelle ch'egli si trovasse infermo a Milano. - Mi domanda se Emilio è  il
mio fidanzato? Non conosce Emilio Tornoni? - sclamò con gran sorpresa l'Aglaura.
- Ma dunque Spiro non ve n'ha mai parlato? - No, ch'io mi sappia - risposi io. -
È una cosa molto strana - bisbigliò ella affatto tra i denti. Poi senza rompersi
altro il capo mi dichiarò in breve come  già  prima  che  Spiro  tornasse  dalla
Grecia ove si era fermato quindici anni  presso  un  suo  zio,  ella  era  stata
chiesta in isposa da Emilio, un bel giovine  a  udirla  lei,  e  delle  migliori
famiglie dell'Istria, stabilito come ufficial d'arsenale a Venezia.  Il  ritorno
del fratello e piú alcuni dissesti di fortuna che  lo  aveano  reso  necessario,
ritardarono sulle prime le nozze; poi sopraggiunta la rivoluzione avea  lasciato
tutto sospeso, finché Emilio avea dovuto fuggire con  tutti  gli  altri  per  la
nefandità del trattato di Campoformio; ed ella continuava a protestarsi  l'unica
origine di questo guaio, come quella che aveva riscaldato il capo  ad  Emilio  e
distoltolo dalle sue occupazioni marinaresche per mescolarlo  nei  baccanali  di
quell'effimera libertà. Io me le opposi  dimostrandole  che  un  uomo  è  sempre
responsabile delle proprie azioni, e suo danno se si lascia menar pel naso dalle
donne. Ma l'Aglaura non volle rimettersi  a  quest'opinione,  e  persisteva  nel
ritenersi obbligata a raggiungere il suo fidanzato per  compensarlo  in  qualche
maniera di ciò che gli faceva soffrire. Circa alla sua malattia, e  al  trovarsi
egli in Milano non poteva dubitarne, perché nell'ultima lettera  le  avea  fatto
sapere ch'egli non si sarebbe mosso di colà, e che se non riceveva suoi  scritti
in seguito, la ritenesse pure ch'egli era o morto o gravemente infermo. Forse il
povero esule scrivendo quelle parole sentiva  già  i  primi  sintomi  di  quella
malattia che lo teneva allora inchiodato sul  letto  pestilente  d'uno  spedale.
L'immaginazione dell'Aglaura era cosí vivace che  le  pareva  quasi  di  vederlo
abbandonato  all'incuria  piucché  alle  cure  d'un  infermiere  mercenario,   e
disperato di dover morire senza un suo bacio  almeno  sulle  labbra.  In  questi
discorsi giunsimo a un piccolo villaggio e là ci accomodammo d'un birroccio  che
ci trascinò fino a Cittadella. Narrarvi come l'Aglaura pigliasse filosoficamente
gli incommodi e le fatiche di quel viaggiare alla soldatesca,  sarebbe  cosa  da
ridere. La notte si dormiva in qualche bettolaccia di campagna,  dove  c'era  le
piú volte una camera sola con un letto solo. Gli  è  vero  che  questo  era  pel
solito tanto vasto da albergare un reggimento, ma la pudicizia, capite bene, non
permetteva certi rischi. Appena entrati nella stanza si smorzava il  lume;  ella
si spogliava e si metteva a giacere sul letto; io mi  rannicchiava  alla  meglio
sopra una tavola o in qualche seggiola di paglia. Guai se  fossi  stato  avvezzo
per tutta la mia vita alle mollezze dei materassi e dei piumini veneziani! In un
paio di notti mi avrei logorato le ossa. Ma queste  si  ricordavano  ancora  per
fortuna  del  covacciolo  di  Fratta  e  dei  bernoccoli  implacabili  di   quei
pagliericci; perciò reggevano valorosamente al cimento  e  potevano  sfidare  al
giorno seguente i trabalzi balzani d'una  nuova  carrettaccia.  Cosí  stentando,
balzellando e convien dirlo anche ridendo, traversammo il Vicentino, il Veronese
e giunsimo sul quarto giorno a Bardolino in riva alle acque dell'azzurro Benaco.
In onta alle mie sventure, ai miei timori e  alle  distrazioni  impostemi  dalla
compagna, mi ricordai di Virgilio, e salutai il gran lago che con fremito marino
gonfia talvolta i suoi flutti e  li  innalza  verso  il  cielo.  Da  lontano  si
protendeva nelle acque la vaga Sirmione, la pupilla del lago,  la  regina  delle
isole e delle penisole, come la chiama  Catullo,  il  dolce  amante  di  Lesbia.
Vedeva il colore melanconico de' suoi oliveti, m'immaginava sotto le loro  ombre
vagante con soavi versi sulle labbra il poeta delle  grazie  latine.  Rimuginava
beatamente al lume della luna le mie memorie classiche; ringraziando in cuor mio
il vecchio piovano di Teglio che m'avea dischiuso la sorgente  di  piaceri  cosí
puri, di conforti cosí potenti nella loro semplicità. Orfano si  potea  dire  di
genitori e di patria, balestrato non  sapeva  dove  da  un  destino  misterioso,
tutore per forza d'una fanciulla che non m'era stretta da  alcun  legame  né  di
parentela né d'amore, rivedeva tuttavia un barlume di  felicità  nelle  poetiche
immaginazioni di uomini vissuti diciotto secoli prima. Oh benedetta  la  poesia!
eco armonioso e non fugace di quanto l'umanità sente di piú grande  ed  immagina
di piú bello!... alba vergine e  risplendente  dell'umana  ragione!...  tramonto
vaporoso e infocato della divinità nella mente inspirata del genio! Ella precede
sui sentieri eterni ed invita a sé una per una le generazioni  della  terra:  ed
ogni passo che avanziamo per quella strada sublime ci  dischiude  un  piú  largo
orizzonte di virtù di felicità di bellezza!... S'incurvino pure gli anatomici  a
esaminare a tagliuzzare il cadavere; il sentimento il pensiero sfuggono al  loro
coltello e avvolti nel mistico ed eterno rogo dell'intelligenza slanciano  verso
il cielo le loro lingue di fiamma. Andavamo via  per  la  costa  della  collina,
mentre l'oste ci imbandiva la cena d'una piccola trota e di poche  sardelle.  Io
pensava a Virgilio a Catullo alla poesia; e Venezia e la  Pisana  e  Leopardo  e
Lucilio e Giulio Del Ponte ed Amilcare e tutti morti vivi moribondi gli  affetti
del cuore tremolavano soavemente nei miei vaghi pensieri.  L'Aglaura  mi  veniva
appresso ravvolta nel suo cappotto e grave anch'essa la fronte  di  melanconiche
fantasie. La luna le batteva per mezzo  al  volto  e  disegnandone  il  dilicato
profilo ne vezzeggiava a tre tanti la greca bellezza. Mi pareva  la  musa  della
tragedia, quando prima si rivelò pensosa e severa all'estro di Eschilo. Tutto ad
un tratto dopo un'erta faticosa della via  giunsimo  dov'essa  radeva  il  sommo
d'una rupe che impendeva precipitosa sul  lago.  La  frana  cadeva  giù  nera  e
cavernosa, sbiancata mestamente dalla luna in  qualche  nodo  piú  rilevato;  di
sotto l'acqua nereggiava profonda e silenziosa; il cielo vi si specchiava  entro
senza illuminarla, come succede sempre quando la luce non viene di traverso ma a
piombo. Io  mi  fermai  a  contemplare  quel  tetro  e  solenne  spettacolo  che
meriterebbe una descrizione finita da una penna piú maestra  o  temeraria  della
mia. L'Aglaura si protese sulla repente caduta della roccia, e parve assorta per
un istante in piú tetre meditazioni. Ohimè! io  pensava  intanto  ai  tranquilli
orizzonti, alle verdi praterie, alle tremolanti marine di Fratta;  rivedeva  col
pensiero il bastione di Attila e il suo vasto e maraviglioso panorama che  primo
m'avea incurvato la fronte dinanzi la deità  ordinatrice  dell'universo.  Quanti
fiori di mille disegni, di mille colori racchiude la natura nel suo grembo,  per
ispanderli poi sulla faccia multiforme  dei  mondi!...  Mi  riscossi  da  cotali
memorie a un lungo e  profondo  sospiro  della  mia  compagna:  allora  la  vidi
avventarsi in avanti e rovinar capovolta nell'abisso che le vaneggiava a' piedi.
Mi scoppiò dalla gola un grido cosí straziante che impaurí quasi me  stesso;  lo
spavento mi drizzava i capelli sul  capo  e  mi  sentiva  attirare  anch'io  dal
vorticoso  delirio  del  vuoto.  Ma  raccapricciava  al  pensiero   di   volgere
un'occhiata a quella profondità e  fermarla  forse  nelle  spoglie  inanimate  e
sanguinose della misera Aglaura. In quella mi parve udire  sotto  di  me  e  non
molto lontano un  fioco  lamento.  Mi  chinai  sul  ciglio  della  rupe,  intesi
l'orecchio e raccolsi un gemito piú distinto;  era  dessa,  non  v'avea  dubbio:
viveva ancora. Aguzzai gli occhi a tutto  potere  e  scorsi  finalmente  fra  un
macchione di cespugli una cosa nera che somigliava un  corpo  e  pareva  esservi
rimasta appesa. Impaziente di  recarle  soccorso  e  di  sottrarla  al  pericolo
imminente d'un ramo che si spezzasse o d'una radice che cedesse,  mi  calai  giù
risoluto per la parete  quasi  verticale  della  roccia.  Strisciava  lungh'essa
rapidamente col viso coi ginocchi coi  gomiti,  ma  lo  strisciamento  stesso  e
qualche cespo d'erba cui  mi  aggrappava  nel  passare  rompevano  il  soverchio
precipizio della discesa. Non so per qual miracolo arrivassi sano e salvo,  cioè
almeno colle gambe intiere e colle vertebre bene  inanellate,  alla  macchia  di
cornioli che l'aveva trattenuta. Allora non  avea  tempo  da  maravigliarmi;  la
ritrassi dalla spinaia in cui era impigliata  coi  gheroni  del  cappotto  e  la
addossai ancor semiviva  al  dirupo.  Senz'acqua  senza  nessun  aiuto  in  quel
ginepraio che aveva figura d'un gran nido di aquilotti, io non poteva altro  che
aspettare ch'ella rinvenisse o guardarla morire. Aveva udito dire che  anche  il
soffio giovasse  a  ridonare  i  sensi  agli  smarriti  per  qualche  commozione
violenta, e mi diedi a soffiare negli occhi e sulle tempie spiando  ansiosamente
ogni suo minimo movimento. Ella dischiuse alfine le ciglia; io respirai come  se
mi si togliesse di sopra al petto un enorme macigno. - Ahimè! sono ancor viva! -
mormorò ella. - Dunque è proprio segno che Dio lo vuole!... - Aglaura,  Aglaura!
- le diss'io all'orecchio con voce supplichevole ed affettuosa - ma  dunque  non
avete nessuna fede in me?... dunque la mia protezione, la  mia  compagnia  hanno
finito di rendervi fastidiosa la vita!.... - Voi, voi? - soggiunse languidamente
- voi siete il piú fido e diletto amico ch'io m'abbia: per voi io mi condannerei
a vivere, se fosse di bisogno, il doppio del tempo destinatomi dalla  sorte.  Ma
che valore ha mai la  mia  vita  pel  bene  degli  altri?...  -  Ne  ha  uno  di
grandissimo, Aglaura! Prima di tutto pei vostri genitori,  per  vostro  fratello
che vi ama, vi adora, e voi sola ne sapete il quanto! indi perché vi è un  cuore
al mondo che ha diritto d'amore e di padronanza sul vostro. Voi amate,  Aglaura;
voi avete perduto il diritto d'uccidervi,  dato  che  persona  possa  mai  avere
questo diritto. - Ah sí è vero, io amo! - rispose la donzella con un certo suono
di voce che non avvisai se provenisse  da  affanno  di  respiro  o  da  amarezza
d'ironia. - Io amo! - ripeté  ella,  e  questa  volta  con  tutta  la  sincerità
dell'anima. - Deggio vivere per amare: avete ragione, amico!...  Datemi  braccio
che torneremo a casa. Io le feci osservare che di colà non si poteva  né  salire
né scendere senza pericolo, e che  ad  ogni  modo  non  sarebbe  stata  prudenza
l'avventurarvisi dopo il suo lungo svenimento. - Son piú greca che  veneziana  -
sclamò ella rizzandosi alteramente. - Svenni per oppressione di respiro, non per
dolore né per paura; ve ne prevengo e credetemelo. Quanto al partire di qui,  se
salire non si può, scendere si potrà sempre. Non vedete  quanto  maestrevolmente
vi siamo discesi noi! I miei ginocchi  s'accorgevano  della  maestria,  ed  ella
s'era calata a volo, ma non son prove da tentarsi due volte. Tuttavia non opposi
obbiezioni temendo ch'ella mi giudicasse piú veneziano che greco. - Laggiù lungo
il lago - riprese ella - è un renaio che seguita, mi  pare,  fino  al  porto  di
Bardolino. Messivi i piedi sopra saremo sicuri della strada. - Il piú bello sarà
di metterveli i piedi - soggiunsi io. - Badate - diss'ella  -  e  seguitemi.  In
queste parole abbrancandosi ad un ramo che sporgeva  noderoso  e  flessibile  si
spenzolò dalla rupe; indi abbandonò il ramo e la vidi scendere strisciando  come
poco prima avea fatto io. Un minuto dopo ella poggiava le  piante  sulla  sabbia
molle e umidetta dove veniva a sussurreggiare morendo l'onda  del  lago.  Potete
credere che non volli mostrarmi dammeno d'una donna; arrischiai anch'io il  gran
salto, e con un secondo screzio di botte e di scorticature la raggiunsi che  non
mi parve vero di averla pagata cara. Allora volsi al cielo un sospiro cosí pieno
di ringraziamenti che l'aria dovette  accorgersene  al  peso;  la  mia  compagna
invece camminava lesta e saltellante come uscisse dal ballo o dal teatro. E dire
che un quarto d'ora prima s'era precipitata volontariamente da un'altezza di due
campanili! Donne, donne, donne!... quali sono i  nomi  dei  centomila  elementi,
sempre nuovi, sempre varii, sempre discordi che vi compongono? -  Io  non  aveva
mai veduta l'Aglaura cosí lieta, cosí briosa come allora  dopo  avermi  giuocato
quel mal tiro da disperata. Soltanto quand'io voleva ridurla a  darmene  ragione
ella stornava il discorso con un poco di broncio; ma  lo  ravvivava  indi  a  un
istante con maggior brio e con doppia petulanza. -  Volete  proprio  saperlo?...
Son pazza, e finiamola! Cosí mi chiuse la bocca da ultimo, e non se ne parlò piú
infatti. Tanto fu allegra spensierata ciarliera nel resto della passeggiata  che
comunicò anche a me qualche parte del suo buon  umore,  e  se  i  miei  ginocchi
ricordavano molto, la mente per quella mezz'ora si dimenticò di tutto. -  Quello
che mi dispiace si è che mangeremo la trota fredda e le  sardelle  rinvenute!  -
disse scherzando l'Aglaura quando eravamo per toccare  il  lastrico  del  porto.
Dico il vero che per quanto mi fossi riavuto, non  aveva  ancora  le  idee  cosí
chiare da ripescarvi per entro le sardelle e la  trota.  Però  risi  a  fior  di
labbra di questo rammarico dell'Aglaura, e le promisi una frittata se  il  pesce
non conferiva. - Ben venga la  frittata  e  voglio  voltarla  io!  -  sclamò  la
fanciulla. Saffo che  dopo  il  salto  di  Leucade  rivolta  la  frittata  è  un
personaggio affatto nuovo nel gran dramma della vita umana. Or bene, io vi posso
assicurare che quel personaggio non è una grottesca finzione poetica, ma ch'esso
ha vissuto in carne ed ossa, come appunto viviamo io e voi.  Infatti  l'Aglaura,
non trovando di suo grado la trota, si mise alla padella a sbattervi le ova;  io
credo che la povera trota fosse ignominiosamente  calunniata  pel  ruzzo  ch'era
saltato alla donzella di cavarsi questo capriccio. Io ammirava a  bocca  aperta.
China col ginocchio sul focolare, col manico della padella in  una  mano,  e  il
coperchio nell'altra che le difendeva il viso dal fuoco, ella  pareva  il  mozzo
d'un bastimento levantino che si ammannisce la  colazione.  La  frittata  riuscí
eccellente, e dopo di essa anche la trota  si  vendicò  del  sofferto  dispregio
facendosi  mangiare.  Le  sardelle  adoperarono  del  loro  meglio  per  entrare
anch'esse dov'era entrata la trota. Infine non rimasero sui piatti che le reste,
e d'allora in poi io mi persuasi che nulla serve meglio  ad  aguzzar  l'appetito
quanto l'aver cercato di ammazzarsi un'oretta prima. L'Aglaura  non  ci  pensava
piú affatto; io pure m'avvezzava a riguardare  quel  brutto  accidente  come  un
sogno ed una burla, e lo stomaco lavorava con sí  buona  voglia  che  mi  pareva
impossibile dopo l'affannoso batticuore di pochi  momenti  prima.  Confesso  che
anche ora ci veggo della magia  in  quel  furioso  appetito;  quando  non  fosse
l'Aglaura che mi stregava. Ogni sardella che inghiottiva era un brutto  pensiero
che volava ed un gaio e ridente che capitava. Rosicchiando la  coda  dell'ultima
giunsi a immaginare la felicità che avrei provato in un tempo di calma di  amore
d'armonia goduto insieme alla Pisana su quelle  piagge  incantevoli.  "Chi  sa!"
pensai trangugiando il boccone. Ed era tutto dire tanta confidenza  nella  buona
stella dopo il temporalone di quella sera! Tanto  è  vero  che  gli  estremi  si
toccano, come dice  il  proverbio,  e  che  Bertoldo  aveva  ragione  di  sperar
maggiormente il sereno durante la piova. Quella infine fu la serata piú gioconda
e piacevole che passassi coll'Aglaura durante quel viaggio; ma  molto  forse  ci
poteva la contentezza di vederci salvi da un sí gran  pericolo.  Accompagnandola
nella  sua  stanza  (l'osteria  di  Bardolino  aveva  fino  dal  secolo   scorso
pretensione d'albergo) non mi potei trattenere dal dirle: -  Non  me  ne  farete
piú, Aglaura, di cotali paure, n'è vero? - No, certo, e ve lo giuro - mi rispose
ella stringendomi la mano. Infatti il mattino appresso traversando il lago, e  i
giorni seguenti viaggiando pei neonati dipartimenti della  Repubblica  Cisalpina
ella fu cosí serena e composta che  me  ne  stupiva  sempre.  Ed  io  piú  volte
m'arrischiai allora di toccarla sul tasto di  quella  stramba  volata,  ma  ella
sempre mi dava sulla voce, dicendo che già me lo avea confessato le cento  volte
che la era pazza, e che rimanessi pur tranquillo che almeno in quella pazzia non
ci sarebbe incappata piú. Cosí entrammo abbastanza felici in Milano dove  l'eroe
Buonaparte con una dozzina di  piastricciatori  lombardi  si  dava  attorno  per
improvvisare  un  ritratto  abbozzaticcio  della  Repubblica  Francese  una   ed
indivisibile. Era il ventuno novembre; una folla immensa e festosa traboccava di
contrada in contrada sul corso di Porta Orientale e di là fuori  nel  campo  del
Lazzaretto, battezzato novellamente pel campo della  Federazione.  Tuonavano  le
artiglierie, migliaia di bandiere tricolori sventolavano; era  uno  scampanio  a
festa, un gridare, un lanciar di cappelli, un agitarsi di fazzoletti di teste di
braccia in quella calca allegra tumultuosa e non pertanto calma e dignitosa.  Né
io né l'Aglaura ebbimo cuore di fermarci in una  camera  mentre  alla  luce  del
sole, alla libera aria del cielo  doveva  inaugurarsi  poco  stante  il  governo
stabile ed italiano della Repubblica Cisalpina. Posto giù il mio fagotto e senza
ch'ella volesse deporre  il  travestimento  virile  ci  mescolammo  alla  gente,
contentissimi di esser giunti in tempo di quel solenne e memorabile  spettacolo.
Giunti al luogo dove l'Arcivescovo benediceva le bandiere fra l'altare di Dio  e
quello della patria, in mezzo ad un  popolo  innumerevole  e  fremente,  dinanzi
all'autorità popolare del nuovo governo, e alla gloriosa tutela di Bonaparte che
assisteva in un  seggio  speciale,  confesso  anch'io  che  tutti  gli  scrupoli
m'uscirono di capo. Quella era proprio la vita  d'un  popolo,  e  fossero  stati
Francesi o Turchi a risvegliarla, non ci trovava nulla a ridire. Quei volti quei
petti quelle grida erano piene di entusiasmo  e  di  fausti  e  grandi  presagi:
quella subita concordia di molte provincie divelte da varia soggezione straniera
per comporre  una  sola  indipendenza  una  sola  libertà,  era  incentivo  alle
immaginazioni di maggiori speranze. Quando il Serbelloni, presidente  del  nuovo
Direttorio, giurò  per  la  memoria  di  Curzio  di  Catone  e  di  Scevola  che
manterrebbe se fosse d'uopo colla vita il Direttorio la costituzione  le  leggi,
quei grandi nomi romani s'intonavano perfettamente alla solennità  del  momento.
Se ne ride ora che sappiamo il futuro di quel passato; ma allora la fiducia  era
immensa; le virtù repubblicane e la operosa libertà del Medio Evo parevano  cosa
da poco; si riappiccavano arditamente alla gran larva scongiurata da Cesare. Fra
quel carnovale della libertà la mente mi  corse  talora  a  Venezia,  e  sentiva
inumidirmisi gli occhi; ma l'imponenza presente scacciava la memoria lontana.  I
manifesti e le dicerie di quel giorno furono cose tanto pregne, che le  lusinghe
lasciate travedere dal Villetard  ai  Veneziani  non  parevano  né  bugiarde  né
fallaci.  I  Veneziani  che  assistevano  alla  festa  piangevano  piuttosto  di
commozione che di dolore, e d'altronde si stimava impossibile  che  la  Francia,
dopo aver donato la libertà a provincie serve e dapprima  indifferenti,  volesse
negarla a chi l'avea sempre posseduta, e mostrato  fino  all'estremo  di  averla
carissima. Bonaparte tornava in cima nell'affetto e nell'ammirazione  di  tutti;
al piú si mormorava del Direttorio francese che gli tenea legate le mani, solita
scusa di questi ladri e truffatori della pubblica gratitudine. Io pure mi  diedi
a credere che il trattato di Campoformio fosse una necessità  del  momento,  una
concessione temporanea per riprender poscia piú di quanto si era dato; e a veder
daccosto le opere di quei Francesi e la civiltà dei Cisalpini, non  mi  sorprese
piú che Amilcare mi scrivesse, affatto guarito dai suoi delirii di Bruto, e  che
Giulio Del Ponte e Lucilio si fossero inscritti nella  nuova  Legione  lombarda,
nocciolo di eserciti futuri. Io cercava dello sguardo questi  miei  amici  nelle
schiere delle milizie disposte a rassegna nel campo del Lazzaretto; e  mi  parve
infatti discernerli benché per la distanza non mi potessi assicurare. Quello che
raffigurai perfettamente fu a capo d'un drappello francese Sandro, il mio  amico
mugnaio, con grandi pennacchi in testa e  ori  e  fiocchi  sulle  spalle  ed  al
fianco. Mi pareva impossibile che l'avessero fregiato di tanti splendori  in  sí
breve tempo, ma l'era proprio lui, e se fosse stato un altro,  bisognava  gettar
via la testa, tanto ingannava la rassomiglianza. Chiesi anco all'Aglaura  se  le
venisse fatto di scernere il signor Emilio, ma la mi soggiunse asciutto asciutto
che non lo vedeva. Ella sembrava occuparsi piucché altro della festa, e  le  sue
grida e il suo picchiar di mani colpirono tanto i piú vicini  che  le  fu  fatto
bozzolo intorno. - Aglaura, Aglaura! - le bisbigliava io. -  Ricordati  che  sei
donna! - Sia donna o uomo che importa? - rispose ella ad altissima voce.  -  Gli
adoratori della libertà non hanno differenza di sesso. Sono tutti eroi. - Bravo!
brava! Ben detto! È un uomo! È una donna! Viva la Repubblica! Viva Bonaparte!...
Viva la donna forte!... Dovetti trascinarla via perché non me la  portassero  in
trionfo;  ella  si  sarebbe  accomodata,  credo,  molto  volentieri  di   questa
cerimonia, e le vedeva errare negli occhi un certo fuoco che ricordava il furore
d'una Pizia. A gran fatica potei condurla in un altro canto dove si  raccoglieva
una gran turba femminile, la piú molesta e ciarliera che avesse  mai  empito  un
mercato. Era una vera  repubblica,  anzi  un'anarchia  di  cervelli  leggieri  e
svampati; per me non conosco essere che dica tante bestialità quanto  una  donna
politica. Giudicatene da quanto ne udii allora! - Ehi - diceva una - non ti pare
che avrebbero fatto meglio a vestirlo di rosso  il  nostro  Direttorio?...  Cosí
tinti  in   verdone   coi   ricami   d'argento   mi   sembrano   i   cerimonieri
dell'ex-Governatore. -  Taci,  là!  sciocca  -  rispondeva  l'interrogata  -  la
severità repubblicana porta i colori oscuri. - Ah  ci  chiama  severità  lei?  -
s'intromise una terza. - Se sapesse cos'hanno fatto due tenentelli francesi alla
figlia di mia sorella!... - Eh calunnie! saranno nobili travestiti!... Morte  ai
nobili!... Viva l'eguaglianza! - Viva, viva: ma intanto dicono che quei  signori
del Direttorio siano quasi tutti aristocratici. - Sí, lo erano,  figliuola  mia;
ma li hanno purificati. - Diavolo! come si fa questa operazione?... - Eh non  lo
sai, no?... Non hai mai visto in San Calimero il quadro della  Purificazione?...
Si portano in chiesa due tortore e due colombini. - E dee proprio bastare? -  Il
resto lo sapranno i preti; per me mi basta che siano purificati e non  m'importa
tanto del cerimoniale! Ehi! Lucrezia, Lucrezia! guarda là tuo fratello che bella
figura ci fa col suo schioppo in ispalla e la coccarda sul  cappello!  -  Eh  lo
vedo io! Se non fossi sua sorella me ne innamorerei!... Sai ch'egli  ha  giurato
di ammazzare tutti i re, tutti i principi e perfino il papa?... -  Sí?...  Bravo
lui, per diana! è capace di mantener la promessa. L'ho veduto io rompere il muso
ad  uno  sbirro  perché  gli  avea  pestato  sul  piede  all'osteria.  Viva   la
Repubblica!... Tutte quelle gole infaticabili si unirono  allora  a  quel  grido
frenetico.  Viva  la  Repubblica!...  Viva  Buonaparte!...  Viva  la  Repubblica
Cisalpina!... - Ehi! - chiese timidamente alle compagne quella che voleva vestir
di  scarlatto  il  Direttorio.  -  Sapresti  dirmi  dov'è  e  che  cos'è  questa
Repubblica?... Io non la vedo... È forse come Maria Teresa che  stava  sempre  a
Vienna e ci mandava qui un sottocuoco! - Morte al Governatore! -  gridò  l'altra
per purificarsi intanto le orecchie dalle  memorie  servili  richiamatele  dalla
compagna. - Indi si mise a darle una idea chiara di quel che  fosse  Repubblica,
accertandola ch'essa era come una padrona che non si prende cura di  nulla,  che
vive e lascia vivere, e non fa lavorare la povera gente a profitto dei ricchi. -
Vedi - soggiungeva essa. - La Repubblica c'è ma nessuno l'ha  mai  veduta;  cosí
non se ne prendono soggezione, e ciascuno può gridare fare girare  strepitare  a
sua posta; come se non ci fosse nessuno. - Eh cosa dite mai che non c'è nessuno?
- s'intromise con una vociaccia arrocata dal gran gridare  la  Lucrezia.  -  Non
vedete che ci sono i Francesi ed anco i Cisalpini? -  Giust'appunto  -  tornò  a
chiedere la prima - cosa vuol dire questa Cisalpina? - Caspita! è un  nome  come
Teresina, Giuseppina e tanti altri. - No, no, ve lo dirò io cosa  vuol  dire!  -
soggiunse la Lucrezia - costei non ne  sa  proprio  nulla.  -  Come  non  ne  so
nulla?... Tu eh, sei proprio la dottorona! -  Minchiona!  non  vuoi  che  me  ne
intenda? ho ballato intorno all'albero facendo la parte del Genio della libertà;
e ho  mio  fratello  nella  Legione  Repubblicana!...  Io  aspettava  con  tanto
d'orecchi questa definizione della Repubblica  che  stentava  a  venire,  e  non
badava ai  delegati  di  Mantova  e  delle  Legazioni,  non  ancora  unite  alla
Cisalpina, che oravano in quel frattempo dinanzi al  Direttorio,  con  grande  e
nuova testimonianza d'italiana concordia. - Dunque  dunque,  via,  cos'è  questa
Repubblica Cisalpina? - chiese con mio gran conforto quella che mi pareva la piú
sciocca e pettegola. - Cos'è? cosa vuol dire? - gridò fieramente la Lucrezia.  -
Vuol dire che la Cisalpina c'è e che la Repubblica saprà mantenerla. L'ha  detto
e giurato anche il Serbelloni: e il general Buonaparte è d'accordo  con  lui.  -
Per me non mi piace nulla quel general Buonaparte; è magro come un quattrino,  e
ha i capelli morbidi come chiodi. - Oh non è nulla, figliuola mia! ne vedrai ben
di piú belle! È il continuo furore delle battaglie che gli ha ridotto le  guance
e la capigliatura a quel modo. Vedrai mio fratello quando tornerà dalla  guerra.
Scommetto che non potrà piú mettersi il cappello! - Fai ingiuria a tua  cognata,
Lucrezia! non dire  di  queste  cose!...  Lí  successe  un  nuovo  diverbio  per
l'improntitudine di questo scherzo in momenti tanto solenni. Le  donne  finirono
coll'accapigliarsi, e le  vicine  a  dar  loro  addosso  perché  si  calmassero.
Intervenne un caporale francese che col calcio del fucile mise ordine  a  tutto.
Avea ben ragione quella che aveva  affermato  poco  prima  che  anziché  esserci
nessuno c'erano i  Cisalpini  e  per  giunta  anche  i  Francesi.  Dei  Francesi
sopratutto non si potea dubitare che non  ci  fossero.  A  guardarci  bene  essi
aveano ordinato il Governo,  scelto  il  Direttorio,  nominati  i  membri  delle
congregazioni, i segretari, i ministri;  e  s'aveano  riserbato  il  diritto  di
eleggere a suo tempo i membri del Consiglio grande e di quello dei  Seniori.  Ma
il  popolo  nuovo  a  quel  fervore  di  vita  aveva  anche  troppo   che   fare
nell'eseguire. Dall'ubbidire pecorilmente e male all'ubbidire attivamente e bene
s'avea fatto un gran salto; il  resto  verrebbe  dopo,  Buonaparte  mallevadore.
Confesso che allora anch'io partecipai generosamente alle illusioni  comuni,  né
peraltro le chiamo illusioni se non pel tracollo  che  diedero  poi.  Del  resto
s'avevano grandissimi ed ottimi argomenti di sperare. Quel giorno infatti fu  un
gran giorno, e degno di essere onorato dai  posteri  italiani.  Segnò  il  primo
risorgimento della vita e del pensier nazionale: e  Napoleone,  in  cui  sperava
allora e del quale mi sfidai poscia, avrà pur sempre  qualche  parte  della  mia
gratitudine per averlo esso affrettato nei nostri annali. Venezia doveva cadere;
egli  ne  accelerò  e  ne  disonorò  la  caduta.  Vergogna!  Il  gran  sogno  di
Macchiavello dovea staccarsi quandocchesia dal mondo dei fantasmi per  incombere
attivamente sui fatti. Egli ne  operò  la  metamorfosi.  Fu  vero  merito,  vera
gloria. E se il caso  gliela  donò,  s'egli  cercolla  allora  per  mire  future
d'ambizione, non resta men vero che il favore del caso e l'interesse  della  sua
ambizione cospirarono un istante colla  salute  della  nazione  italiana,  e  le
imposero il primo passo al risorgimento. Napoleone, colla sua superbia, coi suoi
errori, colla sua tirannia, fu fatale alla vecchia  Repubblica  di  Venezia,  ma
utile all'Italia. Mi strappo ora dal cuore le piccole ire,  i  piccoli  odii,  i
piccoli affetti. Bugiardo ingiusto  tiranno,  egli  fu  il  benvenuto.  Se  cosí
infervorato era io, figuratevi poi l'Aglaura; la quale, senza  ch'io  vel  dica,
avrete già conosciuto che aveva una testa voltata affatto a quegli entusiasmi di
repubblica e di libertà! A cotali sue preoccupazioni io ascrissi per quel giorno
la poca cura ch'ella si avea dato del suo Emilio; ma la sera le ne mossi  parola
quando ci fummo allogati in due camerette d'un'umilissima locanda sul  corso  di
Porta Romana. - Siete voi - mi rispose ella - a  immaginarvi  ch'io  non  me  ne
prenda cura! Invece stamattina non ho fatto altro che cercarlo cogli occhi, e se
non m'è riescito di scoprirlo, non è mia colpa... Ma non avete voi qui a  Milano
molti amici veneziani de' quali vi proponete andar in traccia questa sera?... Or
bene, uscite dunque e menateli;  per  mezzo  loro  saprò  qualche  cosa.  Io  mi
aggiusterò intanto alla meglio queste vesti di donna  che  mi  avete  comperato.
Grazie, sapete, amico mio! Vi  giuro  che  ve  ne  sarò  grata  eternamente.  Ma
sopratutto  se  incontraste  Spiro  fate  il  gnorri  sul  conto  mio.  Non   mi
maraviglierei punto ch'egli ci avesse preceduto a Milano. Io le promisi di  fare
com'ella domandava, ma la pregai dal canto mio di mantenere la sua promessa e di
dar contezza di sé ai genitori. Ella me lo promise,  ed  io  n'andai  per  primo
passo alla posta a vedere se ci erano lettere per me  e  per  lei.  Ve  n'aveano
quattro, tre delle quali per me; e due di queste della Pisana.  Questa  mi  dava
notizia nell'una di quanto era accaduto dopo la mia fuga; l'altra non recava che
lamenti sospiri lagrime per la mia assenza, e smanie di  riabbracciarsi  presto.
Rimasi strabiliato di quanto mi narrava. Sua Eccellenza Navagero  aveva  mandato
fuori di casa sua la cugina contessa; e questa era tornata col figlio, che aveva
racquistato il suo posto nella Ragioneria. Il Venchieredo padre avea  strepitato
assai per la mia fuga; e gridato e tempestato che  avrebbe  posto  il  sequestro
sopra tutti i miei beni; ma  siccome  null'altro  avea  trovato  che  una  grama
casuccia, cosí s'era calmato da quella febbre di  zelo,  ed  anche  la  casa  se
l'erano dimenticata e la Pisana continuava ad abitarvi. Sembra peraltro  che  le
intercessioni di Raimondo avessero potuto  molto  a  imporre  qualche  misura  a
cotali rappresaglie; perché il destro giovinotto non s'aveva scordato affatto le
civetterie della Pisana, e allora anzi  pareva  che  vi  ripensasse  sul  grave.
Almeno io ne sospettai qualche cosa per  avermi  dessa  scritto  che  un  giorno
impensatamente aveva ricevuto una visita  della  Doretta.  Certo  era  opera  di
Raimondo che per mezzo della ganza cercava introdursi;  la  Doretta  lo  serviva
ciecamente, libero poi a lui buttar via lo strumento quando ne  avesse  ottenuto
lo scopo. La dimestichezza di questa genia colla Pisana non mi garbava né  punto
né poco; e deliberai  di  scriverlene  una  paterna  solenne  perché  badasse  a
tenersela lontana. Gli è vero ch'ella rideva e ci scherzava sopra, ma non si può
preveder tutto; e con quel suo cervellino!... "Basta!" pensava "facciano  presto
i Francesi a raccendere la miccia, se no  me  la  vedo  proprio  brutta.  Quella
pazzerella vuol essere amata molto e molto davvicino per continuar ad  amare;  e
questo esperimento della lontananza non vorrei prolungarlo di troppo". Altre due
notizie molto mirabili erano il chiasso che menava ancora il Partistagno per  la
Clara, e l'insediamento del padre Pendola in un  canonicato  di  San  Marco.  Il
primo, fatto da poco capitano di  cavalleria  negli  eserciti  imperiali,  credo
mediante la protezione del famoso zio barone, sussurrava coi suoi sproni notte e
giorno dinanzi il convento di Santa Teresa;  tantoché  la  madre  Redenta  aveva
chiesto una sentinella per rinforzare la difesa della portinaia. E la sentinella
s'affacendava notte e giorno a presentar l'arma  al  terribile  Partistagno  che
passava e ripassava continuamente. Gli  aveano  proprio  fatto  credere  che  la
Contessa avesse sforzato la Clara a monacarsi per invidia ed  odio  che  nutriva
contro la famiglia di lui. Perciò s'era riscaldato ancora a volersene vendicare:
e fra le altre avea messo in opera anche il mezzo pericolosissimo  di  comperare
molti crediti ipotecari sui poderi di Fratta, e tempestare con petizioni  e  con
precetti esecutivi sulle ultime reliquie di quello sfortunato patrimonio.  Certo
il Partistagno di per sé non era capace di astuzie cosí  diaboliche;  ma  vi  si
travedeva sotto la zampa infernale del  vecchio  Venchieredo  che  dopo  la  sua
condanna avea giurato un odio infinito alla famiglia del Conte  di  Fratta  fino
all'ultima generazione. Intanto fra le sue angherie, quelle del  Partistagno,  i
rubamenti di Fulgenzio che lo secondavano, e l'incuria  del  conte  Rinaldo  che
coronava l'opera, la sostanza di attiva s'era fatta  passiva,  e  un  fallimento
poteva essere poco meno che una buona speculazione. Il castello  abbandonato  da
tutti cadeva in rovina; e appena la camera di Monsignore aveva le  imposte  alle
finestre ed agli usci. Nelle altre, fattori gastaldi e malandrini  aveano  fatto
man bassa: chi vendeva i vetri, chi le serrature, chi i mattoni  dei  pavimenti,
chi le travi del soffitto. Al povero Capitano aveano sconficcato la  porta;  per
cui la signora Veronica soffriva peggio che mai di tossi e di  raffreddori  e  a
lui era cresciuta del cinquanta  per  uno  la  gravezza  della  croce  maritale.
Marchetto avea lasciato il castello, e di cavallante s'era mutato in  sagrestano
della parrocchia. Bizzarra mascherata!...  Ma  i  buli  non  si  usavano  piú  e
bisognava diventar santi. Quello che v'aveva di piú terribile in  tutto  ciò  si
era che la Contessa, anziché ricavar  danari  dalle  possessioni,  non  riceveva
altro che cedole di crediti e minacce esecutive. Non la sapeva piú da qual banda
voltarsi, e se non fossero stati quei pochi frutti della dote  della  Pisana  le
sarebbe mancato addirittura il pane. Tuttavia la giocava  sempre,  e  le  scarse
mesate di Rinaldo passavano il piú delle  volte  nelle  tasche  senza  fondo  di
qualche baro matricolato. Le notizie di Fratta la Pisana diceva averle avute dai
suoi zii di Cisterna che coi loro figliuoli s'erano accasati a Venezia  sperando
di avviarli utilmente in qualche carriera pel favore che la loro famiglia godeva
presso i Tedeschi. Sí da un partito che dall'altro era una gran  ressa  di  mani
intorno ai denari del povero pubblico.  Chi  volete  che  restasse  in  mezzo  o
lontano da ambidue, dove non c'era lusinga di beccar nulla al mondo? Confesso la
verità che di cotali miracoli ne vidi pochissimi in mia vita; e nessuno quasi in
uomini d'età matura. Il disprezzo degli onori e delle  ricchezze  si  appartiene
alla gioventù. Sappia ella tenersi cara questa sua  dote  santissima,  la  quale
sola rende possibili i  grandi  intendimenti  e  facili  le  magnanime  imprese.
L'altra lettera che mi capitava era del vecchio Apostulos. Avvisavami della fuga
della figlia e delle misure prese per rintracciarla in ogni luogo  fuori  che  a
Milano. In questa città un tale incarico era affidato a me. Ne chiedessi  conto,
la cercassi; e trovatala o la rimandassi a Venezia o la trattenessi meco secondo
il miglior grado di lei. Certo egli non vorrebbe usare i diritti della paternità
sopra una figlia ribelle e fuggitiva. Facesse ella di  suo  capo;  egli  non  la
malediceva, ché i pazzi non lo meritano,  ma  la  dimenticava.  Peraltro  in  un
poscritto aggiungeva che aveva disposto per le indagini piú minute  nelle  altre
città di terraferma, e che di colà  i  suoi  corrispondenti  avevano  ordine  di
riaccompagnargli tosto la colpevole. Solo transigeva in favor mio: e  se  vedeva
che l'aberrazione della ragazza potesse guarirsi meglio a Milano che a  Venezia,
adoperassi secondo le circostanze. - Queste ultime parole erano sottosegnate, ma
io non ne capii  affatto  il  recondito  significato.  Pensai  di  chiederne  lo
schiarimento all'Aglaura, se con esse forse non si alludesse  ad  un  matrimonio
col signor Emilio; ma non intendeva allora la  ragione  di  parlarne  con  tanto
mistero. Era certo un curioso destino il mio di esser creduto da ciascuna  parte
il confidente dell'altra; e tutti mi parlavano a cenni, a  mezze  parole,  dalle
quali non ci capiva piú che sull'arabo. Del resto, di mio  padre  nessuna  nuova
ancora; ma non se ne speravano fino al Natale, e le notizie generali di  Levante
erano buone. Con tutto questo viluppo di pensieri, di novità,  di  imbrogli,  di
misteri pel capo, mi fermai ad un caffè a chiedere ove fosse  la  caserma  della
Legione Cisalpina. Mi risposero  a  Santa  Vicenzina,  due  passi  dalla  Piazza
d'Armi. Io ne sapeva con ciò meno di prima; ma a forza di domandare, di voltare,
di ridomandare e di camminare ancora, giunsi ove desiderava. La  disciplina  non
era molto esemplare in quella caserma; si entrava e si usciva come in  un  porto
franco. La confusione il rumore e il disordine non potevano  esser  maggiori.  I
capi attendevano a pavoneggiarsi nelle loro nuove assise e a  farsene  argomento
di conquista sul cuor delle belle  prima  di  recarle  in  campo,  spavento  dei
nemici. I subalterni e i minimi litigavano sempre  fra  loro,  perché  ai  primi
sembrava dover essere primi per ragione di grado; e i secondi del  pari  per  la
prammatica repubblicana che tendeva a rialzar gli ultimi. S'avrà un bel che fare
ma questo viluppo dell'uguaglianza e della dipendenza stenteremo ad accomodarlo;
massime tra noi dove non v'è capo d'oca che non si appropri il famoso Tu  regere
imperio populos di Virgilio: "ed un Marcel diventa Ogni villan che  parteggiando
viene!" ebbe a dire anche Dante.  Sarà  forse  un  pregio  dell'indole  italiana
tralignato in difetto per le condizioni mutate dei tempi.  Com'è  certo  che  la
superbia si affà molto al leone nel deserto ma gli sconviene affatto in  gabbia.
Peraltro, direte voi, quello che fu potrebbe essere, e col battere e  ribattere,
coll'educazione, coll'abitudine molto si ottiene. Io pure vi dirò che  ci  spero
non poco, massime se non ci aduleremo a vicenda; e del  resto  mi  appiglio  piú
volentieri alla boria permalosa dell'Italiano, che  alla  genuflessa  obbedienza
dello Slavo ubbriaco. Qui ci sarebbe  posto  ad  una  gran  dissertazione  sopra
l'opinione di coloro che si  aspettano  dagli  Slavi  l'ultima  verniciatura  di
civiltà; come fanno merito alla Germania del maggior lavoro; e a noi,  poveretti
bastarducci di Roma, non lasciano altro vanto che quello d'un primo disegno,  un
po' ideale, un po' falso se volete, ma pure un po' nostro a quanto pare.  Contro
cotali detrattori delle razze latine  sarebbe  tempo  perduto  lo  scrivere  dei
volumi; basterà additare ed aprire quelli già stampati. L'Italia il passato,  la
Francia ha in mano, checché ne dicano, il  presente  del  mondo.  E  il  futuro?
lasciamolo agli Slavi, ai Calmucchi anche, se se  ne  accontentano.  Io  per  me
credo che quel futuro sarà sempre futuro. Tuttociò  peraltro  non  iscusava  per
nulla della sua trasandatezza, della sua insubordinazione la Legione  Cisalpina.
Lasciamo da un canto la questione del valore; ma vi assicuro  che  in  quanto  a
disciplina e a bell'assetto le famose Cernide di Ravignano  ci  avrebbero  fatto
un'onesta figura.  Cosa  ne  avrebbe  detto  il  teorico  teoricissimo  capitano
Sandracca il quale affermava che in un reggimento ben ordinato un soldato  dovea
somigliare all'altro  piú  che  fratello  a  fratello,  tanta  aveva  ad  essere
l'influenza assimilatrice della disciplina?... Io scommetto invece  che,  a  chi
avesse trovato fra i legionari lombardi due che  portassero  l'ugual  taglio  di
barba, si avrebbe potuto regalare il costo del Duomo di Milano. La storia  della
moda ci aveva in questo particolare i suoi esemplari da Adamo fino ai Babilonesi
agli Ostrogoti e ai granatieri di Federico II. Chiesi conto del  dottor  Lucilio
Vianello, di Amilcare Dossi, e di Giulio Del Ponte ad un soldatuccio sudicio  ed
ingrognato che per la mercede  d'un  mezzo  boccale  lustrava  rabbiosamente  le
scarpe d'un suo collega. - Sono della prima schiera: voltate  a  sinistra  -  mi
rispose quell'ilota dell'eguaglianza. Io voltai a  sinistra  e  ripetei  la  mia
inchiesta ad un altro milite ancor piú sporco del primo che strofinava con  olio
e stoppacci la canna d'un fucile. - Canchero, che Dio li  maledica,  li  conosco
tutti e tre! - rispose costui. - Vianello è appunto il medico  della  compagnia,
quello che ci scanna tutti per ordine dei Francesi che sono  stanchi  di  noi...
Sapete, cittadino, che hanno chiuso la Sala dell'Istruzione pubblica?...  -  Non
ne so nulla - diss'io - ma dove potrei... - Aspettate; come vi diceva,  Vianello
è il medico, Dossi è l'alfiere della mia compagnia, e Del Ponte è  il  caporale,
una figura di morte briaca che non può regger in piedi, e mi butta sulle  spalle
tutti gli incommodi del servizio. Guardate, questo è  il  suo  schioppo  che  mi
tocca sfregolare!... Colla bella festa di stamattina!... Farci  star  dieci  ore
ritti ritti come pali a odorar il vento che sapeva d'inverno piú del bisogno!...
Canchero, ci siamo inscritti per far la guerra, per distruggere la stirpe dei re
e degli aristocratici, noi! non per far la corte al Direttorio  e  portargli  la
candela in processione!... Per cotal mestiere mandino a chiamare  gli  staffieri
dell'Arciduca Governatore. È una vera ignominia... Non ho  bevuto  in  tutt'oggi
che un terzino di Canneto...  E  sí  che  per  niente  non  si  dovrebbe  essere
repubblicani!... Cittadino, mi onorereste d'un piccolo prestito  per  comperarne
una pinta?... Giacomo Dalla Porta, capofila nella prima  schiera  della  Legione
Cisalpina ai vostri comandi. Io gli sporsi, s'intende a titolo di prestito,  una
lira di Milano, col patto che mi conducesse senz'altre chiacchiere da alcuno  di
quei tre che gli aveva nominato. Buttò via lo schioppo, l'olio,  gli  stoppacci;
fece quattro salti proprio alla meneghina con quella liretta fra  il  pollice  e
l'indice, e squadrandomi l'altra mano ben aperta sul  naso,  corse  giù  per  la
scala  in  cerca  dell'oste.  "Fidatevi  della  probità  repubblicana!"   pensai
brontolando come un vecchio. - M'era uscito di capo che, con una carta stampata,
e una festa nel campo della Federazione, si può bensí avviare ma non compiere il
rinnovamento dei costumi, e che d'altronde della gente cui va piú  a  sangue  il
vino che far piacere al prossimo ne rimarrà sempre in tutte le repubbliche della
terra. Finalmente trovai per un  corritoio  un  altro  soldatino  azzimato,  ben
composto quasi elegante che corrispose  al  mio  saluto  con  un  inchino  quasi
cortigianesco, e mi diede del cittadino come quattro mesi prima mi avrebbe  dato
del conte e dell'eccellenza. Tanto era il bel garbo e la tornitezza della  voce.
Doveva essere qualche marchese, invasato  dall'amore  della  libertà,  che  avea
pensato  farsi  frate  di  cotal  nuova  religione  ascrivendosi  ai   legionari
cisalpini. Martiri eleganti e spensierati che abbondano in tutte le rivoluzioni,
e dei quali chi dice male merita la scomunica, perché finiscono con un  poco  di
pazienza a diventar eroi. E ne abbiamo parecchi e  di  fresca  data  nel  nostro
calendario; per esempio il Manara, milanese anche lui come l'anonimo  marchesino
che mi fece parlare. Costui  insomma,  per  sbrigarmi,  mi  condusse  con  molta
compitezza fino alla stanza del  dottor  Lucilio:  e  là  tornammo  a  riverirci
scambievolmente che sembravamo due primi ministri dopo una  conferenza.  Entrai.
Non vi posso dire la sorpresa le congratulazioni gli abbracciamenti del dottore,
e di Giulio che era con lui. Certo credo che per un fratello non avrebbero fatto
maggiori feste e da ciò conobbi che mi volevano un briciolo di bene.  Io  sentii
come un rimorso di stringermi Giulio sul cuore e di baciarlo. Si può dire  ch'io
aveva tuttora calde le labbra di quelle della  Pisana,  di  colei  ch'egli  pure
aveva amato e che forse colla sua spensieratezza colla sua civetteria gli  aveva
instillato nelle vene il fuoco febbrile che lo consumava. Ma d'altronde egli  ci
avea rinunciato per un amore piú degno  e  fortunato;  lo  ritrovava  pallido  e
scarno bensí ma non certo a peggior partito di quello che fosse  a  Venezia,  ad
onta della vita disagiata e soldatesca della caserma. Lucilio mi  rassicurò  sul
suo conto assicurandomi che la malattia non avea fatto progressi; e che il  buon
umore, la occupazione moderata e continua, il cibo parco e  regolare,  avrebbero
forse indotto alla lunga qualche miglioramento. Giulio sorrideva come chi  crede
forse ma non estima prezzo dell'opera lo sperare; s'era fatto soldato per morire
non per guarire, e s'era tanto accostumato a quell'idea, che la  menava  innanzi
allegramente, e come Anacreonte s'incoronava di rose coll'un piede nel sepolcro.
Li domandai delle loro speranze, delle occupazioni, della vita. Tutto andava pel
meglio. Speranze impazienti e grandissime per la rivoluzione che fremeva a Roma,
a Genova, in Piemonte, a Napoli, pel movimento unitario che  incominciava  dalla
prossima aggregazione di Bologna di Modena e perfino di Pesaro e di Rimini  alla
Cisalpina. - Toccheremo a  Massa  il  Mediterraneo;  -  diceva  Lucilio  -  come
c'impediranno che si tocchi a Venezia l'Adriatico?... -  E  i  Francesi?  -  gli
domandai. - I Francesi ci aiutano bene, perché  noi  non  saremmo  in  grado  di
aiutarci da noi. Sicuro che bisogna stare cogli occhi aperti, e non  sorbire  le
frottole come da quello sciocco di Villetard: e  sopratutto  tener  salde  colle
unghie e coi denti le nostre franchigie e  non  lasciarcele  tôrre  per  oro  al
mondo. Erano presso a poco le mie idee; ma dal calore della voce, dalla vivacità
del gesto capii di  leggieri  che  la  grandiosa  solennità  del  mattino  aveva
riscaldato anche la guardinga immaginazione di Lucilio, e  ch'egli  non  era  in
quella sera il medico spassionato di due mesi prima. Cosí mi piaceva di piú;  ma
era meno infallibile e per quanto i suoi pronostici concordassero coi miei,  non
volli  ancora  fidarmene  alla  cieca.  Gli  mossi  adunque  un  qualche  dubbio
sull'ignoranza e sull'inesperienza del  popolo  che  mi  pareva  non  atto  alla
sapiente civiltà degli ordinamenti  repubblicani,  e  sull'insubordinazione  che
aveva osservato io  stesso  nelle  milizie  recentemente  formate.  -  Sono  due
obiezioni cui si risponde con un solo ragionamento - soggiunse Lucilio. - Che si
vuole ad educare dei soldati disciplinati?... La  disciplina.  Che  si  vuole  a
formare dei veri virtuosi integri repubblicani?... La repubblica. Né soldati  né
repubblicani nascono spontaneamente:  tutti  nasciamo  uomini,  cioè  esseri  da
educare o bene o male, futuri servi, futuri Catoni secondoché capitiamo in  mani
scellerate od oneste. Mi consentirai del resto che se la repubblica non varrà  a
formare i perfetti repubblicani, di  poco  sarà  piú  destra  o  volonterosa  la
tirannia a prepararli! - Chi sa! - io sclamai. - La Roma di  Bruto  sorse  dalla
Roma di Tarquinio! - Eh! statti pure in pace, Carlino, su questo punto; ché  de'
Tarquinii non ne mancarono a noi in quattro o  cinque  secoli  di  pazzie  e  di
servitù!... Dovremmo essere educati abbastanza. Dimmi piuttosto qualche cosa  di
te. Oh perché ti sei attardato fino ad ora a Venezia? Come t'ingegnavi  a  poter
vivere colà? Io recai ancora innanzi per iscusa la morte di Leopardo,  i  negozi
lasciati  sospesi  da  mio  padre,  e  finalmente  mi  diedi  coraggio,   mandai
un'occhiata di soppiatto a Giulio,  e  nominai  la  Pisana.  Allora  ambidue  mi
chiesero a gara com'era stato quel tramestio con un ufficiale  francese  di  cui
qualche cosa s'avea buccinato fino a Milano. Io esposi la cosa per filo; e  come
gli incommodi e i pericoli che n'erano derivati alla Pisana  avessero  costretto
me a trattenermi colà per difenderla e consolarla in qualche maniera. Mi diffusi
soprattutto nella descrizione della mia fuga per far risaltare ai loro occhi  il
rischio ch'io sfidava  rimanendo  a  Venezia,  e  che  certo  non  avrei  voluto
espormivi se una grave necessità non mi sforzava. In poche parole mi  confessava
colpevole entro di me di quell'indolente  tardanza,  ma  non  voleva  che  altri
potesse raccoglier argomenti da formulare un'accusa. Per non fermarmi poi troppo
sopra  questo  punto  che  mi  scottava  in  mano,  discorsi  delle   condizioni
provvisorie di Venezia, degli ultimi spogli del  Serrurier,  del  nuovo  governo
stabilitosi nel quale il  Venchieredo  mi  pareva  avere  qualche  influenza.  -
Caspita! non lo sai? - soggiunse Lucilio. - L'era il corriere fra gli  Imperiali
di Gorizia e il Direttorio di Parigi!... - O piuttosto il Bonaparte di Milano  -
corresse Giulio. - Sia anche: già è lo  stesso.  Buonaparte  non  potea  disfare
quello che il Direttorio aveva già ordito. Il fatto sta che  il  Venchieredo  fu
pagato bene, ma temo o spero che gli andrà alla peggio, perché serve sempre male
ed ha il danno e le beffe chi serve troppo. - A proposito - chiesi  io  -  e  di
Sandro di Fratta che ne dite?... L'ho veduto stamattina  alla  festa  con  tante
costellazioni intorno che pareva il Zodiaco! -  Adesso  si  chiama  il  capitano
Alessandro Giorgi dei Cacciatori a piedi - mi rispose  Lucilio.  -  Si  è  fatto
grande onore nel reprimere i moti sediziosi del contadiname del Genovesato.  Ora
si va innanzi. L'han fatto tenente e poi capitano  in  un  mese;  ma  della  sua
compagnia, tra le schioppettate, gli assassinamenti, e le grandi  fatiche  credo
ne siano rimasti quattro soli di vivi. Uno per forza doveva  diventar  capitano:
gli altri erano due ciabattini e un mandriano. Fu scelto, com'era di dovere,  il
mugnaio!... Lo troverai; e vedrai come gonfia! È un bravo e buon  figliuolo  che
offre la sua protezione a quanti incontra e non si starà dall'offrirla  anche  a
te. - Grazie - risposi io - l'accetterò al bisogno. -  Non  per  ora  -  replicò
Lucilio - ché il tuo posto è con noi  e  con  Amilcare.  Mi  dissero  allora  di
quest'ultimo com'era piú fiero e sgangherato che mai,  e  si  manteneva  l'anima
della loro brigata coi  ripieghi  che  sapeva  trovare  ai  peggiori  frangenti.
Ridotti a vivere della paga, si può  immaginare  che  sovente  erano  al  verde;
toccava allora ad Amilcare trovar ispedienti per far  denaro,  e  avuto  questo,
ingegnarsi di sparagnarlo fino al toccar delle nuove  paghe.  Amilcare  mi  fece
tornar in mente anche Bruto Provedoni che dicevano partito insieme col Giorgi  e
non ne avea piú saputo novella. Egli era tuttavia alle  guerricciuole  liguri  e
piemontesi dove ad onta che il Re fosse  buon  amico  e  miglior  servitore  del
Direttorio, questi s'adoperava sempre a mantener viva la resistenza  per  averne
appiglio  quandochessia  a  qualche  bel  colpo.  Aveva  intanto  stuzzicato  la
rintonacata Repubblica Ligure a movergli guerra, e vietato a lui di  difendersi;
il povero Re non sapeva da qual banda volgersi; dappertutto  precipizi.  Fortuna
che l'armigero e fedele  Piemonte  non  somigliava  per  nulla  la  sonnacchiosa
Venezia; ché altrimenti si sarebbe veduta qualche simile ignominia. Ignominia ci
fu, ma tutta dal lato dei Francesi. - Mi venne allora  comodissimo  di  chiedere
anche d'Emilio Tornoni, fingendo di conoscerlo e desiderarne  qualche  contezza.
Lucilio sporse il labbro, e nulla rispose.  Giulio  mi  disse  ghignando  ch'era
partito per Roma con una  bella  contessa  milanese  a  farci  probabilmente  la
rivoluzione. I loro atti dispregiativi mi diedero qualche sospetto ma non  potei
cavarne di piú. Indi a poco rientrò quel capo svasato di Amilcare;  nuovi  baci,
nuova maraviglia. L'era diventato negro come un arabo, con una  certa  voce  che
pareva accordata allo strepito della moschetteria; ma mi spiegarono poi  che  se
l'aveva guastata a quel modo insegnando camminare alle reclute. Infatti il mover
un passo, che è per sé cosa facilissima, i tattici  di  guerra  l'hanno  ridotta
l'arte piú malagevole del mondo e bisogna dire  che  prima  di  Federico  II  si
combattessero le battaglie o senza camminare o camminando assai male;  e  non  è
incredibile che di qui a cent'anni s'insegni ai soldati a batter  le  terzine  e
marciare a passo di polka. Quella sera  non  volea  terminare  piú,  tante  cose
avevamo da raccontarci; ma eravamo usciti sui bastioni, e al sonar  dei  tamburi
Lucilio fece motto agli altri due ch'era tempo di ritirarsi. - Eh  sí!  -  disse
Amilcare stringendosi nelle spalle. - Un ufficiale par mio ubbidirà al  tamburo!
- Ed io sono malato; e fo conto d'essere allo spedale - soggiunse Giulio. Io  mi
fidava che Lucilio li avrebbe chiamati al dovere, perché  mi  tardava  l'ora  di
abboccarmi coll'Aglaura e portarle la lettera e le notizie d'Emilio;  ma  i  due
coscritti non badavano punto alle parole del dottore e  mi  convenne  godere  la
loro compagnia fin'oltre le nove. Allora vollero accompagnarmi al mio  alloggio,
e siccome non li invitai a salire e videro il lume alle finestre e un'ombra come
di donna disegnarsi sulla cortina, cominciarono a darmi la  baia,  e  far  mille
conghietture, e a consolarsi con me della mia fortuna. Insomma, sussurrava  quel
disperatello di Amilcare che io temeva ogni poco di veder l'Aglaura al  balcone.
Quando  Dio  volle  Lucilio  li  persuase  d'andarsene,  e  potei  salire  dalla
giovinetta e confortarla della sua penosa solitudine. Le porsi la lettera  e  la
vidi sospirare e quasi piangere nel leggerla, ma faceva forza  a  non  lasciarsi
vedere. - Se è lecito, chi vi scrive? - le chiesi. Mi rispose ch'era  Spiro  suo
fratello. Ma schivò frettolosamente tutte le altre domande che le indirizzai,  e
solamente mi comunicò ch'egli s'era apposto benissimo e che la credeva a  Milano
in mia compagnia. Com'era dunque che non veniva a raggiungerla con  quel  grande
affetto che le aveva? - Ecco quello che non seppe chiarire;  ma  lo  chiarii  in
seguito quando seppi che Spiro era stato sostenuto in carcere  come  manutengolo
della mia fuga. Appunto quella lettera usciva della prigione e perciò  l'Aglaura
se n'era intenerita. Mi chiese ella poi se io pure avessi  ricevuto  lettere  da
Venezia, e rispostole che sí, me ne domandò notizia. Io senz'altro le  porsi  la
lettera di suo padre, e quella ove la  Pisana  raccontava  i  rimescolamenti  di
Venezia. Lesse tutto senza batter ciglio; solamente quando giunse al  punto  ove
erano nominati Raimondo Venchieredo e la Doretta ella dié un piccolo  guizzo  di
sorpresa, e ripeté fra sé come per accertarsene quel nome di Doretta. - Che è? -
diss'io. - Eh nulla! gli è che io pure conosco questa signora cosí di riverbero;
e mi maravigliai di trovarne il nome in una lettera indirizzata a voi. Se avessi
pensato che il Venchieredo è delle vostre parti non mi sarei stupita tanto. -  E
come conoscete i Venchieredo voi? - Li conosco, oh bella, perché li  conosco!...
Anzi no, voglio dirvelo. Erano essi  in  qualche  corrispondenza,  di  interessi
suppongo, con Emilio. - A proposito, deggio darvi una triste notizia. - Quale? -
Il signor Emilio Tornoni è  partito  per  Roma.  (Tacqui,  per  prudenza,  della
contessa). - Lo sapeva; ma tornerà -  rispose  l'Aglaura  con  piglio  quasi  di
sfida. - Vi pregherò intanto di informarvi domani se fosse qui il signor Ascanio
Minato, aiutante del generale Baraguay  d'Hilliers,  e  il  signor  d'Hauteville
segretario del generale Berthier. Sono persone che mi premono per le notizie  di
Emilio che posso averne all'uopo. - Sarete servita. -  E  ditemi,  avete  saputo
null'altro di lui? - Null'altro! - Nulla, nulla?... proprio nulla?  -  Nulla  vi
dico. - Era quasi per prender soggezione della giovinetta udendola  parlare  con
tanta indifferenza d'aiutanti e di generali; ma non volli significarle il tacito
disprezzo da me notato negli atti di Lucilio e di Del Ponte quando ebbi  loro  a
nominare il Tornoni. Sapeva quanto piacere si dà alle innamorate  sparlando  dei
loro belli. - Aglaura - ripresi dopo un istante di  silenzio  per  ravvivare  la
conversazione - voi siete abbastanza misteriosa, e converrete che la mia bontà e
la mia discrezione... - Sono senza pari - aggiunse ella. - No,  non  voleva  dir
questo, avrei soggiunto invece che meritano un granino di  confidenza  da  parte
vostra. - È vero, amico mio. Chiedete e risponderò.  -  Se  vi  pianterete  cosí
seria e pettoruta come una regina mi morranno le parole  in  bocca.  Via,  siate
ilare e modesta come la prima sera che vi ho veduta... Cosí, cosí per  l'appunto
mi piacete!... Ditemi dunque ora come avete tanto domestici tutti questi nomi  e
cognomi dello Stato Maggiore francese... Mi sembravate poco fa  un  generale  in
capo che disponesse le schiere per una battaglia! - Altro non volete  sapere?  -
Nient'altro: la mia curiosità per ora è tutta qui. - Or bene: quei signori erano
amicissimi d'Emilio; ecco perché li conosco. - Anche il signor Minato. -  Quello
anzi piú degli altri; ma gli è anche il piú galantuomo,  vale  a  dire  il  meno
birbante di tutti questi ladroni. - Parlate piano,  Aglaura!...  Non  siete  piú
quella di questa mane!... Come mai svillaneggiate or quelli stessi che levaste a
cielo poche ore fa?... - Io?... Io ho levato al cielo  la  Repubblica,  non  chi
l'ha fabbricata. Anche l'asino talora può andar carico di pietre preziose... Del
resto ladri in camera possono essere eroi all'aperto; ma eroi macellai, non... -
E ditemi un poco, Spiro vi scrive di venirvi  a  prendere,  o  che  n'andiate  a
Venezia? - Perché questa domanda?...  Siete  stufo  d'avermi?  -  Felice  notte,
Aglaura: parleremo domani. Oggi siete maldisposta. Infatti mi ritrassi nella mia
stanzuccia dietro della sua, e mi coricai pensando alla Pisana, alle  strettezze
che dovevano angustiarla, ai pericoli  della  sua  solitudine.  Sopratutto  quel
rappaciamento colla Rosa e le visite della Doretta  mi  davano  ombra:  Raimondo
veniva poi; giacché capiva che egli era il grosso caprone  che  sarebbe  passato
pei buchi fatti dalle pecore. Aggiustai  fin  d'allora  di  mio  capo  un  certo
letterone da scrivere il giorno dopo, e  dal  pensiero  della  Pisana  passai  a
quello dell'Aglaura che se stringeva meno s'oscurava anche  di  piú.  Chi  potea
vedere un barlume di chiaro in quel turbine di testolina? - Io no per  certo.  -
Da Padova a Milano ella m'avea menato sempre di sorpresa in sorpresa; pareva non
già una fanciulla occupata a vivere, ma un romanziere francese inteso a comporre
un'epopea. Le  sue  azioni  le  sue  parole  s'avvicendavano  si  ritiravano  si
scavalcavano a fatti a contrapposti a sorprese  come  le  strofe  di  un'ode  di
Pindaro mal raffazzonate dagli scoliasti.  Ci  sognai  dietro  tutta  notte,  la
osservai buona parte del mattino, e uscii colla lettera per la Pisana  in  tasca
senza essermi avvantaggiato di nulla. Dentro ne inclusi una per l'Apostulos  ove
gli significava tutta la condotta dell'Aglaura, mettendomi ai  suoi  comandi  in
quanto poteva concernerla; lo pregava anche di prestarsi in quanto  abbisognasse
alla Pisana come per un altro me stesso. S'intende  ch'io  misi  il  tutto  alla
posta senza nulla dire alla giovine, perché lí era in ballo la mia  coscienza  e
non si volean cerimonie. Far da papà sí, ma non da birbone  per  amor  suo.  Sul
mezzogiorno mi abboccai con Lucilio al caffè del Duomo che a que' tempi  era  il
convegno di moda,  e  dove  ci  avevamo  dato  l'appostamento.  Egli  si  mostrò
spiacentissimo di non avermi potuto inscrivere nella Legione Cisalpina dove  non
c'era proprio piú nessun posto vacante; ma piuttosto che lasciar ozioso  un  par
mio, diceva egli, avrebbe cercato  inspirazione  dal  diavolo,  e  poteva  esser
contento che gliene era saltata una di ottima. - Ora ti menerò dal tuo  generale
- diss'egli - generale, comandante,  capitano,  commilitone,  tutto  quello  che
vorrai! È uno di quegli uomini che sono troppo superiori agli altri per darsi la
briga di accorgersene di mostrarlo: non si può credere ad alcun patto che in lui
sia un'anima sola, e sembra che la sua immensa attività dovrebbe  stancarne  una
dozzina al giorno. Contuttociò ammira i  tranquilli  e  compatisce  perfino  gli
indolenti. Sul  campo  io  scommetto  che  da  solo  basterebbe  a  vincere  una
battaglia, purché non gli ferissero gli occhi nei quali risiede la  sua  potenza
piú straordinaria. È napoletano, e a  Napoli  direbbero  che  ha  la  jettatura,
ovvero, come dicono nei nostri paesi, il mal'occhio; da non confondersi peraltro
coll'occhio cattivo, anzi pessimo del fu cancelliere di Fratta. - E chi è questa
fenice? - gli chiesi.  -  Lo  vedrai,  e  se  non  ti  va  a  sangue  mi  faccio
sbattezzare. In queste parole mi tirò fuori del caffè, e giù  a  passo  sforzato
oltre al Naviglio di Porta Nuova verso i bastioni. Entrammo in  una  vasta  casa
dove il cortile era pieno affollato di cavalli di stallieri di scozzoni di selle
di bardature come in una caserma di cavalleria. Per la scala era un su e giù  di
soldati  di  sergenti  d'ordinanze  come  al  palazzo  del  Quartier   Generale.
Nell'anticamera altri soldati, altre armi disposte a trofeo o  gettate  a  fasci
nei cantoni: v'avea anche ammassato in un canto un piccolo magazzino di  tuniche
di tracolle  e  di  scarponi  soldateschi.  "Chi  è?"  pensava  io  "forseché  è
l'Arsenale?..." Lucilio tirava diritto senza scomporsi, come  persona  di  casa.
Infatti senza neppur farsi  annunziare  nell'ultima  anticamera  da  una  specie
d'aiutante che stava là contando i travi, schiuse la porta  ed  entrò  tenendomi
per mano dinanzi allo strano padrone di quel ginnasio militare. Era  un  giovine
alto, di trent'anni all'incirca, un vero tipo di venturiero, il ritratto animato
d'uno di quegli Orsini, di quei Colonna, di quei Medici la cui vita fu una serie
continua di battaglie, di saccheggi, di duelli, di prigionie. Si chiamava invece
Ettore Carafa; nobilissimo nome fatto piú illustre dall'indipendenza di  chi  lo
portava, dal suo amore per la  libertà  e  per  la  patria.  Per  le  sue  trame
repubblicane aveva egli sofferto lunga carcerazione nel famoso Castel Sant'Elmo;
indi fuggitone s'era ricoverato a Roma, e di là a Milano a  formarvi  a  proprie
spese una legione per liberar Napoli. Aveva uno di quegli animi che uniti o soli
vogliono fare ad ogni costo; e questa magnanimità gli  respirava  dignitosamente
nella grand'aria del viso. Soltanto  tramezzo  un  ciglio  gli  calava  giù  una
piccola cicatrice contornata da un'aureola di pallore; sembrava il  segno  d'una
trista fatalità fra le nobili speranze d'un valoroso. Egli s'alzò dal  lettuccio
sul quale stava disteso, tese la mano a Lucilio  e  si  congratulò  secolui  del
bell'ufficiale che gli accompagnava. - Ufficiale di poco conto - gli risposi io.
- La vera arte militare io non la conosco che di nome. - Avete  cuore  di  farvi
ammazzare per difendere la patria e l'onor vostro? - riprese il  Carafa.  -  Non
una ma cento vite - soggiunsi - darei per sí nobili ragioni. - Ecco  amico  mio;
vi permetto di potervi credere fin  d'ora  perfetto  soldato.  -  Soldato  sí  -
s'intromise Lucilio - ma ufficiale?... - A questo lasciate che ci  pensi  io!...
Sapete nulla montar a cavallo, caricare uno schioppo, e maneggiar la spada? - So
qualche cosa di tuttociò (Era merito di Marchetto e  ne  lo  ringraziai  allora,
come poco prima avea ringraziato il Piovano della sua  classica  istruzione).  -
Allora, eccovi anche ufficiale. In una legione come la mia che  farà  la  guerra
alla spicciolata, l'occhio e la buona volontà faranno piú  del  sapere.  Stasera
tornate da me all'ora della ritirata. Vi consegnerò la vostra schiera,  e  state
di buon animo che di qui a tre mesi avremo conquistato il Regno  di  Napoli.  Mi
pareva di udir parlare Roberto Guiscardo o  qualche  paladino  dell'Ariosto,  ma
parlava sul serio e me ne accorsi poi alla  prova.  Stentava  a  dimandargli  se
avrei potuto dormire fuori di caserma,  ma  gliene  chiesi  alfine  e  mi  disse
sorridendo che era diritto degli ufficiali. - Capisco; - soggiunse  -  avete  le
notti impegnate con un altro colonnello. Io m'imbrogliai  e  non  dissi  di  no;
Lucilio sorrise anch'esso; il fatto  poi  stava  che  non  poteva  lasciar  sola
l'Aglaura, ma qual piacere ritraessi io dal farle la guardia lo sapeva il cielo.
Io fui soddisfattissimo allora del signor Ettore Carafa, e meglio due  tanti  in
seguito. Ricorderò sempre con piacere quella vita frugale operosa e  soldatesca.
Alla mattina gli esercizi coi miei soldati, poi il pranzo e qualche gran  seduta
di chiacchiere con Amilcare con Giulio con Lucilio;  il  dopopranzo  e  la  sera
conversazione coll'Aglaura che aspettava sempre Emilio e non voleva  saperne  di
tornar a Venezia. Frammezzo, qualche lettera agrodolce della Pisana.  Ecco  come
giungemmo al tempo della rivoluzione di Roma, la quale  doveva  dar  piede  alle
operazioni militari del Carafa nel Regno.


CAPITOLO DECIMOSESTO

Nel quale si svolge il piú incredibile dramma familiare che  possa  immaginarsi.
Digressione sulle vicende di Roma, sopra Foscolo e Parini  ed  altri  personaggi
della Repubblica Cisalpina. Io guadagno una sorella, e do a Spiro Apostulos  una
sposa. Mantova, Firenze e Roma.  Avvisaglie  al  confine  napoletano.  La  ninfa
Egeria di Ettore Carafa. Una scommessa mi fa  riguadagnar  la  Pisana;  ma  alle
prime non ne son molto lusingato.

Il dí quindici febbraio 1798 cinque notai in Campo Vaccino avevano rogato l'atto
di libertà del popolo romano.  Assisteva  liberatore  quel  Berthier  che  aveva
assistito  traditore  al  congresso  di  Bassano  per  la  conservazione   della
Repubblica Veneta. Il Papa stava chiuso nel Vaticano fra  svizzeri  e  preti;  e
negando egli di svestirsi dell'autorità temporale fu levato di Roma militarmente
e condotto in Toscana. Unico esempio di inflessibilità italiana in quel tempo di
continui mutamenti, di sùbite paure; e fu in Pio VI. Per quanto  poco  cristiano
mi fossi, ricordo che ammirai la costanza del gran vecchio, e comparandola  alla
tremula debolezza del doge Manin, faceva doloroso raffronto  fra  quei  due  piú
antichi governi d'Italia. Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu  del
tutto spogliata per  la  presenza  dei  repubblicani;  l'uccisione  del  general
Duphot, pretesto alla guerra, fu suffragata con esequie, con luminarie  e  colla
spogliazione di tutte le chiese. Casse gravi di pietre preziose  s'incamminavano
per Francia, mentre l'esercito restava  stremo  di  tutto  e  tumultuava  contro
Massena  succeduto  a  Berthier.  Le  campagne  insorgevano   ed   erano   piene
d'assassinii; cominciava insomma uno di quei drammi  sociali  rimasti  solamente
possibili nel mezzogiorno d'Italia e  nella  Spagna.  In  quel  torno,  compiuto
l'ordinamento della legione del Carafa, non altro si aspettava che l'assenso del
general in capo francese per partire  a  quella  volta.  Io  mi  trovava  in  un
bell'imbroglio. L'Aglaura voleva partirsi con me  giacché  il  viaggio  di  Roma
s'accordava alle sue idee; io né voleva rifiutarmi né esporla ai pericoli  d'una
lunghissima marcia  in  stagione  disastrosa  come  quella.  Scriveva  perciò  a
Venezia; non rispondevano. La Pisana stessa mi teneva allo scuro di sue  novelle
da un  pezzo.  Quella  spedizione  di  Roma  mi  si  presentava  sotto  auspicii
tristissimi. Tuttavia sperava sempre dall'oggi in domani;  e  mentre  il  Carafa
tempestava per quel benedetto assenso sempre ritardato, io me ne confortava come
d'un maggior campo che ancora mi rimaneva a qualche vaga speranza.  I  miei  tre
amici con parte della Legione lombarda, erano già  calati  verso  Roma.  Restava
proprio solo, e non aveva altra compagnia che quella  dello  splendido  capitano
Alessandro. Il peggio si era che, venuta da Venezia o da Milano,  il  fatto  sta
che la voce s'era sparsa della mia convivenza con  una  bella  greca:  ed  erano
continue le  baiate  sopra  di  ciò  dei  miei  commilitoni.  Immaginatevi  qual
consolazione col bel costrutto che ce ne cavava! Vi assicuro che avrei dato  una
mano, come Muzio Scevola, perché Emilio si stancasse della contessa  milanese  e
venisse a riprendersi l'Aglaura. Non ch'ella mi pesasse molto,  ché  mi  ci  era
avvezzato, e la mi faceva da governante con una pazienza mirabile, ma mi seccava
di aver l'apparenza d'una felicità che in fatto apparteneva ad un altro.  Mi  fu
svagamento a tali fastidi l'amicizia rappiccata col Foscolo  reduce  da  qualche
tempo a Milano. La sua focosa e convulsa eloquenza mi ammaliava; lo udii per piú
di due ore bestemmiare e sparlare di tutto, dei  Veneziani,  dei  Francesi,  dei
Tedeschi, dei  re,  dei  democratici,  dei  Cisalpini,  e  gridava  sempre  alla
tirannia, alla licenza; vedeva fuori di sé gli eccessi della propria anima. Pure
Milano di allora gli era degno teatro. Colà s'erano  riuniti  i  piú  valenti  e
generosi uomini d'Italia; e l'antica donna, che sparsi  non  li  aveva  contati,
gloriavasi allora a  buon  dritto  di  quell'improvviso  ed  illustre  areopago.
Aldini, Paradisi, Rasori,  Gioia,  Fontana,  Gianni,  i  due  Pindemonte,  erano
personaggi da riscaldare la potente loquela di Foscolo. Per  mezzo  suo  conobbi
anche i poeti Monti e Parini, l'armonioso  adulatore,  e  il  severo  ed  attico
censore. La figura grave  serena  ed  affabile  del  Parini  mi  resterà  sempre
impressa nella memoria; i suoi piedi quasi storpi, lo conducevano a rilento;  ma
il fuoco dell'anima lampeggiava ancora dalle ciglia canute. La  lettera  in  cui
Jacopo Ortis racconta il suo dialogo con Parini  è  certo  una  viva  e  storica
reminiscenza di quel tempo; potrei farne testimonianza. Io  stesso  vidi  alcuna
volta il cadente abate e il giovin impetuoso seder vicini sotto  un  albero  nel
sobborgo fuor di Porta Orientale. Li raggiungeva e piangevamo insieme  le  cose,
ahi, tanto minori dei nomi!... Ben era quel Parini che richiesto di gridare Viva
la Repubblica e muoiano i tiranni, rispose: -  Viva  la  Repubblica  e  morte  a
nessuno! - Ben era quel Foscolo che diede l'ultima pennellata  al  suo  ritratto
dicendo: - Morte sol mi darà pace e riposo. - Io non era che  un  umile  alfiere
della Legione Partenopea; ma col cuore, lo dico a fronte  alta,  potevo  reggere
del paro con quei grandi, perciò li capiva, e mi si affaceva la loro  compagnia.
Anche Foscolo s'era fatto ufficiale nell'esercito cisalpino. Si creavano a  quel
tempo gli ufficiali, come  gli  uomini  dai  denti  di  Cadmo.  Medici,  legali,
letterati cingevano la spada; e la  toga  cedeva  alle  armi.  I  giovani  delle
migliori famiglie continuavano a darne il buon esempio; la costanza  il  fervore
l'emulazione supplivano  alla  strettezza  del  tempo.  In  onta  a  passeggieri
disordini, e a repubblicane insubordinazioni,  il  nucleo  del  futuro  esercito
italico s'era già formato. Carafa  temeva  che  i  generali  francesi  volessero
stancheggiarlo menarlo per le lunghe  acciocché  s'afforzasse  anche  della  sua
legione la  forza  cisalpina.  Napoletano  anzi  tutto,  di  spiriti  ardenti  e
vendicativi, figuratevi  se  imbizzarriva  per  questo  sospetto!...  Credo  che
avrebbe intimato la guerra ai Francesi se nulla nulla lo molestavano. Finalmente
arrivò l'assenso tanto sospirato. Ai primi di marzo doveva  la  legione  moversi
alla volta di Roma a raggiungervi l'esercito  franco-cisalpino  per  le  imprese
future. Non s'avea piú tempo da confidare nella fortuna.  L'Aglaura  mi  restava
sulle braccia, e dovea partire senza saper nulla della Pisana e di mio padre. Se
il sentimento dell'onore, l'amore della patria e della libertà non fossero stati
in me molto potenti,  certo  avrei  fatto  qualche  grosso  sproposito.  Intanto
romoreggiava fra le nuvole la gragnuola che doveva pestarmi il capo, ed  io  non
m'accorgeva di  nulla.  Disperato  del  lungo  silenzio  della  Pisana  e  degli
Apostulos, io aveva scritto  ad  Agostino  Frumier,  pregandolo  per  la  nostra
vecchia amicizia di volermi dar contezza di  persone  che  mi  stavano  tanto  a
cuore. Di questa lettera io non avea fatto cenno ad alcuno perché sí Lucilio che
gli altri veneziani l'avevano molto col  Frumier  e  lo  consideravano  come  un
disertore. Contuttociò la spedii poiché non  sapeva  cui  meglio  rivolgermi;  e
aspetta, aspetta, io aveva già perduto ogni speranza  quando  me  ne  capitò  la
risposta. Ma indovinate mo chi mi scriveva?...  Sí,  era  Raimondo  Venchieredo.
Certo il Frumier, adombratosi di mantener corrispondenza con  un  esule  con  un
proscritto, avea passato l'incarico a quell'altro: e Raimondo  poi  mi  scriveva
che tutti a Venezia si maravigliavano di sapermi ignaro della  Pisana  da  tanto
tempo, egli in primo luogo; che s'avevano ottime ragioni per crederla  a  Milano
con mio assenso, consenso e compartecipazione dei frutti;  che  avea  tardato  a
scrivermi appunto per questo che lo giudicava superfluo per la mia  quiete,  non
essendo le mie smanie altro che astuzie per  darla  ad  intendere  alla  vecchia
Contessa, al conte Rinaldo ed al Navagero. Costoro del resto se ne davano  pace,
e dicessi alla Pisana che in quanto a lui se l'avea pigliata con pace del  pari,
ma che non sarebbe mancato tempo ad una buona rivincita. Cosí finiva recisamente
la lettera, onde ebbi il cervello occupato un'altra volta  a  fabbricar  romanzi
sulle allusioni degli altri. A che miravano quelle ire di Raimondo colla Pisana?
E cosa mi augurava il  disparimento  di  costei  da  Venezia?...  Fosse  proprio
vero?... Dimorasse ella  a  Milano  senza  farmene  motto?  -  Non  mi  sembrava
possibile. - E poi con quali  mezzi  mettersi  ad  un  viaggio  e  ad  una  vita
dispendiosa sopra gli alberghi?... Gli è vero  che  aveva  qualche  diamante,  e
poteva anche aver ricorso agli Apostulos. Ma  di  costoro  Raimondo  non  moveva
neppur parola.  Cosa  ne  fosse  avvenuto?...  Che  Spiro  languisse  ancora  in
carcere?... Ma suo padre allora perché non  iscriveva?  -  Insomma,  le  notizie
ricevute da Venezia non aggiunsero che una spina di piú a quelle che  aveva  già
nel cuore, e mi disponeva di malissima voglia alla partenza. Anche il Carafa non
sembrava piú tanto impaziente; cioè, mi  spiego,  non  guardava  piú  con  tanta
stizza alla mia volontà mal dissimulata di tardare. Un giorno, mi ricordo,  egli
mi prese da  un  lato  a  quattr'occhi  e  mi  fece  sostenere  uno  stranissimo
interrogatorio. Chi era quella bella greca che dimorava con me; perché  vivevamo
insieme (non lo sapeva neppur io), se aveva altre amanti, e dove, e chi fossero.
Insomma, mi pareva il confessor d'un contino appena  tornato  dal  prim'anno  di
università. Io risposi sinceramente, ma con qualche imbroglio, massime in  punto
all'Aglaura. Sfido io! Era materia tanto imbrogliata per sé che ci voleva  assai
meno  della  sorpresa  di   quella   inquisizione   per   renderla   addirittura
inestricabile. -  Dunque  voi  amate  una  signorina  di  Venezia,  e  convivete
cionnonostante a Milano con questa bellissima greca? - Pur troppo la è  cosí.  -
Stento un po' a crederla, tanto è singolare. Anzi non ve la  credo,  non  ve  la
credo! Addio Carlino! E andò via allegro allegro come se il non credermi  quella
freddura dovesse importare a lui qualche smisurata fortuna. Però  m'ero  avvezzo
ai ghiribizzi del signor Ettore, e conchiusi ch'egli era felice di poter  sempre
ridere. Per me dopo la partenza di Amilcare non sentiva piú neppur il solletico;
e se qualcheduno mi spianava un po' la fronte si era l'Aglaura colla sua  briosa
testardaggine. La mi doveva questo piccolo compenso per tutte  le  rabbie  e  le
inquietudini che m'avea fatto soffrire senza apparente  motivo  dopo  il  nostro
incontro a Padova. Una sera, eravamo in procinto di partire, io  sedeva  secolei
nella nostra cameretta di Porta Romana, ove  due  bauletti  e  la  nudità  degli
armadi e dei cassetti ci tenevano a mente il viaggio che dovevamo intraprendere,
se anche non ce ne fossimo ricordati anche troppo  pei  timori  che  ne  avevamo
ambidue senza volerceli scambievolmente confessare. Da qualche giorno io  teneva
all'Aglaura un poco di broncio; quella sua ostinazione di volermi seguir a Roma,
benché priva d'ogni notizia de' suoi, mi metteva in sospetto sul suo buon cuore.
Stava quasi per lanciare la bomba e per dichiararle la perfidia e l'infedeltà di
colui al quale ella sembrava pronta a sacrificar  tutto,  perfino  i  sacrosanti
doveri di figlia, quando, non so come, ad un suo sguardo  pieno  d'umiltà  e  di
dolore mi sentii rammollir tutto.  E  di  giudice  ch'esser  voleva,  mi  sentii
cambiare a poco a poco in penitente. Le angosce le incertezze che da tanto tempo
mi  laceravano  erano  cresciute  tanto  che  richiedevano  un  qualche   sfogo.
Quell'occhiata  dell'Aglaura  m'invitava  cosí  pietosamente   che   non   seppi
resistere, e le narrai il sospetto in cui viveva della Pisana, il  suo  lungo  e
crudele silenzio, la sua partenza da Venezia, lasciatami ignorare.  -  Ohimè!  -
sclamai - pur troppo sarebbe pazzia il volermi illudere!... La è  tornata  quale
fu sempre. La lontananza  ha  lasciato  morire  l'amor  suo  d'inedia.  Si  sarà
appigliata ad un altro; a qualche ricco forse,  a  qualche  scapestrato  che  la
sazierà di  piaceri  un  anno  e  due,  e  poi...  Oh  Aglaura!  il  disprezzare
quell'unica persona che si ama piú della propria vita è un tormento superiore ad
ogni forza d'uomo! L'Aglaura m'impugnò furiosamente la mano ch'io  aveva  alzata
al cielo nel pronunciare queste parole. Aveva l'occhio fiammeggiante, le  narici
dilatate e due lagrime sforzate rabbiose riflettevano al chiarore della  lucerna
il fuoco sinistro de' suoi sguardi. - Sí! - gridò essa  quasi  fuori  di  sé.  -
Maledicete, maledicete anche a nome mio i vili e i traditori!  Con  quella  mano
che innalzaste a Dio come per affidargli le vostre vendette,  rapite  un  fascio
de' suoi fulmini e scagliatelo loro sul capo!... Compresi di  aver  toccato  una
piaga secreta e sanguinosa del suo cuore, e la simpatia del mio dolore  col  suo
m'aperse l'animo piucchemai alla confidenza e alla compassione.  Mi  parve  aver
trovato in lei un'amica, anzi una vera sorella, e lasciai scorrere nel suo  seno
le lagrime che da tanto tempo mi si aggruppavano dentro. Anche il suo sdegno nel
punto istesso s'era mitigato per la commozione della pietà, e  abbracciati  come
due fratelli piangevamo insieme, piangevamo dirottamente;  conforto  misero  dei
miseri. In quella s'aperse violentemente la porta,  e  un  uomo  coperto  da  un
mantello spruzzato di neve entrò nella stanza. Diede uno strido, gettò  indietro
il mantello, e ravvisammo ambidue le pallide sembianze di Spiro. - Giungo  forse
troppo tardi? - domandò egli con tal suono di voce che non mi  dimenticherò  mai
piú. Io fui il primo a slanciarmigli fra le braccia. - Oh che tu sia  benedetto!
- balbettai coprendogli il volto di baci. -  Da  quanto  tempo  sperava  la  tua
venuta!... Spiro, Spiro, fratel  mio!  Egli  mi  respingeva  colle  braccia,  si
strappava con forza il collare come si sentisse soffocare, e non  rispondeva  ai
miei baci che con un profondo ruggito. - Spiro, per carità, cos'hai? - gli disse
timidamente l'Aglaura, appendendoglisi al collo. Al contatto di quella mano,  al
suono di quella voce egli tremò tutto; sentii raffreddarsi di repente il  sudore
che gli inondava le guance; mi volse uno sguardo  tale  che  una  tigre  non  ne
lancerebbe uno piú formidabile a chi le trucida  i  suoi  figli;  indi  con  una
potente scrollata ci respinse  ambidue  fino  contro  al  letto,  e  restò  solo
minaccioso nel mezzo della stanza. Pareva l'angelo del terrore che ha traversato
l'inferno  per  precipitarsi  a  punire  una  colpa.   Senza   fiato,   smarriti
dall'angoscia e dallo spavento, noi restammo curvi e silenziosi dinanzi a lui in
guisa  di  colpevoli.  Quella  nostra  attitudine  serví  ad  ingannarlo   forse
completamente  e  a  persuadergli  ciò  che  temeva  e  che  punto  non  era.  -
Ascoltatemi, Aglaura - incominciò egli con voce che voleva esser calma e serbava
tuttavia il moto scomposto e lo stridulo suono della  tempesta.  -  Ascoltatemi,
s'io v'ho amato!... Stava per correre dietro  a  voi,  quando  me  lo  vietò  la
prigione. In carcere ogni giorno ogni minuto fu uno studio continuo  di  fuggire
per raggiungervi, per salvarvi  dal  precipizio  ove  siete  caduta.  Finalmente
riuscii!... Una tartana mi condusse fino a Ravenna; di là avvisava di  venire  a
Milano, perché il cuor mel diceva che eravate qui.  Quando,  giunto  a  Bologna,
alcuni veneziani rifugiatisi colà mi danno contezza di Emilio Tornoni  che  avea
traversato quella città fuggendo da  Milano  con  una  signora,  e  diretto  per
Roma... Capite bene che non potea perder tempo a raffrontare  scrupolosamente  i
connotati e le date. Le mie congetture, cosí all'ingrosso, ci stavano; mi  volsi
a precipizio verso Roma, e vi giunsi che la Repubblica era già proclamata!... Or
bene sappiatelo, Aglaura!... Il vostro Emilio era un vile, un traditore; ve l'ho
sempre detto e non  volevate  ascoltarmi...  Egli  vi  tradiva  per  una  nobile
baldracca di Milano!... Egli tradiva i Veneziani pei francesi, tradiva questi  e
quelli  per  zecchini  imperiali  che  il  signor  Venchieredo  gli  portava  da
Gorizia!... Egli non era corso a Roma che per  tradire!...  Colle  commendatizie
d'un reverendo padre  di  Venezia  s'era  addentrato  nelle  grazie  di  qualche
cardinale per espilare la buona fede del Papa, asserendosi amico  influentissimo
di Berthier. Ingannava intanto Berthier trafugando a proprio  utile  gran  parte
dello spoglio di Roma.  Il  popolo  sdegnato  lo  arrestò  mentre  comandava  il
saccheggio d'una  chiesa:  Francesi  e  Romani  ne  godettero.  Fu  solennemente
impiccato in Campidoglio!... La sua ganza avea fatto vela il  giorno  prima  per
Ancona col suo amicissimo Ascanio Minato!...  L'Aglaura  diventava  di  tutti  i
colori durante questa furibonda invettiva di Spiro. Quand'egli tacque, s'era già
ricomposta alla solita gravità. - Or bene - diss'ella guardando nel volto  Spiro
con occhio sicuro - or bene, la giustizia ha avuto effetto. Dio la serbò per sé,
e non ha voluto ch'io me ne macchiassi le mani. Benedetta la clemenza di Dio!...
- Ah è proprio  vero?  -  soggiunse  Spiro  amaramente,  saettandomi  delle  sue
occhiate sempre piú truci e  sinistre.  -  E  avete  anche  la  sfrontatezza  di
confessarmelo?... Non lo amavate piú?... Temetemi, o  Aglaura!  Perché  una  mia
sola parola può vendicarmi della  vostra  impudenza!...  -  Temervi?  -  riprese
sempre con calma l'Aglaura - due cose sole io temo, la mia coscienza  e  Dio!...
Fra poco non temerò piú nessuno. - Che pensereste di fare? -  le  domandò  Spiro
quasi minacciosamente. - Uccidermi - rispose fredda e sdegnosa l'Aglaura. -  No,
per tutti i santi! - le dissi io allora interponendomi.  -  Io  ebbi  un  vostro
giuramento; lo manterrete. - Avete ragione, Carlino -  rispose  ella  -  non  mi
ucciderò!... Ma infelice voi, infelice io: faremo causa comune. Ci sposeremo,  e
pensi Dio al resto. Credetti che mi crollasse il soffitto sul capo, di tal forza
fu l'urlo che scoppiò allora dalle viscere di  Spiro.  Si  gettò  innanzi  cogli
occhi chiusi e colle braccia protese. Credo che se ci avesse abbrancati  saremmo
rimasti stritolati. Io mi gettai davanti all'Aglaura  e  feci  schermo  del  mio
corpo a quel briaco furore. Allora egli si riebbe dall'improvviso  delirio,  gli
si incolorò la fronte d'una  rabbia  quasi  infernale,  e  aperse  le  labbra  a
parlare, ma gli morí nelle fauci la voce. Vidi che  un  grande  castigo  pendeva
allora da quelle labbra, e  per  sopportarlo  aveva  ristretto  ogni  mia  forza
intorno al cuore: ma egli finí col mordersi  le  mani,  volgendo  sopra  di  noi
un'occhiata insieme di compassione e di  scherno...  -  E  se...  -  aveva  egli
cominciato a dire come rispondendo a  un  interno  sospetto  che  non  andò  piú
innanzi, e subito le sue sembianze si ricomposero, il pallore gli si  stese  sul
volto, le membra cessarono di tremare; tornò insomma uomo,  fin'allora  sembrava
proprio una fiera. Tutti questi particolari mi rimasero fitti in capo tanto  per
ordine, dacché tutta la notte seguente altro non feci che volgerli rivolgerli  e
commentarli per indovinare  da  essi  le  tremende  e  misteriose  passioni  che
agitavano l'animo di Spiro. Mi sembrava impossibile che lo sdegno d'un  fratello
dovesse scoppiare cosí bestiale e violento. Dopo avere racquistato quella calma,
almeno apparente, il giovine greco sedette in mezzo a noi; e ben  accorgemmo  lo
sforzo da lui fatto per rimanere,  ma  non  osammo  rimproverarglielo.  Egli  ci
spiava  ambidue  con  occhio  furtivo,  e  di  volta  in  volta  la  compassione
l'abbattimento e un ultimo resto di  rabbia  alternavano  i  loro  colori  sulle
irrequiete sembianze. Ci narrò allora che la mancanza di lettere da parte di suo
padre proveniva da questo  ch'egli  avea  dovuto  partire  precipitosamente  per
l'Albania e per la Grecia donde non era tornato peranco. - E  cosí  -  soggiunse
egli - è cosí, Aglaura, voi non volete seguirmi  a  Venezia  ove  rimango  solo,
senza felicità e senza speranza? - No, Spiro, non posso seguirvi  -  rispose  la
giovinetta chinando gli occhi sotto gli sguardi infiammati del giovine. Spiro mi
guardò ancora, che se la sua occhiata non mi divorò fu  proprio  perché  non  la
poteva: indi si volse ancora alla fanciulla. - Che speranza mai vi mena ora  pel
mondo, Aglaura!... Per carità, ditelo!... finalmente ho diritto  di  saperlo!...
Son vostro fratello! Queste ultime parole gli stridevan tanto fra i denti che le
intesi appena. - Ditemi se avete legami di affetto o di doveri - continuò  egli.
- Vi giuro che vi aiuterò  a  santificarli.  (Qui  un  nuovo  stridore,  ma  piú
tormentoso e diabolico di prima). -  No,  non  ho  nulla!  -  rispose  con  voce
semispenta l'Aglaura. - E dunque perché  non  mi  segui?  -  le  domandò  Spiro,
rizzandosi dinanzi a lei come il padrone dinanzi ad una schiava. - Temo che  voi
lo sappiate!... - disse l'Aglaura lasciando cadere  una  ad  una  queste  parole
sull'ira di Spiro già pronta e rinfiammarsi. E infatti  ottennero  l'effetto  di
calmarlo ancora. Egli volse per la stanza uno sguardo lungo e  indagatore;  indi
partí dicendone che il domani ci avrebbe  veduti  e  che  tutto  in  un  modo  o
nell'altro sarebbe finito. Allora, per quanto io supplicassi l'Aglaura perché mi
chiarisse alcune parti del  dialogo  che  non  giungeva  a  comprendere,  mi  fu
impossibile cavarne una sola parola. Piangeva, si stracciava i capelli,  ma  non
voleva confessarsi d'una sillaba. Un poco sdegnato  un  po'  impietosito  io  mi
ritirai nella mia stanza, ma non mi venne  fatto  di  pormi  a  giacere,  e  una
tormentosa fantasticaggine mi tenne alzato fin dopo  mezzanotte.  Allora  sentii
picchiare alla mia camera e credendo che fossero ordini del mio  capitano  dissi
stizzosamente che entrassero. La camera dava sulla scala e m'avea dimenticato di
dare il chiavistello alla porta. Con mia somma meraviglia, invece  d'un  soldato
rividi Spiro: ma cosí cambiato in un paio d'ore, che non mi sembrava piú lui. Mi
pregò umilmente di  perdonargli  le  furibonde  escandescenze  di  prima;  e  mi
supplicò per quanto avevo di piú sacro che mi adoperassi presso alla Aglaura per
ottenergli del pari il perdono. Davvero ch'io ci perdeva la testa, ed egli  finí
di farmela perdere, gridando cogli occhi sbarrati che egli  l'amava  e  che  non
poteva piú trattenersi. - L'amate? - gli risposi io  -  ma  mi  pare  che  siate
perfettamente in regola! Non siete dello stesso sangue, figliuoli  degli  stessi
genitori?... Amatevi dunque, che Dio vi benedica! - Non mi comprendete, Carlo  -
soggiunse Spiro. - Or bene, mi comprenderete ora! Aglaura  non  è  mia  sorella;
essa è figliuola di vostra madre; voi siete suo  fratello!...  Allora  un  lampo
subitaneo rischiarò il buio dei miei pensieri, ma  stava  appunto  per  domandar
spiegazioni di questo  straordinario  viluppo  quando  l'Aglaura,  avendo  udito
quelle parole pronunciate a voce alta da Spiro,  si  precipitò  nella  stanza  e
addirittura nelle mie braccia, piangendo di consolazione. - Lo sentiva -  diceva
ella - lo sentiva e non osava pensarlo!  Smarrito,  confuso,  non  sapendo  cosa
credere, ma commosso fin nel profondo del cuore io stringeva  sul  mio  seno  la
faccia lagrimosa dell'Aglaura. Avrei chiesto dopo schiarimenti e prove;  intanto
godeva il supremo conforto di trovare un'anima sorella in  quel  mondo  dove  io
m'aggirava  desolato  come  un  orfano.  Spiro  ci  contemplava  con   un   muto
raccoglimento che lo dimostrava insieme e compagno della nostra gioia e  pentito
delle sue furie. Come poi ci riebbimo da quel dolce e tenerissimo sfogo, egli ci
narrò che mia madre avea mandato l'Aglaura al padre suo dall'ospedale ove l'avea
partorita ed era morta pochi giorni dopo. Mio padre, avuta contezza di ciò, avea
scritto da Costantinopoli all'Apostulos ch'egli  s'incaricherebbe  a  suo  tempo
della bambina, come figliuola che la era  di  sua  moglie;  ma  che  la  tenesse
intanto per sua, onde ella non avesse a vergognare  della  sua  nascita.  -  Chi
avrebbe sospettato tanto amore tanta delicatezza  in  mio  padre?  -  Io  ne  lo
benedissi con tutta l'anima; e pensai che spesso fra i sassi piú ruvidi e greggi
s'asconde il diamante. Spiro raccontò poi le tronche parole di sua  madre  dalle
quali avea indovinato il mistero della nascita d'Aglaura già  prima  di  partire
per la Grecia. Tornando coi sogni di quei quindici  anni  pel  capo,  vederla  e
innamorarsene era stato tutt'uno: ma se gli era opposto invincibile  l'amore  di
quell'Emilio al quale senza conoscerlo aveva votato un odio immortale. L'odio si
convertí in furore, e l'amore s'accrebbe  di  tutta  la  tenerezza  della  pietà
quando avea saputo  l'infame  condotta,  l'impostura  e  i  tradimenti  di  quel
giovane, di cui qualche barlume doveva essere trapelato anche all'Aglaura. -  Oh
sí! certo; - saltò a dire l'Aglaura - per cos'altro credete ch'io mi movessi  di
Venezia se non per punirlo della sua perfidia  verso  la  patria?  -  Oh  perché
dunque mi proibivi sempre di biasimarlo? - soggiunse Spiro. - Perché? -  riprese
l'Aglaura con un filettino di voce. - Aveva paura di te... di te, mio  fratello!
- Ah! è vero! - gridò il povero giovane. - Era un infame!...  Ma  come  comandar
sempre ai proprii occhi?... Come crederti e trattarti come sorella quando sapeva
che non lo eri, quando covava  per  te  un  amore  antico  di  quindici  anni  e
rafforzato da tutti gli stimoli della lontananza?... Perdona  agli  occhi  miei,
Aglaura!... S'essi peccarono talvolta, non ne ebbe colpa la volontà!... - Oh  vi
perdono! Spiro - sclamò singhiozzando  l'Aglaura.  -  Ma  se  mi  fossi  sentita
veramente vostra sorella, avrei io  diffidato  di  quelle  occhiate;  lasciatemi
credere che la malizia non fosse né mia né vostra, o almeno divisa per metà!  Io
chiesi allora a Spiro con bastevole ingenuità perché tre ore prima non ci avesse
scoperto quel dolce segreto, e si fosse divertito invece a rappresentarci quella
feroce scena da Oreste. Egli non  sapeva  come  rispondere;  pur  finalmente  si
sforzò a farlo, dicendo che, dopo saputi i  nuovi  amori  di  Emilio  e  che  la
signora fuggita con essolui da Milano a Roma non era  l'Aglaura,  dei  mostruosi
sospetti gli avevano martoriato il cuore. - Qui - soggiunse egli - qui stasera a
prima  giunta  trovandovi  abbracciati  insieme  quei   sospetti   finirono   di
travolgermi la ragione!... Mio Dio! quale sventura! dico sventura, perché non ne
avreste avuto colpa, e tuttavia sono fatalità che come i  delitti  piú  tremendi
lasciano nell'anima eterni rimorsi... Mi capite ora,  Carlo!...  Io  era  pazzo!
Infatti io rabbrividii figurandomi quanto egli avrebbe dovuto soffrire.  -  Pure
non ci svelaste nulla! - io replicai. - Oh fu un  momento,  fu  un  momento  che
tutto fui per isvelare! cosí credeva che mi sarei vendicato! - E vi tratteneste?
- Per compassione, Carlo, per  giustizia  mi  trattenni!  Se  il  male  era  già
avvenuto, perché punir voi innocenti? Meglio era ch'io partissi recando  altrove
la mia disperazione la mia gelosia, e lasciando a voi la  felicità  piuttostoché
cambiarla in un rimorso irreparabile!... - Oh Spiro! quanto eravate generoso!  -
io sclamai. - Un'anima come la vostra piú che l'amore e la  gratitudine  comanda
l'ammirazione!... L'Aglaura piangeva a cald'occhi stringendomi  il  braccio  con
una mano e guardando forse Spiro tra le dita dell'altra. - Ditemi ora dove foste
per tutte queste ore - io richiesi volgendomi a Spiro.  -  Prima  di  tutto  fui
all'aperto, all'aria libera a respirare, a chieder ispirazione da Dio; indi come
il cuore  mi  consigliava  tornai  in  questa  casa,  interrogai  i  padroni,  i
portinai... Oh ci volle poco, Carlo, ci volle poco perché mi ricredessi!... Quel
vapore di disperazione s'era  disciolto;  già  mi  pareva  impossibile  che  Dio
permettesse colle sembianze dell'innocenza una tanta nefandità. Quando poi  udii
la vita che voi menavate qui, proprio come fratello e sorella, semplice  modesta
riservata! quando udii i delicati riguardi da voi tenuti sempre verso l'Aglaura,
allora la certezza della vostra innocenza mi slargò il cuore,  allora  compiansi
maledii la mia stolta precipitazione e giurai che non avrei lasciato passare una
notte senza togliervi dal cuore il coltello ch'io vi aveva confitto!... Deh  per
carità, Carlo!... Aglaura, se mai col mio grande affetto meritai nulla  da  voi,
compatitemi, perdonatemi, serbatemi se  non  altro  un  cantuccio  nella  vostra
memoria... e se la mia presenza vi  richiama  qualche  crucciosa  rimembranza...
allora... Io mi volsi tacitamente all'Aglaura, ché per  me  non  mi  sentiva  da
tanto di rimeritare la bella magnanimità di Spiro. Ella mi comprese  o  comprese
forse il proprio cuore: onde prese la mano del giovine, e mettendola nella  mia,
cosí com'eravamo uniti tutti e tre in una  sola  stretta,  soggiunse:  -  Basta,
Spiro! Ecco la nostra risposta! Formeremo una sola famiglia!... Il  resto  della
notte fu goduto in amichevoli e  lieti  conversari  e  nell'esaminare  le  carte
recate da Spiro e lasciate dal padre suo a Venezia, dalle quali  era  comprovata
evidentemente la nascita dell'Aglaura nell'ospitale di Venezia  e  dalla  povera
mia madre. Il nome del padre non appariva; e come ben potete figurarvi,  nessuno
si sognò di notare questa spiacevolissima  mancanza.  Tirammo  innanzi  come  se
appunto il padre fosse una comparsa superflua nel mistero della generazione;  io
sapeva  abbastanza  i  non  pochi  disordini  della  buon'anima  di  mia   madre
nell'ultimo stadio di sua vita, li compativa anche, ma né la pietà filiale né il
rispetto di me medesimo e del nome paterno mi consigliavano di metterli in luce.
Accettai dunque l'Aglaura per sorella di tutto cuore,  ne  ringraziai  il  cielo
come d'un insperato e prezioso presente, e  m'adoperai  a  tutt'uomo  perché  il
presente fosse reso  piú  gradito  a  mille  tanti  col  cambiare  in  parentela
l'amicizia che mi univa a Spiro. Fu  un  po'  malagevole  per  l'Aglaura  questo
passaggio dall'idee di morte di odio di vendetta a quelle di pace d'amore  e  di
nozze; ma col mio aiuto e con quello di Spiro le superò. D'altronde ella  vedeva
che cosí tutto si accomodava e le donne per far tutti contenti sono anche capaci
di maritarsi, quando peraltro con questi ripieghi accontentino prima di tutti se
stesse. A quei tempi c'erano poche formalità per un matrimonio. Interpretando la
tacita volontà di Spiro io m'ingegnai tanto e con sí  felice  esito  che,  prima
della  partenza  della  legione,  ebbi  la   consolazione   di   vederlo   sposo
dell'Aglaura. Partimmo poi da Milano di conserva  perché  il  signor  Ettore  mi
concesse di buona voglia il permesso di accompagnarli fino a Mantova; di colà io
l'avrei raggiunto a Firenze per la via  di  Ferrara.  Quella  breve  meteora  di
contentezza famigliare m'era necessaria per rompere il buio  del  mio  orizzonte
che cominciava a minacciar troppo. Benché anche  di  mio  padre  Spiro  mi  avea
recato qualche notizia se non diretta certo credibilissima. Lo  dicevano  giunto
felicemente a Costantinopoli e inteso piucchemai  all'opera  gravissima  che  lo
preoccupava, nella quale peraltro  improvvisi  ostacoli  lo  avevano  ritardato.
Stava bene, e avrebbe mandato sue nuove o sarebbe tornato ad impresa fornita. La
partenza  per  la  Grecia  del  vecchio  Apostulos  poteva  addentellarsi   alle
macchinazioni di mio padre in Turchia, ma capii che Spiro o non ne sapeva o  non
potea dirne di piú,  e  cambiai  discorso  raccomandandogli  soltanto  di  farmi
giungere al piú presto e ovunque mi trovassi  qualunque  novella  di  mio  padre
fosse per arrivare. L'Aglaura, che avea preso il partito di aver comune  con  me
il padre giacché aveva la madre, mi rispose in nome suo che sarebbe fatto, e che
ella cercherebbe ogni modo d'averne contezza sovente, poiché anche a lei stava a
cuore un sí buon papà. Ci separammo a Mantova proprio il giorno che quella città
aveva ottenuto il permesso definitivo di aggregarsi alla Cisalpina; la  mestizia
dei commiati nostri andava perduta nella gioia  nella  speranza  universale.  Io
aveva ritrovato una sorella, mi pareva di esser sulla buona via per trovare  una
patria; ben mi stava di vivere s'anco avessi perduto per sempre l'amore. Intanto
ci demmo  la  posta  a  Venezia,  tutti  repubblicani,  liberi,  contenti!  Essi
scomparvero in un calesse sulla via di Verona, io  ripresi  a  piedi  la  strada
della  città,  fuor  della  quale  li  aveva  accompagnati   un   buon   miglio.
Quell'ammasso di case di torri di cupole in mezzo all'acqua del Mincio  mi  fece
pensare a Venezia: cosa volete? Invece di sorridere, sospirai; il passato poteva
sopra di me assai piú del futuro, o lo stesso futuro mi traspariva  qual  doveva
essere, di gran lunga  diverso  dalla  creatura  prediletta  dell'immaginazione.
Cionullameno quella festa d'una città italiana, già signora di  sé,  con  corte,
con leggi, con privilegi proprii, la quale si metteva  uguale  colle  altre  per
esser libera o serva, felice od infelice insieme alle altre, mi saldò nel  cuore
un bel germoglio di  speranze.  Sono  di  quelle  speranze  che  son  sicure  di
crescere, e che morti noi, crescono nel petto dei figliuoli e dei nipoti  finché
tutte  le  loro  parti  abbiano  avuto  effetto  di  realtà.  Anche  i  Gonzaghi
diventavano omai  una  vecchia  memoria  storica.  Parce  sepultis,  purché  non
facciano la burla di Lazzaro; ma costoro non ce la faranno mai; ove trovar Marta
che preghi per essi?... In fin dei conti hanno stipendiato Mantegna, hanno fatto
dipingere a Giulio Romano la volta dei Giganti, hanno liberato  il  Tasso  dallo
spedale, hanno vinto o perduto nella persona del  condottiero  la  battaglia  di
Fornuovo, vi par poco? Era tempo che si mettessero anch'essi a giacere  a  canto
dei Visconti, degli Sforza,  dei  Torriani,  dei  Bentivoglio,  dei  Doria,  dei
Colonna, dei Varano e di tutti gli altri. Fortunatissimi che furono gli  ultimi;
ma temo che abbiano dormito un bel pezzo ritti come i fanciulli ostinati: e  chi
dovea vegliare dopo essi pestava inutilmente i piedi. Comunque la sia io  partii
da Mantova di miglior umore che non mi sarei immaginato. La  mia  borsa  affatto
smilza (figuratevi se i mille ducati avean poco sofferto della lunga dimora  mia
e dell'Aglaura a Milano), la mia borsa, e insieme una certa modestia  soldatesca
non mi permisero che un biroccino fino Bologna; uno di quei veicoli che danno al
paziente alcuna delle  illusioni  di  chi  siede  in  carrozza,  con  tutti  gli
incommodi di chi  trotta  sopra  un  cavallo  da  mugnaio.  Le  carrettelle  del
Vicentino e dell'alto Vicentino non ci avevan nulla  a  che  fare;  somigliavano
gondole a paraggio di questi frulloni. Or dunque arrivai  a  Bologna  coi  nervi
tutti offesi e accavalcati; fu  per  istirarmeli  che  mi  accinsi  pedestre  al
passaggio  dell'Appennino.  Oh  qual  viaggio  incantevole!  oh  che  scene   da
paradiso!... Credo che se fossi stato proprio  felice  di  dentro,  avrei  detto
anch'io al  Signore,  come  san  Pietro:  "Vi  prego,  piantiamo  qui  i  nostri
padiglioni". Ho poi  udito  dire  che  ci  domini  troppo  il  vento  in  quegli
ingroppamenti di montagne;  ma  allora,  benché  ridesse  appena  lievemente  la
primavera, era tuttavia una pace un tepore una ricchezza di colori e di forme in
quel cantoncino di mondo, che ben ci si accorgeva  di  essere  sulla  strada  di
Firenze e  di  Roma.  Giunto  poi  a  Pratolino  donde  l'occhio  divalla  sulla
sottoposta Toscana il mio entusiasmo non conobbe misura; e credo che  se  avessi
conosciuto i piedi e gli accenti, avrei improvvisato  un  cantico  sul  fare  di
quello di Mosè. Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in  ogni  tua
parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose  dei
mari, nel verde interminabile delle pianure, nell'ondeggiare  fresco  e  boscoso
dei colli, tra le creste azzurrine degli Appennini e le candidissime  dell'Alpi,
sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti,  spirito  e
gloria,  nelle  eterne  pagine  della  storia,  nell'eloquente   grandezza   dei
monumenti,  nella  viva  gratitudine  dei  popoli,  sempre  apparisci   sublime,
sapiente, regina! A cercarti dentro di noi, intorno a noi, tu ti nascondi talora
per vergogna la fronte; ma te la rialza la speranza, e gridi che  delle  nazioni
del mondo tu sola non moristi mai! Allora infatti l'Italia era forse ai primordi
della sua terza vita; primordi ignari  e  sconvolti  come  i  primi  passi  d'un
bambino. In Toscana  come  in  Piemonte  v'aveva  la  strana  sconcordanza  d'un
principe che regnava e d'un general  francese  che  imperava.  Parevami  proprio
vedere i re della Bitinia, della Cappadocia o di Pergamo con Silla,  Lucullo,  e
quegli altri dabbenuomini ai panni. Morivano  essi  lasciando  erede  il  popolo
romano; ma né Lucullo né Silla né i generali francesi di sessant'anni fa avevano
scrupolo di prelevare qualche legato... A  Firenze  trovai  il  Carafa,  ma  non
l'intera legione che s'era avviata verso Ancona per le rimostranze di neutralità
fatte dal Granduca.  Il  signor  Ettore  pareva  molto  pensieroso;  io  credeva
pensasse ai suoi soldati, ma egli si stizzí anzi ch'io glieli  avessi  recati  a
mente. Malediceva a denti stretti le donne, dicendo ch'è una vera sciocchezza la
nostra il degnarsi di uscire alla luce da cotali demonii. - Diavolo, capitano, e
donde vorreste nascere? - gli chiesi.  -  Dal  Vesuvio,  dall'Etna,  dai  gorghi
tempestosi del mare! - egli mi rispose. - Non già da questi mostricciuoli armati
di forza viperea che si vendicano di averci fatto nascere col toglierci oncia ad
oncia la vita!... - Capitano, siete proprio infelice e pessimista in amore?... -
Lo credo io!... Con un'amante che mi ama e non mi ama; cioè mi ha amato o  si  è
lasciata amare come vorrei io  una  settimana,  ed  ora  vuol  amarmi  alla  sua
maniera, che è la piú strana ed insopportabile della  terra!  -  Quale  maniera,
capitano? - Quella dei datteri, che fanno all'amore l'uno in Sicilia  e  l'altro
in Barberia. Io ne risi un poco di questo paragone; ma in fondo in fondo  quando
si veniva sul discorso di guai amorosi ci aveva  pochissima  voglia  di  ridere.
Siccome poi non reputava il signor Ettore maestro consumato in tali faccende,  e
del resto gli voleva bene assai, cosí mi presi  la  libertà  di  suggerirgli  un
consiglio. - Offendetela nella  superbia  -  gli  dissi.  -  Improvvisatele  una
rivale. - Vedrò: - soggiunse egli - intanto tu raggiungi i nostri ad  Ancona.  A
Roma ti saprò dire della bontà o meno del tuo consiglio, che mi ha idea di esser
molto vecchio e corrotto dal lungo uso. - Sapienza vecchia dà frutto nuovo -  io
replicai. E corsi via per vedere cosí all'ingrosso Firenze, prima  di  ripartire
per le Marche. A Firenze tutto mi piacque meno l'Arno, che per  avere  cosí  bel
nome, è molto piccolo fiume. Però giustizia vuole si osservi che tutti  i  fiumi
soffrono dal piú al meno un tal calo sopra i meriti decretati loro  dalla  fama.
Io trovai soltanto il Tamigi che attenesse la promessa; ed anco fui avvilito  di
vederlo andar a ritroso ad un minimo buffo d'aria. Per un cosí immenso fiume l'è
invero arrendevolezza schifosa!  Ma  quanti  uomini  grossi  che  somigliano  al
Tamigi! Quante donne che somigliano  a  Londra!  cioè,  scusatemi,  s'appoggiano
volentieri a un fiume che ha molta acqua, molta vastità e dubbia corrente!... Vi
fu un pacioloso padovano che in una nota barcarola cantava alla sua bella:

Vieni, somiglia a Londra, Sei un basin d'amor!

Egli non avrebbe creduto che io sudassi tanto  un  giorno  per  giustificare  la
lezione un po' arrischiata della sua strofa. Dall'Arno all'Adriatico furono  tre
giorni; e da Ancona a Roma dieci, perché s'avanzava coll'intera  legione  e  non
essendo avvezzi a camminar molto, bisognava cominciare con  precauzione.  Allora
ebbi agio a convincermi che i primi nemici che un esercito nuovo incontra  nelle
sue imprese sono i polli ed i preti. Non valevano né minacce  né  rimproveri  né
castighi. Pollo voleva dir schioppettata, e prete burle e baldoria.  Ammazzavano
i polli per mangiarli in casa del prete e bere del suo  vino;  del  resto  tutto
finiva lí, e se gli abati erano gente della legge, con un cicino di disinvoltura
e una patina politica  finivamo  col  separarci  ottimi  amici.  Uno  di  cotali
arcipreti bastava per un giorno a far propendere in favore di Pio VI  gli  animi
della intera legione; gli è vero che a quel tempo il cardinal Chiaramonti  aveva
messo d'accordo Religione e Repubblica colla sua  famosa  Omelia,  e  si  poteva
propendere in favore di tutti. Per me, piú vado innanzi e piú m'avvedo che  ogni
religione ci guadagna assai a tenersi lontana dalla politica; gli è inutile;  né
l'olio si mescolerà mai coll'aceto, né  il  sentimento  alla  ragione,  senzaché
nascano sostanze spurie e scipite. Eccoci finalmente a Roma.  Io  ne  aveva  una
voglia che non ne poteva piú. Sentiva che Roma solamente  avrebbe  potuto  farmi
dimenticar la Pisana; e mentre pur mi  confidava  in  una  cotale  dimenticanza,
andava almanaccando che cosa ne poteva esser di lei, architettava  conghietture,
creava e ingigantiva paure, dava corpo e movimento alle ombre piú mostruose  che
si potessero vedere. I suoi cugini di Cisterna,  capitati  da  poco  a  Venezia,
Agostino  Frumier,  quello  slavo,  Raimondo  Venchieredo,  lo  schernitore,  mi
parevano ad  ora  ad  ora  altrettanti  rivali;  ma  tutte  quelle  supposizioni
svanirono quando lettere dell'Aglaura e di Spiro mi confermarono l'assenza della
Pisana e che la sua famiglia nulla sapeva  e  poco  curava  sapere  di  lei.  La
Contessa pappava il frutto degli ottomila ducati e le bastava; il conte  Rinaldo
passava dall'ufficio alla Biblioteca, dalla Biblioteca alla tavola  e  al  letto
senza darsi pensiero che altri uomini vivessero al  mondo:  ambidue  miserabili,
miserabilissimi; ma non si curavano di affannarsi pegli altri. Convenite con  me
che se non eroismo fu certamente una bella costanza la mia di starmene a ordinar
piuoli e a comandar movimenti sul monte Pincio, mentre  avrei  corso  e  frugato
tutto il mondo per trovar la mia bella! La amava, sapete,  proprio  piú  che  me
stesso; e per me che non vendo ciurmerie  di  frasi  ma  faccio  professione  di
narrare la verità, questo è tutto dire. Nonostante aveva il coraggio  di  metter
innanzi la patria, e benché facessi allora uno sforzo a inchiudere anche  Napoli
in quest'idea, Roma mi aiutava a vincer la prova. Roma è il  nodo  gordiano  dei
nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra  schiatta,
Roma è la nostra arca di salvazione, che colla  sua  luce  snebbia  d'improvviso
tutte le storte e confuse immaginazioni degli  Italiani.  Volete  sapere  se  un
cotal ordinamento politico, se quella cospirazione di civiltà e di progresso può
reggere e portar buon frutto alla nazione nostra?... Nominate Roma; è la  pietra
di paragone che scernerà l'ottone dall'oro. Roma è la lupa che  ci  nutre  delle
sue mammelle; e chi non bevve di quel latte, non se ne intende. Né voglio negare
che il mirar troppo a Roma abbia fatto trascurare talvolta scopi piú  vicini  ed
accessibili, dei quali avremmo potuto  giovarci  come  di  gradini  a  ulteriore
salite; ma certo il mirar troppo non fu né tanto dannoso  né  cosí  disonorevole
come il mirar nulla; e nessun periodo di storia italiana fu confuso ed  illogico
al  pari  di  quello  che  aggiunse  mostruosamente  all'Impero  di  Francia  il
Dipartimento del Tevere. Intanto, giunto che fui a Roma, successe del mio dolore
quello che d'ogni piccola  cosa  al  soverchiar  d'una  grande.  Restò  stupito,
soffocato, dimenticato quasi. Che può essere infatti l'infelicità d'un  uomo  in
cospetto dei lutti d'un'intera nazione?... Io ritrovava quasi una  pace  stanca,
una mestizia senza amaritudine contemplando  gli  avanzi  fulminati  della  gran
caduta: sopra di essi mi parevano giuochi e freddure le pompe le minutaglie  dei
secoli cristiani. Solo nelle  catacombe  vagolava  uno  spirito  di  fede  e  di
martirio che sublimava il cristianesimo sopra i grandiosi sepolcri pagani. Io mi
curvava tremebondo sotto quelle sante memorie di sacrifizio e di  sangue;  e  le
torture e le flagellazioni e i vituperi e gli  strazii  e  la  morte  lietamente
sofferta per un'idea ch'io ammirava senza comprenderla, impiccolivano agli occhi
miei quella soma d'affanni ch'io mi dava ad intendere di non  poter  trascinare.
Nell'emulazione dei grandi sta la redenzione dei piccoli. Peraltro se il  vivere
nella Roma antica dei consoli e dei martiri mi dava qualche  conforto,  la  Roma
d'allora invece mi empieva di rammarico e  quasi  di  spavento.  Il  Papa  n'era
andato senza scherni e senza plauso; perché avendo dovuto rimettere molto  della
pompa e della magnificenza colle quali era  solito  vivere,  il  popolo  non  si
accorgeva piú di lui. Dallo splendore della corte e  delle  cerimonie,  piú  che
dalla virtù e dalla santità della vita si misurava l'eccellenza del principe del
cristianesimo. Una confusione  di  cose  venerabili  per  religione  e  per  età
ladramente vituperate, di schifezze levate a cielo e splendidamente decorate, di
stupidi superstiziosi e di vili  rinnegati,  di  saccheggi  e  di  carestie,  di
epuloni e di affamati, di frati cacciati dai conventi, di monache  strappate  ai
loro ritiri, di  cardinali  inseguiti  dai  cavalleggieri,  e  di  cavalleggieri
scannati dai briganti; tutto andava a soqquadro, si rovesciava alla  perdizione;
giudice del bene o del  male  il  talento  annebbiato  od  illuso  d'ognuno:  un
mescolarsi di resistenze pretesche, di arbitrii francesi, di licenze popolari  e
di assassinii privati; un mettersi avanti di grandi ed onesti nomi  per  coprire
l'infamia dei piccoli; continui mutamenti senza fede senza sicurezza,  cagionati
dalla rapacità di chi amava pescare nel torbido. E Francesi che bestemmiavano ai
traditori italiani e transteverini che insorgevano, gridando: - Viva Maria!... -
Il sangue scorreva nei boschi, sulle maremme, nelle caverne;  città  e  campagna
s'armavano con egual furore; ma fin nei cunicoli del Culiseo,  fin  nei  montani
ricoveri,  in  braccio  alla  moglie,  ai  piedi  dei  vecchi   genitori   erano
perseguitati  i  ribelli.  Murat  ammazzava  fucilava  impiccava;  i  superstiti
andavano al remo, e chi li diceva martiri chi galeotti. Nessuna semente maggiore
di discordia e di ribellione future che questa opinione dei popoli che cambia in
altare il patibolo. Quattro commissari del Direttorio  francese  eran  venuti  a
risuscitare le vecchie  parole  di  consolato,  senato,  tribunato  e  questura;
togliendo loro autorità coll'adoperarle a coprire cose affatto nuove e piuttosto
che repubblicane, servili, pel  precipizio  con  cui  erano  imposte.  I  cinque
consoli si cambiavano ad ogni cambiar d'umore del generale francese; tuttavia la
confederazione della Repubblica Romana (grave  nome  a  portarsi)  fu  celebrata
coll'egual solennità della Cisalpina. E fu  coniata  una  medaglia  che  portava
sulla doppia faccia le due scritte: Berthier restitutor urbis,  e  Gallia  salus
generis humani. Alla prima seppimo quanto credere: la seconda, Dio lo voglia! In
un cotanto disordine anzi smembramento e  tracollo  della  cosa  pubblica  quali
potessero essere argomenti da rendere ai Romani assetto di nazione civilmente  e
secondo i proprii bisogni ordinata, io certo non lo so. Per questo non mi dà  il
cuore di biasimare davvantaggio quegli uomini che vi accudirono  allora,  e  con
effetto impari certo ai disegni. V'hanno  certi  dissesti  morali  ed  economici
nella vita d'un popolo, originati da lunghi secoli di corruzione di  ozio  e  di
servitù, per riparar ai quali non  basta  l'accorgimento  e  la  tolleranza  del
paziente stesso, come  per  guarire  non  basta  all'infermo  sapersi  malato  e
desiderar  salute.  Medici  arditi  e   sapienti   si   vogliono   che   operino
coraggiosamente e impongano al malato la quiete  la  fiducia  la  pazienza.  Per
sanare i guasti d'un dispotismo cancrenoso e immorale, nulla di meglio  che  una
dittatura vigorosa e leale. S'anche taluni torcessero il naso a questa opinione,
la storia risponde loro trionfalmente coi suoi argomenti veramente filosofici  e
invitti, che si chiamano necessità.  Odiar  le  dittature  si  può,  ma  bisogna
sopportarle; bisogna, come castigo  ed  espiazione.  I  legislatori  del  secolo
passato, che dopo il trafugamento di Pio VI si tolsero di dare una  costituzione
alle Romagne, ebbero sulle spalle a mio credere il peso piú imponente che  dorso
politico abbia mai tentato di sollevare. S'accasciarono sotto;  ma  chi  sarebbe
stato ritto?... Cesare forse con trenta legioni, senz'altri  amminicoli  legali.
Dopo il sollevamento generale del contado, l'esercito quasi  tutto  raccolto  in
Roma fu sperperato a pattuglie a guarnigioni a rinforzi nelle varie cittaduzze e
altri luoghi murati delle Romagne. Fummo assieme pochi giorni  con  Lucilio  con
Amilcare con Giulio, e con essi visitai le belle cose di Roma e dei dintorni; ma
quando avvenne il frastagliamento dell'occupazione militare, Giulio ed  Amilcare
furono mandati a Spoleto, io e Lucilio restammo nel Castel Sant'Angelo.  La  mia
legione aspettava sempre il suo capitano che tardava a giungere da  Firenze;  ma
forse non si dava fretta perché la pochezza delle forze  francesi  e  le  grandi
fortificazioni interne di re Ferdinando non lasciavano lusinga per allora  d'una
guerra napoletana. Per poltrire in un seggiolone, com'è il destino  del  soldato
in tempo di pace, tanto valeva un caffè di Firenze come quelli  tutti  di  Roma.
Almeno io spiegava cosí la tardanza del Carafa. Intanto continuava con Lucilio a
godermi le belle antichità di Roma  e  a  studiarmi  la  storia  coll'aiuto  dei
monumenti. Era l'unico svagamento che mi restasse contro  lo  sconforto  che  mi
aggravava sempre piú per le mancanti  notizie  di  Venezia.  Mia  sorella  e  il
cognato scrivevano; perfino mio padre scrissemi per mezzo loro da Costantinopoli
che attendessi a sperare e a prepararmi;  erano  scarsi  aiuti,  nessuno  sapeva
darmi contezza della Pisana neppur per sospetto o per conghiettura.  Udiva  anzi
che a Venezia si trattava di ventilare la sua eredità, segno che la credevano  o
la speravano morta; e questa faccenda nella quale ravvisai  la  crudele  avidità
della Contessa non vi so dire in qual furore mi mise. A questo s'aggiungevano  i
disinganni politici che cominciavano a tempestare.  Le  mutazioni  imposte  agli
Statuti cisalpini da Trouvé, ambasciatore di Francia coll'aiuto delle  baionette
francesi, davano a  divedere  di  qual  lega  fosse  la  libertà  concessa  alle
repubbliche italiane. Securi contro l'Austria per la pace già stabilita, vollero
stringer il freno, per aver piú pronta la direzione delle  cose.  Si  tornava  a
mutare per cambiar poi di nuovo, soldatescamente tirannicamente sempre. Tantoché
le menti piú forti ed illuminate si separarono  da  quel  governo  servile  d'un
altro governo pazzo e capriccioso, e fra i  diversi  combattenti,  fra  i  varii
partiti stranieri, cominciarono non a fare ma a  sperare  da  sé.  Nell'esercito
cisalpino furono molti di cotali uomini indipendenti; principali Lahoz,  Pino  e
Teulliet. Noi subalterni e gregari secondavamo, come è solito, le  opinioni  dei
capi; e un odio sordo  una  profonda  diffidenza  contro  i  Francesi  preparava
sventuratamente il terreno alla nuova invasione austro-russa. Quando  Dio  volle
arrivò il Carafa da Firenze, ma  irto  ringhioso  severo  quanto  mai.  Egli  si
fregava sempre colla mano quella cicatrice che aveva  sul  sopracciglio  ed  era
pessimo segno. Il peggio poi si fu che volendo  egli,  se  non  poteva  assaltar
Napoli, accostarsi almeno al confine napoletano, tolse la sua legione e  me  con
essa da Castel Sant'Angelo e ci mandò a stanziare  a  Velletri,  una  cittaduzza
campagnuola, quali se ne vedono tante nella  campagna  di  Roma,  pittoresca  di
fuori, orribile sozza puzzolente di dentro: piena il giorno d'aratri, di  carri,
e di mandre di buoi e di cavalli che vengono e  vanno;  la  notte  ricreata  dal
muggir delle vacche, dal canto dei galli, e dalle campanelle  dei  conventi.  Un
vero sito da ficcarvi un poveruomo per guarirlo dalla malattia dei bei  paesi  e
dei larghi orizzonti. Il  Carafa  alloggiava  fuori  di  città  in  un  convento
saccheggiato dai repubblicani francesi, dov'egli avea mandato  innanzi  da  Roma
quanto bisognava per renderlo, se non splendido, almeno  commodo  ed  abitabile.
Poche guardie lo difendevano; e un paio di cannoncelli  da  campagna  tirati  da
muli. Nelle intime stanze nessuno poteva entrare fuori del  suo  cameriere,  che
nella legione aveva voce di mago. Del  resto  le  pastorelle  che  giravano  pei
dintorni, e quelle che recavano il latte al convento, dicevano  di  aver  veduto
alla finestra una gran bella  signora:  e  doveva  essere  l'amante  del  signor
Ettore. Gli altri soldati piú antichi di  me  al  suo  servizio,  che  l'avevano
sempre veduto continente come uno che non ha tempo di pensare a simili freddure,
non credevano a tali baie; e novellavano piuttosto che quella fosse una maga,  o
una qualche principessa napoletana ch'egli voleva mettere al posto della  regina
Carolina. I luoghi possono molto sull'immaginazione della gente: e i dintorni di
Velletri inspirerebbero ad ogni sano intelletto  stregonerie  e  fiabe,  come  i
pascoli e le cascine del  Lodigiano  inspirano  gli  elogi  del  cacio  e  della
pannera. Io solo forse mi serbava  alieno  da  tali  gotiche  credenze,  sapendo
benissimo che si può durare un bel pezzo nella continenza,  e  sfrenarsi  poi  a
farne una per colore con la ghiottornia di chi  fu  digiuno  per  un  pezzo.  Ad
esempio vi recherò Amilcare, il quale raccontava di  non  aver  assaggiato  vino
infino ai vent'anni; dai vent'anni in su, nessuno ne beveva tanto quanto lui. Lo
stesso caso poteva esser succeduto al Carafa. Or dunque io  credeva  piú  ad  un
genuino e fiero innamoramento che a qualunque stregheria, e sopra ciò fra me  ed
i compagni correvano  frequenti  alterchi  e  perfino  scommesse.  Dopo  la  mia
separazione da Lucilio mi era fatto cosí burbanzoso e intrattabile che  poco  ci
voleva a farmi saltare la mosca al naso: diedi dei capi guasti e dei  credenzoni
a chi vedeva meraviglie e magie. Fui rimbrottato come uomo migliore a parole che
a fatti; ed eccomi nella necessità di dimostrar loro che non era  vero.  D'altra
parte il martello continuo che mi pestava di dentro e la noia di quella vitaccia
poltra e bestiale mi rendevano incresciosa la quiete  e  mi  congratulai  d'aver
trovato un appiglio a muovermi, a fare  non  foss'altro  delle  corbellerie.  Il
capitano aveva proibito, pena la vita, che ufficiali o soldati, fuor  quelli  di
fazione, s'avvicinassero al convento, ove avea  fermato  il  quartier  generale.
Quel luogo era vicinissimo al confine; il nuovo esercito napoletano, per  formar
il quale s'eran tassati perfino i preti e le monache,  s'addensava  ogni  giorno
piú nei finitimi confini dell'Abruzzo; qualche avvisaglia poteva  nascere,  anzi
era già nata, piú per impazienza dei gregari,  che  per  deliberato  volere  dei
capi; non voleva il Carafa che  col  disperdersi  la  legione  da  quella  parte
s'incontrasse qualche spiacevolezza affatto fuori di tempo. Ma questi dettami di
prudenza sconcordavano assai dalla solita temerità, e il vero si era ch'egli non
voleva occhi importuni intorno al convento. Io giurai ai miei compagni che sarei
andato, che avrei veduto, nascesse quel  che  poteva  nascere,  e  una  sera  di
domenica fu scelta pel gran cimento. Il mio disegno era questo: di dar una  voce
d'allarme alla guarnigione  del  convento,  e  di  girar  le  mura  e  penetrare
nell'orto per la cinta ruinosa del medesimo mentre  tutti  avrebbero  badato  al
luogo dove si aspettava il nemico. Quella sera, per esser festa, il grosso della
truppa era sparpagliato per le bettole  di  Velletri;  e  grandi  scompigli  non
potevano nascere. L'inganno si sarebbe scoperto, ed io avrei  fornito  il  fatto
mio prima che gli ufficiali avessero raccozzato  le  loro  schiere.  Il  Carafa,
uscito certamente per dar gli ordini, non poteva vedermi, le altre  persone  del
convento, qualunque si fossero, certo non conoscevano me;  e  l'unico  pericolo,
abbastanza grande per verità, si era ch'io fossi scoperto  nello  scappar  fuori
del convento; ma la scusa non mancava di esser penetrato  per  salvarmi  da  una
scorreria di cavalli napoletani. Credessero o no, non me ne importava; e dovessi
anche pagare quel  capriccio  a  prezzo  di  sangue,  aveva  promesso  e  voleva
mantenere. Infatti verso il cader del  sole,  pigliando  argomento  da  un  gran
polverio che si vedeva sorgere rimpetto al convento dalla parte  della  montagna
(ed  erano  forse  mandre  che  scendevano),  io  e  alcuni  de'  miei  compagni
interessati alla scommessa, fingendoci sorpresi in una bettola  vicina,  corsimo
fino alla prima scolta gridando che si avanzavano i Napoletani, e che dessero il
segno mentre noi salivamo di gran fretta a Velletri ad  ordinare  il  resto.  In
pochi momenti la piccola guarnigione fu  pronta,  perché  il  Carafa  prevedendo
simili casi aveva immaginato un'imboscata sul lato sinistro della strada, e  non
lasciò cosí che una sentinella o due intorno al monastero, divisando  che  l'era
sempre a tempo a ritirarvisi, e che il grosso della legione scendendo intanto da
Velletri avrebbe preso il nemico fra due fuochi. Mentr'egli  disponeva  cosí  la
sua piccola schiera in catena sopra certe colline  coronate  di  cipressi  e  di
lauri che fiancheggiavano la strada, e in mezzo ad essi attendeva a collocare  i
due cannoncelli colla solita antiveggenza ed operosità che non si  riscontravano
in altri che in  lui,  io  e  i  miei  compagni  ridendo  allegramente  di  quel
parapiglia con un breve giro per la campagna ci ridussimo alla parte  posteriore
del  convento  dove  l'orto  combaciava  quasi  colla  maremma.  Essi   stettero
osservando; io scavalcai lievemente il muro; e via per  mezzo  all'orto  dove  i
cavoli in semenza e il verziere abbruciato dal sole attestavano  la  non  finita
quaresima dei  proscritti  cappuccini.  Quando  fui  giunto  al  fabbricato  del
convento, spiai le finestre e la porta per trovare un buco da entrarvi;  ma  era
faccenda piú disagevole di quanto m'avea  figurato.  Le  finestre  erano  munite
d'inferriate solidissime, e le porte d'imposte di acero che avrebbero  resistito
ad una catapulta. Mi trovava, come si dice, a Roma, e non potea veder  il  Papa.
In quella vidi lí presso fra alcuni alberi una scala a piuoli  che  avea  dovuto
servire all'ortolano dei frati per dispiccar le pesche, e pensai che  gli  aditi
del piano superiore non erano forse cosí gelosamente guardati  come  quelli  del
terreno. Adattai la scala e mi misi alla prova. Le imposte infatti  della  prima
finestra che tentai, erano solamente accostate senza alcuna sicurtà di chiavacci
e di sbarre. Le apersi pian piano, vidi ch'era una specie di guardaroba cambiata
dal signor Ettore in armeria, e buttai dentro una gamba.  Ma  mentre  stava  per
passar coll'altra, un romore uno scalpito un gridio udito poco lontano  mi  fece
restar sospeso, cosí com'era, a cavalcione del davanzale. Sullo stesso  muro  da
me scavalcato vidi sorgere un cappello a tre punte, indi un  altro  e  un  altro
ancora. Era gente che aveva gran fretta di entrare,  e  pareva  piú  disposta  a
fracassarsi il  capo  precipitando  dalla  muraglia  nell'orto,  che  a  restare
dall'altra. Uno di essi giunto al sommo s'apprestava a discendere, quando  tuonò
come un'archibugiata; egli stese le braccia, e giù come un vero  morto.  Intanto
quelli ch'eran già passati la davano a gambe traverso i cavoli; li ravvisai  pei
miei compagni, e non li ebbi conosciuti appena, che sul solito muro cominciarono
a sorgere altri cappelli, e dietro i cappelli altre teste e braccia e gambe  che
non finivano piú. Ne calava uno e ne sorgevan dieci; una vera invasione, la vera
piaga delle locuste che oscuravano l'aria.  -  I  Napoletani!  i  Napoletani!  -
gridavano  i  miei  compagni   arrivati   sotto   al   muro   e   arrampicandosi
frettolosamente su per la scala in capo alla quale io sedeva. - Piano, adagio! -
rispondeva io. - Se no vi ammazzerete tutti senza  aspettare  che  vi  ammazzino
essi. Infatti la scala con un uomo per ogni piuolo scricchiolava  come  un  pero
troppo carico di frutta. Io prudentemente mi era ritirato con ambedue  le  gambe
nella stanza, e credeva fare piú che non fossi obbligato, col tenerli forniti di
buoni consigli. - Uno alla volta!... Non intralciatevi le gambe  gli  uni  cogli
altri!... Non isquassate tanto la scala!... Tutto in un momento  un  fischio  di
qua un fischio di là, uno scoppio per l'aria come di quattro o cinque saette che
s'azzuffassero, e vicino  a  me  uno  scotimento  tale  che  mandò  in  pezzi  i
cristalli. Sette dei miei colleghi balzarono  nella  stanza,  uno  rimase  fuori
morto, fortuna che fu proprio morto e non ferito; aggiungendosi  l'altro  ucciso
mentre scavalcava il muro si aveva il  conto  giusto,  che  eravamo  proprio  in
dieci. Corbezzoli! non v'avea proprio dubbio; le  erano  state  schioppettate  e
ferme al loro indirizzo!... Sentiva allora  per  la  prima  volta  l'odor  della
polvere. A me la fece l'effetto d'una convulsione di  riso,  come  di  chi  l'ha
scapolata bella. Peraltro non vorrei giurare che non avessi nulla, proprio nulla
di paura: almeno mi si lasci il vanto della sincerità. Tuttavia se  ebbi  paura,
non ne ebbi tanta che mi vietasse di tornar alla finestra e far un  certo  gesto
molto espressivo a quei scuriscioni napoletani, che  guardavano  in  alto  senza
poter seguirci per aver noi ritirato con molta bravura la scala. Quel  gesto  fu
il tocco magico che mise l'entusiasmo in petto ai  miei  compagni;  ma  anche  i
nemici non burlavano, e cominciarono una certa musica coi loro schioppi che  non
dava gran voglia di affacciarsi al balcone per guardar il tempo. Noi ci  eravamo
serviti di fucili di coltelli e di pistole in quell'armeria cosí  opportunamente
disposta; rendevamo  i  saluti  con  tutta  compitezza;  e  mentre  essi  a  noi
sforacchiavano i cappelli, noi a loro spalancavamo il cranio e la pancia. Non so
se fossero contenti del cambio. Peraltro la continuazione di quella commedia  ci
dava da pensare. Da dove fossero sbucati quei Napoletani?... Che il capitano non
ne sospettasse nulla? Che essi fossero già in cammino da senno dalla parte della
maremma mentre noi gridavamo il  falso  allarme  verso  la  montagna?  Cosí  era
successo infatti; e una semplice bizzarria potea costarmi salata a me,  a  tutta
la legione,  e  dar  anche  ad  uno  scherzo  ad  una  bravata  l'apparenza  del
tradimento. Intanto si continuava a schioppettare dall'alto in basso con maggior
fortuna che  dal  basso  in  alto,  quando  credemmo  accorgerci  che  i  nemici
rallentassero non poco della loro vivacità. Qualcuno di  noi  s'apparecchiava  a
cantar vittoria e fors'anche a dare  addosso  a  quei  pochi  ostinati  che  non
volevano ritirarsi e scorazzavano dietro le piante del  verziere,  quando  s'udí
sotto i nostri piedi un fragore come d'uno scoppio sotterraneo, e poco stante un
correre uno scalpitare nelle stanze terrene  susseguito  da  grida  da  urli  da
bestemmie e da giaculatorie secondo il pio costume dei Napoletani  quando  vanno
in guerra. Ciascuno di noi fu soprappreso da terrore; mentre  i  bersaglieri  ci
tenevano a bada, il grosso degli assalitori avea  sfondato  una  porta  con  una
piccola mina; il convento era invaso; uno contro dieci  sarebbe  stato  vano  il
pensiero di resistere. Io allora,  che  mi  sentiva  nella  coscienza  tutto  il
rimorso di quella malaugurata fazione, mi slanciai  coraggiosamente  alla  testa
dei compagni. Poche parole, un pronto e buon esempio, e capii che  mi  avrebbero
secondato a dovere. - Amici, vadano le nostre vite,  ma  non  cediamo  il  piano
superiore!... Pensate  all'onor  vostro,  all'onore  della  legione!...  -  Cosí
dicendo m'era gettato  fuori  della  guardaroba,  e  giunto  sulla  scala  m'era
ingegnato a barricare la porta con armadi con tavole ed altri mobili che potemmo
raccozzare. I Napoletani salivano sicuri, ma trovarono  tra  le  fessure  alcune
bocche di moschetto ben appostate che li  fecero  dar  indietro  gli  uni  sugli
altri. - Coraggio, amici! - soggiunsi  -  un  soccorso  non  può  tardare!...  -
Infatti mi pareva impossibile che al rumore delle archibugiate il signor  Ettore
non ispiccasse taluno a vedere di che si trattava. Non mi sarei mai figurato che
quel giorno appunto fosse destinato alla prima mossa dell'esercito napoletano, e
che egli fosse da parte sua molto affaccendato a tenerne lontani gli scorridori,
perché la legione avesse campo di uscir da Velletri. Ad ogni modo ci  adoperammo
tanto bene dietro il buon riparo d'una doppia porta  di  quercia  che  i  nemici
dimisero affatto il pensiero di  salire  per  la  scala.  Ci  avvidimo  peraltro
ch'essi lo avevano dimesso per entrare in un altro piú pericoloso ancora; pareva
che avessero appiccato il fuoco sotto i nostri piedi;  il  fumo  pei  fessi  del
solaio penetrava nell'andito ove eravamo e ci toglieva  il  respiro;  poco  dopo
cominciarono a crepitare le travi, e le fiamme a  farsi  strada  tra  i  mattoni
arroventati. Fuggimmo a precipizio nelle stanze vicine, e un  minuto  dopo  quel
pavimento crollava con fracasso spaventevole. Ma anche  nelle  altre  stanze  la
sicurezza non era maggiore; l'incendio  s'era  dilatato  in  un  attimo,  perché
c'erano sotto appunto i magazzini della paglia; bisognava uscire o rassegnarsi a
morire abbrustoliti. I miei compagni con pistole fra mano e la spada fra i denti
si precipitarono dalle finestre, e sgominando per la  sorpresa  i  pochi  nemici
distratti dalla vista dell'incendio, si ritrassero a salvamento  sulla  collina.
Uno solo, inciampato nel cadere, si slogò e si ruppe una gamba, benché il  salto
da quella parte fosse discretissimo; e subito quei  sicari  gli  furono  addosso
come lupi ad un agnello, e a dirvi le torture  e  gli  strazii  che  gli  fecero
soffrire, sarei tacciato senza fallo di bugiardo, perché sembrerebbe impossibile
che tanto si infierisse contro una creatura umana in un attimo di tempo.  Io  mi
ritrassi raccapricciando; pure una forza sovrumana mi comandava di non  fuggire;
mi relegava fra quelle muraglie già invase dalle fiamme. Altre creature vi erano
chiuse,  non  sapeva  chi;  ma  bastava  perché   io,   cagione   innocente   di
quell'eccidio, mi sacrificassi  ad  una  lontana  lusinga  di  poterle  salvare.
Correva come un pazzo pei lunghi corritoi, passava  da  porta  a  porta  per  le
innumerevoli  celle  e  pei  profondi  appartamenti  del  chiostro;  l'aria   si
riscaldava sempre piú come d'un forno in cui si rattizzi mano a mano la  fiamma.
Dappertutto era solitudine e silenzio; solo gli  urli  di  fuori  e  un  lontano
strepito  d'archibugiate  aggiungeva  terrore  a  quegli   angosciosi   momenti.
Deliberato a non tentare la fuga se prima non era ben certo che anima umana  non
restasse  in  quell'inferno,  mi  avventurai  a  un  disperato  passaggio  sopra
quell'andito il cui pavimento ci era quasi crollato sotto  ai  piedi.  Restavano
alcune travi fumiganti e da un lato della  muraglia  una  specie  di  volta  che
copriva una scala sottoposta. Passai correndo sopra questa, e mi diedi a  vagare
dissennato per quell'altra parte dell'edifizio. Giunsi ad una porta  chiusa  che
non avrebbe resistito certamente all'urto di due braccia  animate  come  le  mie
dalla disperazione. Tuttavia gridai prima angosciosamente: - Aprite,  aprite!  -
Mi rispose uno strido che mi parve di donna,  e  in  pari  tempo  una  palla  di
pistola, uscita da un traforo dell'uscio, mi passò rasente le tempie  e  andò  a
conficcarsi nel muro dirimpetto. - Amici! amici! - io gridai.  Ma  nuove  strida
soffocarono la mia voce, e un nuovo colpo di pistola partí dalla porta,  che  mi
sfiorò  un  braccio  e  me  ne  fece  zampillare  il  sangue.  Io  diedi   entro
disperatamente coll'una spalla in quella porta, deciso  a  salvarli  anche  loro
malgrado se erano amici, a farmi uccidere se nemici. L'uscio cadde in  pezzi,  e
affumicato sanguinoso colle vesti arse e stracciate io mi precipitai  in  quella
stanza che parvi certamente un dannato. Rovesciai nel mio impeto una  donna  che
correva qua e là per la stanza colle palme levate al cielo o accapigliate  nelle
trecce come ossessa dalla paura. Un'altra donna  mi  fuggiva  dinanzi,  e  parve
disposta a volersi salvare precipitandosi dalla finestra; ma io fui piú presto a
raggiungerla, e  la  cinsi  delle  mie  braccia  mentre  appunto  il  suo  corpo
spenzolava  dal  davanzale.  Le  vampe  che  uscivano  dal  piano  sopposto   le
incenerirono i capelli, due o tre archibugiate salutarono la nostra  apparizione
alla finestra; io la sollevai per ritrarla da quella posizione  cosí  pericolosa
dicendole che era amico,  accorso  per  salvarla,  che  non  temesse  o  eravamo
perduti...  Il  suo  volto,  bello  d'una   sublime   disperazione,   si   volse
precipitosamente... Io fui per cadere come colto da una palla nel  petto...  Era
la Pisana! La Pisana!... Mio Dio! Chi potrebbe esprimere la tempesta che  mi  si
sollevò nel cuore?... Chi può dar un nome a ciascuna di quelle passioni  che  me
lo sconvolgevano? L'amore, l'amore fu la  prima,  la  piú  forte,  la  sola  che
raddoppiò la virtù del mio petto, e diede all'animo mio un'audacia  invincibile!
La  sollevai  sulle  spalle,  e  via  con  essa  tra  le  fiamme,  tra  i  solai
scricchiolanti, le mura rovinose, e il rimbombo delle volte crollanti!...  Scesi
sul dinanzi dove le vampe lasciavano ancora un passaggio;  ma  da  destra  e  da
sinistra sentiva da un'aria infocata affogarmi la gola. Un  ultimo  sforzo!  Chi
dirà mai ch'io cada con un  tal  peso  sulle  braccia?...  Chi  dirà  mai  ch'io
abbandoni alle fiamme queste belle membra ch'io ammirai tante volte come l'opera
piú perfetta della natura, e questo volto incantevole dove la generosa anima sua
trapela lampeggiante, come la folgore tra le nubi?...  Io  avrei  traversato  un
vulcano senza paura di allentar d'un capello la stretta  con  cui  cingeva  quel
corpo prezioso e quasi esanime. Foss'ella morta, e io sarei morto  io  pure  per
poter pensare nell'istante supremo: "Son caduto per lei e con lei!...".  Timori,
sospetti, gelosie, vendette che mi avevano gonfiato il cuore un istante  s'erano
dileguati; l'amore era rimasto solo, colla sua fede  che  rinasce  dalle  ceneri
come la fenice, colla sua forza che vince la stessa morte perché la disprezza  e
l'obblia. Colla Pisana in collo, colla disperazione nel cuore, la  minaccia  piú
spaventosa negli occhi, rotando forsennato una spada sgominai una fila di nemici
che si scaldava spensierata all'incendio del convento. Mi ricorda aver traveduto
fra essi un frate che pregava il cielo e arringava devotamente i soldati. Era il
priore del convento che avea  guidato  i  soldati  della  Santa  Fede  a  quella
tremenda vendetta; egli diceva  che  i  nemici  della  religione  erano  rimasti
arrostiti nel proprio unto. Ma l'ultimo  di  questi  invece,  non  nemico  della
religione  ma  dei  fanatici  che  le  mettono  l'armi   alla   mano,   sfuggiva
miracolosamente al loro furore. Se Dio guardava in quel momento sopra  Velletri,
certo che i suoi favori furono per la Pisana e per me.  Sempre  correndo  giunsi
alle colline dov'era disposta  l'imboscata  del  Carafa,  ma  là  le  sorti  del
combattimento erano  state  ben  diverse.  Incontrammo  i  piú  indiavolati  dei
legionari che dopo aver ributtato i Napoletani fin  nelle  gole  della  montagna
tornavano per voltarsi contro gli incendiatori del convento. Ettore stesso,  che
solo in quel momento avea  ricevuto  l'annunzio  di  quanto  avveniva  alle  sue
spalle, si precipitava colà alla testa de' suoi, incerto se  sarebbe  giunto  in
tempo,  certo  che  la  difesa  o  la  vendetta  sarebbero  state   tremende   e
irresistibili al pari. Io mi nascosi fra i lauri di quella  costiera  finché  fu
passato; ma poi ne ebbi pietà, e fermato un caporale che gli teneva  dietro  con
un nuovo drappello raccozzato a Velletri,  lo  incaricai  di  dirgli  che  colei
ch'egli sapeva era già in salvo nella città. Infatti, mossi ancora alcuni  passi
e imbattutomi in due de' miei  soldati,  consegnai  loro  la  Pisana  perché  la
portassero; quanto a me era proprio sfinito e durai fatica a tener  loro  dietro
fino sul monte che porta sulla cima Velletri. Colà arrivato,  la  acconciai  nel
mio letto, le feci aprir  la  vena  da  un  barbiere  lí  presso,  e  finch'ella
rinveniva, per toglierle la commozione della sorpresa, uscii sopra  un  loggiato
che prospettava la campagna. Si vedeva il convento simile in tutto  ad  un  gran
rogo, le fiamme rossastre e fumose si disegnavano sempre meglio sopra  il  cielo
che s'imbruniva, e al loro tetro bagliore si vedevano luccicare le baionette dei
legionari che premevano alle reni i  fuggiaschi  Napoletani.  La  battaglia  era
vinta e tristi presagi circondavano il primo ingresso dei liberatori nei confini
della Repubblica Romana. Quando rientrai, la Pisana s'era già posta a sedere sul
letto e mi accolse con minor confusione di quanto mi sarei  aspettato.  Fu  anzi
ella la prima a parlare, il che  mi  sorprese  assai  per  l'economia  di  fiato
ch'ella usava fare anche in momenti d'assai meno scabroso discorso. - Carlo - mi
diss'ella - perché non mi hai lasciato dov'era?... Sarei morta  da  eroina  e  a
Roma mi avrebbero messa nel nuovo Panteon. Io la guardai  esterrefatto,  giacché
quelle parole mi sapevano di pazzia; ma ella mostrava ragionare col suo  miglior
senno, e dovetti rispondere a tono. - Lasciando te avrei dovuto restare anch'io!
- soggiunsi con voce tanto commossa che stentava a tirar innanzi.  -  Ti  giuro,
Pisana, che sul primo momento che ti ravvisai ebbi una gran voglia di  ucciderti
e di morire! - Oh perché non lo hai fatto? - gridò ella  con  tale  accento  del
quale mi fu forza riconoscere  la  sincerità  e  la  disperazione.  -  Non  l'ho
fatto... non l'ho fatto, perché ti amo! - le risposi colla fronte china come chi
confessasse una propria vergogna. Ella non fu per nulla  umiliata  da  quel  mio
cipiglio; anzi levando fieramente le ciglia, come una vergine offesa:  -  Ah  mi
ami, mi ami? - esclamò. - Empio, traditore, spergiuro! Che il cielo  ascolti  le
tue menzogne e te le faccia colare in gola mutate in piombo  rovente!...  Tu  mi
hai calpestato come una schiava, mi hai ingannato come una scimunita; e  al  mio
fianco, fra le mie braccia stesse, meditavi il tradimento che hai  consumato!...
Oh felice te! Felice, che un uomo s'interpose fra te e me!... Ch'egli  tolse  di
mano a me la vendetta, e me ne porse un'altra che forma la mia vergogna, il  mio
tormento di ogni giorno, d'ogni minuto! Altrimenti sul  seno  stesso  della  tua
druda t'avrei piantato un pugnale nel cuore; e aveva tanta forza in  questo  mio
braccio che d'un colpo solo v'avrei annientati ambidue!... Va', ora va'!... Godi
della mia umiliazione, e del tuo trionfo!...  Mi  hai  salvata  la  vita!...  Il
generoso sei tu!... Alla prossima decade avrai una corona  civica  intorno  alle
tempia; ma io sarò tanto imperterrita da rifiutare  la  feccia  di  quel  calice
disonorevole che mi si vuol imporre! Avrò  il  coraggio  di  sfidare  quell'amor
furibondo  cui  mi  sono  rabbiosamente  venduta!...  Sono  sei  mesi  ch'io  lo
schernisco, ora lo sbeffeggerò!... Vendetta per vendetta!...  Una  pugnalata  di
sua mano recherà a me la morte, ed al tuo cuore  pusillanime  un  rimorso  senza
fine!... Udirmi  maledire  in  tal  modo  da  colei  che  m'aveva  tradito  cosí
orrendamente, alla quale io avea serbato una fede candida un amore  costante,  e
pur allora lo aveva provato coll'esporre la mia vita nel  salvare  la  sua,  per
quanto il modo ed il luogo dove la trovava dovessero inviperire la mia rabbia, e
convertir l'affetto in furore, vederla furibonda e sdegnosa contro di me, mentre
l'aspettava umile e tremante, fu un cotal colpo che mi lacerò le viscere.  L'ira
mia si sollevò fino contro  Dio,  il  quale  permetteva  che  l'innocenza  fosse
maltrattata cosí indegnamente, e che il vizio armato di fulmini  si  godesse  di
atterrirla dall'alto del suo trono di vergogne.  -  Pisana  -  gridai  con  voce
soffocata e travolta da singhiozzi - Pisana, basta! Non voglio,  non  posso  piú
ascoltarti!... Le parole che ora pronunciasti sono piú vili piú oscene dei  tuoi
tradimenti!... Oh non istà a te, non istà a te l'accusarmi!...  Mentre  confessi
il delitto piú mostruoso che l'amante  possa  commettere  contro  l'amante,  hai
ancora la crudeltà e la baldanza di pascerti delle mie lagrime,  di  godere  de'
miei tormenti, e di fingerti offesa e vituperata per  minacciarmi  una  vendetta
piú sanguinosa, ma pur sempre meno indegna  di  quella  che  hai  già  consumato
contro di me!... Taci, Pisana; non una sola parola di piú: o io  rinnego  quanto
v'è ancora di giusto e di santo al mondo; io mi strappo dal petto l'onore  e  lo
butto ai cani come un abbominio!... Sí, rinnego anche quell'onore  bugiardo  che
soffre quaggiù la vergogna  dovuta  agli  spergiuri  senza  rispondere  con  uno
scoppio di vulcano a sí sfrontate calunnie! La Pisana si strinse la fronte colle
mani e si mise a piangere; indi improvvisamente balzò dal letto,  ove  l'avevano
adagiata vestita com'era, e fece motto di  voler  uscire  dalla  stanza;  io  la
trattenni. - Dove vuoi andare ora? - Voglio andare  dal  signor  Ettore  Carafa:
conducimi tosto dal signor Ettore. - Il signor capitano sarà  ora  occupatissimo
nel dare la caccia ai Napoletani,  e  non  ci  sarebbe  tanto  facile  trovarlo;
d'altronde egli fu avvertito del tuo salvamento  e  non  può  fare  che  non  ti
raggiunga appena lo potrà. Queste ultime  parole  io  le  condii  d'un  discreto
sapore d'ironia, ond'ella inalberandomisi dinanzi: - Guai a lui, o guai a te!  -
sclamò con atto profetico. - Guai a nessuno - io le risposi con fronte sicura  -
guai a nessuno;  pur  troppo!...  Io  sarei  ben  fortunato  di  poter  uccidere
taluno!... - Perché non uccidi me? - uscí ella a dire  con  molta  ingenuità.  -
Perché... perché... perché sei troppo bella... perché mi ricordo che fosti anche
buona! - Taci, Carlo, taci!... Credi che verrà presto il signor Ettore? - Non te
lo dissi?... Appena potrà!... Ella tacque allora per lunga pezza,  e  al  dubbio
chiarore della luna che entrava dalla loggia vicina,  vidi  che  molti  e  varii
pensieri le traversavano la fronte. Ora fosca,  ora  raggiante,  ora  tempestosa
come un cielo carico di nuvole, ora calma e serena come  il  mare  d'estate;  si
componeva talvolta all'attitudine della preghiera, poco dopo stringeva il  pugno
come avesse in mano uno stilo e ne ferisse a  piú  riprese  un  petto  aborrito.
Colle vesti discinte, brutte di sangue e di  polvere,  coi  capelli  semiarsi  e
scarmigliati, colle sembianze scomposte dalle vicende terribili di quella  mezza
giornata, ella poggiava il gomito sulla tavola affumicata e sanguinosa pur essa.
Sembrava qualche negra  pitonessa  uscita  dall'Erebo  allora  e  meditante  gli
spaventevoli misteri della visione infernale. Io non osava  rompere  quel  tetro
silenzio, avea anch'io bisogno di raccogliermi e di pensare, prima di  provocare
le rivelazioni della tetra Sibilla. La storia del cuor suo e  quella  della  sua
vita dopo la  mia  partenza  si  illuminavano  a  sprazzi  nella  mia  atterrita
fantasia; ma aveva ribrezzo di guardare, sentiva che pel momento era uno  sforzo
superiore alle mie forze. Se taluno mi avesse detto: "a prezzo di farti  stupido
io prometto convincerti della innocenza della Pisana", certo io avrei  accettato
il contratto. Indi a un'ora circa il  signor  Ettore  Carafa  solo,  accigliato,
entrò nella stanza. Non aveva  cappello,  ché  l'aveva  perduto  nella  mischia,
cingeva il fodero senza spada perché l'aveva spezzata nel  cranio  d'un  dragone
dopo avergli segato l'elmo per mezzo alla cresta; la sua cicatrice  s'imbiancava
d'un pallore quasi incandescente. Salutò, si mise tra me e la Pisana, e  aspettò
che alcuno di noi parlasse. Ma la Pisana non lo lasciò aspettare  a  lungo,  ché
con fare superbo e stizzoso gli domandò che ripetesse la storia de'  miei  amori
colla bella greca; e narrasse la cosa ingenuamente come l'aveva narrata  a  lei.
Il Carafa infatti, chiestone a me licenza,  narrò  senza  scomporsi  quello  che
aveva saputo di tali amori nei crocchi di Milano, e della bella giovane, e della
gelosia con cui la teneva nascosta agli occhi di tutti. - Ecco, Pisana, cosa  vi
narrai - conchiuse egli -  quando  appena  giunta  a  Milano  veniste  da  me  a
chiedermi se nulla sapeva di Carlo Altoviti mio ufficiale e degli amori suoi che
facevano tanto chiasso appunto pel loro mistero. Narrando  ciò,  non  facea  che
ripetere la voce di tutti, e ne andava certamente illeso l'onore di colui ch'era
l'eroe di quei tali amori. Ho fallato?... Non mi pare!...  Di  null'altro  debbo
render conto a  nessuno!  La  Pisana  parve  soddisfatta  abbastanza  di  questa
temperatissima arringa del Carafa, e si volse a me, come il giudice al reo  dopo
la deposizione d'un testimonio irrefragabile. - Pisana,  perché  mi  guardate  a
quel modo? - soggiunsi. - Perché? -  diss'ella  -  perché  vi  odio,  perché  vi
disprezzo, perché vorrei potervi fare piú onta che  non  vi  feci  col  buttarmi
nelle braccia d'un altro... Io inorridii di tanto cinismo; ella se n'avvide e si
contorse tutta come uno scorpione toccato da una bragia.  Si  pentiva  d'essersi
mostrata qual era, veramente diabolica ed insensata in quel momento di rabbia. -
Sí - riprese ella - guardami pure!... Io posso amare un uomo ogni giorno, quando
tu giuravi di amar me, e macchinavi già di rapire l'Aglaura!... -  Insensata!  -
gridai. Corsi al mio baule, ne trassi alcune lettere di mia sorella, e le buttai
sulla tavola dinanzi a lei. - Un lume! - ordinai poi sulla porta; ed avutolo  lo
posi vicino alla Pisana, e le dissi:  -  Leggete!  La  fortuna  mi  aiutava  col
lasciarle  ignorare  ch'io  non  conosceva   la   mia   parentela   coll'Aglaura
quand'eravamo fuggiti  da  Venezia;  avvisai  utile  il  lasciarglielo  ignorare
anch'io, per non inviluppare piucchemai i  mille  particolari  di  quella  scena
dolorosa e malagevole. Ella lesse due o tre  di  quelle  lettere,  le  passò  ad
Ettore dicendo: - Leggete anche voi! - e mentr'egli le scorreva in fretta  dando
segno di maraviglia e di dispiacere, ella andava dicendo fra i denti: - Mi hanno
tradita!... È  stata  una  congiura!...  Maledetti,  maledetti!...  Li  divorerò
tutti!... - No, Pisana, nessuno ti ha tradito; - le dissi io - tu fosti a tradir
me!... Sí, tu!... Non difenderti!... Non invelenirti  contro  di  me!...  Ma  se
m'avessi amato davvero, oh io poteva essere spergiuro infame scellerato  che  mi
ameresti ancora!... Lo sai, Pisana, lo sai perché te lo dico?... gli è perché lo
sento. Gli è perché tal quale or sei, mi vergogno a dirlo, io t'amo, io  t'adoro
ancora!... No, non sgomentirti!  Ti  fuggirò,  non  mi  vedrai  mai  piú!...  Ma
lasciami prendere di te questa sola  vendetta,  che  tu  sappia  di  aver  fatto
l'eterna sventura di quell'uomo al quale potevi essere gioia, conforto, felicità
per tutta la vita!... Carafa aveva scorso intanto alcune delle lettere e  me  le
rese dicendo: - Perdonate; m'ingannò la voce pubblica, ma  non  ebbi  intenzione
d'ingannare. Una cotal scusa in bocca d'un tal uomo mi commosse a  segno  che  a
stento frenava le lagrime; infatti io vedeva il gran sforzo indurato dal  signor
Ettore per poter ottener tanto dal proprio animo. L'alterigia piegava  sbuffando
sotto la forza inesorabile della  volontà.  La  Pisana  piangeva  e  una  doppia
vergogna le impediva di rivolgersi al pari al signor Ettore e a me. Questi  ebbe
compassione, non so bene se di me o di lei, e mi  chiamò  per  qualche  momento,
diss'egli, fuori della stanza. Mi narrò com'era stato il suo primo  abboccamento
colla Pisana, com'ella sapendomi ufficiale al suo servigio si rivolgesse  a  lui
per piú certa contezza, e che  ella  era  già  delirante  di  gelosia,  ed  egli
invaghito  di  lei  al  primo  sguardo.  Insomma  mi  confessò  che,  credendomi
innamorato morto della mia greca, non aveva  creduto  illecito  il  giovarsi  di
quella fortuna che gli capitava in mano; tanto piú soave  e  desiderata,  quanto
pochissime volte l'amore era penetrato nel suo duro petto  di  soldato.  Si  era
perciò ingegnato di volgere a suo pro' il furore della Pisana, e vi era  infatti
riescito in quei primi giorni. - Ma poi - soggiunse egli - non ci fu  piú  verso
ch'ella volesse ricordarsi di quei primi giorni d'ebbrezza. A Milano, a Firenze,
a Roma mi seguí sempre muta, altera,  insensibile;  godendo  delle  mie  smanie,
rispondendo alle mie preghiere e alle minacce con questa acerba parola: "Mi  son
vendicata anche troppo!". Oh quanto soffersi,  Carlo!  Quanto  soffersi!  Ve  lo
giuro che foste vendicato anche voi! Pregava, supplicava, piangeva, faceva  voti
a Dio ed ai santi, non mi riconosceva proprio piú!...  Perfino  alla  corruzione
ricorsi, e tentai coll'oro la sua cameriera, una certa veneziana dalla quale non
volle mai separarsi... - Chi? - esclamai io - come  si  chiamava?  -  L'era  una
certa Rosa; una disgraziata che avrebbe venduto una sorella per  dieci  carlini.
Ma oggi fu punita spaventosamente di ogni suo trascorso;  e  l'ho  veduta  fatta
carbone  fra  le  rovine  del  convento!...  Or  bene,  neppure   per   l'infame
intercessione di colei ottenni nulla; mi era avvilito abbastanza, mi sembra.  La
tolsi di Roma per menarla qui in  questa  solitudine,  ove  avea  deliberato  di
ricorrere anche alla forza per ricondurla a' miei desideri!... Vani pensieri,  o
Carlo!... La forza cade in ginocchio dinanzi ad un suo sguardo!... Io capiva che
qualche suprema deliberazione, qualche passione invincibile me l'avea tolta  per
sempre dopo le concessioni quasi involontarie d'un momento di sorpresa!... Io vi
scopersi tutta intera la verità, benché non debba esserne gran  fatto  vanitoso;
traetene voi il vostro giudizio, e regolatevi a vostra posta.  Il  mio  quartier
generale sarà domani sera a Frascati, perché il general in capo  Championnet  ha
ordinato una ritirata completa sopra tutta la linea. Consultatevi colla  Pisana.
La mia casa le sarà sempre aperta, perché io  non  dimentico  mai  né  i  favori
altrui, né le mie proprie promesse. Ciò dicendo il Carafa  mi  strinse  la  mano
senza molta effusione e si ritirò ripigliando il suo fiero  cipiglio  guerresco;
mi parve che nel rilevare il petto e nello scuotere leggermente i capelli,  egli
gettasse le spoglie del gineceo per rivestire  la  pelle  leonina  d'Alcide.  Io
rientrai dalla Pisana senza far parola, e aspettava  ch'ella  m'interrogasse.  -
Dov'è andato il signor Carafa? - chies'ella infatti  con  molta  premura.  -  Ad
ordinare la ritirata sopra Frascati - risposi. - E pianta qua me?...  E  non  mi
dice nemmeno dove va? - Egli ha detto a me che lo  significassi  a  voi.  Vedete
ch'egli non manca ad alcuno de' suoi doveri di cavalleria, e che non si  rifiuta
dall'osservare gli obblighi contratti con voi! - Obblighi con me?... lui?...  Me
ne meraviglio!... Egli non avrebbe altr'obbligo che di rendermi quello che  m'ha
rubato; ma son cose che non si restituiscono. Infine poi non sarò la prima donna
che si sia  fatta  rispettare  senza  avere  al  fianco  la  spada  ignuda  d'un
paladino!... Favorite chiamare la mia cameriera! - Vi dimenticate dove l'abbiamo
lasciata?... Ella restò vittima dell'incendio! - Chi?... La Rosa?... La  Rosa  è
morta?... Oh poveretta me, oh disgraziata me! Son io, son io che  l'ho  lasciata
perire a quel modo!... Me ne sono dimenticata  quando  appunto  dovea  prenderne
maggior cura! Maledizione a me che avrò sempre sulla coscienza il  sangue  d'una
innocente! Io mi sforzai a darle ad intendere che essendo ella svenuta  in  quel
parapiglia e bisognevole del mio soccorso per fuggire, non la  potea  già  darsi
pensiero né della Rosa né di nessuno. Ella seguitò a lamentarsi, a sospirare,  a
parlare con una volubilità incredibile, senza peraltro far parola piú di seguire
il Carafa o di volersi partire da sola. Per me aveva tanta  compassione  di  lei
che l'amor mio non avrebbe sdegnato di  tornar  umile  e  carezzevole  come  una
volta, purché l'avesse fatto le viste di desiderarlo. - Carlino -  mi  diss'ella
ad un tratto - quando partiste da Venezia voi non sapevate che  l'Aglaura  fosse
vostra sorella, perché altrimenti me l'avreste detto. -  No,  non  lo  sapeva  -
risposi non vedendo ragione di  mentir  oltre.  -  E  tuttavia  viveste  insieme
proprio come fratello e sorella. - Era impossibile altrimenti. - E quanto  tempo
durò questa vostra vita innocente e comune? - Certo parecchi mesi. La Pisana  ci
meditò sopra un pochino, indi soggiunse: -  Se  io  dormissi  qui  sopra  questa
seggiola, Carlo, ve ne avreste a male? Le risposi ch'ella poteva anche adagiarsi
nel letto a sua posta, che io aveva  da  basso  un  altro  giaciglio  ove  avrei
cercato di pigliar sonno. Infatti si mostrò molto lieta di  questa  licenza,  ma
aspettò per approfittarne che io fossi disceso dalla scala.  E  allora,  siccome
per curiosità mi era fermato ad origliare, la udii dare il chiavaccio alla porta
con molta cura di non far romore. L'anno prima a Venezia non avrebbe fatto cosí,
ma dalle precauzioni usate a non farsi intendere capii che tutto era effetto  di
vergogna. Il giorno dopo non si parlò piú del giorno prima; cosa facilissima per
la Pisana che si dimenticava di tutto e difficilissima per me  che  non  costumo
nutrir d'altro il mio presente che delle memorie passate. Mi chiese in che  modo
saremmo partiti, cosí come  se  da  qualche  anno  fossimo  avvezzi  a  viaggiar
insieme; acconciati alla meglio in un curricolo, la sua  festività  naturale  mi
fece parer brevissima la gita fino a Frascati. L'amore non venne piú  in  ballo,
ma un'amicizia come di fratelli,  piena  di  compassione  e  d'obblio,  gli  era
succeduta. Notate che io parlo dei discorsi e delle maniere; quanto  a  ciò  che
bolliva sotto, non vorrei far sicurtà, e alle volte io credetti sorprendermi  in
qualche movimento di stizza per la dabbenaggine con  cui  aveva  accettato  quel
tacito e freddo compromesso. La Pisana sembrava beata di esser non dirò amata ma
sofferta da me; cosí ingenua, cosí ubbidiente, cosí amorevole  si  serbava,  che
una figliuola non avrebbe potuto esser di meglio. Era, credo, una  muta  maniera
di domandar perdono; ma non l'aveva ottenuto? Pur troppo io ebbi sovente  quella
facilità censurata tante volte in lei di perdonare e dimenticare  torti  affatto
imperdonabili! Tuttavia non ismetteva nulla del  mio  dignitoso  contegno:  e  a
Spoleto a Nepi ad Acquapendente a Perugia in tutti  i  luoghi  dove  Championnet
condusse l'esercito per raccozzarne le membra sparse  ed  apparecchiarle  meglio
alla riscossa, noi menammo la vita di due fratelli d'armi, che hanno  goduto  la
loro gioventù, e danno giù, come si dice, ogni giorno peggio  nel  brentone  del
positivo. Intanto  re  Ferdinando  di  Napoli  e  Mack  suo  generale  entravano
trionfalmente in Roma. I Francesi s'erano  ritirati  per  prudenza,  e  l'esimio
generale ne dava invece il merito a' suoi complicatissimi piani  strategici.  La
Repubblica Romana era ita a soqquadro come un edificio di carte  da  giuoco:  si
stabiliva sotto il patrocinio del Re  un  governo  provvisorio.  Ma  intanto  il
barone Mack non istava colle mani alla cintola e complicava sempre piú i proprii
piani per cacciar Championnet dallo Stato romano e forse forse da tutta  Italia.
Naselli era sbarcato a Livorno, Ruggiero di Damas ad Orbetello;  egli,  spartito
l'esercito in cinque corpi, s'avanzava sulle due sponde del Tevere.  Championnet
senza tante complicazioni tempestò ruppe sbaragliò da  tergo,  sulla  fronte,  a
destra ed a sinistra. Mack imbrogliato nei proprii  fili  si  vide  costretto  a
fuggire. Il suo re lo precedette sulla via  di  Caserta  e  di  Napoli;  e  dopo
diciassette giorni di catalessia risorgeva la Repubblica Romana alla sua  misera
vita. Championnet premeva vittorioso i confini del Regno: Rusca  coi  Cisalpini,
Carafa colla  Legione  Partenopea  scaramucciavano  sulla  prima  fila.  Già  la
rivoluzione mugolava minacciosa alle porte di Napoli.


CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Epopea napoletana del 1799. La Repubblica Partenopea e la spedizione di  Puglia.
I Francesi abbandonano il Regno, Ruffo lo invade coi briganti, coi  Turchi,  coi
Russi, cogli Inglesi. Ritrovo mio padre per vederlo morire e  cader  prigioniero
di Mammone. Ma son liberato dalla Pisana,  e  mentre  il  sangue  piú  nobile  e
generoso d'Italia scorre sul patibolo, noi due insieme con Lucilio salpiamo  per
Genova ultimo e scrollato baluardo della libertà.

Quel popolo di Napoli, che armato in campo erasi sperperato dinanzi ad un  pugno
di Francesi per la complicatissima ignoranza del barone Mack, quel popolo stesso
abbandonato dal Re, dalla Regina e da  Acton,  rovina  del  Regno,  venduto  dal
vice-re Pignatelli ad un armistizio vile e precipitoso, senz'armi e senz'ordine,
in una città vastissima e aperta d'ogni lato, si difese  due  giorni  contro  la
cresciuta baldanza dei vincitori. Si  ritrasse  nelle  sue  tane  vinto  ma  non
scoraggiato;  e  Championnet,  entrando  trionfalmente   il   ventidue   gennaio
millesettecentonovantanove,  sentí  sotto  i  piedi  il  suolo   vulcanico   che
rimbombava. Sorse una nuova Repubblica Partenopea;  insigne  per  una  singolare
onestà fortezza e sapienza dei capi,  compassionevole  per  l'anarchia,  per  le
passioni spietate e perverse che la dilaniarono, sventurata e  mirabile  per  la
tragica fine. Non erasi ancora stabilito  a  dovere  il  nuovo  governo  che  il
cardinal Ruffo colle sue bande sbarcava di Sicilia nelle Calabrie  e  poneva  in
grave pericolo l'autorità repubblicana in quell'estremo lembo  d'Italia.  Alcune
terre lo accoglievano come un liberatore, altre lo ributtavano come assassino, e
fortunatamente si difendevano, o venivano prese, arse, smantellate.  Masnade  di
briganti capitanate da Mammone, da Sciarpa, da Fra Diavolo secondavano le  mosse
del Cardinale. Sette  emigrati  còrsi,  spacciando  uno  di  loro  per  principe
ereditario, avevan bastato per levar a romore buona parte degli  Abruzzi;  ma  i
Francesi si opponevano gagliardamente,  e  ne  impiccavano  taluni  con  esempio
solenne di giustizia. Non era quella una guerra tra uomini, ma uno sbranarsi tra
fiere. Si attendeva in Napoli a rafforzare il governo, ad instillare nel  popolo
sentimenti repubblicani, a fargli insegnare un vangelo democratico  tradotto  in
dialetto da un cappuccino, a dargli ad intendere che san Gennaro  era  diventato
democratico. Ma da lontano strepitavano le armi russe di Suwarow e le austriache
di Kray accennando all'Italia; la flotta di Nelson, vincitrice di Abouckir, e le
flotte russe e ottomane, padrone delle isole Jonie, correvano l'Adriatico ed  il
Mediterraneo. Bonaparte, il beniamino della vittoria, si divertiva a  trinciarla
da profeta coi Beduini e coi Mamalucchi; con lui la fortuna  avea  disertato  le
bandiere francesi, e il solo valore le difendeva ancora  sulle  terre  straniere
ov'egli, fulmineo vincitore, le aveva  piantate.  Dopo  alcuni  mesi  si  avverò
quanto si temeva. Macdonald succeduto  a  Championnet  fu  richiamato  nell'alta
Italia contro gli Austro-Russi che l'avevano invasa;  lasciata  qualche  piccola
guarnigione nel Castello di Sant'Elmo, a Capua, a Gaeta, egli dovette aprirsi il
passo coll'armi alla mano, tanto la ribellione imbaldanziva  oggimai  anche  sui
confini dello Stato romano.  Io  m'era  abbattuto  molte  volte  in  Lucilio  in
Amilcare e in Giulio Del Ponte, durante quella guerra disordinata; ma sempre per
pochissimi istanti, giacché le nostre colonne giovavano assai in quelle  fazioni
per lo piú d'imboscata e di montagna, e le adoperavano senza remissione a destra
e sinistra sull'Adriatico e sul Mediterraneo. Aveva collocato la  Pisana  presso
la Principessa di Santacroce, sorella d'un principe romano  ch'era  morto  pochi
mesi prima ad Aversa difendendo la Repubblica contro l'invasione  di  Mack.  Era
tranquillo per lei; il Carafa mi trattava con molta amorevolezza e  riponeva  in
me una speciale confidenza. Null'altra brama aveva, null'altra passione  che  di
veder trionfare quella causa della libertà cui mi era corpo ed anima consacrato.
La partenza dei Francesi fu pei  repubblicani  di  Napoli  un  colpo  terribile.
S'eran dati attorno assai, ma non quanto sarebbe bisognato  per  sopperire  alla
mancanza d'un sí valido aiuto. Lucilio, Amilcare, e il  Del  Ponte  non  vollero
partire ad ogni costo; e chiesero d'esser ammessi alla legione di volontari  che
si formava allora sotto il comando di Schipani:  il  povero  Giulio  dopo  tante
marce,  tante  guerre,  tante  fatiche  moveva  veramente  a  pietà.  In   cento
azzuffamenti, in dieci battaglie, egli era ito chiedendo l'elemosina d'una palla
che non gli veniva concessa mai. Le forze gli venivano meno giorno per giorno, e
raccapricciava all'idea di morire  sul  pagliericcio  verminoso  degli  ospitali
militari d'allora. I due amici lo confortavano ma con qual  cuore!  L'entusiasmo
di Amilcare s'era convertito in un rabbioso furore, e la fede di Lucilio in  una
stoica rassegnazione. Se da cotali sentimenti possono esser ispirate  parole  di
conforto, anche un disperato qualunque potrebbe dar lezioni  di  pazienza  e  di
moderazione prima di appendersi al laccio. In quel tempo la  colonna  di  Ettore
Carafa fu spedita nella  Puglia  per  opporsi  alla  ribellione  che  guadagnava
terreno anche in quella provincia. Io partii dopo aver baciato gli  amici  e  la
Pisana, forse per l'ultima volta. La  presenza  di  costei  a  Napoli  era  nota
soltanto a Lucilio; Giulio la sospettava, ma non osava parlarne; Amilcare  aveva
ben altro a che pensare! Non vedeva che Ruffo, Sciarpa, Mammone, e non li vedeva
coll'immaginazione senza strangolarli almeno col desiderio. Quanto alla  Pisana,
fu quello il primo bacio che ebbe e sofferse da me dopo l'incontro di  Velletri;
voleva serbarsi fredda e contegnosa, ma quando le nostre labbra si toccarono, né
l'uno né l'altra potemmo raffrenare l'impeto del cuore, ed io mi raddrizzai  che
tremava tutto, ed ella col viso irrigato di lagrime. - Ci rivedremo! - mi  gridò
ella da lunge con uno sguardo  pieno  di  fede.  Io  risposi  con  un  gesto  di
rassegnazione e m'allontanai. La Principessa  di  Santacroce,  mandandomi  pochi
giorni dopo alcune lettere capitate per me a Napoli, mi scrisse d'un accesso  di
disperazione che avea menato la Pisana in fil di morte  dopo  la  mia  partenza.
Ella si straziava furiosamente il petto e le guance, gridando che senza  il  mio
perdono le era impossibile di vivere. La buona Principessa non diceva di  sapere
a qual perdono alludesse la poveretta, e cosí circondava di delicatezza  le  sue
cure  pietose;  ma  io  non  volli  essere  meno  generoso  di  lei,  e  scrissi
direttamente alla Pisana ch'io le chiedeva scusa del contegno freddo  e  superbo
tenuto secolei negli ultimi mesi;  che  ben  sapeva  che  quell'affettazione  di
fraterna amicizia equivaleva ad un insulto, e che appunto per questo reputandomi
colpevole le offriva per  riparazione  tutto  l'amor  mio,  piú  affettuoso  piú
veemente piú devoto che mai. Cosí sperava ridonarle la pace dell'animo  anche  a
prezzo del mio decoro; di piú, fingendo ignorare quanto  la  Principessa  m'avea
scritto, dava alle mie proteste tutto il colore della spontaneità. Seppi  dappoi
che quel mio atto generoso avea dato alla Pisana grandissimo conforto, e che  si
lodava sempre di me alla sua protettrice dichiarandomi l'uomo  piú  magnanimo  e
amabile che si potesse trovare al mondo. Se la Principessa mi avesse  raccontato
tante belle cose per cooperare alla nostra piena riconciliazione, ancora  io  le
sarei riconoscente di un grandissimo  beneficio.  Il  soverchio  sussiego  nuoce
verso le donne; e nel trattar con esse bisogna che le virtù stesse acquistino la
morbidezza della loro indole. Si può essere fin troppo buoni senza  sospetto  di
viltà o di paura. Intanto io era giunto in Puglia abbastanza contento  di  me  e
delle cose mie. Da Venezia mi davano ottime novelle; l'Aglaura era  incinta,  il
vecchio Apostulos tornato felicemente, mio padre in  viaggio  per  ritornare;  e
quanto a quest'ultimo, che pel momento mi premeva piú di tutti, mi si lasciavano
travedere delle grandi cose, delle grandi speranze! Io ci almanaccava dietro  da
un pezzo; ma solamente da qualche mezza parola di Lucilio  avea  potuto  ricavar
qualche lume. Pareva come, che, costituiti in repubblica  da  Milano  a  Napoli,
volessero o fosse intendimento d'alcuni di dare il ben servito  ai  Francesi,  e
fare da sé. Perciò si voleva indurre la Porta Ottomana a collegarsi colla Russia
e a dare addosso a  Francia  nel  Mediterraneo;  da  potenze  cosí  lontane  non
temevasi una diretta preponderanza; si intendeva anzi di  opporle  all'influenza
di governi piú vicini ed opportuni a stabili signorie. Da ciò venni in  sospetto
che mio padre si fosse affaccendato in fin allora in quell'alleanza  turco-russa
che avea fatto maravigliare il mondo per la sua prestezza e mostruosità. Ma cosa
volessero cavarne, allora appunto che  i  Francesi  sembravano  disposti  piú  a
ritirarsi che a spadroneggiare, io non lo vedeva davvero. Pareva al  mio  debole
giudizio che la nostra indipendenza appoggiata ai Turchi  ed  ai  Russi  avrebbe
fatto pessima prova della propria solidità. Ma v'avea gente allora  che  portava
piú oltre assai le proprie illusioni e lo si comprenderà dalla  morte  miserrima
del generale Lahoz nelle vicinanze d'Ancona. Intanto  fermiamoci  in  Puglia  ad
osservare i vascelli turco-russi che dai conquistati porti di Zante e  di  Corfù
si volgono alle spiagge tumultuanti della Puglia. Ettore Carafa non  era  l'uomo
delle mezze misure. Giunto dinanzi  al  suo  feudo  di  Andria  i  cui  abitanti
parteggiavano per Ruffo, diede loro assai buone parole di moderazione e di pace.
Non ascoltato sfoderò la spada, ordinò l'assalto; e un assalto del Carafa voleva
dire una vittoria. Invulnerabile come Achille, egli precedeva sempre la legione;
valente soldato colla spada, col moschetto,  sul  cannone,  si  mescolava  colle
abitudini del soldato, e riprendeva a suo grado le maniere di capitano senza dar
nell'occhio per soverchia burbanza.  Ultimamente  alla  sua  guerriera  rozzezza
erasi mescolata un'ombra di mestizia: i subalterni ne lo amavano piucchemai,  io
l'ammirava e lo compiangeva. Ma egli era di  quegli  uomini  che  nella  propria
religione politica trovano un conforto un  usbergo  contro  qualunque  sventura;
tempre di fuoco e d'acciaio che confondono Dio colla patria la patria con Dio  e
non sanno pensare a se stessi quando il pubblico bene e la difesa della  libertà
cingono loro la spada degli eroi. Aveva nella sua  grandezza  qualche  parte  di
barbaro; non credeva, per esempio, di onorare la valentia dei nemici  perdonando
e salvando; giudicava gli altri da sé, e passava a fil di spada i vinti in  quei
casi stessi nei quali egli avrebbe voluto essere ucciso piuttosto che serbato in
vita a ornamento del trionfo. Questo splendore antico di feroce virtù e il  nome
suo potente e famoso in quei  paesi  gli  fecero  soggetta  in  breve  tutta  la
provincia. Egli aveva podestà dittatoria; e se il governo di Napoli avesse avuto
altri cinque condottieri simili a lui, né Ruffo né  Mammone  avrebbero  rotto  a
Marigliano sulle porte di Napoli le ultime reliquie dei repubblicani partenopei.
Invece il governo si ingelosí stoltamente di Carafa. Era  ben  quello  tempo  da
gelosie! - Come se Roma avesse temuto della dittatura di Fabio, quando  solo  ei
restava a difenderla contro il vincitore cartaginese! - Si disse che  la  Puglia
era pacificata, che si voleva  adoperare  efficacemente  la  sua  attività,  che
nell'Abruzzo, ove  lo  si  mandava,  avrebbe  avuto  campo  di  rendere  servizi
importantissimi. Ettore aveva l'ingenuità e la docilità d'un vero  repubblicano;
non vide che gatta ci covava sotto  queste  melate  parole  e  s'avviò  per  gli
Abruzzi. Soltanto, siccome gli sembrava che la provincia senza di lui non  fosse
per rimanere tanto fedele e sicura  quanto  si  figuravano,  cosí  di  suo  capo
dispose che io e Francesco Martelli, altro ufficiale della legione, ci  stessimo
nelle Puglie alla testa d'una piccola guerricciola di bosco  che  poteva  giovar
molto contro le insorgenze  parziali  che  avrebbero  ripullulato.  Egli  fidava
grandemente in me; e non senza lagrime di riconoscenza e d'orgoglio io  noto  la
fiducia riposta in me da un tant'uomo. Che  l'anima  sua  generosa  e  benedetta
abbia in altro luogo quel premio  che  quaggiù  non  ottenne  benché  lo  avesse
valorosamente meritato! Martelli era un giovane napoletano che aveva abbandonato
moglie figliuoli ed affari per brandir la spada a difesa della libertà.  Ambidue
usciti nei campi dal foro, ambidue d'indole mite ma risoluta ci eravamo  stretti
di fervidissima amicizia fin dalla fazione di Velletri. Egli era  stato  uno  di
quei miei compagni che avean scommesso contro di me per la visita del  convento;
tantoché, siccome quella scommessa era stata d'una cena e d'una festa  di  ballo
per tutti gli ufficiali della legione, e nessuno avea pensato a pagarla, egli si
tolse il ghiribizzo di saldare il debito di tutti in Puglia quando a  tutt'altro
si pensava che a cene ed a feste di ballo. Tornando coi nostri cinquanta  uomini
dallo aver inseguito alcuni briganti che sotto colore di realisti eran venuti  a
saccheggiare una cascina poco lontana, trovai  una  sera  il  castello  d'Andria
illuminato, e la gran  sala  disposta  pel  ballo  e  dentrovi  buona  copia  di
forosette e di donzelle dei paesi vicini le quali  per  darsi  spasso  una  sera
vollero ben dimenticarsi che  noi  eravamo  repubblicani  scomunicati.  Martelli
m'additò la festa con gesto principesco, dicendo: - Eccoti pagato del debito  di
Velletri, e avrai anche la cena!... Non  si  sa  cosa  possa  succedere;  domani
potremmo esser morti, e ho voluto mettermi in regola. - Morti  o  non  morti  il
domani, quella sera si ballò di lena, sicché molte volte mi tornò  in  mente  il
mio buon Friuli, e quelle famose sagre di San Paolo, di Cordovado, di  Rivignano
ove si balla, si balla tanto da perderne i  sentimenti  e  le  scarpe.  Anche  i
Napoletani e i Pugliesi saltano peraltro la loro parte; e dal sommo  all'imo  di
questa povera Italia non siamo per  tanto  diversi  gli  uni  dagli  altri  come
vorrebbero darci a credere. Anzi delle somiglianze ve n'hanno  di  cosí  strambe
che non si riscontrano in veruna altra nazione. Per  esempio  un  contadino  del
Friuli ha tutta l'avarizia, tutta la cocciutaggine d'un mercante genovese, e  un
gondolier veneziano tutto l'atticismo d'un bellimbusto fiorentino, e un  sensale
veronese e un barone di Napoli si somigliano nelle  spacconate,  come  un  birro
modenese e un prete romano nella furberia. Ufficiali piemontesi e  letterati  di
Milano hanno l'eguale sussiego, l'ugual fare di padronanza: acquaioli di Caserta
e dottori bolognesi gareggiano nell'eloquenza, briganti calabresi e  bersaglieri
d'Aosta nel valore, lazzaroni napoletani e pescatori chiozzotti nella pazienza e
nella superstizione. Le donne poi, oh le donne si somigliano tutte dall'Alpi  al
Lilibeo! Sono tagliate sul vero  stampo  della  donna  donna,  non  della  donna
automa, della donna aritmetica, e della donna uomo che si usano  in  Francia  in
Inghilterra in Germania. Checché ne dicano i signori stranieri, dove  vengono  i
loro poeti a cercare ad accattare un sorsellino d'amore?... Qui da noi:  proprio
da noi,  perché  solamente  in  Italia  vivono  donne  che  sanno  inspirarlo  e
mantenerlo. E se cianciano dei nostri bordelli, e noi  rispondiamo  loro...  No,
non rispondiamo nulla; perché le grandi prostituzioni non iscusano  le  piccole.
L'incarico affidato a me ed a Martelli non era dei piú agevoli.  Avevamo  a  che
fare con popolazioni ignoranti e selvatiche; con baroni duri e ringhiosi  peggio
che robespierrini se repubblicani, e armati della  piú  maledetta  ipocrisia  se
partitanti di Ruffo; con curati incolti e  credenzoni  che  mi  ricordavano  con
qualche aggiunta peggiorativa il cappellano di Fratta; con nemici astuti  e  per
nulla schifiltosi nella scelta dei mezzi da  nuocere.  Tuttavia  l'autorità  del
Carafa nel cui nome si comandava, l'esempio di Trani saccheggiata ed incesa  per
la sua pervicacia nella ribellione, imponevano qualche riguardo alla gente, e il
governo della Repubblica era  tacitamente  tollerato  sopra  tutta  la  costiera
dell'Adriatico. Nei paesi meno barbari e dove qualche  coltura  era  disseminata
nel ceto mezzano si  aveva  paura  delle  bande  del  Cardinale,  e  piucché  le
intemperanze dei Francesi, gli eccidi di Gravina e d'Altamura comandati da Ruffo
tenevano gli animi in sospetto. A quei giorni  mi  potei  convincere  di  quello
strano fenomeno morale che nel Regno di Napoli concentra una massima  civiltà  e
una squisita educazione in pochissimi uomini per  lo  piú  di  nobili  o  egregi
casati, e lascia  poltrire  le  plebi  nell'abbiezione  dell'ignoranza  e  delle
superstizioni.  Difetto  di  governo   assoluto   geloso   e   quasi   dispotico
all'orientale, che tenendo lontane da sé le menti meglio illuminate, le  avventa
senza freno alle piú strambe teorie, e per riparo poi deve appoggiarsi allo zelo
fanatico  e  accarezzato  d'un  volgo  vizioso.  Canonici  come   monsignor   di
Sant'Andrea e patrizi filosofi come il Frumier se ne contavano a centinaia nelle
cittadelle delle Puglie,  e  di  costoro  s'afforzava  massimamente  il  partito
repubblicano. Ma allora era tempo di menar le mani, e i briganti  la  spuntavano
sui dotti. Capita un giorno la notizia che le flotte alleate di Russia e Turchia
sono in vista della Puglia. Non avevamo  precise  istruzioni  intorno  a  questo
caso, ma il Carafa ci aveva prevenuti di non sgomentirci, perché di poche  forze
poteva operarsi  lo  sbarco.  Infatti,  anziché  intimorirci,  noi  accorsimo  a
Bisceglie dove pareva tendessero a concentrarsi gli  sparsi  bastimenti,  e  là,
giovandoci del grande spirito degli abitanti  e  d'alcuni  cannoni  trovati  nel
castello, si guardò alla meglio d'armare la spiaggia. Avevamo sparso la voce che
quelle flotte erano cariche di masnade albanesi e saracine  pronte  a  vomitarsi
sul Regno per metterlo tutto a ferro e fuoco. Siccome l'odio contro  la  nazione
turchesca è tradizionale in quelle regioni, la gente  ci  spalleggiava  a  tutto
potere. Cosí s'era tutto disposto a ribattere validamente  un  primo  attacco  a
Bisceglie quando capitò a spron battuto  un  messo  da  Molfetta,  sette  miglia
lontano, che recava d'uno sbarco che si tentava colà, e della grande  opera  che
il popolo faceva per impedirlo. Vedendo le cose di  Bisceglie  bene  accomodate,
giudicammo opportuno io e Martelli  di  volger  colà  dove  nessuna  provvidenza
s'avea presa contro il nemico. Disperavamo di difenderci a  lungo,  ma  volevamo
perdere piuttosto la vita che la certezza di aver fatto quanto da noi si  poteva
per la salute della Repubblica. Lasciammo  buona  parte  della  nostra  gente  a
Bisceglie; e noi, insellati  quanti  cavalli  si  potevano  trovare,  corsimo  a
briglia sciolta sulla strada. Non so cosa m'avessi quel  giorno,  ma  mi  sentia
venir meno la costanza e le forze: forse era certezza che la  nostra  causa  era
perduta e che non si combatteva omai per altro che per l'onore. Ai presentimenti
si vuol credere molto a rilento. Martelli piú  disperato  ma  piú  forte  di  me
veniami riconfortando  a  non  disanimarmi,  a  non  ismetter  nulla  di  quella
sicurezza miracolosa che finallora ci avea servito meglio d'un esercito a serbar
in fede il contado della  Puglia.  Rispondeva  che  si  desse  pace,  che  avrei
combattuto fino all'estremo, ma che una stanchezza invincibile mi rammolliva  di
dentro mio malgrado. Circa un miglio fuori da Molfetta cominciammo  a  veder  il
fumo ed ad udir lo scoppio delle archibugiate. Si vedeva anche in  mare  qualche
legno che cercava avvicinarsi al porto, ma le onde un po' grosse lo  impedivano.
Entrati in paese trovammo lo scompiglio al colmo. Turchi e Albanesi sbarcati con
qualche scialuppa s'eran messi a saccheggiare a massacrare  con  tanta  crudeltà
che pareva essere tornati ai tempi di Bajazette. Io imprecai  furiosamente  alla
barbarie di coloro che davano cosí bella parte d'Italia in preda a quei  mostri,
e mi avventai con Martelli e coi compagni a una  tremenda  vendetta.  Quanti  ne
incontrammo tanti furono tagliati a pezzi dalle  nostre  spade,  calpestati  dai
cavalli, e fatti a brani dalla folla disperata che ci si ingrossava alle spalle.
Sulla piazza ove si era già ritratto il maggior numero per riguadagnare le lance
e buttarsi in mare, la carneficina fu piú  lunga  e  piú  terribile.  Fu  quella
l'unica volta ch'io godetti barbaramente di veder  il  sangue  dei  miei  simili
spillar dalle vene, e i  loro  corpi  sanguinosi  ammucchiarsi  boccheggianti  e
ferirsi l'un l'altro nelle convulsioni dell'agonia. La folla urlava frenetica  e
si saziava di sangue; già taluni piú arditi  s'erano  impadroniti  delle  lance;
ogni scampo era intercetto; l'ultimo di quegli sciagurati venne ad infilzarsi da
sé nella mia baionetta; e subito cento mani rabbiose mi  contesero  lo  schifoso
trofeo. Molfetta era salva. I nipoti di Solimano avevano imparato a  loro  spese
che non si può senza danno andar nella storia a ritroso: e che Maometto  II  (ne
chieggo scusa alla cronologia) è da essi tanto remoto  quanto  Traiano  da  noi.
Intanto le strade e la piazza riboccavano di gente che correva alla  chiesa  per
ringraziar la Madonna di quella vittoria.  Unitamente  alla  Beata  Vergine  del
Presidio, i nomi dei capitani Altoviti e Martelli per migliaia di  bocche  erano
levati a cielo. Avendo noi lasciato ordine a Bisceglie che ci si desse premuroso
annunzio d'ogni novità, e non vedendosi alcuno e volendo d'altra parte concedere
qualche riposo alla nostra gente, che oltremodo ne bisognava, ci  ritrassimo  ad
un'osteria per ivi posare fino all'alba. Anche si  temeva  che  acchetandosi  il
mare nuovi sbarchi di Turchi o di Russi venissero a trar  vendetta  delle  lance
perdute; gli è vero che soffiava uno scilocco indiavolato e che da  questo  lato
le precauzioni erano piucché altro soverchie. Ciononostante i  nostri  accolsero
con molto giubilo la proposta di questa brevissima  tregua,  e  i  tripudii  coi
marinai e colle donne del paese ebbero ben presto cancellato dalla loro  memoria
le fatiche e i pericoli della giornata. Martelli era uscito sul molo con qualche
persona autorevole del luogo a speculare  il  tempo  e  a  disporre  le  scolte;
soletto melanconico io me ne stava nell'androne dell'osteria, coi  gomiti  sulla
tavola, e gli occhi fissi nella lucernetta d'una Madonna di Loreto addossata  al
muro dirimpetto, o svagati a guardar  nel  cortile  le  tarantelle  improvvisate
sotto il fogliame d'una vite dai  nostri  soldati.  L'allegra  vita  meridionale
riprendeva come niente fosse le sue gioconde abitudini a  venti  passi  da  quel
piazzale ove il sangue correva ancora, e venti o trenta cadaveri aspettavano  la
sepoltura. Le mie idee non erano certamente né  animose  né  liete  ad  onta  di
quell'effimero trionfo; maladiceva fra me a quel  perverso  istinto  che  ci  fa
vivere piú che nelle contentezze di oggi nelle paure dell'indomani, e  invidiava
la sprovvedutezza di coloro che ballavano e trincavano senza darsi  un  pensiero
al mondo di quello ch'era e di ciò che sarebbe stato. Cosí passava da melanconia
a melanconia quando un vecchio prete curvo  e  quasi  cencioso  mi  si  avvicinò
timidamente, domandando se  io  fossi  il  capitano  Altoviti.  Risposi  un  po'
ruvidamente di sí, perché una discreta esperienza non mi faceva molto tenero del
clero napoletano, ed anco quelli erano tempi che il collare  non  era  presso  i
repubblicani una gran raccomandazione. Il vecchio non si scompose per nulla alle
mie aspre parole, e facendomisi piú vicino mi disse d'aver cose  importantissime
a comunicarmi, e che  persona  legata  a  me  con  vincoli  sacri  di  parentela
desiderava vedermi prima di morire. Io balzai in piedi perché la mente mi  corse
subito a qualche stranezze della Pisana, ed era tanto disposto a veder ogni dove
disgrazie, che ricorreva subito alle piú funeste  ed  irreparabili.  Temeva  che
avendomi saputo solo nelle Puglie le fosse saltato il ticchio di raggiungermi  e
che avvolta in quel massacro di Molfetta  ne  fosse  rimasta  vittima.  Afferrai
adunque il braccio del prete e lo trascinai fuori dell'osteria avvertendolo  con
ciò che se avesse voluto corbellarmi non era io l'uomo disposto  a  sopportarlo.
Quando fummo nel buio d'una contrada solitaria: - Signor capitano - mi bisbigliò
sommessamente  nell'orecchio  il  prete.  -  È  suo  padre...  Non  lo   lasciai
proseguire. - Mio padre! - sclamai. - Cosa dice ella di  mio  padre?...  -  L'ho
salvato oggi di mezzo a quei furibondi che ci hanno assaltato oggi  -  soggiunse
il prete. - È un vecchio piccolo e sparuto che udendo  proclamare  il  nome  del
signor capitano ha  cominciato  a  dibattersi  sul  letto  ov'io  l'aveva  fatto
adagiare, e mi ha chiesto conto di lei, e dice e sacramenta ch'egli è suo padre,
e che non morrà contento se non giunge prima a vederlo. - Mio padre! - seguitava
io a balbettare quasi fuori di me; correndo piú che non potessero tenermi dietro
le gambe del vecchio abate. Potete immaginarvi se in quel momento poteva  metter
ordine ai pensieri che mi stravolgevano la mente! Dopo alcuni minuti  di  quella
corsa precipitosa giunsimo  ad  una  porta  fra  due  colonne  che  pareva  d'un
monastero; e il vecchio prete apertala e impugnato un lampioncino che ardeva nel
vestibolo, mi guidò  fino  ad  una  stanza  donde  usciva  un  lamento  come  di
moribondo. Io entrai convulso dalla meraviglia e dal  dolore  e  caddi  con  uno
strido sul  letto  dove  mio  padre  mortalmente  ferito  alla  gola  combatteva
ostinatamente colla morte. - Padre mio! padre mio - io mormorava. Non  aveva  né
fiato né mente a pronunciare altra parola. Quel colpo era cosí imprevisto,  cosí
terribile che mi toglieva affatto quell'ultimo fiato di coraggio rimastomi. Egli
tentò allora sollevarsi sul gomito e vi riuscí infatti per cercarsi  colla  mano
non so che cosa intorno alla cintura. Coll'aiuto del prete si cavò di sotto alle
larghe brache albanesi una lunga borsa di pelle, dicendomi con molta fatica  che
quello era quanto poteva darmi d'ogni sua sostanza e  che  del  resto  chiedessi
ragione al Gran Visir... Era per soggiungere un nome quando gli uscí dalla  gola
un largo fiotto di sangue e ricadde sui guanciali respirando  affannosamente.  -
Oh per pietà, padre mio! - gli veniva dicendo. - Pensate a vivere! non  vogliate
morire!... Abbandonarmi ora  che  tutti  mi  hanno  abbandonato!...  -  Carlo  -
soggiunse mio padre, e questa volta con voce fioca ma chiara perché quell'ultimo
sbocco di sangue pareva  lo  avesse  sollevato  di  molto  -  Carlo,  nessuno  è
abbandonato quaggiù finché vivono persone che  non  si  devono  abbandonare.  Tu
perdi tuo padre, ma hai una sorella, ignota finora a te... - Oh no, padre! io la
conosco, io la amo da un pezzo. È l'Aglaura!... - Ah la conosci e la ami? Meglio
cosí! Muoio piú contento di quello che avrei creduto... Senti,  figlio  mio,  un
ultimo ricordo voglio lasciarti come preziosa  eredità...  Mai,  mai,  mai,  per
cambiar d'uomini o di tempi  non  appoggiare  la  speranza  d'una  causa  nobile
generosa imperitura, all'interesse all'avarizia altrui. Io, vedi, in questa idea
falsa inetta triviale consumai le mie ricchezze l'ingegno la vita e  ne  ebbi...
ne ebbi la certezza di aver fallato e di non poter rimediare... Oh, i Turchi,  i
Turchi!... Ma non biasimarmi, figliuol mio, perché  io  avessi  riposto  le  mie
speranze nei Turchi. Per noi  son  tutti  gli  stessi...  Credilo!...  Io  aveva
creduto di adoperar i Turchi a cacciare i Francesi, e cosí dopo saremmo  rimasti
noi... Sciocco  che  era!...  Sciocco!...  Oggi,  oggi  vidi  cosa  cercavano  i
Turchi!... Ciò dicendo egli pareva in preda d'un  violento  delirio;  invano  io
m'ingegnava di calmarlo e di sostenerlo in tal modo che meno dolorasse della sua
ferita; egli seguitava a smaniare, a gridare che tutti erano Turchi. Il prete mi
avvisava che appunto nell'opporsi alle violenze che  gli  Ottomani  commettevano
appena sbarcati sui miseri abitanti, mio  padre  avea  toccato  quella  tremenda
ferita di scimitarra alla gola, e che rimasto sul lastrico quelli del  paese  lo
avrebbero certamente fatto a brani se egli non lo  trafugava  pietosamente  dopo
essere stato testimonio di tutta la scena da un finestrello  del  campanile.  Io
ringraziai con uno sguardo il vecchio prete di  tanta  cristiana  pietà,  e  gli
dissi anche sottovoce se  non  ci  fossero  nel  paese  medici  o  chirurghi  da
ricorrere all'opera loro per qualche tentativo. Il moribondo si scosse a  queste
parole e accennò col capo di no... - No, no - soggiunse indi a  poco  tirando  a
stento un filo di voce. - Ricordati dei Turchi!...  Cosa  servono  i  medici?...
Ricordati di Venezia... e se puoi rivederla grande, signora di sé e del  mare...
cinta da una selva di navi, e da un'aureola di  gloria...  Figlio  mio,  che  il
cielo ti benedica!... E spirò... Una tal morte non era  di  quelle  che  rendono
attoniti e quasi codardi nel riprender la vita: essa era un esempio un  conforto
un invito. Chiusi con reverenza gli  occhi  ancora  animati  di  mio  padre;  lo
spirito suo forte ed operoso lasciava quasi un'impronta di  attività  su  quelle
spoglie già morte. Lo baciai in fronte; e non so se pregassi ma  le  mie  labbra
mormorarono qualche parola che non ho poscia ripetuto  mai  piú.  Sarei  restato
lunga  pezza  in  compagnia  dell'estinto  e  dei  suoi  ultimi   pensieri   che
formicolavano in me, se la sua stessa immagine non mi avesse richiamato  a  quei
sublimi doveri dei quali  egli  era  stato  il  martire  ignoto,  inconsapevole,
errante qualche volta, fermo e incrollabile sempre. "Padre mio"  pensai  "tu  mi
saprai grado che io mi privi del mesto conforto di accompagnarti alla tua ultima
dimora per attendere alla salute omai disperata  della  Repubblica  nostra!...".
Parve perfino che sulle sue labbra arieggiasse un sorriso di assentimento. Io mi
precipitai fuori della stanza col cuore che mi andava a  pezzi.  A  fatica  feci
accettare alcune doble al vecchio prete pei funerali e per suffragar l'anima del
defunto: indi tornai all'osteria che già il Martelli avea  disposto  la  piccola
schiera per la partenza; ed erano  molto  inquieti  di  non  vedermi  comparire.
L'alba scherzava sul mare spargendo  dalle  bianche  sue  dita  tutti  i  colori
dell'iride; ma lo scilocco della sera prima aveva  lasciato  le  onde  piuttosto
sconvolte, e all'orizzonte non si vedeva piú né  un  albero  solo  di  nave.  La
campana della chiesa chiamava  i  pescatori  alla  prima  messa,  le  femminette
cianciavano sulla porta  dei  sofferti  spaventi:  e  qualche  mozzo  mattiniero
inalberando la vela cantava il ritornello della sua barcarola. Nulla,  nulla  in
quella terra in quel cielo in quella  vita  s'accordava  compassionevolmente  al
lutto d'un figlio che avea chiuso gli occhi al cadavere di suo padre!... -  Dove
sei stato?... cos'hai? - mi chiese Martelli piegandosi sulla  criniera  del  suo
cavallo. Io balzai d'un salto sul mio, e  cacciandogli  gli  sproni  nel  ventre
rovinai fuori a galoppo senza rispondergli: per un pezzo ci seguirono gli evviva
degli abitanti usciti a salutare la nostra partenza. Si galoppò a quel  modo  un
buon paio di miglia, quando il rimbombo vicino del cannone ci fermò di botto  in
ascolto. Ognuno voleva dire la sua; in quel mentre uno dei nostri, che ci veniva
incontro a precipizio senz'armi e senza cappello sopra un cavallo sfiancato  dal
gran correre, ci tolse la sospensione. Una barca parlamentare  era  entrata  nel
porto di Bisceglie. Gli abitanti vedendo che non erano Turchi, ma sibbene  Russi
capitanati dal cavalier Micheroux, generale di S.M. Ferdinando,  che  chiedevano
sbarcare solamente per cacciar dal Regno i Francesi rimasti a Capua ed a  Gaeta,
s'erano messi a gridar evviva, e a gettar i fucili e a sventolare i  fazzoletti.
Millequattrocento Russi erano sbarcati e s'avviavano alla volta  di  Foggia  per
cogliervi la gente all'epoca della fiera e spaventare ad un punto solo tutta  la
provincia. Io e Martelli ci consultammo con uno sguardo.  Prevenire  i  Russi  a
Foggia, e metter la città in istato di difesa, era il piano piú ovvio.  Volgemmo
dunque sulla destra per Ruvo ed Andria; ma all'entrata di quest'ultimo  castello
fummo circondati da una folla armata e tumultuante. Era  una  masnada  di  Ruffo
mandata a ricongiungersi coi Russi di Micheroux. Avvistici troppo tardi di esser
caduti in quel vespaio, ebbimo un bel menar le mani per cavarcela.  Il  Martelli
con diciassette altri giunsero a fuggire; dieci  rimasero  morti;  otto,  fra  i
quali io, tutti piú o meno feriti fummo salvati per adornamento alle  forche  in
qualche giorno festivo. Cosí diceva, al paragrafo  dei  prigionieri,  il  Codice
militare di Ruffo. La masnada di cui fui prigioniero era capitanata dal  celebre
Mammone, l'uomo piú brutto e bestiale ch'io mi abbia mai  conosciuto,  il  quale
portava  molte  medagliette  sul  cappello  come  la  buon'anima  di  Luigi  XI.
Trascinato in coda ad essa a piedi nudi, ed esposto a continui vituperii,  vagai
a lungo per quella Puglia stessa dove aveva regnato cinque o  sei  giorni  prima
poco men che padrone. Vi confesso che quella vita mi garbava pochissimo,  e  che
siccome i ferri alle mani  ed  ai  piedi  m'impedivano  di  fuggire,  null'altra
speranza coltivava che quella di essere alla bell'e prima  impiccato.  Una  sera
peraltro,  mentre  giungevamo  al  feudo  di  Andria,  sede  della  mia  passata
grandezza, un pastore mi si avvicinò come per  farmi  insulto  ad  usanza  degli
altri, e dopo avermi detto a voce alta le piú sfacciate indegnità  che  fantasia
napoletana possa immaginare, aggiunse tanto sommessamente che appena lo  intesi:
- Coraggio, padroncino! in castello si pensa a voi! - Mi parve allora  ravvisare
in esso uno dei piú fidati coloni  del  Carafa;  e  poi  levando  gli  occhi  al
castello mi stupii infatti di vederne le  finestre  illuminate,  sendoché  pochi
giorni prima io l'avea lasciato chiuso e deserto e il  suo  padrone  si  trovava
ancora negli Abruzzi, anzi lo dicevano assediato dagli insorti nella  cittadella
di Pescara. Tuttavia non avendo che fare di meglio, per quella sera mi  diedi  a
sperare. Quando fummo verso la mezzanotte uno di quei briganti venne a togliermi
dal pagliaio ove m'avevano confitto, e fatto vedere alle guardie un  ordine  del
capitano, mi sciolse i ferri dalle mani e dai piedi e mi disse di seguirlo lungo
la via. Giunti ad una casipola lontana da Andria un trar di mano, mi consegnò ad
un uomo piuttosto piccolo e misteriosamente intabarrato che gli rispose asciutto
un - Va bene! - e il brigante tornò per dov'era venuto, ed io  rimasi  con  quel
nuovo padrone. Era cosí in bilico se di rimanere in fatti o di darmela a  gambe,
quando un'altra persona che mi parve tosto una donna sbucò di  dietro  a  quello
del tabarro, e mi si precipitò addosso coi piú caldi abbracciamenti  del  mondo.
Non conobbi ma sentii la Pisana. Ma quello del tabarro non fu contento di questa
scena e ci tenne a mente che non v'avea tempo da perdere. Io  conobbi  anche  la
voce di questo, e mormorai ancor piú commosso che stupito: - Lucilio! - Zitto! -
soggiunse egli, menandoci ad un canto oscuro dietro la casa,  ove  tre  generosi
corridori mordevano il freno. Ci fece montar in sella, e benché  da  dodici  ore
non avessi toccato cibo né bevanda non mi accorsi di aver varcato otto leghe  in
due ore. Le strade erano orribili, la notte scura quanto mai, la Pisana, stretta
col suo cavallo in mezzo ai  nostri,  pendeva  ora  a  destra  ora  a  sinistra,
impedita di cadere solo dalle nostre spalle che se la rimandavano a vicenda. Era
la prima volta che montava a cavallo; e di tratto in tratto  aveva  coraggio  di
ridere!... - Mi direte poi con quale stregheria giungeste ad ottener  tanto  dal
signor Mammone! - le chiese Lucilio che a quanto pare in  certa  parte  di  quel
mistero ne sapeva quanto me. - Capperi! - rispose la  Pisana  parlando  come  lo
permetteva lo strabalzar continuo del cavallo. - Egli mi  disse  che  son  molto
bella; io gli promisi tutto quello che mi domandò;  anzi  giurai  per  tutte  le
medaglie che porta sul cappello. Alle due dopo mezzanotte  doveva  andarsene  ad
Andria a ricevere il prezzo della sua generosità! Ah! Ah! - (Rideva la sfacciata
del suo generoso spergiuro). - Ah per questo vi stava tanto a cuore  di  partire
prima delle due! Ora capisco! Allora toccò a me chiedere schiarimenti  su  tutto
il resto: e seppi come, avviati a raggiungermi la Pisana e Lucilio  con  potenti
commendatizie del Carafa, avessero incontrato qualche fuggiasco della banda  del
Martelli che li avvertí della mia prigionia. Udendo che Mammone  dovea  giungere
l'indomane ad Andria, ve lo aveano preceduto; e là la  Pisana  avea  copiato  in
parte dalla storia di Giuditta l'astuzia che mi avea salvo dalla forca.  Non  so
tra Mammone ed Oloferne chi  fu  peggiormente  canzonato.  Sul  far  del  giorno
giunsimo alle prime vedette del campo repubblicano di Schipani,  ove  Giulio  ed
Amilcare furono  sorpresi  e  contenti  di  udire  i  pericoli  da  me  corsi  e
fortunatamente superati. Le feste, i baci, le gioie, le  congratulazioni  furono
infinite: ma in mezzo a tutto ciò essi recavano in fronte una profonda  mestizia
per la prossima e inevitabile rovina della Repubblica: io celava un altro benché
diverso lutto nel cuore per la tragica morte di mio padre. Il  primo  col  quale
m'apersi fu Lucilio. Egli m'ascoltò piú addolorato che sorpreso, e - Pur  troppo
- soggiunse - dovea finire cosí! Anch'io  fui  partecipe  di  cotali  errori!...
anch'io piango ora tanto tempo,  tanti  ingegni,  tante  vite  cosí  inutilmente
sprecate!... Attendi al mio presagio!... Presto  un  simile  caso  funesterà  le
vicinanze d'Ancona!... Non capii a che volesse alludere ma feci tesoro di quelle
parole e mi ricordai alcun mese dopo quando Lahoz, generale cisalpino, disertore
dai Francesi per la fede rotta da essi alla libertà della sua patria, si volgeva
ai sollevati Romagnuoli e agli Austriaci per  scrollare  l'ultimo  baluardo  che
rimanesse alla Repubblica  in  quella  parte  d'Italia,  la  fortezza  d'Ancona.
Ammazzato dai suoi fratelli stessi  che  militavano  fedeli  sotto  il  francese
Monnier, pronunciava prima di morire grandi parole di devozione  all'Italia;  ma
moriva  in  campo  non  italiano,  fra  braccia  non  italiane.  E  cosí  cadeva
miseramente l'anima di quella società secreta che  diramandosi  da  Bologna  per
tutta Italia si proponeva di tutelare  l'indipendenza  fra  l'antagonismo  delle
varie potenze che se la disputavano. Vollero appoggiarsi a questi  per  debellar
quelli; bisognava appoggiarsi a nessuno e saper morire. Giunsimo a Napoli  colla
colonna di Schipani ributtata sulla capitale dalle  turbe  sempre  crescenti  di
Ruffo. La confusione il  tumulto  la  paura  erano  agli  estremi.  Tuttavia  si
disposero presidii nelle torri nei castelli, e se non vi  fu  guerra  vi  furono
morti da eroi. Francesco Martelli fu posto a difesa  della  Torre  di  Vigliena.
Deliberato a morire piuttosto che cedere, mi scrisse una lettera raccomandandomi
la moglie ed i figli. Giulio Del Ponte piucchemai languente del suo male e quasi
sfinito affatto chiese per grazia  di  avere  comune  col  Martelli  quel  posto
pericoloso e l'ottenne. Quando partí da Napoli per quella trista destinazione la
Pisana gli posò un bacio sulle labbra, il  bacio  dell'ultimo  commiato.  Giulio
sorrise mestamente e volse a me un lungo e  rassegnato  sguardo  d'invidia.  Due
giorni dopo i comandanti della Torre di Vigliena stretti da Ruffo, da  reali,  e
da briganti, e impotenti omai a resistere appiccavano  il  fuoco  alla  mina,  e
saltavano in aria con un buon centinaio di nemici. I loro cadaveri ricadevano in
brandelli in frantumi sul suolo fumigante  che  l'eco  della  montagna  ripeteva
ancora il loro ultimo grido: - Viva la libertà! Viva l'Italia! Nell'anarchia  di
quegli ultimi giorni perdemmo di vista Amilcare, e solo qualche mese dopo  seppi
ch'egli avea finito a vivere da vero brigante nelle montagne del  Sannio.  Sorte
non insolita delle indoli forti e impetuose in  tempi  e  in  governi  contrari!
Entravano pochi giorni dopo in Napoli, per viltà schifosa di Megeant, comandante
francese di Sant'Elmo, Russi, Inglesi, e malandrini di Ruffo. Nelson d'un tratto
annullava la capitolazione dicendo che un re non capitola coi  sudditi  ribelli:
allora cominciarono gli assassinii, i martirii. Fu un  vero  ciclo  eroico;  una
tragedia che non ha altro paragone  nella  storia  che  l'eccidio  della  scuola
pitagorica nell'istessa regione  della  Magna  Grecia.  Mario  Pagano,  Vincenzo
Russo, Cirillo! tre luminari delle scienze italiane; semplici  grandi  come  gli
antichi. Morirono da forti sul patibolo. Eleonora Fonseca! una donna. Bevette il
caffè prima d'ascender la scala della forca e recitò il verso Forsan  haec  olim
meminisse juvabit. Federici maresciallo, Caracciolo ammiraglio! il  fiore  della
nobiltà napoletana, il decoro delle lettere delle arti delle scienze  in  quella
nobile parte d'Italia, erano condannati a perire per  mano  del  boia...  E  gli
Inglesi e Nelson tiravano i piedi! Restava Ettore Carafa.  -  Avea  difeso  fino
all'ultimo la fortezza di Pescara. Consegnato dallo stesso governo  repubblicano
di Napoli ai reali, sotto sicurtà della capitolazione fu condotto a  Napoli.  Lo
condannarono a morte. Il giorno ch'egli salí sul  patibolo,  io,  Lucilio  e  la
Pisana uscimmo  furtivi  da  un  bastimento  portoghese  sul  quale  ci  eravamo
rifugiati, ed ebbimo la fortuna di poterlo salutare. Egli guardò la Pisana,  poi
me e Lucilio, poi la Pisana ancora: e sorrise!...  Oh  benedetta  questa  debole
umanità che con un solo di quei sorrisi può redimersi da un secolo di abiezione!
Io e la Pisana chinammo gli occhi piangendo;  Lucilio  lo  guardò  morire.  Egli
volle esser decapitato supino per guardar il filo  della  mannaia,  e  forse  il
cielo, e forse quell'unica donna  ch'egli  aveva  amato  infelicemente  come  la
patria. Nulla omai piú ci tratteneva  a  Napoli.  Raccomandata  la  vedova  e  i
figliuoli del Martelli alla Principessa Santacroce, e  fornitili  d'una  piccola
pensione sul peculio lasciatomi da mio padre, salpammo per Genova,  unica  rocca
oggimai dell'italiana  libertà.  Per  la  gloriosa  caduta  di  Napoli,  per  la
capitolazione di Ancona, per le vittorie di Suwarow  e  di  Kray  in  Lombardia,
tutto il resto d'Italia al principio del 1800 stava in poter dei confederati.


CAPITOLO DECIMOTTAVO

Il milleottocento. Sventura d'un gatto, e mia felicità amorosa durante l'assedio
di Genova. L'amore mi abbandona e sono visitato dall'ambizione. Ma  guarisco  in
breve dalla peste burocratica, e quando Napoleone si  fa  Imperatore  e  Re,  io
pianto l'Intendenza di Bologna, e torno di buon grado miserabile.

Il nostro secolo (perdonate; dico nostro a nome di tutti voi;  quanto  a  me  ho
qualche diritto anche sul passato, e quello d'adesso non lo tengo  già  piú  che
colle punte delle dita), il nostro secolo o il vostro adunque che sia, è  uscito
nel mondo in una maniera molto bizzarra: volle farla tenere ai fratelli  che  lo
avevano preceduto, e mostrare che per chi cerca novità ad ogni costo,  la  messe
non manca mai. Infatti egli capovolse tutti i sistemi, tutti i ragionamenti  che
affaticavano i cervelli da cinquant'anni prima; e cogli stessi uomini si è messo
in capo  di  raggiungere  scopi  perfettamente  contrari.  Abbondarono  poi  gli
empirici che incamuffato di sillogismi il paradosso lo cambiarono in un perfetto
accordo dialettico: ma io che non sono un giocoliero resterò  sempre  della  mia
opinione. Si fa, e si disfà; e disfacendo non si finisce per nulla ciò che s'era
fatto: tuttaltro! Or dunque all'anno che  finiva  coi  martirii  repubblicani  e
colle vittorie dei confederati, ne successe un altro  che  distrusse  a  Marengo
l'effetto di queste e di quelli, e recò in mano di Bonaparte reduce  dall'Egitto
le sorti d'Europa. Il Primo Console di trent'anni non era  piú  il  generale  di
ventisei che dava udienza radendosi la barba: egli andava già maturando fra sé e
sé i paragrafi del cerimoniale di corte. Vi chieggo scusa  di  intromettervi  in
quest'ultima  parte  della  mia  storia  col  fastoso  esordio  delle  ambizioni
consolari, che finiranno poi al solito nel meschino racconto di poche  e  comuni
fanciullaggini. Ma la luce mi attira, e bisogna che la guardi  dovessi  perderne
gli occhi. Vi sarete anche accorti che aveva  gran  fretta  di  uscire  da  quel
doloroso viluppo delle mie vicende napoletane. Tutte le volte  che  mi  fermo  a
contemplare quelle tetre ma generose memorie l'anima mia spicca un tal volo  che
quasi le traversa tutte d'un balzo. Mi paiono racchiuse  in  un  giorno,  in  un
attimo solo, tanto sono diverse dalle altre che le precedettero e le  seguirono.
Non credo quasi possibile che chi ha sonnecchiato dieci anni della sua  vita  in
una cucina, aspettandosi ogni tanto gridate e scappellotti e guardando  grattare
il formaggio, abbia poi vissuto un anno pieno di tante e cosí sublimi e svariate
sensazioni. Sarei disposto  a  figurarmi  che  quello  fu  il  sogno  d'un  anno
ristretto in un minuto. Ad ogni modo Napoli è rimasto  per  me  un  certo  paese
magico e misterioso dove le vicende del mondo non camminano  ma  galoppano,  non
s'ingranano ma s'accavalcano, e dove il sole sfrutta in  un  giorno  quello  che
nelle altre regioni tarda un mese a fiorire.  A  voler  narrare  senza  date  la
storia della Repubblica Partenopea ognuno, credo, immaginerebbe che comprendesse
il giro di molti anni; e furono pochi mesi! Gli uomini empiono il  tempo,  e  le
grandi opere lo allargano. Il secolo in cui nacque Dante è piú lungo di tutti  i
quattrocento anni che corsero poi fino alla guerra della successione di  Spagna.
Certo, fra tutte le repubblichette che pullularono in Italia  al  fecondo  alito
della Francese, Cispadana, Cisalpina, Ligure,  Anconitana,  Romana,  Partenopea,
quest'ultima fu la piú splendida per virtù e fatti  repubblicani.  La  Cisalpina
portò maggiori effetti  per  la  lunghezza  della  durata,  la  stabilità  degli
ordinamenti, e fors'anco la maggiore o piú equabile coltura dei popoli;  ma  chi
direbbe a leggerla che la storia della Cisalpina abbraccia  spazio  maggiore  di
tempo che quella della Partenopea? Sarà fors'anco che la virtù e  la  storia  si
compiacciono meglio delle grandi e fragorose  catastrofi.  Intanto  noi  eravamo
giunti a Genova; io e la Pisana assai maltrattati dal mal di mare, e guariti per
sua bontà da ogn'altra preoccupazione, Lucilio sempre  piú  cupo  e  meditabondo
come chi comincia ma non vuol disperare. Le forze a lui gli crescevano secondo i
bisogni; e proprio aveva un'anima romana, fatta per comandare anche dagli infimi
posti, dono piuttosto comune e fatale agli  Italiani  che  cagiona  molte  delle
nostre sventure e qualcheduna delle glorie piú luttuose. Le società secrete sono
un rifugio all'attività sdegnosa  e  al  talento  imperativo  di  coloro  che  o
sdegnano o non possono adoperarsi nell'angustissimo spazio concesso dai governi.
Da un pezzo  m'era  accorto  che  Lucilio  apparteneva,  forse  fin  dagli  anni
d'Università, a qualche setta filosofica d'illuminati o di franchi muratori;  ma
poi mano a mano m'avvidi che le tendenze filosofiche piegavano al politico, e le
combriccole della cessata Cisalpina, e le  ultime  vicende  d'Ancona  ne  davano
indizio. Lucilio teneva dietro con  grandissima  premura  a  cotali  novelle,  e
alcune anche  talvolta  ne  prediceva,  con  maravigliosa  aggiustatezza.  Fosse
avvisato antecedentemente, o sincero profeta nol so: ma propendo a  quest'ultima
opinione, perché né egli usava discorrere di quanto gli veniva comunicato, né  a
que' tempi nella nostra condizione era molto agevole ricever lettere scritte  di
fresco. A Genova poi non entravano né fresche né salate: e le ultime notizie  di
Venezia le ebbimo da un prigioniero tedesco  ch'era  stato  d'alloggio  un  mese
prima presso il marito della Pisana,  forse  nelle  camere  stesse  del  tenente
Minato. Questo signor tenente fu una delle piú spiacevoli novità che  trovai  in
Genova: la seconda fu la fame: perché il giorno dopo al nostro  arrivo  cominciò
la flotta inglese lo strettissimo blocco, e in poche settimane ci  ridusse  alla
caccia dei gatti. Aveva peraltro un gran conforto e  questo  era  la  protezione
offertami in ogni incontro dall'amico Alessandro mugnaio,  trovato  pur  esso  a
Genova e non piú capitano, ma colonnello. Chi viveva a quel tempo andava innanzi
presto. Il colonnello Giorgi non aveva  ventisett'anni,  sopravanzava  del  capo
tutti gli uomini del suo reggimento, e comandava a destra e a  sinistra  con  un
vero vocione da mugnaio. Non sapeva cosa volesse dire paura, e si  scaldava  nel
furor della mischia senza mai dimenticarsi delle schiere che doveva  condurre  e
governare: questi erano i suoi meriti.  Scriveva  passabilmente  e  con  qualche
intoppo d'ortografia, non conosceva che da un mese  circa  e  soltanto  di  nome
Vauban e Federico II; ecco i difetti. Pare che si desse maggior peso ai  meriti,
se in due anni e mezzo era diventato colonnello; ma il  merito  maggiore  fu  la
carneficina di tutto il suo battaglione che, come dissimo,  lo  lasciò  capitano
per necessità. Un giorno  lo  incontrai  che  già  i  magazzini  cominciavano  a
impoverire, e chi aveva derrate a tenerle per  sé.  Aveva  la  Pisana  piuttosto
malata e non m'era ancor venuto fatto di trovarle una libbra di carne pel brodo.
- Ohé, Carlino - mi disse - come la va? - Vedi! - gli risposi - son vivo ancora,
ma temo per domani o per dopodimani. La Pisana si sente male, e andiamo di  male
in peggio. - Che? la Contessina è malata?... Corpo del diavolo!... Vuoi  che  ti
procuri otto o nove medici di reggimento?... I reggimenti non ci  sono  piú,  ma
sopravvivono i medici; segno del loro gran  sapere.  -  Grazie,  grazie!  ho  il
dottor Vianello che mi basta. - Sicuro che deve  bastare;  ma  diceva  cosí  per
consulto per curiosità! - No, no, il male è già conosciuto; dipende  da  difetto
d'aria e di nutrimento. - Non ha altro? Fidati di me! domani son di guardia alla
Polcevera e là le farò respirare tanta aria in un'ora quanta a Fratta non se  ne
respira in un giorno. - Sí, eh, alla Polcevera, con quei finocchietti che vi  va
regalando Melas! - Ah! è vero, mi dimenticava che è  una  contessina  e  che  le
bombe la possono infastidire. Allora non c'è rimedio; menala a spasso sui tetti.
- Se avesse la volontà e la forza occorrente, farebbero anche i  tetti,  ma  una
malaticcia che si nutre di brodo  di  lattuga  non  può  certo  avere  una  gran
vigoria. - Pover'a lei! Peraltro io posso trarti d'impiccio!...  Vedi  ch'io  mi
conservo abbastanza grasso e tondo, mi pare! - Davvero sembri un cappellano  del
Duomo di Portogruaro. - Eh! altro che cappellani! Di' mo che a cantar in coro si
guadagnano muscoli di questa sorte! - e tendeva e gonfiava un  braccio  che  per
poco non faceva scoppiare le cuciture. - Io, vedi, mi son mantenuto cosí  grazie
alla mia previdenza. Ho ammazzato i miei due cavalli, li ho fatti salare e me li
pappo a quattro libbre il giorno. Dopo sarà quel che sarà. Ma se vuoi  entrar  a
parte della cuccagna... - Figurati! per me  volentieri,  e  mi  rimorderebbe  di
privar te; ma per la Pisana il cavallo salato non le conviene. - Allora un altro
ripiego; la mia padrona di casa è tirata come una genovese e  non  mangia  altro
che erbe cotte, tagliate da un suo cortiletto che onora col nome di orto. Ma già
credo che anche prima dell'assedio non mangiasse meglio, e la vita non  è  altro
per lei che un lunghissimo  blocco.  T'immagineresti  ch'essa  tien  sempre  sui
ginocchi un vecchio gatto d'Angora cosí grasso cosí  morbido  che  parrebbe  una
golaggine a qualunque milanese? - Vada pel gatto d'Angora! - io esclamai. - Alla
Pisana non le piacciono molto i gatti vivi, ch'io mi sappia; ma  le  si  faranno
piacer morti. E tutto starà a darle ad intendere che è brodo di pollo e  non  di
gatto. Mi procurerò una manata di piume e guarderò di spanderla per la casa... -
Se posso io per le piuma... - Grazie, Alessandro; mi sovviene che in  camera  ne
ho pieni i cuscini del letto. Piuttosto, come farai ad  impadronirti  del  gatto
d'in sui ginocchi della signora?... Lí il bravo colonnello  tirò  il  mento  nel
collare e se lo sfregolava che pareva lui un gattone in ruzzo di farsi bello.  -
Sí, perdiana, come farai, s'ella è tanto invaghita del suo gatto? - Carlino,  ho
avuto la disgrazia di piacerle piú del gatto; e mi perseguita sempre che  è  una
disperazione.  -  È  dunque  brutta  se  ti  dà  tanto  noia?  -  Brutta,  caro;
spaventevole! Come farebbe un'avara ad esser bella? Mi par di vedere la  signora
Sandracca con qualche dente di meno. Io diedi un guizzo di  raccapriccio.  -  Ma
sta' pur cheto! non te la farò vedere: terrò tutto il gusto per me e in riguardo
tuo e della Contessina rischierei anche di peggio. Ma spero di  cavarmela  collo
spavento. Tutte le mattine ella usa bussare alla mia porta e  domandarmi  se  ho
dormito bene, girando il chiavistello come per  entrare:  ma  io  fingo  di  non
m'accorger mai di questa voglietta e alla  sera  ci  metto  di  mezzo  tanto  di
catenaccio. Piuttosto mi dimenticherei di cavarmi gli stivali  che  di  prendere
una tal misura di sicurezza. Domani invece me ne dimenticherò a bella posta:  la
signora entrerà, e nel frattempo la mia ordinanza farà la festa al gatto. -  Ben
immaginato,  perbacco:  diventerai  generale  presto  con  queste   maravigliose
attitudini. Grazie adunque, e ricordati che aspetto dal tuo gatto la  salute  di
mia cugina. Il giorno dopo Alessandro venne a  trovarmi  nella  mia  stanza  che
sonava mezzogiorno: aveva la cera negra e il viso imbronciato. - Che fu  mai?  -
gli dissi io correndogli incontro. - Arpia maledetta! - sclamò il colonnello.  -
Te lo saresti immaginato tu, che venisse  a  picchiare  al  mio  uscio  col  suo
stupido gatto sotto  il  braccio?...  -  E  cosí?  -  E  cosí  dovetti  sorbirmi
mezz'oretta di conversazione, che ne ho ancora sconvolte tutte le  interiora,  e
scommetto che son bianco di bile come quando stava nel mulino!... Oh la  maniera
di dividerla da quel gatto indiavolato, dimmela tu se la sai immaginare!  -  Per
esempio, se tu facessi per abbracciarla? Il povero Alessandro fece un atto  come
se gli avessi dato a fiutare una carogna. - Temo che sia l'unica - egli  rispose
- ma se poi il gatto non se ne va, se tarda ad andarsene?... - Oh diavolo! ad un
capitano par tuo mancano mezzi da  tirar  in  lungo  una  battaglia?  Alessandro
assunse a queste mie parole una cera grave  e  dignitosa;  non  ne  scerneva  il
perché, quando fui come rischiarato da un lampo. - Scusa sai  -  aggiunsi  -  ho
adoperato il vocabolo capitano nella sua  significazione  etimologica  di  capo;
come si chiamano capitani Giulio Cesare, Annibale, Alessandro, Federico II!  Non
mi dimentico mai il grado che occupi ora! A questa dichiarazione e piú  al  nome
di Federico II la faccia del colonnello si rischiarò. - Benone  -  riprese  egli
contentissimo, accarezzandosi le  guance.  -  Io  farò  cosí  un  qualche  vezzo
all'arpia... ma adesso che ci penso, cosa dirà la cameriera? -  Che  c'entra  in
tuttociò la cameriera? - C'entra, c'entra... oh bella! c'entra perché  ci  entro
io. - È giovine e bella la cameriera? - Fresca, perdio, e salda come  un  pomino
non ben maturo: con certe imbottiture intorno che ricordano le nostre paesane, e
una bocchina che a Genova non se ne vedono di compagne. - Allora capisco  perché
c'entri tu, e perché c'entra lei. Son tutte conseguenze  di  conseguenze!...  La
cameriera potresti mandarla fuori a comperarti, che  so  io,  della  polvere  di
Tripoli per gli speroni. - No, no, amico, mi tirerei addosso  le  gelosie  della
figliuola della portinaia! - Ma caro il mio Alessandro, tu sei  il  cucco  delle
donne...? Bisogna proprio dire che pel sesso  debole  certi  stimoli  siano  piú
urgenti di quelli della fame! - Sarà un accidente, Carlo!... Ma  del  resto  fra
queste cere da assedio il mio colorito la mia corporatura devono far  colpo  per
forza!... E poi tra Genovesi e Friulani per forza bisogna  intendersi  a  motti;
abbiamo due dialetti cosí incomprensibili che a dimandar pane  si  piglierebbero
sassate. - Buona la ragione! ma guai  se  non  avessi  il  tuo  cavallo  salato!
Peraltro alla cameriera potresti consegnare qualche cosa da  stirare!...  -  Sí,
sí, vedo io, capisco io, lascia fare a me!... Domani avrai il tuo gatto, da  far
il brodo per quindici giorni. -  Ti  raccomando,  sai!  Perché  oggi  ho  potuto
trovare un mezzo piccione e l'ho pagato un occhio della testa, ma  domani  siamo
proprio sprovvisti affatto. Il valoroso colonnello mi lasciò  con  un  gesto  di
promessa immanchevole; e pensò forse lungo la strada  al  modo  di  non  esporsi
troppo coi vezzi che avrebbe dovuto fare alla padrona di casa per  isnidarle  il
gatto dal seno. Il giorno  appresso  non  erano  le  dieci  che  l'ordinanza  di
Alessandro mi portò in casa la famosa fiera: infatti  il  peso  non  era  minore
della fama, e non mi ricordava mai d'aver veduto neppur nella cucina  di  Fratta
un gatto cosí smisurato. - E cosa n'è del tuo padrone? - chiesi con fare svagato
all'ordinanza. - L'ho lasciato nella sua stanza  che  strepitava  con  tutte  le
donne della casa - mi rispose il soldato. - Ma egli è avvezzo a tener  testa  ai
Russi, né avrà paura di quattro gonnelle. Un  quarto  d'ora  dopo  io  avea  già
consegnato la bestia alla cuoca che ne cavasse la maggior quantità possibile  di
brodo, intorbidandogli il sapore gattesco con  sedani  e  cipolline,  quando  mi
capitò dinanzi  Alessandro  tutto  sconvolto  ed  arruffato  che  pareva  Oreste
perseguitato dalle Furie, e rappresentato dal Salvini. Appena entrato in  camera
si buttò sopra una poltrona strepitando e bofonchiando che piuttosto che dar  la
caccia a un altro gatto sarebbe uscito dai castelli per conquistar un bue contro
i Tedeschi, i Russi e quanti altri ne volessero venire. Io aveva piú  voglia  di
ridere che di piangere; ma mi trattenni per non fargli dispiacere. - Senti  cosa
mi capita! - diss'egli dopo aver buttato via il cappello dispettosamente.  -  Io
avea pensato di mandar la portinaia fuori di casa, e la cameriera in cerca della
portinaia; sicché in quel frattempo la padrona saliva da me,  io  le  faceva  la
burletta del gatto, e l'ordinanza aveva libero il campo per  accomodarlo  a  suo
modo; intanto portinaia  o  cameriera  tornavano  e  mi  toglievano  d'impiccio.
Invece, cosa succede?... La portinaia e la cameriera s'incontrano per le scale e
cominciano a litigare fra loro; io, dopo aver buttato a terra il gatto, con  una
specie di abbracciamento alla signora padrona, non so piú andare né  innanzi  né
indietro: quel maledetto gatto mi  si  ostina  fra  i  piedi  e  la  vecchia  al
collo!... Pesta di qua pesta di  là  riesco  finalmente  a  metter  in  fuga  la
bestia... Ma in quella appunto, cameriera e  portinaia  entrano  accapigliandosi
fra loro e veggono me alle prese colla signora. Urla una e strilla  quell'altra,
credo che diedero la sveglia a tutto il vicinato. La signora era rossa  piú  per
la stizza che per la vergogna; io piú pallido di  spavento  che  di  stizza:  ma
quella diversione mi rese i colori. Cominciai a gridare che non era nulla e  che
stava provando alla signora la tracolla della sciabola. La  cameriera  si  buttò
addirittura addosso alla padrona minacciandola che se non le pagava i salari  le
avrebbe cavato gli occhi, e che non era quella la maniera di  mantenere  le  sue
promesse che il servizio dell'ufficial francese sarebbesi lasciato tutto a  lei.
Intanto si udivano da basso gli ultimi miagolamenti del  povero  gatto  sgozzato
dalla mia ordinanza colle forbici della padrona che  furono  poi  trovate  tutte
insanguinate. Anzi bisognerà che gli tiri  le  orecchie  a  quello  sciocco  per
questa castroneria! Figurati che parapiglia! La signora, che  m'aveva  lasciato,
voleva tornarmi ad abbracciare, la cameriera mi teneva pel collo, e la portinaia
per l'abito; ciascuna voleva la sua  parte,  ma  avevano  fatto  i  conti  senza
l'oste. Stufo delle loro moine io diedi una tal vociata che  restarono  tutte  e
tre quasi istupidite e mi lasciarono libero di movermi.  Io  infilai  la  porta,
presi il cappello nell'anticamera, ed eccomi  qui  di  volo:  ma  giuraddio,  se
avessi sostenuto in carré una carica di cosacchi non  sbufferei  di  piú!...  Io
consolai il giovine colonnello delle sue disgrazie;  e  lo  menai  poscia  dalla
Pisana a ricevere i ringraziamenti dovutigli; ma ebbimo cura di cambiar il gatto
in un pollo d'India, e  perciò  non  risaltarono  tanto  i  pericoli  corsi  dal
paladino per conquistarlo. Ad  ogni  modo,  grazie  alla  furberia  della  cuoca
piemontese il brodo ottenne l'aggradimento della padrona; lo  si  disse  un  po'
insipido per esser di pollo d'India, ma siccome anche i polli soffrivano per  la
carestia, non ci badò tanto pel sottile. Sono storielle un po' insulse  dopo  la
grande epopea delle mie imprese di Napoli; ma ad ogni stagione i suoi frutti;  e
quella reclusione di  Genova  accennava  sul  principio  di  volgere  in  buffo.
Soltanto Lucilio non rimetteva nulla della  sua  consueta  gravità;  e  succiava
seriamente le sue radici di cicoria come le fossero polpette  di  selvaggina,  o
salsicciotti di pollo. Un'altra volta il mugnaio colonnello mi venne  a  trovare
meno rosso e giovialone del solito. Io ne dava la colpa al  cavallo  salato  che
cominciava a mancare, ma mi rispose d'aver ben altro pel capo  e  che  m'avrebbe
condotto in tal luogo dove forse anch'io sarei partito con tutt'altra voglia che
di  berteggiare.  Per  verità  io  non  trovava  piú   allettamento   a   simili
improvvisate; ma per quanto ne stringessi Alessandro, egli nulla volle  dirmi  e
rispondeva sempre che avrei veduto all'indomane. Mi venne infatti a prendere  il
giorno appresso per condurmi allo Spedal militare. Là trovammo il  povero  Bruto
Provedoni che cominciava ad alzarsi allora da una  lunga  malattia;  ma  si  era
alzato con una gamba di legno. Immaginatevi la brutta sorpresa! Anche Alessandro
avea ignorato un pezzo la disgrazia dell'amico e  non  avendone  novella  da  un
secolo la credeva forse ancor peggiore; quando cercando per gli spedali d'un suo
soldato che non si trovava piú,  e  lo  dicevano  infermo,  avea  dato  il  naso
nell'amico. Tuttavia di noi tre lo stesso Bruto era  il  meno  costernato.  Egli
rideva, cantava e si provava a camminare e a ballare sulla sua  gamba  di  legno
cogli attucci piú grotteschi del mondo. Diceva soltanto che si  pentiva  di  non
aver tardato a perder la gamba fin nel tempo dell'assedio,  che  allora  avrebbe
potuto mangiarsela con molto piacere.  Mi  consolai  d'averlo  trovato,  ché  in
qualche maniera poteva essergli utile. Infatti tutta la sua  convalescenza  egli
la passò in casa nostra colla Pisana e con Lucilio,  e  schivò  le  noie  e  gli
incommodi degli spedali militari. A Genova rividi anche Ugo  Foscolo,  ufficiale
della Legione lombarda, e fu  l'ultima  volta  che  stetti  con  lui  sul  piede
dell'antica dimestichezza. Egli stava già sul tirato come un uomo di  genio,  si
ritraeva dall'amicizia, massime degli uomini, per ottener meglio  l'ammirazione;
e scriveva odi alle sue amiche con tutto il classicismo d'Anacreonte e d'Orazio.
Questo serva a provare che non si era sempre occupati a morire di  fame,  e  che
anche il vitto di cicoria né spegne l'estro poetico né attuta  affatto  il  buon
umore della gioventù. A lungo andare peraltro l'estro poetico  svaporava,  e  il
buon umore andava appassendo. Una  fava  costò  perfino  tre  soldi,  e  quattro
franchi un'oncia di pane: a  non  voler  mangiare  che  pane  e  fave  c'era  da
rovinarsi in una settimana. Io non aveva in  tutto  me  un  ventimila  lire  tra
denari sonanti e cedole austriache; ma di queste non  era  quello  il  luogo  da
ottenere il pagamento e cosí tutto l'aver mio si  riduceva  a  un  centinaio  di
doble. Volendo curare la salute vacillante della Pisana  e  alimentarla  d'altro
che di zucchero candito e di sorci ci andava comodamente una dobla al giorno. Da
ultimo fui ben fortunato di ricorrere al cavallo salato di Alessandro. Ma  dàlli
e dàlli, non ne rimasero che le ossa; e  allora  ci  convenne  far  come  tutti;
vivere di pesce marcio, di fieno  bollito  quando  si  trovava  gramigna,  e  di
zuccherini, de' quali era in  Genova  grande  abbondanza,  perché  formavano  un
importantissimo ramo di commercio. S'aggiunsero febbri e  petecchie  per  ultimo
conforto; ma appunto in casa nostra cominciò a rifiorir  la  salute,  quando  si
corrompeva di fuori. I zuccherini conferivano alla  Pisana;  ella  racquistò  le
belle rose delle guance e il suo umorino  strano  e  bisbetico  che  durante  la
malattia s'era fatto cosí buono ed uguale da farmi temere qualche grosso  guaio.
Allora mi racconsolai, giudicando che nulla v'avea di guasto, e  che  i  visceri
erano quelli di prima: anzi la consolazione andò tant'oltre che cominciai  anche
a  spaventarmene.  Alle  volte  saltava  su  per  mordere  come  una  vipera;  e
s'ingrugnava e aveva il coraggio di tener il broncio un'intera giornata.  Voleva
poi tutto a modo suo e dal silenzio ostinato passava in men ch'io  non  dico  ad
una garrulità quasi favolosa. Cosí ella ebbe il vanto di  cancellare  dalla  mia
memoria tutti quegli anni vissuti frammezzo  e  di  ricondurmi  alle  tempestose
fanciullaggini di Fratta. Davvero che a  chiuder  gli  occhi  avrei  creduto  di
essere non già a Genova quasi veterano d'una guerra lunga e accanita, ma in riva
alle fosse delle nostre praterie a bucar chiocciole e a  lustrar  sassolini.  Mi
sentiva imbambolire come un bisnonno; e sí che non era  ancora  padre  né  aveva
premura di diventarlo. Questo era per esempio un punto sempre controverso tra me
e lei: ch'ella avrebbe voluto un bambino ad ogni costo, ed  io,  per  quanto  mi
scaldassi a dimostrarle che nella nostra  posizione,  in  quel  luogo,  in  quei
tempi, un figliuolo sarebbe stato il  peggiore  degli  imbrogli,  dovevo  sempre
metter le pive nel sacco. Altrimenti pel gran sussurro mi  sarebbe  crollato  il
soffitto sul capo. Cominciarono i soliti dissapori, gli  alterchi,  le  gelosie:
tutto per quel benedetto bambino; eppur vi giuro che se la Provvidenza non ce lo
mandava, io non ce ne aveva né colpa  né  rimorso.  Finallora  io  m'era  sempre
congratulato colla  Pisana  che  non  aveva  mai  sospettato  di  me,  e  queste
congratulazioni, se volete, erano intinte un pochino  d'ironia,  perché  la  sua
sicurezza mi pareva originata o da freddezza d'amore o da piena  confidenza  nei
proprii meriti. Ma allora almeno non fui piú in grado di lamentarmi. Non  poteva
arrischiare un'occhiata fuori della finestra, ch'ella non mi allungasse tanto di
grugno. Non me ne diceva la cagione,  ma  me  la  lasciava  travedere.  Rimpetto
dimoravano due crestaie, una  stiratrice,  la  moglie  d'un  arsenalotto  e  una
mammana. Ella mi diceva invaghito di tutta questa marmaglia e non era il miglior
elogio al mio buon gusto; massime quanto alla mammana  ch'era  piú  brutta  d'un
peccato non commesso. Indarno io teneva i miei occhi  a  casa  come  san  Luigi;
faceva per fintaggine, e me lo diceva  con  un  sogghignetto  piú  pestifero  di
qualunque impertinenza. Stufa, diceva ella, di farmi la buona  moglie,  cominciò
ad uscire, a volerne star a zonzo le mezze giornate: e sí che la città non  dava
motivo ad  allegre  passeggiate.  Dappertutto  era  un  puzzo  d'ospedale  o  di
cataletto, e bare si gettavano dalle finestre, e ammalati che si trasportavano a
braccia, e immondizie che si rimescolavano per litigare ai vermi qualche  avanzo
di carogna. Finalmente volle ad ogni costo che la menassi fin sui  castelli  per
far visita a' miei amici ch'erano in fazione. S'io  non  mi  mostrava  di  buona
voglia m'accagionava di paura e quasi di codardia: non  contento  di  far  nulla
voleva anche frodare quelli che facevano, di quel po' di  conforto  che  sarebbe
loro venuto  dalla  compagnia  di  qualche  buon'anima.  Conveniva  adattarsi  e
menarla. Se avesse preteso che la conducessi nel campo trincerato di Otto o  fra
le turbe monferrine raccolte dall'Azzeretto  a  minacciar  piú  che  Genova  gli
scrigni dei Genovesi, scommetto che avrei accondisceso;  tanto  m'aveva  ridotto
grullo e  marito.  Un  giorno  tornavamo  da  una  visita  fatta  al  colonnello
Alessandro nel forte di Quezza, ch'era uno dei piú esposti. Le  bombe  piovevano
sulle casematte mentre noi facevamo un  brindisi  col  Malaga  alla  fortuna  di
Bonaparte  e  alla  costanza  di  Massena.  La  Pisana  baccheggiava  come   una
vivandiera, e in quel momento le avrei dato uno schiaffo; ma si  serbava  sempre
cosí bella cosí bella per quante pazzie e scioccaggini  commettesse,  che  avrei
temuto di guastarla.  Uscendo  dal  forte,  Alessandro  ci  gridava  dietro  che
badassimo ai bei fuochi d'artifizio; infatti le bombe di Otto  descrivevano  per
aria le piú vezzose parabole, e se non ci fosse stato il tonfo della caduta e il
fragore e la rovina dello scoppio, sarebbe stato un onestissimo divertimento. Io
affrettava il passo; e ve lo assicuro, non tanto per  me  quanto  per  veder  la
Pisana fuori di quel gran pericolo; ma ella se ne aveva  a  male,  e  borbottava
della  mia  dappocaggine,  e  mi  faceva  montar  la  stizza  portando  a  cielo
Alessandro, e le sue belle maniere soldatesche, e i suoi frizzi e le sue  baiate
che non erano poi d'un gusto molto raffinato. Ma la Pisana aveva la passione dei
tipi; e certo le sarebbe spiaciuto un lazzerone senza cenci e senza  maccheroni,
come un colonnello mugnaio senza pizzicotti e senza bestemmie. Io  mi  difendeva
con dignitoso silenzio; ma ella dava a divedere d'ascrivere  questa  ritenutezza
ad invidia. Allora la mia bile sforzò il turacciolo, e diedi  una  gran  vociata
gridando che  se  fossi  stato  donna  io  avrei  voluto  lodarmi  piuttosto  di
Monsignore suo zio che di quel zoticone di colonnello. Lí appiccammo  una  lite;
ché ella mi tacciava d'ingratitudine, ed io lei di soverchia indulgenza  per  le
scurrili maniere di Alessandro. Terminammo a casa  col  sederci  allo  scuro  io
sopra una seggiola ed ella sopra un'altra col viso rivolto alla parete.  Lucilio
rientrando indi a  poco  ci  trovò  addormentati,  segno  evidentissimo  che  la
tempesta aveva appena sfiorato i nostri umori biliosi; e sí che vento di  parole
non n'era mancato. La Pisana per farmi dispetto seguitò lunga pezza a  lodare  e
magnificare i buoni portamenti e il valore stragrande del colonnello Alessandro,
dicendo che per farsi di mugnaio esperto soldato in cosí breve tempo  si  voleva
un ingegno sperticato, e che ella già aveva sempre augurato bene di quel giovine
distinguendolo dagli altri fin da piccino. Io ingelosiva furiosamente di  questi
richiami ad un tempo, nel quale molte volte aveva dovuto soffrire  la  fortunata
rivalità del piccolo Sandro; e vedendo compiacersi lei di cotali memorie, ognuno
si figurerà i sospetti che ne induceva. Cosí, gelosi ambidue, stancheggiati  dal
digiuno, divisi dal resto del mondo, e con un futuro dinanzi che non dava  nulla
da  sperare,  noi  cercavamo  del  nostro  meglio  ogni  via  per   infastidirci
scambievolmente. Ma appena poi il bell'Alessandro mostrava volersi  ingalluzzire
per le lusingherie della Pisana, ecco ch'ella se ne ritraeva quasi spaventata. E
toccava a me farle veduto che certe schifiltosità non istanno bene, che  bisogna
compatire alle educazioni un po' precipitate, e che la trivialità d'un  bravo  e
dabben soldataccio non va guari confusa colle oscene allusioni d'un  bellimbusto
sboccato. Alessandro, in uggia a me mentre era careggiato dalla Pisana, e difeso
invece quando ella lo aspreggiava, non sapeva piú per qual  manico  prendere  il
coltello; e stava nella nostra conversazione come un ballerino sulla corda prima
di essersi bilanciato. Peraltro quando la Pisana si  mostrava  affatto  ingiusta
col povero colonnello io aveva ancora un mezzo di farle cadere la stizza; ed era
il ricordarle quel buon brodo di pollo d'India procuratole da lui solo. Ella che
ne aveva gran  desiderio  da  un  pezzo,  perché  i  zuccherini  cominciavano  a
impastarle la bocca, gli tornava allora dietro coi piú dolci vezzi del mondo;  e
Alessandro s'incatorzoliva tutto per la contentezza. Ma quand'io  gli  accennava
cosí in ombra la ragione di quelle carezze, s'imbrunava  in  faccia  brontolando
che la sua padrona non aveva altri gatti e che buon per lui, giacché al  secondo
rischio Dio sa cosa  poteva  avvenire.  Crescevano  intanto  le  strettezze  dei
viveri, cresceva la pressura degli assedianti e non si combatteva piú per alcuna
speranza di libertà o d'indipendenza. Che voleva  Massena?  Far  di  Genova  una
nuova Pompei popolata di cadaveri invece che di scheletri, o piú che  coll'armi,
colla paura della pestilenza allontanare i nemici dalle mura combattute?  -  Era
un lamento, un furore universale. Egli solo, il generale, aveva le sue idee  per
ritardare ad ogni costo d'un mese d'un giorno la resa della piazza: Bonaparte in
quel mezzo avrebbe raccolto  gli  ultimi  ardori  repubblicani  di  Francia  per
incendiarne una seconda volta l'Europa. A forza  di  disagi,  di  patimenti,  di
costanza e di crudeltà si giunse ai primi di giugno, quando  già  Bonaparte  era
precipitato come un fulmine a turbare le tranquillissime guerricciole  di  Melas
contro Suchet, e s'erano rialzate in Milano le speranze degli Italiani. La  resa
di Genova si chiamò convenzione e non  capitolazione,  gli  ottomila  uomini  di
Massena passarono opportuni  ad  ingrossare  l'armata  del  Varo,  e  dai  nuovi
conquistatori della Liguria non si parlò allora di ristaurare  l'antico  governo
come non se ne parlava punto in Piemonte. Ma era ben tempo quello da  pensare  a
ristaurazioni! Melas a marce forzate raccozzava  i  corpi  sparsi  dell'esercito
sulle rive della Bormida, proprio rimpetto a quel punto dove Napoleone prima  di
partir da Parigi avea messo il dito sulla carta geografica dicendo: - Lo romperò
qui! - E cosí questi s'affrettava a lasciar Milano, a passar il  Po,  a  vincere
col  luogotenente  Lannes  a  Montebello,  a  stringer  il  nemico  intorno   ad
Alessandria. Stranissima posizione di due eserciti ciascuno de' quali  aveva  la
propria patria alle spalle dell'inimico! In questo mezzo gli esulanti di Genova,
secondo i patti della  convenzione,  si  trasportavano  sopra  navi  inglesi  ad
Antibo. Io, la Pisana, Lucilio e Bruto Provedoni eravamo del numero. Bruttissimo
viaggio e che mi privò delle mie ultime doble. A Marsiglia fui contentissimo  di
trovar un usuraio che mi scambiasse al trenta per cento le cedole  austriache  e
siccome era già pervenuta la notizia  della  vittoria  di  Marengo,  ripigliammo
tutti insieme la strada d'Italia. Si sperava assai; si sperava piú  che  non  si
riconquistò, e il riconquisto d'allora fu quasi  miracolo.  Ma  nessuno  avrebbe
immaginato che Melas si disanimasse per una prima sconfitta; e la  continuazione
della guerra  allargava  il  campo  delle  lusinghe  fino  a  far  travedere  in
lontananza la restituzione di Venezia in libertà o  il  suo  aggiungimento  alla
Cisalpina. Invece incontrammo  per  istrada  la  nuova  della  capitolazione  di
Alessandria, per cui Melas si ritraeva dietro al Po ed al Mincio  e  i  Francesi
rioccupavano Piemonte, Lombardia, Liguria, i Ducati, la Toscana,  le  Legazioni.
Il nuovo Papa, eletto a Venezia e da poco  rientrato  in  Roma  fra  le  fastose
accoglienze degli alleati napoletani, credeva aver che fare  a  riconquistar  il
potere dalle mani troppo tenaci degli amici;  invece  dovette  accettarlo  dalla
clemenza dei nemici firmando con Francia un concordato ai 15 luglio. Ma il Primo
Console s'atteggiava allora a protettore dell'ordine della religione della pace;
e Pio VII, il buon Chiaramonti, gli credeva senza  ritegno.  Le  nuove  consulte
provvisorie pullulavano ovunque, con questo nuovo sapore di pace  di  ordine  di
religione. Lucilio e tutti i vecchi  democratici  ne  torcevano  il  grugno;  ma
Bonaparte  blandiva  ubbriacava  il  popolo,  accarezzava  i  potenti,  premiava
largamente i soldati, e contro simili ragioni non v'ha stizza  repubblicana  che
tenga. Io per me, fedele agli  antichi  principii,  sperava  nelle  nuove  cose,
perché non sapea figurarmi che di tanto avessero cangiato  gli  uomini  in  cosí
breve tempo. Per questo non mi andò a verso che Lucilio  rifiutasse  una  carica
cospicua offertagli dal nuovo governo; e per me  accettai  volentieri  un  posto
d'auditore nel Tribunal militare. Indi, siccome si abbisognava di amministratori
galantuomini, mi traslocarono segretario di Finanza a Ferrara. Non  mi  spiaceva
il guadagnarmi onoratamente un pane, perché tra le dodicimila lire lasciate alla
vedova del Martelli sopra una casa bancaria di Napoli, le doble spese a  Genova,
e le cedole negoziate a Marsiglia tutto il peculio  consegnatomi  da  mio  padre
prima di morire se n'era ito in fumo. Il colonnello Giorgi  mi  veniva  dicendo,
anche allora a Milano, che mi raccomandassi a lui e che m'avrebbe  fatto  creare
maggiore del Genio o dell'artiglieria; ma vivendo io colla Pisana,  la  carriera
militare non mi quadrava, e mi  si  attagliavano  meglio  gli  impieghi  civili.
Infatti a Ferrara ci accasammo molto onorevolmente. Bruto Provedoni che ci aveva
accompagnato fin là diretto per Venezia e pel  Friuli  ci  promise  che  avrebbe
scritto amplissime informazioni sopra tutto ciò che ci  premeva  sapere;  e  noi
contenti di esserci  salvati  con  tanta  fortuna  da  quel  turbine  che  aveva
inghiottito gente piú grande ed  accorta  di  noi,  stettimo  ad  aspettare  con
pazienza  che  imprevisti  avvenimenti  finissero  di  mettere  la  nostra  vita
perfettamente in regola. La morte di Sua  Eccellenza  Navagero  che  non  doveva
esser lontana mi stava molto a cuore. Poveretto! Non gli augurava male; ma  dopo
aver vissuto abbastanza felice  oltre  ad  una  settantina  d'anni  poteva  bene
lasciar il posto a un pochetto di felicità per noi. Senza volerlo, credo che  mi
moderassi anch'io secondo le opinioni  piú  discrete  di  quel  secondo  periodo
repubblicano:  quell'amore   spensierato   ubbriaco   delirante,   che   correva
naturalmente fra le passioni ardenti e sfrenate della  rivoluzione,  sconcordava
alquanto colle idee legali sobrie compassate che tornavano a  galla.  Infine  il
concordato colla Santa Sede mi piegava mio malgrado a pensieri di matrimonio. La
Pisana non dava alcun sentore di quello che sperasse o disegnasse fare.  Tornata
alla vita solita era tornata alle solite  disuguaglianze  d'umore,  alla  solita
taciturnità variata da improvvisi eccessi di ciarle e di riso, al  solito  amore
condito di rabbia  di  gelosie  e  di  spensieratezza.  Ascanio  Minato,  ch'era
divenuto capitano e avea lasciato  a  Milano  la  volubile  contessa  rubata  ad
Emilio, ottenne in quel torno d'essere di guarnigione a Ferrara. Anche a  Genova
egli ronzava intorno alla Pisana senza poterla avvicinare per  la  nessuna  cura
che costei si dava di lui nelle diversissime occupazioni di  quel  tempo.  Ma  a
Ferrara non le parve vero di poter variare d'alcun poco  la  noia  domestica,  e
s'adoperò tanto che dovetti consentire  l'ingresso  in  mia  casa  al  brillante
ufficiale. Costui mi spiaceva per tutte le ragioni: per le sue gesta  anteriori,
pel mio amor proprio, per la memoria del povero  Giulio,  per  la  baldanza  del
portamento e del parlare, per l'affettazione francese, buffa e spregevole in  un
còrso. Ma mi guardava bene dal dargli carico di  tutto  ciò  in  presenza  della
Pisana; sapeva che alle volte nulla piú nuoce d'un biasimo inopportuno,  massime
presso le indoli che amano l'assurdo e la contraddizione. Perciò stava  composto
e con bella creanza; come si conviene ad un magistrato ad un padrone di casa; ma
teneva ben aperti gli occhi in testa, e il  signor  Minato  aveva  raramente  il
coraggio di incontrarli coi  suoi.  L'Aglaura  e  Spiro  scrivevano  da  Venezia
notizie piuttosto varie che buone. Avevano avuto un secondo bambino, ma la  loro
madre era morta, e ne vivevano inconsolabili; il commercio loro  prosperava,  ma
la cosa pubblica sembrava in balía piú dei tristi che dei buoni. Il  Venchieredo
padre spadroneggiava senza pudore  ostentando  maniere  linguaggio  e  alterigia
forestiere. Spiro, che avea dovuto presentarglisi per  implorar  la  liberazione
d'un  suo  compatriota  relegato  a  Cattaro  coi  repubblicani   catturati   in
terraferma, avea dovuto convenire che i padroni  stranieri  valgono  meglio  dei
fattori e castaldi nazionali. L'avvocato Ormenta era compagno al Venchieredo  in
quella trista opera, ma s'infamava meglio per occulte ladrerie  che  per  aperte
sopraffazioni. Operavano i consigli del padre Pendola; il quale  ad  onta  della
cacciata da Portogruaro e del discredito  in  cui  era  tenuto  dalla  Curia  di
Venezia avea saputo formarsi un certo partito  nel  clero  meno  educato;  e  da
taluni era tenuto per un martire, da altri per un  birbante.  I  vecchi  Frumier
erano morti ambidue a un mese di distanza l'un dell'altro; dei giovani,  Alfonso
avea rinunciato al matrimonio per ottenere una commenda dell'Ordine di Malta,  e
non si sapeva nemmeno ch'egli esistesse; ma si diceva ch'egli  corteggiasse  una
certa dama Dolfin piú vecchia di lui d'una quindicina d'anni, e stata già moglie
d'un correggitore a Portogruaro. - Io me ne sovvenni, la ricordai alla Pisana, e
ne risimo assieme. Agostino invece avea brigato  un  posto  nel  nuovo  governo,
perché altrimenti non sapeva come vivere, essendosi per la  morte  dei  genitori
perduto ogni loro patrimonio. Lo avevano fatto controllore di  Dogana,  ed  egli
n'era umiliato, il fervido repubblicano.  Peraltro  pensava  di  riguadagnar  la
partita con un buon matrimonio; e c'era qualche  maneggio  con  quella  donzella
Contarini che mio padre avea voluto affibbiarmi col pretesto della  dote  e  del
futuro dogado. La Contessa di Fratta, come zia, batteva l'acciarino: ma piú  che
l'affetto pel nipote la lusingava la speranza d'una ricca  senseria,  perché  la
sua passione pel gioco continuava sempre e il patrimonio della  famiglia  calava
sempre trovandosi omai ridotto ad un centinaio di campi intorno al  castello  di
Fratta, sui quali erano ipotecati i crediti delle  figlie.  La  reverenda  Clara
dopo la morte della madre Redenta era diventata la grande testa del  convento  e
volevano farla badessa. Perciò  meno  che  mai  si  angustiava  per  quello  che
avveniva di brutto o di bello nel secolo. Il conte Rinaldo sgobbava sempre  alla
Ragioneria e nelle biblioteche; Raimondo Venchieredo se  gli  aveva  offerto  di
fargli  ottenere  un  avanzamento  negli   uffici   amministrativi,   ma   aveva
ostinatamente rifiutato; andava via unto e cencioso col suo  ducato  al  giorno,
pelatogli anche questo dalla madre; ma non voleva,  a  mio  credere,  curvar  la
schiena piú che non fosse strettamente necessario. L'Aglaura in  particolare  mi
dava notizie della Doretta che come sapete era  stata  altre  volte  in  qualche
relazione con lei e precisamente le  aveva  recato  per  parte  del  Venchieredo
qualche lettera d'Emilio dopo la partenza di costui per Milano.  La  sciagurata,
abbandonata da Raimondo, aveva perduto ogni  ritegno;  e  di  amante  in  amante
sempre piú basso era caduta nei sitacci piú fetidi e infami di Venezia. -  Vedi,
a chi ti fidavi? - dissi io alla Pisana. Ella m'avea confessato che  la  Doretta
era stata a narrarle il mio amore e la mia fuga coll'Aglaura; nella qual cosa la
stupida bagascia serviva alle mire di Raimondo contro il suo proprio  interesse.
- Che vuoi che ti risponda? - soggiunse la Pisana. - Già sai  che  quando  si  è
stizziti con alcuno meglio ci entrano le parole cattive che le buone.  E  se  ti
confessassi ora che Raimondo stesso mi ti dipingeva come un imbroglione, rimasto
a Venezia piú tardi  degli  altri  e  partito  poi  per  Milano  alla  sfuggita,
solamente per pescar nel torbido, ma in  un  torbido  molto  puzzolente!?  -  Ah
birbante! - sclamai. - Questo ti diceva Raimondo?... L'avrà a fare con me!...  -
Io però non ci credeva molto - riprese la Pisana - o se ci credeva non  glie  ne
venne alcun utile, perché cercava forse di staccarmi da te e non fece altro  che
precipitare la mia venuta a Milano. - Basta, basta!  -  diss'io  che  non  udiva
ricordare molto volentieri questa parte della nostra vita. - Vediamo ora cosa ne
scrive da Cordovado Bruto Provedoni. E lessimo la lettera  tanto  sospirata  del
povero invalido. Io potrei anche, come ho fatto finora, darvene il compendio; ma
la modestia di scrittore non lo permette; qui bisogna cedere  il  campo  ad  uno
migliore di me, e vedrete come un animo generoso  sa  sopportar  la  sciagura  e
guardar dall'alto le cose del mondo senza negar loro né cooperazione  né  pietà.
La lettera l'ho ancora fra le mie cose piú care; nel  reliquario  della  memoria
che principia colla ciocca di capelli fattasi strappare dalla Pisana, e  finisce
colla spada di mio figlio che ieri mi giunse dall'America insieme con  la  tarda
conferma della sua morte. Povero Giulio! era nato per esser grande; e  non  poté
esserlo che nella sventura. Ma torniamo  al  principio  del  secolo,  e  leggete
intanto cosa mi scriveva a Ferrara Bruto Provedoni, tornato da  poco  tempo  nel
suo paesucolo con una gamba di meno, e molti affanni di piú.

"Carlino amatissimo!

"Ho volontà di scrivervi a lungo, perché molte sono le cose che vorrei  dirvi  e
tante le dolorose impressioni che m'ebbi tornando, che mi pare  non  dovrei  mai
finire dal raccontarvele. Ma son poco avvezzo a tener la penna in mano, e spesso
mi bisogna lasciar da una banda i pensieri e limitarmi a quelle  cose  materiali
che posso alla meglio esprimere. Peraltro di voi non ho  soggezione,  e  lascerò
che l'animo parli a suo modo.  Dov'egli  non  si  esprimesse  a  dovere  voi  lo
capirete egualmente, e in ogni caso mi compatirete della mia ignoranza piena  di
buona volontà. "Se vedeste questi paesi, Carlino!... Non li conoscereste piú!...
Dove sono andate le sagre, le riunioni, le feste che  allegravano  di  tanto  in
tanto la nostra giovinezza?... come sono scomparse tante famiglie che  erano  il
decoro  del  territorio,  e   serbavano   incorrotte   le   antiche   tradizioni
dell'ospitalità, della  pazienza  cristiana,  e  della  religione?...  Per  qual
incanto s'è assopita ad un tratto quella vita di chiassi, di gare fra  villaggio
e villaggio, di contese e di risse per le occhiate d'una bella,  per  l'elezione
d'un parroco, o per la preminenza d'un diritto? - In quattro anni sembra che  ne
sian passati cinquanta. Non ci  fu  carestia,  e  si  lagnano  ogni  dove  della
miseria; non ci furono leve di soldati né pestilenze  come  in  Piemonte  ed  in
Francia; e le campagne sono spopolate e le case deserte dei migliori lavoratori.
Chi emigrò in Germania, chi nella Cisalpina;  chi  accorse  per  far  fortuna  a
Venezia e chi sta zitto  per  paura  nei  poderi  piú  nascosti  e  lontani.  La
differenza d'opinioni ha  disfatto  le  famiglie;  i  dolori,  i  patimenti,  le
soperchierie della guerra hanno ucciso i vecchi e invecchiato gli adulti. Non si
celebrano piú matrimoni, e di rado assai il campanello suona pel  battesimo.  Se
si ode la campana si può giurare ch'è per un'agonia o per un morto.  La  vigoria
ch'era rimasta nei nostri compaesani e che s'esercitava o bene o male in piccoli
negozi di casa o di comune, ora s'è sfiancata  del  tutto.  Rimasti  senza  armi
senza danari senza fiducia non pensano piú  che  ciascuno  a  se  stesso  e  pei
bisogni dell'oggi; tutti lavorano dal canto loro ad  assicurarsi  un  covacciolo
contro le insidie del prossimo e le prepotenze dei superiori. L'incertezza delle
sorti pubbliche e delle leggi fa sí che si schivino dal contrattare,  e  che  si
speculi sulla buona fede altrui piuttosto che affidarvisi. "Come sapete,  furono
tolte le antiche giurisdizioni gentilizie; e Venchieredo e Fratta non  sono  piú
altro che villaggi, soggetti anch'essi, come Teglio e Bagnara, alla  Pretura  di
Portogruaro. Cosí si chiama un nuovo  magistrato  stabilito  ad  amministrar  la
giustizia;  ma  per  quanto  sia  utile  e  corrispondente  ai  tempi  una   tal
innovazione, i contadini non ci credono. Io sono troppo ignorante per  avvisarne
le cause; ma essi forse non si aspettano nulla  di  bene  da  coloro  che  colla
guerra hanno fatto finora tanto male. Quello che è certo si è che coloro che  in
questo frattempo  si  sono  ingrassati  furono  i  tristi;  i  dabbene  rimasero
soverchiati, e impoveriti per non aver coraggio  di  fare  il  loro  pro'  delle
sciagure pubbliche. I cattivi conoscono i buoni; sanno di potersene fidare e  li
pelano a man salva. Nei contratti con cui sottoscrivono alla propria rovina essi
non si provvedono né appigli a future  liti  né  scappatoie;  danno  nella  rete
ingenuamente, e sono infilzati senza misericordia. Alcuni fattori  delle  grandi
famiglie, gli usurai, gli accaparratori di grano, i fornitori dei comuni per  le
requisizioni soldatesche, ecco la genia che sorse  nell'abbattimento  di  tutti.
Costoro, villani o servitori pur ieri, hanno piú boria dei  loro  padroni  d'una
volta, e dal freno dell'educazione o dei costumi cavallereschi non  sono  neppur
costretti a dare alla propria tristizia l'apparenza dell'onestà.  Hanno  perduto
ogni scienza del bene e del male; vogliono essere rispettati, ubbiditi,  serviti
perché sono ricchi. Carlino! La rivoluzione per ora ci fa piú male che bene.  Ho
gran  paura  che  avremo  di  qui  a   qualche   anno   superbamente   insediata
un'aristocrazia del denaro, che farà desiderare  quella  della  nascita.  Ma  ho
detto per ora, e non mi ritratto; giacché se gli uomini  hanno  riconosciuto  la
vanità  di  diritto  appoggiati  unicamente  ai  meriti  dei  bisnonni   e   dei
trisarcavoli, piú presto conosceranno la mostruosità d'una potenza  che  non  si
appoggia ad alcun merito né presente né passato, ma  solamente  al  diritto  del
danaro che è tutt'uno con quello della forza. Che chi ha danaro se lo tenga e lo
spenda e ne usi; va bene; ma che con esso si comperi quell'autorità che è dovuta
solamente al sapere e alla virtù,  questa  non  la  potrò  mai  digerire.  È  un
difettaccio barbaro ed immorale del quale deve purgarsi ad  ogni  costo  l'umana
natura. "Oh se vedessi ora il castello di Fratta!...  Le  muraglie  sono  ancora
ritte; la torre s'innalza ancora tra il fogliame dei pioppi  e  dei  salici  che
circondano le fosse; ma nel resto qual desolazione! Non piú gente che va e viene
e cani che abbaiano e cavalli che nitriscono, e il vecchio  Germano  che  lustra
gli schioppi sul ponte, o il signor Cancelliere che esce col Conte, o i  villani
che si schierano facendo  di  cappello  alle  Contessine!  Tutto  è  solitudine,
silenzio, rovina. Il ponte levatoio è caduto fradicio; e hanno empiuto la  fossa
con carri di rottami e di calcinacci tolti via dalla casa  dell'ortolano  che  è
cascata. L'erba cresce pei cortili, le finestre non solo sono  prive  d'imposte,
ma gli stipiti e i davanzali si sgretolano al gocciolar continuo della  pioggia.
Si dice che alcuni creditori, o ladri, o che so io, abbiano venduto  perfino  le
travature del granaio; io non ne so nulla; veggo solamente  che  manca  un  gran
pezzo di  tetto  e  che  ci  piove  e  nevica  entro,  con  quanto  danno  degli
appartamenti  ve  lo  potete  immaginare!...  Marchetto,  che  è  a  Teglio  per
sagrestano e s'è fatto grullo come un cappone, va ancora di tanto in  tanto  per
vecchia abitudine al castello. Egli mi ha raccontato che la signora  Veronica  è
morta, che monsignor Orlando e il Capitano  non  hanno  piú  che  la  serva  del
Cappellano, la Giustina, che tenga conto delle robe loro, e prepari il pranzo  e
la cena. Monsignore sospira perché non può piú ber vino: il Capitano si  lamenta
perché ha promesso in articulo mortis alla sua Veronica  di  non  pigliar  altra
moglie, ed ora c'è a Fossalta la vedova dello speziale che è matta,  e  vorrebbe
sposarlo, non so con qual'idea. D'inverno fanno notte alle cinque, e  Monsignore
si difende col gran dormire. Di tutte  le  sue  antiche  relazioni  soltanto  il
Cappellano ha tenuto saldo, e sembra anzi stringerglisi di  piú  ad  ogni  nuova
disgrazia.  Monsignore  di  Sant'Andrea  e  il  piovano  di  Teglio  sono  morti
anch'essi. Insomma, ve lo diceva fin dapprincipio, ch'io son partito da un paese
e torno in un cimitero; ma ancora non sapete  tutto.  "Quanto  alla  maniera  di
camparla questi signori vivono sulle onoranze e quasi sulle  elemosine  di  quei
quattro coloni che son loro rimasti; perché l'entrata viva cola tutta a Venezia.
Fattori castaldi ed agenti se la sono fatta, dopo essersi ben  rimpannucciati  a
spese dei gonzi. Fulgenzio già aveva comperato la casa Frumier a Portogruaro,  e
la trinciava avaramente  da  signore  quand'io  sono  partito;  ora  suo  figlio
Domenico è notaio ed ha avuto un posto a Venezia, l'altro ha detto ieri la prima
messa e starà in Curia per cancelliere. È un bel pretino questo don Girolamo,  e
tutto sommato mi piace piú di suo fratello e di suo padre, benché sia furbo come
la volpe anche lui. "Ora, Carlino, veniamo a piú gravi  disgrazie;  dico  gravi,
perché toccano me piú  davvicino  e  le  ho  tenute  le  ultime  perché,  se  ne
discorreva dapprincipio, non avrei potuto risolvermi a parlar d'altro. Mio padre
ha tenuto dietro a mia madre, ch'era già morta  da  un  mese  quand'io  mi  sono
assoldato  con  Sandro  Giorgi.  Egli  è  spirato,  poveretto,  fra  le  braccia
dell'Aquilina, perché gli altri suoi figliuoli erano in rotta  con  lui,  e  non
volevano credere ch'egli avesse a morire. La  Bradamante  giaceva  in  letto  di
parto e non ha potuto esser compagna alla sorella in  quegli  ultimi  e  pietosi
uffici. Io non voglio dir male dei miei fratelli ma il primo  per  ignoranza,  i
piú giovani per braveria hanno finito di metter a soqquadro tutta la casa. Porta
via di qua, strascina di là, sciupa, vendi, impresta, trovai  le  camere  vuote:
cioè no; correggo, Leone, che s'è trapiantato colla famiglia a San Vito a far il
fattore, ha creduto bene di  affittar  la  casa,  ad  eccezione  di  tre  stanze
lasciate all'Aquilina e a Mastino: ché in  quanto  a  Grifone  era  partito  per
l'Illirico col suo mestiero di  capo-mastro.  Tre  mesi  dopo  venne  offerto  a
Mastino un posto di scritturante ad Udine, e se la svignò lasciando sola soletta
in quelle tre camere una ragazza di quattordici anni. Gli è vero ch'è assai bene
sviluppata, e fui molto contento delle lodi che mi fece l'arciprete della di lei
condotta: ma ad operare in quel modo bisognava proprio aver  nelle  calcagna  la
carità fraterna. "Di tutte queste disgrazie, Carlino, alcuna ne avea già  saputa
per lettera, altre ne temeva, ma ti dico la verità che a toccarle  con  mano  mi
fecero un effetto terribile e quale non mi sarei mai aspettato.  Forse  anco  il
vedermi cosí storpio e impotente a mettervi riparo, finí di amareggiare  il  mio
dolore già per sé acerbissimo. Ma un altro colpo mi  dovea  toccare  che  appena
giunto mi ha proprio buttato a terra. L'Aquilina fra le tante mi avea raccontato
anche la morte del dottor Natalino avvenuta un paio  di  mesi  prima.  Una  sera
indovinereste chi mi capitò in casa?... Mia  cognata,  quella  sciagurata  della
Doretta!... Aveva insieme uno  scribacchiante,  un  mingherlino  che  si  diceva
figliuolo d'un avvocato Ormenta di Venezia, e veniva con lei a reclamare la  sua
dote e l'eredità del marito. Cosa ne dici  eh!...  Che  cuori!...  La  dote  che
nessuno ci aveva mai pagata!... L'eredità d'un uomo ch'ella aveva  si  può  dire
ammazzato!... Ma siccome ell'aveva una confessione di debito scritta di pugno di
Leopardo otto mesi dopo il loro matrimonio, e d'altronde  si  commiserava  della
propria posizione, e il mingherlino mi diceva sotto voce che senza  il  sussidio
di quei danari l'onore di mia cognata avrebbe corso grave pericolo, cosí  e  per
ritirarla se è possibile dalla mala via in cui si è  messa  e  per  rispetto  al
nostro nome e alla memoria di mio fratello, ho cercato a tutt'uomo  i  mezzi  di
pagarla. Ho venduto quanto restava di mio nel podere lasciato da mio  padre;  le
ho consegnato i danari e se n'è andata con Dio; ma il giovinetto sembrava  molto
premuroso di liberarla dall'incommodo di portare il sacchetto. Ho poi saputo che
quel peculio le serví come  dote  per  entrare  in  un  istituto  di  convertite
novellamente aperto a Venezia per cura di alcuni sacerdoti oscuri di nome, ma di
cuore cristiano e di onestissime intenzioni. Ella restò nel ritiro un  mese,  ma
poi ne scappò, dicono, indemoniata; ed adesso ho grave timore che non la sia  in
peggiori condizioni di prima, perché già il dono della dote era irrevocabile,  e
d'altronde non l'era una tal somma da poterle assicurare una vita  indipendente.
"Ora voi sapete lo stato nostro e presso a poco anche del paese. Faccio da padre
all'Aquilina, amministro quei dieci campi che  le  sono  rimasti  e  per  me  mi
guadagno il vitto dando qualche lezione di calligrafia in  paese  e  in  qualche
buona famiglia che vuol forse  palliare  cosí  una  caritatevole  elemosina.  Le
domeniche, Donato nostro cognato  viene  a  prenderci  colla  carrettella  e  ci
conduce a Fossalto a trovare la Bradamante che ha già tre  ragazzini,  il  primo
che sgambetta come una gru, e l'ultimo appeso ancora alla mammella. In onta alla
mia gamba di legno io faccio grandi prodezze col primo, e  insegno  a  camminare
alla seconda, perché la è una bambina abbastanza poltroncella per  la  sua  età.
Non so se questo sia uno stabilimento  definitivo,  o  un  ripiego  per  miglior
fortuna, o una tregua per peggiori disgrazie. So che ho fatto il mio dovere, che
lo farò sempre, che se ho preso qualche deliberazione precipitata si  fu  perché
una voce mi chiamava, e infatti le opere mie non hanno mai fatto torto a  quelle
deliberazioni. Infine le cose potevano andare assai meglio; ma io non do la  mia
povertà e nemmeno la mia gamba di legno per tutte le ricchezze per tutti gli agi
e per la sfacciata salute d'un birbone. Dico bene, Carlino? So che siete del mio
parere e perciò vi parlo col cuor in mano. Del resto  le  mie  speranze  non  si
fermano tutte sotto i coppi della mia casa, alcuna ne ho che viene in  cerca  di
voi; altre che rifanno il cammino da me percorso e  non  vogliono  starsi  chete
alla triste esperienza delle guerre passate. Il nostro Primo Console ha vinto  a
Marengo, ma dei bei campi di battaglia potremo offrirgliene anche noi,  ed  egli
li conosce da un pezzo e gli furono fausti. Oh se ci  potessimo  vedere  allora!
Come farei ballare di gusto la mia gamba di legno... Come bacerei di cuore  voi,
la Pisana, il dottor Lucilio... A proposito, è vero che il dottore si è  fermato
a Milano?... Sappiate intanto che Sandro Giorgi fu mandato  col  suo  reggimento
alla guerra di Germania. Se le guerre  continuano  farà  certo  fortuna,  ed  io
gliela auguro perché in mezzo a' suoi difettucci ha un cuore  un  cuore  che  si
farebbe a fette per gli altri. Oh ma io non finirei  piú  di  chiacchierare  con
voi!... Amatemi dunque, scrivetemi, ricordatemi alla Pisana, e non dimenticatevi
di far il possibile perché ci possiamo vedere".

Bell'anima d'amico! E si scusava di non saper scrivere! dove si sente il  cuore,
chi bada alle parole? Chi cerca lo stile quando l'anima  ha  toccato  dolcemente
l'anima nostra? - Non mi vergogno a dirvi ch'io piansi su  quella  lettera,  non
per le frasi in sé, che forse nessuno ci troverebbe da  commoversi,  ma  appunto
per quello studio gentile e pietoso di non commovere, per quella cura dilicata e
faticosa di non iscoprire ai  lontani  tutte  le  nostre  piaghe,  acciocché  il
piacere di aver nuove dell'amico  non  sia  troppo  amareggiato  dal  dolore  di
saperlo infelice! La morte  del  padre,  lo  sperperamento  della  famiglia,  il
cattivo cuore dei fratelli; io m'immaginava che tutti questi colpi  l'uno  sopra
l'altro avean dovuto ferire l'animo di Bruto piú di quanto egli voleva mostrare.
Me lo figurava vicino all'Aquilina, a quella cara e  leggiadra  ragazzetta  cosí
grave cosí amorosa e che nell'infanzia dimostrava il piú soave e compassionevole
cuore di donna  che  si  potesse  desiderare!  Ella  avrebbe  lenito  colla  sua
ingenuità coi suoi sorrisi celesti i dolori  di  Bruto,  lo  avrebbe  compensato
delle cure che si prendeva per lei;  e  n'era  certo  che  quelle  due  creature
riunite insieme dopo tante procelle avrebbero trovato nell'amicizia fraterna  la
felicità e la pace. La  Pisana  si  univa  meco  in  queste  semplici  speranze.
Cervellino poetico anzitutto ella cercava i  robusti  contrapposti  e  la  fiera
agitazione della tragedia ma comprendeva la rosea innocenza e la pace  pastorale
dell'idillio. Posando fra Bruto e l'Aquilina le  nostre  fantasie  rivedevano  i
tranquilli orizzonti delle praterie fra  Cordovado  e  Fratta,  le  belle  acque
correnti in mezzo a campagne smaltate di fiori, i cespugli odorosi di madresilva
e di ginepro,  i  bei  contorni  della  fontana  di  Venchieredo  cogli  ombrosi
sentieruoli e i freschi marginetti di musco! Speravamo per essi, e godevamo  per
noi. Peccato che quella gamba di legno si attraversasse a tutti  i  bei  romanzi
che si potevano immaginare a benefizio di Bruto! Nei paesi un cotal difetto  non
si perdona, e un eroe zoppo vale assai meno d'un  mascalzone  ben  piantato.  Le
donne di città son talora piú indulgenti;  benché  anche  in  questa  indulgenza
c'entri forse per poco assai l'adorazione dell'eroismo. Ma  pure  se  Bruto  non
avesse avuto quella gamba di legno sarebbe egli tornato a Cordovado?  -  Dov'era
Amilcare, dov'erano Giulio del Ponte,  Lucilio,  Alessandro  Giorgi,  e  dov'era
finalmente io, benché meno di essi trasportato da furore  di  indole  a  imprese
arrischiate? Profughi, esuli, morti, vaganti qua e là,  come  servi  cacciati  a
lavorare sopra campi non nostri, senza tetto certo, senza famiglia, senza patria
sulla terra stessa della patria! - Poiché chi poteva assicurare che  una  patria
concessa dal capriccio del conquistatore dal capriccio  stesso  non  ci  sarebbe
ritolta?... Già in Francia si cominciava a bisbigliare d'un nuovo ordinamento di
governo; e s'accorgevano che il Consolato  non  era  una  sedia  curule,  ma  un
gradino a soglio piú eccelso. Bruto era omai escluso dall'agone ove noi andavamo
giostrando alla cieca senza sapere qual  sarebbe  il  premio  di  tanti  tornei.
Almeno avea ritrovato il focolare paterno,  il  nido  della  sua  infanzia,  una
sorella da amare e da proteggere! Il suo destino gli stava scritto dinanzi  agli
occhi non glorioso forse né grande ma calmo, ricco di affetti e sicuro.  Le  sue
speranze avrebbero sciolto il volo dietro alle nostre  o  sarebbero  cadute  con
esse senza il rimorso di aver oziato per infingardaggine, senza lo sconforto  di
aver faticato indarno ad inseguire un fantasma. Cosí  io  veniva  invidiando  la
sorte d'un giovine soldato che tornava al suo  paese,  storpio  d'una  gamba,  e
invece delle braccia di suo padre in cui gettarsi non trovava che una  fossa  da
irrigare di pianto. Pure io non era de' piú sfortunati. Moderato  di  voglie  di
speranze di passioni, quando i miei mezzi privati cominciavano  a  mancarmi,  il
soccorso pubblico mi era venuto incontro. Senza  protezioni,  senza  brogli,  in
paese forestiero, ottenere a ventisei anni un posto di  segretario  in  un  ramo
cosí importante e nuovo della  pubblica  amministrazione,  com'erano  allora  le
Finanze, non fu piccola né spregevole fortuna: e non me ne contentava. Tutti  mi
verranno  addosso  con  baie  e  con  rimbrotti.  Ma  io   lo   confesso   senza
vergognarmene: ebbi sempre gli istinti quieti  della  lumaca,  ogniqualvolta  il
turbine non mi portò  via  con  sé.  Fare,  lavorare  sgobbare  mi  piaceva  per
prepararmi una famiglia una patria una felicità; quando poi  questa  meta  della
mia ambizione  non  mi  sorrideva  piú  né  vicina  né  sicura,  allora  tornava
naturalmente col desiderio al mio orticello, alla  mia  siepe,  dove  almeno  il
vento non tirava troppo impetuoso,  e  dove  sarei  vissuto  preparando  i  miei
figliuoli a tempi meglio operosi e fortunati. Io non aveva né la furia  cieca  e
infrenabile d'Amilcare che slanciata una volta non poteva piú indietreggiare, né
l'instancabile pertinacia di Lucilio che  respinto  da  una  strada  ne  cercava
un'altra, e attraversato in questa se ne apriva una di nuova sempre per  tendere
a uno scopo generoso sublime, ma alle  volte  dopo  quattr'anni  di  sudori  piú
incerto e lontano che non fosse dapprincipio. Per  me  vedeva  quella  gran  via
maestra del miglioramento morale, della concordia, e dell'educazione, alla quale
si doveva piegare ogniqualvolta le scorciatoie ci avessero fuorviato.  Mi  sarei
dunque messo in quella molto volentieri per uscirne soltanto quando  un  bisogno
urgente mi chiamasse. Invece la sorte mi faceva battere la campagna a destra  ed
a mancina. L'anno prima bocca inutile a Genova, allora segretario a  Ferrara;  i
geroglifici del mio pronostico si disegnavano con caratteri tanto  varii  che  a
volerne comporre una  parola  bisognava  stiracchiare  affatto  il  buon  senso.
Fortuna  che  la  Pisana  mi  dava  frequentissimi  svagamenti  da  queste   mie
melensaggini. Le sue rappresaglie donnesche col capitano Minato, e le  bizzarrie
continue che davano a parlare per un mese alla già sordo-muta società di Ferrara
mi  tenevano  occupato  per  quelle  poche  ore  che  mi  restavano  libere  dal
trebbiatoio  dell'ufficio.  Passare  dalle  somme,  dalle  sottrazioni  e  dalle
operazioni scalari delle imposte agli accorgimenti strategici d'un amante geloso
non era impresa da cavarsene come a sorbir un  uovo.  Anzi  mi  faceva  mestieri
tutta la ginnastica dello spirito, e tutta la  prontezza  acquistata  in  simili
evoluzioni da quindici e piú anni d'esercizio. Del resto v'aveano giorni che  la
Pisana s'occupava sempre di me,  e  di  sorvegliarmi  come  un  ragazzaccio  che
meditasse qualche scappata; allora, o fingeva di non m'accorgere  di  una  cotal
diffidenza, o ne metteva il broncio, ma davvero che ne  aveva  un  gusto  matto,
perché poteva riposarmi delle fatiche passate e preparar lena pel futuro. Se mai
vi fu amante o marito che si affannasse per ben  governar  la  sua  donna  senza
farle sentire il peso delle redini,  fui  certo  io  in  quel  tempo  vissuto  a
Ferrara. I galanti papallini, i lindi ufficialetti francesi andavano dicendo:  -
Che buona pasta d'uomo! - ma mi avrebbero forse voluto  un  po'  piú  fuori  dei
piedi; e li pestassi anche e facessi il cattivo, non se  l'avrebbero  legata  al
dito. Ero, per dirla tutta, un buon incommodo; e qui stava il  peggio,  ché  non
potevano lagnarsene, né appormi  la  ridicolaggine  d'un  Otello  finanziere.  A
rompere questo armeggio di schermi e di difese cascò in mezzo a noi  la  notizia
d'una malattia della Contessa di Fratta. Era il conte Rinaldo che la partecipava
alla Pisana senza aggiungere  commenti:  diceva  soltanto  che  non  potendo  la
reverenda Clara uscir di convento, sua madre rimaneva sola, affidata  alle  cure
certo poco premurose d'una guattera: sapendo  poi  la  Pisana  a  Ferrara,  avea
creduto dover suo trascendere ogni riguardo e farle nota questa grave  disgrazia
che li minacciava. La Pisana mi guardò in viso; io  senza  por  tempo  in  mezzo
dissi: - Bisogna che tu vada! - Ma vi assicuro che mi costò assai il dirlo; e fu
un sacrifizio  all'opinione  pubblica,  che  altrimenti  m'avrebbe  tacciato  di
snaturare una figliuola ne' suoi piú doverosi riguardi verso la madre. La Pisana
invece la tolse pel cattivo verso; e benché io credo che se avessi  taciuto  io,
ella avrebbe parlato come me, pure si diede a brontolare, che già ero stanco  di
lei, e che non cercavo nulla di meglio che un appiglio qualunque  per  levarmela
d'attorno. Ne converrete che fu una ingiustizia solenne. Io risposi,  scrollando
le spalle, che ella invece a mio credere andava a caccia tutto il giorno de' piú
strani pretesti per rincrescermi, e che mi doveva anzi  esser  grata  dell'esser
stato il primo a  proporle  un  viaggio  a  me  per  ogni  conto  spiacevole  ed
incommodo. Infatti, lasciando andare la solitudine nella quale restava,  a  quel
tempo si stentava anche non poco in punto a quattrini. A me  piacque  sempre  il
ben vivere, la Pisana non ha mai saputo far un conto in  sua  vita,  e  non  s'è
presa mai il benché menomo pensiero né della sua borsa né di quella degli altri:
insomma si spendeva a tutto andare ed anche si piantava qua e là per le botteghe
qualche piccolo chiodarello. Tuttavia la voleva bisticciare con me e ci  riescí.
Non ho mai capito questo talento di martoriarmi  appunto  allora  ch'eravamo  in
procinto di dividerci, col gran bene che la mi voleva; perché vi assicuro io che
si sarebbe fatta a pezzi per me. Io m'immagino che il  dispiacere  di  doversene
andare le guastasse l'umore, e che colla sua solita sventatezza se  ne  sfogasse
addosso a me. Qualche volta le venivano rossi gli occhi, mi  veniva  dietro  per
casa come una ragazzina dietro la mamma; e  s'io  poi  le  volgeva  uno  sguardo
amorevole una parola di conforto, s'oscurava in viso come l'ora di notte,  e  si
volgeva da un altro canto facendo forza di  non  badare  a  me.  Insomma  le  vi
parranno le solite ragazzate; ma bisogna ch'io ve le racconti per dimostrare  il
continuo sospetto in che io vissi dell'animo della  Pisana  inverso  di  me,  ed
anche perché la sua indole fu cosí straordinaria che merita una storia apposita.
Adunque pochi giorni dopo, raggranellati i denari occorrenti al viaggio,  io  la
condussi in calesse fino a Pontelagoscuro, e di  colà  in  barca  si  avviò  per
Venezia. Quello, cioè, il Po, si era il confine fra le provincie venete occupate
dai Tedeschi e la  Repubblica  Cisalpina;  né  io  poteva  accompagnarla  oltre.
Pertanto in capo ad una settimana ebbi notizia da lei che sua madre era  affatto
fuori di pericolo, ma che la convalescenza vorrebbe essere un po' lunga,  e  che
perciò ci rassegnassimo a una separazione di qualche mese. Ciò mi diede noia non
poco, ma in vista delle altre buone notizie che  mi  dava  cercai  consolarmene.
L'Aglaura e Spiro vivevano in perfetta concordia con due bambinelli  ch'era  una
delizia a vederli; i negozi loro prosperavano viemmeglio, e ci si profferivano a
me ed a lei in ogni cosa che ne potesse occorrere. Il  Conte  suo  fratello,  in
onta alla freddezza della lettera, l'avea poi trattata  con  ogni  amorevolezza;
un'altra novità c'era che poteva convenire non poco ad ambedue.  Sua  Eccellenza
Navagero colpito da una paralisi generale e da completa imbecillità  giaceva  in
letto da un mese: ella mi comunicava  le  tristi  condizioni  del  marito  colle
parole piú compassionevoli del mondo, ma la cura presa  di  descriverle  appunto
tristissime e disperate dinotava una facile rassegnazione all'ultimo  colpo  che
si aspettava di giorno in giorno. Perciò io mi adattai con minor  uggia  al  mio
isolamento; e mi cacciai intanto a tutt'uomo nelle cure d'ufficio  per  sentirne
meno i fastidi. In quella s'era adunata la Consulta di Lione  pel  riordinamento
della Cisalpina, la quale ne uscí col battesimo d'Italiana,  ma  riordinata  per
bene, cioè secondo i nuovi disegni di Bonaparte Primo Console, che ne fu  eletto
Presidente per dieci anni. Il Vice-presidente,  che  ebbe  poi  a  governare  in
persona, fu Francesco Melzi, uomo invero  liberale  e  di  sentimenti  grandi  e
patriottici, ma che per la sua magnificenza e per la  nobiltà  dell'origine  non
collimava coi gusti dei democratici piú ardenti. Lucilio mi avvisò da Milano  di
cotali mutamenti e con una certa livida rabbia che mi diceva assai piú  che  non
osasse scrivere: certo egli s'aspettava che io rinunziassi al mio  posto  e  che
rifiutassi  di  servire  un  governo  dal  quale  erasi  allontanato  ogni  vero
repubblicano. Io in verità  ne  sentii  qualche  voglia,  e  non  tanto  per  la
repubblica in sé, quanto perché  il  fervore  repubblicano  era  ormai  il  solo
incentivo di quelle mie ostinate speranze sopra Venezia per  le  quali  soltanto
m'induceva a durare negli uffici della Cisalpina. Ma avvenne allora un caso  che
mi stornò da cotale idea. Ricevetti nientemeno che la nomina d'Intendente,  vale
a dire Prefetto delle  Finanze,  a  Bologna.  Fosse  che  il  nuovo  governo  mi
giudicasse proclive alle sue  massime  d'ordine  e  di  moderazione,  o  che  mi
ricompensassero del lavoro assiduo e utilissimo di quegli ultimi mesi, il  fatto
sta che la nomina  io  la  ebbi  e  con  mia  grande  sorpresa.  Forse  anco  si
abbisognava per quel posto d'un uomo laborioso attento infaticabile, e  a  cotal
uopo fu creduto atto piú un giovane che un magistrato provetto. Io  per  me  fui
portato via da un tal delirio d'ambizione che per due o tre mesi non mi ricordai
piú né di Lucilio né quasi anche della Pisana. Mi pareva già  che  il  Ministero
delle Finanze mi sarebbe toccato alla prima occasione; e una volta là  in  alto,
chi sa?... Il cambiar poltrona è impresa sí agevole quando si è tutti insieme in
una stessa sala! Pensava alle antiche lusinghe di mio padre e non le trovava piú
né strane né irragionevoli; soltanto quella presidenza decennale di Bonaparte mi
angustiava un poco, e per  quanto  fossi  temerario  non  giunsi,  lo  confesso,
nemmeno in sogno a spuntarla con lui.  Mi  pareva  un  pezzo  troppo  grosso  da
sollevare. Quanto agli altri avrei adoperato Prina come savio amministratore;  e
con Melzi ci saremmo intesi. Sapeva della sua crescente dissensione col  Console
per quel fare da sé e quello stare da sé che dipendeva dalla  sua  natura  tutta
italiana, e tendeva per opera sua a regolare gli andamenti del governo  italiano
appetto del francese. Di ciò mi sarei  giovato  con  arte  con  furberia:  fermo
sempre che tutta la mia ambizione tutte le mie mire sarebbero volte ad allargare
fino a Venezia la Repubblica Italiana. E questa fu la scusa  della  mia  pazzia.
Impiantato a Bologna con questi grandi propositi pel capo fui un  intendente  di
Finanza molto facondo e  munifico:  voleva  prepararmi  la  strada  alle  future
grandezze: seppi  al  contrario  in  seguito  che,  per  cotali  gonfiamenti  mi
chiamavano, nel loro gergo maligno bolognese, l'intendente Soffia. Dopo  qualche
mese di boriosa  beatitudine  e  di  ostinato  lavoro  nella  sana  disposizione
dell'imposte, cosa insolita nella Legazione, cominciai a credere che  non  fossi
ancora in paradiso, ed a sperare che il ritorno della Pisana avrebbe supplito  a
quel tanto che sentiva mancarmi. Infatti non due  non  tre  ma  sei  mesi  erano
trascorsi dalla sua partenza da Ferrara, e non solo non tornava,  ma  da  ultimo
anche dopo il mio passaggio a Bologna scarseggiavano le lettere. Fu gran ventura
che avessi il capo nelle nuvole, altrimenti l'avrei dato nelle pareti. La Pisana
aveva questo di singolare nel suo  stile  epistolare,  che  non  rispondeva  mai
subito alle lettere che riceveva; ma le metteva da un canto e poi le riscontrava
tre quattro otto giorni dopo, sicché, non ricordandosi ella piú di quanto  aveva
letto, la risposta entrava in materia affatto nuova, e si giocava alle bastonate
alla guisa dei ciechi. Molte e molte volte io le aveva scritto ch'era  stufo  di
restar solo, che non sapeva che pensare di lei, che si decidesse a tornare,  che
mi scoprisse almeno la vera cagione di quella inconcepibile tardanza.  E  nulla!
Era un battere al muro. Mi rispondeva di volermi bene piucchemai, che io badassi
a non dimenticarmi di lei, che a  Venezia  si  annoiava,  che  sua  mamma  stava
proprio benino, e che sarebbe venuta appena le circostanze  lo  permetterebbero.
Io riscriveva a posta corrente domandando quali fossero queste circostanze, e se
le abbisognavano denari; o se non poteva venire per qualche gran motivo,  e  che
lo dicesse pure perché in questo caso avrei domandato un passaporto e sarei  ito
a tenerle compagnia per tutta la durata del mio permesso. Non mancava poi mai di
chiederle informazioni della preziosissima salute di Sua Eccellenza Navagero, il
quale, secondo me, doveva esser andato al diavolo da un pezzo: eppur  la  Pisana
non mi rispondeva mai neppure in qual mondo egli fosse. La  trascuranza  di  ciò
ch'ella sapeva dovermi tanto premere finí di  punzecchiare  l'amor  proprio  del
magnifico Intendente di Bologna. Per completare  la  mia  grandezza,  perché  il
carro del mio trionfo avesse tutte quattro le ruote mi bisognava una  moglie;  e
questa non poteva aspettarla che dalla morte del Navagero. Mi stupiva quasi come
questo inutile nobiluomo non si fosse affrettato a morire per far piacere ad  un
intendente par mio. Se poi era la Pisana che me ne  tardava  a  bella  posta  la
novella, l'avrebbe a che fare con me!... Voleva che sospirasse almeno un anno la
mano del futuro ministro delle Finanze... e poi?... oh, il mio cuore non  sapeva
resistere piú a lungo, nemmeno in idea. L'avrei assunta al mio trono, come  fece
Assuero dell'umile Ester; e le avrei detto: - Mi amasti piccolo,  grande  te  ne
ricompenso! - Sarebbe stato un bel colpo; me  ne  congratulava  con  me  stesso,
passeggiando su e giù per la stanza, sfregolandomi il mento, e masticando fra  i
denti le paroline che avrei soggiunto ai ringraziamenti infocati della Pisana. I
subalterni che entravano con fasci di  carte  da  firmare,  si  fermavano  sulla
soglia e andavano poi fuori a raccontare che l'intendente Soffia  era  tanto  in
sul soffiare che pareva matto. Peraltro quei giorni meno che gli altri avevano a
lagnarsi di me: e in generale, siccome lavorava molto  io,  ed  era  paziente  e
corrivo cogli altri, in onta al mio soffiare aveano preso a  volermi  bene.  Gli
uomini bolognesi sono i piú gentili mordaci e dabbene di tutta Italia;  per  cui
anche avendoli amici, e amici a tutta prova, bisogna permetter loro di dir  male
e di prendersi beffa di voi almeno un paio di volte il mese. Senza questo  sfogo
creperebbero; voi ne perdereste degli amici servizievoli e devoti, ed  il  mondo
degli spiritini allegri e frizzanti. Quanto alle donne,  sono  le  piú  liete  e
disimpacciate che si possano desiderare: sicché il  governo  dei  preti  non  va
accagionato di renderle impalate e selvatiche. Se questo si osservò un  tempo  a
Verona a Modena e in qualche altra città di costumi bigotti, vuol  dire  che  ne
avranno avuto colpa piú le monache le madri i mariti che i preti.  La  religione
cattolica non è né arcigna  né  selvatica  né  inesorabile;  infatti  se  volete
trovare l'obesità, la rigidezza e lo spleen bisogna andare  fra  i  protestanti.
Non so se compensino queste magagne con altre doti bellissime; io  guardo,  noto
senza parzialità, e tiro innanzi. Anche un rabbino mi  assicurò  l'altro  giorno
che la sua religione è la piú filosofica  di  tutte;  ed  io  lo  lasciai  dire,
benché, sapendo che il rabbino è filosofo, avrei  potuto  rispondergli:  "Padron
mio, tutti i filosofi maomettani, bramini, cristiani ed ebrei  trovarono  sempre
la propria religione piú filosofica delle altre.  Cosí  il  cieco  definisce  il
rosso il piú sonante di tutti i colori. La religione si sente  e  si  crede,  la
filosofia  si  forma  e  si  esamina:  non  mescoliamo  di   grazia   una   cosa
coll'altra!...". Per finir poi di parlarvi di Bologna, dirò  che  vi  si  viveva
allora e vi si vive sempre allegramente, lautamente, con  grandi  agevolezze  di
buone amicizie, e di festive brigate. La città dà mano alla  villa  e  la  villa
alla città: belle case, bei giardini, e grandi commodi senza  le  stiracchiature
di quel lusso provinciale che dice: "rispettatemi perché  costo  troppo  e  devo
durare assai!". Sempre in  attività,  sempre  in  movimento  tutte  le  funzioni
vitali. Ciarlieri e vivaci per affrontare il brio e la ciarla altrui; lesti  per
piacere a quelle care donnine cosí leste e  compagnevoli;  agili  e  svelti  per
correre di qua e di là e non mancare al gentil desiderio di nessuno.  Si  mangia
piú a Bologna in un anno che a Venezia in due, a Roma in tre, a Torino in cinque
ed a Genova in venti. Benché a Venezia si mangia meno in colpa dello scilocco, e
a Milano piú in grazia dei cuochi... Quanto a Firenze a  Napoli  a  Palermo,  la
prima è troppo smorfiosa per animare i suoi ospiti alle  scorpacciate;  e  nelle
altre due la vita contemplativa empie  lo  stomaco  per  mezzo  dei  pori  senza
affaticar le mascelle. Si vive coll'aria impregnata dell'olio volatile dei cedri
e del fecondo polline dei fichi. Come ci sta  poi  col  resto  la  question  del
mangiare?  Ci  sta  a  pennello  perché  la   digestione   lavora   in   ragione
dell'operosità e del buon umore. Una pronta e svariata conversazione che  scorra
sopra tutti i sentimenti dell'animo vostro, come la mano sopra una tastiera, che
vi eserciti la mente e la lingua a correre a balzare di qua e di  là  dove  sono
chiamate, che ecciti che sovrecciti la vostra  vita  intellettuale,  vi  prepara
meglio al pranzo di tutti gli assenzi e di tutti  i  Vermutti  della  terra.  Il
Vermuth han fatto bene a inventarlo a Torino dove si parla e si ride poco, fuori
che alle Camere: del resto quando l'hanno inventato non avevano lo Statuto.  Ora
dell'attività ce n'è, ma di quella che aiuta a fare, non di quella che stimola a
mangiare. Fortuna per chi spera in bene e pei fabbricatori di Vermuth.  Ad  onta
di tutte queste chiacchiere che infilzo adesso,  la  Pisana  allora  non  faceva
mostra per nulla di voler tornare; e Bologna perdeva a poco a poco il merito  di
stuzzicarmi l'appetito. Un amore lontano per un intendente di ventott'anni non è
disgrazia da metterla in burla. Passi per un mese o due; ma otto, nove, quasi un
anno! Io non aveva fatto nessuno dei tre voti monastici e doveva  osservarne  il
piú scabroso. Capperi! come vi veggo ora rider tutti della  mia  capocchieria...
Ma non voglio ritrattarmi d'un punto. La Pisana a quel tempo io  l'amava  tanto,
che tutte le altre donne mi  sembravano  a  dir  poco  uomini.  Ometti  bellini,
piacevoli, eleganti, in rispetto alle bolognesi; ma sempre uomini; e non era  né
rusticità né chietineria, ma tutto amore era. Cosí non mi vergogno a confessarvi
d'aver fatto parecchie volte il Giuseppe Ebreo; mentre invece  nella  successiva
separazione dalla Pisana andai soggetto a varie distrazioni. Vuol dire  che  non
l'amava meno, ma in modo diverso; e, checché ne dicano i platonici, io sopportai
la seconda lontananza con molto miglior animo che  la  prima.  Allora  peraltro,
avendo una gran fretta e un furore indiavolato di riavere la Pisana, non potendo
saperne una di chiara da lei, mi volsi all'Aglaura pregandola, se aveva  viscere
di carità fraterna, a volermi significare senza misteri senza palliativi  quanto
concerneva mia cugina. In fino allora  mia  sorella  s'era  schivata  sempre  di
rispondere esplicitamente alle mie inchieste sopra tale proposito; e col credere
o col non sapere se la cavava dai freschi. Ma quella volta, conoscendo dal tenor
della lettera che veramente io era sgomentatissimo e in procinto di fare qualche
pazzia, mi rispose subito che aveva sempre taciuto pregata di ciò  dalla  Pisana
stessa, che allora peraltro  voleva  accontentarmi  perché  vedeva  l'agitazione
della mia vita; che sapessi dunque esser già da sei mesi la Pisana  in  casa  di
suo marito, occupatissima a fargli d'infermiera, e che non  pareva  disposta  ad
abbandonarlo. Mi dessi pace che ella mi amava  sempre,  e  che  la  sua  vita  a
Venezia era proprio quella d'un'infermiera. Oh se avessi  allora  avuto  fra  le
unghie Sua Eccellenza Navagero!... Credo che non avrebbe abbisognato piú a lungo
di infermieri. Cosa gli saltava a quel putrido carcame di rubarmi la  mia  parte
di vita?... C'era mo giustizia che una giovane come sua moglie... Mi  fermai  un
poco su questa parola di moglie, perché  mi  balenò  in  capo  che  le  promesse
giurate appiè dell'altare potessero per avventura contar qualche cosa. Ma  diedi
di frego a questo scrupolo con somma premura. "Sí, sí" ripigliai "c'è  giustizia
che sua moglie resti appiccicata a lui, come un vivo a un  cadavere?...  Nemmeno
per sogno!... Oh, per bacco,  penserò  io  a  distaccarli,  a  terminare  questo
mostruoso supplizio. Dopo tutto, anche non volendo dire che la carità  principia
da noi stessi, non è forse secondo le regole di natura ch'egli  muoia  piuttosto
che me? Senza contare che io ne morrò davvero; ed  egli  sarà  capace  di  tirar
innanzi anni ed anni a questo modo, l'imbecille!...". Afferrai la mia  magnifica
penna d'intendente e scrissi un tal letterone che avrebbe fatto onore ad  un  re
in collera colla regina. Il succo era che se ella non veniva piú  che  presto  a
rimettermi un po' di fiato in corpo, io, la mia gloria, la mia  fortuna  saremmo
andati sotterra. Questa mia lettera rimase senza risposta un paio di  settimane,
in capo alle quali quand'appunto io pensava seriamente ad  andarmene,  non  dirò
sotterra, ma a Venezia, capitò inaspettata la Pisana.  Aveva  il  broncio  della
donna che ha dovuto fare a modo altrui, e prima di ricevere né un  bacio  né  un
saluto, volle ch'io le promettessi di  lasciarla  ripartire  a  suo  grado.  Poi
vedendo che questo discorso mi toglieva metà del piacere di sua venuta, mi saltò
colle braccia al collo, e addio signor Intendente! - Io era  impazientissimo  di
farle osservare tutti gli agi  annessi  alla  mia  nuova  dignità;  un  sontuoso
appartamento, portieri a bizzeffe, olio, legna, tabacco  a  spese  dello  Stato.
Fumava come il povero mio padre per non lasciar indietro  nessun  privilegio,  e
mangiava d'olio tre giorni per settimana come un certosino; ma avea messo da  un
canto una bella sommetta per far figurar  degnamente  la  Pisana  nella  società
bolognese; era pel mio temperamento una tal prova d'amore che la doveva  cadermi
sbasita dinanzi. Invece non ci badò quasi; perché per  intendere  il  merito  di
cotali sforzi bisogna esserne capaci, ed ella, benedetta, avea piú  buchi  nelle
tasche e nelle mani che non ne  abbia  nella  giubba  un  accattone  romagnuolo.
Soltanto fece due occhioni tondi tondi  sentendo  nominare  quattrocento  scudi;
pareva che da un pezzo ella avesse perduto l'abitudine di udir perfino  nominare
sí grossa somma di danaro. Al fatto per  altro  non  fu  tanto  grossa  come  si
credeva. Abiti, cappellini, smanigli, gite, rinfreschi mi  misero  perfettamente
in corrente colla paga e gli scudi non  mi  si  invecchiavano  piú  di  quindici
giorni nel taschino. Svagata di qua di là la Pisana  mi  scoperse  in  breve  un
altro lato nuovissimo del suo temperamento. Diventò la piú allegra  e  ciarliera
donnetta di Bologna; ne teneva a bada quattro, sei, otto; non si musonava né  si
stancava mai; non si sprofondava né in un'osservazione né in un pensiero  né  in
una sbadataggine a segno di dimenticarsi degli  altri;  anzi  sapeva  cosí  bene
distribuire parolette e sorrisi, che n'era  un  poco  per  tutti  e  troppo  per
nessuno. Poteva fidarmi di  lei,  ed  erano  finite  le  tormentose  fatiche  di
Ferrara.  Tutti  intanto  parlavano  chi  della  cugina  chi  della  moglie  chi
dell'amante del signor Intendente; v'aveva chi volea sposarla, e chi  pretendeva
sedurla o rapirmela. Ella s'accorgeva di tutto, ne rideva garbatamente e  se  il
brio lo dispensava ogni dove, l'amore poi lo serbava per me.  Donne  cosí  fatte
piacciono in breve anche alle donne, perché gli uomini  si  stancano  di  cascar
morti per nulla e finiscono col corteggiarle per vezzo, tenendo poi saldi i loro
amori in qualche altro luogo. Cosí dopo un mese la  mia  Pisana,  adorata  dagli
uomini, festeggiata dalle donne, passava per le vie di Bologna come in  trionfo,
e perfino i birichini le correvano dietro gridando: - È la bella veneziana! è la
sposa del signor Intendente! - Non voglio dire se ella ne  invanisse  di  queste
grandi fortune, ma certo sapeva farsene merito presso di me  col  miglior  garbo
della terra. E a me s'intende toccava amare, com'era giusto, in proporzione  dei
desiderii che le formicolavano intorno. Cosí, menando questa  vita  di  continui
piaceri, e di domestica felicità,  non  si  parlava  piú  di  ripartire.  Quando
giungevano lettere da Venezia, appena era se vi metteva sopra gli occhi;  ma  se
la scrittura voltava pagina, ella non la  voltava  di  sicuro,  e  piantavala  a
mezzo. Io poi me le leggeva da capo a fondo, ma aveva cura di nasconderle  tutta
la premura che di tanto in tanto sua madre od il marito le facevano di  tornare.
Questi pareva non fosse piú né tanto geloso né cosí prossimo a  morire;  parlava
di me con vera effusione d'amicizia, come d'uno stretto e carissimo  parente,  e
degli anni futuri come d'una cuccagna che non doveva finir mai.  -  Mostro  d'un
moribondo! - borbottava io. - Pur troppo è  risuscitato!  -  E  quasi  quasi  mi
sentiva in grado io di far il geloso per tutto quel tempo che  la  Pisana  aveva
dimorato presso di lui. Ma ella sbellicava delle risa per queste ubbie: ed io ci
rideva anch'io: però trafugava le lettere, e, buttate ch'ella le  avesse  da  un
canto, mi prendeva ogni briga perché non le capitassero  piú  in  mano.  La  sua
smemorataggine mi serviva in ciò a cappello. Quanto  alla  sua  lunga  dimora  a
Venezia, ecco come stava la cosa; o meglio com'essa me  l'ebbe  a  raccontare  a
pezzi a bocconi secondoché l'estro lo permetteva. Sua madre convalescente l'avea
pregata almeno per convenienza di far una visita al marito moribondo, la  quale,
diceva lei, sarebbe riescita graditissima. Infatti la Pisana si era adattata;  e
poi lo stato del poveruomo, le sue strettezze finanziarie (a tanto ei si  diceva
scaduto dalla pristina  opulenza),  l'abbandono  nel  quale  viveva,  le  aveano
toccato il cuore e persuasala a rimanere presso di  lui,  com'egli  ne  mostrava
desiderio. Era stata tutta bontà: ed io pur lamentandone i  brutti  effetti  per
me, non potei a meno di lodarnela in fondo al cuore, e di innamorarmene vieppiù.
Peraltro potete credere che io andava molto cauto nello strapparle di bocca tali
confidenze; e non vi insisteva mai che un attimo un lampo, perché  col  batterla
troppo aveva una paura smisurata di ravvivarle in mente tutte quelle cagioni  di
pietà, e di metterla in voglia di partire. Io era abbastanza giusto per  lodare,
abbastanza egoista per impedire questi atti di eroica virtù;  e  per  avventura,
essendo la Pisana una creatura molto buona e pietosa ma ancor piú sbadata a  tre
tanti, mi venne fatto di trattenerla in feste in canti in  risa  per  quasi  sei
mesi. Tuttavia io vedeva crescere con ispavento il numero e l'eccitamento  delle
lettere; ma vedendo che non ne veniva alcun guaio, mi ci abituai, e credetti che
quella  beatitudine  non  dovesse  finir  piú.  Di  ministro  delle  Finanze,  e
vice-presidente e presidente della Repubblica, m'era ridotto ancora modestamente
tranquillamente al mio posto;  e  se  gli  altri  facevano  le  belle  cose  che
frullavano in capo a me, avrei giudicato comodissimo di non mi  muovere.  Poveri
mortali, come son caduche le nostre felicità!... L'istituzione  d'una  diligenza
tra Padova e Bologna fu che  mi  rovinò.  Il  conte  Rinaldo,  che  non  avrebbe
sofferto per la sua debolezza di stomaco un viaggio per acqua fino a Ferrara o a
Ravenna, approfittò con assai piacere della diligenza, mi venne tra  i  piedi  a
Bologna, eppur nessuno l'aveva chiamato; si fece condurre alla Madonna di Monte,
alla Montagnola, a San Petronio, e per mercede di tutto ciò mi condusse  via  la
Pisana sul terzo giorno. Alla vista del fratello tutta la sua compassione  s'era
raccesa, tutti i suoi scrupoli la punzecchiavano; e non ch'ella accondiscendesse
ad un suo invito, ma fu anzi la prima a proporglisi per  compagna  nel  ritorno.
Quell'assassino  non  disse  nulla;  non  rispose  nemmeno  ch'egli  era  venuto
espressamente per ciò. Volle lasciarmi nella credula  illusione  ch'egli  avesse
trottato da Venezia a Bologna per la curiosità di veder San Petronio. Ma io  gli
avea letto negli occhi fin dal primo sguardo; e mi arrabbiai di vederlo riescire
nel suo intento senza pur l'incommodo di  una  parola.  Che  dovesse  esser  piú
destro e potente in politica donnesca un topo di libreria sucido unto e cisposo,
che un amante bellino giovine ed Intendente? - In certi casi sembra  di  sí:  io
rimasi a soffiare ed a mordermene le dita. Mi rimisi dunque  al  fatto  mio,  di
schiena; per isvagarmi se non altro dalla noia che mi  tormentava.  E  lavorando
molto, e dimenticando il piú che poteva, diventai a poco a  poco  un  altr'uomo;
sta a voi a decidere se migliore o peggiore. M'andarono svaporando  dal  capo  i
fumi della poesia; cominciai a sentir il peso dei trent'anni che già stavano per
piombarmi addosso, ed a fermarmi volentieri a tavola ed a dividere  l'amore  che
sta nell'anima da quello che solletica il corpo.  Scusate;  mi  pare  di  avervi
detto che mi faceva altr'uomo; ma la mia opinione si è  che  mi  veniva  facendo
bestia. Per me chi perde la gioventù della mente non può che scadere dallo stato
umano a qualche altra piú bassa condizione animalesca. La parte di  ragione  che
ci differenzia dai bruti non è quella che calcola il proprio utile e procaccia i
commodi e fugge la fatica, ma l'altra che appoggia i proprii giudizi alle  belle
fantasie e alle grandi speranze  dell'anima.  Anche  il  cane  sa  scegliere  il
miglior boccone, e scavarsi il letto nella paglia prima di  accovacciarvisi;  se
questa è ragione, date dunque  ai  cani  la  patente  di  uomini  di  proposito.
Peraltro vi dirò che quella vita cosí miope e bracciante aveva allora una scusa;
c'era una grande intelligenza che pensava per noi, e la cui volontà  soperchiava
tanto la volontà di tutti che con poca spesa d'idee si vedevano  le  gran  belle
opere. Adesso invece brillano le idee, ma di opere non se ne vedono  né  bianche
né nere; tutto per quel gran malanno che chi ha capo non ha braccia;  e  a  quel
tempo invece le braccia di Napoleone s'allargavano per mezza Europa e per  tutta
Italia a sommoverne a risvegliarne le assopite forze vitali.  Bastava  ubbidire,
perché  una  attività  miracolosa  si  svolgesse  ordinatamente  dalle   vecchie
compagini della nazione. Non voglio far pronostici; ma se  si  fosse  continuato
cosí una ventina d'anni ci saremmo abituati a rivivere, e la vita  intellettuale
si sarebbe destata dalla materia, come nei malati che guariscono.  A  vedere  il
fervore di vita che animava allora mezzo il mondo c'era da perder la  testa.  La
giustizia s'era impersonata una ed eguale per  tutti;  tutti  concorrevano  omai
secondo la loro capacità al movimento sociale; non si intendeva, ma  si  faceva.
S'avea voluto un esercito, e un esercito  in  pochi  anni  era  sorto  come  per
incanto.  Da  popolazioni  sfibrate  nell'ozio  e  viziate  dal   disordine   si
coscrivevano legioni di soldati sobri ubbidienti valorosi. La forza comandava il
rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll'ordine colla  disciplina.  La
prima volta ch'io vidi schierati in piazza  i  coscritti  del  mio  Dipartimento
credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere  a  tanto,  e  che
cosí si potessero mansuefare con una legge  quei  volghi  rustici  quelle  plebi
cittadine che s'armavano  infino  allora  soltanto  per  batter  la  campagna  e
svaligiare i passeggieri. Da questi principii m'aspettava  miracoli  e  persuaso
d'essere in buone mani non cercai piú dove si  correva  per  ammirare  il  modo.
Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e  assennata  dalla
nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran  consesso
dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i  giorni.  Il  pacificatore  della
Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue  imprese  future;  credeva
riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato  alla  Repubblica  Cisalpina
che presagiva nuovi  ed  altissimi  destini.  Quando  Lucilio  mi  scriveva  che
s'andava di male in  peggio,  che  abdicando  dall'intelligenza  sperava  in  un
liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli
dava fra me del pazzo e dell'ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava
agli affari della mia intendenza. Credo che mi felicitassi perfino  dell'assenza
della Pisana, perché la solitudine e la quiete mi  lasciavano  miglior  agio  al
lavoro e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi. - Viva il
signor Ludro!... - Cosí vissi quei non pochi mesi tutto impiegato  tutto  lavoro
tutto fiducia senza pensare da me, senza guardar fuori  dal  quadro  che  mi  si
poneva dinanzi agli occhi. Capisco ora che quella non è vita propria a svegliare
le nostre facoltà, e a invigorire le forze dell'anima; si cessa di esser  uomini
per diventar carrucole. E si sa poi cosa restano le carrucole se si dimentica di
ungerle al primo del mese. Fu sventura o fortuna? - Non so: ma la  proclamazione
dell'Impero Francese mi snebbiò un poco gli occhi. Mi guardai attorno e  conobbi
che non era piú padrone di me; che l'opera mia giovava ingranata in quelle altre
opere che mi si svolgevano sotto e sopra a suon di tamburo. Uscir di  là,  guai;
era un rimaner zero.  Se  tutti  erano  nel  mio  caso,  come  avea  ragione  di
dubitarne, le paure di Lucilio non andavano troppo lontane dal  vero.  Cominciai
un severo esame di coscienza; a riandare la mia vita passata e a vedere come  la
presente le corrispondeva. Trovai  una  diversità,  una  contraddizione  che  mi
spaventava. Non erano piú le stesse massime le stesse lusinghe che dirigevano le
mie azioni; prima era un operaio povero affaticato  ma  intelligente  e  libero,
allora era un coso di legno ben inverniciato ben accarezzato perché mi  curvassi
metodicamente e stupidamente a parar innanzi una macchina. Pure volli star saldo
per non precipitare un giudizio, certo oggimai che non sarei sceso un passo  piú
giù in quella scala di servilità. Quando arrivò la notizia del  mutamento  della
Repubblica in un Regno d'Italia, presi le poche robe, i pochi scudi  che  aveva,
andai difilato a Milano, e diedi la  mia  dimissione.  Trovai  altri  quattro  o
cinque colleghi  venuti  per  l'egual  bisogna  e  ognuno  credeva  trovarne  un
centinaio a fare il bel colpo. Ci ringraziarono tanto, ci risero  in  grugno,  e
notarono i nostri nomi sopra un libraccio che non era una buona  raccomandazione
pel futuro. Napoleone capitò a Milano  e  si  pose  in  capo  la  Corona  Ferrea
dicendo: - Dio me l'ha data, guai a chi  la  tocca!  -  Io  mi  assettai  povero
privato nelle antiche camerucce di Porta Romana dicendo a mia volta: - Dio mi ha
dato una coscienza, nessuno la comprerà! - Ora i nemici di  Napoleone  trovarono
ardimento e forza bastante a toccare e togliergli del capo quella fatale corona;
ma né la California né l'Australia scavarono finora oro bastante per  pagare  la
mia coscienza. - In quella circostanza io fui il piú vero e il piú forte.


CAPITOLO DECIMONONO

Come i mugnai e le contesse mi proteggessero nel 1805.  Io  perdono  alcuno  de'
suoi torti a Napoleone, quand'egli  unisce  Venezia  al  Regno  d'Italia.  Tarda
penitenza d'un vecchio peccato veniale, per la quale vo in fil di morte;  ma  la
Pisana mi risuscita e mi mena secolei in Friuli.  Divento  marito,  organista  e
castaldo. Intanto i vecchi attori scompaiono dalla  scena.  Napoleone  cade  due
volte, e gli anni fuggono muti ed avviliti fino al 1820.

Lucilio s'era rifugiato a Londra; egli aveva amici dappertutto e  d'altra  parte
per un medico come lui tutto il mondo è paese. La Pisana mi avea sempre tenuto a
bada colle sue promesse di venirmi a raggiungere: allora poi,  dopo  abbandonato
l'ufficio, non avea nemmen coraggio di chiamarla a dividere la  mia  povertà.  A
Spiro e  all'Aglaura  sdegnava  di  ricorrere  per  danari;  essi  mi  mandavano
puntualmente i miei trecento ducati ad ogni  Natale;  ma  ne  avea  erogato  due
annualità a pagamento dei debiti lasciati a Ferrara,  e  di  quelle  non  poteva
giovarmi. Rimasi adunque per la prima volta in vita  mia  senza  tetto  e  senza
pane, e con pochissima abilità per procurarmene. Volgeva in capo  mille  diversi
progetti per ognuno dei quali si voleva qualche  bel  gruppetto  di  scudi,  non
foss'altro per incominciare; e cosí di scudi non avendone piú che  una  dozzina,
mi accontentava dei progetti e tirava innanzi. Ogni giorno mi studiava di vivere
con meno. Credo che l'ultimo scudo lo avrei fatto durare un secolo se il  giorno
della partenza di Napoleone per la Germania non me lo avesse rubato uno di  quei
famosi borsaiuoli che si esercitano  per  pia  consuetudine  nelle  contrade  di
Milano. L'Imperatore s'era fatto grasso, e s'avviava  allora  alla  vittoria  di
Austerlitz; io me lo ricordava magro e risplendente ancora delle glorie d'Arcole
e di Rivoli: per diana, che  non  avrei  dato  il  Caporalino  per  Sua  Maestà!
Vedendolo partire fra un popolo accalcato e plaudente  io  mi  ricordo  di  aver
pianto di rabbia. Ma erano lagrime generose, delle quali vado  superbo.  Pensava
fra me: "Oh che non farei io se fossi in quell'uomo!"  -  e  questo  pensiero  e
l'idea delle grandi cose che avrei operato mi  commovevano  tanto.  Infatti  era
egli allora all'apice della sua potenza. Tornava dall'aver fatto rintronare  de'
suoi ruggiti le caverne d'Albione attraverso l'angusto canale  della  Manica;  e
minacciava dell'artiglio onnipotente le cervici di due imperatori.  La  gioventù
del genio di Cesare e la maturità del senno di Augusto cospiravano ad  innalzare
la sua fortuna fuor d'ogni umana immaginazione. Era proprio il nuovo  Carlomagno
e sapeva di esserlo. Ma anch'io dal mio canto inorgogliva di  passargli  dinanzi
senza piegare il ginocchio. "Sei un gigante ma non un Dio!" gli diceva "io ti ho
misurato e trovai la mia fede piú grande di molto e piú eccelsa di te!"  Per  un
uomo che credeva d'aver in tasca uno scudo e non aveva neppur  quello,  ciò  non
era poco. Il bello si fu quando si trattò di mangiare; credo che uomo  al  mondo
non si vide mai in peggior imbroglio. Partendo da  Bologna  e  giovandomi  della
discretezza d'alcuni amici avea fatto denari d'ogni  spillone  d'ogni  anello  e
d'ogni altra cosa che non mi fosse strettamente necessaria. Tuttavia facendo  un
nuovo inventario seppi trovare molti capi di vestiario che mi sopravanzavano; ne
feci un fardello, li portai dal rigattiere  e  intascai  quattro  scudi  che  mi
parvero un milione. Ma l'illusione  non  durò  piú  che  una  settimana.  Allora
cominciai a dar il dente  anche  negli  oggetti  bisognevoli;  camicie,  scarpe,
collarini, vestiti, tutto viaggiava dal rigattiere; avevamo fatto  tra  noi  una
specie di amicizia. La sua bottega era sul canto della contrada dei Tre Re verso
la Posta; io mi vi fermava a far conversazione andando da casa mia verso  Piazza
del Duomo. Alla fine diedi fondo ad ogni mia roba. Per quanto in quel  frattempo
avessi strolicato sulla maniera da cavarmela in un caso tanto urgente, non m'era
venuta neppur un'idea. Una mattina avea  incontrato  il  colonnello  Giorgi  che
veniva dal campo di Boulogne e correva  anch'esso  in  Germania  colla  speranza
d'esser fatto in breve generale. - Entra nell'amministrazione dell'armata: -  mi
diss'egli - ti prometto farti ottenere un bel posto, e ti farai  ricco  in  poco
tempo. - Cosa si fa nell'armata? - soggiunsi io. - Nell'armata  si  vince  tutta
l'Europa, si corteggiano le piú belle donne del mondo, si  buscano  delle  belle
paghe, si fa gran scialo di gloria e si va innanzi. - Sí, sí; ma  per  conto  di
chi si vince l'Europa? - Vattelapesca! c'è senso comune a cercarlo? - Alessandro
mio, non entrerò nell'armata, neppur come spazzino. - Peccato! ed io che sperava
far di te qualche cosa! - Forse non avrei corrisposto, Alessandro! È meglio  che
concentri tutte le tue cure verso di  te.  Diventerai  generale  piú  presto.  -
Ancora due battaglie che mi sbarazzino di due anziani e lo sono di  diritto:  le
palle dei Russi e dei Tedeschi sono mie alleate: questo è il vero modo di vivere
in buona armonia con tutti. Ma dunque tu vuoi proprio tenerci il broncio  a  noi
poveri soldati? - No, Alessandro; vi ammiro e non son capace  d'imitarvi.  -  Eh
capisco! ci vuole una certa rigidezza di muscoli!... Dimmi, e di Bruto Provedoni
hai notizie? - Ottime si può dire. Vive  con  una  sua  sorella  di  diciotto  o
diciannove anni, l'Aquilina, te ne ricordi? le fa da papà, le viene  accumulando
un po' di dote e si guadagna la vita  col  dar  lezioni  in  paese.  Ultimamente
coll'eredità di suo fratello Grifone, ch'è morto a Lubiana per una caduta da  un
tetto, egli comperò dagli altri fratelli la casa a nome proprio e della sorella.
Cosí si liberò anche dalla noia di  vivacchiare  stentamente  insieme  ad  altri
inquilini cenciosi e pettegoli.  Credo  che  se  potesse  accasare  decentemente
l'Aquilina non sarebbe uomo piú beato di lui. - Vedi come siamo noi  soldati?...
Restiamo felici anche senza gambe! - Bravo, Alessandro: ma io non voglio  perder
le gambe per nulla. Son capitali che bisogna investirli bene o  tenerseli.  -  E
dici nulla tu, in otto anni al piú diventar generale! Non è un bell'interesse? -
Sí a me garba meglio restar con questo vestito e colla mia miseria. - Dunque non
posso aiutarti in nulla? To' che potrei servirti d'una trentina  di  scudi;  non
piú, vedi, perché non sono il soldato piú sparagnino, e tra il giuoco, le  donne
e che so io, la paga se ne va... Ma ora che  ci  penso;  t'adatteresti  anche  a
pigliar  servizio  nel  civile?  Il  buon  colonnello  non  vedeva  nulla  fuori
dell'armata: egli avea già dimenticato  che  un  quarto  d'ora  prima  gli  avea
raccontato tutta la mia carriera nelle Finanze, e la mia  dimissione  volontaria
dal posto d'intendente. Fors'anco supponeva che le Finanze non fossero altro che
uffici supplettori all'esercito per  provvederlo  di  vitto  di  vestito  e  del
convenevole peculio per sostenere gli assalti del faraone e della bassetta. Alla
mia risposta che mi sarei contentato d'ogni impiego che non fosse pubblico, egli
fece col viso un certo atto come di chi è costretto a togliere ad  alcuno  buona
parte della sua stima: tuttavia non ne  rimase  affievolita  per  nulla  la  sua
insigne bontà. - A Milano ho una padrona di casa - egli soggiunse.  -  Sí,  come
l'avevi a Genova. - Eh! Tutt'altro! Quella  era  spilorcia  come  uno  speziale,
questa invece splendida piú d'un ministro. A quella ho dovuto rubare il gatto, e
da questa se volessi potrei farmi regalare un diamante al giorno. È una  riccona
sfondata, che ha corso il mondo a' suoi tempi, ma ora dopo una  vistosa  eredità
s'è rimessa in regola ed ha voce di compita signora: non piú colla lanuggine del
pesco sulle guance, ma vezzosa ancora e leggiadra al  bisogno;  massime  poi  in
teatro quand'è un po' animata. Figurati! Essa mi  ha  preso  a  volere  un  bene
spropositato ed ogni volta che passo per Milano mi vuole presso  di  sé:  mi  ha
perfin detto in segreto che se avesse vent'anni invece di trenta vorrebbe partir
con me per la guerra. - E che c'entra questa signora  con  me?  -  Che  c'entra?
diavolo! tutto!  Essa  ha  molte  relazioni  ben  in  alto;  e  ti  raccomanderà
validamente per quel posto che vorrai. Se poi  ti  quadra  meglio  un  ministero
privato, credo che la  sua  amministrazione  sia  abbastanza  vasta  per  offrir
impiego anche a te. - Ricordati che io non voglio rubar il pane a nessuno; e che
se lo mangio intendo anche guadagnarmelo colle mie fatiche. - Eh! sta' pur cheto
che non avrai scrupoli da questo lato. Tu credi forse che sia come nelle  nostre
fattorie del Friuli, dov'è comune la storia che il fattore si fa ricco a  spalle
del padrone tenendo le mani alla cintola! Eh, amico, a Milano se  ne  intendono!
Pagano bene, ma vogliono esser serviti meglio: il ragioniere s'ingrasserà, ma il
padrone non vuol diventar magro per questo. Lo so io come vanno qui le faccende!
Questo disegno non mi sconveniva punto; e benché non avessi una fede cieca nelle
onnipotenti raccomandazioni e nella splendida padrona del buon colonnello, pure,
accortomi che solo non era buono a nulla, mi tenni contento  di  provar  l'aiuto
degli altri. Tornai a casa a spazzolarmi l'abito per la presentazione che  dovea
succedere l'indomani. Anch'io ricorsi alla splendidezza  della  mia  padrona  di
casa per un poco di patina da lustrarmi  gli  stivali,  e  sciorinai  sopra  una
seggiola l'unica camicia che mi rimaneva dopo quella che  portava  addosso.  Nel
candore di questa mi deliziava gli  occhi,  consolandoli  della  sparutezza  del
resto. Il mattino appresso venne l'ordinanza del colonnello ad avvertirmi che la
signora aveva accolto benissimo la proposta, ma la  desiderava  ch'io  le  fossi
presentato la sera, essendo quello giorno di gran faccende  per  lei.  Io  diedi
un'occhiata agli stivali e alla camicia, lamentando quasi di non esser rimasto a
letto per conservar loro l'originaria freschezza fino al  solenne  momento;  poi
pensando che di sera non vi si abbada tanto pel sottile, e che un  ex-intendente
doveva possedere ripieghi di  vivacità  e  di  coltura  da  far  dimenticare  la
soverchia modestia del proprio arnese, risposi all'ordinanza che sarei andato  a
casa del colonnello verso le otto, ed  uscii  poco  stante  di  casa.  Venne  il
momento della colazione e lo lasciai passare  senza  palparmi  il  taschino;  fu
un'eroica deferenza per l'ora successiva del pranzo. Ma scoccata questa vi  misi
entro le mani e ne cavai  quattro  bei  soldi  che  in  tutti  facevano,  credo,
quindici centesimi di franco. Non credeva per verità di esser tanto povero; e la
quadratura del circolo mi parve problema  molto  piú  facile  del  pranzo  ch'io
doveva cavare da sí meschina moneta. E sí  che  non  era  stato  Intendente  per
nulla, e di bilanciare le  entrate  colle  spese  doveva  intendermene  piú  che
ogn'altro! - Adunque, senza abbattermi di coraggio, provai. - Un soldo di  pane,
due di salato ed uno d'acquavite per rifocillarmi lo stomaco e  prepararlo  alla
visita della sera. - Per carità! cos'era mai un soldo di pane per  uno  che  non
avea toccato cibo da ventiquattr'ore! - Rifeci il conto; due soldi di pane,  uno
di cacio pecorino, e il solito di racagna. - Poi trovai che quel soldo di  cacio
era un pregiudizio, un'idea aristocratica per dividere il pranzo in pane  ed  in
companatico. Era meglio addirittura far tre soldi  di  pane.  E  infatti  entrai
coraggiosamente da un fornaio; li comperai e in quattro morsicate furono messi a
posto. M'accorsi con qualche sgomento di non sentire né  una  lontana  ombra  di
sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d'un ultimo  panetto  e
lo misi accanto agli altri. Dopo  questo  piccolo  trattenimento  i  miei  denti
restavano ancora molto inquieti e razzolando le briciole che si erano  fuorviate
andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: "Che sia finita
la festa?" "È proprio finita!" risposi io, e sí che mi sentiva lo stomaco  ancor
piú spaventato dei denti! - Allora mi presi un lecito trastullo  d'immaginazione
che m'avea servito anche molti giorni prima per  ingannar  l'appetito:  feci  la
rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati  a
Milano. L'abate Parini, morto da  sei  anni  e  leggero  di  pranzo  anche  lui;
Lucilio, partito per la Svizzera; Ugo Foscolo, professore d'eloquenza  a  Pavia;
de' miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di  casa  dandomi  la
sera prima la patina aveva uncinato un  certo  suo  nasaccio  che  voleva  dire:
"State indietro con questi brutti scherzi!" Rimaneva il colonnello Giorgi; ma vi
confesso che mi vergognava: come anche dubito che mi sarei vergognato  di  tutti
gli altri se fossero stati a Milano, e che sarei  morto  di  fame  piuttosto  di
farmi pagare un caffè e panna da Ugo  Foscolo.  Ad  ogni  modo  era  sempre  una
consolazione di poter pensare mentre  pungeva  l'appetito:  cosí  esaurito  quel
passatempo, mi trovai piú infelice di prima e peggio  poi  quando  passando  per
Piazza Mercanti m'avvidi che erano appena le cinque. "Tre ore  ancora!".  Temeva
di non arrivar vivo al momento della visita, o almeno di dovervi  fare  un'assai
affamata figura. Diedi opera a svagarmi con  un  altro  stratagemma.  Pensai  da
quante parti avrei potuto aver prestiti regali  soccorsi,  solo  che  li  avessi
desiderati. Mio cognato Spiro, i miei amici  di  Bologna,  i  trenta  scudi  del
colonnello Giorgi, il Gran Visir... Per bacco! fosse la  fame  od  altro,  o  un
favore particolare della Provvidenza, quel giorno mi fermai piú  del  solito  su
quell'idea del Gran Visir. Mi ricordai sul serio di avere nel taccuino il vaglia
d'una somma ingente firmato da un  certo  giroglifico  arabo  ch'io  non  capiva
affatto; ma la casa Apostulos aveva molti  corrispondenti  a  Costantinopoli,  e
qualche autorità sui banchieri armeni che scannavano il sultano d'allora;  corsi
a casa senza pensar piú all'appetito; scrissi una lettera a Spiro, vi inclusi il
vaglia e la portai allegramente alla  Posta.  Ripassando  per  Piazza  Mercanti,
l'orologio segnava sette e tre quarti;  m'avviai  dunque  verso  l'alloggio  del
colonnello; ma la speranza del Gran Visir l'aveva lasciata alla Posta; e proprio
sull'istante solenne fatale, tornava a farsi sentire la fame. Sapete  cosa  ebbi
il coraggio di pensare in quel momento? Ebbi il coraggio di  pensare  ai  grassi
pranzi bolognesi dell'anno prima; e di trovarmi piú contento cosí com'era allora
a stomaco digiuno. Ebbi il coraggio di confortarmi meco stesso di esser  solo  e
che il caso avesse preservato la Pisana dal farsi compagna di tanta mia  inedia.
Il caso? Questa parola non mi poteva passare. Il caso a  guardarlo  bene  non  è
altro il piú delle volte che una manifattura degli uomini: e perciò temeva non a
torto che la smemorataggine, la  freddezza,  fors'anco  qualche  altro  amoruzzo
della Pisana l'avessero svogliata di me. "Ma ho poi  ragione  di  lamentarmene?"
seguitava col pensiero. "Se mi ama meno, non è giustizia?...  Che  ho  fatto  io
tutto l'anno passato?". Cosa volete? Trovava tutto ragionevole tutto  giusto  ma
questo sospetto di essere dimenticato e abbandonato dalla Pisana per sempre,  mi
dava per lo meno tanto martello quanto la fame. Non era piú il furore, la smania
gelosa d'una volta, ma uno sconforto pieno d'amarezza, un  abbattimento  che  mi
faceva perdere il desiderio di vivere. Sbattuto fra questi varii  dolori,  salii
dal signor colonnello il quale  leggeva  i  rapporti  settimanali  dei  capitani
fumando come aveva fumato io quand'era intendente, e inaffiandosi  a  tratti  la
gola con del buon anesone di Brescia. - Bravo Carletto! - sclamò egli offrendomi
una seggiola. - Versane un bicchiere anche per te,  che  mi  sbrigo  subito.  Io
ringraziai, sedetti e volsi un'occhiata per la  stanza  a  vedere  se  ci  fosse
focaccia panettone o qualche ingrediente da maritarsi coll'anesone  per  miglior
ristoro del mio stomaco. C'era proprio nulla. Io mi versai  un  bicchiere  colmo
raso di quel liquore balsamico, e giù a piena gola che mi parve  un'anima  nuova
che entrasse. Ma si sa cosa succede da quel tafferuglio tra l'anima vecchia e la
nuova, massime in uno stomaco affamato. Successe che perdetti la  tramontana,  e
quando mi alzai per tener dietro al colonnello, era tanto allegro tanto parolaio
quanto nel sedermi era stato grullo e mutrione. Il soldataccio se ne  congratulò
come d'un buon pronostico, e nel salir le scale mi esortava a mostrarmi pur gaio
lesto arditello, ché alle donne di mezza età e che non hanno tempo  da  perdere,
piacciono cotali maniere. Figuratevi! io era tanto gaio che fui per dar il  naso
sull'ultimo gradino: peraltro insieme a tali doti me se ne sviluppò un'altra, la
sincerità, e questa al solito mi fece fare il primo marrone. Quando il  portiere
ci  ebbe  aperto  e  il  colonnello  mi  ebbe  introdotto  nell'anticamera,   io
ballonzolava che non mi pareva di toccare il pavimento.  -  Chi  s'immaginerebbe
mai - dissi a voce altissima -  chi  s'immaginerebbe  mai  che  cosí  come  sono
sdilinquisco per la fame? Il portiere si  volse  meravigliato  a  guardarmi  per
quanto i canoni del suo  mestiere  glielo  vietassero.  Alessandro  mi  dié  una
gomitata nel fianco. - Eh matto! - diss'egli - sempre colle tue baie.  -  Eh  ti
giuro che non son baie, che... ahi, ahi, ahi!... Il colonnello mi diede un  tale
pizzicotto che non potei tirar innanzi nella contesa e dovetti interromperla con
questa triplice interiezione. Il portiere si voltò a guardarmi  e  questa  volta
con tutto il diritto. - Nulla, nulla - soggiunse il colonnello - gli ho  pestato
un callo! Fu un bel trovato cosí di sbalzo; ed  io  non  giudicai  opportuno  di
difendere la verginità de' miei piedi perché appunto in quella  eravamo  entrati
nella sala della signora. Il colonnello s'accorgeva allora del pericolo,  ma  si
era in ballo e bisognava ballare; un veterano di Marengo doveva  ignorar  l'arte
delle ritirate. In una luce morta e rossigna che pioveva da  lampade  appese  al
soffitto e affiocate da cortine di seta rossa, io vidi o mi parve vedere la dea.
Era seduta sopra un fianco in una di quelle sedie curuli che il  gusto  parigino
aveva dissotterrato dai costumi repubblicani di Roma  e  che  perdurarono  tanto
sotto l'impero d'Augusto che  sotto  quello  di  Napoleone.  La  veste  breve  e
succinta contornava forme non dirò quanto salde, ma certo molto ricche; una metà
abbondante del petto rimaneva ignuda: io non mi fermai  a  guardare  con  troppo
piacere, ma sentii piuttosto un solletico ai denti, una voglia  di  divorare.  I
fumi dell'anesone mi lasciavano travedere che quella era carne, e mi  lasciavano
soltanto quel barbaro barlume di buonsenso che resta ai  cannibali.  La  signora
parve soddisfattissima della buona impressione prodotta sopra di me, e chiese al
colonnello se fossi  io  quel  giovane  che  desiderava  impiegarsi  in  qualche
amministrazione. Il colonnello si affrettò a rispondere di sí, e s'ingegnava  di
stornare  da  me  l'attenzione  della  signora.  Sembrava  invece   che   costei
s'invaghisse sempre piú del mio bel contegno perché non cessava  dall'osservarmi
e dal volgere il discorso a me,  trascurando  affatto  il  colonnello.  -  Carlo
Altoviti, mi sembra - disse con gentilissimo sforzo di memoria  la  signora.  Io
m'inchinai diventando tanto rosso che mi  sentiva  scoppiare.  Erano  crampi  di
stomaco. - Sembrami - continuò ella - aver osservato questo nome se non isbaglio
l'anno scorso nell'annuario della nostra alta magistratura. Io diedi una postuma
gonfiata in memoria della mia intendenza, e mi tenni ritto e pettoruto mentre il
colonnello rispondeva che infatti io era stato preposto alle Finanze di Bologna.
- E c'intendiamo - soggiunse la signora a mezza voce inchinandosi verso di me  -
il nuovo governo... queste sue massime... insomma vi siete  ritirato!  -  Già  -
risposi con molto sussiego, e senza aver nulla capito.  Allora  cominciarono  ad
entrar in sala conti, contesse, principi, abati, marchesi, i quali venivano mano
a mano annunciati dalla voce stentorea del portiere: era un profluvio di don che
mi tambussava le orecchie, e diciamolo imparzialmente,  quel  dialetto  milanese
raccorciato e nasale non è fatto per ischiarire le idee ad un ubbriaco. In  buon
punto il colonnello s'avvicinò alla padrona di casa per accomiatarsi; io non  ne
poteva piú. Essa gli disse all'orecchio che tutto era già  combinato  e  che  ne
andassi difilato il giorno appresso alla ragioneria ove mi  avrebbero  assegnato
il mio compito e dettomi le condizioni del servigio. Io ringraziai  inchinandomi
e strisciando i piedi, sicché una dozzina di quei don muti e stecchiti si  volse
meravigliata a guardarmi; indi  battendo  fieramente  i  tacchi  al  fianco  del
colonnello m'avviai fuori della sala. L'aria aperta mi fece bene; perché  mi  si
rinfrescò d'un tratto il cervello, e fra i miei sentimenti si intromise  un  po'
di vergogna dello stato in cui m'accorgeva essere, e  della  brutta  figura  che
temeva aver sostenuto nella conversazione della  Contessa.  Peraltro  mi  durava
ancora una buona dose di sincerità; e cominciai  a  lamentarmi  della  fame  che
avevo. - Non hai altro? - mi disse il colonnello. - Andiamo al Rebecchino  e  là
te la caverai. - Non mi ricordo bene se dicesse il Rebecchino; ma mi pare di sí,
e che in fin d'allora ci fosse a Milano questa  mamma  delle  trattorie.  Io  mi
lasciai condurre; me ne diedi una gran satolla senza  trar  fiato  o  pronunciar
parola, e mano a mano che lo stomaco tornava  in  pace,  anche  il  capo  mi  si
riordinava. La vergogna mi venne crescendo sempre fino al momento di  pagare;  e
allora stava proprio per rappresentare la commediola solita degli spiantati,  di
palpar cioè il taschino  con  molta  sorpresa,  e  di  rimproverarmi  della  mia
maledetta sbadataggine per la borsa perduta o dimenticata; quando una piú onesta
vergogna mi trattenne da questa impostura. Arrossii di essere stato piú  sincero
durante l'ubbriachezza che dopo, e confessai netta e schietta ad  Alessandro  la
mia estrema povertà. Egli andò allora in collera che  gliel'avessi  nascosta  in
fino allora; volle consegnarmi a forza quei trenta scudi che aveva  e  che  dopo
pagato il conto non rimasero che ventotto; e si  fece  promettere  che  in  ogni
altro bisogno avrei ricorso a lui  che  di  poco  sí,  ma  con  tutto  il  cuore
m'avrebbe sovvenuto. - Intanto domani io devo partire senza remissione pel campo
di Germania - egli soggiunse - ma parto colla lusinga  che  questi  pochi  scudi
basteranno a farti aspettare senza incommodi la prima paga che ti verrà  contata
presto: forse anco dimani. Coraggio Carlino; e ricordati  di  me.  Stasera  devo
abboccarmi coi capitani del mio reggimento per  alcune  istruzioni  verbali;  ma
domattina prima di partire verrò a darti un bacio. Che dabbene d'un  Alessandro!
Era in lui un certo miscuglio di soldatesca rozzezza e di bontà femminile che mi
commoveva: gli mancavano le cosí dette virtù civiche d'allora, le  quali  adesso
non saprei come chiamarle, ma gliene sovrabbondavano tante altre che  si  poteva
fare la grazia. La mattina all'alba egli fu a baciarmi ch'io dormiva ancora.  Io
piangeva per l'incertezza di non averlo forse a rivedere mai piú, egli  piangeva
sulla mia cocciutaggine di volermi  rimanere  oscuro  impiegatuccio  in  Milano,
mentre poteva andar dietro a lui e diventar  generale  senza  fatica.  Di  cuori
simili al suo se ne trovano pochi: eppure egli augurava di gran cuore  la  morte
di tutti i suoi colleghi per avere un grostone piú alto sul cappello e  trecento
franchi di piú al mese. Questa è la carità fraterna insegnata anzi imposta anche
agli animi pietosi e dabbene dal governo napoleonico! Quando fu ora  convenevole
io mi vestii con tutta la  cura  possibile,  e  n'andai  alla  ragioneria  della
contessa Migliana. Un certo signore  grasso  tondo  sbarbato  con  cera  e  modi
affatto patriarcali m'accolse si  può  dire  a  braccia  aperte:  era  il  primo
ragioniere, il segretario della padrona. Egli mi condusse  per  prima  cerimonia
alla cassa ove mi furono contati sessanta scudi fiammanti per onorario del primo
trimestre. Indi mi condusse ad uno scrittoio ove erano molti librattoli  unti  e
gualciti e in mezzo un librone piú grande sul quale almeno si potevano posar  le
mani senza sporcarsele. Mi disse ch'io sarei stato per allora il maestro di casa
il maggiordomo della signora Contessa, almeno finché restasse  libero  un  posto
piú confacente agli alti miei meriti. Infatti cascare dall'Intendenza di Bologna
all'amministrazione d'una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto  io
sia in origine patrizio veneto dell'antichissima e romana nobiltà  di  Torcello,
la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla  piú  alto  il
bisogno. Per me sono della opinione di  Plutarco,  che  sopraintendeva,  dicesi,
agli spazzaturai di Cheronea coll'egual dignità  che  se  avesse  presieduto  ai
Giuochi olimpici. La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una  maggiore
dimestichezza colla signora Contessa: ecco due  cose  le  quali  non  so  se  mi
garbassero o meno; ma mi proponeva di  togliere  alla  signora  la  brutta  idea
ch'ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai
contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità  che  cotali
elogi mi sorpresero, e che alle signore  milanesi  dovessero  piacer  tanto  gli
ubbriachi non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò piú da pari a pari  che
da padrona  a  maggiordomo,  squisitezza  che  mi  racconsolò  della  mia  nuova
condizione, e mi fece scrivere all'Aglaura, a Lucilio,  a  Bruto  Provedoni,  al
colonnello, alla Pisana, lettere piene d'entusiasmo  e  di  gratitudine  per  la
signora Contessa. Verso la Pisana poi io intendeva con ciò vendicarmi della  sua
trascuratezza; e cercare  di  stuzzicarla  un  poco  colla  gelosia.  La  strana
vendetta ch'ella avea tratto altre volte d'una mia supposta infedeltà non m'avea
illuminato abbastanza. Ma dopo cinque e sei giorni cominciai ad  accorgermi  che
la Pisana non poteva avere tutto  il  torto  ad  ingelosire  della  mia  signora
padrona. Costei usava verso di me in una tal maniera che o io era un gran  gonzo
o  m'invitava  a  confidenze  che  non  entrano  di  regola  nei  diritti   d'un
maggiordomo. Cosa volete? Non tento né scusarmi, né nascondere. Peccai. La  casa
della Contessa era delle piú frequentate di Milano, ma in onta  al  temperamento
allegro della padrona di casa le conversazioni non mi parevano né disinvolte  né
animate. Una certa malfidenza, un sussiego spagnolesco teneva strette le  labbra
e oscure le fronti di tutti quei signori; e poi,  secondo  me,  scarseggiava  la
gioventù, e la poca che vi interveniva era  cosí  grulla  cosí  scipita  da  far
pietà. Se quelle erano le speranze della patria, bisognava farsi il segno  della
croce e sperar in Dio. Perfino la signora, che al  tu  per  tu  o  in  ristretto
crocchio di  famiglia  era  vivace  e  corriva  forse  piú  del  bisogno,  nella
conversazione invece assumeva un contegno arcigno e impacciato,  una  guardatura
tarda e severa, un modo di mover le labbra che pareva piú adatto a mordere che a
parlare ed a sorridere. Io non ci capiva nulla: massime  allora  poi,  con  quel
fervore di vita messoci in corpo dalla convulsa attività  del  governo  italico.
Due settimane dopo ne capii qualche cosa. Fu annunziato un ospite da Venezia,  e
rividi con mia somma meraviglia e dopo tanti anni l'avvocato Ormenta.  Egli  non
mi conobbe, perché l'età e le fogge mutate mi rendevano  affatto  diverso  dallo
scolaretto di Padova; io finsi di non conoscer lui  perché  non  mi  garbava  di
rappiccarla per nessun verso. Sembra ch'egli venisse a Milano  per  raccomandare
sé ed i suoi alla valida protezione della Contessa; infatti a quei giorni fu  un
andirivieni maggiore del  solito  di  generali  francesi  e  di  alti  dignitari
italiani. Alcuni ministri del nuovo Regno stettero chiusi molte ore coll'egregio
avvocato; ed io mi struggeva indarno di sapere perché mai  dovesse  immischiarsi
nelle faccende del governo francese in  Italia  un  consigliere  principale  del
governo austriaco. Anche questo lo seppi poco  dopo.  L'accorto  avvocato  aveva
preveduto la battaglia di Austerlitz e le  sue  conseguenze;  egli  passava  dal
campo di Dario a quello d'Alessandro per rimediare dal canto suo ai danni  della
sconfitta. A chi poi si meravigliasse di veder maneggiata da dita femminili  una
sí importante matassa, risponda la storia che le  donne  non  ebbero  mai  tanta
ingerenza nelle cose di Stato, quanto durante i predominii militari.  Lo  sapeva
la mitologia greca che mescolò sempre  nelle  sue  favole  Venere  a  Marte.  Le
notizie prime della vittoria di Austerlitz giunsero a Milano innanzi al  Natale;
se ne fece un grande scalpore. E crebbe  quando  si  ebbe  contezza  della  pace
firmata il giorno di santo Stefano a Presburgo, per la quale il  Regno  d'Italia
s'allargava ne' suoi confini naturali fino  all'Isonzo.  Io  dimenticai  per  un
istante la quistione della libertà per mettermi tutto  nella  gioia  di  riveder
Venezia, e la Pisana, e mia sorella e Spiro e i nipoti,  e  i  carissimi  luoghi
dove s'era  trastullata  la  mia  infanzia  e  viveva  pur  sempre  tanta  parte
dell'anima mia. Le lettere che mi scrisse allora la Pisana non voglio  ridirvele
per non tirarmi addosso un troppo grave cumulo d'invidia. Io non  mi  capacitava
come tutti questi struggimenti potessero combinarsi colla  noncuranza  dei  mesi
passati; ma la contentezza presente vinceva tutto, soperchiava tutto. Pensando a
null'altro, io salii dalla signora Contessa colle lagrime agli occhi,  e  lí  le
dichiarai che dopo la pace di Presburgo... - Cosa mai?... Cosa c'è di nuovo dopo
la pace di Presburgo? - mi gridò la signora tirando gli occhi come una vipera. -
C'e di nuovo ch'io non posso piú fare né l'intendente, né  il  maggiordomo...  -
Ah! mascalzone! E me lo dite in questa maniera?... Son proprio stata  una  buona
donna io a mettere... tutta la mia confidenza in voi!... Uscitemi pure dai piedi
e che non vi vegga mai piú!... Era tanto fuori  di  me  dalla  consolazione  che
questi maltrattamenti mi fecero l'effetto  di  carezze:  non  fu  che  dopo,  al
tornarci sopra, che m'accorsi della porcheria commessa nell'accomiatarmi in quel
modo. Certi favori non  bisogna  dimenticarseli  mai  quando  una  volta  furono
accettati per favori, e chi se ne dimentica merita esser trattato  a  calci  nel
sedere. Se la Contessa usò meco con minore durezza, riconosco ora che  fu  tutta
sua indulgenza; perciò non mi diede mai il cuore di unirmi  ai  suoi  detrattori
quando ne udii dire tutto il male che vedrete in appresso. La Pisana mi  accolse
a Venezia col giubilo piú romoroso  di  cui  ell'era  capace  ne'  suoi  momenti
d'entusiasmo. Siccome io avea provveduto che mi si lasciasse  libero  almeno  un
appartamentino della mia casa, ella voleva ad ogni costo accasarsi presso di me:
ghiribizzo che troverete abbastanza strano raffrontato colla tenerezza  e  colle
cure da lei prodigate fino allora al marito. Ma il piú strano si  fu  quando  il
vecchio Navagero, disperatissimo di  cotal  risoluzione  della  moglie  e  della
valente infermiera che era in procinto di perdere, mi mandò a pregare in segreto
che piuttosto andassi io ad abitare presso di lui che m'avrebbe veduto con tutto
il piacere. L'era un portar troppo oltra la tolleranza veneziana; e da ciò capii
che l'apoplessia lo aveva liberato perfettamente de' suoi umori  gelosi.  Ma  io
non mi degnai di arrendermi alle gentili preghiere del nobiluomo; feci parte  di
questi miei scrupoli alla Pisana, e suo malgrado pretesi che la restasse  presso
il marito. L'amore avrebbe riguadagnato in freschezza e in sapore quel poco  che
ci perdeva di facilità. Anche Spiro e l'Aglaura mi  volevano  con  loro;  ma  io
aveva fitto il capo nella mia casetta di San Zaccaria, e non mi volli movere  di
là. Cosí vissi spensierato d'ogni cosa e beatissimo fino alla primavera,  stando
il piú che poteva alla larga dalla Contessa di Fratta, da suo figlio, ma godendo
le piú belle ore della giornata in compagnia  della  mia  Pisana.  La  pietà  di
costei per quel vecchio e malconcio carcame del Navagero trascendeva tanto  ogni
misura, che talvolta mi dava perfino gelosia. Succedeva non di rado che dopo  le
visite piú noiose ed importune, rimasti soli un momento ella correva via di volo
per cambiare il cerotto o per versar  la  pozione  al  marito.  Questo  zelo  in
eccesso mi infastidiva e non  potea  fare  che  qualche  fervida  preghiera  non
innalzassi al cielo per ottenere al povero malato le glorie  del  paradiso.  Non
c'è caso. Le donne sono amanti, sono spose, madri, sorelle; ma anzi  tutto  sono
infermiere. Non v'è cane d'uomo  cosí  sozzo  cosí  spregevole  e  schifoso  che
lontano da ogni soccorso e caduto infermo non abbia trovato in qualche donna  un
pietoso e degnevole angelo custode. Una donna perderà ogni sentimento d'onore di
religione di pudore; dimenticherà i doveri piú santi, gli affetti  piú  dolci  e
naturali, ma non perderà mai l'istinto di pietà e di devozione ai patimenti  del
prossimo. Se la donna non fosse  intervenuta  necessaria  nella  creazione  come
genitrice degli uomini, i nostri mali le nostre infermità l'avrebbero  richiesta
del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son  tante,
che le nostre donne sono, si può dire, dalla nascita alla morte occupate  sempre
a medicarci o l'anima o il corpo. Benedette le loro  dita  stillanti  balsamo  e
miele! Benedette le  loro  labbra  donde  sprizza  quel  fuoco  che  abbrucia  e
rimargina!... Gli altri miei conoscenti  di  Venezia  non  parevano  gran  fatto
curanti di me; ove si eccettuino i Venchieredo che cercavano  in  ogni  modo  di
attirarmi, ed io mi teneva discosto con  tutta  la  prudenza  della  mia  ottima
memoria. Dei Frumier il Cavaliere di Malta pareva sepolto vivo; l'altro, sposata
la donzella Contarini e cacciato avanti nelle  Finanze,  era  arrivato  a  farsi
nominar segretario. L'ambizione lo spingeva per una carriera a cui per la  nuova
ricchezza poteva facilmente rinunciare; e con quel suo capolino di oca, giunto a
disegnare la propria firma sotto un  rapporto,  gli  pareva  di  poter  guardare
dall'alto in basso i cavalli di San Marco e gli Uomini delle  Ore.  Mi  sorprese
peraltro assaissimo che tanto lui quanto il Venchieredo l'Ormenta e taluni altri
impiegati dell'usato governo continuassero ad esser sofferti dal nuovo, o  nelle
antiche cariche o in nuovi  posti  abbastanza  importanti  e  delicati.  Siccome
peraltro né cogli usciti né cogli entranti io  aveva  a  partire  la  mela,  non
m'alambicava il cervello di saperne il perché.  Quello  piuttosto  che  mi  dava
alcun fastidio si era che molti degli  amici  miei,  di  Lucilio  d'Amilcare,  e
qualche intriseco di Spiro Apostulos, e mio cognato stesso mi  trattassero  alle
volte con qualche freddezza. Io  non  credeva  di  aver  demeritato  della  loro
amicizia; perciò non mi degnava neppure di  rammaricarmene,  ma  uscii  a  dirne
qualche cosa coll'Aglaura e costei si schivò con dir che suo marito avea  spesso
la testa negli affari, e non potea badare a feste e a cerimonie.  Un  giorno  mi
venne veduto in Piazza un certo  muso  ch'io  non  aveva  incontrato  mai  senza
alquanto rincrescimento; voglio dire il capitano Minato. Io  cercava  sfuggirlo,
ma me lo impedí dieci pertiche lontano con un "ho!" di sorpresa e di piacere:  e
mi convenne trangugiare in santa pace un beverone infinito di quelle  sue  còrse
castronerie. - A proposito! -  diss'egli.  -  Son  passato  per  Milano;  me  ne
congratulo con voi. Anche voi siete passato colà a tempo per  ereditare  le  mie
bellezze. - Che bellezze mi tirate fuori? -  Capperi,  non  è  una  bellezza  la
contessina Migliana?... Da quando io le feci fare il viaggio da Roma ed  Ancona,
la trovai un po' appassitella; ma cosí senza confronti è ancora  un'assai  bella
donna. - Che?... La contessa Migliana è...? - È l'amica d'Emilio Tornoni,  è  il
mio tesoretto del  novantasei!  Quanti  anni  sono  passati!  -  Eh,  giusto!  È
impossibile! Mi date ad intendere delle baie!... La vostra avventuriera  non  si
chiamava cosí, e non possedeva né la fortuna  né  l'entratura  nel  mondo  della
contessa Migliana! - Oh in quanto ai nomi, ve l'assicura io che la Contessa  non
ne ha portato nessuno piú d'un mese! Fu un delicato riguardo per ognuno de' suoi
amanti. Quanto alle ricchezze, lo dovete sapere anche voi che la sua eredità non
le toccò che pochi anni or sono. Del resto il mondo è troppo furbo per diniegare
l'ingresso a chi sa pagarlo bene. Avrete veduto di qual razza  di  gente  è  ora
circondata almeno nelle ore diplomatiche la signora Contessa:  or  bene,  furono
costoro che a prezzo d'un po' di vernice e  di  qualche  elemosina  per  la  pia
causa, acconsentirono a porre un velo sul passato e a raccogliere  la  pecorella
smarrita nel gran grembo dell'aristocrazia...  come  la  chiamano  a  Milano?...
dell'aristocrazia biscottinesca!... - E pertanto... - volli dir io. - E pertanto
volevate dire che, essendo voi maggiordomo in casa sua... non so se mi spiego...
ma non trovaste poi la pecorella cosí  fida  all'ovile  da  non  perdersi  anche
talvolta in qualche pascolo romito,  in  qualche  trastullo  lascivetto  e...  -
Signore, nessuno vi dà il diritto né di straziare l'onor  d'una  dama,  né...  -
Signore, nessuno vi dà il diritto d'impedire che io parli quando parlano  tutti.
- Voi venite da Milano; ma qui a Venezia... - Qui  a  Venezia,  signore,  se  ne
parla forse piú che a Milano!... - Come?... Spero che sarà una vostra  fantasia!
- La notizia è venuta a quanto si dice nel taccuino del consiglier  Ormenta,  il
quale vi fece merito dei vostri amori come d'un'opportuna conversione alla causa
della Santa Fede. - Il consiglier Ormenta, voi dite? -  Sí,  sí,  il  consiglier
Ormenta! Non lo conoscete? - Pur troppo lo conosco!  -  E  mi  diedi  a  pensare
perché, dopo avermi tanto dimenticato da non ravvisarmi piú, si fosse  poi  dato
attorno per seminare cotali spiacevoli ciarle. E non mi venne in capo che egli a
sua volta si potesse credere non conosciuto da me, e  che  il  mio  nome  caduto
qualche volta di bocca alla Contessa lo avesse aiutato a mutare in  certezza  il
sospetto della somiglianza. La gente del suo fare non altro cerca di meglio  che
spargere la diffidenza e la discordia;  ecco  chiarissime  le  cagioni  del  suo
malizioso sparlare. E quanto al resto non m'importava  un  fico  di  saperne  di
meglio; tuttavia, persuasissimo che il Minato m'avesse  reso  un  vero  servigio
coll'aprirmi gli occhi su quella  mariuoleria,  mi  separai  da  lui  con  minor
piacere del solito e tornai presso la Pisana per masticare  meno  amaramente  la
mia rabbia. Trovai quel giorno presso la signorina la visita di un tale che  non
mi sarei aspettato; di Raimondo Venchieredo. Dopo  quanto  avevamo  discorso  di
lui, dopo le mire ch'io gli supponeva sul conto  della  Pisana,  dopo  le  trame
orditele contro a mezzo della Doretta e della Rosa, mi maravigliai moltissimo di
trovarla in tal compagnia. Di piú s'aggiungeva che sapendo ella l'inimicizia non
mai spenta fra me e  Raimondo,  la  doveva  anche  per  riguardo  mio  tenerselo
lontano. Il furbo peraltro non giudicò opportuno incommodarmi a lungo, e  se  la
cavò con un profondo saluto che  equivaleva  ad  un'impertinenza  bell'e  buona.
Partito lui ci bisticciammo fra noi. - Perché ricevi quella razza  di  gente?  -
Ricevo chi voglio io! - Non signora, che  non  devi!  -  Vediamo  chi  mi  potrà
comandare! - Non si comanda, ma si prega! -  Pregare  s'affà  a  chi  ne  ha  il
diritto. - Il diritto io l'ho acquistato mi pare con molti anni di penitenza!  -
Penitenza grassa! - Cosa vorresti dire? - Lo so io, e basta! Cosí continuammo un
pezzetto con quegli alterchi a monosillabi che sembrano botte e risposte a morsi
e ad unghiate; ma non mi venne fatto cavar da quella bocca una parola di piú. Me
ne partii furibondo; ma con tutto il mio furore, la trovai tornando piú fredda e
ingrognata di prima. Non solamente non volle aprirsi meglio,  ma  schivava  ogni
discorso che potesse condurre ad una dichiarazione, e di amore  poi  non  voleva
sentirne  parlare  come  d'un  sacrilegio.  Alla  terza  alla  quarta  volta  si
peggiorava sempre; m'incontrai ancora nel suo stanzino da  lavoro  con  Raimondo
che giocarellava dimesticamente  colla  cagnetta.  E  la  cagnetta  si  mise  ad
abbaiare a me! Per una volta lo sopportai; ma alla  seconda  uscii  affatto  dai
gangheri; al contegno altero e beffardo di  Raimondo  m'accorsi  a  tempo  della
bestialità, e scappai giù per  la  scala  perseguitato  dai  latrati  di  quella
sconcia cagnetta. Oh queste bestiole sono pur barbare e sincere!  Esse  fanno  e
ritirano, a nome delle padrone, dichiarazioni d'amore che non vi si sbaglia d'un
capello. Ma allora io era tanto indemoniato che  di  cagnetta  e  padrona  avrei
fatto un fascio per gettarlo in laguna. Dite ch'io mi vanto d'un'indole  mite  e
rassegnata! Che avrebbe fatto nel mio caso un cervello caldo e impetuoso io  non
lo so. In tutto questo l'unico punto che non appariva oscuro si era la  perfidia
della Pisana verso di me, e il suo invasamento  per  Raimondo  Venchieredo.  Che
costui poi fosse la causa della mia sventura, non lo potea dire  di  sicuro,  ma
amava crederlo per potermi scaricare sopra taluno di quel gran bollore  di  odio
che mi sentiva dentro. Per metter il colmo al mio delirio, ebbi  a  quei  giorni
una lettera da Lucilio cosí agghiacciata, cosí enigmatica che per  poco  non  la
stracciai. Che tutti amici e nemici  si  fossero  data  la  parola  per  menarmi
all'estremo dell'avvilimento e della disperazione?...  Quel  colpo  poi  che  mi
veniva da Lucilio, dall'amico il di cui giudizio io poneva sopra il giudizio  di
tutti, da quello che avea regolato fin'allora la mia coscienza, e tenutomi luogo
di quella costanza di quella robustezza che talvolta mi mancavano, un tal  colpo
dico, mi tolse perfino il discernimento della mia disgrazia. Cosa  non  aveva  e
cosa non avrei io fatto per conservarmi la stima  di  Lucilio?...  Ed  ecco  che
senza dirmi né il perché né il  come,  senza  interrogarmi,  senza  chiamarmi  a
discolpa, egli mi dava sentore di avermela tolta. Quali  orrendi  delitti  erano
stati i miei?... Qual era  lo  spergiuro,  la  viltà,  l'assassinio  che  m'avea
meritato una tale sentenza?... Non aveva la mente ordinata a segno da  cercarlo.
Mi tormentava, mi struggeva, piangeva di  rabbia  di  dolore  d'umiliazione;  la
vergogna mi facea tener curva la fronte sul petto; quella vergogna ch'io  sapeva
di non aver meritato. Ma cosí fatti sono i temperamenti troppo sensibili come il
mio, che sentono al pari d'una colpa  la  taccia  anche  ingiusta  di  essa.  La
sfacciataggine  della  virtù  io  non  l'ho  mai  avuta.  In  quei  momenti   le
consolazioni dell'Aglaura diffusero sui miei dolori una dolcezza  inesprimibile;
per la prima volta avvisai quanto bene stia racchiuso in quegli affetti calmi  e
devoti che non si ritraggono da noi né per mancanza di meriti né per cambiamento
d'opinioni. La mia buona sorella, i suoi figlioletti mi sorridevano  sempre  per
quanto la  società  mi  si  mostrasse  barbara  e  nemica.  Essi  senza  parlare
prendevano le mie difese al cospetto di Spiro; giacché egli non  poteva  serbare
il viso torvo ed arroncigliato con colui che riceveva carezze  e  baci  continui
dalla moglie, dai figlioli, dal sangue suo. Quanto la fiducia de'  miei  antichi
compagni s'allontanava da me, altrettanto mi  venivano  incontro  mille  finezze
dell'avvocato Ormenta, di suo figlio, del vecchio Venchieredo, del padre Pendola
e dei loro consorti. Il buon padre s'era fatto lui il  direttore  spirituale  in
quel ritiro di convertite del quale il dottorino Ormenta governava l'economia; e
ogniqualvolta m'incontravano erano  scappellate,  saluti  e  sorrisacci  che  mi
stomacavano  perché  sembravano  dire:  "Sei  tornato  dei  nostri!  Bravo!   Ti
ringraziamo!". Io aveva un bel che fare, a sgambettare a salvarmi da  quei  loro
salamelecchi; ma la gente li vedeva, li vedeva taluno a cui io era in  sospetto;
le calunnie pigliavano piede, e non c'era  verso  ch'io  potessi  sbarazzarmene,
come da quelle caldane paludose dove, affondati una volta,  per  pestar  che  si
faccia si affonda sempre piú. Confesso  che  fui  per  darmi  bell'e  spacciato;
poiché se io non mi  disperai  giammai  contro  nemici  certi  e  disgrazie  ben
misurate, non ho al contrario potuto sopportar mai un agguato nascosto e le cupe
agonie d'un misterioso trabocchetto. Era lí  lí  per  rinserrarmi  in  una  vita
morta, in quella vegetazione che protrae di qualche anno lo  sfacelo  del  corpo
dopo aver soffocate le speranze dell'anima; non vedevo piú nulla  intorno  a  me
che valesse la pena d'un giorno misurato a singhiozzi e a sospiri:  io  non  era
necessario e buono a nulla; perché dunque pensare agli altri per sentire  peggio
che mai il mio crepacuore?...  Cosí  se  io  non  deliberava  di  uccidermi,  mi
accasciava volontario, e mi  lasciava  schiacciare  dal  peso  che  mi  rotolava
addosso. Non aveva il furore ma la  stanchezza  del  suicida.  Caduti  in  tanto
abbattimento, le carezze degli altri uomini per quanto maligne e interessate  ci
trovano le molte volte deboli e credenzoni.  Godiamo  quasi  di  poter  dire  ai
buoni: "Guardate che i tristi sono migliori di voi!". Fanciullesca vendetta  che
volge in nostro danno perpetuo la gioia puerile d'un momento. Gli Ormenta  padre
e figlio raddoppiarono verso di me di premure e di cortesie; convien dire  ch'io
avessi qualche grazia presso di loro o che la setta fosse tanto  immiserita  che
non si  badasse  piú  a  fatica  ed  a  spesa  per  guadagnare  un  neofito.  Mi
circondarono con loro adescatori, misero sotto  mezzani  e  sensali;  io  rimasi
incrollabile. Nullo sí, ma per essi no. Moriva  per  l'ingiustizia  degli  amici
miei, ma non avrei mai acconsentito a volger contro di essi la punta d'un  dito;
dietro quegli amici ingannati ed ingiusti era la giustizia eterna che non  manca
mai, che mai non inganna né rimane  ingannata.  Questo  pensiero  di  resistenza
brulicandomi entro mi ridonò un'ombra di coraggio e un filo  di  forza.  Guardai
dietro  a  me  per  vedere  se  veramente  l'abbandono  di  tutti,  la  perfidia
dell'amore, i mancamenti dell'amicizia mi  lasciavano  cosí  nullo  e  impotente
com'io credeva. Allora risorsero alla mia memoria come in un  baleno  tutti  gli
ideali piaceri, tutte le  robuste  fatiche,  e  i  volontari  dolori  della  mia
giovinezza: vidi raccendersi quella  fiaccola  della  fede  che  m'avea  guidato
sicuro per tanti anni ad un fine lontano sí ma giusto ed immanchevole;  vidi  un
sentiero seminato di spine ma consolato  dagli  splendori  del  cielo,  e  dalla
brezza confortatrice delle speranze, che scavalcava  aereo  e  diritto  come  un
raggio di luce l'abisso della morte e saliva e saliva per perdersi  in  un  sole
che è il sole dell'intelligenza e l'anima ordinatrice dell'universo.  Allora  la
mia  idea  diventò  entusiasmo,  la  mia  debolezza  forza,  la  mia  solitudine
immensità. Sentii che l'opinione altrui valeva nulla contro l'usbergo della  mia
coscienza, e che in questa sola s'accumulava la maggior  somma  dei  castighi  e
delle ricompense. Il mondo ha migliaia di  occhi,  di  orecchi,  di  lingue;  la
coscienza sola ha la virtù il coraggio la fede. Mi rizzai uomo davvero. E  dalla
rocca inespugnabile di questa mia coscienza guardai alteramente tutti coloro  di
cui con tanto dolore avea sofferto il muto disprezzo. Pensai a Lucilio e per  la
prima volta ebbi il coraggio di dirgli in cuor  mio:  "Profeta,  hai  sbagliato!
Sapiente, avesti torto!". Quanta confidenza quanta  beatitudine  mi  venisse  da
questo coraggio, coloro soltanto possono saperlo che provarono le gioie  sublimi
dell'innocenza in mezzo alla persecuzione. Piú di ogni altra cosa poi giovava  a
rattemprarmi l'animo la fiducia in quell'istinto retto  e  generoso  che  misero
avvilito boccheggiante pur m'avea fatto sprezzare le lusinghe dei tristi e degli
impostori. Il debole che piange e si dispera d'esser trascinato al  patibolo,  e
pur non consente a guadagnarsi la grazia col tradire i compagni, quello  secondo
me è piú ammirabile del forte che col sorriso sulle  labbra  si  abbandona  alle
mani del boia. Tremate ma vincete: questo è il comando che può  intimarsi  anche
ai pusillanimi; tremare è del corpo. Vincere è dell'anima che incurva  il  corpo
sotto la verga onnipotente della volontà. Tremate ma vincete. Dopo due  vittorie
non tremerete piú: e guarderete senza batter ciglio lo scrosciar della  folgore.
Cosí feci io. Tremai lungamente; piansi ancora  mio  malgrado  degli  amici  che
m'avevano abbandonato; mi straziai il petto coll'ugne, e sentii il cuore battere
precipitoso come impaziente di arrivar alla fine delle sue fatiche, mi  disperai
dell'amor mio che dopo  mille  lusinghe,  dopo  avermi  aggirato  scherzevole  e
leggiero pei giardini fioriti e per le balze capricciose  della  giovinezza,  mi
lasciava solo vedovo sconsolato ai primi passi nella selva selvaggia della  vera
vita militante e dolorosa. Ohimè, Pisana! quante lagrime sparsi per  te!  Quante
lagrime di cui avrei vergognato come di una debolezza  femminile  allora;  eppur
adesso me ne glorio come d'una costanza che diede alla mia vita qualche impronta
di grandezza e di virtù!... Tu fosti come  l'onda  che  va  e  viene  sul  piede
arenoso dello scoglio. Saldo come la rupe io t'attesi  sempre;  non  mi  sdegnai
degli oltraggi, accolsi modestamente le carezze ed i baci. Il cielo  a  te  avea
dato la mutabilità della luna; a me la costanza del sole; ma gira  e  gira  ogni
luce s'incontra, si ripete, s'idoleggia, si  confonde.  E  il  sole  e  la  luna
nell'ultima quiete degli elementi s'adageranno eternamente rilucenti e concordi.
Voli pindarici! Voli pindarici! Ma per nulla non si diedero l'ali alle  rondini,
il guizzo al baleno, ed alla mente umana la sublime istantaneità  del  pensiero.
Sí, piansi molto allora e molto soffersi; ma aveva racquistato la pace della mia
coscienza, e la purezza della mia fede. Piangeva e soffriva per gli altri; in me
non sentiva né peccato  né  colpa.  Ecco  a  mio  giudizio  una  delle  maggiori
ingiustizie della natura a nostro riguardo;  la  coscienza  per  quanto  pura  e
tranquilla non ha potenza di opporsi vittoriosamente alle immeritate afflizioni;
soffriamo d'una nequizia altrui come  d'un  castigo.  Lo  sconforto,  i  dolori,
l'avvilimento, le continue battaglie d'un'indole mite e sensibile con un destino
avverso e rabbioso scossero profondamente la mia robusta salute. Conobbi  allora
esser vero che le passioni  racchiudono  in  sé  i  primi  germi  di  moltissime
malattie che affliggono l'umanità. Dicevano i  medici  ch'era  infiammazione  di
vene, o congestione del fegato; sapeva ben io cos'era, ma non mi stava il  dirlo
perché il male da me conosciuto era pur troppo incurabile. Vedeva da lontano  la
mia ora avvicinarsi lentamente minuto per minuto, battito per battito di  polso.
Il mio sorriso appariva rassegnato come di colui che non ha piú speranze se  non
eterne, e a quelle affida colla sicurezza dell'innocenza l'anima sua. Perdonate,
o stizzosi moralisti; vi sembrerà ch'io fossi inverso me assai largo di  manica,
come si dice. Ma pur troppo io m'avea composto di  mio  capo  una  regola  assai
diversa dalla vostra: pur troppo, secondo voi,  puzzava  d'eresia;  scusate,  ma
tutto quello che non era stato male pegli altri non lo addebitava come male a me
stesso; e se male avea commesso, ne era pentito a segno che m'abbandonava  senza
paura alla giustizia che non muore mai, e che giudicherà non delle vostre parole
ma dei fatti. Voi avreste circondato il mio letto di catene sonanti di spettri e
di demonii; vi assicuro ch'io non ci vidi altro che fantasmi  benigni  e  velati
d'una nebbia azzurra di celeste melanconia, angeli misteriosi che mestamente  mi
sorridevano, orizzonti profondi che s'aprivano allo spirito e  nei  quali  senza
perdersi lo spirito si effondeva, come la nuvola che si dirada a poco a poco  ed
empie leggiera e lucente tutti gli spazii interminati dell'etere.  Io  non  avea
veduto mai fino allora cosí vicina la morte; dirò meglio  che  non  aveva  avuto
agio di  contemplarla  con  tanta  pacatezza.  Non  la  trovai  né  schifosa  né
angosciosa né spaventevole. La rivedo adesso dopo  tanti  anni  piú  vicina  piú
certa. È ancora lo stesso volto ombrato da una nube di melanconia e di speranza;
una larva arcana ma pietosa, una madre coraggiosa e inesorabile che  mormora  al
nostro orecchio le fatali parole dell'ultima  consolazione.  Sarà  aspettazione,
sarà espiazione, o riposo; ma non saranno piú le confuse e vane battaglie  della
vita. Onnipotente o cieco poserai nel grembo dell'eterna verità; se reo temi, se
innocente spera e t'addormenta. Qual mai fu il sonno che  non  fu  consolato  da
visioni?... La vita si ripete e si ricopia sempre. Il sonno  d'una  notte  è  la
quiete e il ristoro d'un uomo; la morte  di  un  uomo  è  un  istante  di  sonno
nell'umanità.  M'avvicinava  passo  passo  alla   morte   coi   mesti   conforti
dell'Aglaura da un lato; col tardo ravvedimento di  Spiro  dall'altro,  che  non
potea serbare la sua ostile diffidenza dinanzi all'imperturbabile serenità  d'un
moribondo. Dinanzi alle grandi ombre del sepolcro  non  vi  sono  né  illusi  né
imbecilli; ognuno racquista tanta lucidità  che  basti  a  riverberargli  in  un
terribile baleno le colpe e le virtù di tutta la vita. Chi posa gli occhi  calmi
e sicuri in quella notte senza fondo, sente e vede  in  se  stesso  la  immagine
purificata di Dio; egli non teme né le ricompense né le pene eterne, non paventa
né i fluttuanti vortici del caos né gli abissi  ineffabili  del  nulla.  Convien
dire che avessi scritta sulla mia fronte un'assai eloquente difesa, perché Spiro
al solo guardarmi si commoveva  fino  alle  lagrime;  pure  non  aveva  i  nervi
rammolliti dalla piagnoleria, e le greche fattezze del suo volto si  componevano
meglio alla rigidezza  del  giudice  che  alla  vergogna  e  al  pentimento  del
colpevole. Fu quello il primo premio che m'ebbi della mia costanza. Veder  vinta
dalla  sola  calma  del  mio  aspetto,  dalla  tranquillità  della  voce,  dalla
limpidezza dello sguardo quell'anima di fuoco e d'acciaio, fu un  vero  trionfo.
Egli né mi chiese perdono né io glielo diedi, ma ci intendemmo senza parola;  le
nostre mani si strinsero; e tornammo amici per malleveria della morte. I  medici
non parlavano dinanzi a me, ma io  m'accorgeva  appunto  dal  silenzio  e  dalla
confusione dei pareri, che disperavano del mio male.  Io  m'ingegnava  di  usare
alla meglio questi ultimi giorni col  versare  nell'anima  di  Spiro  e  di  mia
sorella l'esperienza della mia vita, col mostrar loro in qual modo s'eran venuti
formando i miei sentimenti, e come l'amore, l'amicizia, l'amore  della  virtù  e
della patria eran venuti irrompendo confusamente, indi purificandosi  a  poco  a
poco, e  sollevando  l'anima  mia.  Vedeva  allora  le  cose  tanto  chiare  che
precedetti, si può dire, una generazione; e lo dico senza superbia, le  idee  di
Azeglio e di Balbo covavano in  germe  ne'  miei  discorsi  d'allora.  L'Aglaura
piangeva,  Spiro  crollava  il  capo,  i  bambini  mi  guardavano  sgomentiti  e
domandavano alla mamma perché lo zio aveva la voce cosí bassa, e  voleva  sempre
dormire e non usciva mai dal letto. - Vegliare toccherà a  voi,  bambini!  -  io
rispondeva sorridendo; indi volgendomi a Spiro - non temere, no; - continuava, -
quello che ora veggo io, molti lo vedranno in appresso, e tutti  da  ultimo.  La
concordia dei pensieri mena alla concordia delle opere; e la verità non tramonta
mai ma sale sempre verso il meriggio eterno.  Ogni  spirito  veggente  che  sale
lassù risplende a cento altri spiriti colla sua luce  profetica!  Spiro  non  si
acquetava  di  cotali  conforti;  egli  mi  tastava  il  polso,   mi   osservava
ansiosamente negli occhi come vi cercasse quell'intima cagione del mio male  che
ai medici era sfuggita. Finalmente un giorno che eravamo soli si diede  animo  e
mi disse: - Carlo, in coscienza, confessati a me! Non puoi o non vuoi guarire? -
Non posso, no, non  posso!  -  io  sclamai.  In  quel  momento  l'Aglaura  entrò
precipitosamente nella stanza, dicendomi che una persona, a me molto cara  altre
volte, voleva vedermi ad ogni costo.  -  Ch'ella  entri,  ch'ella  entri!  -  io
mormorai sbigottito dalla consolazione che mi veniva tanto improvvisa. Io vedeva
attraverso le pareti, io leggeva nell'anima di  colei  che  veniva  a  trovarmi;
credo che ebbi paura di quel lampo  quasi  sovrumano  di  chiaroveggenza  e  che
temetti di mancare al rifluir repentino di tanto impeto di vita. La Pisana entrò
senza vedere senza cercare altri che me. Mi si  gettò  colle  braccia  al  collo
senza pianto senza voce; il suo respiro affannoso, i  suoi  occhi  impietrati  e
sporgenti fuori dalle orbite mi dicevano tutto.  Oh,  vi  sono  momenti  che  la
memoria sente ancora e sentirà sempre quasiché fossero eterni,  ma  non  può  né
esaminarli né descriverli. Se poteste entrare nella  lieve  e  aerea  fiammolina
d'un rogo che si spegne e immaginare cos'ella prova al riversarsi sopra  di  lei
d'una ondata di spirito che la rianima, comprendereste forse il miracolo che  si
compié allora nell'esser mio!... Fui come soffocato dalla felicità; indi la vita
scoppiò ribollente da quel momentaneo assopimento, e sentii un misto di calore e
di freschezza corrermi salutare e voluttuoso i nervi  le  vene.  La  Pisana  non
volle piú staccarsi dal mio capezzale; fu  questa  la  sua  maniera  di  chieder
perdono e di ottenerlo pronto ed intero. Che dico  mai  ottenerlo?  A  ciò  avea
bastato uno sguardo. Capii allora la vera cagione del  mio  male,  la  quale  la
superbia forse mi avea tenuto nascosta. Mi sentii rivivere, diedi  la  berta  ai
medici, e rifiutai le loro insulse pozioni. La Pisana non dormí piú  una  notte,
non uscí un istante dalla mia stanza, non lasciò che altra mano fuori della  sua
toccasse le mie membra, le mie vesti, il mio letto. In tre giorni  divenne  cosí
pallida e scarna che pareva piú malata di me.  Io  credo  che  per  non  vederla
soffrire a lungo condensai tanto sforzo di volontà  nell'adoperarmi  a  guarire,
che accorciai la malattia di qualche settimana, e mutai in  perfetta  salute  la
convalescenza. Spiro e l'Aglaura guardavano meravigliati: la Pisana  pareva  che
meno non si aspettasse, tanto era la fede e la sincerità dell'amor suo. Che cosa
non le avrei perdonato!?... Fu di quella  volta  come  delle  altre.  Le  labbra
tacquero, ma parlarono i cuori: ella mi avea ridonato la vita e  la  possibilità
di amarla ancora. Me le professai debitore, e l'umiltà e la tenerezza d'un amore
infinito mi compensarono dello spensierato abbandono d'un giorno. - Carlo  -  mi
disse un giorno la Pisana poich'io fui  ristabilito  tanto  da  poter  uscire  -
l'aria di Venezia non ti si affà  molto,  hai  bisogno  di  campagna.  Vuoi  che
facciamo una visita allo zio monsignore di Fratta?  Non  so  come  avrei  potuto
rispondere ad un invito che sí bene interpretava i  piú  ardenti  voti  del  mio
cuore. Rivedere colla Pisana i luoghi della nostra prima felicità sarebbe  stato
per me un vero paradiso. Mi avanzava qualche piccola somma di danaro  accumulata
dalle pigioni della mia casa negli ultimi quattr'anni;  il  ritiro  in  campagna
avrebbe aiutato l'economia; tutto concorreva a rendere questo  disegno  oltreché
bello, utile e salutare. D'altra parte io sapeva che Raimondo Venchieredo  stava
ancora in Venezia, sapeva omai delle arti basse e maligne da lui messe in  opera
per accertar la Pisana de' miei amori colla contessa Migliana e per giovarsi  a'
suoi intenti d'un momento di dispetto. Avea perdonato alla Pisana ma non a  lui;
né era sicuro da un impeto di furore ove mi fosse intervenuto d'incontrarlo. Per
due giorni ancora la Pisana non mi parlò di partire, ma la  vedeva  affaccendata
in altri pensieri,  e  mi  pareva  che  si  disponesse  ad  una  lunga  assenza.
Finalmente venne a casa mia col suo baule e mi disse: - Cugino,  eccomi  pronta.
Mio marito non è guarito; ma la sua malattia ha ripreso un andamento regolare; i
medici dicono che cosí può durare ancora molti anni. Mia sorella che domani esce
di convento... - Come? - io sclamai. - La Clara si sveste di monaca?  -  Non  lo
sapete? Il suo convento fu soppresso; le  hanno  dato  una  pensione,  e  uscirà
appunto domani. Ben inteso ch'ella non ha la benché minima  idea  di  rompere  i
suoi voti; e che digiunerà egualmente le sue tre quaresime all'anno. Ma  intanto
ella acconsente a far l'infermiera a mio marito; io l'ho  persuaso  che  lo  zio
monsignore abbisogna di me, e mia madre poi, che avrà dalla mia partenza il  suo
tornaconto, asseconda con tutte le forze questo progetto. -  Che  tornaconto  ha
mai  tua  madre  da  questo  viaggio?  -  Il  tornaconto  che   le   ho   ceduto
definitivamente non solo il godimento ma  la  proprietà  della  dote!...  -  Che
pazzia! E per te dunque, cosa ti rimane? - Per  me  mi  rimangono  due  lire  al
giorno che mio marito vuol passarmi ad ogni costo malgrado la  strettezza  della
sua fortuna; e con quelle in campagna posso vivere da  gran  signora.  -  Scusa,
sai, Pisana; ma il sacrifizio che hai fatto per tua madre mi sembra  altrettanto
imprudente che inutile. Qual vantaggio recherà a lei l'avere la proprietà  oltre
il godimento della dote? - Qual vantaggio? Non so; ma  probabilmente  quello  di
potersela mangiare. E poi fare questi conti non si stava a me. Mia madre  mi  ha
mostrato le sue tristi condizioni, la sua vecchiaia che vien  domandando  sempre
nuovi commodi, nuove spese, i debiti da cui è molestata;  infine  io  ho  veduto
anche i bisogni delle sue passioncelle e non voleva che per giuocare due partite
di tresette ella fosse costretta a  vendere  il  pagliericcio.  Le  ho  risposto
dunque: "Volete cosí... Sia! Ma mi lascerete partire  perché  ho  bisogno  d'una
boccata d'aria libera e di rivedere le nostre campagne." "Va', va' pure,  e  che
il cielo ti benedica, figliuola mia" soggiunse mia madre. Io  credo  ch'ella  si
consolò tutta di vedermi in procinto d'andarmene, perché le mie suggestioni  non
avrebbero piú persuaso Rinaldo a comperarsi ogni tanto o un cappello nuovo o  un
vestito meno indecente, e cosí a lei sarebbe rimasto qualche  zecchino  di  piú.
Andai dunque da un notaio, fu stesa e firmata la scritta  di  cessione.  Ma  nel
punto di consegnarla a mia madre, non ti figuri  mai  piú  il  favore  ch'io  le
chiesi  in  contraccambio.  -  Cosa  mai?  Le  chiedesti  il  diritto  eventuale
all'eredità Navagero, o la cessione  de'  suoi  crediti  verso  la  sostanza  di
Fratta? - Nulla di tutto questo,  Carlo.  Da  un  pezzo  era  pizzicata  da  una
indiscreta curiosità messami in capo, te ne ricordi, da quella  pettegola  della
Faustina. Domandai dunque a mia madre che proprio sinceramente  colla  mano  sul
cuore mi confessasse se io non ero figliuola di monsignore di Sant'Andrea!...  -
Eh va' là! Pazzerella!... E cosa ti rispose la Contessa? - Mi rispose quello che
tu. Mi diede della sguaiata della pazzerella; e non volle dir nulla. Ah,  Carlo!
de' miei ottomila ducati non ci ho proprio ritratto un bruscolo,  nemmeno  tanto
da cavarmi una curiosità! Questo  incidente  può  darvi  un'idea  non  solamente
dell'indole e dell'educazione avuta dalla Pisana, ma  anche  fino  ad  un  certo
punto dei costumi veneziani  del  secolo  passato.  Nel  punto  stesso  che  una
figliuola con sublime sacrificio si toglieva il  pane  di  bocca,  si  spogliava
dell'ultimo suo avere per accontentare  i  vizietti  della  madre,  chiedeva  in
compenso di tanto benefizio una cinica confessione, e un gusterello di curiosità
altrettanto inutile che scandalosa. Non aggiungo di piú. Ma basta un finestrello
aperto per lumeggiare un quadro. - E a te dunque - soggiunsi io  -  non  restano
ora che due grame lirette al giorno  concesseti  dalla  misera  munificenza  del
nobiluomo Navagero, sicché una voltata  d'umore  di  questo  vecchio  pazzo  può
metterti addirittura all'ospizio dei poveri!!... - Eh guà'! - disse la Pisana. -
Son giovine e robusta; posso lavorare, e poi io starò con te, e il  mantenimento
me lo conterai per salario. Un cotale accomodamento quadrava col modo di pensare
della Pisana; e non isconveniva punto a me:  solamente  mi  sarebbe  abbisognata
qualche professione per accrescere di qualche cosa le mie meschinissime entrate,
finché la sospirata morte del Navagero  porgesse  comodità  di  pensare  ad  uno
stabilimento definitivo. Per allora misi da banda questa idea; l'importante  era
di partir subito, perché la mia salute terminasse di raffermarsi.  Io  aveva  in
borsa un centinaio di ducati, la Pisana volle  a  tutti  i  costi  consegnarmene
altri duecento ch'ella avea ricavato da certe gioie, e con questa gran somma  ci
disposimo allegramente alla partenza. Prima di lasciar  Venezia  ebbi  anche  la
fortuna di rivedere per l'ultima volta il vecchio Apostulos reduce allora  dalla
Grecia; egli era involto in quelle macchinazioni  d'allora  per  la  liberazione
della sua patria mediante il patrocinio dei cosí  detti  Fanarioti  o  Greci  di
Costantinopoli; e faceva un gran correre qua e là col  pretesto  del  commercio.
Spiro, che propendeva al partito piú giovane, che poi soperchiò tutti gli  altri
e fomentò l'ultima guerra dell'indipendenza, ubbidiva di malincuore a suo  padre
in quelle  congiure  senza  grandezza,  dove  pescava  a  suo  profitto  l'avara
ambizione di qualche principe semiturco: perciò si stavano fra loro con  qualche
freddezza. Il vecchio Apostulos mi diede buone notizie del mio Gran Visir:  egli
era stato strangolato, secondo il comodissimo sistema usato allora  dalla  Porta
invece  di  quell'altro  europeo,  a  mille   doppi   piú   dispendioso,   delle
giubilazioni.  Ma  il  successore  riconosceva  la  validità  de'  miei  titoli;
soltanto, siccome il credito ammontava a sette milioni di piastre e il tesoro di
Sua Altezza non era a quel tempo  molto  ben  fornito,  voleva  soprastare  d'un
qualche anno al pagamento. Cosí milionari di speranze, e con trecento ducati  in
tasca, io e la Pisana ci misimo in barca per Portogruaro, e giunsimo il  secondo
giorno, dopo rotte molto alzane, e perduto assai tempo nello scambio dei cavalli
e negli arenamenti, sulle beate rive del Lemene. Il viaggio fu lungo ma allegro.
La Pisana aveva, se non mi sbaglio, ventott'anni, ne mostrava venti, e nel cuore
e nel cervello non ne sentiva infatti piú di quindici. Io, veterano della guerra
partenopea ed ex-Intendente di Bologna, mano a mano che mi avvicinava al Friuli,
mi rifaceva ragazzo. Credo che sbarcato a Portogruaro ebbi  volontà  di  far  le
capriuole, come ne avea fatte sovente nel giardino  de'  Frumier,  quando  aveva
ancora i denti di latte. La nostra allegria fu peraltro  mescolata  tantosto  da
qualche mestizia. I nostri  vecchi  conoscenti  erano  quasi  tutti  morti;  de'
giovani o coetanei, chi  qua  chi  là,  pochissimi  in  paese  n'erano  rimasti.
Fulgenzio decrepito e rimbambito aveva paura de' suoi figli, ed  era  caduto  in
balía d'una fantesca astuta ed avara che lo tiranneggiava, e  sapeva  mettere  a
profitto la sua spilorceria per raggranellarsi un capitale. Il  dottor  Domenico
sbuffava, ma con tutta la sua dottoreria non giungeva a liberar suo padre  dalle
unghie di quella befana. Don  Girolamo,  professore  in  Seminario  e  brillante
campione del partito dei bassaruoli, pigliava le cose con filosofia. Secondo lui
bisognava aspettare pazientemente che il Signore toccasse il cuore a suo  padre;
ma il dottore, che avea somma premura di toccargli la borsa, non si stava  cheto
a questi conforti del fratello prete. Fulgenzio  passò  di  questo  mondo  pochi
giorni dopo il nostro ritorno in Friuli; la sua  morte  fu  accompagnata  da  un
delirio spaventevole, si sentiva strappata l'anima di corpo dai  demonii,  e  si
stringeva tanto per paura alla mano della massaia che costei fu lí lí per dar un
calcio all'eredità e lasciarlo nelle mani del becchino. Tuttavia  l'avarizia  la
fece star salda, e tanto; che poiché il padrone fu morto  convenne  liberarle  a
forza il braccio dalle unghie rabbiose di lui. Apertosi il testamento, ella ebbe
una bella somma di danaro in aggiunta a quello che aveva rubato. Seguivano molti
legati di messe e di dotazioni di chiese  e  di  conventi;  da  ultimo  coronava
l'opera una somma imponente  erogata  dal  testatore  per  la  costruzione  d'un
suntuoso campanile vicino alla chiesa di Fratta. E con ciò egli credette di aver
dato l'ultima mano alla pulitura della propria coscienza e saldati i suoi  conti
colla giustizia di Dio. Di restituzioni alla famiglia di Fratta non  si  parlava
punto; dovevano essere  abbastanza  felici  i  miserabili  eredi  degli  antichi
castellani di deliziarsi nella contemplazione del nuovo campanile. Don  Girolamo
si accontentava della sua quota che gli rimaneva non tanto piccola  dell'eredità
anche dopo tanta dispersione di legati; ma il dottore saltò in mezzo con cause e
con  cavilli.  Il  testamento  fu  inoppugnabile.  Ognuno  ebbe  il  suo,  e  si
cominciarono ad accumulare sassi e calcine sul piazzale di Fratta  per  dare  la
richiesta forma di campanile alla postuma beneficenza  del  defunto  sagrestano.
Un'altra notizia stranissima ci diedero a Portogruaro del matrimonio poco  tempo
prima avvenuto del capitano Sandracca colla vedova dello  speziale  di  Fossalta
ch'era passata a dimorare presso  di  lui  con  una  sua  rendita  di  sette  in
ottocento lire. Il Capitano, molestato dalla promessa  di  celibato  fatta  alla
defunta signora Veronica, ma piú ancora dalla miseria che  lo  stringeva,  aveva
messo tutto d'accordo componendo di suo capo una parlantina che si proponeva  di
spifferare alla prima moglie, incontratisi che si fossero  in  qualche  contrada
dell'altro mondo. Le dimostrava che non era valida e non obbligava per nulla  un
poveruomo quella promessa estorta in momenti di vera disperazione, e che ad ogni
modo la pietà del marito doveva vincerla sopra  un  suo  ghiribizzo  di  postuma
gelosia. La assicurava che il cuore di lui rimaneva sempre pieno di lei,  e  che
della spezialessa non amava in fondo altro che le settecento lire. E con ciò  si
lusingava che, commosse le viscere della signora Veronica,  e  convinta  la  sua
ragionevolezza, non gli avrebbe tenuto il  broncio  per  una  infedeltà  affatto
apparente. Del resto, sposando una zitella il guaio sarebbe stato irrimediabile,
ma con una vedova le cose si accomodavano assai facilmente.  Costei  tornava  al
primo marito, egli alla prima moglie, e non avrebbero piú avuto né  un  fastidio
né una  noia  per  omnia  saecula  saeculorum.  -  Il  signor  Capitano  pappava
saporitamente le settecento  lire  colla  fondatissima  speranza  d'un  grazioso
perdono. Ma intanto noi avevamo già fatto il  nostro  ingresso  nella  diroccata
capitale dell'antica giurisdizione di Fratta. Solo a vederla da  lontano  ci  si
strinse il cuore di compassione. Pareva un castello saccheggiato  allora  allora
da qualche banda indiavolata di Turchi  e  abitato  solamente  dai  venti  e  da
qualche  civetta  malaugurata.  Il  capitano  Sandracca  ci  rivide  con   molta
titubanza; non capiva bene se venissimo a prenderne  o  a  portarne.  Monsignore
Orlando invece ci accolse cosí  tranquillo  e  sereno  come  appunto  tornassimo
allora dalla passeggiata d'un'ora. La sua nobile gorgiera si era stradoppiata, e
camminava strascicandosi dietro  le  gambe,  e  lodandosi  molto  della  propria
salute, se non fosse stato quel maledetto scirocco che gli rompeva  i  ginocchi.
Era lo scirocco degli ottant'anni, che ora provo anch'io e che soffia da  Natale
a Pasqua e da Pasqua a Natale con una insistenza che si fa  beffa  dei  lunarii.
Mentre la Pisana buona e spensierata faceva festa allo zio, e  si  divertiva  di
inquietarlo sulla durata del suo scirocco, io riuscii  pian  piano  a  rappiccar
conoscenza colle vecchie camere del castello. Mi ricordo ancora che  s'imbruniva
la notte e che ad ogni porta ad ogni svoltata di corritoio  credeva  di  vedermi
dinanzi la negra apparizione del signor Conte e  del  Cancelliere  o  la  faccia
aperta e rubiconda di Martino. Invece le rondini entravano ed  uscivano  per  le
finestre recando le prime pagliuzze le prime imbeccate  di  poltiglia  pei  loro
nidi; i pipistrelli mi sventolavano colle loro  ali  grevi  e  malsicure;  nella
stanza matrimoniale dei vecchi padroni cuculiava un gufo schernitore. Io  andava
vagando qua e là lasciandomi guidare dalle gambe e le  gambe  fedeli  all'antica
abitudine mi portarono al mio covacciolo vicino alla frateria. Non  so  come  vi
arrivassi sano e salvo per quei solai malconci e  rovinati,  per  mezzo  a  quei
lunghi androni dove le travature e i calcinacci caduti  dal  granaio  impedivano
ogni poco il passo e avevano preparato comodissimi trabocchetti per  precipitare
ai piani sottoposti. Una rondine aveva appostato il  suo  nido  proprio  a  quel
travicello sotto il quale Martino usava  appendere  il  ramicello  d'oliva  alla
domenica delle Palme. Alla pace era succeduta l'innocenza. Mi ricordai  di  quel
libricciuolo trovato anni prima in quella camera, e che nel mio cuore  disperato
avea rimessa la rassegnazione della vita e la coscienza del dovere. Mi  ricordai
di quella notte piú lontana ancora quando la Pisana era salita a trovarmi e  per
la prima volta avea sfidato per me le sgridate e le  busse  della  Contessa.  Oh
quella ciocca di capelli, io l'aveva sempre con me! Avea preveduto in essa quasi
il compendio simbolico dell'amor mio; né le previsioni m'avevano  ingannato.  La
voluttà mista di  pianto,  l'avvilimento  avvicendato  alla  beatitudine,  e  la
servitù alla padronanza, le contraddizioni e gli  estremi  non  avevano  mancato
alla promessa: s'erano avvolti confusamente  nel  mio  destino.  Quanti  dolori,
quante gioie,  quante  speranze,  quanta  vita  da  quel  giorno!...  E  chi  sa
quant'altri affanni, e quanta varietà di venture m'attendevano  al  varco  prima
che tornassi a riporre il piede su quel pavimento crollante e polveroso!...  Chi
sa se la mano degli uomini o il furore delle intemperie non avrebbero  consumato
l'opera vandalica di Fulgenzio e degli altri devastatori rapaci di  quell'antica
dimora!... Chi sa se un futuro padrone non avrebbe rialzato quelle mura cadenti,
rintonacato quelle pareti,  e  raspato  loro  di  dosso  quelle  fattezze  della
vecchiaia che parlavano con tanto affetto con tanta potenza al mio cuore!!  Tale
il destino degli uomini, tale il  destino  delle  cose:  sotto  un'apparenza  di
giovialità e di salute si nasconde sovente l'aridità dell'anima e la  morte  del
cuore. Tornai da basso che aveva gli occhi rossi e la mente allucinata da strani
fantasmi; ma le risate della Pisana e la faccia serena e rotonda  di  Monsignore
mi snebbiarono se non altro la fronte. Io m'aspettava ad ogni momento  di  esser
richiesto se aveva imparato la seconda  parte  del  Confiteor.  Invece  il  buon
canonico si lamentava che le onoranze non erano piú tanto  abbondanti  come  una
volta, e che quelle birbe di coloni invece di recargli i piú bei  capponi,  come
sarebbe stata la scrittura, non davano altro che pollastrelle e galletti sfiniti
tanto che scappavano pei fessi  della  stia.  -  E  dicono  che  son  capponi  -
soggiungeva sospirando - ma se mi sveglio la notte,  li  sento  cantare  che  ne
disgradano l'accusatore di san Pietro!... Indi a poco entrò il signor  Sandracca
col Cappellano, invecchiati, mio Dio, che  parevano  ombre  di  quello  ch'erano
stati; entrò anche la signora Veneranda, la madre di Donato, sposata  di  fresco
al Capitano. Poteva competere con Monsignore per la pinguedine, e non pareva che
le settecento lire portate in dote dovessero bastare a tenerla in carne.  Gli  è
vero che i grassi mangiano alle volte piú parcamente dei magri.  Ella  mise  sul
tagliere una fetterella di  lardo  e  sei  uova,  che  dovevano  convertirsi  in
frittata e comporre una cena. Ci esibí poi anche, colla bocca un po' stretta, di
prepararci alla meglio due letti; ma noi eravamo già prevenuti  delle  commodità
che si avevano allora in castello, e sapevamo che restando noi  sarebbe  toccato
agli sposini irsene a dormire coi polli. Ebbimo perciò  compassione  di  loro  e
delle sei uova, e risalimmo in calesse per  andarcene  a  chieder  ospitalità  a
Bruto Provedoni, come s'era stabilito fra noi prima di partire  da  Portogruaro.
Non vi starò ora a dire né le festose accoglienze di Bruto e  dell'Aquilina,  né
la mirabile cordialità colla quale quei due poveretti  fecero  nostra  tutta  la
casa. Tutto era già combinato per  lettera;  trovammo  due  camerette  a  nostra
disposizione, delle quali e del mantenimento che vollimo comune  con  essi,  una
modestissima dozzina ci sdebitava. Non era una mercede; era un mettere in comune
le nostre piccole forze per difenderci contro le necessità che ci stringevano da
ogni parte. L'Aquilina saltellava di piacere come una pazzerella; per quanto  la
Pisana volesse aiutarla ai primi giorni nelle faccenduole  di  casa,  tutto  era
sempre pronto ed in assetto. Bruto,  uscito  il  mattino  per  le  sue  lezioni,
tornava sull'ora del pranzo e c'intrattenevamo insieme fino a  notte  lavorando,
ridendo, leggendo, passeggiando, che le ore volavano via come farfalle sulle ali
d'un zeffiro di primavera. M'era scordato di dirvi che a Padova durante  la  mia
intrinsichezza con Amilcare io aveva imparato a  pestare  la  spinetta.  Il  mio
squisitissimo orecchio mi fece acquistare qualche abilità come accordatore, e lí
a Cordovado mi risovvenni in buon punto di quest'arte  imparata,  come  dice  il
proverbio, e messa provvidamente da parte. Bruto mi mise in  voce  nei  dintorni
come il corista piú intonato che si potesse trovare; qualche piovano  mi  chiamò
per l'organo; aiutato dal ferraio del paese e dalla  mia  sfacciataggine  me  la
cavai con discreto onore. Allora la  mia  fama  spiccò  un  volo  per  tutto  il
distretto, e non vi fu piú organo né cembalo né chitarra che non  dovesse  esser
tormentata dalle mie mani per sonar a dovere. Il mio  ministero  di  cancelliere
m'avea reso popolare un tempo, e il mio nome non  era  affatto  dimenticato.  In
campagna chi è buon cancelliere non  ha  difetto  a  farsi  anche  credere  buon
accordatore, e in fin dei conti a forza di rompere  stirare  e  torturar  corde,
credo che riuscii a qualche cosa. Finalmente diedi  il  colmo  alla  mia  gloria
esponendomi come suonator d'organo in qualche sagra  in  qualche  funzione.  Sul
principio m'azzuffava sovente cogli inesorabili cantori del Kyrie o del  Gloria;
ma imparai in seguito la manovra, ed ebbi il contento di vederli cantare a piena
gola senza volgersi ogni tanto pietosamente a interrogare e a rimproverare cogli
occhi il capriccioso organista. Anche questa ve l'ho detta.  Di  maggiordomo  mi
feci organista; e tenetevelo bene a mente, ché la genealogia de'  miei  mestieri
non è delle piú comuni. Bensí vi posso assicurare che m'ingegnava a  guadagnarmi
il pane, e tra Bruto maestro  di  calligrafia,  la  Pisana  sarta  e  cucitrice,
l'Aquilina cuoca, e il vostro Carlino organista,  vi  giuro  che  alla  sera  si
rappresentavano delle brillanti commediole tutte  da  ridere.  Ci  mettevamo  in
canzone a vicenda: eravamo intanto felici, e la felicità e la pace mi  resero  a
tre tanti la salute che aveva prima. Alle volte  andava  a  Fratta  e  conduceva
fuori a caccia il signor Capitano e il suo cane. Il Capitano non  voleva  uscire
da quattro pertiche di palude che sembravano da lui prese  in  affitto  e  nelle
quali le anitre e le gallinelle si guardavano bene di porre  il  piede.  Il  suo
cane poi aveva il vizio di fiutar troppo in aria e di guardar le piante;  pareva
andasse a caccia piuttosto di persici che di selvaggina; ma a furia  di  gridare
io gl'insegnai a guardar per terra, e se non colsi in una mattina i ventiquattro
beccaccini del nonno di Leopardo, mi  venne  fatto  sovente  di  metterne  nella
bisaccia una dozzina. Cinque ne cedeva al Capitano e a Monsignore; gli altri  li
teneva per noi, e lo spiedo girava, ed io era tentato molte  volte  di  mettermi
nelle veci del girarrosto; ma poi mi ricordava di essere stato intendente  e  mi
rimetteva in atto di maestà. I nostri ospiti mi entravano nel cuore ogni  giorno
piú. Bruto era diventato si può dire mio fratello, e l'Aquilina, non so  se  mia
sorella o figliuola. La poverina mi voleva un bene che  nulla  piú;  mi  seguiva
dovunque, non faceva cosa che  non  bramasse  prima  sapere  se  mi  riescirebbe
gradita. Vedeva si può dire cogli occhi miei, udiva colle mie orecchie,  pensava
colla mia mente. Io per me cercava di retribuirla di tanto affetto  coll'esserle
utile; le veniva insegnando un poco di francese nelle ore di ozio, e a  scrivere
correttamente in italiano. Fra maestro e scolara succedevano alle volte  le  piú
buffe guerricciole nelle quali  s'intromettevano  a  scaramucciare  col  miglior
garbo anche la Pisana e Bruto. Avea preso tanto amore a quella  ragazza  che  mi
sentiva crescere per lei  in  capo  il  bernoccolo  della  paternità,  e  nessun
pensiero aveva meglio fitto in testa che quello di accasarla bene,  di  trovarle
un buono e bravo giovine che la rendesse felice. Di ciò si  discorreva  a  lungo
tra noi quand'ella era occupata nelle cose di famiglia; ma ella non pareva molto
disposta a secondare le nostre idee; bellina com'era con quelle sue fattezze  un
po' strane un po' riottose, eppur buona  e  savia  come  un'agnelletta,  non  le
mancavano adoratori. Pure se ne mostrava affatto schiva; e alla  fontana  o  sul
piazzale della Madonna stava piú volentieri  con  noi  che  collo  sciame  delle
zitelle e dei vagheggini. La Pisana la incoraggiava  a  divertirsi  a  prendersi
spasso; ma poi dispiacente di vedersi ingrognare a questi  suoi  eccitamenti  il
bel visino dell'Aquilina, se la prendeva fra le braccia e la copriva di  carezze
e di baci. Erano piú che due sorelle.  La  Pisana  la  amava  tanto  che  io  ne
ingelosiva; se l'Aquilina la chiamava,  certo  ch'ella  si  stoglieva  da  me  e
correva da lei, capace anco di farmi il muso s'io osava trattenerla. Cosa  fosse
questa nuova stranezza, io non capiva allora; ma forse ci vidi entro in seguito,
per quanto si può veder chiaro in un temperamento cosí misterioso e confuso come
quello della  Pisana.  Dopo  alcuni  mesi  di  questa  vita  semplice  laboriosa
tranquilla, gli affari della famiglia di Fratta mi richiamarono  a  Venezia.  Si
trattava di ottenere dal conte Rinaldo  la  facoltà  di  alienare  alcune  valli
infruttifere affatto verso Caorle e le quali erano richieste da un ricco signore
di quelle parti  che  tentava  una  vasta  bonificazione.  Ma  il  Conte,  tanto
trascurato ed andante per solito, si mostrava molto restio a  quella  vendita  e
non voleva accondiscendere per quanto evidenti fossero  i  vantaggi  che  gliene
doveano derivare. Egli era di quegli animi indolenti e fantastici che svampavano
in sogni in progetti ogni loro  attività;  e  appoggiano  le  loro  speranze  ai
castelli in aria per esimersi appunto di fabbricare in  terra  qualche  cosa  di
sodo. Nella futura coltivazione di  quelle  fondure  paludose  egli  sognava  il
ristoro della sua famiglia e non voleva per oro  al  mondo  frodare  la  propria
immaginazione di quel larghissimo campo d'esercizio. Arrivato a  Venezia  trovai
le cose mutate d'assai. Le  straordinarie  giubilazioni  per  l'aggregazione  al
Regno Italico aveano dato luogo mano a mano ad un criterio piú riposato del bene
che  ne  proveniva  al  paese.  Francia  pesava  addosso  come  qualunque  altra
dominazione; forse le forme erano meno  assolute  ma  la  sostanza  rimaneva  la
stessa. Leggi volontà movimento, tutto veniva da Parigi come oggidí i cappellini
e le mantiglie delle signore. Le coscrizioni eviravano letteralmente il  popolo;
le tasse  le  imposizioni  mungevano  la  ricchezza;  l'attività  materiale  non
compensava il paese di quello stagnamento morale che intorpidiva le  menti.  Gli
antichi nobili governanti, o avviliti nell'inerzia, o rincantucciati  nei  posti
piú meschini dell'amministrazione pubblica; i cittadini,  ceto  nuovo  e  ancora
scomposto, inetti per mancanza d'educazione  al  trattamento  degli  affari.  Il
commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali  riducevano  Venezia
una cittaduzza di provincia. La miseria l'umiliazione  trapelavano  dappertutto,
per quanto il Viceré s'ingegnasse di coprir  tutto  collo  sfarzo  glorioso  del
manto imperiale. Gli Ormenta, i  Venchieredo  duravano  ancora  al  governo;  né
cacciarli si poteva perché erano i soli che  se  ne  intendessero;  ponendo  poi
sopra loro altri dignitari  francesi  e  forestieri,  s'avea  ferito  l'orgoglio
municipale senza raddrizzare l'andamento obbliquo ed oscuro della cosa pubblica.
A Milano, dove o bene o male erano  sgusciati  da  una  repubblica,  lo  spirito
pubblico fermentava ancora. A Venezia la conquista succedeva alla  conquista,  i
servitori succedevano ai  servitori  colla  venale  indifferenza  di  chi  cerca
l'interesse del padrone che paga. Io rimasi un  po'  sfiduciato  di  quei  segni
d'indolenza e di trascuratezza: vidi che Lucilio non avea poi tutto il torto  di
esser fuggito a Londra, anzi che il buonsenso pubblico stava  per  lui.  Ma  per
quanto io avessi cercato di rappiccare  corrispondenza  con  lui,  egli  non  si
degnava piú di rispondere alle mie lettere. Io mi stancai di picchiare dove  non
mi si voleva aprire, e m'accontentai di ricevere sue novelle di  rimbalzo  o  da
qualche conoscente di Portogruaro o dalle voci che correvano in  piazza.  Lo  si
diceva medico in gran fama a Londra, e  accreditatissimo  presso  le  principali
famiglie di quell'aristocrazia. Sperava molto nell'Inghilterra per  la  cacciata
del tiranno Bonaparte dalla Francia e pel  riordinamento  dell'Italia:  le  idee
giuste e moderate non gli aveano durato a  lungo;  la  smania  del  fare  e  del
disfare lo aveva tratto fuori di strada un'altra volta. Comunque la sia  io  non
mi fermai a Venezia che circa un mese sperando  sempre  di  ottenere  dal  conte
Rinaldo la sospirata procura; ma non altro mi venne fatto d'estorcergli  che  il
permesso di vendere alcune pezze staccate di quei  paduli;  il  resto  lo  volea
proprio serbare per la futura redenzione della famiglia.  Cosí  si  cavarono  da
quelle vendite poche migliaia di  lire  che  servirono  soltanto  a  fornire  di
qualche posta piú grossa il tavoliere da gioco della vecchia Contessa. È proprio
vero che la morte ruba i migliori, e lascia gli altri; costei ch'era  la  rovina
della casa non facea mostra di volersene andare;  e  cosí  pure  quell'incommodo
marito Navagero s'ostinava a non voler lasciar vedova la moglie. Io  sperava  di
condur meco in Friuli l'Aglaura e alcuno de' suoi ragazzini; ma la  morte  della
suocera  la  trattenne  in  famiglia:  vera  disgrazia,  anche   perché   l'aria
campagnuola le avrebbe giovato  per  certi  incommoducci  che  la  cominciava  a
soffrire. Spiro, robusto come un tanghero, non  voleva  credere  alla  gracilità
della moglie; ma il fatto  sta  che  a  non  curarsi  dapprincipio  con  qualche
distrazione con qualche viaggio, la sua salute divenne sempre piú cagionevole  e
continua
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