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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italianoIppolito NievoSpiro se ne persuase quando non v'avea piú tempo da rimediarci. Egli le andava dicendo che, se voleva, poteva andarne in Grecia con suo padre alla prima occasione; ma la tenera madre non voleva arrischiare i ragazzini piuttosto gracili anch'essi a viaggi lunghi e pericolosi. Rispondeva sorridendo che starebbe a Venezia, e che già, se l'aria nativa non la rimetteva in salute, nessun'altra avrebbe avuto una tale virtù. Io rimproverava Spiro di farsi troppo mercante, di non badar altro che alle provvisioni delle cambiali e ai prezzi del caffè che crescevano sempre per le crociere inglesi. Ma egli scrollava la testa, senza risponder nulla, ed io non capiva cosa volesse dirmi con questo atto misterioso. Il fatto sta che mi toccò ripartir solo pel Friuli, e i divertimenti, e le gite, e i bei giorni di pace di moto di campagna idoleggiati insieme coll'Aglaura e i suoi fanciulletti, rimasero una delle tante speranze che mi affretterò di avverare nell'altro mondo. Trovai a Cordovado cresciuta piucchemai l'amicizia l'intrinsichezza e direi piú se vi fosse una parola piú espressiva, fra la Pisana e l'Aquilina. Omai l'amore della prima non giungeva a me che pel canale di questa. A questa toccava dire: - Guarda il signor Carlo!... il signor Carlo ti domanda!... Il signor Carlo ha bisogno di questo e di quello! - Allora solamente la Pisana si prendeva cura di me; altrimenti gli era come se io non ci fossi; un'eclisse completa. L'Aquilina mi stava dinanzi, e l'anima della Pisana non vedeva che lei. Fino in certi momenti, nei quali per solito il pensiero non ispazia molto lontano, io sorprendeva la mente della Pisana occupata dell'Aquilina. Se fossimo stati ai tempi di Saffo avrei creduto a qualche mostruoso stregamento. Che so io?... Non poteva raccapezzarci nulla: l'Aquilina mi diventava alle volte perfino odiosa, e il minor male ch'io dicessi in cuor mio della Pisana si era di chiamarla pazza. Eccomi arrivato ad un punto della mia vita che mi riuscirà molto difficile dichiarare agli altri, per non averlo potuto mai chiarir bene bene nemmeno a me: voglio dire al mio matrimonio. Un giorno la Pisana mi chiamò di sopra nella nostra stanza e senza tanti preamboli mi disse: - Carlo, io m'accorgo di esserti venuta a noia; tu non mi puoi voler piú l'un per cento del bene che mi volevi. Tu hai bisogno d'un affetto sicuro che ti ridoni la pace e la contentezza della famiglia. Ti rendo la tua libertà e voglio farti felice. - Che parole, che stranezze son queste? - io sclamai. - Sono parole che mi vengono dal cuore, e le medito da un pezzo. Lo dico e lo ripeto; tu non puoi volermi bene. Seguiti ad amarmi o per abitudine o per generosità; ma io non posso sacrificarti piú a lungo, e devo per ricompensa metterti sulla vera strada della felicità. - La strada della felicità, Pisana? Ma noi l'abbiamo battuta lunga pezza insieme quella strada fiorita di rose senza spine! Basterà unire ancora braccio a braccio, perché le rose ci germoglino sotto i piedi, e la contentezza ci sorrida di bel nuovo in qualunque parte di mondo! - Ecco che tu non mi capisci, o anzi non capisci te stesso. Questo è il mio delirio. Carlo, tu non sei piú un giovinotto sventato e senza esperienza, e non puoi accontentarti d'una felicità che ti può mancare dall'oggi al dimani. Tu devi prender moglie! - Dio lo volesse, anima mia! No, il cielo mi perdoni questo sconsiderato movimento di desiderii, ma quando tuo marito avesse lasciato il mondo delle infermità per quello della salute eterna, il primo mio voto sarebbe di unire la tua sorte alla mia colla santità religiosa del giuramento. - Carlo, non perderti ora in cotali sogni. Né mio marito vuol morire per ora, né tu devi consumare inutilmente gli anni piú belli della virilità. Io ti sarei una moglie assai manchevole; vedi che non son fatta per la fortuna di aver prole!... e cosí cosa rimane una moglie?... No, no, Carlo, non illuderti; per esser felice devi appigliarti al matrimonio. - Basta, Pisana!... Vuoi dirmi che non mi ami piú? - Voglio dirti che ti amo piú di me stessa; e per questo m'ascolterai e farai quello che ti consiglio... - Non farò null'altro che quello che il cuore mi comanda. - Ebbene, il tuo cuore ha parlato. E tu la sposerai. - Io la sposerò?... Ma tu vaneggi! ma tu non sai quello che dici! - Sí! ti dico... tu sposerai... sposerai l'Aquilina!... - L'Aquilina!... Basta!... Torna in te, te ne scongiuro. - Parlo del mio miglior senno. L'Aquilina è innamorata di te, ella ti piace, ti conviene per tutti i versi. La sposerai! - Pisana, Pisana! oh, non vedi il male che mi fai! - Vedo il bene che ti procuro; e se avessi anche voglia di sacrificare me stessa al tuo meglio, nessuno potrebbe impedirmelo. - Te lo impedisco io!... Ho sopra di te diritti tali che tu non devi, che tu non puoi dimenticare! - Carlo, senza di te io avrò il coraggio di vivere... Misura la mia forza dalla sfrontatezza di questa confessione. L'Aquilina invece ne morrebbe. Ora scegli tu stesso. Per me ho bell'e scelto. - Ma no, Pisana, ravvediti!... Tu stravedi, tu ti immagini quello che non è. L'Aquilina nutre per me un tenero ma calmo affetto di sorella: ella gioirà sempre della nostra felicità. - Taci, Carlo: credi all'onniveggenza d'una donna. Lo spettacolo della nostra felicità avvelena la sua giovinezza... - Dunque fuggiamo, torniamo a Venezia. - Tu, se ne hai il cuore: io no. Io amo l'Aquilina. Io voglio farla felice: credi che tu pure sarai felice di sposarti a lei: e io unirò le vostre mani, e benedirò le vostre nozze. - Oh ma io ne morrei!... Io dovrei odiarla: sentirei tutte le mie viscere sollevarsi contro di essa, e il mio peggior nemico non mi sarebbe tanto abbominevole a dovermelo stringer fra le braccia. - Abbominevole l'Aquilina!... Scusa, Carlo; ma se ripeti simili infamie, io fuggo da te, io non vorrò piú vederti!... Gli angeli comandano l'amore: tu non sei tanto perverso da abborrire quello che ci scende dal cielo, come la piú bella incarnazione d'un pensiero divino. Guarda, guarda, apri gli occhi, Carlo!... guarda l'assassinio che commetti. Fosti cieco finora e non t'accorgesti né del suo martirio né de' miei rimorsi. Fui tua complice finora ma giuro di non volerlo esser piú; io non assassinerò colle mie mani una creatura innocente che mi ama come una figliuola, benché... Oh ma sai, Carlo, che il suo eroismo è di quelli che oltrepassano la stessa immaginazione!... Mai un movimento di rabbia, mai uno sguardo d'invidia, una rassegnazione stanca, un amore invece che cava le lagrime!... No, no ti ripeto, io non pagherò coll'assassinio l'ospitalità che ebbimo in questa casa; e tu pure mi seconderai nella mia opera di carità!... Carlo, Carlo, eri generoso una volta!... Una volta mi amavi, e se io t'avessi incitato ad un'impresa coraggiosa e sublime non avresti aspettato tante parole! Che volete?... Io ammutolii dapprincipio, indi piansi, supplicai, mi strappai i capelli. Inutile! Rimase incrollabile, dovessimo morirne ambidue; mi ripeteva di guardare, di guardare, e che se non mi fossi convinto di quanto ella affermava, e se non avessi accondisceso a quanto mi proponeva sarei stato un essere spregevole, indegno al pari d'amore che incapace d'ogn'altro sentimento. D'allora in poi mi negò ogni sguardo ogni sorriso d'amore; mi proibí l'accesso alla sua stanza; fu tutta per l'Aquilina, e nulla per me. Infatti, per quanto volessi illudermi, mi fu forza riconoscere che in quanto all'amore della giovinetta per me i suoi sospetti non andavano lontani dal vero. Per qual incantesimo non me ne fossi accorto non ve lo saprei dire: e arrabbiai della mia sciocchezza della mia ingenuità. Mi provai anche a volgere contro l'Aquilina qualche parte di questa rabbia, ma non ne fui capace. Dopoché ella indovinò quanto fra me e la Pisana era avvenuto, ella assunse verso di me un contegno cosí supplice vergognoso che mi tolse ogni coraggio. Pareva mi chiedesse perdono del male involontariamente commesso; e la vidi talvolta adoperarsi presso la Pisana per rabbonirmela. Si studiava perfino di sfuggirmi, di fare con me la stizzosa perché non si avvedessero di quanto succedeva nel suo cuore, e la concordia rinascesse in mezzo a noi. Bruto, che fin'allora era andato in solluchero per l'allegra vita che si menava, scoperse con rammarico quei primi segni di dissapore e di trasordine, non ne capiva gran fatto ma gliene doleva all'animo. Ne mosse anche parola a me, ma io mi ritraeva burbanzoso, stringendomi nelle spalle; altro motivo di disgusto e di sospetto. L'Aquilina intanto ci perdeva nella salute; il fratello se ne inquietò; furono chiamati medici che fantasticarono molto, e non indovinarono nulla. La Pisana mi stringeva sempre; io mi rammoliva. Alla fine, non so come, mi lasciai sfuggire dalla bocca un sí. Bruto fu meravigliatissimo della proposta fattagli dalla Pisana, ma dietro reiterate assicurazioni di questa e che tutto fra me e lei era terminato di spontaneo accordo e che l'Aquilina moriva per me, egli se ne persuase. Se ne fece parola alla giovinetta, che non volle credere dapprincipio, e poi ne smarrí i sentimenti per la consolazione. Ma poi all'abboccarsi con me rimase senza fiato e senza parola; la poverina presentiva che io me le offeriva trascinato a forza e non aveva coraggio di chiedermi un tal sacrifizio. Lo credereste che la sua attitudine finí di commovermi affatto, e che sentii d'un subito nel cuore l'annegazione stessa della Pisana?... Mi parve di salvare la vita d'una creatura angelica a prezzo della mia, e la coscienza di questa valorosa azione diede al mio aspetto la serena contentezza della virtù. All'Aquilina non parve vero: in prima stentava a credere quello che la Pisana le aveva dato ad intendere, che cioè noi due non ci eravamo amati mai altro che come buoni parenti, ma poi vedendomi presso di lei calmo affettuoso e alle volte perfino felice, se ne capacitò. Allora non pose piú freno agli slanci di gioia dell'anima sua, e mi convenne esserlene grato se non altro per compassione. Vedere quell'ingenua creatura rifiorir allora come una rosa inaffiata dalla rugiada, e risorgere sempre piú bella e ridente ad un mio sguardo ad una parola, fu lo spettacolo che mi innamorò non forse di lei, ma di quell'opera miracolosa di carità. La Pisana non capiva in sé pel contento di questi felici effetti, e la sua gioia talvolta m'incaloriva in una virtuosa emulazione, tal'altra mi cacciava nel cuore la fitta della gelosia. Oh qual tumultuoso vortice d'affetti s'ingroppa e si sprofonda fra le piccole pareti d'un cuore! Anche allora io diedi prova di quell'estrema pieghevolezza che impresse molte azioni della mia vita d'un colore strano e bizzarro, per quanto la mia indole tranquilla e riflessiva mi allontanasse dalla stranezza e dalla bizzarria. Ma la stravaganza era di chi mi conduceva pel naso; benché poi non possa dire se in quell'occasione adoperai male lasciandomi condurre, o se meglio avrei fatto di inspirarmi da me e di prendere qualche deliberazione contraria. Certo i miei sentimenti, lo dico senza adulazione, toccarono allora l'ultimo segno della generosità; e me ne maraviglio senza pentirmene. Pentirsi d'una azione buona e sublime, per quanto danno ce ne incolga, è sempre atto di gran codardia. Meglio è contarvela in poche parole. Per la Pasqua del milleottocentosette si stabilirono le nozze. La Pisana fu tanto accorta da farsi invitare dallo zio monsignore a starne presso di lui come governante. Io rimasi con Bruto e l'Aquilina e lo sposalizio fu celebrato mio malgrado e a richiesta della Pisana con grande solennità. L'Aquilina, poveretta, gongolava tutta e non toccava terra pel gran piacere, io mi sforzava di godere della sua gioia, e posso credere di non averla almeno guastata. Alle volte mi guardava indietro sorprendendomi di esser arrivato fin là, e non comprendendo né il perché né il come; ma la corrente mi trascinava; se fu tempo in cui credessi alla fatalità fu certamente allora. Io sposai l'Aquilina. Monsignore di Fratta benedisse il matrimonio; la Pisana fu matrina della sposa. Io mi sentiva entro una gran voglia di piangere, ma non era senza qualche dolcezza quella melanconia. Al pranzo di nozze non ci fu grande allegria; ma anco non rimasero sui piatti molti avanzi. Monsignore mangiava come avesse vent'anni; io, vicino a lui e un po' sbalordito dagli inopinati accidenti che m'intervenivano, lo domandai non so quante volte della sua salute durante il pranzo. Mi rispondeva fra un boccone e l'altro: - La salute andrebbe a meraviglia se non ci fosse questo benedetto scirocco! Una volta non era cosí. Te ne ricordi, Carlo?... Peraltro non pioveva da un mese; e fra tutti i popoli d'Italia Monsignore era il solo che sentisse lo scirocco. Alle mie nozze intervennero, ci s'intende, Donato colla moglie e i figliuoli, il Capitano colla signora Veneranda, e il cappellano di Fratta. Un altro commensale di cui forse vi sarete dimenticati fu lo Spaccafumo; il quale in tanta confusione di governi e di avvenimenti che s'era succeduta, avea sempre continuato ad amministrare la giustizia a suo modo; ma ad ogni anno passava qualche mesetto in prigione e allora s'era fatto vecchio e ubbriacone. Le sue prodezze erano omai piú di parole che di opere; e i monelli si trastullavano di stuzzicarlo e di fargli dire sui mercati le piú strambe corbellerie. Egli viveva si può dire di elemosina, e per quanto Bruto lo invitasse a sedere alla mensa comune non ci fu verso di poterlo stanare dalla cucina, ove godette delle nozze coi gatti coi cani e colle guattere. La sera gran festa da ballo: allora si pensò piú che agli sposi a darsi bel tempo, e la giocondità fu piena e spontanea. Marchetto, sagrestano che pareva il diavolo vestito da prete, grattava il contrabbasso, e in onta all'età con una tal furia da cavallante che le gambe duravano fatica a tenergli dietro. La Pisana cercò di scomparir quella sera alla muta; ma io m'accorsi del momento di sua partenza: i nostri occhi s'incontrarono, e si scambiarono, credo, un ultimo bacio. L'Aquilina parlava allora colla Bradamante ma rimase un momento svagata. - Cos'hai? - le chiese la sorella. - Nulla, nulla - rispose tramortita la novella sposa. - Non ti pare che qua dentro si affoghi dal caldo?... Io udii quelle parole benché pronunciate a bassissima voce; e non pensai piú che a compiere i nuovi doveri che mi era imposto. Fui gentile, amoroso coll'Aquilina fino al finir della festa. E poi?... E poi m'accorsi che in certi sacrifizi la Provvidenza, forse per retribuirne il merito, sa mettere qualche discreta dose di piacere. L'innocenza, la leggiadria di mia moglie vinsero affatto la causa; e feci assoluto proponimento di mostrarmele sempre buon marito. "Quello che è fatto è fatto" pensai "il da farsi facciamolo bene...". Non credo che l'Aquilina s'accorgesse nemmeno durante i primi giorni dello sforzo indurato per dimostrarle quell'ardenza d'amore che infatti io non sentiva. Ma a poco a poco m'abituai a volerle bene in quel nuovo modo che doveva; non durai piú tanti sforzi; e se sospirava ripensando al passato, trovava che anche senza molta filosofia si poteva accontentarsi del presente. Le opere buone sono una gran distrazione. Quella di far felice mia moglie mi occupò tutto, e mi vidi dopo un solo mese piú buon marito di quanto non avrei mai osato sperare. La Pisana fu testimone di questo mio interno mutamento. Persuaso che quel suo grande ma troppo facile sacrifizio a favore della Aquilina non potesse spiegarsi che con un sensibile raffreddamento del suo amore per me, non mi diedi briga per nasconderle l'agevolezza ch'io trovava maggiore d'ogni speranza nel rassegnarmi a portare la mia parte di sacrifizio. Sperava che vedendomi meno malcontento avrebbe avuto minor rimorso della tirannia con cui aveva fatto violenza alla mia volontà. Sulle prime ella la capí per questo verso; ma i giorni passavano e nelle frequenti visite che ne faceva andava sempre piú oscurandosi in viso; e quelle congratulazioni che recava negli occhi della mia bravura si cambiarono a poco a poco in sospetti ed in stizza. Io credeva non mi trovasse abbastanza premuroso presso l'Aquilina e raddoppiava di zelo e di buona volontà; ella invece s'ostinava nel suo broncio, ed anche con mia moglie non si mostrava piú tanto affettuosa come dapprincipio. Un mattino capitò a casa nostra tutta scalmanata che Bruto e l'Aquilina erano fuori per non so qual motivo. Senza aspettare neppure ch'io la salutassi mi chiuse la bocca con un gesto. - Tacete - mi disse - ho fretta di sbrigarmi. Voi adesso vi amate: non avete piú bisogno di me. Torno a Venezia. Io non voleva rispondere, ma ella non me ne lasciò il tempo. Mi gridò nell'uscire che salutassi mia moglie e il cognato: indi rimontò nel calessino col quale era venuta accompagnata dal cappellano di Fratta, e per correre che facessi non mi venne fatto di raggiungerla. Un'ora dopo, quand'io capitai al castello era già partita né si sapeva se per la strada di Portogruaro o di Pordenone colla carrettella dell'ortolano. Fui imbrogliatissimo di dar ragione all'Aquilina e a Bruto d'una sí precipitosa partenza, ma ebbi la felice idea d'inventar la favola d'una malattia improvvisa della signora Contessa; e fui creduto senza fatica. Allora non felice né immemore ma tranquillo e rassegnato mi rimisi alla mia vita di organista e di marito. L'Aglaura e Spiro scrivevano sempre piú maravigliati di quella mia improvvisa conversione; io rispondeva celiando che Dio m'avea toccato il cuore: ma sovente si scrive quello che non si sente. I mesi correvano via semplici, laboriosi; sereni come quei cieli d'autunno nei quali il sole abbellisce la natura senza scaldarla. L'Aquilina, tutta mia, si rivestiva ogni giorno di nuove grazie di nuovi pregi per piacermi; la riconoscenza per un amore cosí nobilmente dimostrato m'inchinava sempre piú verso di lei, e rendeva sempre piú rari i rimpianti del passato. Il cuore volava ancora talvolta; ma quando la mente instituiva confronti le conveniva confessare che l'Aquilina era la piú amabile e la piú perfetta fra quante donne io m'avessi mai conosciuto. A lungo andare i giudizi della mente hanno qualche influenza sugli affetti d'un uomo di trentaquattr'anni. Quando poi m'avvidi ch'ella era incinta, quando mi strinsi fra le braccia il fantolino piú robusto e piú roseo che m'avessi mai veduto e sentii commoversi le mie viscere di padre, e di questa consolazione dovetti confessarmi debitore a lei, allora non seppi piú chi mi fossi; ringraziai quasi la Pisana di avermi sforzato a quello strambo spropositato matrimonio. Peraltro la mia memoria non era né morta né ingrata. Io voleva avere sovente notizie da Venezia, e sapendo che la Pisana accasata colla Clara presso suo marito non d'altro si occupava che di curare le infermità di questo, mi uscirono da capo certi giudizi temerari che aveva fatto sulla sua fuga dal Friuli. S'ella fosse stata arrabbiata contro di me, non ne avrebbe dato segno a quel modo. Io conosceva per pratica le vendette della Pisana. Intanto anche lontano non cessava di esserle utile. Avea rimesso in buon sesto l'amministrazione di quei pochi coloni che dipendevano ancora dal castello di Fratta, e regolato l'esazione di molti livelli. Le entrate crebbero del trenta per cento. Monsignore poté mangiare qualche cappone che non era gallo, e il conte Rinaldo, malgrado la sua selvatichezza, m'ebbe a ringraziare dell'essermi adoperato a loro pro' senz'essere richiesto, e con tanta efficacia. Vi prenderà stupore e noia che la mia vita per qualche tempo cosí capricciosa e disordinata riprendesse allora un tenore sí quieto e monotono. Ma io racconto e non invento: d'altra parte è questo un fenomeno comunissimo e naturale nella vita degli Italiani, che somiglia spesso al corso d'un gran fiume calmo lento paludoso interrotto a tratti da sonanti e precipitose cascate. Dove il popolo non ha parte del governo continuamente, ma se la prende a forza di tanto in tanto, questi sbalzi queste metamorfosi devono succedere di necessità, perché altro non è la vita del popolo se non la somma delle vite individuali. Per questo io girai alcuni anni lo spiedo, fui studente e un po' anche cospiratore; indi tranquillo cancelliere, poi patrizio veneto nel Maggior Consiglio e segretario della Municipalità: da amante spensierato di tutto mi mutai di colpo in soldato: di soldato in ozioso un'altra volta, poi in intendente e in maggiordomo: finii a maritarmi e a sonar l'organo. In questo perpetuo su e giù, se salii o scesi lo direte voi: io per me so che ci consumai trentaquattr'anni, quegli anni nei quali vissi tutto per me. Dopo, la famiglia i legami i doveri precisi e materiali s'impadronirono de' miei sentimenti. Non fui piú il puledro che scorazza pei paludi saltando fossati e sforacchiando fratte, ma il cavallo bardato che tira gravemente o la carrozza d'un cardinale o il carretto della ghiaia. Ma non vi spaventate; non mancheranno terremoti e rovesciate per tornare in libertà il cavallo e fargli riprendere una matta corsa attraverso il mondo. Solamente ora sono sicuro di non correr piú; ma ho, vi ripeto, come Monsignore, lo scirocco degli ottant'anni nelle gambe. Mentre io mi faceva dí per dí sempre piú casalingo e campagnuolo, e al mio piccolo Luciano che già trottolava nel cortile aggiungeva un secondo fanciulletto cui misimo nome Donato in onore dello zio che gli fu padrino, nel mondo strepitavano le glorie guerresche di Napoleone. Vinceva la Prussia a Jena, l'Austria a Wagram; s'imparentava colle vecchie dinastie, e signore dell'Europa chiudeva il continente all'Inghilterra e minacciava il mezzo asiatico impero degli Czar. L'Italia, tutta in suo pugno sbocconcellata a capriccio, aveva tuttavia ritto a Milano lo stendardo dell'unità. Si avvezzavano a guardar quello, e Napoleone piuttosto nemico che protettore, per la sua ambizione smisurata e noncurante di storia o di popoli. Ma quando la spada dataci da lui fosse caduta a terra chi avrebbe osato impugnarla? A questo non pensavano. Si credevano forti, non sapendo che la forza riposava sopra il colosso e con lui si sarebbe fiaccata. Di cento che armeggiavano uno solo pensava, e agli altri novantanove sarebber cadute le armi e le braccia nel maggior cimento. Io non era spettatore, ma indovinava. Spiro frattanto scriveva lettere sempre piú animate e misteriose; e ben m'accorgeva che qualche sublime idea fermentava nell'anima del greco mercante. Rigas il poeta aveva fondato la prima Eteria; e ottenutone per ricompensa il tradimento dai cristiani naturali alleati e il palo dai Turchi. Una seconda congiura si ordiva in Italia a profitto dei Greci, protetta da Napoleone. Sognavano di contrapporre al nuovo Carlomagno un nuovo impero di Bisanzio. Ed erano sogni, ma raccendevano le ceneri non mai spente dei greci vulcani e si cantava fra le montagne dei Mainotti: "Un fucile una sciabola e s'altro manca una fionda, ecco l'armi nostre. "Io vidi gli agà prosternati a' miei piedi; mi chiamavano loro signore e padrone. "Io avea rapito loro il fucile, la sciabola, le pistole. "O Greci, alto le fronti umiliate! Prendete il fucile la sciabola la fionda. E i nostri oppressori ci nomeranno ben presto loro signori e padroni." Fra le orde selvagge degli Albanesi e le tribù pastorecce del Montenegro, ove è un insulto dire: - I tuoi son morti a lor letto! - serpeggiava il fuoco dell'entusiasmo. Alí Tebelen trionfava colla crudeltà e colla perfidia ma gli esuli dell'Ellade inspiravano a tutta Grecia il disegno di terribili rappresaglie. Quella non si manifestava ancora ma era forza verace; forza invincibile d'una nazione che ha meditato da lungo la propria sventura, ha accumulato gli insulti e aspetta paziente il momento della vendetta. Il vecchio Apostulos partí un'ultima volta per la Morea; la speranza di rigenerare la Grecia colla politica dei Fanarioti era svanita; egli si volgeva a speranze di guerra e di sangue coll'avidità del leone che si vede strappata la preda quando appunto credeva di addentarla. La morte lo colse a Scio, e Spiro me ne diede il tristo annunzio colle forti parole che gli ultimi desiderii di suo padre sarebbero stati lo spirito d'ogni sua impresa. Egli m'invitava sempre a trasferirmi colla famiglia a Venezia, ove diceva non mi sarebbe mancato né decoroso sostentamento né occasione di esser utile a me ed agli altri. Ma contento di quello che aveva, non arrischiava d'avventurar me e soprattutto i miei in malcerti tentennamenti. Bruto leggendo qualche brano delle lettere di mio cognato si mordeva le labbra, e pestava rabbiosamente la sua gamba di legno. Io guardava l'Aquilina e il piccolo Donato che le pendeva alla mammella: non poteva distogliermi da quella pace. Successe la gran guerra dei moderni giganti. Napoleone entrò in Germania con cinquecentomila uomini, diede la posta a Dresda a imperatori e re piú vassalli che alleati; e quando alcuni fra essi gli erano annunciati, diceva: - Aspettino. - Voleva chieder conto allo Czar della tiepida amicizia. Il mistico Alessandro chiamò all'armi la santa Russia, oppose alla guerra dell'ambizione la guerra del popolo; e quella miserabile cavalleria dei Cosacchi, come la chiamava Napoleone, fu il flagello e lo sgomento dell'invincibile esercito. Giunse a Mosca, vincitore sempre: ne fuggí vinto dal fuoco, dal gelo, dagli elementi insomma, ma non dagli uomini. Quarantamila italiani insanguinarono delle proprie vene le nevi della Russia per assicurare la ritirata agli avanzi dispersi della grande armata. Ma il bollettino che annunziava l'immenso disastro conchiudeva: "La salute di Sua Maestà non fu mai migliore." Conforto bastevole alle vedove, agli orfani, alle madri orbate della prole! Egli è a Parigi a levar nuovi eserciti a rincalorire la devozione colla presenza, e il coraggio con nuove bugie. Ma la Francia non gli crede, la Germania insorge, gli alleati tradiscono. Egli ricade a Lipsia; abdica all'Impero di Francia al Regno d'Italia e si ritira all'isola d'Elba. Allora si vide cosa fosse il Regno d'Italia senza Napoleone, e a che i popoli sieno menati da istituzioni anche maschie senza libertà. Fu uno sgomento una confusione universale: un risollevarsi un combattersi di speranze diverse mostruose, tutte vane. A Milano si trucida un ministro, si abbattono le insegne dell'antico potere, si gavazza nella presente licenza non pensando al futuro. E il futuro fu come lo volevano gli altri; in onta alle rispettose e sensate domande della Reggenza provvisoria, in onta alle belle parole degli ambasciatori esteri. Il popolo non aveva vissuto; non viveva. Se io fossi costernato di questi avvenimenti che mi scotevano dal mio torpore di padre di famiglia, e avveravano quelle paure che da lunga pezza aveva concepito, non è d'uomo il dirlo. Dal racconto di questa vita dovete già avermi conosciuto abbastanza. Sospirai per me, piansi di disperazione per la patria, indi guardando alle sembianze tenerelle dei figliuoli mi consolai e rividi un barlume di speranza. Eravamo nati, si può dire, diciott'anni prima; ci voleva la scuola delle sventure per educarci, e la vita dei popoli non si misura da quella degli individui; se noi figliuoli s'aveva scontato la viltà dei padri, i figliuoli nostri forse avrebbero raccolto la messe fecondata dal nostro sangue e dalle lagrime. Padri e figliuoli sono un'anima sola, sono la nazione che non perisce mai. Cosí mi affidava alla rigenerazione morale, non al viceré Beauharnais, né allo czar Alessandro, né a lord Bentink, né al general Bellegarde. A questo modo passano rapidi gli anni come i mesi della giovinezza; ma non crediate che in effetto fossero tanto veloci come sembra a raccontarli. Piú il tempo è lungo a narrarlo e piú forse fugge rapidamente in realtà. A Cordovado i giorni erano tranquilli, sereni, dolci anche se volete, ma la soverchia brevità non era il loro difetto. Le lettere della Pisana assai rare dapprincipio diventarono mano a mano piú frequenti all'infuriare delle tempeste politiche; pareva che, immaginandosi quanto ne doveva soffrire, ella s'affrettasse a porgermi il conforto della sua parola. Mi diceva dei grandi schiamazzi che aveano fatto i Venchieredo l'Ormenta e il padre Pendola coi suoi proseliti; delle belle cariche date ai suoi cugini Cisterna, massime ad Augusto ch'era diventato di botto, credo, segretario di governo; e d'Agostino Frumier che volendo ritirarsi dagli affari ed essendo ricchissimo non avea sdegnato di domandare il quarto o il quinto di pensione che gli competeva. Molte, come vedete, furono le porcherie; e non poteva essere altrimenti perché l'astinenza era la virtù dei migliori, né si giungeva a fare di meglio. Peraltro il vecchio Venchieredo osteggiato pel soverchio zelo avea perduto assai della sua influenza ed era scaduto dai primissimi gradi fino a quello di direttore della Pulizia. Egli ne sbuffava; ma non c'era rimedio. Servir troppo è servir male. Non era stato furbo abbastanza. - Il Partistagno invece rimise il piede in Venezia colonnello degli ulani; aveva sposato una baronessa morava, diceva, perché somigliantissima ad una sua cavalla prediletta. Egli serbava ancora il suo astio contro la famiglia di Fratta; e saputo che la Clara uscita di convento abitava il Palazzo Navagero, si pavoneggiava sovente in grande assisa sotto le finestre di quello sperando di darle nell'occhio e persuaderla a dire: "Gran peccato quello di non averlo voluto ad ogni costo!". - Ma la Clara, diventata miope a forza di aguzzar gli occhi nell'Uffizio della Madonna, non ci vedeva piú fin nella calle e non distingueva uno di que' pezzenti che fermano le gondole, dal magnifico e spettacoloso colonnel Partistagno. Fuvvi chi disse che anche Alessandro Giorgi fosse passato dall'esercito italiano all'austriaco serbandosi il grado di generale guadagnato alla Moskova, ma io non ci credeva. Infatti alcuni mesi dopo mi giunsero notizie dal Brasile dove si era rifugiato e aveva trovato un buon posto. Non si dimenticava di offrirmi la sua protezione presso l'imperatore don Pedro; e mi diceva di aver trovato a Rio Janeiro parecchie contesse Migliane che mi potrebbero fare ben altro che maggiordomo. Probabilmente egli si dimenticava che ero organista ammogliato e con figli; pure mi aveva veduto me e la mia famigliuola nel passare col principe Eugenio quando marciavano nel milleottocentonove verso l'Ungheria. Ma in onta ai suoi quarant'anni il bel generale si conservava alquanto libertino e smemorato. Gli smorti anni seguenti non furono che un melanconico cimitero. Il primo a traboccare fu il cappellano di Fratta, indi toccò allo Spaccafumo; poi a Marchetto il cavallante, sagrestano e sonatore di contrabbasso che morí colpito dal fulmine mentre scampanava durante un temporale. Gli abitanti della parrocchia lo venerano anche adesso come un martire. Durante l'anno della carestia e nel susseguente la morte fece man bassa sulla povera gente; fu un sonare a morto continuo, e cosí se n'andò ma non per colpa della carestia anche la signora Veneranda, lasciando il Capitano vedovo per la seconda volta ma con settecento lire di usufrutto, il che lo liberò dal pensiero di torsi una terza moglie. Ed anche noi in quell'anno ebbimo a stringerci non poco; perché non si trovavano piú né famiglie che pagassero il ripetitore ai loro ragazzi né pievani che racconciassero organi. Anzi le spese fatte in quell'anno furono il principio del nostro sbilancio che poi s'aggravò sempre e mi condusse ai nuovi rivolgimenti che udrete in appresso. Non mi ricordo precisamente quando, ma certo in quel torno il conte Rinaldo fece una gita nel Friuli: veniva per denari e siccome non ne trovò, vendette ad un imprenditore i materiali della parte piú diroccata del castello. Io assistetti alla demolizione e mi parve al funerale d'un amico; cosí pure il Conte non poté reggere allo spettacolo di quella rovina, e toccati quei pochi quattrini se ne tornò a Venezia. Ve lo richiamava anche la malattia di sua madre che cominciava a dar gravi timori. Appena sgomberi i cortili delle pietre spaccate a forza di piccone e delle macerie ragunatevi a montagne durante la demolizione, cominciò Monsignore a sentir piú molesto che mai lo scilocco. Una mattina ebbe uno svenimento durante la messa, e dopo d'allora non uscí piú della sua camera. Io fui a trovarlo il penultimo giorno di sua vita, gli domandai del suo stato e mi rispose colla solita solfa. Sempre quello scirocco ostinato!!... Tuttavia mangiava anche a letto a doppie ganasce, e all'ultima ora aveva il breviario da un lato e dall'altro mezzo pollastrello arrostito. La Giustina gli veniva domandando: - Non mangia, Monsignore?... - Non ho piú fame! - rispose egli con voce piú fioca del solito. Cosí morí monsignor Orlando di Fratta, sorridendo e mangiando com'era vissuto; ma almeno si avea cavata la fame. Invece sua cognata, che gli andò dietro qualche mese dopo, farneticò fino agli estremi di carte e di trionfi; morí sognando vincite favolose, collo scrigno asciutto e con ogni sua roba al Monte di Pietà. I Cisterna dovettero prestare qualche ducato al conte Rinaldo per farla seppellire, giacché né la Clara né la Pisana avevano un ducato in tasca, e Sua Eccellenza Navagero si commiserava sempre della propria povertà. Tutti se n'andavano, ma costui batteva duro; segno che i miei ardentissimi voti di qualche anno addietro non avevano ottenuto grazia presso Domeneddio. La Pisana mi partecipò con assai dolenti parole la morte della madre; e in segreto mi raccontò anche una visita assai impreveduta che avevano ricevuto. Una sera mentr'essa e la Clara recitavano il rosario nella cappella di casa (questa poi dalla Pisana non me la sarei aspettata), s'era annunziato un forestiero che chiedeva premurosamente di loro. Un signore piccolo, magro, dicevano, folto di barba, cogli occhi lucentissimi ad onta dell'età che sembrava di cinquant'anni e piú, colla fronte molto alta e nuda affatto di capelli. Chi può essere? chi non può essere?... Vanno in sala e la Pisana riconosce piú alla voce che alla figura il dottor Lucilio Vianello. Era giunto sopra una nave inglese, sapeva della Clara tornata al secolo, e veniva a chiederle per l'ultima volta l'adempimento delle sue promesse. La Pisana diceva di aver avuto paura del dottore tanto era cupo e minaccioso; ma la Clara gli rispose netto netto che non lo conosceva piú, che si era sposata a Dio e che avrebbe continuato a pregarlo per l'anima sua. "Vi assicuro" cosí scriveva la Pisana "che in quel momento lo sdegno il furore lo ringiovanirono di trent'anni; indi si fece pallido pallido e prese un colore terreo di morte e l'aspetto d'un ottuagenario. Partí curvo, barcollante, mormorando strane parole. La Clara si fece il segno della croce, e m'invitò con voce posatissima a riprendere il nostro rosario. Io soggiunsi che doveva riscaldar il brodo per mio marito, e me ne dispensai; perché proprio quella scena mi avea fatto male. Non avrei mai creduto che tanta passione covasse sotto quelle apparenze di ghiaccio, durando invitta attraverso le vicende gli strabalzi i rivolgimenti d'una vita poco meno che favolosa. Ve lo ricordate a Napoli e a Genova? Non pareva che si fosse dimenticato affatto della Clara? Ce ne chiedeva egli mai novella? Mai! Certo mi son convinta che a giudicar nettamente gli uomini bisogna aspettare che siano morti. E voi pure, Carlo, soprastate a giudicar me finch'io non abbia raggiunto la mia povera madre!". Seguivano poi i soliti saluti e piú affettuosi del solito per l'Aquilina Bruto e i miei figliuoli, già grandicelli, poverini, e pieni di cuore e di buona volontà. Mi si raccomandava inoltre di porre una piccola pietra di commemorazione nel cimitero di Fratta per monsignor Orlando; ma a ciò io aveva già pensato mesi addietro, e don Girolamo, a dispetto del fratello notaio, mi avea prevenuto in questa pia opera. Quella lapide portava un'iscrizione di cui si potevano perdonare le eleganti bugie, perché già nessuno ci capiva nulla in paese. Peraltro un certo compare che sapeva di lettere era giunto ad interpretarla fino ad un certo punto, dove si diceva che il reverendo canonico era morto octuagenarius: il che significava agli otto di gennaio, secondo lui. Ma molti si ribellavano, soggiungendo che non agli otto di gennaio era morto ma ai quindici. - Eh? cosa mai! - rispondeva il valentuomo - vorreste che gli scalpellini badassero a queste minuzie? Giorno piú giorno meno, l'importante è che sia morto per incastrargli addosso la lapide. Io diedi contezza alla Pisana di questo suo pietoso desiderio già adempiuto da un pezzo, lodandone molto don Girolamo, il quale, benché non fosse né un Vincenzo di Paola né un Francesco d'Assisi, pur sapea farsi perdonare dai poverelli di Portogruaro la roba mal acquistata dal padre. - Non son tutti come il padre Pendola! - diceva io. Ella mi rispose che a proposito del padre Pendola se ne contavano di belle. Dappoiché il Papa aveva reintegrato la Compagnia di Gesù, egli s'adoperava molto per ottenerne lo stabilimento in Venezia. Siccome il novello istituto delle convertite non prosperava, si voleva ottenere dal consenso delle poche suore rimaste e colla debita licenza dei superiori di erogarne le entrate al primo impianto d'una casa e d'un collegio di novizi. Peraltro il governo pareva alieno dal favoreggiare quest'idea; anzi l'avvocato Ormenta, che la caldeggiava, era in voce di dover essere giubilato. Da questa notizia io capii tutto il maneggio di quella faccenda e come quei dabben sacerdoti primi fondatori dell'istituto fossero stati ubbidientissimi burattini nelle mani del padre Pendola. Ma già anche per costui poco dovea durare la cuccagna; infatti morí anch'esso senza vedere i reverendi Padri stabiliti in Venezia. Buoni e tristi, tutti alla lunga dobbiamo andare. Al padre Pendola non mancarono né epitaffi né satire né panegirici né libelli. Chi voleva canonizzarlo e chi seppellirne in acqua il cadavere. Egli avea supplicato, morendo, quelli che lo assistevano di essere dimenticato come un indegno servo del Signore; né credeva che lo avrebbero ubbidito cosí appuntino. Dopo una settimana non se ne parlava già piú, e di tanta ambizione null'altro era rimasto che un vecchio e marcio carcame ravvolto in una tonaca e inchiodato fra quattro assi d'abete. Nemmeno gli avean lustrato la cassa come si usa ai morti di rilievo! Che ingratitudine!... In fin dei conti poi credo che la Curia patriarcale fu contenta di essere liberata dal pericoloso aiuto d'un sí furbo zelatore della gloria di Dio e dei proprii interessi. Uscivano i vecchi attori, entravano i nuovi. Demetrio Apostulos, il primogenito di Spiro aveva vent'anni; Teodoro, il secondo, toccava i diciotto. I miei due stavano fra i dieci ed i dodici. Donato ne aveva tre, fra i sedici e i ventidue, tre robusti giovinotti davvero, che guai se fossero stati in età al tempo delle ultime leve napoleoniche!... Allora si continuava bensí anno per anno la coscrizione, in onta ai largheggianti proclami della Santa Alleanza; ma facilmente si concedevano gli scambi, e colla pace che si prevedeva lunghissima e profonda, molti infingardi concorrevano volentieri ai ben pasciuti ozii della milizia. La giovine generazione accennava all'antica di ritrarsi; poteva anche accennare superbamente, come poco contenta di noi; non avrebbe avuto il torto. Ma al contrario ci ammirava come aiutatori e testimoni di grandi imprese, di generosi tentativi, di incredibili portenti: pareva ci dicesse: "Dirigetemi, acciocché non cada dove voi siete caduti!...". Ci voleva altro che direzione; ci voleva nerbo e non ne avevamo piú; ci abbisognava la concordia, e avean saputo renderla impossibile. Al milleottocentodiciannove durava in Europa quell'inquietudine nervosa che dura in un corpo dopo la corsa sfrenata e trafelante di alcune ore; idee chiare, sentimenti generosi e universali non erano piú, se non forse in qualche testa segregata dalla folla per indolenza, per disdegno, per disperazione. Anche dove i popoli per sentimento nazionale avevano cooperato alla reazione contro la Francia, la ingratitudine premeditata dei grandi e la varia diffidenza dei piccoli mettevano ogni cosa a subbuglio. Credevano di tirar innanzi una grande impresa di libertà; invece non avevano assicurato che l'interesse di alcuni sommi a scapito di molte vere franchigie. E questo avveniva specialmente in Germania. Da noi invece, malcontenti del passato, perché passato senza lasciarci quella grassa eredità che s'aspettava, malcontenti del presente, perché somigliava una crudele canzonatura, i piú s'adagiarono a vivacchiare, come si dice, a imbottirsi un guscio, a fornir la cucina. L'esperienza aveva indotto una grandissima disparità d'opinioni; perciò anche i pochi bene avveduti non ne speravano nulla o speravano troppo lontano. Solamente coloro che si erano avvezzati a quella meravigliosa attività e non potevano distogliersene a rischio anche di lavorare per nulla, guardavano ansiosamente alla Spagna dove ferveva lo spirito liberalesco. Esclusi dal maneggio degli affari, il talento di comandare, invincibile e legittimo negli operosi ed assennati, li traeva, come dissi, alle società segrete. Dalle Calabrie i Carbonari aprivano le loro vendite per tutta Italia e davano mano ai democratici di Francia, ai progressisti di Spagna. La vecchia razza latina ringiovanita dall'immaginazione e dal sentimento si gettava col suo impeto naturale nella battaglia dei tempi. Di là dal mare rispondeva la Grecia, meno avanzata in civiltà, ma piú matura all'indipendenza per consentimento del popolo e per armonia d'opinioni. Il grido disperato di libertà che la vendetta di Alí Tebelen volse ai Greci, prima suoi nemici, risonò in tutti i cuori, dalle fumanti rovine di Parga alle rive melodiose di Sciro. I congressi degli alleati avevano posato un gran masso di ghiaccio sul cuore dell'Europa; ma il fuoco sprizzava all'estremità; muggivano minacciose le viscere della terra. Fu sullo scorcio del milleottocentoventi che, essendosi immiserite d'assai le nostre condizioni, e venendomi da Spiro buone speranze di aver pagamento del mio famoso credito di Costantinopoli, deliberai andarne a Venezia per abboccarmi secolui. Già fino dal luglio i Carbonari avevano improvvisato la rivoluzione di Napoli, ricavandone pel paese una larghissima costituzione; ma il re Ferdinando era già ito al Congresso degli Alleati in Troppau ove non istava piú tanto in parola colle libere note ad essi inviate da Napoli. Laggiù si armavano contro la tempesta che s'addensava a settentrione. Una mia gita nel Regno era, secondo Spiro, necessaria per cercar l'atto di morte di mio padre, senza del quale il governo turco non intendeva saldare le sue cedole. Dovendo trovar testimoni, e richiamar loro alla mente circostanze dimenticate forse per la lontananza, un tal negozio non poteva trattarsi per lettera. Questo fu il motivo di ottenere il passaporto; del resto era incaricato d'altre bisogne abbastanza delicate per non poterlesi dire a voce alta. Appoggiai la famiglia a Spiro che sarebbe andato a visitarla durante la mia assenza; e partii senza rincrescimento perché la mia discreta conoscenza delle cose napoletane mi faceva obbligo di prestarmi dove poteva; e questa circostanza avendo richiamato gli occhi sopra di me, non volli demeritare dell'altrui fiducia per privati riguardi, benché forse io vedessi piú scuro di ogni altro nelle rosee lusinghe di quel tempo. Del resto a Venezia vidi, come potete credere, la Pisana. In verità che ne rimasi maravigliato. Io mi guardava qualche volta allo specchio e sapeva come i quarantacinqu'anni mi si leggessero comodamente sulla fisonomia; ella all'incontro mi parve essere piú giovine di quando l'avea lasciata; una maggiore rotondità di forme aggiungeva dolcezza alla sua idea di bontà, ma erano sempre i suoi occhi languidi, infuocati, voluttuosi, il suo bel volto fresco ed ovale, il suo collo morbido e bianco, il suo andare saltellante e leggiero. Aveva un bel che fare ad accordarsi colla monacale rigidezza della Clara, un bel dirmi che facevano vita santa insieme, io la vedeva sempre la mia Pisana d'una volta; e basta!... ma se non avessi avuto moglie!!... Tanto piú mi maravigliai di questa sua ottima salute perché bisognava loro, si può dire, guadagnarsi il vitto colle proprie mani; non bastando a pagare i medici e le medicine i pochi quattrini che stillavano a fatica dalle mani aggranchite del Navagero. Costui nella breve visita che gli feci si lodò molto della moglie, ma non mi vide, credo, con molto piacere, per la gran paura che gliela portassi via. - Lo creda, signor Carlo - mi disse - che se mi scappasse via la mia infermiera io ne morrei il giorno dopo! - Eh, vecchio, lo sai pure che si vuol maggior bene ai malati che agli amanti noi altre donne! - gli rispose la Pisana. Il malato strinse la mano a lei ed a me; e li lasciai promettendo che presto nel ripassar da Venezia ci saremmo riveduti. Ma la Pisana mi si dimostrò anche nei commiati assai fredda e contegnosa come si conveniva ad una santa. La sera prima di partire vidi in Piazza il colonnello Partistagno colla moglie; in verità aveva proprio ragione: quella sua baronessa somigliava proprio una cavalla; tanto aveva lunghe le braccia le gambe il muso. Tuttavolta Raimondo Venchieredo le faceva la corte. Costui mi vide appena che s'imbucò nella stanzuccia piú scura del caffè Suttil a leggere attentamente la Gazzetta. Era invecchiato, livido, brutto come un vizioso marcio; né io credo che se la guazzasse molto largamente dappoiché suo padre insieme coll'Ormenta aveva avuto la giubilazione a metà soldo. Questi due decrepiti finivano assai male la loro vita subdola e ladronesca; ma l'avvocato stava a miglior partito perché suo figlio era allora a Roma, dicevasi, in missione diplomatica e ne aspettava grandissimo aiuto. Certo non piansi di lasciar a Venezia una tal gentaglia; ma mi dolse che quando partii l'Aglaura era piucchemai afflitta dal suo male di debolezza e di melanconia. Povera donna! Chi avrebbe riconosciuto allora il bel marinaio che m'aveva accompagnato da Padova a Milano al tempo della Cisalpina! CAPITOLO VENTESIMO I Siciliani al campo di Pepe negli Abruzzi. Io faccio conoscenza colla prigione e quasi col patibolo; ma in grazia della Pisana ci perdo solamente gli occhi. Miracoli d'amore d'una infermiera. I profughi di Londra e i soldati della Grecia. Riacquisto la vista per opera di Lucilio, ma poco stante perdo la Pisana e torno in patria vivo non d'altro che di memorie. Povero Adriatico! Quando rivedrai le glorie delle flotte romane di Brindisi, delle navi liburniche e delle galee veneziane? Ora il tuo flutto travolto e tumultuoso sbatte due sponde quasi deserte, e alle fratte paludose della Puglia corrispondono le spopolate montagne dell'Albania. Venezia, una locanda, Trieste, una bottega, non bastano a consolare le tue rive del loro abbandono; e l'alba che ti liscia ogni giorno le chiome ondeggianti cerca indarno per le tue prode altro che rovine e memorie. Quando salpammo da Malamocco il tempo era quieto e sereno. L'inverno non ci pareva quasi nulla, e meno poi nell'alto mare dove la nudità degli alberi e il biancheggiar delle nevi non attestano la vecchiaia dell'anno. Il tepido favonio fiato scherzava a sommo dell'onde, e conduceva all'arida Dalmazia i memori sospiri dell'Africa sorella. Dove sono ora Salona, il rifugio di Diocleziano, ed Ippona, la sede vescovile di Agostino?... Memorie, memorie, sempre memorie traverso queste onde non mai quiete né mutate da secoli, per queste aure sempre dolci e profumate, sopra questa terra eternamente divoratrice e feconda. L'Oriente produsse a rilento una civiltà che stultizza ancora decrepita; il Settentrione bamboleggia da trecento anni nella puerile superbia di chi si crede adulto, e non è forse ben nato ancora. L'Italia per due volte sorpassò l'Oriente e prevenne il Settentrione; per due volte fu maestra e regina al mondo; miracolo di fecondità, di potenza e di sventura. Ella rimugge ancora nelle viscere profonde; senza rispetto agli epicedi di Lamartine e alla sfiducia dei pessimisti, ella può un giorno raggiungere chi sta dinanzi d'un passo e si crede innanzi le mille miglia. Un passo, un passo e null'altro, ve lo dico io; ma è assai lungo a fare. Nei paraggi d'Ancona cominciò lo scirocco a darci noia ed attraversarci il cammino. Il trabaccolo chioggiotto resisteva bene; ma il vento opponeva migliori ragioni delle sue vele, e ci convenne calarle. Ormeggia di qua, ormeggia di là, ci misimo quattro settimane a toccar Manfredonia ov'io doveva sbarcare. Giunsi di là a Molfetta ch'eravamo ai primi di febbraio, e le cerne provinciali concorrevano sul confine dell'Abruzzo per opporsi col general Guglielmo Pepe all'invasione straniera da quella banda. Peraltro il grosso dei nemici si aspettava dalla strada romana, e l'esercito regolare gli si opponeva sotto il comando di Carascosa campeggiando sulla costiera occidentale fra Gaeta e gli Appennini. Io sbrigai le mie faccende in pochi giorni. Il vecchio curato era morto, ma aveva scritto il nome di mio padre fra i decessi nell'anno millesettecentonovantanove; rilevai regolarmente l'atto di morte, e mi affrettai al campo del general Pepe come erano le mie istruzioni. Fui ricevuto assai cortesemente dal giovane generale che aveva grandissima confidenza nelle sue torme di volontari e si proponeva con esse di combattere validamente la diversione che i nemici avrebbero tentato da quella banda. Non si immaginava mai piú che Nugent gli sarebbe piombato addosso con tutto l'esercito; perciò, fidandosi molto ancora dei Papalini, divisava afforzarsi meglio facendo una punta a Rieti nello Stato romano. Si occupava appunto dell'esecuzione di questo ardito disegno, quand'io gli fui introdotto dinanzi, e diedi le mie lettere commendatizie. Mi accarezzò molto bene, disse delle speranze che si avevano, e che alla peggio poi il ritorno del Re doveva accomodar tutto senza intervento di forestieri. Allora dal canto mio gli esposi quanto m'era stato commesso; ed egli se ne compiacque molto, soggiungendo che a ciò si poteva pensare ove i nemici, non aprendo nessuna trattativa, fossero venuti alle mani ed egli li ributtasse, come sperava, oltre il Po. Mi disse anzi che c'era al campo un signore milanese incaricato di proposizioni consimili, e che me lo avrebbe fatto conoscere. Ci trovammo infatti a tavola; ma mi dolse assai di ravvisare in esso uno dei piú assidui frequentatori della conversazione di casa Migliana; una cotal scelta non mi garbava punto. Questo signore parlava poco, guardava e sbofonchiava assai, come appunto era costume di tutti in casa della Contessa. Stette ancora un giorno; indi nel maggior pericolo scomparve, e non l'udimmo piú nominare, senonché fu veduto giorni appresso a Roma col dottorino Ormenta, al quale diceva egli di essersi raccomandato unicamente per ottenere il libero ritorno in Lombardia. Molti gli credettero; io no; infatti il suo nome non figurò molto degnamente nei processi degli anni seguenti; e benché poco sapesse, di quel poco si valse per salvar sé e lasciar gli altri nel pantano. Eranvi anche al campo alcuni siciliani, venuti per accordarsi circa alle cose del paese loro che discordavano allora scandalosamente dalle napoletane: giovani ardenti, cortesi e squisitamente educati. Sicilia è la Toscana della Bassa Italia; per questo appunto non si marita bene a Napoli rozzo, manesco, millantatore. Saranno sempre gelosie ove non sarà uguaglianza; e checché ne dicano del nostro municipalismo, anche Marsiglia in Francia sbufferebbe di esser sottoposta a Lione, come sbuffò per secoli Edimburgo di assoggettarsi a Londra: forse sbuffa tuttora. Sebbene Londra sovrasti ad ogni città del Regno Unito, piucché Roma a qualunque capitale della penisola nostra; ma per Roma stanno le tradizioni le memorie le glorie la maestà che la fanno capo nonché d'Italia, del mondo; e nessun luogo sarebbe sí ardito da vergognarsi di ubbidire a lei. Il fatto era che due valli della Sicilia pretendevano al disgiungimento da Napoli, e che un esercito condotto da Florestano Pepe era stato spedito colà a racchetarli: errore anche questo di distrarre le forze in badalucchi di preminenza quando si trattava in un'altra parte dell'essere o del non essere. Se mentre Carascosa colle sue schiere stanziali guardava la strada di Capua, l'esercito di Florestano si fosse congiunto alle cerne disordinate del fratello Guglielmo per afforzarle, forse non saremmo precipitati nelle disfatte di Rieti e d'Antrodoco: macchie dell'esercito napoletano che non ci ebbe parte, e conseguenza necessaria d'uno scontro improvviso fra soldati regolari, cavalleria ordinata, e bande raccogliticce di pastori e di briganti. I Siciliani difendevano la patria loro dalle imputazioni di arroganza e di sprovvedutezza; secondo essi quell'inopportuna riscossa dell'orgoglio palermitano si doveva alle mene dei Calderari, di quella società segreta che il ministro di Polizia Canosa avea creduto opporre all'influenza dei Carbonari. Ma le società segrete protette dai governi sono un mero fantasma; o non esisteranno mai, o si cangeranno in leghe spadroneggianti di zelatori che riescono nocive al governo stesso. Infatti Canosa fu destituito pel troppo operare alla scoperta de' suoi cagnotti. Il partito che comanda alla luce del giorno non sente il bisogno e non ha la necessità di comandare nell'ombra del mistero e della congiura. Risposimo dunque che se i Calderari facevano presa a Palermo, ciò dinotava la cedevolezza del terreno. Ma quei giovani animosi non volevano udir parlare di ciò; e in prova anzi del contrario recavano alcune proposizioni, accettate le quali, Sicilia si sarebbe racchetata a un tratto. Il Generale diede buone parole; ma quello era giorno da fatti e piú che le cose di Sicilia lo preoccupavano le notizie delle Marche. Si seppe subito dopo il pranzo che uno squadrone di ulani era passato la sera prima; contadini fuggiaschi dalle terre aperte narravano che tutto l'esercito tenea loro dietro. Fu chiaro allora nella mente del Generale il disegno astutissimo degli Imperiali di accennare a Napoli per la via di Capua, richiamando colà lo sforzo maggiore della difesa, e di giungervi invece per i passi malguerniti degli Abruzzi. Però si aveva campo ancora a supporre che fossero esagerazioni quelle ciarle di contadini, come sempre; e che avessero scambiato per migliaia le poche schiere di cacciatori a piedi ed a cavallo destinate a qualche ricognizione. Si sperava di poter concentrare dietro a Rieti le guardie appostate qua e là, e di dare almeno tempo a Carascosa di frapporsi da quel lato fra Napoli e il nemico alle spalle delle cerne di Pepe. Volendo questi mandar subito a Rieti, io e quei giovani siciliani ci offrimmo all'uopo; egli ce ne ringraziò, ci diede una scorta di cavalleggieri, raccomandandoci di farlo avvisato di tutto nel piú breve spazio di tempo possibile. Intanto avrebbe spiccato messi a tutti i comandanti, che rifluissero colle loro schiere sulla strada da Rieti ad Aquila. Quello che piú si temeva era vero purtroppo. Nugent premeva con tutto l'esercito il confine degli Abruzzi; un grosso corpo di cavalleria minacciava la importantissima posizione di Rieti. Pepe fu avvisato entro due ore: ma già troppo tardi perché potesse provvedere a tanta urgenza. Ebbe tempo di accorrere e di accomunarsi al maggior pericolo. Già i cavalli imperiali aveano cominciato l'assalto. I volontari armati di carabine resistevano male all'impeto della cavalleria; la campagna era spazzata, le strade correvano sangue, il terrore si diffondeva accresciuto dalla sorpresa, dal gran numero degli assalitori, dalla pochezza dei mezzi di difesa. Mancavano le artiglierie; i cavalleggieri non sommavano, credo, in tutto a quattrocento; gli altri erano sparpagliati in diverse posizioni. Dopo due ore di combattimento Rieti era perduta e Pepe costretto a ritirarsi. Ma uscito appena e raccozzati i suoi, e afforzato dalle schiere che giungono fresche, s'avvede che a Rieti è il capo della guerra, e che sfuggitogli di mano, altra speranza non resta. Aduna un consiglio di guerra; si giudica impossibile riprender la piazza contro i cannoni già appostati in buon numero dagli Imperiali. Tuttavia il Generale insiste nell'ardita ma necessaria deliberazione. Egli grida che chi vuol seguirlo lo segua, ma che egli non abbandonerà il confine d'Abruzzo prima di aver fatto sopra Rieti un ultimo sforzo. L'onor suo, il dovere glielo comandano. Al grido disperato del loro capitano accorrono animosi molti dei volontari, io ed i giovani siciliani tra i primi. Il pensiero di mia moglie de' miei figli non mi balenò che un istante alla mente; fu per persuadermi che primo dovere dei padri è di lasciare una buona eredità di esempi forti ed animosi. Converrete meco che per un organista di Cordovado non c'era poi tanto male. La morte in quel momento mi parve sí bella e gloriosa, da meritare una vita assai piú lunga della mia e piena a tre tanti di dolori e di sventure per procurarsela. Nel lungo tempo ch'io ho attraversato, mancarono è vero occasioni di viver bene, ma quelle di morir meglio non scarseggiarono; conforto anche questo di poter lasciare questo mondo senza rimpiangerlo. Il nostro assalto fu subito e vigoroso, ma manchevole per lo scarso numero degli assalitori: i cannoni tuonavano e menavano un orribile guasto nelle nostre file. Di quei bravi siciliani uno solo rimase vivo e fu prigioniero alla bocca d'un obice. Tornammo al secondo scontro, ma i piú erano disanimati; ci rispose una grandine di palle, le ordinanze si ruppero, i volontari si sbandarono; feriti e morti rimasero in buon numero sul terreno, tementi della cavalleria nemica che ruinava fremebonda. Il Generale ebbe tempo di rifuggir quasi solo ad Aquila dove avea fatto capo il resto dell'esercito; ma scoraggiato affatto pel primo disastro, e per la fallita fazione di Rieti. Per me, ferito profondamente in una spalla, usai ogn'arte per nascondermi per trascinarmi entro una macchia; ma alcuni bersaglieri mi scopersero; fui fatto prigioniero, e scoperto non essere napoletano, condotto al Quartier generale per esservi esaminato. Avanzando poi coll'esercito imperiale ebbi mano a mano contezza delle rotte di Aquila e di Antrodoco. Nel marzo fui condotto a Napoli, accasato pulitamente in Castel Sant'Elmo, e consegnato ad un tribunal di guerra perché si decidesse della qualità del mio delitto. Infatti l'aver io combattuto volontariamente per un governo costituzionale che non era il mio, fu ritenuto crimine di alto tradimento. E poiché fui sanato della ferita, mi lessero un bel mattino la mia sentenza di morte. Io nulla aveva scritto a casa, perché, secondo me, va sempre bene ritardar altrui la notizia di sventure irreparabili; mi disposi dunque a morire colla maggior rassegnazione, solo spiacentissimo di non veder la fine di quel tristo capitolo di storia. Vennero anche ad offrirmi pulitamente la grazia, se voleva dire chi mi aveva mandato e perché era venuto; ma a queste indiscretissime domande rispondeva abbastanza l'atto di morte di mio padre datato da Molfetta e trovatomi indosso. Risposi adunque che non per altro che per questo era venuto; e che essendomi soffermato a salutare il general Pepe, il mio cattivo destino m'avea tirato addosso quel brutto accidente. Fu dunque come non si fosse parlato; ma io colsi la buona occasione per pregare quei compiti signori di voler mandare alla mia famiglia quell'atto di morte nonché il mio, perché fossero tolti se non altro a loro vantaggio gli scrupoli un po' spilorci della Porta Ottomana. Quei signori sogghignarono a questo discorso immaginandosi forse ch'io lo avessi fatto per darmi a diveder pazzo; ma io soggiunsi col miglior sorriso del mondo, che facessero l'onore di credere al mio miglior senno, e che tornava a pregarli di quella cortesia. Dettai anzi ad uno di essi l'indirizzo di Spiro Apostulos a Venezia, e dell'Aquilina Provedoni Altoviti a Cordovado nel Friuli. Dal che essi furono persuasi che non celiava e mi promisero che sarebbe fatto secondo la mia volontà. Dimandai anche quando io sarei uscito di prigione per la cerimonia, giacché marciva là dentro da tre mesi, e mi pareva un onesto mercato quello di pagar colla vita una boccata d'aria libera. Saputo poi che l'esecuzione era stabilita pel terzo giorno e che sarebbe avvenuta nelle fosse del castello, me ne imbronciai alquanto. Dover morire essendo a Napoli, e senza poterlo rivedere! Confessate che la era un po' dura. Tuttavia partiti ch'essi furono mi racconsolai del mio meglio. Dissi fra me e me che quegli ultimi giorni non doveva perderli in frivolezze e in vani desideri, e che il meglio si era prender la morte sul grave, e dar un esempio di grandezza d'animo almeno ai carnefici. I buoni esempi parlano colle bocche di tutti, e giovano sempre; e il boia fece sovente maggior danno col parlar poi, che non avea recato vantaggio coll'impiecare. Il giorno appresso dopo aver dormito, lo confesso, con qualche inquietudine, udii venire pel corritoio alcuni passi che non erano né di guardie né di carcerieri. Quando apersero dunque la porta mi aspettava il confessore o qualche cameriere del boia che venisse a tondermi il capo o a misurarmi in collo. Niente di tuttociò. Entrarono tre figure lunghe lunghe nere nere, l'una delle quali trasse di sotto al braccio una carta, la spiegò lentamente, e cominciò a leggere con voce tronfia e nasale. Mi pareva udire Fulgenzio quando recitava l'epistola e questa reminiscenza non mi diede piacere alcuno. Tuttavia era tanto persuaso di dover morire l'indomani, tanto occupato di osservare quei tre scuriscioni, che non mi curai di dar retta a quanto leggevano. Mi fermò solamente l'attenzione la parola di grazia. - Cosa? - diss'io sguizzando tutto. - "Cosí si commuta la pena di morte in quella dei lavori forzati in vita da subirsi nella galera di Ponza" - continuava il nasaccio parlatore del signor cancelliere. Allora capii di che si trattava, e non so se me ne consolassi, perché tra la morte e la galera ci vidi sempre pochissima differenza. I giorni appresso poi ebbi campo a convincermi che se ci aveva qualche vantaggio era forse dal lato della forca. Nell'isola di Ponza e precisamente nell'ergastolo ove fu confinato il libero arbitrio della mia umana libertà non si può dire che abbondassero i commodi della vita. Uno stanzone lungo e stretto guernito di tavolate di legno per coricarsi, acqua e zuppa di fagiuoli, compagnia numerosissima di ladri napoletani e di briganti calabresi; per soprammercato legioni d'insetti d'ogni stirpe e qualità che le maggiori non ne ebbe addosso Giobbe quando giaceva sul letamaio. Fosse effetto di chi ci mangiava addosso o degli scarsi e pitagorici alimenti, fatto sta che si pativa la fame; i guardiani dicevano che l'aria di Ponza ingrassa, io trovai che i fagiuoli mi smagrivano e guai se fossi stato colà piú di un mese. Non so come abbia fatto la figlia o la nipote d'Augusto a durarci dieci anni; probabilmente si cibava di qualche cosa di piú succolento oltre la fagiuolata. Fortuna, come dissi, che ci rimasi non piú di un mese; ma mi mandarono a Gaeta ove se ebbi miglior compagnia e se fui meglio pasciuto, cominciai invece a patire nella vista. Aveva per me solo un gabbiotto tutto bianco di calcina che guardava il mare; e di là il sole splendente in cielo e riflesso dalle acque mandava entro un cotal riverbero che si perdevano gli occhi. Feci istanze sopra istanze: tutto inutile. Forse che ritenevano lecito di privar degli occhi un uomo cui si avea regalato la vita; ma non capisco allora perché non si fossero riserbati un cotal privilegio nell'atto di grazia. In tre mesi diventai quasi cieco: vedeva le cose azzurre verdi rosse, non mai del color naturale; perdeva ogni giorno piú il criterio delle proporzioni; alle volte il mio camerotto mi sembrava una sala sconfinata e la mia mano la zampa d'un elefante. I carcerieri poi mi sembravano addirittura rinoceronti. Il quarto mese cominciai a vedere quel mio pezzetto di mondo traverso una nebbia; al quinto principiò a calare un gran buio, e dei colori che vedeva prima non era rimasto che un rosso cupo, una tintura mista di polvere e di sangue. Allora capitò un ordine di trasferirmi a Napoli nel Castel Sant'Elmo; e mi tornarono innanzi i due soliti cancellieri a leggere la solita tiritera. Era graziato del resto della pena! Pazienza! Se non avrei piú veduto il mondo del colore che veramente era, lo avrei almeno passeggiato e fiutato a mio grado!... Avrei riveduto il mio paese, i miei figlioli, la moglie... Adagio con queste grandiosità!... Mi si graziava, sí, ma relegandomi fuori d'Italia; e potete credere che cacciato di lí, né Francia né Spagna sarebbero state disposte ad aprirmi le braccia. Qual razza di grazia fosse quella che mandava un povero cieco a cercar la limosina, Dio vel saprebbe dire. Peraltro ebbi il conforto di sapere che la grazia m'era venuta per intercessione della Principessa Santacroce e che con lei mi era concesso di abboccarmi prima di salpare dal porto di Napoli. La signora Principessa doveva essere invecchiata d'assai, ma aveva quel fare di bontà che è la perpetua giovinezza della donna. Mi accolse benissimo; e poiché non poteva vederla, io avrei giurato che l'aveva trent'anni come al tempo della Partenopea. Ella mi disse di essersi molto adoperata per me sia nel farmi graziare della vita sia nell'ottenere la mia liberazione; ma che non avea potuto riescir prima. Inoltre confessava che un'altra persona v'era alla quale piú che a lei era certo obbligato; e che quella persona io la conosceva assaissimo ma che prima di consentire a farsi riconoscere da me voleva esser sicura dello stato di mia salute, e se veramente era cosí infermo degli occhi come dicevano. Non so chi credetti che fosse quell'incognita e pietosa persona, ma era impaziente di vederla quel tanto che poteva. - Signora Principessa - sclamai - pur troppo la luce piú limpida degli occhi miei l'ho lasciata a Capua; e sono omai condannato a vivere in un perpetuo crepuscolo!... Le fattezze delle persone che amo mi sono nascoste per sempre, e soltanto coll'immaginazione posso bearmi delle serene ed amabili vostre sembianze! M'accorsi che la Principessa sorrise mestamente, come di chi credesse guadagnare a non esser veduto. - Quand'è cosí - soggiunse ella aprendo un uscio che dava in un gabinetto - venite pure, signora Pisana, che il signor Carlo ha proprio bisogno di voi. Per quanto il cuore me lo avesse detto, credo che in quel punto fui per impazzire. La Pisana era il mio buon angelo; io la trovava dappertutto dove il destino sembrava avermi abbandonato nei maggiori pericoli; vincitrice in mio favore dello stesso destino. Ella si precipitò di furia fra le mie braccia, ma si ritrasse nel momento che io le chiudeva per istringermela al cuore. Mi prese poi le mani e si accontentò di porgermi la guancia a baciare. In quel punto dimenticai tutto; l'anima non visse che di quel bacio. - Carlo - cominciò ella a dirmi allora con voce interrotta dalla commozione - sono venuta a Napoli or sono sette mesi con licenza anzi dietro invito di vostra moglie. La signora Principessa aveva scritto in gran premura a Venezia se un tal Carlo Altoviti che stava accusato di alto tradimento in Castel Sant'Elmo fosse quello stesso da lei vent'anni prima conosciuto. Ne scrisse a me non conoscendo altri vostri parenti. Figuratevi come ci sentimmo a questa novella, io che da tre mesi aspettava indarno vostri scritti e pur troppo vi temeva involto o per volontà o per caso nella rivoluzione napoletana!... Avrei voluto partir subito, ma le convenienze mi trattennero. Mi apersi dunque con vostro cognato esponendogli che a mezzo di una potente protettrice io poteva a Napoli tentar molto per voi. Egli avrebbe voluto accompagnarmi, ma sua moglie, vostra sorella, era aggravata del suo male, e gli fu forza restare. Cosí mi forní dei denari pel viaggio, ché già sapete come noi fossimo sempre al verde; ma prima di partire io pretesi da lui un altro servigio; volli che vedesse vostra moglie, che le raccontasse il tutto e che da lei mi venisse il permesso di adoperarmi per voi. L'Aquilina, poveretta, fu disperata di una tanta sciagura; ma che farci, mio Dio!... Colla miseria intorno, con due figliuoli garzonetti, col fratello quasi impotente, ella voleva tuttavia abbandonar tutto, e venir a soffrire, a morire con voi. Vostro cognato la dissuase mostrandole che il viaggio di lei non vi recherebbe nessun vantaggio, e molti invece la sua fermata pel vantaggio dei figli. Ella si rassegnò e fu beatissima di sapere come io m'esibiva a tentar ogni via di salvarvi, e mi confidava molto pei validi patrocinii che aveva. Venni qui; ogni vostra grazia la dovete alla graziosa intercessione della signora Principessa; ma perché Iddio ha voluto affliggervi d'un'altra sventura che non è in poter suo di alleggerirvi, eccomi qui io, che mi tengo superba della confidenza in me riposta da vostra moglie, e che vi sarò amica, guida se mi compatirete, e in ogni caso poi infermiera! - Pisana, voi siete troppo modesta - prese allora a dire la Principessa - le vostre intercessioni hanno potuto a Napoli tanto e quanto le mie. Se io ho piegato le volontà, voi avete saputo convincere i cuori. - Oh, tutte due voi siete le mie migliori benefattrici! - io sclamai. - La mia vita non avrà spazio bastante per provarvi se non altro a parole la mia riconoscenza. - Ci sono di troppo le cerimonie - soggiunse la Principessa. - Ora attendiamo a qualche cosa di piú utile. Domani dovete partire per un lungo viaggio, e vi sarà necessario pensarvi a tempo onde nulla vi manchi. Infatti quell'ottima signora, benché la sua fortuna non fosse molto splendida, m'avea preparato un baule pieno di quanto poteva abbisognarmi; né a me rimase nulla a desiderare, eccettoché un modo qualunque per provarle la mia gratitudine. Ella si era adoperata molto in quel frattempo anche pei figliuoli del povero Martelli, dacché la vedova era morta non molti anni dopo l'eroico sacrifizio del marito. Ambidue avevano ricevuto ottima educazione; uno era già ingegnere molto stimato e l'altro navigava come sotto-capitano d'un bastimento mercantile. Prima di partire ebbi la consolazione di conoscer il primo e di ravvisare in lui il ritratto vivente del padre. Era stato anche lui involto negli ultimi rivolgimenti e assoggettato ad un processo, ma aveva potuto liberarsene, e la stima del paese gliene era anzi accresciuta di molto per la mirabile fermezza da lui in ogni incontro dimostrata. Il giorno appresso abbandonai con dispiacere quelle incantevoli spiagge di Napoli che pur m'erano state fatali due volte: non le potei salutare cogli occhi, ma il cuore armonizzò co' suoi palpiti l'inno mestissimo della partenza. Sapeva di non doverle piú rivedere, e se io non moriva per loro, esse restavano come morte per me. Il mese appresso eravamo a Londra. Era il solo paese ove per allora mi fosse concesso di abitare; ma le condizioni nostre erano tali che là piú che altrove ci sforzavano a penose privazioni. Il gran costo del vitto, la carezza delle pigioni, la mia malattia d'occhi che peggiorava sempre, la povertà alla quale ci accostavamo sempre piú senza speranza di uscirne per alcun modo; tutto concorreva ad angustiarci pel presente ed a farci temere un futuro ancor piú disastroso. La Pisana, poveretta, non era né piú né meno d'una suora di carità. Lavorava per me notte e giorno e studiava l'inglese proponendosi di dare in seguito lezioni d'italiano e cosí provvedere al mio mantenimento. Ma intanto si spendeva troppo piú che non si guadagnasse e in onta a medici ed a cure io era ridotto cieco affatto. Allora appunto, quando aspettavamo da Venezia un qualche soccorso, ci scrisse l'Aglaura che pochissimo poteva mandarci, perché Spiro coi due figliuoli ed ogni sua ricchezza avea fatto vela per la Grecia al primo grido di ribellione levato dai Mainotti. Ella stessa avea creduto suo debito d'incuorarli a ciò; soltanto per la cagionevole salute non avea potuto seguirli ed era rimasta a Venezia contenta, nelle sue strettezze e ne' suoi dolori, di pensare che erano tutti sacrifizi utili e dovuti alla santa causa d'un gran popolo oppresso. Cosí io mi compiacqui con lei e col cognato di tanta magnanimità ma scomparve l'ultima lusinga di ottenere qualche elemosina da quella banda. Quanto al credito colla Porta, non se ne parlava nemmeno, allora che Spiro le avea rotto guerra co' suoi compatrioti. Rimaneva di rivolgersi a Cordovado; ma colà voleva la delicatezza che fossimo piú bugiardi per nascondere che sinceri per descrivere i nostri bisogni. L'Aquilina e Bruto si sarebbero cavati il sangue dalle vene per aiutar noi; ma per impedir appunto la rovina di loro e de' miei figli avevamo preso l'usanza di non raccontar loro altro che buone venture. Cosí della nostra estrema strettezza e della mia cecità sapevano nulla; e per coonestare l'assenza della Pisana e il mio carattere tanto infame quanto può esserlo quello d'un cieco che si sforza di scrivere, dava loro ad intender che io era occupatissimo, ed ella occupata molto utilmente presso una grande famiglia in qualità di aia, né premurosa di tornare perché sapeva essere piú di peso che di vantaggio al marito dopo l'assistenza prestatagli dalla Clara. Intanto ella studiava tutti i mezzi per trarre qualche utile dal proprio lavoro; e sebbene sulle prime non avesse voluto stabilirsi nell'istessa casa con me, col crescer poi dell'infermità e del bisogno vi si era indotta. Vivevamo come fratelli, immemori affatto di quel tempo nel quale vincoli piú soavi ci stringevano; e se io sbadatamente lo richiamava, tosto era sollecita la Pisana o a volger la cosa in burla o a stornar il discorso. Pur troppo ogni nostra lusinga era susseguita, si può dire, d'un disinganno. La Pisana con prodigiosa prestezza aveva imparato l'inglese, e lo parlava abbastanza correttamente; ma le aspettate lezioni non venivano punto e per brigare ch'ella facesse non aveva trovato che i figliuoli di qualche gramo mercantuccio cui insegnare l'italiano o il francese. Cercò allora aiutarsi col lavoro dei merli nei quali le donzelle veneziane erano al tempo andato maestre; ma benché ci guadagnasse discretamente in questa industria, la fatica era tanta che non poteva durarvi a lungo. Io mi perdeva le lunghe ore a ringraziarla di quanto la faceva per me, e non credo aver sofferto mai maggior tormento di allora nell'accettare sacrifizi che costavano tanto per la conservazione d'una vita cosí inconcludente come la mia. La Pisana rideva delle mie grandi parlate di devozione e di riconoscenza, e attendeva a persuadermi che quanto a me pareva le costasse molto, non le dava infatti che pochissimo fastidio. Ma dal suono della voce dalla magrezza della mano che qualche volta le stringeva, io m'era ben accorto che i disagi e il lavoro la consumavano. Io invece m'impinguava proprio come un cavallo tenuto sempre in istalla; e questo non era l'ultimo dei miei dispiaceri; temeva di esser creduto poco sensibile a tante prove di eroica amicizia che mi venivano date. "Amicizia, amicizia!" ci filava molto dietro questa parola, come diciamo noi Veneziani; e mi pareva impossibile che la Pisana fosse capace di stare fra i limiti di questo moderato sentimento. Non so se temessi o mi lusingassi qualche volta che la memoria, se non altro, del passato ci avesse un gran merito nei sacrifizi d'allora. Ma ella mi scherniva tanto piacevolmente quando cadeva in qualche lontana allusione a ciò, che mi vergognava de' miei sospetti come nati da troppa mia superbia o da scarsa fiducia nell'eroismo disinteressato di quella prodigiosa creatura. D'altronde, a dissuadermi da quell'opinione sarebbero bastati i continui e caldi discorsi ch'ella era sempre la prima ad intavolare sull'Aquilina sui miei figli e sulla felicità che avrei gustato quandocchesia fra le loro braccia. Pareva che la Pisana d'una volta dovesse essere morta e seppellita per me. Cosí passavano i mesi senza differenza per me di giorno e di notte: avea perduto affatto la speranza di racquistare la vista; non mi moveva mai dalla stanza se non la domenica per passeggiare un poco a braccio della Pisana. Costei si affaticava sempre oltre ogni misura, per quanto volesse darmi ad intendere il contrario; e sovente stava assente le intiere mattine, a volerle credere, per darsi bel tempo o per correre da casa a casa alle numerose lezioni che diceva avere. In fatto io mi figurava che avesse preso lavoro in qualche negozio; né mi sarei mai immaginato quello che scopersi in seguito. - Pisana - le domandava talvolta - per cosa oggi che è domenica non ti metti il vestito di seta? (lo conosceva al fruscio). Mi rispondeva di averlo dato ad accomodare; io sapeva che se n'era privata per far denaro, e me lo avea confessato una vicina che l'aveva aiutata a smerciarlo. Un altro giorno era lo sciallo che le mancava; e me ne accorgeva, perché, essendo freddo, la sentiva battere i denti. Mi assicurava di averlo indosso e mi facea palpare una lana ch'ella diceva essere lo sciallo. Ma io conosceva per antica pratica il molle tessuto di quel cascemire, e non m'ingannava col mettermi in mano una pellegrina di merinos o di signorea. Lo sciallo avea fatto l'egual viaggio del vestito di seta. Alle volte mi consolava di esser cieco per non soffrire lo spettacolo di tante miserie, dimenticando che quella disgrazia ne era certo la prima cagione. Poco stante mi disperava conoscendomi tanto impotente da dover essere debitore del vitto alla pietà miracolosa d'una donna. L'Aquilina, in onta alle nostre proteste di agiatezza, mandava quanto piú denaro poteva; ma erano gocce d'acqua in un gran vaso pieno di bisogni. Ancora ella scriveva che metteva qualche cosa da parte ogni giorno per venirmi a trovare, e che molto si era adoperata a Venezia per ottenermi la grazia di rimpatriare. Io crollava la testa perché omai la speranza mi era uscita affatto dal cuore: ma la Pisana mi dava sulla voce sclamando che era uno sciocco a scoraggiarmi a quel modo, e che eravamo abbastanza fortunati di camparla onestamente senza tante fatiche. Solamente talvolta nello sgridarmi di quella mia prostrazione d'animo ella punzecchiava alquanto col suo umorismo bizzarro e maligno di altri tempi. Ma non passava un minuto che si rifaceva buona e paziente, quasiché o il suo temperamento si fosse cambiato del tutto o avesse preso a dipendere dalla volontà e dalla ragione. Insomma vi saranno figli che costano molto alle madri, e amanti che deggiono assai alle amanti, e mariti che ebbero dalle spose le piú grandi prove d'affetto, ma un uomo che riconosca da una donna maggiori beneficii che io dalla Pisana non è, credo, sí facile trovarlo. Né madre né amante né sposa potea fare di piú per l'oggetto dell'amor suo. Se poi la sua condotta fosse giudicata anche a mio riguardo molto balzana e irregolata, e le fosse data taccia di pazza, come da taluno de' suoi conoscenti di Venezia, appunto per la magnanima spensieratezza di tanti sacrifizi, io benedirei allora la pazzia e vorrei abbattere l'altare della sapienza per innalzarne un altro ad essa mille volte piú santo e meritato. Ma pur troppo, essendo stabilito che i pochi debbano esser pazzi, e i savi i piú, al tempo che corre vanno rinchiusi all'ospedale coloro che pensano prima alla generosità indi alla regolarità e all'interesse delle loro azioni. Se il cervello rispondesse meglio ai palpiti del cuore, e le braccia rispondessero ubbidienti piú a questo che a quello, credete voi che tutto si avrebbe a rifare?... Oh no, la nostra storia si sarebbe chiusa con un magnifico "Fine"; e saremmo ora occupati, tutt'al piú, in qualche gloriosa appendice. Pur troppo bisognerà cambiar strada; e il rinnovamento nazionale appoggiarlo necessariamente ad un concorso tale di interessi che lo dimostrino un ottimo capitale con grassi e sicuri dividendi. Questo pure non è possibile; ma qual differenza coi sublimi e generosi slanci d'una volta!... Un povero cieco, e una donna avvezza fin'allora a tutti i commodi dell'oziosa nobiltà veneziana, v'immaginerete dunque come potessero vivere in quel gran turbine soffocante e affaccendato che è Londra. I profughi politici non godevano d'un certo favore, né la moda ne avea fatto una specie curiosissima di bestie da serraglio. Ci facevano pagare perfin l'acqua che si beveva, e meno gli scarsi aiuti mandatici da casa, la Pisana a tutto dovea provvedere. Ma cosa son mai a Londra tre in quattrocento ducati che mi potevano capitare in un anno da Venezia o da Cordovado!... Miserie! Massime poi colla mia infermità che la Pisana voleva curare sempre e coi consulti dei medici piú riputati; benché io, sfidato d'ogni soccorso dell'arte, ne la rimproverassi come d'un lusso affatto inutile. Le sue assenze da casa si facevano sempre piú frequenti e lunghe; il mio umore diventava tetro e sospettoso; ella, poveretta, per correggermi montava in collera e allora cominciavano gli alterchi e le dissensioni. Toccava a me, è vero, l'arrendermi e il tacere, come debitore di tutto che le era; ma alle volte mi pareva aver diritto a qualche maggior grado di confidenza e sapete che quella appunto che vien negata sembra essere la cosa unicamente desiderabile. Allora m'incapava di volerla spuntare; ella imbizzarriva dal suo lato e non sempre questi diverbi finivano all'amichevole. Soventi ella partiva dalla camera pestando i piedi e brontolando della mia diffidenza: mai una volta ch'ella mi tacciasse perciò di cattiveria o d'ingratitudine. E sí che le ne diedi sovente l'occasione. Intanto io aveva campo di fare l'esame di coscienza di ravvedermi e di prepararmi calmo e pentito per quando la sarebbe tornata. - Carlo - mi diceva ella - ti sei rifatto buono?... Allora rimango: se no esco ancora, e tornerò piú tardi. Non posso soffrire che tu dubiti di me: e credi che quello che non ti dico gli è proprio che non debbo dirtelo, perché non è vero. Io fingeva di crederle e di non annettere piú importanza a quella parte della sua vita che mi celava con tanto mistero; ma l'immaginazione lavorava e soventi anche non andai lontano dalla verità. Giustizia di Dio! Come raccapricciai solamente al pensarlo!... Ma in certe idee non mi fermava perché non ne aveva alcun diritto; e faceva anzi il possibile di persuadermi che nulla essa mi nascondesse e che le lezioni le rubassero tutto quel tempo che rimaneva fuori di casa. Tuttavia a poco a poco ella non ebbe piú il coraggio di dirmi che la stava benissimo e che non invidiava gli anni piú floridi di sua gioventù; io la sentiva ansare faticosamente dopo aver fatto le scale, tossire sovente, e qualche volta anche sospirava a sua insaputa con tanta forza che la compassione mi squarciava le viscere. Principiando il secondo anno del nostro esiglio, ammalò gravemente; quali fossero allora i tormenti la disperazione del povero cieco, non potrei certo descriverli, poiché ancora mi meraviglio di esserne uscito vivo. Di piú mi toccava soffocar tutto per non crescerle affanno colle mie smanie, ma ella veniva incontro a' miei nascosti dolori coi piú delicati conforti che si potessero immaginare. Si sentiva morire e parlava di convalescenza; aveva il fuoco d'una febbre micidiale nelle vene e compativa il mio male come il suo non fosse nemmen degno che se ne parlasse. Divisava sempre di uscire la settimana ventura; pensava quali creditucci aveva nel tale e nel tal luogo per far fronte alle maggiori spese e ai mancati proventi di quel frattempo, si studiava insomma di farmi dimenticare la sua malattia o persuadermi che credeva ad un vicinissimo miglioramento. Io passava cionullameno le notti ed i giorni al suo capezzale, tastandole ogni poco il polso e interrogando con intento orecchio il suo respiro greve ed affaticato. Oh quanto avrei pagato io un barlume di luce per intravvedere le sue sembianze, per capacitarmi di quello che doveva credere alle sue parole pietosamente bugiarde! Con quanto sgomento non seguiva io il medico fin sul pianerottolo pregandolo e scongiurandolo che mi dicesse la verità! Ma piú d'una volta sospettai che ella ci venisse dietro appunto per impedire al medico che disubbidisse alla sua raccomandazione e tutto mi dichiarasse il pericolo del suo stato!... Quando poi io non voleva ad ogni costo acchetarmi alle sue proteste, ell'aveva ancora il coraggio di adirarsi, di pretendere che le credessi per forza e che non mi martoriassi con paure immaginarie. Oh ma io non restava ingannato da queste frodi!... Il cuore mi ammoniva della sciagura che ci minacciava, e le pozioni che il medico ordinava non erano tali che si convenissero ad un lieve incommodo passeggiero. Eravamo allo stremo d'ogni cosa; mi convenne vendere le biancherie i vestiti; avrei venduto me stesso per procurarle un momentaneo sollievo. Dio finalmente ebbe compassione di lei e delle mie orribili angosce. Il malore fu domato se non vinto; l'ardore febbrile si rallentò nel suo corpo estenuato; riebbe a poco a poco le forze. Si alzò dal letto, volle subito licenziar la fantesca per risparmiare la spesa, e accudir lei alle faccende di casa; io me le opposi quanto seppi, ma la volontà della Pisana era irremovibile; né malattie né disgrazie né persuasioni né comandi valsero mai a piegarla. I primi giorni che uscí di casa non mi lasciai vincere neppur io e volli accompagnarla: ma ella se ne stizziva tanto che mi convenne anco di questo accontentarla e lasciare ch'ella uscisse sola. - Ma Pisana - le andava io dicendo - non mi vuoi dar ad intendere che devi raccogliere qua e là qualche piccolo credito delle tue lezioni? Andiamo dunque, io ti accompagnerò dove vorrai. - Bella guida - mi rispondeva celiando - bella guida quella d'un cieco! Davvero che io ho tutta la voglia di diventar ridicola mostrandomi per le case a questo modo!... E poi chi sa cosa andrebbero a pensare! No, no, Carlo. Gli Inglesi sono scrupolosi: te lo dico e te lo ripeto che non mi farò vedere che sola. Adunque pur brontolando e per nulla persuaso della verità di quanto mi diceva, io dovetti lasciarla fare a suo talento. Ricominciò daccapo colle sue lunghe assenze, durante le quali io stava sempre col cuore sospeso, e dubitando di non vederla tornare mai piú. Infatti alle volte tornava a casa tanto esausta di forze che per quanto si sforzasse non giungeva a nascondermi il suo sfinimento. Io ne la rimproverava dolcemente, ma poi mi convenne tacere affatto perché ogni piú lieve rimbrotto le dava tanta stizza che per poco non l'assalivano le convulsioni. Non credo che fosse possibile immaginare miseria maggior della mia. Londra, voi lo sapete, è grande; ma le montagne stanno e gli uomini girando s'incontrano. Cosí dunque avvenne che la Pisana s'incontrò una mattina nel dottor Lucilio il quale io supponeva sí che fosse a Londra, ma non avea voluto rivolgermi a lui, per la freddezza dimostratami tanto ingiustamente per l'addietro. S'incontrò adunque colla Pisana; costei gli raccontò le mie vicende e le sue, e la cagione per la quale allora eravamo a Londra sprovvisti di tutto. Sembra che la mia posizione lo persuadesse della falsità di quelle accuse ch'egli in altri tempi avea ritenute vere a mio discapito. Infatti mi venne a trovare e mi dimostrò tanta amicizia quanta forse mai non me ne aveva mostrata. Era un bel modo di chieder perdono della lunga ingiustizia; né di piú io poteva pretendere dall'indole orgogliosa di Lucilio. Bensí mi riconfortai assaissimo di quell'incontro, e lo presi per una promessa della Provvidenza che le sorti nostre avessero a cambiare in meglio. Non ebbi che a convincermi sempre di piú di questa felice persuasione per la bella piega che parvero prendere allora tutto d'un tratto le cose nostre. Prima di tutto Lucilio esaminò attentamente i miei occhi, e dettomi che erano coperti da caterratte e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l'operazione della quale non dubitava punto che sarebbe riescita a meraviglia, mi si rimise l'anima in corpo. Oh il gran dono è la luce! Non l'apprezza mai degnamente che chi l'ha perduta. Indi il dottore mi chiese notizia di me della mia famiglia e come stavano le cose, e chiarito di tutto mi diede lusinga che egli avrebbe fatto venire in Inghilterra l'Aquilina e i figliuoli miei, dove avrebbe pensato a stabilirmi in modo che fossero piuttosto utili pel futuro che costosi al presente. Egli aveva una gran clientela di Lordi e di principi dei quali governava a suo grado l'influenza; e le rimostranze che si erano udite al Parlamento per le deliberazioni del Congresso di Verona furono, credo, inspirate da lui. Io voleva ritrarmi per le grandi spese che a ciò si dovevano incontrare, e per le quali certamente la mia borsa era tutt'altro che preparata; e poi, debbo confessarvelo, aveva quasi vergogna di manifestare questa gran premura di avere presso di me la mia famiglia, parendomi quasi far onta alla devozione unica e generosa della Pisana. Rimasti soli un momento, soffiai questo mio scrupolo al dottore. - No, no - mi rispose egli mestamente - gente di casa vi sarà necessaria; credete che ne proverrà gran bene anche alla contessa Pisana. Io voleva che mi chiarisse meglio questo enigma, ma egli se ne schivò soggiungendo che certo la cura d'un cieco doveva pesare assai ad una signora avvezza alle delicature veneziane e che l'aiuto d'un'altra donna l'avrebbe alleggerita di molto. - Ditemi la verità, Lucilio - soggiunsi io - la salute della Pisana non c'entra per nulla in queste vostre considerazioni? - C'entra sí... perché potrebbe guastarsi. - Dunque, adesso che parliamo la trovate buona? - Mio Dio, si può mai dire quando la salute sia buona o cattiva? La natura ha i suoi segreti e non è dato neppur ai medici indovinarli. Vedete, io son invecchiato nella professione, eppure anche ieri mattina lasciai un malato che mi sembrava in via di miglioramento e a sera lo trovai morto. Sono schiaffi che la natura regala a chi vuol conoscerla troppo addentro e violare la sua misteriosa verginità. Credetelo, Carlo, la scienza è proprio vergine ancora, finora non l'abbiamo che carezzata sulle guance! - Oh non credete neppur nella scienza! Ma in cosa credete dunque? - Credo nel futuro della scienza, se almeno qualche cometa o il raffreddamento della corteccia terrestre non verrà a guastare l'opera dei secoli. Credo all'entusiasmo delle anime che irrompendo quandocchesia nella vita sociale anticiperanno di qualche millennio il trionfo della scienza, come il matematico calcolatore è prevenuto nelle sue scoperte dalle audaci ipotesi del poeta! - E perciò, Lucilio, seguitate il sogno della vostra gioventù, e credete rinfocolare questo immenso entusiasmo colle mene segrete, e colle oscure macchinazioni!... - No, non censurate almeno beffardamente quello che non capite. Io non corro dietro a un fantasma; accontento un bisogno. Carlo, le mene non sono sempre segrete, né le macchinazioni oscure!... Toccate questa cicatrice!... - si scoperse il petto vicino alla gola, - questa la toccai or è l'anno a Novara! Fu inutile; ma la ferita mi rimase. - E guardate questa che m'ebbi a Rieti - risposi io rimboccandomi la manica e mostrando il braccio. Lucilio mi buttò le braccia al collo con una effusione che non mi sarei mai aspettato da lui. - Oh benedette queste anime - diss'egli - che veggono il vero, e lo seguono, benché non ve le spinga una forza irresistibile! Benedetti gli uomini pei quali il sacrifizio non ha voluttà eppure vi si offrono egualmente, vittime volontarie e generose! Sono i veri grandi. - Non adulatemi - soggiunsi. - Io andai a Napoli, si può dire, per amor proprio, e avrei anzi un mezzo rimorso di aver sacrificato al mio orgogliuzzo l'interesse della mia famiglia. - No, ve lo giuro io, non avete sacrificato nulla. La vostra famiglia vi raggiungerà qui. Voi rivedrete la bella luce del giorno e le desiderate sembianze dei vostri cari. Gli è vero che il sole di Londra non è quello di Venezia; ma la melanconia delle sue tinte s'accorda perfettamente alle pupille lagrimose dell'esule. - Mi date anche speranza che la Pisana sarà per allora perfettamente guarita? - Perfettamente - rispose con un fremito nella voce il dottore. Io tremai tutto che mi parve udire, che so io? una sentenza di morte; ma egli seguitò innanzi parlandomi con tanta pacatezza della malattia della Pisana, e del corso che dovea tenere, e della cura piú adattata e dell'infallibile guarigione, che la memoria di quel funereo perfettamente mi uscí per allora del capo. Il dottore si diede attorno assai per giovarci; d'allora in poi grazie a' suoi spontanei soccorsi non mancammo piú di nulla, ed io mi vergognava di vivere in quel modo d'elemosina, ma egli diceva alla Pisana che avea dei doveri verso la sua futura cognata e non voleva per oro al mondo cedere ad altri il diritto di esserle utile. - Come? - gli diceva la Pisana - ancora v'incaponite nell'idea di sposar mia sorella? Ma non vedete che l'è vecchia piú ancora d'anima che di corpo e per soprappiù monaca dalle unghie ai capelli?... - Sono incorreggibile; - rispondeva il dottore - quello ch'io ho tentato a vent'anni, e non son riescito, lo tentai a trenta a quaranta a cinquanta, lo tenterò ai sessanta che sono molto vicini. La mia vita voglio che sia un tentativo ma un forte ostinato tentativo: in tutto sono cosí e beati gli altri se mi imitassero! Battendo si conficca il chiodo. - Ma non si sconficca l'ostinazione d'una monaca. - Bene; dunque non parliamone di grazia: parliamo piuttosto della signora Aquilina e dei due ragazzi che dovrebbero star poco ad arrivare. Ne aveste novelle sul loro viaggio? - Ebbi ieri lettera da Bruxelles - m'intromisi a dir io. - Bruto li accompagna colla sua vecchia gamba di legno. In verità non so come ringraziarvi d'una sí grossa spesa che vi siete addossata. - Ringraziar me?... Ma non sapete che cento sterline non mi costano che la stesa d'una ricetta? Prolungo di due giornate la gotta aristocratica d'un nobile lord e guadagno di che far viaggiare l'Europa a tutti voi. Conoscete lord Byron il poeta?... Egli mi volle dare diecimila ghinee se riesciva ad allungargli di un pollice la gamba diritta di cui zoppica. Benché ci avessi qualche pretensione di riuscire con un certo metodo scoperto da me, non avea allora bisogno di denaro, né voleva perdere il mio tempo a stirare le gambe della Camera alta. Risi dunque sul muso al gran poeta rispondendogli che avevano bisogno di me allo Spedale. - Ed egli? - Ed egli si compiacque dell'epigramma; e se ne vendicò coll'addrizzarmi il piú caro sonettino che sia mai stato scritto in inglese. Ve l'assicuro io che sotto quell'anima tempestosa di Don Giovanni e di Manfredo cova una pura fiamma che scoppierà un giorno o l'altro. Byron è troppo grande; oltreché nei libri e nelle rime deve finir poeta anche nella vita. - Dio lo voglia! - sclamai - perché la poesia è la realtà della felicità spirituale, la sola vera e completa. - Ben detto - rispose Lucilio rimormorando le mie parole, ed io rigonfiava di tanto onore. - La poesia è la felicità reale dello spirito. Fuor d'essa vi sono godimenti ma non contentezze!... - Ed io, son dunque poetessa perché son contenta? - chiese con voce allegra ma fievole la Pisana. - Voi siete Corinna! Voi siete Saffo! - sclamò Lucilio. - Ma non vi accontentate di balbettar odi o poemi e li create colle opere, e porgete alla sublimità poetica la loro piú degna effigie, l'azione. Achille e Rinaldo prima d'esser poeti furono eroi. La Pisana si mise a ridere ma con tutta quell'ingenuità che esclude ogni sospetto di falsa modestia. - Sono una Corinna molto pallida, una Saffo assai magra! - diss'ella ridendo ancora. - Mi sembra quasi esser diventata inglese, che somiglio una cavalletta! ma ho guadagnato in idea aristocratica. - Avete guadagnato in tutto - soggiunse Lucilio infervorandosi sempre piú. - L'anima vostra trasparente dal pallore del viso vi ringiovanisce e vi impedirà di diventar mai vecchia!... Chi giurasse che avete venticinqu'anni potrebbe esser creduto!... - Sí, sí, ora che è morto il povero Piovano che m'ha battezzata! Sapete ch'è una gran malinconia il trovar la nostra vita sempre piú cinta e ombrata da sepolcri! Ormai la prima fila è andata quasi tutta. In prima fila siam noi. - Ma non tremeremo al fuoco, siatene certa. Né voi né io né Carlo abbiamo la smania di vivere. Abbiamo tre tempere differenti ma che s'accordano meravigliosamente in questo di esser ubbidienti e rassegnate alla natura. Bensí la mia propria natura mi comanda di spender bene e di usare spietatamente la vita. Voglio proprio cavarne ogni succo, e far come dei vinacci i quali, poiché ne fu spremuto il vino, si torchiano ancora per estrarne l'olio. - E ne avrete guadagnato? - Assai! d'aver fatto fruttificare ogni mio talento e d'aver offerto un buon esempio a quelli che verranno. Io approvai del capo, ché quella teoria del buon esempio mi avea sempre frullato entro come un ottimo negozio: e me ne fidava piú che dei libri. La Pisana soggiunse ch'ella per verità in tutte le sue cose non aveva mai pensato alla gloria di trovar imitatori ma che si era data con tutta l'anima al sentimento che la trasportava. - Almeno non avete dato altrui il vostro spirito da intisichirlo! - soggiunse mestamente Lucilio. Io compiansi nel mio cuore quell'animo forte e tenace che da quarant'anni covava una piaga; e non voleva saperne né di guarigione né d'obblio. Era l'orgoglio smisurato di chi vuol sentire il dolore per mostrarsi capace di sopportarlo, e poterlo rinfacciare altrui come un tradimento o una viltà. Il medico riverito dai duchi e dai Pari di Londra non ripudiava il mediconzolo di Fossalta; non confessava di esser stato piccolo, ma pretendeva di esser sempre stato grande ad un modo; e la ferrea vecchiaia porgeva la mano alla bollente giovinezza per sollevarla alla ricompensa d'ogni dolore, alla forza incrollabile della coscienza sicura in se stessa. In quei pochi giorni che precedettero l'arrivo dei nostri viaggiatori, la Pisana mi si mostrava piú fredda che pel consueto; ma di tratto in tratto le saltava qualche strano capriccio di tenerezza, e dopo si ostinava a provarmi con mille sgarberie che era stato un mero capriccio quasi una burla. - Povero Carlo! - diceva ella talvolta. - Cosa sarebbe stato di te se la compassione non mi persuadeva di farti un po' di assistenza! Anche fu fortuna che la seccaggine di quel mio vecchio marito mi invogliasse di partire da Venezia; cosí ti ho procacciato qualche utile e tu avrai presto il bene di rabbracciare i tuoi cari. Ella non m'aveva parlato mai con tale crudezza; e dava ben pochi indizi di generosità col noverarmi quasi la lista dei beneficii ch'io doveva unicamente alla sua compassione. Ne patii acerbamente; ma mi persuasi vieppiù che nessuna traccia d'amore le era rimasta nell'anima, e che l'eroismo stesso della sua pietà era un capriccio una vera bizzarria. Finalmente potei stringere al seno i miei figli; baciare quelle loro guance fresche e rotonde, rinfrescarmi l'anima nei puri sentimenti di quei cuori giovanili. La buona Aquilina, che tanto amorevole quanto animosa madre s'era dimostrata nell'educarli, ebbe la sua parte delle mie carezze, e corrisposi con effusione agli amichevoli abbracciamenti di Bruto. Oh ma le loro sembianze non poteva vederle!... Allora per la prima volta ebbi entro un movimento di stolida rabbia contro il destino, e mi pareva che il fuoco della volontà dovesse bastare a raccendermi le pupille, tanto era intenso ed ardente. Lucilio mise un po' di balsamo sulla piaga assicurandomi che dopo un breve tempo avrebbe tentato l'operazione; e cosí riserbandomi per allora i piaceri della vista mi diedi subito a godere di tutti gli altri che m'erano concessi dalla mia condizione infelice. Furono, per tutto il resto di quel giorno e pel seguente continue inchieste, domande, commemorazioni di questa e di quella persona, delle cose piú minute, dei fatti piú fuggevoli e inconcludenti. Di Alfonso Frumier sapevano nulla, di Agostino avevano detto a Venezia che era affamato di fettucce e di croci e ne aveva intorno un altarino: cosí pure gli abbondavano i figliuoli, ad uno dei quali assegnava pel futuro la carica di ministro, all'altro quella di generale, di patriarca, di papa. Sua Eccellenza Navagero stava al solito né morto né vivo; sempre colla Clara al capezzale quand'ella non aveva da recitare le Ore e le Compiete: allora, morisse anche, non voleva saperne. Il vecchio Venchieredo era morto finalmente ed avea lasciato a suo figlio una sostanza cosí imbrogliata che non avea speranza di cavarsene con quella sua testa balzana e spensierata; bisbigliavano che Raimondo si potesse sposare colla primogenita di Alfonso Frumier il quale peraltro stentava a largheggiar nella dote. Del resto le cose al solito; il paese indifferente, taluni svagati dai divertimenti, altri allettati dalle paghe; nessun commercio, nessuna vita. I processi politici avevano messo gran malumore nelle famiglie senzaché la comune della gente se ne avvedesse; solamente questa seguitava a lamentarsi della coscrizione; ma son malanni tolti appoco appoco dall'abitudine, massime quando il farsi soldato vuol dire mangiare una buona minestra col lardo, e fumare degli ottimi cigarri alle spese di chi s'abborraccia di polenta e non fuma altro che cogli occhi lagrimosi sotto la cappa del camino. - E a Cordovado? - domandai io. A Cordovado ci aveano piú scarse novità che in ogni altro sito, se si eccettui la pazzia dello Spaccafumo che diceva esser assalito dagli spiriti e li stornava sempre colla mano a destra e a sinistra. Questa preoccupazione lo menò poi a capitombolare nel Lemene dove un bel mattino lo trovarono annegato. Ma si credette che i troppi bicchierini d'acquavite ingollati ne avessero per lo meno tanta colpa quanto gli spiriti. Cosí terminò un uomo che sarebbe diventato un eroe se... Perdono! dopo questo "se", bisognerebbe vi raccontassi tutti i perché della nostra storia dal Trecento in seguito. Val meglio troncar il periodo. Il conte Rinaldo avea fatto atterrare un altro pezzo del castello di Fratta; e Luciano e la Bradamante aveano seppellito senza grandi lagrime il signor Capitano per le settecento lire di usufrutto che ne ereditarono. - Appunto, si conserva bene Donato? - chiese la Pisana. - Figuratevi, come un giovinotto; - rispose Bruto - non ha né un capello grigio né una ruga sul viso. Non par nemmeno uno speziale. - Oh gli era davvero il piú bel giovane che si potesse vedere! - soggiunse l'altra. - A' miei tempi gli ho voluto bene anch'io piú che ad ogni altro. Io troncai quel discorso perché non mi piaceva ed anche per chiedere piú larghe informazioni intorno a mia sorella la quale mi avevano annunciato esser partita per la Grecia a raggiungervi Spiro il marito, ma non m'avevano detto di piú. - A proposito di tua sorella; - soggiunse Bruto - non avesti una sua lettera ch'era per te a Venezia e che noi ti abbiamo spedita di colà? - Non l'ebbi - rispos'io; infatti non ne sapeva nulla. - Allora la si sarà smarrita per via; - riprese Bruto - ma dal carattere e da chi la portava, che era un mercante greco, io l'avea giudicata ed era dell'Aglaura. Un cotal incidente mi spiacque assaissimo; ma pochi giorni dopo quella lettera mi capitò un po' guasta nel suggello e negli angoli. Non avrò il coraggio né di darla a brani né di spremerne il succo. Eccola tal quale. "Carlo, fratel mio. "La Grecia mi voleva e m'ebbe finalmente; credetti appartenerle un tempo pel sangue de' miei genitori; ma poiché non era vero, la natura mi rilegò a lei per mezzo del marito e dei figliuoli. Ecco ch'io ho diviso il mio cuore fra le due patrie piú grandi e sventurate che uomo mai possa sortire nascendo. Nulla ti dirò della mia salute che vacillò piucchemai dopo la partenza di Spiro e che si rimise allora soltanto quando pensai che rafforzata mi avrebbe servito a raggiungerlo. Appena dunque ho potuto m'imbarcai sopra una nave idriotta e veleggiammo verso le sacre onde dell'Egeo. Mi pareva essere la suora di carità che dopo aver assistito alle ultime ore d'un malato passa ad un altro capezzale dove la chiamano dolori piú vivi sí ma forse al pari micidiali. Sai che io non sono una donna molto debole e dovresti ricordartelo per prova; ma ti confesserò che ho pianto molto durante il tragitto. A Corfù s'imbarcarono parecchi italiani fuggiti da Napoli e dal Piemonte che si proponevano di versar per la Grecia il sangue che non avean potuto spargere per la propria patria. Io piangeva, ti dico, come una buona veneziana; fu soltanto al toccare il suolo della Laconia che mi sentii ruggir nel cuore lo spirito delle antiche spartane. Qui le donne sono le compagne degli uomini non le ministre dei loro piaceri. La moglie e la sorella di Tzavellas precipitavano dalle rupi di Suli sassi e macigni sulle cervici dei Musulmani cantando inni di trionfo. Alla bandiera di Costanza Zacarias accorrono le donne di Sparta, armate d'aste e di spade. Maurogenia di Mirone corre i mari con un vascello, solleva l'Eubea e promette la mano di sposa a chi vendicherà sugli Ottomani il supplizio di suo padre. La moglie di Canaris a chi le disse che aveva per marito un prode, rispose: - Se non fosse, l'avrei sposato? - Cosí, o Carlo, le nazioni risorgono. "Giunta appena, trovai mio figlio Demetrio che tornava colle navi di Canaris dall'aver abbruciato a Tenedo la flotta turca. Colà le flotte cristiane d'Europa stavano contro di noi; la croce alleata della mezzaluna contro la croce! Dio disperda gli infedeli e i rinnegati prima di loro. Demetrio aveva abbrustolita una guancia e mezzo il petto dalla fiamma della pece; ma il mio cuore materno lo riconobbe; egli ebbe fra le mie braccia la ricompensa degli eroi, la gloria di veder insuperbire a diritto la madre. Spiro e Teodoro chiusi in Argo con Ipsilanti attendevano a frenare il torrente dei Turchi mentre Colocotroni e Niceta tagliavano loro la ritirata alle spalle coll'insurrezione dei montanari. "Oh Carlo! fu un bel giorno quello in cui tutti quattro ci riabbracciammo là sulle soglie quasi del Peloponneso libero affatto da' suoi nemici. Si affortificava Missolungi, Napoli di Romania era nostro. La marina aveva un porto, il governo una rocca, e la Grecia trionfa al pari della barbara tirannia di Costantinopoli che della venale inimicizia delle flotte cristiane. Omai qualunque nave porti ai Turchi armi viveri munizioni sarà passata per le armi; la barbarie otterrà forse quello che non ottennero gloria eroismo sventura. "Qui ogni interesse privato scomparisce affatto e si confonde al comune. Si possiede quello che non abbisogna alla patria, e lo si serba a lei pei bisogni della domane; si gode de' suoi trionfi, si soffre de' suoi dolori. Perciò non ti parlo in particolare di noi. Basterà dirti che ad onta delle fatiche io non peggioro nella salute e che Spiro guarisce delle ferite guadagnate sulle mura di Argo. Teodoro ha combattuto come un leone; tutti lo citano e lo additano per esempio; ma un'egida divina lo protesse e non ebbe la minima scalfittura. Quand'io passeggio per le strade d'Atene ove abitiamo in questo momento di tregua ed ho uno per parte i miei due figliuoli abbronziti dal sole del campo e dal fuoco delle battaglie, mi sembra che il secolo di Leonida non sia ancora passato. Spiro parla sovente di te anch'esso, e mi dice di pregarti che tu mandi in Grecia uno o ambidue i tuoi figli se vuoi farne degli uomini. Qui un ragazzo di sedici anni non è piú giovinetto ma un nemico dei Turchi che può avvicinarsi a nuoto ad un loro legno ed incendiarlo. Mandaci, mandaci il tuo Luciano, ed anche se vuoi Donato. Persuadi l'Aquilina che vivere senz'anima non è vivere; e che morire per una causa santa e sublime deve sembrare una sorte invidiabile alle madri cristiane. Ieri fu la seconda radunanza dei deputati della Grecia fra i cedri dell'Astros. Ipsilanti, Ulisse, Maurocordato, Colocotroni!... Son nomi d'eroi che fanno dimenticare Milziade, Aristide, Cimone e gli altri antichi di cui la memoria rivive qui nelle opere dei pronipoti. Io lo ripeto, Carlo - bada a tua sorella che non può darti un consiglio snaturato. Mandaci i tuoi figli: per essere buoni Italiani converrà si facciano un pochettino Greci; e allora vedremo quello che non si vide finora. - Se sei ancora a Londra e se hai teco la Pisana, salutami lei e il dottor Lucilio Vianello che stimo ed amo per fama. Abbiamo qui un alfiere di vascello napoletano, Arrigo Martelli, che dice di averti conosciuto, e doverti assai fino dal tempo della Rivoluzione francese. Egli pure si raccomanda che ti ricordi a lui, e di parteciparti che suo fratello è partito per l'America del Sud ove si faceva grande richiesta di buoni ingegneri. "Addio, mio Carlo!... Bada a star forte nelle tue infermità e se ti permettono un viaggio vieni anche tu fra noi!... Oh che bel sogno!... Vieni, che sarai benedetto da tutti quelli che ti amano!..." Io son fatto cosí. Dopoché Lucilio mi lesse quanto sopra, io feci chiamar Luciano, e gli porsi la lettera perché la leggesse, e attesi intanto alle espressioni che si dipingevano sulle sue maschie ed aperte sembianze. Non era giunto ancora alla fine del foglio che mi si gettò fra le braccia esclamando: - Oh sí, padre mio, lasciami partire per la Grecia! D'una stretta di mano io ringraziai l'Aquilina ch'essendo entrata in quel punto, mi si era seduta daccanto. - Di che si tratta? - chiese ella. Ed io le spiegai le profferte e gli inviti che ci venivano dalla Grecia. - Se hanno vera vocazione, partano pure; - ella rispose facendo forza a se stessa - bisogna correre ove si è chiamati, altrimenti non si fa nulla di bene. - Grazie, mia Aquilina! - sclamai. - Tu sei la vera donna che ci abbisogna per rigenerarci! Quelle che non ti somigliano sono nate per strisciare nel fango. Udii una lieve pedata entrar nella stanza; era della Pisana che da alquanti giorni non parlava quasi piú. Io sentiva la mancanza della sua voce, ma col tenerle il broncio mi vendicava delle ultime volte che mi aveva parlato sí acerbo. Lucilio quel giorno le mosse alcune richieste sulla sua salute, alle quali rispose per monosillabi e con voce piú fioca del solito. Indi uscí come indispettita, l'Aquilina le tenne dietro, Luciano ubbidí forse ad un'occhiata di Lucilio e restammo noi due soli. - Ditemi - principiò con un accento che annunziava un serio colloquio - ditemi qual diritto avete di fare il burbanzoso colla Pisana? - Ah ve ne siete accorto? - rispos'io - allora avrete anche badato alla straordinaria freddezza ch'ella mi dimostra!... So che di molto le sono debitore; non lo dimentico mai, vorrei che tutto il mio sangue bastasse a provarle la mia riconoscenza e lo verserei tutto fino all'ultimo gocciolo. Ma alle volte non posso schivarmi di qualche ghiribizzo di superbia. Sapete che ultimamente ella mi ha cantato sopra tutti i toni che soltanto per isvagarsi delle sue noie maritali è corsa a Napoli, e che io deggio unicamente ad un sentimento di compassione tutta l'assistenza di cui m'è stata generosa?... - Dunque voi sospettate ch'ella non serbi piú per voi l'amore d'un tempo? - Ne sono certo, dottore, ne sono persuaso come della mia propria esistenza. Perché io sia cieco, non veggo meno perciò col discernimento. Conosco l'indole della Pisana come la mia stessa, e so ch'ella non è capace di assoggettarsi a certi riguardi nulla nulla che un'interna inquietudine la spinga a violarli. Vi parlo cosí alla libera perché siete fisiologo e le umane debolezze vorrete compatirle massime quando mescolate a tanta dose di magnanimità. Ve lo ripeto, la convivenza affatto fraterna di questi due anni mi convinse che la Pisana ha dimenticato il passato; e non duro fatica a crederle che la sola pietà le sia stato incentivo a tanti miracoli di affetto e di devozione. Del resto l'umor suo è troppo bizzarro per ubbidire ad una massima premeditata di continenza. - Oh Carlo, trattenetevi dai giudizi precipitati! Questi temperamenti straordinari son quelli appunto che sfuggono alle regole comuni. Diffidate del vostro discernimento, ve lo ripeto: gli occhi del corpo alle volte ragionano assai meglio che quelli dell'anima, e se vedeste... - Che bisogno ho io di vedere, dottore?... Non sapete... che io l'amo ancora, che l'ho amata sempre?... Non vi ho narrato l'altro giorno la storia del mio matrimonio?... Oh pur troppo ella ha giurato di farmi sentire quanto perdetti, uscendo da quell'intima parte del cuore ove m'avea ricevuto!... Pur troppo ella punisce colla compassione un amore troppo docile insieme ed ostinato. È un castigo tremendo, una crudeltà raffinata, la vendetta coi benefizi! - Tacete, Carlo; ognuna delle vostre parole è un sacrilegio. - Una verità, volevate dire. - Un sacrilegio, vi ripeto. Sapete cosa faceva per voi la Pisana quand'io l'ho incontrata pallida estenuata cenciosa per le vie di Londra? - Sí... orbene?... - Tendeva la mano ai passeggieri!... Ella accattava, Carlo, vi accattava la vita! - Cielo! no, non è vero!... È impossibile! - Tanto impossibile che io stesso le porgeva non so quale moneta, quando... Oh ma vi posso descrivere quanto provai nel ravvisarla?... Come dirvi il suo smarrimento ed il mio? - Basta, basta! per carità, Lucilio; la mia mente si perde e vengo meno di dolore volgendomi a guardare dove siamo passati! - E dubiterete ancora dell'amor suo?... È un amore senza misura e senza esempio, un amore che la tiene in vita, e che la farà morire!... - Pietà, pietà di me!... no, non parlate a questo modo! - Parlo come un medico e vi dico intera la verità. Ella vi ama ed ha imposto a se stessa di non palesarvi l'amor suo. Questo sforzo continuo, piú che i patimenti i dolori le veglie, le logora la salute... Carlo, aprite gli occhi sopra tanto eroismo, e adorate la virtù d'una donna a cui voi non osaste fidarvi!... Adorate, vi dico, questa vergine potenza della natura che innalza gli slanci disordinati d'un'anima alla sublimità del miracolo, e la trattiene là sospesa per la sua stessa forza, come l'aquila sopra le nubi!... Infatti io era prostrato dalla sublimità di quella virtù che non avrei quasi osato sperare da anima umana. La Pisana poi, chi l'avrebbe creduta capace di quella pudica riservatezza, di quell'abnegazione umile nascosta, di quella santa impostura portata tant'oltre da lasciarsi quasi credere vera per non turbare la pace d'una famiglia da lei stessa si può dire composta?... Quanto falsi erano stati i miei giudizi intorno a quell'animo vacillante forse nei piccoli sentimenti, ma costante e indomabile nella grandezza quanto non lo fu alcun altro giammai!... Il suo fare piú sostenuto all'annunzio del prossimo arrivo dell'Aquilina, que' suoi impeti di tenerezza subitamente frenati e la sua melanconia successiva, il suo volontario allontanamento da me, tutto contribuí a farmi capace della verità di quanto affermava Lucilio. Due anni interi aveva errato col mio giudizio; ma il mio medesimo errore era una prova dell'estrema sua delicatezza, e dell'assidua perseveranza colla quale avea mantenuto i suoi eroici proponimenti. - Dottore - risposi con voce tanto commossa che stentava ad articolar parola - disponete di me. Dite parlate insegnatemi un mezzo da salvarla. La vita di me e di tutti i miei, sí, tutto basterà appena a ricomprare tanti sacrifizi! Il meno ch'io le possa offrire è tutta intera la vita che mi rimane! - Pensiamoci, Carlo; son qui con voi apposta. E la salute di tutti i miei illustri clienti, credetelo, mi dà minor pensiero che un rammarico, un sospiro, un lamento solo della Pisana. Ella avrebbe il diritto di vivere tutti i suoi giorni pieni felici; e di morire per un eccesso di gioia. - Non parlate di morire! per carità non parlatene! - E cosa sapete voi che per certe anime eccessive e privilegiate la morte non sia una ricompensa?... Tuttavia ragioniamo come si ragiona per tutti. La sola maniera ch'io vegga di redimerla è collocarla ancora in qualche necessità di pazienza e di sacrifizio. Rendetela a suo marito: vicino al suo letto ella riavrà la forza di vivere: fors'anco l'aria nativa aiuterà questo rifiorimento della salute. - Rimandarla a Venezia voi dite?... Ma come, Lucilio, come?... Deggio io allontanarla, cacciarla da me, ora che sembro non aver piú bisogno della sua assistenza? - Tutt'altro: dovete anzi raccompagnarla voi. E ch'ella continui ad avere nella vostra famiglia quell'intimità di affetto senza la quale non possono durare temperamenti simili al suo. Quando la forza smoderata della sua anima troverà altre azioni in cui sfogarsi, altri miracoli da tentare, altri sacrifizi da compiere, il passato perderà per lei ogni tormento, i desiderii impossibili s'adagieranno in una dolce e contenta melanconia. Riavrete un'amica, e una sublime amica!... - Oh volesse il cielo, Lucilio! Domani partiremo per Venezia! - Vi dimenticate due cose. La prima che ho promesso di rendervi la vista; la seconda che non avete facoltà di tornare a Venezia senza pericolo. Ma mentre m'adoprerò di procurarvi questa, le cateratte si matureranno e vi prometto che vedrete il pallido sole del Natale. - E non si potrebbe affrettarsi?... Non per gli occhi miei, Lucilio, ma per lei, per lei solamente!... Credo che anche adesso potreste tentar l'operazione... - Bravissimo Carlo! Vorreste che vi accecassi affatto per pagar forse cogli occhi vostri un gran debito di riconoscenza?... Umiliatevi, amico mio, due occhi non bastano; è meglio serbarli, e pagheranno poi colle occhiate molto e molto di piú. Voi avete un credito colla Turchia, il quale appoggiato a sole rimostranze private non vi frutterà mai nulla. Volete che io cerchi di venderlo a qualche inglese?... L'Inghilterra ha qualche diritto ora alla benevolenza della Porta Ottomana, poiché sono vascelli di Londra di Liverpool e di Corfù che la aiutano nella santissima opera di martirizzare la povera Grecia. L'Inghilterra è madre amorosa: sopratutto nel far pagare ai suoi figli quanto è loro dovuto, essa vale un tesoro; pel credito di mille sterline non avrà rimorso di appiccare il fuoco ai quattro cantoni del mondo. Fate a modo mio: lasciate ch'io dipani un poco questa matassa!... - Ma a persuadermi di ciò non faceano d'uopo tante parole. Domani vi passerò le carte che sono ora nelle mani di mio cognato. Certo non poteva trovare miglior procuratore. - A domani dunque e siamo intesi. Io mi darò attorno a questa faccenda. Di qui a un paio di settimane l'operazione; poi il consueto riposo di quaranta giorni e il viaggio a Venezia. Non mi ci vorrà tanto per procurarvi il passaporto. - Sí, ma intanto?... - Intanto tenete colla Pisana un contegno umile ed affettuoso, e non riscaldatevi tanto nel lodar vostra moglie, come facevate ora. Li merita questi elogi ma non sono opportuni. L'altra, ve lo dico io, ne soffre acerbamente!... - Grazie, grazie, dottore, io non ebbi mai amico migliore di voi. - Ve ne ricordate eh?... La è un'amicizia di data vecchia. Ho cominciato col risparmiarvi i rimbrotti e le busse, ordinandovi un purgante. A questa memoria io scoppiai in un pianto dirotto. Anche ai ciechi è concesso il ristoro delle lagrime. E furono sí copiose sí dolci che non sentii in appresso la metà de' miei dolori. - Lucilio se n'andò stringendomi affettuosamente la mano; e l'Aquilina mi venne accanto dopo alcuni momenti dicendomi che aveva ad intrattenersi meco di cose di grandissimo rilievo. Per quanto fossi mal disposto, cercai di adattarmi a quanto ella voleva, e risposi che parlasse pure, e che io starei molto volentieri ad ascoltarla. Si trattava dei nostri figli, massime di Luciano al quale quella mezza parola di un'andata in Grecia avea racceso nel cuore un tale entusiasmo che non pareva possibile calmarlo. Ella non si era opposta in sua presenza perché né voleva mostrarsi d'un parere contrario al mio, né rintuzzare palesemente quella fiera gagliardia del giovine, ma in segreto poi mi confessava che le sembrava un consiglio precipitato e Luciano troppo tenerello ancora per esporsi senza rischio ad una vita avventurosa. Meglio era dunque ristare per poco finché fosse piú maturo, ed aspettare dal tempo ispirazioni piú sincere. Queste considerazioni mi parvero giustissime; le approvai dunque pienamente lodandola della sua magnanimità e prudenza; e anche a me infatti non andavano mai a sangue le deliberazioni avventate per mera fanciullaggine, che conducono sovente ad una precoce sfiducia in noi e negli altri. Cosí fra noi restammo d'accordo; ma nell'altra stanza intanto Luciano e Donato non parlavano d'altro che d'Atene, di Leonida, dello zio Spiro e dei cugini: non vedevano l'ora di schierarsi in campo anch'essi e di menar le mani contro quei Turchi manigoldi. Soltanto Donato si commiserava talvolta di dover lasciare sua madre, mentre i cugini loro l'avevano in Grecia testimone delle loro prodezze. - Nostra madre ci starà sempre nel pensiero per animarci a imprese grandi e generose - rispondeva Luciano. - Sai com'erano fatte le madri spartane?... Esse godevano di procrear figli per poterli offrire alla patria; e porgendo loro lo scudo dicevano: "O con questo tornate, o sopra questo!". Il che significava: o vincitori o morti; perché sullo scudo si adagiavano i corpi dei caduti per la patria. Cosí scaldavano a vicenda i due giovinetti; e ognuno sognava o l'eroica gloria di Botzari o la morte sublime di Tzavellas. S'avvicinava il giorno nel quale Lucilio avrebbe adoperato i mezzi piú squisiti dell'arte per risuscitarmi alla luce. Egli non mi parlava della Pisana, e questa mi sfuggiva sempre per quanto cercassi ammaliarla colle piú tenere carezze. Perfino l'Aquilina ne era gelosa; ma pensando a quanto essa aveva operato per me, non aveva coraggio di lamentarsene. Il silenzio di Lucilio non mi pronosticava nulla di bene, e le rare parole di conforto ch'egli mi volgeva, io le attribuiva piú che a sincerità a premura di tenermi calmo pel giorno della gran prova. Fui beato quando potei dire: sarà dopodimani. Mi batteva il cuore poi al pensare che sarebbe dimani. Quando dissi - È oggi! - fui assalito da tanta impazienza, che credo sarei morto se avessero protratto d'altre ventiquattr'ore. Lucilio si accinse all'opera con ogni voluto accorgimento; si trattava non d'un malato ma d'un amico; se potevasi pretendere un prodigio si era certamente da lui, e certo non gli fallí la fede del paziente. Quando mi disse: - È finito! - avevano già intercetto la luce delle porte e delle finestre perché l'improvvisa sensazione non mi offendesse. Tuttavia mi parve travedere e travidi infatti un incerto barlume, e misi uno strido tale che Bruto e l'Aquilina che mi sostenevano diedero un guizzo. Rispose un fievole grido della Pisana che credette forse a qualche disgrazia, ma la rassicurò Lucilio soggiungendo scherzosamente: - Scommetto io che il briccone ha già veduto qualche cosa! ma mi raccomando che non ispostiate questa visiera che gli accomodo ora; e sopratutto che le imposte restino chiuse come sono, ermeticamente. L'operazione è riuscita cosí appunto che presagisco fin d'ora che le sei settimane di convalescenza potranno ridursi a quattro. - Oh grazie grazie grazie, amico! Sollecitate piucché potete! - io sclamai coprendogli le mani di baci. Piú che di avermi reso la vista lo ringraziava di quella speranza datami di poter tentare qualche cosa a vantaggio della Pisana prima che non avrei creduto. Quando tutti furono usciti dalla stanza in coda al dottore per ringraziarlo d'un tanto benefizio o fors'anco per informarsi di quanto dovevano credere alle parole dette in mia presenza, la Pisana mi si accostò pianamente, e sentii il suo tiepido alito che m'accarezzava le guance. - Pisana - mormorai - quanto fosti ammirabile d'amore e di pietà!!... Ella fuggí via inciampando nei mobili della stanza, e due singhiozzi le sollevarono il petto ansiosamente. Mia moglie che rientrava la incontrò sulla porta... - Come ti pare che vada il nostro malato? - le domandò. - Io spero che andrà bene - rispose ella con uno sforzo supremo. Ma non poté resistere piú a lungo. E fuggí ancora e corse a rinchiudersi nella sua stanza prima che l'Aquilina avesse neppur tempo di avvertire il suo turbamento. Allora compresi un'altra volta tutta la forza e la nobiltà di quell'anima, e dalla sua camera ch'era all'altro capo della casa mi pareva udire il suo pianto i suoi singhiozzi, ognuno dei quali mi dava nel petto un colpo crudele. Per tutto quel giorno non pensai alla mia vista; e coloro che si occupavano di essa mi davan stizza e fastidio. Si trattava ben d'altro che di due stupidi occhi!... Lucilio veniva sovente a visitarmi, ma di rado potevamo trovarci soli; pareva anzi ch'egli sfuggisse le mie confidenze. Nulla ostante io lo chiedeva spesso della salute della Pisana e se la lusinga di tornare a Venezia avesse operato quel buono effetto che si sperava. Il dottore rispondeva con mezzi termini senza dire né sí né no; ella poi, se anche entrava nella mia stanza, non apriva bocca quasi mai; io me ne accorgeva dal minor chiasso che facevano i miei figliuoli, certo perché la sua mestizia imponeva rispetto. Quando Lucilio mi portò il passaporto ottenuto per mezzo dell'Ambasceria austriaca, le domandai se quel nostro divisamento le piaceva. - Oh la mia Venezia! - rispose - mi domandate se la vedrei volentieri!... Dopo il paradiso l'è il mio solo desiderio. - Or bene - soggiunsi - quand'è, dottore, che mi permetterete di aprir la finestra, di buttar via queste bende, e d'andarmene? - Dopodimani - rispose Lucilio - ma quanto all'imprendere il viaggio bisognerà soprastare qualche giorno; non dovete arrischiarvi cosí subito al sole del Mezzodí. Io pazientai quei due giorni, deliberato di non protrarre d'un attimo la mia partenza quando avessi avuto gli occhi nulla nulla guariti. Ma la Pisana in quel frattempo frequentava meno che mai la mia stanza, e mi dicevano che stava quasi sempre rinchiusa nella sua. Finalmente venne Lucilio che mi liberò la fronte dalla visiera, e mi sciolse dai legacci che mi coprivano gli occhi; le finestre erano già socchiuse; e una luce quieta diffusa come quella del crepuscolo mi accarezzò dolcemente le pupille. Se tanto ci incanta lo spettacolo dell'alba, quantunque rinnovato ogni ventiquattr'ore, figuratevi quanto mi facesse beato quell'alba che succedeva ad una notte di quasi due anni!... Ritrovare ancora quei facili godimenti dei quali non ci curiamo potendoli avere ad ogni istante, e tanto se ne apprezza il valore quando ci sono vietati, ravvivare coll'esercizio presente la memoria di quelle sensazioni che già cominciava a svanire, come una tradizione che coll'andar del tempo diventa favola, saziarsi ancora nelle contemplazioni di quanto v'ha di bello di grande di sublime al mondo e interpretare dagli affetti dei nostri cari un linguaggio disusato per noi, son tali piaceri che fanno quasi desiderare d'esser ciechi per racquistare la vista. Certo io metto quel momento fra i piú felici della mia vita. Ma ne ebbi subito dopo uno assai doloroso. La Pisana era accorsa anch'essa ad assistere all'ultima parte del miracolo: quando dopo il primo soavissimo impeto fatto dalla luce negli occhi miei, cominciai a distinguere le persone e le cose che mi circondavano, il primo volto nel quale sostenni lo sguardo fu il suo. Oh se l'aveva ben meritata una tal preferenza! Né amici, né parenti, né figliuoli, né moglie, né il medico che m'avea reso la vista, meritavano tanto della mia gratitudine. Ma quanto la trovai cambiata!... Pallida trasparente come l'alabastro, profilata nelle sembianze come una Madonna addolorata di Frate Angelico, curva della persona come chi ha portato sul dorso gravissimi pesi e non potrà piú raddrizzarsi; gli occhi le si erano ingranditi meravigliosamente, e la metà superiore della pupilla adombrata dalle palpebre traspariva da queste in guisa d'un lume dietro un cristallo colorato: l'azzurrognolo della melanconia e il rosso del pianto si fondevano nel bianco della retina, come nel simpatico splendore dell'opale. Era una creatura sovrumana; non mostrava alcuna età. Soltanto si poteva dire: costei è piú vicina al cielo che alla terra! Che volete? Io son debole di temperamento e non ve lo nascosi mai. Mi si gonfiò il petto d'un'angoscia improvvisa e profonda e scoppiai in lagrime dirotte. Tutti immaginarono che fosse per la consolazione; ma Lucilio forse giudicò altrimenti; infatti io piangeva perché gli occhi mi riconfermavano il terribile significato attribuito da me al suo silenzio dei giorni passati. Vidi che la Pisana non apparteneva piú a questo mondo; Venezia, come avea detto ella stessa, non era che il suo secondo desiderio; il primo era pel paradiso! Mentre questo triste pensiero mi rompeva il petto a sconsolati singhiozzi, ella si tolse dalla spalla dell'Aquilina su cui s'era appoggiata, e la vidi uscir barcollone dalla camera. Io pregai allora quanti lí erano che mi lasciassero quieto in compagnia del dolore perché la soverchia commozione mi imponeva qualche riposo. Partiti che furono mi ripigliò piú tremenda che mai quella convulsione di pianto, e Lucilio non vide altro di meglio che aspettare un po' di tregua dalla stanchezza. Quando poi le lagrime e il singulto concessero un varco alla voce, quali parole quali preghiere quali promesse non adoperai io perché mi salvasse una vita a mille doppi piú preziosa della mia! Lo supplicai come i devoti supplicano Iddio; tanto avea bisogno di sperare che avrei rinnegato la ragione, e stravolto l'ordine del mondo per conservare una qualche lusinga. Una pietosa astuzia della speranza mi persuase che ben potea rendere la salute e la vita alla Pisana quello che in me avea racceso la fiaccola della luce!... - Oh sí! Lucilio! - sclamai - voi potete tutto purché lo vogliate. Fin da piccino io vi riguardava come un essere sovrannaturale e quasi onnipotente. La vostra volontà comanda alla natura sforzi incredibili. Cercate, studiate, tentate: mai causa piú giusta, mai impresa piú alta e generosa meritò i prodigi della vostra scienza. Salvatela, per carità, salvatela!... - Avete dunque indovinato tutto; - rispose Lucilio dopo un momento di pausa - l'anima sua non è piú tra noi; il corpo vive, ma non so nemmeno io il perché. Salvatela, voi mi dite, salvatela!... E chi vi dice che la provvida natura non la salvi raccogliendola nel suo grembo?... Molto si può tentare contro le malattie della carne e del sangue; ma lo spirito, Carlo? dove sono i farmaci che guariscon lo spirito, dove gli istrumenti che ne tagliano la parte incancrenita per prolungar vita alla sana, dove l'incanto che lo richiami in terra quando una virtù irresistibile lo assorbe a poco a poco in quello che Dante chiamava il mare dell'essere?... Carlo, voi non siete un fanciullo, né io un ciarlatano; voi non volete esser ingannato, per quanto la presente debolezza vi renda piú care le false e fuggitive illusioni che l'inesorabile realtà. In questo mondo si viene quasi colla certezza di veder morire il padre e la madre: solo chi paventa la morte per sé, deve disperarsi dell'altrui; la morte d'un amico fa piú male a noi per la compagnia che ci ruba che non a lui per la vita che gli toglie. Io e voi dobbiamo, mi pare, conoscer la vita, e stimarla adeguatamente al suo giusto valore. Compiangiamo sí la nostra condizione di mortali, ma sopportiamola forti e rassegnati; non siam tanto egoisti da desiderare altrui un prolungamento di noie di mali di dolori per servire alla nostra utilità, per iscongiurare quella sciocca paura che hanno i fanciulli di rimaner soli nelle tenebre. Le tenebre la solitudine sono il sepolcro; entriamo coraggiosamente nel gran regno delle ombre; vivi o morti, soli dobbiamo restare; dunque non pensiamo ad altro che ad addolcire agli amici il dolore della partenza! Io non sono un medico che crede aver sviscerato tutti i segreti della natura per aver veduto palpitare qualche nervo sotto il coltello anatomico: v'è qualche cosa in noi che sfugge all'esame del notomista e che appartiene ad una ragione superiore perché colla nostra non siamo in grado di capirla. Confidiamo a quel supremo sentimento di giustizia che sembra esser l'anima eterna dell'umanità il destino futuro ed imperscrutabile di quelli che si amano. La scienza, le virtù, i doveri della vita si riassumono in un'unica parola: Pazienza!... - Pazienza! - io soggiunsi, piú avvilito che confortato da questi freddi ma inespugnabili ragionamenti. - Pazienza è buona per sé; ma per gli altri?... Avreste voi, Lucilio, la viltà di consigliarmi pazienza pei mali ch'io ho cagionato, per le sventure di cui il rimorso non cesserà mai di perseguitarmi?... Ma non vedete, non comprendete il dolore senza fine e senza speranza che mi strazia le viscere, al solo pensiero che io, io solo abbia affrettato d'un giorno la partenza d'un'anima sí generosa e diletta?... La morte, voi dite, è necessità. Ben venga la morte!... Ma l'assassinio, Lucilio, l'assassinio di quella sola creatura che vi ha amato piú di se stessa, piú della vita, piú dell'onore, oh questo è un delitto che non ha per iscusa la necessità né per espiazione la pazienza. Sia per lavarlo che per dimenticarlo fa d'uopo il sacrifizio di un'altra vita; la morte sola salda il debito della morte. - La morte anzi non salda nulla, credetelo a me. La morte come consolazione non può tardarvi a lungo, e l'affrettarla sarebbe fuggire dalla penitenza; come oblio sareste tanto pusillanime da cercarla?... Io non sono di quei prudenti idolatri della vita che nella moglie nei figliuoli nella patria si preparano altrettante scuse per non arrischiarla neppur al pericolo d'un'infreddatura: ma quando ad una virtù dubbia ed inutile s'oppongono virtù certe, utilissime, generose, quando le passioni vi lasciano il tempo di deliberare, oh allora, Carlo, la famiglia, la patria, l'umanità vi comandano di non disertare, di combattere fino all'estremo!... - No! è inutile sperarlo! io non avrò piú forza di combattere! Meglio è sbarazzare il campo d'un inutile ingombro. Ogni altro affetto mi sarebbe un rimorso; son troppo infelice, Lucilio! Avrò veduto morire colei alla quale avrei dovuto abbellire la vita colle gioie piú sante dell'amore, e della devozione! - Ed io dunque, ed io? - sclamò con un ruggito Lucilio, afferrandomi il braccio convulsivamente. - Ed io, cosa credete voi, che sia poco infelice?... Io che ho veduto disseccarsi l'anima dell'anima mia, io che ho assistito ancora e bollente di passioni al funerale d'ogni mia speranza, io che non ho veduto la morte di colei che mi amava, ma il suicidio dell'amor suo, io che ho vissuto trentacinque anni vagando disperato col pensiero fra le rovine della mia fede e chiedendo indarno alla vita il lampo d'un sorriso, io che ho avventato freneticamente ogni virtù del mio ingegno, ogni potenza del mio spirito a scrollare invano le porte d'un cuore che era mio, io che ho sognato di sconvolgere il mondo per carpire dalla confusione del caos quell'unico bene che desiderava e che m'era sfuggito, io che ho veduto tutta la forza d'una attività senza pari accasciarsi sconfitta dinanzi ad una indifferenza forse bugiarda, io che vedeva il paradiso non piú discosto da me che non lo siano fra loro le anime di due amanti, e non ho potuto giungervi, non ho potuto dissetarmi queste avide labbra d'una stilla sola di felicità, perché vi si opponeva la memoria di tre parole imprudenti spergiure, io dunque che avea trovato l'anima piú pura il cuore piú delicato e sublime che sia mai stato quaggiù, e questa arra quasi infallibile di felicità la vidi mutarsi in mia mano senz'alcuna ragione in un veleno mortale e senza rimedio, credete voi che io non abbia avuto motivi bastevoli e volontà e forza di uccidermi?... Perché, ditelo voi, perché ostinarmi a rimanere fra gli uomini, quando la creatura piú virtuosa e perfetta, colei che sola io avea riputata degna dell'amor mio, col tradimento colla crudeltà ricompensava le mie adorazioni?... Perché affaticarsi nel creare una patria a questa umanità che nelle sue migliori virtù mi scopriva agguati sí perfidi e micidiali?... Perché combattere, perché studiare, perché guarire, perché vivere?... Volete saperlo, Carlo, questo perché?... Perché mi mancava una certezza. Perché l'uomo fornito di ragione non deve piegarsi ad atto alcuno che non sia ragionevole; perché non era né poteva esser certo che la morte mia sarebbe stata giusta ed utile a me od agli altri; mentre la vita invece poteva esserlo in qualche maniera, e deferiva alla natura una sentenza ch'io non mi sentiva in grado di pronunciare. Ecco perché vissi, perché cercai con ardore sempre crescente la verità e la giustizia, perché pugnai per esse per la libertà per la patria; perché curvai la mia mente a creder un bene quello che dal consenso universale era creduto un bene, e mi studiai di rendere la pace agli afflitti, la speranza agli increduli, agli infermi la salute. La natura ci dà la vita indi ce la toglie; siete voi tanto sapiente da comprendere e giudicare le leggi di natura? Riformatele mutatele giudicatele a vostro talento!... Ma non vi sentite quest'autorità, questa potenza?... Ubbidite allora. Infelice martoriatevi, innocente soffrite, colpevole pentitevi e riparate: ma siate ragionevole e vivete. - Sí, Lucilio! Vivano pure gli innocenti nel dolore, gli infelici nel martirio e i colpevoli nell'espiazione; sopportino tutti la vita coloro che nella ragione non trovano bastevoli argomenti per poterla distruggere. Ma io, Lucilio, io son fuori della vostra legge; io morirò!... Reo lo sono e pur troppo, e d'un delitto tale che è piú infame piú mostruoso a parer mio dello stesso matricidio. Se la natura mi comanda ch'io viva, sorga ella dunque e m'ispiri il modo di ripararlo!... Oh! ai mali senza rimedio v'è un unico scampo, e voi lo sapete che la natura non lo preclude. E cos'è dunque questo odio forsennato della luce, questo spavento di me stesso, questo desiderio infinito d'obblio e di riposo che tutto mi occupa? Non son forse altrettanti richiami con cui la natura mi invita a sé, al suo grembo misterioso pieno di misteri, di pace, e fors'anco di speranza?... - Forse!... Ecco la parola che vi dà torto. Qui invece nella vita una cosa sola v'ha di certo e immutabilmente certo. La giustizia!... Rispondetemi ora preciso e sincero, perché già vedete ch'io espongo la quistione nei termini piú chiari. Credete voi fermamente di esser giusto verso tutti, verso i vostri figli, verso la moglie i parenti gli amici la patria, verso la Pisana stessa, e verso la vostra coscienza, rifiutando cieco e disperato la vita?... Orsù dunque; non obbiezioni né debolezze; rispondete! - Pietà, pietà di me, Lucilio!... Ve ne prego, ve ne scongiuro, lasciate ch'io muoia!... Ho veduto i miei figli, ho veduto quanto piú di caro e prezioso aveva nel mondo; li stringerò a lungo sul cuore, li esorterò ad essere buoni e leali, cittadini forti ed operosi; li vedrò ancora per grazia vostra un'ultima volta, e spirerò l'anima in pace!... Pietà, Lucilio!... Per carità, lasciatemi morire!... - E se la coscienza vostra vivesse oltre la tomba, e vi mostrasse i figli vostri miseri sciagurati vili forse e spregevoli per cagion vostra... - Oh no, Lucilio, essi hanno la loro madre: essa li aiuterà de' suoi consigli che valgon certo quanto i miei. - E se alla morte vostra conseguitasse quella di vostra moglie?... Se fosse il primo anello d'una lunga catena di sciagure e di disperazioni che si perpetuasse nel sangue vostro fino all'ultima generazione? E se pesasse sopra di voi morto lontano impotente, ma conscio ancora, la terribile responsabilità dell'esempio?... Se lo spirito della Pisana rifiutasse un omaggio deturpato dalle lagrime del sangue altrui?... Se forte com'ella fu nel dolore nella pietà nell'abnegazione guardasse con disprezzo a voi fuggitivo per ignoranza per debolezza, e le sue forti aspirazioni vaganti nell'aereo mondo dei fantasmi rifuggissero dalle vostre misere e ingiuste?... Se doveste esser separati per tutta l'eternità, se la vostra morte pusillanime e spietata fosse il principio d'un allontanamento che dovesse crescere sempre, crescendo insieme i tormenti della disunione e i vani desiderii di raggiungersi?... Se la natura, che voi pazzamente affermate complice del vostro delirio, un unico mezzo di riparazione vi offerisse, quello di imitarla nella virtù nella rassegnazione, quello di vivere per farvi il piú che è possibile simile a lei, e confondervi ad essa quando la natura stessa vi inviti a quelle che voi chiamate dubbiose e arcane speranze? Oh Carlo! pensateci altamente. Non aggravate gli insulti verso la Pisana, facendo la sua virtù responsabile di tutti i mali che potrebbero derivare dalla vostra pazzia. - Amico, dite bene, ci penserò. Sento che in questo istante la fredda ragione non potrebbe trovar posto nel tumulto delle mie passioni; e mi conosco abbastanza forte per credere che non cerco pretesti nella dilazione, e che di qui ad un anno sarò come adesso ove le condizioni del mio spirito non sieno cambiate. - Del resto - riprese Lucilio - io mi studiai finora premunirvi contro ogni evento possibile; e spero che se parlerete colla Pisana i suoi discorsi il suo contegno i suoi sguardi vi persuaderanno meglio de' miei ragionamenti. Ma non voglio poi dire che siamo giunti a tale eccesso di disperazione e di pericolo. Se ella potesse giungere a Venezia, e riposarsi nelle sue abitudini d'altro tempo... - Oh dite il vero, dottore? ci sarebbero delle speranze? Non fate ora per confortarmi, per illudermi? - Son tanto lontano dal volervi ingannare che finora vi lasciai persuaso del peggio. Adesso non vi rendo molte speranze, ma sibbene quelle che la provvida natura ci consente sempre, finch'ella non arresta, forse provvida del pari, l'arcano movimento della vita. Intanto questo vi consiglio, che vi parrà certo strano, di intrattenervi a lungo colla Pisana, e di fidarvi alla scuola de' suoi esempi. Vi prometto che ella finirà di sconsigliarvi da ogni azione disperata: e questa confidenza che ho in lei suggelli la sincerità di quanto vi son venuto dicendo. - Grazie! - io soggiunsi stringendogli la mano - certo né da lei mi possono venire esempi, né da voi consigli indegni di me. Cosí finí quel colloquio per me assai memorabile, e che decise forse di tutta la mia vita avvenire. Io rimasi perplesso e costernato assai; ma la fortezza d'animo di Lucilio mi avea in certo qual modo rattemprato, e perciò mi proposi di dargli retta raccostandomi alla Pisana e cercando di riparare ai mali involontariamente commessi coll'accordare la mia condotta ai suoi desiderii, e darle cosí la piú alta testimonianza che si potesse d'amore e di devozione. Pur troppo sulle prime que' miei tentativi mi sconfortarono piú che altro: la povera Pisana faceva il possibile di sfuggirmi, pareva che sentendosi in procinto di abbandonarmi non volesse trovar piacere alla mia compagnia per provar poi maggiori angosce nel momento della separazione. Od anche le dispiaceva che io le dimostrassi qualche preferenza in confronto dell'Aquilina. Ad ogni modo, non mi scoraggiando per que' suoi forzati dispetti, e continuando a dimostrarle con ogni maggiore accorgimento la mia gratitudine e il profondissimo rammarico di non averla dimostrata meglio e prima d'allora, giunsi a vincere quell'ostinata ritrosia e a rimenarla ben presto all'antica confidenza. Mio Dio, qual tormento era per me il veder ravvivarsi dentro agli occhi suoi la fiamma della vita, e assistere insieme al continuo deperimento delle sue forze che a mala pena le reggevano la stanca e stremata persona!... Qual terribile spettacolo la giocondità con cui accoglieva quel mio ritorno alla tenerezza di una volta; e la spensierata rassegnazione che la faceva scrollare le spalle e sorridere quando accennava del suo futuro! Un giorno io avea parlato con Lucilio il quale mi assicurava che se le cose procedevano a quel modo avremmo potuto arrischiare nella settimana seguente il viaggio verso Venezia. La sera mi trovai soletto colla Pisana, perché Lucilio aveva accompagnato mia moglie mio cognato e i miei ragazzi a vedere non so quali meraviglie di Londra; ell'era piú pallida ma piú allegra del solito; sperava sempre che nel suo bizzarro temperamento anche la salute potesse ravvivarsi d'improvviso sfuggendo alle regole comuni degli altri esseri, e che il male non fosse irreparabile con quella festività d'umore che allora le rinasceva. - Pisana - le dissi - il mese venturo potremo essere a Venezia. Non ti pare che soltanto il pensiero ci faccia bene? Ella sorrise levando gli occhi al cielo, né rispose nulla. - Non credi - continuai - che l'aria nativa, la pace che gioiremo tutti uniti e tranquilli finiranno di guarirti dalla melanconia? - Melanconia, Carlo? - mi rispose. - E come t'immagini mai ch'io sia melanconica?... Avrai osservato che una vera giocondità naturale e continua non l'ho mai avuta; erano sprazzi di luce, lampi fuggitivi e nulla piú. Sono sempre stata una creatura molto variabile, ma piú sovente taciturna e ingrognata. Soltanto ora mi sorride un bel tempo di serenità e di pace; non mi son mai sentita cosí calma e contenta. Credo che ho recitato la mia parte e spero qualche applauso. - Pisana, Pisana, non parlare cosí!... Tu meriti molto maggiori applausi che noi non ti possiamo dare e li avrai. Torneremo a Venezia; là... - Oh Carlo! non parlarmi di Venezia, la mia patria è molto piú vicina, o lontana se vuoi, ma ci si arriva con un viaggio molto piú rapido. Lassù, lassù, Carlo!... Vedi; la povera Clara mi ha fatto se non altro credere e sperare nella misericordia di Dio. Non è giunta a cacciarmi in capo la sua teoria dei peccati; ma pel resto ci credo, e m'aspetto di non esser punita troppo severamente del poco male che senza volerlo ho commesso. Tutto quel poco bene che poteva fare io l'ho fatto; è giusto che non mi si tardi qualche ricompensa; il mio desiderio è di riceverla subito, e di abbandonarvi per breve tempo col sorriso sulle labbra e, concedetemi anche questa speranza, col vostro compatimento. - Non vedi, Pisana, che tu mi strazi l'anima, che mi rinfacci con queste parole la cecità colla quale in questi ultimi anni ho voluto credere alla tua apparente freddezza?... Infame, sconoscente, assassino che non badava a tutti i tuoi sacrifizi, che mi sforzava a creder vera la tua indifferenza forse per isdebitarmi a poco prezzo con te, che non volli conoscere nella tua devozione e nel modo ammirabile con cui me la dimostravi quel suggello di sublime delicatezza di cui sola sai improntare i sacrifizi e farli comparire azioni affatto comuni e prive di merito!... Oh maledicimi, Pisana!... Maledici il primo momento che mi hai conosciuto, e che ti ha condotta a sprecare per me tanto eroismo quanto avrebbe bastato a premiare la virtù d'un santo e i fecondi dolori d'un martire!... Maledici la mia stupida superbia, la mia ingrata diffidenza, e il vile egoismo con cui son vissuto due anni bevendo il tuo sangue, e suggendoti dalle carni la vita!... Oh sí, ricada sul mio capo la pena di tanta infamia! La meritai la imploro la voglio! Finché non avrò scontato a lagrime di sangue tutto il mio delitto contro di te, tutti i dolori le umiliazioni che ti ho imposto, non avrò né pace né ardire di sollevar il capo e chiamarmi uomo!... - Vaneggi, Carlo?... Che fai ora, che pensi?... Non conosci piú la Pisana, o credi ch'ella finga ancora per esser creduta contenta o per isbarazzarsi dell'altrui compianto?... No, Carlo, te lo giuro!... La quistione di vivere o di morire non c'entra per nulla nella mia felicità. Non ti nascondo che la mia ultima ora la credo molto vicina; ma son io men felice per ciò?... Tutt'altro, Carlo; la tua tenerezza la tua confidenza erano l'ultima consolazione che mi aspettava; tu me l'hai ridonata. Oh, che tu sia benedetto!... Una sola tua parola di riconoscenza, un solo sguardo affettuoso pagherebbero due vite piú lunghe della mia e piene a tre doppi di privazioni e di sacrifizi!... Tu hai diffidato di me, tu mi hai imposto dolori e patimenti?... Ma quando, Carlo, quando? Io peccai e tu mi perdonasti; io t'abbandonai, e non ne movesti lamento; tornata a te mi raccogliesti colle braccia aperte e col miele sulle labbra!... Tu sei l'essere piú nobile piú confidente e generoso che possa esistere... Se avessi dinanzi a me l'eternità, e dovessi passarla in continui stenti neppur consolata dalla tua presenza, e tutto per risparmiarti una lagrima un sospiro solo, non esiterei un momento. Mi rassegnerei giubilando, e contenta solo nel pensiero che tutti i miei giorni tutti i miei affanni sarebbero consacrati al tuo bene. Tu solo, Carlo, non hai ripudiato l'anima mia. Dall'amor tuo solo cosí generoso e costante presi il coraggio di guardare dentro di me e dire: "Non son poi tanto spregevole se un tal cuore continua ad amarmi." Oh Carlo, perdonami!... Perdonami per carità, se non ti ho amato come tu meritavi!... - Alzati, Pisana! le tue preghiere mi svergognano; non avrò piú cuore di guardarti in viso, né di domandarti perdono!... Oh mio Dio!... Come ricordare senza angoscia tutti i momenti nei quali una mia parola d'amore, un mio sguardo umile e mansueto ti avrebbe se non ricompensata almeno fatta persuasa della mia gratitudine? Invece mi rinchiusi ne' miei tristi sospetti e punii col sussiego e col silenzio il sacrifizio piú nobile forse piú costoso che abbia fatto una donna, quello... sí, voglio dirlo, Pisana, quello dell'amor tuo!... E se credeva che non mi amassi piú, perché dunque mi valsi di te come d'una schiava, strascinandoti pel mondo legata miseramente al mio sciagurato destino!... Oh sí, Pisana! fui pur troppo un vile tiranno e un carnefice spietato!... - Ed io ti ripeto ancora che o non ti ricordi bene, o dopo tanti anni non conosci per anco la Pisana. Ma non capisci che tutti quelli che tu chiami dolori patimenti sacrifizi, erano per me piaceri ineffabili, colmi d'una voluttà tanto piú dolce quanto piú nobile e sublime? Non capisci che l'indole mia strana e mutabile mi portava forse a stancarmi dei piaceri piú comuni, e a cercare in un'altra sfera anche a rischio di perdermi contentezze diverse e diletti che non avessero paragone nella mia vita passata? Non hai ravvisato il primo sintomo di questa, direi quasi, pazzia in quel mio incredibile e tirannico capriccio di sposarti all'Aquilina?... Oh te ne scongiuro in ginocchio, Carlo!... Perdonami di averti amato alla mia maniera; di aver sacrificato te ad un mio ghiribizzo strano e inconcepibile, di non aver cercato nella tua vita altro che un'occasione di appagare le mie strane fantasie!... Tu non potevi capirmi, tu dovevi odiarmi, e invece mi hai sopportato!... Quando negli ultimi anni io trovava tanta dolcezza nell'assisterti, e nel nasconderti l'amor mio dandoti ad intendere che solo la necessità e la compassione mi movevano, non doveva io conoscere che con questo contegno ti tormentava, e che toglieva il maggior valore a quei pochi servigi che poteva renderti?... Ciò nulla ostante io seguitai a far pompa della mia barbara delicatezza, mi ostinai in quel sistema di virtuosa vanità in cui col tuo matrimonio avea segnato il primo passo, volli il piacer mio prima di tutto, ad ogni costo!... Vedi, vedi, Carlo, se fui cattiva ed egoista? Non avrei fatto meglio a confidarmi nella tua generosità tanto maggiore e piú provata della mia, e dirti: "Ho sbagliato, Carlo! ho sbagliato per sbadataggine per bizzarria! Ora i nostri doveri son questi! Adempiamoli d'accordo senza ipocrisia e superbia"!?? Ma io diffidai di te, Carlo! Te lo confesso coll'umiltà della vera penitente!... Il tuo amore sí grande sí magnanimo non meritava una sí trista ricompensa; ma una sincera confessione mi rialzerà agli occhi tuoi. Mi amerai ancora; sí, mi amerai sempre, e la mia memoria santificata dalla morte vivrà perenne tra i tuoi piú soavi e mesti pensieri. - La morte? non pronunciare, perdio, questa parola, o non contento di seguirti, io ti precedo!... - Carlo, Carlo, per carità non mettermi nel cuore un sí atroce rimorso! Libera questi miei ultimi giorni dalla sola paura che possa amareggiarli!... Vedi! impara da me... Cento volte avrei potuto, avrei dovuto uccidermi... e in quella vece... in quella vece... io muoio!... - No, non morrai... Pisana, Pisana! ti giuro che non morrai!... - Ed è vero; non morrò affatto se tu vivi; se tu onori la mia memoria col render utili quei pochi sacrifizi che sebben malamente pure ho fatto per te!... Se penserai all'Aquilina che io ti ho confidato, ai figliuoli che tu generasti e ai quali ti stringono sacri e inviolabili doveri, alla tua patria, alla mia patria, Carlo, per la quale ha sempre battuto questo mio piccolo cuore, per la quale dovunque mi porti la volontà di Dio io non cesserò di pregare, e di sperare!... Carlo, Carlo, te lo raccomando! Vivi perché la tua vita sarà degna di esser imitata da quelli che verranno. Possa almeno dire morendo che le mie parole che i miei consigli ebbero questa fortuna di lasciare un'eredità di grandi e nobili azioni!... Null'altro ti chieggo null'altro desidero perché il momento della partenza sia insieme il piú felice della mia vita. Del resto tutto quel po' di bene che poteva operare mi sono studiata di farlo: muoio contenta, muoio sorridendo perché vado ad aspettarti!... - Eccomi, eccomi, Pisana; non aspetterai un attimo! Io sono con te! - E se ti dicessi che queste sarebbero le prime dure parole che avrei udito da te, e che cosí mi avvilisci agli occhi miei, e mi togli quel lievissimo premio col quale io partiva tutta beata?... Oh Carlo, se mi ami ancora, tu non vorrai vedermi morire fra le paure e i rimorsi! Sai che quando voglio una cosa, la voglio la pretendo ad ogni costo! Or bene, io voglio e pretendo che la mia morte a me tanto facile e soave non sia la disperazione d'una intera famiglia, e non tolga a tutto un paese ed all'umanità tutto quel bene che puoi che devi ancora operare!... Carlo, sei tu forte animoso? Hai fede nella virtù e nella giustizia? Giurami allora che non sarai vile, che non abbandonerai il tuo posto, che misero o felice, accompagnato o solo, per la virtù per la giustizia combatterai fino all'estremo! - Oh Pisana, cosa mi chiedi mai? Come credere alla virtù e alla giustizia quando non ti abbia al fianco, quando una vita come la tua ottenga una sí misera ricompensa? - Una vita come la mia è cosí invidiabile che beati gli uomini se potessero averne ciascuno una di simile! Una vita che principia coll'amore e termina col perdono colla pace colla speranza per sollevarsi in un altro amore che non avrà piú fine, è tanto superiore ad ogni mio merito che ne ringrazio e ne benedico Iddio come d'un dono grazioso. Ma una sola felicità mi manca, la quale anche son sicura di ottenerla perché è in tua potestà il concederla. Giurami, Carlo, giurami quanto ti ho domandato. No, non sarà mai vero che tu nieghi a me l'unica grazia che ti chiedo, supplicandoti per quanto hai di piú sacro e di piú caro al mondo, per la memoria per l'eternità dell'amor nostro! - Oh Pisana, io non ho mai violato alcun giuramento! - E per questo appunto te ne scongiuro; vedi? la felicità de' miei ultimi momenti pende ora dalla tua volontà, dalle tue labbra! - Dunque è proprio necessario?... È un tuo decreto irrevocabile? - Sí, Carlo; irrevocabile! Come il dono che ho fatto a te di tutta me stessa; come il giuramento ch'io rinnovo ora che tu sei l'essere piú nobile e generoso che abbia vestito mai spoglie mortali!... - Oh ma tu mi stimi piú assai che non valga; tu mi chiedi quello che non posso... - Tutto tutto potrai!... se mi ami ancora!... Giurami che vivrai pel bene della famiglia ch'io ti imposi, per l'onore della patria che insieme abbiamo amato, e ameremo sempre!... - Pisana, lo vuoi?... Or bene, lo giuro!... Lo giuro per quel desiderio che avrei di seguirti, lo giuro per la speranza invincibile che la natura penserà presto a sciogliermi del mio giuramento!... - Grazie, grazie, Carlo!... Adesso sono felice; torno degna di Dio!... - Ma una cosa anch'io ti dimando, Pisana, di non pascerti piú a lungo dei lugubri pensieri che ti fanno morire prima del tempo, di adoperare quella felicità che in te rinasce, a ravvivare la tua salute, a rianimare il tuo coraggio, a serbarti insomma per noi, per noi che ti amiamo tanto! - Oh tu sí, vedi, tu mi chiedi piú di quanto possa concederti!... Carlo, guardami in volto!... Vedi tu questo sorriso di beatitudine, queste lagrime di gioia che m'inondano gli occhi? Or bene, credi tu che io povera donna pazza briaca d'amore, mi rassegnerei a lasciarti ad abbandonarti per sempre a non vederti mai piú né in terra né in cielo, se una speranza certa, profonda, invincibile non mi affidasse che ci rivedremo che saremo uniti e contenti a mille tanti che nol fummo mai, per tutta la eternità?... - Pisana, oh sí, ti credo! Veggo l'anima tua che risplende da quegli occhi divini!... Rimani, rimani con noi; per carità rimani!... - E credi che se dovessi rimanere avrei goduto i piaceri puri ineffabili di quest'ultima ora?... Oh no, Carlo; ogni altra gioia sarebbe per me omai troppo ignobile e scolorita. Lascia lascia che me ne vada. Ammira tu pure insieme con me la clemenza di Dio che circonda dei colori piú splendidi il sole che tramonta!... Ringrazialo di farci pregustare in questo mondo le voluttà inesprimibili dell'altro quasi un'arra infallace che le promesse infuseci da lui nel cuore non sono né manchevoli né menzognere!... Addio, Carlo, addio!... Separiamoci ora che le nostre anime sono forti e preparate!... Ci rivedremo ancora forse molte volte, forse una sola!... Ma un'ultima volta ci rivedremo certo per non separarci mai piú. Vado ad aspettarti, ad imparare ad amarti veramente come meriti!... Addio addio!... E mi sfuggí d'infra le braccia, e non ebbi la forza di trattenerla; e piansi piansi com'ella veramente fosse morta, come quell'addio fosse stato la sua ultima parola. E per vagar che facesse il mio pensiero non vedeva altro intorno a sé che buio e deserto. Quell'anima cosí grande e sublime risplendeva tanto, che fuggendo ella mi parevano larve tutti gli altri splendori di quaggiù, e ogni affetto perdeva forza e calore raffrontandosi al suo. Entrarono di lí a poco Lucilio, l'Aquilina con tutti gli altri; io non ebbi forza che di segnare con un gesto la porta donde era scomparsa la Pisana e sciogliermi di bel nuovo in pianto. La vista di quelle persone che mi inchiodavano sí irremissibilmente alla vita mi fu in quel punto insopportabile e direi quasi odiosa. Era perfino snaturato contro la moglie e i figliuoli. Ma partiti che furono dalla camera, spaventati dal mio pianto e da quel gesto terribile, i consigli della Pisana mi mormorarono pietosamente nel cuore. L'amore di lei, che era si può dire immedesimato coll'anima mia, diffuse sui miei sentimenti un fiato salubre e vigoroso. Pensai che veramente per amarla avrei dovuto se non uguagliare imitare almeno la sua grandezza e sacrificarmi agli altri com'ella si era sacrificata per me. Pensai che non sono bugie quelle sante parole di famiglia e di patria che sonando dal suo labbro pigliavano un'autorità religiosa e quasi profetica. Pensai che espiazione o battaglia la vita nostra è un bene almeno per gli altri; e che quanto piú è un male per noi tanto piú meritorio è il coraggio di portarla fino alla fine. I suoi sguardi inspirati dalla fede delle cose misteriose ed eterne mi lampeggiavano ancora dinanzi; sentii che la loro luce non si sarebbe offuscata mai piú nel mio cuore e che si sarebbe tramutata in una felice speranza in un desiderio paziente ma sicuro. Piansi allora di bel nuovo, ma le lagrime scorrevano tranquille giù per le guance, e non precipitai piú disperato e violento ma mi sollevai lieve e rassegnato all'aspettazione della morte. Dopo circa un'ora, durante la quale bene avvisarono di lasciarmi solo, tornò Lucilio a significarmi che la Pisana era stata colta da un improvviso sfinimento, ma che riavutasi col bere un cordiale, s'era allora allora acquetata in un dolcissimo sonno. Raccomandava la lasciassimo in pace e che la natura operasse sola perché non vi sono ristori piú potenti de' suoi. Egli sarebbe venuto prima di sera a vedere se potesse aiutare coi soccorsi dell'arte i miglioramenti ottenuti da quelle ore di riposo. Successe infatti la tregua di alcuni giorni, né la gioconda serenità della Pisana fu smentita mai un istante. Quand'ella poteva avermi vicino a sé e farmi sommessamente ripetere che avrei mantenuto le mie promesse, un sorriso celestiale irradiava le sue sembianze; non l'aveva mai veduta cosí contenta neppur negli istanti delle maggiori beatitudini. Cosí vidi illanguidirsi a poco a poco in una calma ilare e serena quell'anima di fiamma che avea sempre vissuto in una sí fiera tempesta di passioni; vidi la sua parte piú pura sorgere a galla, e risplendere d'una luce sempre piú tersa e tranquilla, e scomparire affatto que' profani sentimenti che l'avevano per qualche istante appannata: vidi quanto aveva potuto un affetto solo, ma pieno e costante contro un'indole bizzarra e tumultuosa, contro un'educazione falsa e pervertitrice: vidi tacere affatto le passioni al volo rapido e lieve che spiccava lo spirito, e la morte avvicinarsi bella amica sorridente al bacio del pari sorridente delle sue labbra. Il delirio dell'agonia fu per lei un sogno di visioni incantevoli; fin'allora io avea creduto che fossero artifiziose bugie quelle grandi parole che si mettono in bocca ai moribondi; ma mi persuasi allora che le anime sante rivolgendosi dal punto supremo a gettare sulla loro vita un ultimo sguardo, ne spremono quasi i piú alti e generosi sentimenti per farsene viatico al gran viaggio verso Dio. Molte volte nominò l'Italia, molte volte stringendomi la mano mormorava parole di coraggio e di fede. - I tuoi figli; i tuoi figli! - mi diceva. - Carlo, li vedi, essi sono piú felici di noi!... Ma nel mondo, vedi, nel mondo! Fuori del mondo noi saremo beati al pari, di aver preparato la loro felicità! - Un altro momento si perdette in vaghi balbettamenti dai quali credetti rilevare che parlasse di Napoli, e dei giorni gloriosi e terribili vissuti colà ventiquattr'anni prima. Dopo evocate quelle lontane memorie mise le mani in croce e con piglio supplichevole soggiunse: - Perdono, perdono!... - Oh il perdono, anima mia, a chi e perché lo chiedevi? forse a me che avrei dato tutto il mio sangue per meritare il tuo? Forse a quel Dio che da tanto tempo era spettatore de' tuoi coraggiosi sacrifizi, e ammirava in quel momento la sublimità virtuosa e serena a cui può sollevarsi una sua creatura? Oh godi ora, godi, anima benedetta, di quest'ultima testimonianza che io, ancora vivo dopo altri trent'anni di pazienza e di dolori, rendo sul limitare del sepolcro alle tue eroiche virtù!... Godi di sapere che se qualche splendore di coraggio ha illustrato il resto della mia vita, se di qualche utile impresa si onorarono i miei figli, e si onoreranno mai i figliuoli loro, il merito si appartiene a te sola! A te che mi pregasti di rimanere e di perpetuare e rinnovare in me e negli altri l'esempio della tua vita magnanima!... Sorridi ancora alla mia mente annebbiata e decrepita, o anima pura, da quel cielo alto e profondo dove per l'intima forza della sua sublimità si rifugiò la tua voce, e additami con un raggio di speranza il sentiero per cui possa raggiungerti!... Se nel pensiero abbuiato dalla vecchiaia e curvo sul sepolcro del mio figliuolo prediletto, dura ancora un poetico barlume delle eterne speranze, lo deggio a te sola. Per te sola ebbi famiglia, patria e altezza di cuore, e incorruttibilità di coscienza; per te sola conservo il fuoco eterno della fede; e lo unirò, dovechessia, al fuoco eterno dell'amor tuo. No, non sogna non bamboleggia un vecchio d'oltre ottant'anni; non resiste a tanti dolori per cadere in quel supremo dolore che sarebbe la confusione del bene e del male. V'ha una sfera sovrumana, un ordine eterno dove le colpe piombano nella materia e le virtù si sollevano a spirito. Io che ti vidi scrollare d'intorno queste spoglie frali e caduche, io che ti ricordo piú bella piú giovane piú felice che mai all'istante supremo e pauroso della morte, io che ti amo ora piú che non ti amassi mai, compagna nella vita nelle debolezze negli errori, io deggio credere per necessità a una sublime purificazione, a un misterioso travestimento degli esseri! Sí, per grazia tua, per amor tuo, o animo felice, mettendo il piede nella tomba rinnego superbamente quella filosofia timida e senza cuore che nega ciò che non vede. Piuttosto che abbassare coi sensi la ragione umana, mille volte meglio sublimarla coll'immaginazione e col sentimento. Grazie, o Pisana, di quest'ultimo conforto che mi piove dall'alto dei cieli. Tu sola potevi tanto sopra di me. Non credo, non ragiono, ma spero. Quand'ella fu tornata in sé l'Aquilina le domandò se voleva che si chiamasse un prete perché la religione assicurasse viemmeglio la meravigliosa serenità del suo spirito. - Oh sí! - rispose ella sorridendo mestamente. - A mia sorella dorrebbe assai di sapere ch'io fossi morta senza prete! - No, non parlar di morire! - soggiunse l'Aquilina, - i conforti della religione aiutano anche a vivere secondo la volontà del Signore. - Vivere o morire è lo stesso dinanzi a lui - riprese con voce calma e solenne la Pisana; poi rivolse a me una lunga occhiata di speranza. Io mi asciugai gli occhi furtivamente, e nel rivolgermi all'altro lato vidi mio cognato e i due ragazzi che contemplavano meravigliati e quasi invidiosi quella forte moribonda. Tutto spirava intorno a quel letto pace e grandezza; e io pure finii col credere che non si trattasse di altro che della separazione di pochi anni; non assisteva ad una morte disperata ma ad un mesto ed amichevole commiato. Venne Lucilio che tastò il polso e sorrise alla morente come volesse dirle: partirai fra breve ma in pace. Egli pure credeva. Venne da ultimo il prete col quale la Pisana s'intrattenne a lungo senza cinico disprezzo e senza affettata divozione. Contenta com'era di sé non le fu difficile persuadersi d'essere in pace con Dio; e i primi funerali che si celebrano con pompa sí lugubre e spaventosa al letto degli agonizzanti, non alterarono per nulla il suo aspetto sereno. Tornò poi ad intrattenersi con noi, a ringraziare Lucilio delle sue cure, l'Aquilina e Bruto della loro amicizia, a benedire i miei figli pregandoli di ubbidire e di imitare i loro genitori. Mi prese poi per mano, e non volle piú che mi scostassi dal suo letto nemmeno per prendere una tazza di cordiale che stava sopra l'armadio e che le fu avvicinata alle labbra dall'Aquilina. Essa la ringraziò d'un sorriso, indi si rivolse a me soggiungendomi all'orecchio: - Amala, sai, amala, Carlo! Te l'ho data io! - Non ebbi fiato di rispondere, ma accennai col capo di sí; né ho mai dimenticato quella promessa, e l'Aquilina stessa avrebbe potuto attestarlo, per quanto alcune disparità d'opinione abbiano inasprito in appresso i nostri temperamenti. Di momento in momento il respiro della Pisana diveniva piú raro ed affannoso; mi stringeva sempre piú forte la mano, sorridendo ad ora ad ora a ciascuno di noi; ma quando toccava a me era un'occhiata piú lunga ed intensa. E se ne stoglieva per guardar di nuovo l'Aquilina; quasi le chiedesse perdono di quegli ultimi contrassegni d'amore. Proferiva di tanto in tanto qualche parola, ma la voce le veniva mancando; io mi sentiva mancare insieme a lei, e subito collo sguardo ella mi inanimava a ricordarmi di quanto le aveva promesso. - Eccomi! - diss'ella ad un tratto con voce piú forte del solito. E volle sollevarsi dal guanciale, ma ricadde piú stanca che abbattuta, e sorridendo di quello sforzo impotente. - Eccomi! - mormorò una seconda volta; poi volgendosi a me soggiunse: - Ricordati: ti aspetto!... Io sentii un brivido passarmi per mezzo il cuore, era l'anima sua che nel partire risalutava la mia. Mi stringeva ancora per mano, le sue labbra sorridevano, gli occhi guardavano ancora; ma la Pisana era già salita ad avverare le sue eterne speranze. Lo credereste? Nessuno si mosse dal suo posto; tutti restammo là immobili silenziosi a contemplare la serenità di quella morte; Lucilio mi raccontò poi di aver pianto esso pure ma quasi di consolazione; io non lo vidi allora come nulla vidi per tutto quel giorno. Non mi mossi, non piansi né parlai finché non tolsero dalla mia la mano della Pisana per adagiarla nella bara. Allora io stesso le composi intorno le vesti, io stesso la deposi nel suo ultimo letto, e all'ultimo bacio che le impressi sulle labbra mi parve che l'anima mia fosse fuggita insieme alla sua. Per molti giorni rimasi che non sapeva d'essere né morto né vivo: ma era sospensione di vita e non disperazione, per cui a poco a poco il pensiero si sciolse da quel letargo, e riebbi finalmente la coscienza di me e la memoria di quanto era stato, per riaver insieme la fortezza che mi abbisognava onde ubbidire agli ultimi desiderii della Pisana. D'allora in poi la mia indole assunse una gravità e una fermezza non mai avuta dapprima; e l'educazione ch'io diedi a' miei figliuoli s'inspirò tutta da quei magnanimi esempi di virtù e di costanza. Quando l'Aquilina mi rimproverava dolcemente di avventurarli cosí ad un destino compassionevole e tempestoso bastava ch'io le ricordassi la morte della Pisana perché ella si ritraesse dicendo che aveva ragione! Infatti non si deve guardare né a pericoli né a sacrifizi per meritare una tal morte. Pochi giorni prima che partissimo da Londra, arrivò la notizia che Sua Eccellenza Navagero era passato a miglior vita lasciando la Pisana sua erede universale, e ov'ella morisse senza testamento, instituendo con ogni suo avere uno spedale che dovea portare il nome di lei. Possedeva netti netti un paio di milioni ed era vissuto quegli ultimi anni in una finta povertà per accumulare quella gran somma allo scopo per cui la destinava. Io soffersi assai di dover abbandonar l'Inghilterra dove in campestre cimitero rimaneva tanta parte di me; ma la Pisana mi comandava di pensare ai miei figli, e partimmo. Spiro e l'Aglaura mi raccomandavano di tutelare alcuni loro interessi rimasti sospesi a Venezia, per cui mi volsi colà, deliberato di fermarmivi. Mio cognato dopo una corsa in Friuli per dar ordine alle sue cose ci avrebbe raggiunti e cosí io disponeva mestamente il mio campo d'inverno per la vecchiaia. Molto anche avea sofferto nello staccarmi da Lucilio, ma egli mi avea lasciato dicendomi: - Verrò a morire fra voi! - Sapeva ch'egli non avrebbe mancato alla sua promessa. Giungemmo a Venezia il quindici settembre 1823. Passai la prima notte in quella memore cameretta dov'avea vissuto giorni sí spensierati e felici, baciando fra lagrime e singhiozzi due ciocche di capelli. L'una l'aveva strappata dai bei ricci della Pisana fanciulletta: l'altra l'avea tagliata religiosamente sulla pallida fronte della Pisana morta. CAPITOLO VENTESIMOPRIMO Come io cooperassi a risvegliare in Venezia qualche attività commerciale, principio se non altro di vita, e come il maggiore de' miei due figli partisse con lord Byron, per la Grecia. Un duello a cinquant'anni per l'onore dei morti. Viaggio di nozze a Napoli di Romania e funebre ritorno per Ancona nel marzo del 1831. La morte mi toglie il mio secondogenito e fa man bassa sopra amici e nemici. Essa trova un potente alleato nel cholera. Un collegiale di sessantacinque anni. Si sanno le cagioni per cui è caduta Venezia: e quelle cagioni stesse fecero sí, che neppur potesse rialzarsi all'attività della vita materiale. Il destino vi ebbe la maggior colpa, perocché il torpore medesimo del governo e l'infiacchimento del popolo derivarono dalla chiusura di quelle vie, per le quali si esercitava con massimo buon frutto l'attività sí dell'uno che dell'altro. Che colpa ci ebbero i Veneziani se Colombo e Magellano crearono nuovi commerci a profitto d'altre nazioni, e se Vasco di Gama aperse nuovi scali alle merci dell'Oriente? I Veneziani durarono audaci e meravigliosi mercanti finché fu loro possibile vendere le merci dei paesi lontani con benefizi maggiori degli altri concorrenti; serbarono abitudini e forze guerresche finché quel vasto e ardito commercio abbisognò d'una poderosa tutela. Cessato l'incentivo dell'utile, cessò il naturale richiamo alle antiche e gloriose tradizioni; cessarono le spedizioni ormai troppo costose e poco proficue al Mar Nero ed alla Siria, dove si scambiavano le manifatture europee colle merci della Moscovia, dell'India e della China portate dalle carovane; cessò lo spirito militare che in essi come negli Inglesi altro non era che un difensore della prosperità commerciale. Cosí fu tolta a Venezia ogni ragione d'esistenza ed ogni azione nella civiltà. Continuò a vivere per consuetudine, per accidente, come diceva il doge Renier; tuttavia tre secoli di decadenza lenta onorata e quasi felice diedero un'altra e solenne prova dell'antica potenza di Venezia e delle virtù immedesimate nel suo governo e nel suo popolo da tanto tempo di glorioso esercizio. Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte vigorosamente e costantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo scadere de' suoi commerci avrebbe trovato nell'allargamento in terraferma un nuovo fomite di prosperità. Invece nelle provincie italiane ella comparve ancora piú da commerciante che da governatrice; non erano membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante, spoglio dei soliti mezzi di alimentare la propria ricchezza. Furono accorti politici e soldati non per assodare e dilatare oltre il Po ed il Mincio l'influenza del governo, e prepararsi un futuro italiano, sibbene per difendere le loro proprietà, come lo erano stati dapprima in Crimea e nell'Asia Minore per proteggere gli empori mercantili. Da ciò, siccome per abitudine di rispetto, o per necessità di equilibrio, o per merito delle prudenti transazioni, gli altri governi li lasciarono godere in pace quei possedimenti commerciali, cessò poco a poco ogni necessità di tutela armata, e contenti di cancellare una partita sulla pagina del dare, i Veneziani affidarono unicamente al proprio accorgimento e alla discrezione altrui la sicurezza del dominio. Forse se al tramutarsi di mercatanti in proprietari e di marittimi in continentali, un'arida fazione o un capo fortunato dell'aristocrazia avesse cercato anche di cambiare l'indole del governo di utilitaria in politica, la fortuna di Venezia avrebbe corso qualche maggior rischio, ma racquistato insieme un argomento ed un titolo di futura grandezza, ove le fosse venuto fatto di sormontare vittoriosamente quella nuova esperienza. Si sarebbe rimediato con un nuovo congegnarsi delle forze nazionali al vecchio difetto di scarsa partecipazione al movimento italiano. Mancò a ciò l'opportunità, o la forza, o la mente. Venezia, come ebbi campo a dire in addietro, rimase una città del Medio Evo colle apparenze d'uno Stato moderno. Ma le apparenze non durano a lungo; e poiché non aveva voluto o potuto diventar nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice città. Cosí nell'economia politica come nella fisiologia medica. Bisogna deprimere e ridurre un corpo invaso da umori corrotti a quella parsimonia naturale, onde poi risorga ordinatamente alla piena salute. Venezia in quei primi rivolgimenti che le tolsero ogni appiglio in terraferma, chiudendole piucché mai le vie insuete del mare, rimase a dir poco in fil di morte. Quando poi tornò la pace, e il mare le fu sbloccato dinanzi, le forze erano sí misere da non poter competere con quelle degli altri porti che s'erano anzi ringagliardite durante la sua indolenza. "Rive opposte, animi contrari" dice un proverbio inglese. Trieste entrava in lizza arditamente, spalleggiata dal commercio viennese e cogli aiuti del governo che o disperava o non si curava di richiamare l'attività veneta al campo primitivo de' suoi trionfi. Venezia si chiudeva melanconica e dolorosa fra le moli marmoree, come il principe scaduto che si rassegna a morire d'inedia per non tender la mano. Infatti dopo essersi atteggiata fino agli ultimi tempi come protettrice d'Europa contro i Turchi, dover chiedere altrui armi e denaro per mandare quattro stambecchi a caricar fichi a Corfù, l'era un gran boccone amaro da ingoiare. Si stette dunque, ma non si sapeva bene se rimuginando il passato, o maturando un futuro. "Prima che la statistica aprisse i suoi registri" disse un ottimo pubblicista "ciascun paese credeva d'essere quello che avrebbe voluto essere." I Veneziani anche nel millesettecento ottanta si reputavano i naturali rintuzzatori della prepotenza mussulmana, perché l'ammiraglio Emo con una dozzina di galee avea tentato gloriosamente qualche rappresaglia contro Tunisi. Era omai l'unica scusa di loro esistenza e si incaponivano a crederla vera. Quando poi la terribile riprova statistica d'una guerra generale mise in mostra i duecento vascelli d'Inghilterra e i quattordici eserciti di Francia; e la fine strozzata di quella lotta titanica confermò se non altro la nullità politica di Venezia, e che l'Europa non abbisognava omai di alcun freno contro i Turchi, e che se ancora ne abbisognasse frenarli certamente non toccava a lei, allora essa cominciò a stimarsi non quello che avrebbe voluto essere ma quello che era veramente. Se questo primo esame di coscienza generò un frattempo di avvilimento fu indizio di senno civile e di salutare vergogna. Non insultiamo a coloro che morti solo da ieri già cominciarono a rivivere, mentre si onorano gli altri che con grandissimo scalpore non son giunti a vivere che per la calcolata tolleranza di tutti. Intanto io tornava a Venezia che quel torpore d'inerzia e di vergogna era al suo colmo. Non commercio, non ricchezza fondiaria, non arti, non scienze, non gloria, né attività di sorta alcuna: pareva morte, e certo era sospensione di vita. Dovendo immischiarmi negli affari commerciali di Spiro mio cognato, toccai con mano l'indolenza e l'infelicità di quelle funzioni sociali, da cui la storia della Repubblica rilevava le sue piú splendide pagine. Mettermi a capo d'una riscossa, e ridestare una qualche operosità in quelle forze irrugginite e stagnanti, fu mio primo pensiero. Poco si poteva tentare perché quasi nulla si aveva; ma chi ben comincia è alla metà dell'opera. Giudicai che Spiro non sarebbe stato alieno dal mio divisamento; né rifuggii dall'arrischiare nel magnanimo tentativo il credito e le residue sostanze della casa Apostulos. La guerra della Grecia l'avea spolpata del meglio, ma qualche cosa rimaneva, e la fiducia dei corrispondenti avrebbe moltiplicato il valore di quegli sparsi rimasugli. Ravvivare anzi creare lo spirito d'associazione sarebbe stato il primo passo; e mi vi incuorava lo spettacolo della potenza inglese di cui mi durava ancor fresca la maraviglia. Ma anche i giganti nascono bambini. M'accorsi alle prime che m'avventurava in un sogno; e mi ritrassi a tempo per non disperdere con un subito tracollo la buona volontà che già s'accumulava in un tacito fermento. Nostro errore, nostra disgrazia è di misurare la vita d'un popolo da quella d'un individuo: lo dissi altre volte. Un uomo solo può precedere il progresso nazionale non rimurchiarlo; perché l'esempio suo sia utile conviene che sia facilmente imitabile e da molti, sicché si allarghi e attecchisca nelle abitudini; allora il rimurchio vien da sé. Lo spirito d'associazione, indizio di ravvicinamento e strumento di piú vasta concordia, va incoraggiato in ogni fatta d'intraprese; come educazione ad analogo esercizio di altre operazioni, come fattore di confidenza e di prosperità e d'altri mezzi generali di miglioria. Ma al suo perfetto sviluppo si giunge per gradi: alla società di mille è proemio la fortunata società di cento; e per insegnare a persuadere i cento, fa d'uopo che i venti i dieci o cinque si uniscano, e coll'eloquenza dei fatti e delle cifre li convincano che minore sarebbe stato l'utile comune e il singolo se cadauno avesse adoperato per sé. Fermi in capo cotali principii, tornai al cimento, e li posi a regola dei miei negozi, divisando di adoperarli alla vista di tutti non come argomenti di prosperità pubblica ma di privata fortuna. Infatti una prima società da me instituita pel commercio di frutta secche, di vallonea, di olio, e d'altre materie prime cogli scali del Levante e della Grecia, ebbe ottimo successo. Aveva messo ogni mia cura nel non arrischiare e nell'allargarmi poco, perché l'effetto corrispondesse piú certo per quanto piccolo. Dopo il primo passo si uscí se non altro da quella profonda sonnolenza. Altre società si formarono simili alla nostra, e la concorrenza accrescendo l'attività dilatò le sue intraprese e le arrischiò a maggiori pericoli colla lusinga di piú grossi guadagni. Infatti l'esperienza diede ragione il piú delle volte a chi spingeva oltre; dalla concorrenza fra noi, che cominciava a inceppare il proficuo sviluppo dei singoli commerci, nacque la fusione di alcune piccole società in altre piú grandi. E queste rivaleggiarono coraggiosamente colle piú forti e antiche d'altri porti del Mediterraneo. I proventi erano certo minori, e perciò Venezia non potea competere né con Marsiglia, né con Genova, né con Trieste: ma onesti guadagni si ottenevano e la speranza succedeva all'avvilimento e l'operosità all'inerzia. Sasso lanciato non si sa ove possa giungere: e se gli stranieri non erano ancora adescati dalla prosperità di Venezia a stabilirvisi con i propri capitali, almeno si aveva quanto bastava per muovere e fecondare le forze paesane. Non era molto e sperava di piú. Senza contare che cotali intraprese fruttavano alla vecchia ditta Apostulos inusitati guadagni; e Spiro non faceva altro che lodarmi pel grande aiuto che cosí recava a lui ed all'indipendenza della Grecia. Il commercio almeno per gli scambi locali aveva ripreso un andamento naturale e ritrovato a poco a poco il suo sfogo ragionevole nella gran valle del Po. Ma io non voglio farmi merito di cotali successivi allargamenti: come il manovale che si gloriasse della bella architettura d'un palazzo per averne egli gettato la prima pietra. Si generano le grandi imprese come i grandi figliuoli, piú per piacere proprio del momento che per diretta intenzione. Io peraltro qualche intenzione ce l'ebbi, e perciò mi do vanto di aver cooperato primo al qualunque siasi risorgimento del commercio veneziano. Sibbene tutte queste magnificenze avvennero in seguito, e mi tocca ora recedere ai primi mesi quando esse non mi vagolavano pel capo che come lontane e forse infondate lusinghe. Donato, il mio secondogenito, si adattava facilmente ad aiutarmi nella nuova professione di commerciante; e benché ragazzo affatto, per una sua acutezza mirabile d'ingegno mi giovava assaissimo. Egli era un pazzerello cosí godibile, che quando mi si oscurava l'anima di melanconia non aveva che a rivolgermi a lui per esser rischiarato. Teneva ottima compagnia a sua madre; e frequentava molto con lei la casa del conte Rinaldo di Fratta, ove dopo la morte del Navagero si era ridotta anche la reverenda Clara. Il Conte era ancora registratore della Ragioneria del Governo a un ducato al giorno, e non viveva che nell'ufficio e nelle biblioteche; ma la Clara, avendo serbati i suoi vincoli d'amicizia colle sorelle smonacate di Santa Teresa, gli avea tirato in casa buon numero di visitatrici. A poco a poco intorno a quel primo nocciuolo s'erano appostati altri elementi di società: patrizi di vecchio o nuovo conio, per la maggior parte persone che rimpiangevano in fondo l'antico ordine di cose, e lodavano e facevano lor pro' delle presenti per non esser costretti alle fatiche, e condannati all'inedia di nuove rivoluzioni. Donato osservava quegli stampi originalissimi, e sapeva metterli in burla con qualche scontento di sua madre; io invece me ne consolava vedendo che soltanto a ragione di lei si piegava a trovarsi quasi tutti i giorni con quelle mummie, e che non ne avrebbe mai imparato le sucide massime e la meschina ipocrisia. L'Aquilina dal canto suo stringeva ogni giorno piú le sue relazioni colla signora Clara, perché, diceva ella, non si sapeva mai dove potesse condurci qualche mia ragazzata. Sopra questa o simile parola nascevano per consueto i gran diverbi; ma io non vi badava piú che tanto, e sapendo che l'adoperava a fin di bene, lasciavala far a suo modo. Altronde le antecedenze giustificavano abbastanza questa nostra famigliarità coi Conti di Fratta; e non istava a me distoglierla da un'osservanza che era imposta anche a me stesso dalla gratitudine. Maggiore argomento di discordia ci era la condotta di Luciano, il quale anziché imitare nell'arrendevolezza e nell'operosità il fratello minore, si buttava allo scapato, non voleva sentire né ammonizioni né consigli, e quando lo si rimproverava, massime sua madre, di non volersi occupare delle cose piú utili alla vita, rispondeva che, poiché non ci era vita, non capiva in che potessero consistere quell'utile o quel disutile, e che egli vi trovava il suo conto o bene o male a dimenticarsi di tutto. - Bada, Luciano - lo ammoniva io - bada che dimenticando tutto sopraggiunge poi il giorno che ci ricorda di qualche cosa, e allora troppo tardi ci accorgiamo d'aver dimenticato di farci uomini. - A questo penso io - ripigliava egli ricisamente. E non ismetteva nulla delle sue scapataggini, de' suoi stravizzi. Sicché io piú volte e con alquanta amarezza ebbi a beffarmi di sua madre che avea preso una gran soggezione di quel suo ghiribizzo giovanile di andarsene in Grecia. Altro che Grecia! Mi pareva che la conversazione delle bionde veneziane, e il bicchierino di malvasia gli avessero cancellato dalla memoria quei generosi poemi. Ma secondo l'Aquilina era questa pure mia colpa, ché, lasciandolo padrone della fantasia, lo aveva avvezzato a non aver riguardo né di padre né d'amici, e a formarsi una felicità a suo modo. - Ieri era la Grecia - diceva ella - oggi sono le scapestrataggini, domani sarà Dio sa che cosa! E tutto per avergli detto bravo, per avergli lasciato le redini sul collo! - Scusami - soggiungeva io - ma quelle idee generose non bisognava soffocargliele come fossero vituperi. E tu stessa ve lo avevi mirabilmente preparato col formargli un temperamento animoso e robusto. - Sí, sí, io m'era ingegnata di allevarlo con buoni principii, ma non già perché tu ne abusassi col lasciargliene tirare cotali conseguenze. - Le conseguenze, ben mio, procedono dritte dritte dalle cause. - Massime peraltro quando trovano aiuti che le indirizzino. - Sai cosa ho da dire? Che se dalle tre cause fossero venute quelle conseguenze che sperava io, ne avrei proprio picchiato le mani dal gran gusto! - Segno che hai sperato male, e che malamente hai aiutato le tue speranze! Vedi a che belle conseguenze siamo venuti! Tu ti ammazzi allo scrittoio, il nostro figliuolo piú tenerello ci sta anch'egli notte e giorno come un martire, il maggiore invece, l'eroe, batte i bordelli e le taverne! - Eh diavolo! Che ce ne ho colpa io? Al postutto mi ricordo esser stato giovine. - Ed io se avessi speso cosí brutalmente la mia gioventù mi vergognerei di ricordarmene. - Io ti dico che è un riscaldo e che si ravvederà. - Io ti torno a ripetere che è una malattia, che si farà cronica se non attendi a rimediarvi presto. Cosí si altercava fra di noi. Luciano intanto stava fuori di casa le notti intere, e se lo si rimproverava faceva peggio, e tirava calci come un puledro che non vuol essere domato. In mezzo a cotali dissensioni una bella mattina quando non me lo sarei mai aspettato egli mi capitò in camera pallido stralunato, a dirmi netto e schietto che la settimana ventura sarebbe partito per la Grecia. - A che farvi? - risposi io beffardamente, ché non ci credeva piú a quelle passeggiere tentazioni. - A difendere Missolungi contro Mustafà Bascià! - soggiunse egli. - Ah ah! - ripresi coll'ugual tono di scherno. - Mi congratulo vedere come tu sappia che vi sia nel Peloponneso un Mustafà Bascià. - Non lo sapeva - ripigliò coi denti stretti Luciano - ma me lo disse lord Byron il quale anche lui è deliberato di partir per la Grecia fra pochi giorni. - E dove mai ti sei abbattuto in lord Byron? - Ti basti sapere che l'ho conosciuto, ch'egli si è degnato parlarmi, e che mi prenderà per compagno della sua andata in Grecia. - Scherzi, Luciano, o sono sogni codesti tuoi?... - No, anzi, papà mio, parlo cosí seriamente che nella prima lettera che scriverete agli zii, darete loro contezza di questo mio divisamento. - Or bene, se dici da senno, ripeterò io stesso adesso quello che tua madre diceva or sono alcuni mesi. Hai proprio una vera vocazione? Devi aver capito che in questo frattempo mi hai fornito molti argomenti per dubitarne. - Padre mio, son tanto sicuro che questo mio proposito otterrà sanzione dalle opere di tutta la vita, che vi chieggo fin d'ora perdono della mala stima che vi ho lasciato concepire di me, e vi prego di esser generoso e confidente anticipandomi d'alcuni mesi la buona opinione che mi darò poi cura di meritare. Perciò mi rivolgo tanto a voi come a mia madre. - Vi penseremo, Luciano. Intanto impara a maturar bene le tue idee e a diffidare, massime quando ne hai non poche ragioni. Egli non rispose verbo, mostrandomi col suo contegno che di tutto avrebbe diffidato fuorché della saldezza di quel suo divisamento. E infatti io ne maravigliai; ma per quanto lo tentassi in una maniera o nell'altra egli rispondeva queste sole parole: - Ho capito che a questo mondo si ha il dovere di vivere a vantaggio di qualcuno; adunque vi prego, lasciatemi vivere! - Sua madre strepitò di questo disegno sul quale pochi mesi prima sembrava affatto indifferente; ma ne ottenne nulla del pari. Luciano stette fermo nel voler partire; e non aspettava altro che un cenno di lord Byron per imbarcarsi con esso lui. Io conosceva il famoso poeta di nome e di fama; lo aveva anche veduto due o tre volte in qualche sua rara apparizione sotto le Procuratie, giacché da molto tempo egli pareva aver adottato per patria l'Italia ed in special modo Venezia. I poeti sono come le rondini che volentieri fabbricano il loro nido fra le rovine. Quell'accostarsi di Luciano alla generosa disperazione del sublime misantropo non mi garbava gran fatto; temeva che ne nascesse qualche somiglianza di passioni, che cioè la grandezza e la nobiltà dell'impresa fosse il minor incentivo a tentarla, e che in lui potesse l'ambizione come il fastidio dei piaceri nel torbido lord. Luciano era assai giovinetto, facile perciò a rimaner abbagliato da quell'apparenze di sublimità mefistofelica che in fin dei conti non servono ad altro che a nascondere un'assoluta impotenza di comprendere la vita e di raggiungerne lo scopo. Bensí era impossibile che cosí fanciullo agognasse sinceramente questa sterile filosofia del disprezzo, e se ne imitava il corifeo, non poteva essere che per vaghezza di rendersi singolare e di risplendere della luce altrui. Or dunque temeva e non a torto, che, messo alla prova, la sua risolutezza non sarebbe stata vigorosa l'un per cento di quello che sembrasse nelle parole. Luciano rideva de' miei sospetti, soggiungendo che se io lo tacciava di romanticismo, era ben piú degno a scusabile l'esser romantici nei fatti, che nei sospiri e nella capigliatura. - Non frignerò romanze, né mi tingerò le guance della preoccupazione del suicidio, come d'un cosmetico di moda - rispondeva egli. - Diventerò invece l'eroe di qualche ballata, e le donne d'Argo e d'Atene ricorderanno il mio nome insieme a quelli di Rigas e di Botzaris. Sarà un romanticismo utile a qualche cosa. S'aggiunga poi ch'io ho diciott'anni e che una volta o l'altra, lo sapete bene, converrebbe che me ne andassi. Colla mia indole non consentirò mai a farmi soldato né a comperare un altr'uomo che paghi il mio debito all'infelicità dei tempi. Che volete ch'io soggiungessi?... Lo lasciai dunque partire; e lo raccomandai caldamente a Spiro che si trovava allora a Missolungi, dichiarandogli anche il giudizio ch'io faceva del temperamento di Luciano e l'instabilità e gli altri pericoli che ne temeva. Mia moglie non pianse né si disperò punto; solamente mi rimbrottò per tre o quattro mesi della poca padronanza ch'io sapeva conservare sull'animo dei figli; ma intanto venivano dalla Grecia ottime notizie; essendosi rifiutato di comune consenso la divisione della Grecia in tre ospodariati, proposta dallo czar Alessandro, la guerra era scoppiata piú feroce ed accanita che mai. Il quarto esercito mussulmano si squaglia come neve al sole sul suolo ardente del Peloponneso. Luciano coi suoi cugini Demetrio e Teodoro ha l'onore d'esser ricordato in un bollettino pel suo maraviglioso coraggio. Spiro me ne scrisse mirabilia, e Niceta, quello che fu cognominato il Mangia-Turchi, lo propose come modello alla sua legione nella quale ebbe grado di capitano. Tutta Europa applaudiva all'eroiche vittorie della Grecia: come gli spettatori del circo che sicuri dai loro scanni battevano le mani al bestiario che usciva vincitore dal contemporaneo assalto d'un leone e di due tigri. Pochi aiuti d'armi e di uomini, pochissimi di danaro davan mano a quegli sforzi sovrumani: i governi d'Europa cominciavano a sogguardarsi l'un l'altro e a tremare di non poter rimettere le catene turche ai ribelli cristiani. Intanto si seguitava a combattere: i Bascià non si mostravano piú tanto ligi ai pronostici del sultano Mahmud, né ubbidienti ai suoi comandi, i Giannizzeri stessi rifiutavano d'avventurarsi sopra una terra che inghiottiva i nemici. Cresceva per la Grecia il favore e l'entusiasmo dei generosi. Byron offerse le sue fortune, negoziò un imprestito, ma in quel frattempo ammalò, e alla notizia della malattia tenne dietro ben presto quella della morte. La Grecia accorse ai suoi funerali, tutta l'Europa pianse sopra la tomba santificata dall'ultimo anno di sua vita, e s'impose il suo nome ad uno dei bastioni di Missolungi. Luciano mi partecipò con commoventissime parole una tale disgrazia: egli si diceva desolatissimo che il suo illustre amico e protettore non avesse potuto colle imprese dell'eroe oscurare la fama del poeta. "Il tempo è nemico dei grandi" soggiungeva egli. Ma si sbagliava, perché Byron non sarà mai tanto grande pel suo generoso sacrifizio, come quando alcuni secoli si saranno accumulati sulla sua memoria. Intanto anche a me a Venezia, comportabilmente col sito, erano intervenute abbastanza gravi vicende. Raimondo Venchieredo che s'avea sposato la figliuola maggiore di Agostino Frumier, e per le strettezze economiche nelle quali era, e il talento capriccioso della giovine moglie, la faceva assai magra, si divertiva a sparlare di me e della Pisana, narrando massime di costei cose affatto nefande ed incredibili. Mi fu detto che al caffè Suttil egli teneva crocchio, e che non mancava sera che non dicesse qualche ignominia a carico nostro, forse per l'invidia che gli dava il continuo prosperare de' miei negozi commerciali. Per me forse avrei portato pazienza, non per la Pisana la quale io avrei difeso a costo anche della vita, beato di poterla in qualche modo ricompensare di tanti suoi sacrifizi. Perciò mi diedi io pure a frequentar quel caffè, e siccome pochissimi omai mi ravvisavano, me ne stava soletto in un cantuccio della camera posteriore, leggendo in apparenza la Gazzetta, ma in sostanza porgendo l'orecchio alla conversazione della prima stanza nella quale si mesceva sempre Raimondo colla sua solita spavalderia. La seconda o terza sera ch'io mi metteva in quell'agguato (e già gli avventori e i garzoni mi adocchiavano di traverso sospettandomi forse una spia), udii nel caffè un romore insolito di sciabola e di sproni, e un gran chiasso di saluti e congratulazioni, e il rimbombo d'una vociaccia aspra e gutturale che mi parve di dover conoscere. Sí, perbacco; doveva proprio essere il Partistagno; infatti udii bisbigliare il suo nome da qualcheduno che rispondeva a chi gliene avea chiesto, e Raimondo poco dopo, gridando evviva al signor generale, congratulandosi della sua grassezza, e domandandogli se veniva per tentare la reverenda badessa, non mi lasciò piú alcun dubbio che non fosse lui. - No, caro mio, non vengo piú a tentare la badessa: - rispose il Partistagno - mia moglie mi ha favorito un dopo l'altro sette maschiotti che mi danno da fare piú d'un reggimento, e le monache mi sono uscite del capo. Peccato! perché suppongo non mi vedrebbe malvolentieri, benché l'età debba aver cooperato molto a finire di farla santa. Voi piuttosto, caro Raimondo, come ve la siete cavata colla sua sorellina che non avea, mi pare, la minima disposizione di farsi monaca? Se vi ricordate, l'ultima volta che fui a Venezia ne eravate ancora infervorato!... Giuggiole! Credo che ci sian corsi sopra vent'anni!... - Eh, eh! Ci son corsi sopra altro che anni! - soggiunse Raimondo - ne avrò delle belle da raccontarvi giacché siete tanto in addietro. Prima di tutto sapete la conclusione: la bella Pisana è morta. - Morta! - sclamò il Partistagno. - Non lo avrei mai creduto; le donne non muoiono cosí facilmente. - Infatti la Pisana vi ha durato una grandissima fatica - continuò Raimondo. - Figuratevi che ha fatto la serva per due anni al suo amante; ve ne ricordate?... A quel Carlino Altoviti!... - Sí, sí, me ne ricordo!... Quello che girava lo spiedo a Fratta e che poi è stato segretario della Municipalità. - Per l'appunto. Or dunque la Pisana sembra che alla sua maniera gli volesse un gran bene a quel Carlino. Del novantanove furono insieme a Napoli e a Genova, sempre col consenso di quell'ottimo Navagero che l'avea sposata: in seguito vissero fra loro come marito e moglie a varie riprese finché, non si sa come, essa incastrò nei fianchi all'amante una ragazza di campagna e gliela fece sposare. Sapete che fu una bella scena! Ognuno volle farvi sopra i suoi commenti, ma non si venne in chiaro di nulla! Voi, caro generale, che avete una sí fervida immaginazione, dovreste sciogliere il problema. Via, udiamo: cosa ne direste?... - Eh!... secondo!... distinguo!... scommetto che ella era stufa di lui, e che per liberarsene per sempre gli ha cacciato alle coste una moglie!... - Bravo generale! Ma cosa rispondereste se io vi dicessi ch'ella tornò allora a Venezia, e che si diede corpo ed anima a curar le piaghe di suo marito e a biascicar paternostri e deprofundis colla vostra badessa?... - Cosa direi... Giurabbacco!... Direi ch'ella voleva far pace con Domeneddio, e che per questo appunto si è liberata dell'amante. - Benone! Voi avete una fantasia feconda, caro generale, e un ingegno che accomoda tutto. Aveva un gran naso chi vi ha fatto generale!... Ma cosa direste se vi si raccontasse che nell'ultima rivoluzione di Napoli il bel Carlino, benché avesse i suoi quarantacinqu'anni sonati, spiccò il volo un'altra volta, e si lasciò mettere in gattabuia, e che andava a rischio di perdervi la testa, se la Pisana non piantava lí marito e genuflessorio per correre a intercedergli grazia, e a fargli tramutare la condanna in una relegazione?... Cosa direste se vi raccontassi che essendo rimasto cieco e al verde di quattrini l'amante, essa per due anni fu con lui in Inghilterra sostentandogli la vita colle peggiori fatiche? - Eh via! Matta matta! - brontolò col suo accento oltramontano il Partistagno. - O matto io a credervi, e voi a contare simili fole! - Sono tanto vangelo! - ripigliò calorosamente Raimondo. - E già v'immaginerete qual era il mestiero da cui la Pisana ritraeva i suoi guadagni... Una donzella veneziana non ne sa molti, me lo consentirete. Or dunque bisogna fare di necessità virtù... Ad onta de' suoi quarant'anni l'era cosí bella cosí fresca, che ve lo giuro io, molti anche non inglesi sarebbero rimasti accalappiati... L'amico Carlino poi sapeva tutto e pappava in pace... Eh, che ne dite? eh! che buon stomaco!... Peraltro, lo ripeto, bisogna fare di necessità virtù!... Piú anche delle indecenti menzogne di Raimondo mi scaldavano la bile i sogghigni e le risate della brigata che tennero dietro alle sue parole. Perdetti ogni ritegno e precipitandomi nella stanza ove sedeva quella combriccola, m'avventai addosso a Raimondo stampandogli in viso lo schiaffo piú sonoro che abbia mai castigato l'impudenza d'un calunniatore. - Anch'io faccio di necessità virtù! - gridai in mezzo alla confusione di tutti quei conigli che o fuggivano dal caffè o si riparavano tramortiti dietro i tavolini e le seggiole. - Questo ch'io ti diedi fu caparra di giustizia e se chiedi riparazione sai dove sto di casa. I calunniatori sono anche di solito vigliacchi. Raimondo tremava e fremeva, ma non sapeva in qual modo difendersi. La sua vigoria naturale, sebbene affranta dalle molli abitudini di tanti anni, gli riscaldava ancora il sangue; ma né la voce gli ubbidiva, né, avvezzo com'era a vedersi passate buone le sue smargiassate, poteva riaversi dalla sorpresa di quel subito assalto. Era come il cane che, dopo aver abbaiato un pezzo e inseguito accanitamente il ladro che fugge, si ritira ben tosto e ripara al pagliaio se quegli ha il coraggio di ripiombargli addosso. Io intanto, già uscito dalla bottega, me ne andai a casa, e non ne udii parlare per tre giorni. La mattina del quarto venne certo Marcolini che aveva voce del miglior schermidore di Venezia a parteciparmi che ritenendosi il signor Raimondo di Venchieredo offeso profondamente dalla maniera con cui l'aveva trattato al caffè Suttil, e chiedendo di ciò una riparazione, lasciava a me, come ne aveva il diritto, la scelta delle armi: perciò scegliessi pure e mandassi i miei testimoni coi quali regolare le condizioni del duello. Io gli risposi che avendo avuto il diritto di sfidare il signor Raimondo fin dal primo momento che lo udii denigrare la fama d'una persona rispettabile e a me carissima, e non avendolo fatto solamente per alcune mie speciali opinioni sopra il duello, riteneva essere stato io il provocatore; facesse lui per la scelta delle armi, e i testimoni li avrei mandati quello stesso giorno. Il Marcolini mi ringraziò di sí cavalleresca compitezza e andossene pei fatti suoi. Seppi in seguito che, dopo la mia partenza dal caffè, Raimondo aveva strepitato assai, e giurato e spergiurato che mi avrebbe stracciato il cuore coi denti, e simili altre cose degne in tutto della sua nota spavalderia; ma poi il sonno lo avea ricondotto a piú miti consigli, e il giorno appresso si limitava a ripetere che tutti i suoi giuramenti egli avrebbe mantenuto e piú assai, se non avesse avuto moglie e figliuoli. Quest'ultima clausola mosse le grandi risate e ne andò per Venezia un grandissimo scalpore. Tantoché Raimondo, avendo infilato il suo braccio in quello del general Partistagno per far secolui un giretto sotto le Procuratie, questi colle belle e colle buone se n'era liberato soggiungendo beffardamente che sarebbe ito con lui quando non avesse avuto né moglie né figliuoli. Raimondo capí, fu spinto all'estremo, e dopo molte considerazioni venne nella deliberazione di sfidarmi per mezzo del Marcolini, come avete veduto. Il Partistagno, che era l'altro testimonio, o non volle impicciarsi di venire a casa mia, o Raimondo credette spaventarmi presentandomi quel cotale che aveva una sí gran fama di valente spadaccino. Io poi di ciò non mi curava punto: e come non avrei commesso mai la pazzia di sfidare alcuno, cosí non mi sarei rifiutato dall'accettare una sfida, anco se mi fosse venuta dal primo ammazzatore d'Europa. Il duello avvenne la settimana seguente in un giardino vicino a Mestre. Io mi vi avviai come ad una passeggiata; avea l'occhio limpido, il polso sicuro, e perfino nell'anima m'era svampata ogni rabbia contro il Venchieredo; ne sentiva piuttosto compassione al vederlo pallido e tremante come una foglia. Egli mi cedette sempre terreno, benché spingessi assai debolmente l'assalto finché si trovò col piede destro proprio sulla sponda d'un fosso che cadeva parecchie braccia. Mi fermai con troppa generosità avvertendolo che un passo di piú in addietro e sarebbe precipitato; i suoi testimoni gli ripetevano questa ammonizione, quand'egli, approfittando della mia distrazione, mi avventò al petto una stoccata, che guai se non fossi balzato indietro d'un salto! Mi avrebbe passato da banda a banda. Tuttavia mi sfiorò una mammella e ne fece zampillare il sangue: né il ghigno che gli vidi sul volto in allora cooperò poco a rinfiammarmi di furore. Mi slanciai innanzi con due rapide finte e mentre egli sorpreso atterrito armeggiava a destra e a sinistra, e pensava, credo, di gettar via la spada e di fuggire, gli cacciai mezza la lama in un fianco e lo mandai a rotolare nel fosso. Non ebbi a soffrire verun fastidio per questo duello, benché il codice di quel tempo lo punisse assai severamente. Quanto a Raimondo guarí della ferita, ma nel cadere si era fratturato il femore, e ne rimase sconciamente sciancato. Credo che d'allora in poi egli si lodò sempre di me e della Pisana come de' suoi migliori amici; o le sue mormorazioni furono cosí guardinghe e segrete che non mi obbligarono a nessun atto spiacevole. L'Aquilina venne a cognizione di quella mia scappata giovanile, e non vi dirò i rimbrotti e le lavate di capo che mi toccò subire. In onta peraltro alle continue dissensioni, la nascita d'un terzo figliuolo, cui tenne dietro due anni dopo quella d'una bambina, provarono abbastanza che in qualche momento andavamo anche troppo d'accordo. Dico troppo; perché dopo tanto tempo di tregua io non desiderava certamente questa crescenza di famiglia; ma poiché la natura aveva voluto operare per noi un mezzo miracolo, io ebbi il buonsenso di esserlene grato e di rassegnarmi. Il fanciullo ebbe nome di Giulio e la bambina Pisana, in memoria di due cari che ci avevano preceduto nel regno dell'eternità. A quel tempo tutti i capitali della casa Apostulos erano passati in Grecia, ove Spiro molti ne aveva erogati a sussidio della nazione, e alcuni anche impiegatine nell'acquisto di fondi nelle vicinanze di Corinto. La guerra dell'indipendenza era scaduta a contesa diplomatica. Dopo la distruzione della flotta turca a Navarino, Ibrahim Bascià co' suoi Egiziani teneva debolmente qualche posizione della Morea: la Turchia non aveva né armi né cannoni onde aiutarlo, e la guerra santa promulgata con tanta enfasi dava ai Greci pochissima paura, e minor fastidio. Il conte Capodistria stringeva nelle sue mani le sorti del paese, e benché avesse voce di essere un turcimanno della Russia, pure la necessità gli rendeva ubbidienti gli animi del popolo. Spiro lasciava travedere nelle sue lettere di sperarne ben poco; mi diceva anche che il suo figlio maggiore e il mio Luciano erano tra i prediletti del Conte con pochissimo suo aggradimento; ma che i giovani corrono dietro alla gloria ed al potere, e bisognava scusarli. Teodoro invece stava coi liberali, coi vecchi caporioni dell'insurrezione tenuti d'occhio allora peggio dei Turchi, e non era ben veduto dal Conte presidente; bensí egli suo padre lo lodava assai di quella indipendenza veramente degna d'un greco. Merito delle circostanze, di Capodistria, dei Francesi o dei Russi, il fatto sta che la Morea fu libera in breve da' suoi oppressori, e che con qualche respiro di pace essa poté attendere dai congressi europei la decisione de' suoi destini. Toccava all'esercito della Russia menar l'ultimo colpo. Il passaggio vittorioso dei Balcani, cui tenne dietro il trattato di Adrianopoli, sforzarono il Divano a consentire la redenzione della Grecia, e ben piú avrebbe ottenuto fin d'allora lo czar Nicolò, se la gelosa diplomazia di Francia e d'Inghilterra non lo avesse arrestato. Spiro mi diede notizia di quel fausto avvenimento con parole veramente bibliche ed inspirate; molto egli avea rimesso della sua antipatia per la Russia e per Capodistria, e nell'annunziarmi il probabile matrimonio di mio figlio Luciano con una nipote del Conte, aggiungeva: "Cosí la tua famiglia sarà congiunta col sangue ad una nobile prosapia che inscriverà il suo nome sull'atto d'indipendenza della Grecia moderna." Lessi dappoi alcune righe di mio figlio nelle quali mi domandava di consentire a quel matrimonio; e s'aggiungeva in fondo una affettuosa noterella dell'Aglaura, dove interpretando ella i piú timidi desiderii del marito e di suo nipote, mi pregava di voler assistere in persona allo sposalizio. "Se lo spettacolo d'un popolo libero pel proprio eroismo può aggiunger forza all'affetto di padre e di fratello" conchiudeva ella "io ti esorto a venire, e vedrai cosa unica al mondo, e che ti darà animo se non altro a vivere e a morire sperando." Il commercio della mia ditta colla quale avea continuato le relazioni e gli affari della casa Apostolus mi metteva in grado di intraprendere questo viaggio senza disagio: tanto piú che mio cognato Bruto e Donato erano piucché capaci di supplire alla mia mancanza. Avrei anche desiderato che l'Aquilina mi fosse compagna, ma lo impedirono i due piccoli. Cosí mi partii solo, sopra la nave d'una casa corrispondente, al principiare d'agosto del milleottocentotrenta, quando appunto la rivoluzione di Francia metteva in subbuglio o per un verso o per l'altro tutte le teste d'Europa. Giunsi a Napoli di Romania tre settimane dopo; e come diceva l'Aglaura, fu veramente un graditissimo spettacolo quello di vedere la baldanza e la sicurezza di un popolo che si avea tolto dal collo un giogo di quattro secoli, e portava impressi ancora sulla fronte la gioia e l'orgoglio del trionfo. Solamente continuava qualche malcontento per l'ingratitudine che il governo dimostrava ai vecchi capitani della guerra. Erano sí cervelli un po' caldi, piú atti a infervorarsi sul campo di battaglia che ad assottigliare disquisizioni legali; ma non bisognava dimenticare i loro immensi servigi, e punirli di sí scusabili difetti colla prigione e coll'esiglio. Io faceva eco ai lamenti che movevano Spiro e Teodoro di cotali ingiustizie, ma Luciano me ne rimproverava come d'una inescusabile debolezza. Ogni arte, secondo lui, doveva tendere a' suoi fini senza piegare, senza patteggiare. Come durante la guerra si avea menato dei Turchi una strage inesorabile, né si badava alle delicature e ai mezzi termini dei Fanarioti; cosí, conquistata coll'indipendenza la pace, per assicurare al popolo quella vita calma ed ordinata che sola può render utile l'acquisto della libertà ed assicurarne per sempre l'esercizio, bisognava rintuzzare ogni causa d'inquietudine, e ridurre all'obbedienza quei poteri secondari che avevano cooperato validamente al buon esito della guerra, ma che allora inceppavano con assai danno l'azione del governo. Avevano arrischiato la vita sul campo per la salute della patria? Per l'egual ragione dovevano accontentarsi di perderla anche sul patibolo, se non si sentivano in grado di correggersi dalle loro turbolente abitudini. Logica piú inesorabile di questa non si potrà trovare cosí facilmente; ma i ragionamenti senza pietà non possono vantarsi di esser perfetti secondo la logica umana, ed io li ascoltava con raccapriccio. Del resto Luciano era cosí affettuoso cosí compito con me, che quelle sue ciarle le attribuiva a vaghezza di contraddizione. Un giovane di ventiquattr'anni non poteva aver fitta in capo la logica di Cromwell e di Richelieu. Quanto al conte Capodistria mi parve un uomo contento discretamente di sé e piú furbo che cattivo: non credo, come dice il suo manifesto, che soltanto per la gloria di Dio e pel vantaggio dei Greci egli avesse fatto violenza a se stesso per accettare la presidenza del governo, ma non credo del pari ch'egli aspirasse a farsi tiranno come Pisistrato. Serviva forse gli interessi della Russia, perché la Russia piucché ogni altra potenza aveva mire grandiose riguardo alla Grecia, e dalla comunanza di religione e di odio era portata a favorirla. Se egli avversò l'assunzione al trono di Leopoldo di Coburgo, candidato dell'Inghilterra, io non vi veggo delitto di sorta. Se tra l'Inghilterra e la Russia prediligeva quest'ultima poteva avere cento ragioni piú che buone che cattive; e in ogni occasione io son disposto a diffidare dell'Inghilterra e ad approvare chi ne diffida, benché degli Inglesi uno per uno non possa dire che bene. La sposa di mio figlio, la quale dimorava allora presso il Conte con pompa quasi principesca, non poteva certo pretendere a gran vanto di bellezza. Io che ebbi sempre, e l'ho ancora malgrado lo scirocco della vecchiaia, una maledetta propensione per le belle donne, non ne fui alle prime gran fatto contento. Ma poi guardandola meglio, intravvidi quel calmo trasparire nel sorriso e negli occhi della bontà dell'animo che tien luogo perfin di bellezza. Non sarebbe stata una donna greca, ma una buona moglie; e cosí mi rappacificai con mio figlio perché s'avesse scelto per isposa la parente d'un mezzo principe. Ma bisogna convenire che l'Argenide era piú impicciata che superba dal fasto che la circondava; e anche da questo rilevai un buon pronostico per la sua indole e per la felicità di Luciano. Le nozze furono celebrate con gran pompa; e siccome Luciano aveva buon nome fra i soldati, il conte Capodistria ne racquistò qualche popolarità. Credo anzi che nel concederla egli avesse in mente questo buon fine politico; ma Luciano aveva anche lui in mente i suoi fini, e non guardò pel sottile se ai proprii meriti o ad altre considerazioni del Presidente dovesse ascrivere quella fortuna. Io rimasi qualche tempo in Grecia visitando il paese e ammirando del pari e gli avanzi dell'antica grandezza, e i segni delle ultime devastazioni, monumenti di genere diverso ma che onoravano del pari quel poetico paese. Luciano non avrebbe voluto che partissi mai piú, l'Argenide mi dimostrava una vera tenerezza figliale, il conte Capodistria accennava a voler far di me qualche cosa di grosso, un ministro delle Finanze o che so io. Ricordai allora sorridendo i sogni dorati dell'intendente Soffia, ma non beccai all'amo, e le lettere dell'Aquilina erano troppo pressanti perch'io non pensassi di tornare al piú presto. Un crudele avvenimento fu che mi tolse di accondiscendere quando avrei voluto a questo mio desiderio. La salute dell'Aglaura, che anche in Grecia non si era mai raffermata, peggiorò in qualche settimana di sorte che si disperò della guarigione. La disperazione di Spiro, l'accoramento dei suoi figliuoli potevano essere intesi solamente da me, che perdeva in lei l'unica sorella, e la sola creatura che mi ricordasse la mia povera madre. Né cure né medicine né tridui valsero nulla. Ella spirò l'anima fra le mie braccia, mentre tre soldati tre eroi che avevano perigliato cento volte la vita contro le scimitarre degli Ottomani, si scioglievano in lagrime intorno al suo letto. Non era ancora assodata la terra che copriva il feretro di mia sorella, quando mi venne da Venezia un altro colpo terribile. Mio cognato scriveva che Donato era scomparso improvvisamente senza lasciar detto nulla, e senza che si sospettasse alcun motivo a quell'improvvisa partenza, sicché con ragione si temevano le peggiori disgrazie. L'Aquilina sembrava impazzita pel dolore e la mia presenza a Venezia era necessaria in quei terribili frangenti. Senza potersene far ragione egli conghietturava che Donato potesse essere involto nei torbidi che agitavano allora la Romagna, ma raccomandava di darmi fretta che forse prima del mio arrivo avrebbero saputo qualche cosa. Gli altri miei figliuoletti godevano ottima salute, e s'impazientivano di non veder piú il loro papà, e di aver malata la mamma. Vi figurerete che non misi piú tempo in mezzo. Accennai confusamente tanto a Luciano che agli altri ad un affare che mi chiamava tosto a Venezia, e m'imbarcai quel giorno stesso sopra un piroscafo francese che salpava per Ancona. Ma se fu angoscioso il viaggio pei tristi presentimenti che mi agitavano, fu ben peggiore l'arrivo. Giunsi ad Ancona proprio il ventisette marzo quando il general Armandi abbassava dinanzi agli Imperiali vinto ma non macchiato il vessillo della rivoluzione romagnuola. Dietro i vaghi sospetti di Bruto mi affrettai a chiedere a qualche ufficiale se conoscessero un certo Donato Altoviti, e se egli avesse preso parte a quei rivolgimenti. Alcuni dicevano di non conoscerlo, altri di sí; ma non potevano guarentire del nome: finalmente al Quartier generale fui accertato che un giovine veneziano di quel nome erasi inscritto nella Legione imolese, che aveva combattuto come un leone nello scontro di Rimini, e che colà era rimasto ferito due giorni prima. Corsi alla posta, e non v'erano cavalli perché tutti requisiti in servizio dell'esercito austriaco; uscii allora a piedi dalla porta, e fuori quattro miglia trovata la carretta d'un ortolano feci suo quanto danaro aveva indosso purché mi conducesse a Rimini in quel giorno stesso. Infatti vi giunsi che per tutto il viaggio avea tirato la carretta col fiato, e non ne poteva piú. Cercai dell'Ospitale ma Donato non v'era e non ne avevano mai udito parlare; con quello struggimento d'animo che potete immaginarvi, mi rimisi in traccia di lui per quella brutta città che dallo spavento della guerra e dall'imbrunire della notte era fatta piú scura e deserta che mai. Domandare d'un volontario ferito era lo stesso che farsi chiudere la porta in faccia: alla fine tornai allo Spedale divisando chiederne conto ai medici, uno dei quali doveva pur essere chiamato a curarlo in qualunque luogo egli si trovasse, se pur non lo lasciavano morire come un cane. Benché mi sconfidasse il pensiero che non tutti i medici di Rimini frequentavano certo l'Ospitale, pure non trovando di meglio m'appigliai a questo partito, ed ebbi a lodarmene perché un giovine chirurgo intenerito alle mie preghiere mi tirò prudentemente da un lato, e, dettomi che lo aspettassi in istrada, soggiunse che avrei trovato di lí ad una mezz'ora quello di cui cercava. - Oh per carità, in che stato si trova egli? - sclamai. - Per carità, mi dica il vero, signor dottore; e non voglia ingannare un misero padre! - State quieto: - soggiunse egli - la ferita è profonda ma non dispero di guarirlo. Egli è in buone mani e miglior assistenza non avrebbe se avesse al capezzale una sorella e una madre. Di meno egli non meritava: intanto, vi prego, aspettatemi, e in pochi minuti sono con voi. Prudenza sopratutto, perché son cose dilicate, e viviamo in tempi difficili. Io non fiatai; scesi pian piano le scale, e quando fui in istrada ne andai su e giù, finché vidi uscire il dottore. Allora egli mi condusse in una casa di modesta apparenza, ove poiché ebbe preparato l'animo di mio figlio, mi introdusse nella camera ov'egli giaceva. Vi dica chi può la dolcezza di quei primi abbracciamenti! certo chi non fu padre non potrà nemmeno immaginarsela. Allora mi toccò confermare quello che sempre aveva creduto, cioè che se le donne non fossero al mondo per generarci, Dio le avrebbe dovute regalare agli uomini per infermiere. Una zitella piuttosto attempata, maestra di cucire che appena arrivava a tempo di campare la vita, aveva raccolto sulla via il mio Donato, e prestatogli tali cure che non mentiva il dottore dicendo che migliori né piú affettuose non le avrebbero prestate una sorella o una madre. Io ringraziai piú a lagrime che a parole la buona giovine, e Donato si univa con me nel manifestarle la sua riconoscenza; ma ella si schermiva rispondendo che non aveva fatto piú di quanto era debito di cristiana carità, e raccomandava al ferito di pensare a sé e di non agitarsi, perché gliene poteva derivare qualche grave nocumento. Il dottore esaminò la piaga, a trovatala in via di miglioramento si partí raccomandando anch'esso che non tenessimo troppo occupato l'infermo in parole; ma lo si lasciasse riposare che aveva buonissime speranze. Non tardai a partecipare queste buone novelle all'Aquilina e pochi giorni dopo ne ebbi in risposta che avevano bastato per guarirla affatto e che ci aspettavano a braccia aperte non appena Donato fosse in grado d'imprendere il viaggio. Intanto io aveva saputo da lui il motivo principale della sua repentina deliberazione. Ed erano state le esageratissime calunnie da lui udite in casa Fratta a danno dei repubblicani delle Romagne. - Tante parolacce - soggiunse egli - mi rivoltarono lo stomaco, e perché non mi avea dato il cuore di rintuzzarle, mi decisi di far meglio e di mostrare col fatto in qual conto le tenessi!... - Oh, figliuolo mio! - sclamai - che tu sia benedetto. L'uomo vecchio risorgeva completamente in me. I giorni precedenti, assistendo alla penosa malattia di mio figlio, di gran cuore maladiceva fra me e me tutte le rivoluzioni: e solamente mi pentiva di queste maledizioni pensando che mia moglie avrebbe gridato anco lei per lo stesso verso; e siccome io l'aveva tacciata alcune volte di dappocaggine, non voleva darmi la zappa sui piedi. Ad ogni modo toccava al malato rianimare il sano; e cosí infatti m'intervenne. La guarigione andò per le lunghe piú di quanto il medico si immaginava: e solamente in maggio potemmo metterci in viaggio a piccole giornate verso Bologna. La buona maestra ebbe una ricompensa, non adeguata al suo merito ma alle nostre condizioni, ed essendovi un giovine che l'amava e che l'avrebbe sposata senza la loro estrema povertà, io mi confido averle procurato maggior bene che per solito non si ottenga col danaro. A Bologna si fece sosta parecchi giorni, e vi rappiccai amicizia con molte vecchie conoscenze; trovai molti morti, molti padri di famiglia che al tempo della mia intendenza pendevano dalla mammella, e molte belle mammine che io avea fatto saltare sulle ginocchia. Ahimè! le belle che avea corteggiato durai fatica a riconoscerle; e per molti giorni non fui capace di guardarmi nello specchio. Bologna non era a quei giorni né affollata né allegra, ma trovai gli stessi cuori, l'ugual gentilezza, e cresciute a mille tanti la sodezza e la concordia. Non si viveva piú nella confusione e nell'ansietà d'un tempo; tutto era chiaro e lampante e solamente aveano mancato le forze; ma la speranza perdurava. E non dico se a torto o a ragione, ma mi pregio di raccontare questa prova di costanza ch'ebbi sotto gli occhi. Giunti a Venezia, lascio pensare a voi la consolazione dell'Aquilina, e la gioia di Donato! Ma la salute di questo, che si sperava dovesse ristabilirsi affatto nell'aria natale, decadde anzi prontamente. La ferita diede prima sentore di volersi riaprire, indi di far sacca internamente: dei medici chi opinava che fosse leso l'osso e chi d'una scheggia di mitraglia rimasta in qualche cavità. Tutti eravamo inquieti, afflitti, agitati. Il solo malato allegro sereno ci confortava tutti ridendo assaissimo della burla da lui accoccata ai frequentatori di casa Fratta, e godendo di udir narrare da Bruto le grandi boccacce ch'essi ne avevano fatte. Il dottor Ormenta, reduce da poco da Roma con non so quante pensioni ed onorificenze, avea sciolto la quistione sentenziando: tale il padre tale il figlio. Io per me era piú disposto a insuperbire che ad offendermi d'un cotal raffronto; e certamente non chiesi conto al sanfedista di cotali parole che forse egli credette ingiuriose all'ultimo segno. D'altra parte pur troppo era occupato di piú gravi dolori. Donato andò peggiorando sempre e alla fine si morí sullo scorcio dell'autunno. Fra tutte le sciagure ch'ebbi a sopportare durante la mia vita, questa, dopo la morte della Pisana, fu la piú atroce ed inconsolabile. Tuttavia il mio dolore fu un nulla appetto alla disperazione di sua madre; la quale non mi perdonò piú la morte di Donato come se appunto io ne fossi stato il carnefice. E sí che ella piuttosto ne era stata la causa innocente, esponendolo a dover tollerare una contraddizione, alla quale contraddisse egli poi generosamente versando il suo sangue alla battaglia di Rimini. Invece ella continuò a praticare in casa Fratta e a menarvi gli altri due nostri figliuoletti; e quando io ne la biasimava ricordandole sommessamente il caso di Donato, ella mi rimbeccava stizzosamente che quel tristo caso non avrebbe amareggiato la sua vita, se io colle mie tirate liberalesche non avessi guastato il buon frutto che il giovine traeva dalla conversazione di casa Fratta. Come vedete, o per influenza dell'età, o delle amicizie, o per tenerezza materna, si faceva codina ogni giorno piú quella buona donna. Ma io confidava nel proverbio che sangue non è acqua, e che i miei figli non avrebbero partecipato di quella curiosa malattia. Bensí non era d'una tal'indole da oppormi a mano armata ai suoi desiderii, e lasciavala fare a suo modo; rampognandola con molta soavità solamente allora quando la piccola Pisana era colta in flagranti di bugia, o il Giulietto imbizzarriva di essere corretto, e piuttosto che confessare un mancamento si sarebbe lasciato pestar nel mortaio. Io le chiedeva se l'impostura la superbia e l'ostinazione fossero per caso i frutti di quel suo nuovo metodo di educazione. Ella mi rispondeva che si accontentava meglio d'aver figliuoli orgogliosi e bugiardi, che di assassinarli colle sue proprie mani, e che badassi a me, e che pensassi al male ch'io le aveva già fatto, senza avvelenarle la vita coi miei rimproveri. Io la compativa pel tanto che aveva sofferto, e cercava di tacere, benché forse pensassi che meglio era la morte d'una vita disonorata dall'impostura, e gonfia di vanagloria. Peraltro non guardava quei difettucci coll'occhio del bue, e sperava che i miei figliuoletti se ne sarebbero corretti a tempo. Tuttavia un giorno che non so a qual proposito ella mi citava il dottor Ormenta come il vero esemplare del cristiano e dell'onesto cittadino, io non potei ristare dall'opporle come mai quel perfetto cristiano e quell'onesto cittadino lasciasse morire suo padre si poteva dire d'inedia. - È una nefanda falsità! - si mise a gridar l'Aquilina - il vecchio Ormenta ha dal governo una grassa pensione e potrebbe camparsela molto agiatamente senza viziacci che lo dissanguano. - E se io vi dicessi - soggiunsi - che gli interessi dei debiti contratti per assecondare l'ambizione del figlio gli divorano d'anno in anno buona parte del suo soldo, e che il dottore sel sa e non si dà il benché minimo pensiero di soccorrerlo? - Oh fosse anche! - sclamò l'Aquilina - e non gli darei torto! Suo padre fu un tal birbaccione che merita una punizione esemplare, e tal sia di tutti i tristi, come di lui. - Brava! - ripresi io. - Tu sei scrupolosa cristiana e deferisci agli uomini quel supremo ministero di giustizia che Dio ha riserbato a se stesso!... I figliuoli poi non so da qual legge di carità sieno messi in grado di giudicare e punire le colpe dei padri! - Non dico questo, - mormorò l'Aquilina - ma Dio può ben permettere che il dottor Ormenta ignori le strettezze di suo padre, perché questi sia castigato anche durante il pellegrinaggio terreno delle sue ribalderie!... - Benissimo! - ripigliai - ma io certo non vorrei avere sulla coscienza quest'ignoranza! - Infatti il vecchio Ormenta morí pochi giorni dopo accompagnato dalla generale esecrazione; ma se vi fu sentimento che vincesse in veemenza e in universalità quell'odio postumo contro di lui, esso fu certamente quello che sorse nel cuore di tutti contro l'ingratitudine e l'empietà di suo figlio che contrattò egli stesso le spese del funerale, adí l'eredità col benefizio dell'inventario, e rifiutò la mercede al medico perché il passivo fu trovato maggiore dell'attivo. Nonostante i diverbi fra me e mia moglie su questo od altri argomenti consimili si ripetevano sempre piú spessi e finirono col guastare d'assai la nostra pace. Se io non m'avessi ridotto a mente le ultime raccomandazioni della Pisana, forse saremmo venuti a qualche grosso guaio; ma tirava innanzi con pazienza e forse con maggior indulgenza che non convenisse alla mia qualità di padre, perché della soverchia balía lasciata in allora all'Aquilina sopra i figliuoli, dovetti pentirmi in appresso e indurarne rimorsi tanto piú acuti quanto piú vani e tardivi. La piccola Pisana pigliava su quelle maniere solite dei torcicolli che rendono sospette e spiacevoli perfino le virtù, e Giulio accarezzato e vezzeggiato dai maestri cresceva sempre in superbia, ed era oggimai tanto presuntuoso da non si sapere come persuaderlo ch'egli avesse fallato. Io capiva benissimo dove lo potevano condurre quei difettacci; ché adulandolo e lusingandolo un pochino ognuno lo avrebbe piegato a qualunque porcheria, ed egli avrebbe sempre creduto di essere dalla parte della ragione. Ma quanto al correggere queste male pieghe io la mandava dall'oggi in domane; anche perché non voleva angustiare la loro madre, e sperava che da un giorno all'altro ella avrebbe aperto gli occhi sul loro conto. Per esempio a me non sapeva bene che ogni loro moralità si appoggiasse ciecamente all'autorità, dicendo che a quel modo dovevano fare perché cosí era comandato. Avrei voluto aggiungere che cosí era comandato, perché appunto la ragione l'ordine sociale e la coscienza inducevano la necessità di quei comandamenti; desiderava insomma che la volontà di Dio fosse loro dimostrata, oltreché nella parola della rivelazione, anche nelle leggi e nelle necessità morali che regolano la coscienza degli individui e la pubblica giustizia. Cosí, se anche una contraria educazione li privava dei sostegni della fede, essi restavano sempre uomini soggetti ad una legge ragionevole ed umana; mentre una volta che fossero alieni dalla religione, cosí com'erano sudditi a' suoi precetti unicamente per paura, la loro coscienza rimaneva senza alcun lume, e nullo affatto il valor morale dell'animo. L'Aquilina non voleva sentire da quest'orecchio. Secondo lei era un sacrilegio solo il supporre che i suoi figliuoli potessero apostatar col pensiero dalla religione in cui li educava; e se erano tanto tristi e sfortunati da cadere nell'abisso dell'incredulità, non valeva la pena di arrestarli a metà strada. Perdute le loro anime, non le importava nulla che la società avesse dalle loro azioni giovamento o danno. Era egoista non solamente in sé, ma anche a nome loro. A mio credere invece, anche nel giusto giudizio dei credenti, questo era un cattivo sistema e alieno affatto dai divini precetti. Prima di tutto la natura, interprete di Dio, ci pose nell'animo di preferire il minor male al piú grande, e poi l'istinto della compassione ci obbliga ad ogni accorgimento perché la felicità dei nostri simili sia tutelata piucché è possibile contro le soperchierie dei malvagi. Ora il nuocere insieme all'anima propria colla miscredenza, e alla sorte altrui colle azioni, è certo cosa assai peggiore e dannosa all'ordine sociale che non il mantenersi ligi colle opere alle leggi morali e solamente peccare in difetto d'opinioni religiose. Preparar dunque gli animi dei fanciulli in modo che, anche provvisti di queste credenze, debbano ubbidire per intimo sentimento alla regola universale di giustizia che illumina le coscienze, sarà non solamente opera di prudente educator sociale, ma anche cura lodevole e consentanea alla natura pietosa di Dio! Quanto al poter supporre questo pervertimento nelle opinioni di color che si istituiscono, gli uomini son sempre uomini, perciò mutabili sempre, né ci veggo né ci vedrò mai sacrilegio di sorta. Bensí è un tradimento del proprio ministero la trascuranza di quei maestri che pur vedendo rinnovarsi tutto giorno migliaia di questi casi in cui esseri umani forniti di qualità pregevolissime cessando di esser devoti diventano bestie, tuttavia si ostinano ad appoggiare soltanto al precetto religioso la moralità dei discepoli mettendo cosí a grave repentaglio l'economia morale della società. Non dite che viviamo in tempi di tiepidezza religiosa e di miscredenza? Adunque adoperatevi per difender almeno la felicità dei terzi e l'ordine sociale con miglior riparo che non sia l'adempimento dei doveri appoggiato unicamente a quella fede di cui lamentate l'insufficienza. Non vi dico che cessiate dall'inculcare e dal predicar questa, se lo portano le vostre convinzioni; dico soltanto che aggiungiate un'altra caparra, perché la società possa fidarsi della vostra educazione, che cosí come la intendete voi e nei secoli di sùbite conversioni e di scarsi sacrifizi in cui viviamo, è affatto manchevole di sicurezza. Io, vedete, se avessi rilevato ogni mia regola morale dalla Dottrina, sarei rimasto un gran birbaccione; e se cito me non è né per ammenda né per orgoglio; è per recare in mezzo un fatto del quale non possiate dubitare. Letta poi che abbiate questa vita, e qualunque sieno le vostre opinioni, dovete confessare che se non ho fatto molto bene, poteva certo operare molto maggior male. Ora del male che non operai, tutto il merito ne viene a quel freno invincibile della coscienza che mi trattenne anche dopoché cessai di credermi obbligato a certe formule. Il fatto era che non credeva piú ma sentiva sempre di dover fare a quel modo; e poco cristiano alle parole, lo era poi scrupolosamente nei fatti in tutte quelle infinite circostanze nelle quali la moralità cristiana concorda colla naturale. Se voi mi proverete che diventando usuraio, spergiuro, venale, assassino, io sarei stato piú utile alla società, consentirò allora con voi che sia perfettamente inutile dare un appoggio filosofico ed assoluto anche ai precetti morali della religione. Senzaché colla lettura del testo si può schermeggiare e stabilire contr'esso la battaglia ordinata della casuistica; ma coi sentimenti, eh, maestri miei non v'ha scherma o casuistica che tenga! Se si opera a ritroso ne siam tosto puniti dai rimorsi che son forse meno formidabili ma piú presenti dell'inferno. Io non credo d'aver mai avuto il coraggio di schiccherare all'Aquilina una cosí lunga predica, ché allora non dubito che l'avrei persuasa; anzi colgo l'occasione di dichiararvi che per quanto parolaio e quaresimalista possa sembrarvi nel racconto della mia vita, all'atto pratico poi sono sempre stato assai parco di parole, e tre persone che avessi dinanzi piú del solito bastavano per impegolarmi lo scilinguagnolo. Pure qualche volta bel bello venni con mia moglie su quel discorso; e battuto da una parte ci tornai dall'altra, sempre coll'ugual risultato di buscarmi nelle orecchie una solenne gridata. La lasciai dunque in balía di disporre ogni cosa a suo modo, anche perché tra padre e madre in verità era imbrogliato a decidere quale avesse maggiori diritti dell'altro. A far pesare la bilancia dal suo lato contribuí anche non poco la circostanza del cholera, il quale, penetrato allora per la prima volta in Italia collo spavento che accompagna le malattie contagiose ed insolite, mise tutta Venezia in grandissima costernazione. Il nostro Giulio fu colpito da quel morbo terribile, e la costanza e il coraggio col quale sua madre lo assisté le diedero quasi un'altra volta i diritti di madre. Io dovetti metter la piva nel sacco coi miei; e se serbai qualche pretesa fu sulla Pisana, la quale piú del fanciullo abbisognava d'un indirizzo certo e morale per essere a tre doppi di lui accorta e maligna. Sembrava che col nome ella avesse ereditato qualche cosa del temperamento della mia Pisana, e quando prima di improvvisare una filastrocca di bugie, con un leggiadro movimento del capo si liberava la fronte dalle diffuse anella dei bei capelli castani che la inondavano, la mia mente correva tosto alla piccola maga di Fratta; e cosí io mi lasciava corbellare colla massima dabbenaggine. Senonché la mia figliuolina non aveva la spensieratezza e la petulanza della Pisana; anzi sapeva calcolar molto bene i fatti suoi, e piegarsi e torcer il collo oggi per drizzar il capo e impennarsi meglio domani. Io la teneva d'occhio e vedeva crescere in lei ogni giorno quello studio di piacere che è la fortuna e la rovina delle donne. Cercava con bella maniera di indirizzarla convenevolmente, di renderle pregevole il suffragio dei buoni e di farle avere in poco conto l'ammirazione dei tristi, dimostrandole come bontà e tristizia non si conoscano dalle apparenze piú o meno splendide ma dalle qualità delle azioni; ma mi accorgeva di far poco frutto. Le avevano troppo inculcato che chi comanda ha ragione di comandare, e non può desiderare altro che il meglio di chi ubbidisce, perch'ella credesse e potesse amare la virtù povera dispregiata ed oppressa; per lei merito, virtù, onori, ricchezza, potenza erano una sola cosa, e la sua capricciosa testolina s'empiva di fantasmi e di corbellerie. Correva dietro al lume come la farfalla. Ma le ali, poverina, le ali?... Come farai, leggiera farfalletta, a spiccare il volo quando il fuoco della candela t'avrà incenerito le ali?... Quest'era la mia paura; che qualche triste disinganno le togliesse ogni poesia dall'anima, e che restasse come quei sciagurati che si credono esseri spregiudicati, positivi, perfetti, e non sono altro che mostruosi bastardumi dell'umana progenie, corpi senza spirito destinati a corrompere per alcuni anni una certa quantità d'aria pura e a popolare di vermi la cavità d'un sepolcro. Io lottava pertinacemente, come le mie occupazioni me lo consentivano, contro i dubbiosi istinti di quell'indole femminile; ma non altro faceva che arrestar il male senza poterlo togliere, anche perché le parole dell'Aquilina contrastavano alle mie, e le compagnie ch'essa le faceva frequentare le offrivano esempi totalmente opposti a quelli che si affacevano per confermare le mie belle teorie. Il cholera se non altro fu benemerito di spazzare il mondo da molte persone che non si sapeva il perché ci fossero capitate. Uno dei primi ad andarsene fu Agostino Frumier che lasciò numerosa figliolanza, e fu accoratissimo di scender sotterra senza la chiave di ciambellano cosí lungamente ambita. Suo fratello ci perdette nella moria la vecchia Correggitrice che morí credo piú di paura che di vero male; ed egli allora tornò cosí nuovo al mondo che credo si maravigliasse di non trovarsi in capo la perrucca e di non veder il Doge e le cappe magne degli Eccellentissimi Procuratori. Dicevano per Venezia: - Ecco il cavalier Alfonso Frumier che è uscito or ora di collegio. - Aveva all'incirca sessantacinque anni, e la signora Correggitrice passavi settanta quando s'era decisa a morire. Per trovare una costanza simile a questa bisognerebbe risalire ai primordi del genere umano quando non c'era che un uomo ed una donna sola. In quel contagio credo che morisse anche la Doretta che dopo una vita piena di vitupero e di pellegrinaggi era tornata in Venezia ad infamare la propria vecchiaia. Certo seppi dalla signora Clara ch'ella mancò nell'estate di quell'anno nell'Ospitale. Io l'avea incontrata parecchie volte, ma finto di non conoscerla perché la sua sozza figura mi moveva proprio ribrezzo; e mi sapeva di sacrilegio l'unire la memoria di Leopardo a quella svergognata creatura. Peraltro anche la sua fine contribuí a persuadermi che una suprema giustizia domina le vicende di questo mondo; e che vi sono sí molte e dolorose eccezioni, ma in generale ne resta confermata la regola che il male raccoglie male. Durante la giovinezza, quando l'animo bollente ed impetuoso non ha tempo di considerare le pienezze delle cose, ma s'arresta piú facilmente ai particolari, è possibile il prender abbaglio. Di mano in mano poi che il giudizio si raffredda e che la memoria fa maggior tesoro di fatti e di osservazioni, cresce la confidenza nella ragione collettiva che regola l'umanità, e s'intravvede la sua salita verso migliori stazioni. Cosí non accorgiamo il pendio d'un torrente nello spazio di pochi piedi ma bensí a specularlo da un'altura in buona parte del suo corso. Ci eravamo appena riavuti dallo sgomento di quella pestilenza, quando una sera, mi pare a mezzo novembre, mi fu annunciata la visita del dottor Vianello. Io era sempre stato in qualche corrispondenza con Lucilio, ma dopo il trent'uno quand'egli pure era venuto in Italia per ripartirne tantosto, le nostre lettere s'erano sempre fatte piú rare. Allora poi non ne aveva notizia da piú d'un anno. Lo trovai curvo, pallido e bianco affatto di quei pochi capelli rimastigli; ma negli occhi era sempre lui; l'anima forte e integerrima scaldava ancora le sue parole, quando alzava un gesto s'indovinava la vigoria dello spirito che covava in quel corpicciuolo asciutto e sparuto. - T'ho detto che verrò a morire fra voi! - mi disse egli. - Or bene, vengo a mantenere la mia parola. Ho settantadue anni, ma sarebbero nulla senza un noioso mal di petto regalatomi dal clima di Londra. Abbiamo un bel difenderci noi, figliuoli del sole; le nebbie ci rovinano. - Spero bene che scherzi - gli risposi io - e che come hai guarito me nella vista, cosí guarirai te nel petto. - Ti ripeto che vengo a mantenere la mia parola. Del resto noi ci conosciamo, e non si abbisognano né scambievoli cerimonie, né bugie. Sappiamo cosa si può sperare della vita, e qual bene o qual male è la morte. Se io ti recitassi ora la commedia con questa mia indifferenza, avresti ragione di piagnucolare; ma sai che parlo come penso, e che se dico di morire in pace, in pace anche morrò. Soltanto ti confesso che mi duole all'anima di non vedere la fine; ma è un malanno che è toccato a dieci generazioni prima della mia e non giova lamentarsene. Le mie azioni, le mie idee, il mio spirito che con grande studio e con qualche fatica ho educato ad amare ed a volere il bene, soffocando anche le passioni che lo dominavano, tutto io credo seguiterà a servire quella meravigliosa provvidenza che va perfezionando l'ordine morale. Ti ricordi dei mondi concentrici di Goethe? Non saranno una verità; ma una profonda e filosofica allegoria. I nostri sospiri le nostre parole si ripercotono lontano lontano affievoliti sempre annullati mai, come quei cerchi che s'allargano intorno a quel punto del lago che fu percosso da un sasso. La vita nasce da contrazione, la morte da espansione; ma la vitalità universale assorbe in sé questi varii movimenti che sono per lei quasi funzioni di visceri diversi. Io ascoltava devotamente le parole di Lucilio, perché rarissimi sono coloro che sanno volgere a vero conforto le alte speculazioni della filosofia, e questo è privilegio concesso ai pochissimi che ebbero da natura o si procacciarono coll'educazione e colla forza della volontà la concordia intima dei sentimenti coi pensieri. Certo io non era in grado di batter l'ali dietro a quell'aquila, ma ne ammirava da terra il volo luminoso, consolandomi di vedere che altri saliva col ragionamento ov'io di sbalzo m'era stabilito colla coscienza. - Lucilio - gli risposi abbracciandolo nuovamente - parlando con voi mi sento proprio rinvigorire; questo è segno che le vostre sono idee vere e salutari. Ma per questo appunto non mi proibirete di sperare che la vostra compagnia ci durerà piú lungo di quello che volete darci da intendere... - Ti prometto che ci faremo buona e allegra compagnia; nulla di piú. Potrei anche dirti il tempo, ma non voglio farmi scornare come medico. Insomma son contento di me e tanto deve bastare. - Desiderereste riveder la Clara? - gli chiesi io. - O ve ne è passata affatto la voglia? - No, no! - egli mi rispose. - Anzi intendo vederla per contemplare ancora una volta il fine diverso di un'istessa passione in due temperamenti diversi, e diversamente educati. Imparare piú che si può, dev'essere la legge suprema delle anime. Questa sete inestinguibile che abbiamo di sapere e che ci tormenta fino all'istante supremo non dipende da motivo alcuno apparente alla ragione individuale. Essa può benissimo rilevare dalla necessità d'un ordine piú vasto che si dilata oltre la morte. Impariamo dunque, impariamo!... La natura sembra disperdere la pioggia a capriccio; ma ogni goccia per quanto minuta per quanto infinitesima è bevuta dalla terra, e trascorre poi per meati invisibili dove la richiama la soverchia aridità. L'ozio è un trovato della imbecillità umana; nella natura non v'è ozio, né cosa che sia inutile. - Dunque guarderete la Clara come il notomista che indaga un cadavere? - No, Carlo, ma guarderò lei come guardo me: per convincermi sempre piú, anche nelle obiezioni apparenti dei fatti, che una ragione solo sommove spinge ed acqueta quest'umanità varia ed immensa; per provare ancora una volta colla costanza de' miei affetti, che essi tendono ad un'esistenza piú vasta, ad un contentamento piú libero e pieno che non si possa ottenere in questa fase umana dell'esser nostro. Perché se cosí non fosse, Carlo, io sarei ben pazzo ad amare chi mi affligge e mi disprezza; ma un'intima coscienza mi assicura che non sono pazzo per nulla, e che il mio giudizio è tanto retto tanto imparziale come può esserlo quello d'altr'uomo al mondo. - Ascoltatemi, com'è che non vi udii mai né stupirvi né sdegnarvi per l'incredibile cambiamento della Clara a vostro riguardo? Gli è già un pezzo che voleva chiedervene: ma mi sembra caso anche piú maraviglioso della stessa pertinacia dell'amor vostro. - Com'è che non me ne stupii, e non ne ebbi sdegno? È piano il chiarirtelo. La Clara aveva l'anima disposta alle sublimi illusioni; e non poteva maravigliare di vedermela sfuggire per quella via; massime che io svagato da diversi pensieri m'era abbandonato ad una stupida sicurezza. Le donne ci possono fuggire per di sotto; allora è facile racquistarle ed è la disgrazia piú comune, e il pericolo generalmente temuto. Io che mi sentiva certo da quella parte, non pensai all'altra. Guai guai quand'elle ci sfuggono per di sopra!... L'inseguirle è inutile, richiamarle è vano; nessun piacere è piú grande della voluttà dei sacrifizi, nessun ragionamento vince la fede, nessuna pietà le distoglie dalla considerazione assoluta delle cose eterne!... E le donne, vedete, hanno maggior facilità di noi a vivere, direi quasi, oltre la vita. Come medico io ebbi occasione di convincermi che nessun uomo per quanto forte e sventurato uguaglia una misera donnicciuola nell'indifferenza della morte. Sembra ch'esse abbiano piú chiaro di noi il presentimento d'una vita futura. Quanto poi al non aver preso in ira la Clara, prima di tutto, scusami, ma l'ira è sentimento da ragazzi; io poi non l'ebbi contro di lei perché la sua non fu ingiustizia ma allucinazione: ella credeva di amarmi meglio a quel modo, e di procurarmi non un piacer mondano e passeggiero, ma una contentezza celeste ed eterna. Figurati! Doveva anzi esserlene grato. Io ammirai la facilità colla quale Lucilio subordinava alla ragione i piú fuggevoli e involontari movimenti dell'animo. A forza di costanza e di esercizio egli governava se stesso come un orologio; e passioni affetti pensieri si aggiravano in quel modo ch'egli avea loro prefisso. Bensí non si poteva dire che egli sentisse fiaccamente; anzi a conoscerlo bene bisognava confessare che soltanto con una pressura quasi sovrannaturale di volontà egli potea giungere a tener regolate e compresse le passioni che lo agitavano. Lucilio e la Clara si videro quasi tutte le sere durante quell'inverno, e la conversazione di casa Fratta ebbe piú volte a scandolezzarsi delle violente scappate del vecchio dottore. Augusto Cisterna andava dicendo che si dovea perdonargli per la vecchiaia, ma la Clara portava piú oltre la tolleranza, affermando che era sempre stato pazzo a quel modo e che Dio lo avrebbe scusato pei suoi buoni motivi. Ella aveva gran cura di non porre gli occhi addosso al dottore, forse perché cosí s'era votata di fare uscendo di convento; ma del resto tanta era la semplicità della sua fede e la ingenuità delle maniere che Lucilio ne sorrideva piú di ammirazione che di scherno. Quello che si era mostrato contentissimo di rivedere il dottor Vianello, fu, non ve lo immaginereste mai, il conte Rinaldo. Ma ve ne spiego ora il motivo. Dalle sue diuturne incubazioni sui libri delle biblioteche era in procinto di nascere qualche cosa; un operone colossale sul commercio di Veneti da Attila a Carlo Quinto nel quale l'arditezza delle ipotesi, la copia dei documenti e l'acume della critica si sussidiavano a vicenda mirabilmente, come a quel tempo mi diceva Lucilio. Questi poi riuscí molto comodo all'autore per l'esame di certi punti parziali sui quali lo sapeva profondamente erudito; e infatti corressero insieme qualche proposta, ne ammendarono qualche altra. Lucilio faceva le grandi maraviglie di scoprire tanto tesoro di sapienza e tanto fervore d'amor patrio in quell'omiciattolo sucido e brontolone del conte Rinaldo; ma insieme anche indovinava le cause del fenomeno. - Ecco - diceva egli - ecco come si sfruttano, in tempo di errori e di ozii nazionali, le menti che vedono giusto e lontano, e le forze che non consentono di poltrire!... I loro affetti la loro attività si sprecano a rianimare le mummie; non potendo migliorare le istituzioni e studiare ed amar gli uomini, scavano antiche lapidi, macigni frantumati, e studiano ed amano quelli. È il destino quasi comune dei nostri letterati! Ma Lucilio diceva troppo. Perché con Alfieri con Foscolo con Manzoni con Pellico era già cresciuta una diversa famiglia di letterati che onorava sí le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr'esse: e sfidava o benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che insuperbí di quella ragione alla quale malediceva, Giusti che flagellò i contemporanei eccitandoli ad un rinnovamento morale, sono rampolli di quella famiglia sventurata ma viva, e vogliosa di vivere. Il disperato cantore della Ginestra e di Bruto sapeva meglio degli altri che soltanto la lunghezza della vita può sollevar l'anima a quella sublimità di scienza che comprende d'uno sguardo tutto il mondo metafisico e non s'arresta ai gemiti fanciulleschi d'un uomo che si spaura del buio. Giulio, il mio figliuoletto, si sarebbe assai vantaggiato della compagnia e della conversazione di Lucilio se questi fosse rimasto piú a lungo con noi. Ma pur troppo il suo male si aggravò all'aprirsi della primavera, e giusta le sue previsioni lo condusse ben presto a morire. Egli spirò guardandomi fieramente in volto quasi mi vietasse di compiangerlo; la Clara era nell'altra camera che pregava per lui, e l'ultima parola del moribondo fu questa: - Ringraziala! - Infatti io la ringraziai, ma non sapeva bene di cosa. Per quanto l'avessi pregata non avea consentito a consolare il morente della sua presenza; ma siccome ella faceva uno studio peculiare di attraversare le proprie voglie, cosí mi è lecito il credere che ne sentiva anzi desiderio; e che offerse anche quel sacrifizio per maggior bene dell'anima di lui. Io rimasi piú meditabondo che addolorato dopo la perdita di Lucilio; ma mi diede molta stizza il piacere che ne dimostrò mia moglie senza alcun riguardo. Secondo lei la frequenza del dottore in casa nostra metteva a pericolo la moralità de' suoi figliuoli, e Dio le avea fatto una grazia segnalata mandandolo all'ultima dimora che gli avea destinata. Quel giorno appiccai coll'Aquilina una furiosa battaglia, che non passò senza lagrime e senza strepiti; ma pazientava anche troppo, e una tale ingiustizia mescolata a tutto potere di riconoscenza, meritava le scopate. Confesso che io né ebbi né avrò mai la serena pacatezza di Lucilio. Del resto la morte di questo come già quella della Pisana mi persuase sempre piú che ad esser forti e generosi c'è sempre da guadagnare. Non foss'altro si muore allegramente: e questa, oltrecché ventura desiderabilissima, è anche la pietra del paragone su cui si differenziano i galantuomini dai tristi. Durante la vita c'è di mezzo l'ipocrisia; ma sul gran punto!!... Eh, credetelo, amici miei, non si ha né tempo né voglia di far la commedia. E il castigo piú grande e piú certo dei birbanti è quello di morire tremando. Nel riandare la mia storia io penso sempre alla margheritina, a quel modesto fiorellino dal botton d'oro e dai raggi bianchi, sul quale le zitelle traggono il pronostico d'amore. Una per una le cavano tutte le foglie, finché resta solo l'ultima, e cosí siamo noi che dei compagni coi quali venimmo camminando lungo i sentieri della vita, uno cade oggi l'altro domani e ci troviamo poi soli, melanconici nel deserto della vecchiaia. Alla morte di Lucilio tenne dietro quella di mio cognato, Spiro, la quale ci fu annunciata da Luciano e raddoppiò il lutto del mio cuore. Quanto a lui, egli non pensava piú di abbandonare la Grecia ed io l'avea preveduto che l'ambizione dovea soperchiare in quel giovane qualunque altro sentimento. S'era un po' scoraggiato dopo l'assassinamento del conte Capodistria, ma poi all'assunzione al trono di re Ottone aveva ottenuto un buon posto nel Ministero della guerra, e di colà agognava i posti piú alti coll'avida pazienza del cane che mette il muso sul ginocchio del padrone per aver un tozzo del suo pane. Di noi, di Venezia, dell'Italia egli non parlava piú che come di altrettante curiosità: piú affettuosamente forse mi scriveva sua moglie, benché dai figliuoli di Spiro sapessi che non la trattava molto bene. E già s'intende che della trascuranza di Luciano mia moglie seguitava ad accagionar me come della morte di Donato. Peraltro nei due o tre anni che seguirono, disgrazie che colpirono piú direttamente lei me la resero un po' piú indulgente; e di ciò ebbi ed avrò sempre rimorso pei grandi malanni che provennero dalla mia fiacca indulgenza. Le mancarono ad uno ad uno tutti i suoi fratelli, e non restava piú che Bruto il quale sopportava assai lietamente il crescer degli anni, e solamente si lamentava che il destino gli prefiggesse per dimora Venezia ove gli spessissimi ponti davano un soverchio incommodo alla sua gamba di legno. Cosí noi andavamo pian piano scadendo verso la vecchiaia, mentre il paese racquistava la sua gioventù, e quello che seguí poi prova abbastanza che tutti quegli anni non furono né perduti né dormiti come cianciano i pessimisti. Dal nulla nasce nulla: è assioma senza risposta. CAPITOLO VENTESIMOSECONDO Nel quale è dimostrato a conforto dei letterati come il conte Rinaldo scrivendo la sua famosa opera sul Commercio dei Veneti si consolasse pienamente della sua miseria. Tristissima piega di mio figlio Giulio e temperamento comico della piccola Pisana. I giovani d'adesso valgono assai meglio dei giovani d'una volta; e sbagliando s'impara, quando si sa ciò che si vuole e si vuole ciò che si deve. Fuga di Giulio e visita dei vecchi amici. Feste e lutti pubblici e privati durante il 1848. Ritorno in Friuli, dove alcuni anni dopo ricevo la notizia della morte di mio figlio. Vi sarete accorti che di tutte le professioni cui io mi dedicai, a nessuna mi avea condotto il mio libero arbitrio; e che o la volontà degli altri, o la necessità del momento, o un concorso straordinario di circostanze m'aveano dato in mano il partito bell'e fatto senza ch'io potessi pur ragionarci sopra. Nella negoziatura poi io m'era immischiato per puro riguardo a mio cognato; e se non me ne stolsi quando la ditta Apostulos ebbe finito di liquidare i conti, fu solamente perché il maneggio commerciale de' miei piccoli capitali mi serviva a parar innanzi la famiglia. Intorno al quaranta peraltro essendo io divenuto vecchio e debole ancora negli occhi, e sommando già la mia sostanza a tanto che anche impiegata in fondi poteva darmi di che vivere, deliberai ritirarmi affatto dal commercio. A ciò fare m'ingegnava da qualche tempo, quando l'Internunziatura di Costantinopoli mi diede avviso che il governo ottomano avea finalmente riconosciuto in parte il credito di mio padre; e che se non la piú grossa somma della quale si ritenevano debitori gli eredi del Gran Visir d'allora, almeno un rilevante capitale mi sarebbe pagato. Lucilio, tre quattr'anni prima m'avea già avvertito che l'Ambasceria inglese non avea trascurato quest'affare e che solamente lo rallentava il misero stato delle finanze della Porta, ma io non avrei mai creduto che si dovesse giungere a qualche risultato: e perciò mi parvero un grazioso presente le ottantamila piastre che mi furono contate, e quanto agli eredi del Visir li lasciai in pace perché mio figlio Luciano, incaricato di prenderne contezza, aveva risposto ch'erano tutta gente oscura e miserabile. Tra le ottantamila piastre e i trentamila ducati che mi fruttò la liquidazione finale dei miei conti, formai una bella somma, colla quale comperai un grande e bel podere intorno alla casa Provedoni di Cordovado, nonché molti fondi del patrimonio Frumier, dei quali il dottor Domenico Fulgenzio cercava sbarazzarsi per adoperare piú liberamente la propria sostanza nel circuire e incorporarsi quella degli altri. Tuttavia l'educazione di Giulio consigliandoci la dimora in città, continuammo ad abitare la mia casa paterna di Venezia: pei due mesi d'autunno si prendeva a pigione un casino sul Brenta e là si godeva dell'aria libera e d'una compagnevole villeggiatura. A poco a poco m'era avvezzato a Venezia, ch'era diventato anch'io come quel dabbenuomo che non potea vivere un giorno senza vedere il campanile di San Marco. E non vi dirò del campanile, ma certo la chiesa, le Procuratie, il Palazzo Ducale li rivedeva sempre con un piacere misto di dolcissima melanconia quando il San Martino ci faceva dar le spalle alla campagna. Bruto invece, che colla sua gamba di legno si trovava meglio d'assai in terraferma, ci serviva volonterosamente da fattore; e gran parte della buona stagione la passava in Friuli, dove anche la sua presenza era utile per uno sciame di nipoti d'ogni sesso ed età che avevano lasciato i suoi fratelli e ch'egli si studiava alla bell'e meglio di beneficare. Io per me aveva provveduto a tutti i figliuoli di Donato e della Bradamante. Due ragazze erano maritate assai decentemente una a Portogruaro l'altra a San Vito; e dei giovani l'uno guadagnava il bisogno nella sua professione di veterinario, l'altro attendeva alle cose sue, e dall'affitto della spezieria e da uno dei miei poderi che gli aveva ceduto da amministrare, ricavava abbastanza per ristorar la famiglia delle sofferte sciagure. Quelli invece che andavano di male in peggio erano i Conti di Fratta. Sarà stata una sciocchezza ma a me doleva sempre e ne duol tuttavia di vedersi spegnere la famiglia della Pisana. Il dissesto poi d'ogni loro fortuna non era pareggiato che dalla stoica felicità colla quale lo sopportavano. Rinaldo con compere di libri e con neglette esazioni; la Clara con improvvide beneficenze, ognuno dal canto suo avea dato fondo ai rimasugli del proprio avere. Rimanevano ancora due o tre coloni con un'ala cadente del castello e due torri sfiancate, ma gli affitti si disperdevano a destra e a sinistra nelle mani rabbiose e litiganti dei creditori: non un quattrino ne giungeva a Venezia, quando mai si avrebbe potuto scrivere colà che ne mandassero. Ma bisogna rendere questa giustizia agli ultimi rappresentanti dell'illustre prosapia dei Conti di Fratta, erano tanto restii a pagare come noncuranti di riscuotere. Il conte Rinaldo adunque e la reverenda Clara si trovavano ridotti all'entrata di un ducato al giorno, piú le tre lire venete che la signora riceveva dall'Erario pubblico come patrizia bisognosa. Ma lo vedete bene che non c'era da gozzovigliare; e infatti l'anno non era per loro che una lunga quaresima. Fortuna che la signora per le sue estasi serafiche ed il Conte per le continue distrazioni della scienza non aveano tempo di badare allo stomaco. S'assottigliavano ogni giorno piú, ma senza accorgersene; e credo che si sarebbero avvezzati a viver d'aria come l'asino d'Arlecchino. Certo mi ricordo che un giorno avendo io domandato alla contessa Clara perché pigliasse tanti caffè, minacciata com'era da una paralisi, mi rispose che il caffè a Venezia costava poco e ne beveva assai per far senza brodo. Tra il caffè e l'aria, in punto di nutrizione credo che ci sia pochissima differenza. Notate che qualunque donnicciuola si fosse presentata alla loro porta piagnucolando e paternostrando era certa di non partire che dopo aver ricevuto un soldo o un tozzo di pane. Son certo che la Clara al suo peggior nemico, se lo avesse avuto, avrebbe fatto parte dell'ultimo caffè, e datoglielo anche tutto, se si fosse imbronciato del poco. Il conte Rinaldo intanto cercava per mare e per terra un editore della sua opera; ma pur troppo non lo trovava. Le ricchezze s'erano accresciute notevolmente in quella lunga pace, non tanto forse quanto si voleva, ma certo cresciute erano; il senso pubblico e l'educazione aveano migliorato assai benché a rilento e quasi a ritroso delle circostanze; ma non si guardava tanto lontano e la carità patria cercava bisogni presenti da soddisfare, piaghe da sanare, desiderii da adempiere, non glorie remote da ravvivare, o vecchie eredità passive da raccogliere. Un inno manzoniano in onore della strada ferrata che si progettava allora per congiungere Milano a Venezia avrebbe trovato editori compratori e lodatori; ma un'opera voluminosa sul commercio degli antichi Veneti non stuzzicava la curiosità del pubblico, e non dava speranza ai librai di guadagnarci gran fatto. Perciò facevano tanto di cappello al signor Conte, e dopo aver pesato colla mano il suo manoscritto glielo restituivano garbatamente senza pur volerlo leggere. Indarno egli si sfiatava a persuaderli di esaminare l'opera sua per conoscerne il valore e l'estensione; essi rispondevano che la reputavano un capolavoro, ma che i lettori non erano preparati a cose tanto sublimi e profonde, e che se lo scrittore secondava le proprie idee, agli stampatori invece si conveniva di soddisfare ai desideri della gente. Il conte Rinaldo aveva la modestia del vero merito, ma insieme anche la dignità naturale di chi è sinceramente modesto. Perciò non s'abbassava, come dice il volgo, a leccar le scarpe di nessuno, e tornava nella sua solitudine a vendicarsi nobilmente e a consolarsi dei sofferti rifiuti col limare correggere ed emendare il proprio lavoro. Trent'anni di studi di ricerche di meditazioni non gli sembravano sufficienti; ed ogni giorno gli saltava agli occhi qualche passo dove una piú larga critica avrebbe rischiarato le idee, o avviato meglio il lettore a comprendere lo spirito dell'autore. Per poco non era grato agli editori che gli aveano lasciato il tempo di lumeggiar meglio qualche parte del quadro e ritoccare il disegno. Ma poi quando tornava a credere di aver finito, e si rimetteva in giro per le botteghe dei librai col suo manoscritto sotto il tabarro, gli toccavano sempre le uguali repulse condite da ultimo anche da qualche motteggio e dalle sgrugnate dei meno cortesi. Consigliato a rivolgersi agli editori piú noti delle altre città, cominciò un ostinato carteggio con Firenze con Milano con Torino con Napoli. I piú neanche rispondevano; qualcheduno che serbava rispetto al Galateo lo invitava a mandare saggi della sua opera. Ed eccotelo il dabbenuomo, a scegliere a ripulire a trascrivere ancora: ma in fin dei conti capitava una lettera che trovava o lo stile troppo astruso o l'argomento troppo alieno dagli studi presenti; lo si invitava a scrivere di statistica e d'economia, che sarebbe decentemente retribuito, ma in quanto a quei lavori monumentali d'erudizione storica non s'affacevano al nostro secolo. Il povero Conte metteva anche quelle ultime lusinghe nella cantera delle illusioni svanite; ma ne aveva una tal provvista da frustar ancora, che corsero parecchi anni prima che si persuadesse dell'assoluta impossibilità di trovare un editore per la Storia Critica del Commercio Veneto. Gli capitò in mente che farsi raccomandare da qualche uomo già noto nella letteratura e nelle scienze poteva giovargli assai; ma siccome non conosceva alcuno si consultò intorno a questo partito col cavalier Frumier. Figuratevi che bazza! Il Cavaliere dopo la morte della dama Dolfin non aveva piú racquistato l'uso dei sensi, e a parlare a lui di letterati e di scienziati, era lo stesso come farsi narrare la storia letteraria del secolo scorso. Egli non veniva piú in qua dell'abate Cesarotti e del conte Gaspare Gozzi; sicché diede assai scarso conforto al cugino. Il conte Rinaldo allora deliberò di fare da sé, e cominciò a vendere tutto quello che aveva ancora di vendibile per cominciare se non altro la stampa; dopo dati alla luce i primi fascicoli confidava nel favore del pubblico che non poteva mancare ad un'opera di decoro patrio e di alta importanza storica. La signora Clara bevette d'allora in poi un piú moderato numero di caffè, egli si tolse perfino il pane di bocca per raggranellare piú presto quelle cinquecento lire che abbisognavano alla stampa dei quattro primi capitoli. Come poi le ebbe in tasca, andò dal tipografo, e senza pur contrattare, le depose sul banco dicendo trionfalmente: - Stampatemi piú che potete del mio manoscritto. - In qual sesto lo comanda, quante copie ne desidera, vuol distribuire schede d'associazione o farne senza? - chiese lo stampatore. Tutte cose delle quali Rinaldo non s'intendeva un'acca. Ma fattosi dichiarare ogni cosa pel minuto, rimasero d'accordo che si sarebbero sparse per tutta Italia quattromila schede di associazione con quattro parole d'invito contenenti i sommi capi dell'opera, e che si sarebbero stampate mille copie del primo fascicolo in ottavo grande. Il Conte tornò a casa che non toccava coi piedi il selciato; e le tre settimane che impiegò a correre dalla casa alla stamperia, rivedendo bozze, emendando errori, cambiando vocaboli e aggiungendo postille furono per lui il tempo piú felice della vita, quello che sarebbe stato il primo amore ad un giovinetto qualunque. Ma lo stampatore non partecipava gran fatto di questo eccesso di giubilo; le schede non tornavano colle firme desiderate; e appena era se in Venezia e nelle città vicine se n'erano raccolte un paio di dozzine. Queste poi capitavano loro per mezzo dei commessi librari e si sa quanto stenti il denaro a rifluire per questi incerti canali. Peraltro il Conte era sicuro di veder stampato entro un mese il suo primo fascicolo e dormiva sulle rose. Ebbe sí a litigare colla censura per qualche frase per qualche periodo, ma erano correzioni che non intaccavano menomamente l'opera d'importanza, e le concesse volentieri. Cosí finalmente venne alla luce il famoso frontespizio coi quattro capitoli che gli tenevano dietro, e il conte Rinaldo ebbe la straordinaria consolazione di poter contemplare i cartoni della sua opera nelle vetrine dei librai. A questa consolazione tenne dietro l'altra non meno vitale di udirne strombettar il titolo sui giornali, e di vederne la critica tirata giù a campane doppie in qualche appendice. Fu il primo un giornale di Milano a lodare l'intento e la profonda erudizione del libro, nonché il grande valor pratico che poteva acquistare anco per l'odierno commercio, ove concorressero circostanze tali che lo avviassero a ritentare gli scali d'una volta. Si parlava in quel cenno critico delle Indie, della China, delle Molucche, dell'Inghilterra, della Russia, dell'oppio, del pepe e della paglia di riso, di Mehemet Alí, dell'Impero birmano e del taglio dell'istmo di Suez, di tutto insomma fuorché del lavoro di Rinaldo e della mercatura e degli istituti commerciali veneziani durante il Medio Evo. Tuttavia Rinaldo se ne accontentò perché infatti l'intento patriottico e la critica vasta e profonda erano designati come i pregi principali; il che era vero e l'autore sel sapeva, come seppe buon grado al giornalista di aver letto e interpretato a dovere l'opera sua. Un diario toscano copiò nella sostanza il giudizio del giornale milanese aggiungendo qualche cosa del suo, e dando a divedere con queste aggiunte di aver al piú malamente sfogliazzato quel libro. Ma dopo cominciarono a comparire qua e là cento critiche, cento giudizi gli uni piú strambi degli altri, ricalcati servilmente e variati a piacere da quelle prime relazioni. Si accorgeva alle prime che gli scrittori conoscevano il libro appena nel titolo, e non aveano forse neppur pensato due volte a questo, perché un dotto pubblicista di Torino ebbe a raccomandare lo studio del Conte di Fratta come un ottimo manuale per quei commercianti che vogliono aiutare la pratica dei loro negozi colle speculazioni della moderna economia. Leggendo quest'ultimo giudizio il povero autore si stropicciò gli occhi, e credette aver straveduto o che almeno non parlassero di lui e della sua opera. Ma poi ci tornò sopra e se ne persuase pur troppo. - Razza di somari! - mormorò egli fra i denti. - Pazienza non comperarlo, pazienza non leggerlo! Ma non intendere nemmeno il titolo!... Giudicarlo a rompicollo prima di osservarne il frontespizio!... Questa poi trascende ogni misura, e dico il vero che vorrei piuttosto essere lacerato che lodato da simile genia di aristarchi. Era vissuto fino allora nelle biblioteche il conte Rinaldo e non sapeva che quelli non erano tempi da perdersi in letture. E che si lodava e si biasimava senza leggere, appunto perché si apprezzava piú lo spirito e l'intento che il valore scientifico e la forma delle opere. Ognuno diceva al vicino: "leggi quel libro che a primo assaggio mi parve buono!". Ma le parole passavano e il libro restava in bottega. Piuttosto si correva a divorare le recentissime di qualche giornale. Io non voglio dire che non restassero studiosi di polso che avean tempo a tutto; ma la gioventù, la gran consumatrice dei libri nuovi, era troppo occupata. Volendo tener dietro ai chiassi ai trastulli agli amorazzi nei quali era cresciuta e alle nuove passioni che fermentavano nelle combriccole, non era bastevole un'anima per individuo. Allora appunto era morto Gregorio XVI, al quale succedette nella sedia pontificale Giovanni Mastai Ferretti sotto il nome di Pio IX. Chi al leggere questo nome non lo sente rimormorare sulle labbra, come una nota melodia che ci ronza negli orecchi lungo tempo dopo averla ascoltata?... Pio IX era anzitutto sacerdote e papa e lo si volle trasformare in un Giulio II pontefice e soldato; fu come quando si travede in una nuvola un simbolo una figura che chi l'ha in capo la ravvisa, ma invano si cercherebbe farla vedere agli altri. Allora il nuovo Papa o non capí o non volle capire il significato di quegli applausi che lo portavano a cielo, e tacendo diede ragione a chi sperava da lui piú forse che non era disposto a concedere. Non so se l'entusiasmo fosse di moda o la moda generasse l'entusiasmo; so che entusiasmo e moda pervennero dal bisogno universalmente sentito di ricoverare le proprie speranze dietro un vessillo santo ed inviolabile: non v'avea né congiura, né impostura, era saviezza d'istinto. Questi avvenimenti che rompevano la lunga sonnolenza d'Italia non secondarono per nulla l'impresa tipografica del conte Rinaldo; certo anche in tempi soliti non avrebbe guadagnato dal primo fascicolo di che aiutare almeno per metà la stampa del secondo, ma allora poi non ci cavò uno scudo che l'è uno scudo. E quello che è piú curioso, toccò anche a lui dimenticarsi del proprio libro per correre cogli altri in piazza a gridare: Viva Pio IX! Sua sorella era fra le meglio invasate pel nuovo Pontefice; ne parlava come d'un profeta, e tutta la sua conversazione se n'era scandolezzata perché mai piú s'immaginavano che la vecchia bigotta, la badessa emerita di Santa Teresa plaudisse di gran cuore ad una papa che tirava piú al politico che al sacerdotale; almeno cosí credevano allora. Ma ignoravano forse il perché la Clara si era fatta bigotta e monaca, e a quali condizioni s'era obbligata verso Domeneddio all'osservanza dei voti. Io non lo sapeva ancora di sicuro; ma da qualche mezza parola credeva già di poterlo indovinare. Intanto in mezzo a questi torbidi il danaro si faceva piú raro che mai; e fu allora che il conte Rinaldo mandò un ordine urgente al suo castaldo di Fratta che gli si spedisse qualche soldo ad ogni costo; e il povero contadino si tolse d'impiccio vendendo i materiali che rimanevano del castello e anticipandone al padrone il prezzo. Il Conte con quella sommetta voleva aiutare la fondazione d'un giornale patriottico in non so qual città di terraferma; e cosí anche allora il danaro gli scappò dalle dita, e Clara rimase senza caffè, ed egli con poco pane: ma l'una pregando, l'altro leggendo e fantasticando si difendevano valorosamente contro la fame. Qualche volta io ebbi la cristiana previdenza d'invitarlo a pranzo, ma era tanto svagato che benché sovente avesse nello stomaco l'appetito vecchio d'un paio di giorni, si smemorava dell'ora del pranzo e non veniva che alle frutta. Peraltro rimesse che furono in movimento le mascelle mostravano assai buona memoria del digiuno e una discreta previdenza di non volerlo patire per un buon pezzettino di futuro. Questo era il poco bene che poteva operare a vantaggio de' miei cugini, dei fratelli della Pisana; del resto non aveva il coraggio di esibirmi conoscendo la loro permalosa delicatezza; ed anche qualche libbra di caffè di cui l'Aquilina regalava la Clara, la facevano giungere a loro di soppiatto per mezzo della serva. Confesso la verità che negli anni antecedenti quei due stampi singolari mi erano oltremodo antipatici, e durava fatica a sopportarli pensando di qual sangue erano; ma mano a mano che i tempi minacciavano scuri e temporaleschi mi riappaciava con loro, e serbava la mia bile contro la gente che li circondava. Là si vide il doppio intento d'una condotta e d'un modo di pensare che pareva uguale ed era tutt'altro: l'Ormenta, i Cisterna e i loro satelliti pensavano all'utile proprio, alla sicura comodità della vita sotto la scusa della gloria di Dio; Rinaldo e la Clara operavano per la gloria di Dio in tutto e per tutto, e la sostanza i commodi la vita avrebbero sacrificato allegramente per quel santissimo scopo. Gli è vero forse che anche la gloria di Dio la intendevano assai diversamente tra fratello e sorella, ma ad ogni modo nelle azioni e nell'opinion loro uno scopo ideale c'era; e picchiavano anch'essi le mani e si univano al generale entusiasmo, mentre il dottor Ormenta guardava sospettoso dalla finestra e mandava il canchero nel cuore a quei maledetti gridatori. Tuttavia all'occasione gridava quant'ogni altra buona gola; e non si faceva grattar la pancia come le cicale. Mio figlio intanto era andato inzaccherandosi sempre piú in sí trista compagnia: e per quanto mi studiassi di sollevargli la mente dalle cose basse e materiali e di tenergli viva la gioventù dello spirito, egli non mi badava piú che tanto e mi pareva piú vecchio lui a ventidue anni che non fossi io a settanta. Piú anche mi studiava di volgerlo a sentimenti forti e generosi in quegli ultimi anni quando m'accorgeva delle vicende che ci pendevano sopra, e sentendomi già poco meno che decrepito, l'avrei dovuto lasciare senza guida nei momenti in cui piú forse ne avrebbe abbisognato. Ma il sozzo dolciume dei vizii gli aveva troppo guasto il palato, e quei pervertitori della gioventù lo avevano persuaso che fuori della tranquillità, della buona tavola e del buon letto, non sono altre cose desiderabili al mondo; cotali opinioni le ostentava come segno di animo forte e d'indipendenza filosofica, facendosi merito di sprezzare la puerilità di chi metteva gran parte delle sue speranze nel contentamento di qualche desiderio meno umile. Era la reazione contro il romanticismo, della quale quei volponi si giovavano per fuorviare i giovani secondo il loro interesse. E siccome altri giovani di piú matura esperienza o piú rettamente guidati si opponevano a quelli colla parola coll'esempio, gridando che era un abbominio il negare cosí ogni idealità delle vita, e il rendersi come porci in brago schiavi solo dei commodi e dei godimenti; quei maestri di corruzione soffiavano che eran gridate d'invidia e che non bisognava badarci, e che era tutto effetto d'ipocrisia, ma che ci voleva coraggio per beffarsi delle predicazioni di quei farisei. Giulio che era di volontà forte e ricisa non si buttava a mezzo in un partito: per lui quell'opporsi a visiera alzata alle censure dei puritani, come li chiamavano, fu una prova di coraggio, e tanto essi lo biasimavano, d'altrettanto egli esagerava la cinica scapestratezza dei costumi. Gioco, beverie, donne, erano le sue tre virtù principali; ne aveva molte altre di accessorie, e sopra tutte poi, quella ch'essi rimproveravano agli avversari, una profonda e spontanea ipocrisia. Messo ch'egli aveva il piede oltre la soglia della casa, senza nemmeno pensarlo la sua persona assumeva un contegno composto, la sfacciataggine e la dissolutezza gli cadevano dagli occhi, e le labbra dimenticavano il solito frasario di bordello. Vicino a sua madre pareva un angelino; e quando io, per colpire il lato debole di quell'educazione cui l'aveva avviato, ripeteva quanto de' suoi costumi mi riferivano le pubbliche voci, ella mi smaniava contro gridando che le erano falsità, e che il suo Giulio bastava guardarlo per conoscerlo fin nel fondo del cuore. Che se egli non perdeva il capo dietro le fantasticaggini solite dei giovani, che se teneva invece al sodo e cogli uomini posati, bisognava ringraziarne il cielo; e che già una tremenda lezione l'avea già avuta nella fine di Donato. E lí rappiccava i soliti capi d'accusa; sui quali a me conveniva scrollare le spalle ed andarmene per non udir predicare tutta la giornata. Peraltro non potei far a meno di somministrar a Giulio una gran lavata di capo e minacciarlo di peggio pel futuro quando alle solite voci che correvano sul suo conto se ne aggiunsero di peggiori e quasi infami. Un amico del cavalier Frumier mi avvertí aver udito raccontare d'una scena avvenuta in una bisca a proposito di alcuni tagli di macao, eseguiti, a quanto dicevano, da mio figlio con soverchia destrezza. Egli non avea risposto che coi pugni all'importuno osservatore, e questa maniera di difendere la propria onestà non gli dava ragione presso il giudizio dei piú. Giulio, interpellato da me sopra questa circostanza, rispose per la prima volta con qualche alterezza che egli voleva giocare a suo piacimento senza che altri gliene prescrivesse il modo, che si beffava delle loro ciarle, ma che non voleva ricevere mali atti, e che chi era malcontento de' suoi pugni se li facesse levare. Quanto al delitto appostogli non disse né sí né no: e vi scivolò sopra con qualche confusione lasciandomi quasi persuaso che non glielo apponessero a torto. Peraltro aveva ancora una lontana lusinga che quei suoi mali diportamenti provenissero da un amor proprio fuorviato, da una smania eccessiva di contraddizione, e che se ne sarebbe forse allontanato prima che, batti e ribatti, le petulanze diventassero abitudini, e quelle colpe vizii. Attendeva a questa mia speranza, quando in mezzo all'entusiasmo propagatosi per tutta Italia all'amnistia concessa da Pio IX, Giulio fu appunto il solo ch'ebbe il coraggio di opporsi all'invasamento universale; di deridere quelle feste quelle gridate in piazza, e di chiamar pazzi e femminette coloro che ci credevano. Non parlava e non agiva forse cosí per antiveggenza politica, ma per mostra di eccentricità e di cinismo; ad ogni modo, fosse anche stata profonda convinzione, era piú sfacciataggine che coraggio manifestarla a quel modo, in quei momenti. Anche le illusioni meritano qualche volta rispetto, e cosí non bisogna sfiorare la verginità d'animo d'un garzoncello, come non è lecito infirmare la fiducia generosa d'un popolo, quando la fede è per sé una forza rigeneratrice. Giulio invece motteggiava e beffeggiava senza riguardo; coloro stessi che forse meglio di lui erano persuasi delle sue opinioni, e ai quali tornava conto quell'opposizione, in pubblico facean le viste di non udire, o tirati in mezzo, disertavano lesti lesti all'entusiasmo dei piú. Giulio allora s'ostinava sempre piú e percotendo a due mani amici e nemici, smascherava la doppiezza di quelli, scherniva la dabbenaggine di questi, e si godeva di esser fuggito come il corvo dalle male nuove, e odiato come il paladino delle anticaglie e dello statu quo. Piú l'odio era generale piú si faceva un vanto di resistere; e fors'anco cominciava a credere nella verità di alcune fra le sue idee; ma raccolse il solito frutto della sua imprudenza. Gli uomini troppo assoluti e sinceri sono caricati per solito delle colpe di tutto il loro partito, e Giulio si ebbe addosso l'esecrazione generale. Senza sapere appuntino tutte queste vicende, perché i parenti son gli ultimi ad aver contezza della condotta dei figliuoli, ne subodorai abbastanza per metter Giulio in avvertenza di tutto il male che gliene poteva intervenire. Egli mi rispose che della vita faceva omai il conto ch'ella merita, e che nulla di male poteva intervenirgli persuaso com'era che non fossero mali quelli che affliggono solamente l'immaginazione. - Bada, bada, Giulio! - io soggiunsi con voce di preghiera e quasi colle lagrime agli occhi. - La vita non si compone soltanto di quello che tu credi! L'anima tua potrebbe svegliarsi, sentir bisogno d'amore di stima... - Oh padre mio - m'interruppe sogghignando il giovane - non parliamo di queste poesie! Transeat se gli uomini fossero savi giusti e perfetti, ma cosí come sono tanto importa posseder l'amore e la stima del proprio cane che quella di costoro. Io per me vi rinunzio volontieri e per sempre! - Non dir per sempre, Giulio, ché non lo puoi! Sei troppo giovane! (Egli sorrise, come tutti i giovani, quando si appunta loro mancanza d'esperienza). Quegli uomini che tu giudichi cosí pazzi cosí tristi possono sollevarsi per uno slancio magnanimo da quella solita abiezione e riavere momenti sublimi di giustizia e di generosità!... Ora se tu, Giulio, in quei momenti dovessi sopportare il loro disprezzo, credilo, ti spezzerebbe l'anima, a meno che tu non abbia perduto ogni pudore ogni dignità umana. In quei momenti non è l'ostracismo della pazzia e della nequizia che soffrirai, ma la sentenza della generosità e della giustizia!... E non potrai illuderti, non potrai difenderti!... Contro uno contro due contro dieci potrai insorgere, fremere, vendicarti; ma contro l'opinione d'un popolo non v'ha riparo: gli è come un incendio che compresso da una parte divampa subitaneo e maggiore dall'altra!... In tanta sciagura uno solo è il ricovero che la Provvidenza permette all'onest'uomo; il ricovero della coscienza. Ma tu, Giulio, come ti troverai di faccia alla coscienza?... quali conforti ti darà essa? A te che ti sei fatto una gloria di calpestare quanto di piú nobile di piú etereo racchiude l'umana speranza?... A te che professando un disprezzo profondo degli uomini senza pur conoscerli, ti sei accostato ai peggiori, e hai con ciò dato appiglio a credere che tu disprezzi te stesso piú di ogni altro?... Via, rispondi; non ti pare che fra i tuoi maestri, i tuoi amici, fra il dottor Ormenta, fra Augusto Cisterna, i suoi figliuoli e il resto della gente non corra alcun divario? Ma se la gente accusa, vitupera, perseguita le azioni di quelli, non è segno che almeno la coscienza pubblica è migliore della loro, e che v'è una vita possibile possibilissima, e se non felice e dignitosa in tutto, certo piú degna di quella cui essi ti hanno invitato?... Temi, temi, Giulio, di esser confuso con simil razza di serpenti; temi che la contraddizione non ti trascini piú oltre di quanto non vuoi; e che per la tua smania di distinguerti e di capitaneggiarti, non ti si faccia carico dei delitti e dei vizii di coloro che stanno ora dietro a te, e che al maggior uopo avranno la furberia di lasciarti solo. - Ti sbagli di grosso sul mio conto - rispose Giulio colla massima pacatezza e senza onorare la mia predica neppur d'un istante di esame. - Io non ho adottato il credo di nessuno. Il dottor Ormenta e il signor Augusto Cisterna sono vecchi furbi e scostumati non migliori né peggiori degli altri; ho continuato a stare con loro per abitudine e perché non ci vedea ragione di mutar compagnia, cascando dalla padella nelle bragie, cioè dal vizio nell'impostura. I giovani coi quali costumo son quelli che consentono meglio colle mie idee; e se hanno i loro difetti non posso avermene a male. Quanto poi a farmi soggezione delle ciarle della gente, non sono cosí sciocco. La mia coscienza mi dirà sempre ch'io la penso piú dirittamente di loro, e il mio buonsenso riformerà le sentenze appellabilissime dell'altrui ignoranza. Capii che a predicare tutta una quaresima non ci avrei cavato alcun frutto; e lasciai che se n'andasse, sperando e temendo insieme che l'esperienza avrebbe fatto quello che indarno io aveva tentato. Ma cominciava a dubitare che la mia trascuranza e la soverchia deferenza all'Aquilina dovessero essere gravemente punite, e che i figliuoli preparassero i piú fieri dolori della mia vecchiaia. Infatti non era solamente Giulio che mi dava da pensare; anche la Pisana cominciava a sgarrare sul serio, ed io m'accorgeva troppo tardi di aver perduto sopra di essi ogni paterna autorità. Quella ragazza, ve lo dissi, era la piú furba ed entrante che avessi mai conosciuto; ma mi confidava che l'esempio di sua madre e la scrupolosa religione nella quale la educava l'avrebbero preservata dai maggiori pericoli. Intanto andava tenendola d'occhio alla lontana, e non mi pareva che traesse molto buon frutto dalle sue devozioni. Era umile ed affettuosa con sua madre, con me del pari serbava un contegno modesto e discreto, e quando si trovava in mezzo alla gente in nostra compagnia pareva addirittura una santoccia. Ma coi servi colle cameriere si mostrava dura ed altera; e a sbalzi poi l'udiva scherzare e ridacchiare insieme ad essi con modi tali che dissomigliavano da quelli tenuti in nostra presenza. Cosí se sua madre voltava l'occhio quando si trovavano in qualche brigata, subito mandava via occhiate di fuoco a destra e a sinistra, e m'accorgeva che non si sbagliava nel cernere i bei giovani dai brutti. Arrossiva anche talora e si storceva sulla seggiola in modo che dimostrava la malizia maggiore della santità. Insomma io non era quieto per nulla sul suo conto, e quando l'Aquilina, pur consentendo che Giulio dava un po' nello scapato, si consolava della sua buona fortuna e ringraziava il cielo di averci compensato a mille doppio in quella eccellente figliuola, io non poteva stare che non torcessi un po' il grugno. - Come? Che avresti a ribattere? - saltava su mia moglie con una voce aspra e convulsa che le serviva costantemente nei suoi colloqui col marito. - Eh, nulla! - diceva io fregandomi il mento. - Nulla, nulla!... Credi che io non capisca i tuoi attucci da censore malcontento?... Ma via mo, sentiamo che avresti ad osservare sul conto della Pisana!... Non è bella e perfetta che pare un angelo?... Non ha due occhi colore del lapislazzulo che dinotano un'anima candida ed amorosa, e colorito e capelli e statura che a scegliere non si potea fare di meglio?... Non è fornita di buon ingegno, e di modi riserbati e gentili come si addicono ad una zitella? Non è divota come un santino, umile ed ubbidiente poi che sembra un agnello?... Dove vorresti trovare una figliuola piú esemplare?... Io per me torrei di essere un giovine per poterla sposare; e fortunato tre volte quello cui toccherà una tanta fortuna, ma ci guarderò tre volte prima di dargliela. Io non rispondeva nulla e lasciava che si sbizzarrisse nel suo panegirico; soltanto accennandole di parlar piano quando sospettava che la ragazza fosse nella camera vicina, e stesse anche origliando come qualche volta io l'aveva scoperta. - Orsù, dunque! - continuava l'Aquilina - non istarti lí ingrognato che pari una statua!... Sei forse padre per nulla?... Dacché non hai piú negozi in piazza, e mio fratello sgobba per te in campagna, sei diventato il piú gran disutile che si possa immaginare!... Non sei buono ad altro che ad impancarti in un caffè, a legger le gazzette e fors'anco, Dio non voglia, a chiacchierare senza prudenza con qualch'altro vecchio matto e a comprometterti. - Aquilina, se si potesse, ti giuro che parlerei sovente, ma... - E cosa faccio ora dunque?... Non ti dico di parlare? Non ti esorto da un'ora palesare le tue osservazioni? Non son qui anche con troppa pazienza ad ascoltarti?... - Allora ti dirò che la Pisana non mi sembra cogli altri la stessa che si mostra con noi: e che quando non la si tien d'occhio cambia subito maniere che è una meraviglia, sicché ho gran paura che tutte le sue belle doti non sian altro che fintaggini, e... - Anche questa mi toccava sentire!... Oh povera me!... Povera figliuola! Tu sí che hai proprio il diritto di accusarla!... Tu che infatti la curi molto! Non ti trovi con noi in mezzo alla gente due volte l'anno, e vuoi insegnare a me che sto con essa da mattina a sera, che non l'abbandono mai né col pensiero né cogli occhi!... - Ti dirò, Aquilina!... Tu stai sempre con lei; ma ti piace molto il conversare, e non l'abbandonerai forse col pensiero, ma cogli occhi ti assicuro che la abbandoni sovente. Io certo non vengo con voi tutti i giorni perché la conversazione di casa Fratta né quella di casa Cisterna si affanno al mio gusto, ma quando ci vengo, siccome con quelle persone non ho voglia d'intrattenermi, ho tutto il tempo di osservarla. Fidati di me; e credi che hai voluto farne una santa ma che se la continua a quel modo ne avrai fatto invece una civetta sopraffina! - Oh Madonna santissima! Ti prego, vammi fuori dei piedi e non bestemmiare!... La mia Pisana una civetta!... - Zitto, zitto, per carità, Aquilina, che non la ti senta. - Eh che non importa nulla!... E non c'è pericolo che ella c'intenda nulla di tali nefandità!... Ho capito già; tu non le vuoi alcun bene a quella ragazza: vorresti degli omacci duri e sconoscenti come Luciano, o qualche pazzerello come quel povero Donato, che tu solo hai condotto al precipizio. Ma i giovani discreti e affettuosi, le fanciulle oneste e dabbene non ti si convengono per nulla... Hai proprio ragione di dire che sei un giacobino incorreggibile... Infatti tu non ti ci trovi bene in casa Fratta quando ci siamo noi: ma se si tratta poi di gironzolare le ore colle ore fabbricando castelli in aria e impasticciando bestemmie ed eresie col conte Rinaldo, allora non ti ritraggi punto, allora la casa Fratta ti conviene!... - Non confondere una cosa coll'altra, Aquilina. Il conte Rinaldo non ci ha nulla a che fare con quei volponi che la fiduciosa santocchieria di sua sorella gli ha tirato in casa. - Ecco, ecco, sempre insulti sempre motteggi a tutto quello che v'è di santo, di venerabile al mondo!... - Ti ripeto quello che ti ho detto le mille volte. Io venero e rispetto la santità della signora badessa: ma la mi sa un po' troppo d'ingenua: e non me ne fiderei per conoscer gli uomini. Infatto ora che si trovano in tanta strettezza, cosa hanno fatto per essi quei loro ottimi parenti, quei loro amici sfegatati?... - Han fatto, han fatto poco meno di quello che facciamo noi. E farebbero di piú se la signora badessa non fosse tanto permalosa. - Infatti è l'esser dessa permalosa che li fa scappare come le mosche dalla tavola poiché si levano le portate! - Se ora stanno ritirati ce n'hanno delle ottime ragioni, e tu adopreresti saggiamente imitandoli. Non son tempi questi da ciarle e da conversazioni, massime pei vecchi. - Secondo te bisognerebbe risparmiar al becchino la noia di seppellirci: e nascondersi appunto allora che un barlume di speranza torna a luccicare, e un po' di vita a fermentare nelle nostre anime. - Belle speranze! Bella vita!... Ride bene chi ride l'ultimo. La discussione cominciava a dare nel politico e me la svignai: non dimenticando peraltro il punto principale del diverbio e proponendomi di osservar la Pisana piú che non avessi fatto per l'addietro. Negli ultimi giorni principalmente la mi sembrava cosí preoccupata cosí facile a cambiar di colore e confondersi che se gatta ci covava non me ne sarei meravigliato. Mia moglie invece affermava che quelli erano gli indizi soliti di quel certo passaggio dall'adolescenza alla giovinezza, che turba inconsapevolmente l'innocenza delle ragazze. Io che d'innocenza me n'intendeva, e piú forse ancora di malizia, non sapeva star contento a quell'opinione, e guardava e spiava sempre con ogni accorgimento di prudenza, persuaso che alla lunga la paziente furberia del vecchio l'avrebbe spuntata contro l'accortezza della fanciulla. Le cure ch'ella si dava di comparir tranquilla e disinvolta ogniqualvolta s'accorgesse di esser osservata, mi confermavano nel sospetto che non si trattasse né punto né poco di quell'inconsapevole turbamento messo innanzi da sua madre; ma i giorni passavano e non veniva a capo di scoprir nulla. Finalmente una sera che l'Aquilina era uscita con suo fratello giunto allor allora dal Friuli, ed io pure doveva rimaner assente fino ad ora tarda, tornandomene non so per qual cagione a casa, ed entrato nella stanza ove lavoravano di solito le donne, non ci trovai la Pisana. Ne chiesi alla cameriera e mi rispose che la era nella stanza da letto. Allora avvicinatomi pian piano mi parve udire lo scricchiolio d'una penna d'acciaio, e tutto ad un tratto facendo per aprir l'uscio, non lo potei perché era chiuso a chiave. - Chi è? - disse con voce un po' paurosa la fanciulla. - Eh, nulla!... Son io che veniva a vedere di te. - Subito, subito, papà: mi son cambiata tutta perché a finir quel ricamo sudai tanto questa sera, ch'era bagnata come un pulcino. Ma ora vengo ad aprirti. Infatti aperse e m'accolse con un sí bel sorriso sulle labbra che dovetti baciarla, e rimettere anche non poco dei miei sospetti. Vidi alcuni capi di vestiario gettati qua e là come tolti appena di dosso; ma avvicinandomi al tavolino osservai che la penna era ancora intinta d'inchiostro. Certo dunque aveva scritto e non voleva farmelo sapere: il che bastava per farmi sospettare piucchemai, e la lasciai indi a poco augurandole la buona notte se non l'avessi piú veduta. Il giorno appresso, quand'ella uscí per la messa insieme a sua madre, entrai nella sua stanza e feci di tutti i cassetti di tutti gli armadi un diligentissimo esame. Ma tutto era aperto, e niente trovai che potesse dar ragione ai sospetti concepiti la sera prima. Guardai nella cantera del buffetto vicino alla lettiera, e ci vidi, fra molti libricciuoli devoti, una specie di sacchettino ricamato nel quale ella costumava riporre medaglie, reliquie, immagini e altre simili cianfrusaglie. Mi parve che colle dita non si potesse giungere ben in fondo di quel sacchetto; e sentiva come alcune cartoline che non poteva carpire: allora lo rovesciai e scopersi una cucitura fatta, pareva, in gran fretta e con refe bianco. La disfeci e trovai tre letterine graziosette profumate ch'era una delizia a vederle. - Ah ti ho colta, birbona! - diss'io, e non ebbi piú rimorso di aver messo la mano ne' suoi segreti; l'autorità paterna è forse, anzi certo, la sola che dia cotali diritti, perché è obbligata a procurare il bene dei figli anche contro la loro volontà. Quelle tre letterine portavano la firma di Enrico il quale era appunto il nome dell'ultimo figliuolo di Augusto Cisterna; vi si parlava oltre il bisogno di tenerezze di baci di abbracciamenti; ed io non cercava di saperne di piú. Le misi in tasca e aspettai che le signore tornassero dalla chiesa. Infatti di lí a mezz'ora la Pisana venne alla sua stanza per levarsi il cappello e riporre la mantiglia, e fu meravigliata assai d'incontrarsi in suo padre. - Pisana - le dissi io senza andare tanto per le lunghe, ché di avere fatto l'inquisitore ero già piucché stanco - qui ti bisogna esser sincera, ed espiare con una pronta confessione le colpe che per mera fanciullaggine hai commesse: dimmi subito dove e con qual mezzo ti trovi da sola a solo con quel signor Enrico che ti scrive tanto teneramente? La fanciulla traballò sulle gambe e tramortí in viso a segno ch'ebbi compassione di lei; ma poi ricominciò a balbettare che non sapeva nulla, che non era vero, in modo ch'io perdetti la pazienza e ripetei con voce piú autorevole il comando di esser ubbidiente e sincera. Contuttociò ella rimase imperterrita a rispondermi che non ci capiva un ette e a far l'indiana con tanta buona grazia, che mi sentii il solletico di schiaffeggiarla. - Senti, figliuola - ripresi io un po' sbuffando un po' trattenendomi. - Se io ti dicessi che tu ricevi e scrivi lettere a Enrico Cisterna, e che discorri con lui dopo che noi siamo a letto, alla finestra della Riva, non andrei un dito lontano dal vero. Ma non voleva dirlo per lasciarti il merito della sincerità. Ora che tocchi con mano ch'io so tutto, e vedi cionnostante che mi dispongo ad usar di tutta la mia bontà, spero che vorrai mostrartene degna, con dirmi come sei venuta in tanta confidenza con quel giovine, cosa ti piace tanto in lui, e perché, se credevi onesta la tua condotta, hai creduto bene di celarla ai tuoi genitori. So che sei ben avveduta quando ne hai voglia, e adesso dovresti accorgerti che il partito piú saggio piú onesto piú furbo è di aprirti a me come ad un amico, perché si veda di metter ordine a tutto, accordando le nostre convenienze anche col tuo talento se vuoi!... A queste parole la Pisana dimise affatto quel suo contegno di figliuola modesta e paurosa per diventare lesta sicura sfacciatella quale io l'avea veduta piú volte colle cameriere, o in qualche crocchio durante le lunghe distrazioni di sua madre. - Padre mio - mi rispose col piglio disinvolto d'una prima amorosa che recitasse la sua parte - vi chieggo perdono di una mancanza che non finirò mai di rimproverarmi; ma non vi conosceva e aveva piú paura della vostra autorità che confidenza nel vostro affetto. Sí, è vero; gli sguardi le preghiere di Enrico Cisterna mi hanno commossa, e per non vederlo patire, ho voluto concedergli quanto mi domandava. - E se io ti dicessi che Enrico Cisterna è un tristo, un giovinastro senza decoro e senza probità, al quale l'abbandonarti sarebbe il peggior castigo che potessimo infliggerti? - Oh non andate in collera!... No, per carità, che non ce n'è il motivo! È vero, ebbi compassione di Enrico; ma non ci sono tanto ostinata, e se non è di vostro piacimento, meglio qualunque altro che lui!... - Cosí tu rispondevi alle sue lettere, tu ti abboccavi tutte le sere con esso lui alla finestra... - Non tutte le sere, padre mio. Appena quella in cui la mamma spegneva il lume prima di mezzanotte. E siccome ella ha molte divozioni distribuite per varii giorni della settimana, cosí questo non avveniva che il lunedí il mercoledí e la domenica. - Ciò non monta affatto. Voleva dire che quanto facevi lo facevi per mera compassione. - Te lo giuro, papà: proprio per compassione. - Sicché se domani venisse un gondoliere, un cenciaiolo a domandarti per compassione di far all'amore con lui, gli risponderesti di sí! - No certo, papà. Il caso sarebbe molto differente. - Ah dunque convieni che ci vedi dei meriti particolari in Enrico, per sentir piuttosto compassione di lui che di un altro?... Ora favorirai dirmi quali sono questi meriti. - In vero, papà, sarei molto imbrogliata a dichiararveli, ma giacché siete tanto buono, voglio farmi forza per accontentarvi. Prima di tutto quando s'andava a teatro, io vedeva Enrico accarezzato e festeggiato dalle piú belle signore. Non vorrai già negare ch'egli non sia almeno almeno molto simpatico!... Io non sapeva piú in qual mondo mi fossi udendo la santoccia parlare a quel modo; ma volendo pur vedere fin dove sarebbe arrivata: - Avanti - soggiunsi. - E poi?... - E poi ha una foggia di vestire molto elegante, un bel modo di presentarsi, una loquela sciolta e brillante. Insomma per una ragazza senza esperienza c'era, mi pare, quanto bastava per rimaner abbagliata. Quanto ai suoi costumi al suo temperamento io non me ne intendo, padre mio; credo che tutti siano buoni, e non sarei mai tanto sfacciata da chiedere cosa voglia dire un giovane scostumato! Era però abbastanza imprudente per farmi capire che lo sapeva; laonde io le risposi che senza cercar tanto addentro le doti morali di Enrico, ella doveva capire che quei pregi esterni e affatto d'apparenza non dovevano bastare per meritargli l'affetto d'una donzella bennata. - E chi dice ch'egli abbia il mio affetto? - riprese ella. - Vi giuro, padre mio, che gli corrispondeva unicamente per compassione, e che adesso giacché vedo ch'egli non ha la fortuna di piacervi, lo dimenticherò senza fatica, e accetterò di buon grado quello sposo che avrete la bontà di procurarmi. - Eh, sporchetta! - io sclamai - chi vi parla ora di sposo?... Che premura avete?... Chi vi ha insegnato a tirar in mezzo voi simili discorsi? - Nulla! - balbettò essa alquanto confusa - non ho parlato cosí che per dimostrarvi meglio la mia docilità. - Capisco - risposi io - fin dove giunge la vostra docilità. Ma ti esorto a moderare la tua indole, a educare i tuoi sentimenti, perché fino che tu non sia in grado di apprezzare i veri meriti d'un onest'uomo, oh no, perbacco, che non ti lascerò andare a marito!... Non voglio fare né la tua né l'altrui rovina. - Ti prometto, papà, che d'ora in poi tutte le mie cure saranno rivolte a moderare la mia indole e ad educare i miei sentimenti. Ma mi prometti almeno che la mamma non saprà nulla? - Perché vorresti che tua mamma non ne sapesse nulla? - Perché mi vergognerei troppo di comparirle dinanzi! - Eh via, che un po' di vergogna non ti starà male: vorrei anzi che la sentissi molto, per cercare di non averla a soffrire altre volte. Intanto ti avverto che non posso lasciar ignorare a tua madre una cosa che le darà la giusta misura della tua santità. - Oh per carità, padre mio! - No, non affannarti e non piangere!... Pensa a correggerti, ad esser sincera d'ora in avanti, a non invaghirti di frascherie e a non distribuire il tuo affetto con tanta leggerezza. - Oh ti giuro, padre mio... - Non tanti giuramenti; a ora di pranzo ti dirà tua madre quello che avremo disposto a tuo riguardo. Non v'è male che non abbia il suo rimedio: sei giovinetta ancora e spero che tornerai una buona figliuola, capace di fare la felicità nostra, e dell'uomo cui il cielo ti ha destinato, se la sorte vuole che ti accasi. Intanto pensa ai casi tuoi; e medita sulla sconvenienza di quelle azioni che costringono una figliuola ad arrossire dinanzi ai suoi genitori. Cosí la lasciai; ma era tanto sbalordito che nulla piú. E quelle lusinghe di ravvedimento le avea buttate lí per vezzo; del resto non sapeva da qual banda cominciare per ridurre a donna di garbo una tale fraschetta. Confesso che m'immaginava di scoprire un giorno o l'altro delle assai brutte cose sotto quella vernice di santità, non mai peraltro quella sfrontata e ingenua frivolezza che ci aveva trovato. L'Aquilina fu per diventar pazza alla contezza ch'io le diedi per lungo e per largo di tutto il marrone. Non volea credere sulle prime, ma aveva le tre letterine in tasca e se ne persuase; allora prese a gridare e a graffiarsi il viso colle unghie, che guai per la Pisana se le capitava fra le mani! - Ma io la trattenni, e giunsi appoco appoco a calmarla, sicché pensammo anche al modo di troncare senza chiasso quell'amoruzzo e di assicurarci meglio dei costumi della ragazza con un metodo diverso d'educazione. Quanto al licenziare quell'Enrico, che era in verità un capo da galera, si decise che era meglio lasciare l'incarico a lei come quella risoluzione venisse spontanea dalla sua volontà, e noi né ci entrassimo né sapessimo nulla. Poi si pensò di cambiar tutte le donne di servizio, alla compagnia delle quali io attribuiva non senza ragione la strana leggerezza con cui quella mattina mi aveva parlato. Conducendola meno a teatro e in mezzo alla gente, invogliandola a letture piacevoli e salutari, io mi lusingava di ottener qualche cosa; non nascondeva peraltro all'Aquilina che il guasto era piú profondo di quanto non mi sarei mai immaginato, e che ogni rimedio avrebbe potuto essere inutile. Mia moglie mi dava sulla voce per questo mio scoramento soggiungendo che alla fine poi era una scappata piú che di cattiveria d'inesperienza, e ch'ella scommetteva senz'altro di rendere la Pisana cosí ragionevole e posata che in un mese avrei stentato a riconoscerla. - L'ha un tal fondo di religione - diceva ella - che soltanto a richiamarle alla memoria i suoi doveri, si pentirà del fallo commesso, e farà fermo proponimento di non ricadervi mai piú. - Fidati della sua religione! - le risposi io. - Ti dico che è tutta apparenza, ed ora tocchi con mano lo sbaglio gravissimo di non armare la sua coscienza con altri motivi di ben fare che non sono i Comandamenti puri e semplici!... L'Aquilina cominciò ad inalberarsi, io a tempestare; e perdemmo di vista la Pisana per litigare fra noi due; ma io me ne risovvenni per raccomandarle di adoperarsi intorno alla fanciulla con molta prudenza, e poi me n'andai sperando che l'istinto materno l'avrebbe condotta assai meglio del suo accorgimento di bigotta. Come infatti mi parve essere sulle prime; ché trovai giorno per giorno la ragazza migliorata d'assai; e benché continuasse sempre un po' frivola e scapata, pure non usava piú arte veruna per comparire diversa. La vergogna le avea fruttato bene, ma anco io aveva adoperato destramente di non ribadirle l'impostura mostrandomi troppo scandolezzato della sua naturale leggerezza. Cosí sperava che se non una donna forte ed esemplare, una sposina discreta e come tutte le altre ci verrebbe fatto di cavarne. Peraltro mi ficcava sempre piú in capo che bisognava allettarla con quello che le piaceva; e se ci fosse capitato un giovine bennato che allo splendore dell'apparenza unisse la bontà della sostanza, io avrei ceduto l'educazione a lui, quasi sicuro che sarebbe riuscito a buon fine e che di lí a qualche anno avrebbe avuto una moglie secondo i suoi desiderii. Nessun miglior maestro dell'amore; egli insegna anche quello che non sa. Mentre la strana condotta di Giulio e la dubbia conversione della Pisana mi tenevano col cuore sospeso, le dimostrazioni in piazza prendevano per tutta Italia un tenore piú fiero e guerresco; dalla Francia mutata improvvisamente in Repubblica soffiava un vento pieno di speranza; la rivoluzione minacciò a Vienna, proruppe a Milano, e fu compiuta anche a Venezia nel modo che tutti sanno. In quei momenti, per quanto fossi vecchio, mezzo cieco e padre di famiglia, certo non ebbi tempo di pensare a' miei affaruzzi di casa. Uscii in piazza cogli altri, buttai via i miei settant'anni, e mi sentii piú forte piú allegro piú giovane che non lo fossi mezzo secolo prima, quando avea fatto la mia prima comparsa politica come segretario della Municipalità. Si armava allora la Guardia Nazionale, e mi vollero far colonnello della seconda legione; senza consultare né gli occhi né le gambe io accettai con tutto il cuore; richiamai alla memoria tutto il mio antiquato sapere di tattica militare, misi in fila e feci voltare a destra ed a sinistra alcune centinaia di giovani buoni e volonterosi, indi me n'andai a casa col cervello nelle nuvole, e l'Aquilina al vedermi incamuffato in una certa assisa che mi dava figura piú di brigante che di colonnello, fu per cadere in terra per un repentino travaso di bile. Checché ne mormorasse la moglie, mangiai all'infretta un boccone, e tornai fuori ai miei esercizi; vi giuro che non mi sentiva indosso piú di vent'anni. Soltanto la sera, quando mi ridussi a casa verso la mezzanotte, dopo aver subíto le piú gran rampogne che possa soffrire una buona pasta di marito da una moglie bisbetica, chiesi che ne fosse di Giulio, il quale io lo aveva cercato indarno qua e là per tutto quel giorno. Non lo avevano veduto, non ne sapevano nulla; e fu un nuovo appiglio all'Aquilina per tornar daccapo cogli strapazzi. Peraltro io era troppo inquieto sul conto di quel giovine per badare a lei: la condotta tenuta in fino allora, l'indole superba e violenta lo esponevano ai piú gravi pericoli, e dopo molte considerazioni e un'altra mezz'ora di aspettativa, non potei trattenermi, ed uscii in cerca di lui. Non mi sarei immaginato mai piú il colpo terribile che mi aspettava!... Ne chiesi a casa Fratta a casa Cisterna, e non seppero dirmene nulla; tentai a casa Partistagno, ove usava molto in quell'ultimo tempo, ma mi risposero che il signor generale era partito da due giorni bestemmiando contro i suoi sette figliuoli che tutti avean voluto rimanere a Venezia, e che il signor Giulio non lo aveano veduto da una settimana. Mi venne in capo di cercarne contezza al Corpo di Guardia del nostro sestiere, e là mi toccò strappare dalla bocca di un giovine studente la triste verità. Il mattino Giulio era accorso insieme a loro all'Arsenale, dove si distribuivano le armi, e già s'aveva cinta la sciabola, quando uno sconsigliato (diceva lo studente) s'era messo ad insultarlo; lí Giulio s'era volto contro di lui, quando dieci e cento altri avevano preso le parti dell'insolente, e fra gli urli gli oltraggi gli schiamazzi, mio figlio avea dovuto ceder al numero, abbastanza fortunato di salvar la vita. Ma alcuni dabbene che non volevano che quel giorno fosse macchiato di sangue fraterno lo avevano difeso colle loro armi. - Spero - continuò lo studente - che il suo signor figlio otterrà giustizia e che messe in chiaro le cose egli otterrà nella Guardia Nazionale quel posto che gli si compete come cittadino. E queste parole furono pronunciate in modo che significavano piú compassione al padre che rispetto e confidenza alla causa del figlio. Io avea capito anche troppo, anche quello che la pietà di quel giovane avea creduto opportuno di sottacere: fui tanto padrone di me da ritirarmi rasente il muro, rifiutando il soccorso di chi voleva porgermi il braccio. Ma giunto che fui a casa mi sopraggiunse un violento assalto di convulsione, prima ancora che potessi porgere quella notizia all'Aquilina, accomodando come avrei saputo meglio. Con un salasso, con qualche cordiale mi calmarono in modo che verso l'alba riebbi l'uso della parola; e allora, con quell'indifferenza che seppi maggiore, accagionai del mio male le fatiche esorbitanti del giorno prima, e aggiunsi che avea ricevuto notizie di Giulio e ch'egli era partito da Venezia per affari di qualche momento. Mia moglie mi credette, o finse credermi: ma verso mezzogiorno essendo capitata una lettera da Padova coi caratteri di Giulio essa l'aperse a mia insaputa, la lesse, e capitò poi nella mia camera con quel foglio in mano, gridando come una forsennata che le avevano ammazzato un altro figlio, ché certo lo avrebbero ammazzato!... La Pisana che in quei frangenti dimostrò assai maggior cuore che io non m'aspettassi, si mise intorno a sua madre, e poiché s'accorse che vaneggiava chiamò la cameriera, e la posero a letto anche lei. Poi dal capezzale di sua madre a quello del padre la vispa fanciulla fu per due buone settimane la piú assidua e affettuosa infermiera che si potesse immaginare. Aveva torto a dire che l'amore è maestro di tutto; anche le disgrazie insegnano assai. La lettera di Giulio era del seguente tenore: "Padre mio! Tu avevi ragione: contro dieci contro venti si può ribattere un insulto, non contro una moltitudine; e vi sono certi momenti nella vita d'un popolo che ne rendon terribili i decreti. Io portai la pena della mia albagia e del mio sconsiderato disprezzo. Non potrò piú vivere in quella patria che tanto amava, benché disperassi di vederla risorgere; essa si vendica del mio codardo abbattimento respingendomi dal suo seno appunto nell'istante che si raccoglie d'intorno tutti i suoi figliuoli a trionfo e a difesa. Padre mio, tu approverai, credo, la deliberazione d'un infelice che vuol ricompensare col proprio sangue la stima de' suoi fratelli. Vado a combattere, a morire forse, certo ad espiar fortemente un errore di cui pur troppo mi confesso colpevole. Conforta mia madre, dille che il rispetto al vostro nome come al mio m'imponeva di partire. Io non poteva rimanere in un paese dove pubblicamente fui chiamato traditore, spia! E dovetti ingoiar l'insulto e fuggire. Oh padre mio! la colpa fu grave; ma ben tremendo il castigo!... Ringrazio il cielo e la memoria delle tue parole, che mi preservarono dal ribellarmi al sopportar quella pena, consigliandomi di cercar la pace della coscienza in un glorioso pentimento, non il contentamento dell'orgoglio in una vendetta fratricida. Di rado avrete mie novelle perché voglio che il mio nome resti morto, finché non risuoni benedetto ed onorato sulle labbra di tutti. Addio addio; e mi consolo nella certezza dell'amor vostro del vostro perdono!". Volete che ve lo dica? La lettura di questa lettera mi rimise l'anima in corpo; temeva assai peggio, e mi maravigliai meco stesso che un animo superbo e impetuoso come quello di Giulio si fosse piegato a confessare i proprii torti e a cercarne una sí degna espiazione. Ebbi il conforto di compianger mio figlio in vece di maledirlo, e mi rassegnai del resto a quell'imperscrutabile giustizia che m'imponeva sí fieri dolori. Guarito che fui, sebbene lo stato di mia moglie fosse ancora tutt'altro che rassicurante, e la desse di quando in quando segni palesi di pazzia, ripresi il mio servizio come colonnello della Guardia; e poiché fu sparsa la novella della partenza di mio figlio e della lettera che egli m'aveva scritta, ebbi la soddisfazione di veder pietosi e riverenti verso la mia canizie forse coloro stessi che l'avevano vituperato. Tuttavia non ebbi di lui ulterior contezza fino al maggio seguente, quando ci capitarono da Brescia alcune sue righe. Argomentai dal sito che si fosse arruolato nei corpi franchi che difendevano da quel lato i confini alpestri del Tirolo e si vedrà in seguito come mi apponessi alla verità. Io lo benedissi dal fondo del cuore e sperai che il cielo avrebbe secondato le generose speranze del figlio e i supplichevoli voti del padre. Due giorni dopo che furono entrati in Venezia i sussidii napoletani sotto il comando del general Pepe, mio vecchio conoscente, due uffiziali di quelle truppe vennero a chieder di me. L'uno era Arrigo Martelli che, fino dal 1832 reduce dalla Grecia, s'era immischiato nel susseguente anno a Napoli nella congiura di Rossaroll, e d'allora in poi era sempre stato in prigione nel Castel Sant'Elmo. Mi presentava il suo valoroso amico, il maggiore Rossaroll stesso che dalla lunghissima prigionia aveva sí affievolita la vista, ma non affranta per nulla l'invitta forza d'animo. Fummo amici d'un tratto, e mi sfogai con essoloro de' miei vecchi e nuovi dolori. E cosí riandando poi le vecchie storie mi cascò per caso dalle labbra il nome di Amilcare Dossi, ch'era rimasto nel Regno e piú non avea dato sentore di sé. Il Martelli allora rispose che pur troppo egli ne sapeva la fine miseranda; che immischiato nella guerra abruzzese del ventuno, e carcerato, era giunto a fuggire, ma che poi passato in Sicilia, dopo una vita piena di sventure e di delitti, avea terminato sul patibolo arringando fieramente il popolo, e imprecando sui suoi carnefici la giustizia di Dio. Queste cose avvenivano nel milleottocentotrentasei, e furono incentivo alle turbolenze che agitarono l'isola, e scoppiarono l'anno dopo in violente sommosse all'occasione del cholera. - Povero Amilcare! - io sclamai. Ma già di meglio non isperava del suo destino; e mi rammaricai colla mia sorte perversa che perfino da amici da lungo tempo sepolti mi suscitava nuovi dolori. Cara del pari e non amareggiata da sí tristi evocazioni, mi fu indi a qualche mese la visita di Alessandro Giorgi, che tornava dall'America meridionale, vecchio, abbrustolito, storpio, maresciallo, e duca di Rio-Vedras. Col suo gran corpaccione insaccato in una sfarzosa giornea scarlatta, piena d'ori e di fiocchi, egli sembrava a dir poco un qualche grottesco antenato della regina Pomaré. Ma il cuore che batteva sotto quell'assisa indescrivibile era sempre il suo; un cuore di fanciullo insieme e di soldato. Vedendolo, non potei far a meno di instituire in cuor mio un confronto fra lui e il Partistagno: ambidue presso a poco della stessa indole, avviati alla stessa carriera; ma ohimè quanto diversi nella fine! Tanto possono su quei temperamenti ingenui e pieghevoli i consigli, gli esempi, le compagnie, le circostanze: se ne foggiano a capriccio sgherri od eroi. - Carlino dilettissimo - mi diss'egli dopo avermi abbracciato sí strettamente che alcune delle sue croci mi si uncinarono negli occhielli del vestito - come vedi ho piantato lí tutto, il ducato l'esercito e l'America per tornare alla mia Venezia! - Oh non dubitava: - soggiunsi io - quante volte udendo salire per la scala una pedata insolita ho pensato fra me: che sia Alessandro? - Ora contami un poco; qual fu la tua vita di tutti questi anni, Carlino? Gli narrai cosí di sfuggita tutte le mie vicende e la conclusione fu di presentargli la mia figliuola che allora appunto entrava nella stanza. - Non lo nego; hai sofferto delle grandi sciagure, amico mio; ma ci hai qui delle consolazioni massicce - (e stringeva fra le nocca dell'indice e del medio le guance rotondette della Pisana). - Con tutta la mia duchea non son arrivato a fare altrettanto: eppure ti giuro che tutte le belle brasiliane mi volevano per marito. Amico mio, se hai figliuoli in istato di prender moglie, affidali a me: guarentisco loro delle belle cicciotte e qualche milioncino di reali. - Grazie, grazie; ma come vedi si pensa ad altro ora che a maritarsi. - Eh! ti pigli soggezione di queste frottole? son cose finite subito, credilo a me!... Noi in America si fa due rivoluzioni all'anno, e ci resta anco il tempo di goder la villeggiatura e di curar la gotta alla stagione dei bagni. La Pisana stava lí con tanto d'occhi ammirando quello stampo singolarissimo di duca e di maresciallo; ond'egli la prese ancora soldatescamente per un braccio soggiungendo che si compiaceva molto di fermar ancora l'attenzione delle signorine veneziane. - Eh! ai tempi nostri, eh, Carlino?... Ti ricordi la contessa Migliana?... - Me ne ricordo sí, Alessandro; ma la contessa è morta da dieci o dodici anni in odore di santità, e noi strasciniamo assai malamente pel mondo i nostri peccati. - Oh quanto a me poi, se non avessi quest'arpia di gotta che mi assassina le gambe, vorrei ballare la tarantella... Oh Bruto, fratello mio!... eccone qui un altro dei ballerini!... Capperi, come ti sei fatto nero... Giuro e sacramento che se non fosse per la tua gamba di legno non ti avrei riconosciuto. Queste esclamazioni furono provocate dalla comparsa di Bruto che nel suo arnese di cannoniere civico faceva un'assai strana figura, degna da contrapporsi alla macchietta americana del Duca Maresciallo. Egli dal canto suo non risparmiò né braccia né polmoni e la Pisana, vedendo quei due cosí abbracciati e bofonchianti, crepava dalle grandi risate. Peraltro se furono buffi in camera, si diportarono assai gravemente fuori; e porsero un bell'esempio di obbedienza militare a parecchi giovani che volevano esser nati ammiragli e generali. Alessandro in onta al ducato e al maresciallato si accontentò del grado di colonnello; e Bruto tornò al suo cannone come appunto lo avesse abbandonato il giorno prima. La sua andatura zoppicante, e l'umore sempre allegro e burliero anche fra i razzi e le bombe tenevano in susta il coraggio dei giovani commilitoni. Tutti a quel tempo si facevano soldati, perfino il conte Rinaldo che molte volte, e lo vidi io, montò la guardia dinanzi al Palazzo con tanta serietà che pareva proprio una di quelle sentinelle mute che adornano il fondo scenico di qualche ballo spettacoloso. Quello, poveretto, che non arrivò a tempo di montar la guardia, fu il cavalier Alfonso Frumier. Cascato di cielo in terra dopo la morte della sua dama, non avea piú rappiccato il filo delle idee, e cercava cercava senza potervi mai riescire, quando un giorno entra il cameriere a raccontargli che in Piazza si grida: - Viva San Marco! - e che c'è la repubblica, e altre mille cose l'una piú strana dell'altra. Il vecchio gentiluomo si diede una gran palmata nella fronte. "Ci sono!" parve ch'ei dicesse; indi cogli occhi fuori della testa, e le membra convulse e tremolanti: - Orsù, presto! - balbettò. - Portami la toga... dammi la parrucca... Viva San Marco!... La toga... la parrucca, ti dico! Presto!... che si faccia a tempo! Al cameriere sembrò che il padrone stentasse a proferire queste ultime parole, e che vacillasse sulle gambe; stese le braccia per sostenerlo; ed egli stramazzò al suolo, morto per un eccesso di consolazione. Mi ricordo ancora ch'io piansi all'udir raccontare quella scena commoventissima, la quale spiegava nobilmente il torpore semisecolare del buon cavaliere. Intanto anche noi, senza essere cosí felici da morire, pure ebbimo le nostre consolazioni. La concordia d'ogni classe di cittadini, la serena pazienza di quell'ottimo popolo veneziano in ogni fatta di disgrazie, la cieca confidenza nel futuro, l'educazione militare che dietro i forti ripari della laguna aveva tempo di assodarsi, tutto dava a sperare che quello era il fine, o come diceva Talleyrand, il principio della fine. L'attività pubblica, occupando le menti d'ogni fatta di persone, impediva l'ozio, migliorando grandemente la moralità del paese, e non ultimo conforto era l'abbassamento dei tristi, i quali, a quel ridestarsi vittorioso della coscienza popolare, s'erano rimpiattati nelle loro tane, come ranocchi nel fango. Il dottor Ormenta era fuggito in terraferma, e morí, come seppi in appresso, per uno spavento fattogli da una scorreria di Corpi franchi. Non gli giovò per nulla lo aver portato nell'infanzia l'abitino di sant'Antonio, ed ebbe di grazia che lo accettassero in camposanto. Augusto Cisterna dimenticato e disprezzato da tutti rimase a Venezia; ma perfino i figliuoli vergognavano di portare il suo nome; ed Enrico, quello scapestrato, riconquistò qualche parte della mia stima col riportare uno sfregio traverso la faccia nella sortita di Mestre. Un giorno ch'io tornava da una visita al general Pepe, il quale sopportava volentieri le mie chiacchiere, la Pisana mi si fece innanzi con cera piú grave del solito, dicendo che aveva cose di qualche rilevanza da comunicarmi. Io risposi che parlasse pure, ed ella soggiunse che, siccome io le aveva promesso per marito un giovine di proposito e che valesse piú per la sostanza che per l'apparenza, credeva di aver trovato chi facesse all'uopo. - Chi mai? - le chiesi un po' trasecolato perché la furbetta non si staccava mai dal letto di sua madre che allora appena cominciava a guarire. - Enrico Cisterna! - sclamò ella gettandomi le braccia al collo. - Come?... quello... - No, non dite male di lui, padre mio!... dite quel giovine bravo e generoso, quel giovine che ad onta d'una educazione trasandata e d'una vita floscia e pettegola, ha saputo farsi tagliar il viso dalle sciabolate, e tornar una settimana dopo al suo posto come fosse nulla!... Oh io gli voglio bene piucché a me stessa, padre mio!... Adesso sí conosco cosa voglia dire il volersi bene!... Diceva di amarlo per compassione, quando di compassione non aveva certamente bisogno; ma ora che forse la meriterebbe, io l'amo per istima, l'amo per amore. - Sí, tutto va bene, benissimo; ma tua madre... - Mia madre sa tutto da questa mattina; ella unisce le sue preghiere alle mie... In quel momento si spalancò sgangheratamente la porta, ed Enrico stesso che stava in agguato nella stanza vicina mi si precipitò di là, supplicandomi di non volerlo allontanare prima che non avessi pronunciato la sua sentenza di vita o di morte. Egli mi stringeva le gambe, quell'altra furiosetta mi attorcigliava il collo colle mani, chi sospirava chi piangeva... fu un vero colpo da commedia. - Sposatevi, sposatevi nel nome di Dio! - sclamai raccogliendoli ambidue fra le braccia; e mai lagrime piú dolci non isgorgarono dagli occhi miei sopra esseri piú felici. Allora volli anche sapere se e come il loro amore avesse continuato a mia insaputa e dopo quella licenza formale intimata al giovine da Pisana per ordine nostro. Ma la fanciulla mi confessò arrossendo di aver scritto quel giorno due lettere invece di una, nella seconda delle quali raddolciva d'assai il crudo tenore della prima. - Ah traditorella! - le dissi - e cosí m'ingannavi!... cosí quella faccenda delle lettere continuò poi sotto il mio naso infino ad ora. - Oh no, padre mio - rispose la Pisana - non avevamo piú bisogno di scriverci. - E perché mo non avevate bisogno di scrivervi? - Perché... perché ci vedevamo quasi ogni sera. - Ogni sera vi vedevate?... Ma se fuori dell'inferriata io ho fatto inchiodare le imposte di quella maledetta finestra?... - Papà mio, scusatemi; ma poiché la mamma s'era addormentata, io scendeva pian piano ad aprirgli la porta della riva... - Ah sciagurati!... ah sfacciata!... in casa lo tiravi!... tiravi l'amante in casa!... Ma se di chiavi di quella porta non ce n'ha che una e l'aveva sempre io, vicino al letto!... - Appunto... papà mio; non andate in collera, ma tutte le sere quella chiave io ve la portava via, e la riponeva poi la mattina quando portava il brodo alla mamma. - Scommetto io che mi giocavi questo bel tiro nel darmi il bacio della buona notte e quello della sveglia! - Oh papà, papà!... siete tanto buono!... perdonateci! - Cosa volete?... Vi perdonerò, ma col patto che nessuno ne sappia nulla; non vorrei che ne cavassero un libretto per qualche opera buffa. Enrico si stava tutto vergognoso, mentre la sfacciatella mi confessava tra supplichevole e burlesca i suoi tradimenti; ma io gli diedi del pugno sotto il mento. - Va' là, va' là, non farmi l'impostore! - gli dissi - e prenditi la tua sposa, giacché te l'hai guadagnata a Mestre. Infatti egli non fu zoppo ad abbracciarla, e andammo a terminar l'allegria nella camera dell'Aquilina. Tre settimane dopo Enrico era mio genero, ma gli imposi il sacrifizio di rimanere in casa nostra, perché non voleva essere burlato e pagarne anche le spese. I miei vecchi amici onorarono tutti il pranzo di nozze, e fu provato anche una volta che lo stomaco non conta gli anni quando la coscienza è tranquilla. Quello, credo, fu il colmo delle nostre gioie. Successero poi i brutti giorni, i disastri di Lombardia, gli interni sgomenti, le lungherie ubbriache ancora di speranze ma volgenti sempre al peggio. Eh! ai vecchi non la si dà ad intendere tanto facilmente! Quell'inverno fra il quarantotto e il quarantanove fu pregno di lugubri meditazioni: non credeva piú alla Francia, non credeva all'Inghilterra, e la rotta di Novara piú che un improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi timori. Si combatteva omai piú per l'onore che per la vittoria; sebbene nessuno lo diceva per non scemar agli altri coraggio. Dopo le pubbliche sciagure cominciarono per noi i lutti privati. Un giorno vennero a raccontarmi che il colonnello Giorgi e il caporal Provedoni, feriti sul ponte da una bomba, erano stati trasportati allo Spedale militare, donde per la gravità della ferita non era possibile traslocarli. Accorsi piú morto che vivo; li trovai giacere su due lettucci l'uno accanto all'altro, e parlavano dei loro anni giovanili, delle loro guerre d'una volta, delle comuni speranze come due amici in procinto di addormentarsi. E sí che respiravano a fatica, perché avevano il petto squarciato da due orribili piaghe. - La è curiosa! - bisbigliava Alessandro. - Mi par d'essere nel Brasile! - E a me a Cordovado sul piazzale della Madonna! - rispose Bruto. Era il delirio dell'agonia che li prendeva; un dolcissimo delirio quale la natura non ne concede che alle anime elette per render loro facile e soave il passaggio da questa vita. - Consolatevi! - diss'io trattenendo a stento le lagrime. - Siete fra le braccia d'un amico. - Oh, Carlino! - mormorò Alessandro. - Addio, Carlino! Se vuoi che faccia qualche cosa per te, non hai che a parlare. L'Imperatore del Brasile è mio amico. Bruto mi strinse la mano perché non era affatto fuori di sé; ma indi a poco tornò a svariare anch'esso, e ambidue svelavano in quelle ultime fantasticaggini dell'anima tanta bontà di cuore e tanta altezza di sentimenti, che io piangeva a cald'occhi e mi disperava di non poter trattenere i loro spiriti che si alzavano al cielo. Tornarono in sé un momento per salutarmi, per salutarsi a vicenda, per sorridere e per morire. La Pisana, l'Aquilina ed Enrico, che vennero indi a poco, mi trovarono piangente e genuflesso fra due cadaveri. Il giorno stesso moriva nel campo dell'assedio sotto Mestre il general Partistagno. Aveva, lontani di là poche miglia, numerosi figliuoli de' quali nessuno poté consolare i suoi ultimi momenti. Dopo aver chiuso gli occhi a due tali amici mi parve che non era un peccato desiderare la morte; e mi levai col pensiero alla mia Pisana che forse mi contemplava dall'alto dei cieli, domandandole se non era tempo ch'io pure passassi a raggiungerla. Un'intima voce del cuore mi rispose che no: infatti altri tristissimi uffici mi restavano da compiere. Pochi giorni appresso il conte Rinaldo fu colto dal cholera che già cominciava la sua strage massime nel popolo affamato. Le bombe avevano accalcato la gente nei sestieri piú lontani da terraferma, ed era uno spettacolo doloroso e solenne quella mesta pazienza sotto a tanti e cosí mortiferi flagelli. Il povero Conte era già agli estremi quand'io giunsi al suo capezzale; sua sorella, incurvata dagli anni e dai patimenti, lo vegliava con quell'impassibile coraggio che non abbandona mai coloro che credono davvero. - Carlino - mi disse il moribondo - ti ho fatto chiamare perché nei frangenti in cui mi trovo mi risovvenne della mia opera che corre pericolo di rimaner imperfetta. Or dunque l'affido a te; e voglio che tu mi prometta di stamparla in quaranta fascicoli nell'egual carta e formato del primo!... - Te lo prometto - risposi quasi con un singhiozzo. - Ti raccomando la correzione - mormorò il morente - e... se giudicassi opportuno... qualche cambiamento... Non poté continuare, e morí guardandomi fiso, e raccomandandomi di bel nuovo coll'ultima occhiata quell'unico frutto della sua vita. Io m'adoperai perché gli fossero resi onori funebri convenienti al suo merito; e raccolsi in casa mia la signora Clara che afflitta piucchemai dalla sua paralisi, era quasi impotente a muoversi da sola. Ma assai breve ci durò il contento di prestarle le cure piú assidue ed affettuose che si potessero. Spirò anch'ella il giorno della Madonna d'agosto, ringraziando la Madre di Dio che la chiamava a sé nella festa della sua assunzione al cielo, e benedicendo Iddio perché i voti ch'ella avea pronunciati cinquant'anni prima per la salute della Repubblica di Venezia, e che le aveano costato tanti sacrifizi, avessero ricevuto un bel premio sul tramonto della sua vita. Io pensai allora a Lucilio; e forse vi pensava anch'ella con un sorriso di speranza; perché assai confidava nelle proprie preghiere, e piú a mille doppi nella clemenza di Dio. Ai ventidue d'agosto fu firmata la capitolazione. Venezia si ritrasse ultima dal campo delle battaglie italiane, e come disse Dante: "A guisa di leon quando si posa". Ma un ultimo dolore mi rimaneva; quello di vedere il nome di Enrico Cisterna sulla lista dei proscritti. Luciano ch'io aveva lungamente aspettato durante quei due anni s'era dimenticato affatto di noi; di Giulio aveva ricevuto una lettera da Roma nel luglio decorso, ma i disastri successivi mi lasciavano molto dubbioso sulla sua sorte; la Pisana avanzata nella gravidanza s'avviava col marito ai martirii dell'esiglio; partí con loro, sopra un bastimento che salpava per Genova, Arrigo Martelli che avea seppellito a Venezia il povero Rossaroll... Quanti sepolcri e quanti dolori viventi e lagrimosi sopra i sepolcri!... Restammo soli io e l'Aquilina oppressi costernati taciturni; simili a due tronchi fulminati in mezzo a un deserto. Ma la dimora di Venezia ci diventava ogni giorno piú odiosa e insopportabile, finché di comune accordo ci trapiantammo in Friuli, nel paesello di Cordovado, in quella vecchia casa Provedoni, piena per noi di tante memorie. Là vissimo un paio d'anni nella religione dei nostri dolori; infine anch'essa la povera donna fu visitata pietosamente dalla morte. E rimasi io. Rimasi a meditare, e a comprendere appieno il terribile significato di questa orrenda parola: - Solo!... Solo?... ah no, io non era solo!... Lo credetti un istante; ma subito mi ravvidi; e benedissi fra le mie angosce quella santa Provvidenza che a chi ha cercato il bene e fuggito il male concede ancora, supremo conforto, la pace della coscienza e la melanconica ma soave compagnia delle memorie. Un anno dopo la morte di mia moglie ebbi la visita tanto lungamente sperata di Luciano e di tutta la sua famiglia: aveva due ragazzetti che parlavano meglio assai il greco che l'italiano, ma tanto essi che la loro madre mi presero a volere un gran bene, e fu per tutti assai doloroso il momento della separazione la quale Luciano avea fissato al sesto mese dopo il loro arrivo, e non fu possibile ottenere la protrazione d'un giorno. Egli era cosifatto; ma per quanti difetti abbia, gli è pur sempre mio figliuolo, e lo ringrazio di essersi ricordato di me, e penso con profondo dolore che non devo mai piú rivederlo. Spero che la mia famiglia prospererà sempre nella sua nuova patria; ma nel ricordarmi quei due vezzosi nipotini non posso fare a meno di sclamare: perché non son essi Italiani! La Grecia non ha certo bisogno di cuori giovani e valorosi che la amino!... Giulio dopo la caduta di Roma mi avea dato novella di sé da molte stazioni del suo esiglio: da Civitavecchia, da Nuova York, da Rio Janeiro. Egli era esule pel mondo, senza tetto, senza speranza, ma superbo di aver lavato col sangue la macchia dell'onor suo, e di portar degnamente un nome glorioso ed amato. Ma poi tutto ad un tratto cessarono le lettere e soltanto ne ebbi contezza dai giornali, i quali lo nominavano fra i direttori di una nuova Colonia Militare Italiana che si formava nella Repubblica Argentina, nella provincia di Buenos Aires. Ascrissi adunque a infedeltà postali la mancanza de' suoi scritti, e attesi pazientemente che il cielo tornasse a concedermi quella consolazione. Ma un'altra non meno desiderata me ne fu concessa a quel tempo; voglio dire il ritorno in patria della Pisana e d'Enrico, con una vaga bamboletta che portava il mio nome e dicevano somigliasse a un ritratto fattomi a Venezia quand'era segretario della Municipalità. Allora solamente, coi miei figliuoli al fianco e colla Carolina sui ginocchi, mi sentii rivivere. Fu come una tiepida primavera per una pianta secolare che ha superato un rigidissimo inverno. Allora solamente, dopo quattr'anni ch'era tornato a Cordovado, ebbi il coraggio di visitar Fratta, e là passai coi nipoti del vecchio Andreini, già padri essi pure di numerosa figliuolanza, l'ottantesimo anniversario del mio ingresso in castello, quando vi era giunto da Venezia, chiuso in un paniere. Dopo il pranzo uscii soletto per rivedere almeno il sito dove già era stato il famoso castello. Non ne rimaneva piú traccia; solamente qua e là alcuni ruderi fra i quali pascolavano due capre, e una fanciulla canterellava lí presso spiandomi curiosamente e sospendendo di filare. Ravvisai lo spazio del cortile e in mezzo ad esso la pietra sotto la quale avea fatto seppellire il cane da caccia del Capitano. Forse era l'unico monumento delle mie memorie che restasse intatto; ma no, m'inganno; tutto ancora in quei luoghi diletti mi ricordava i cari anni dell'infanzia e della giovinezza. Le piante la peschiera i prati l'aria ed il cielo mi menavano a rivivere in quel lontano passato. Sull'angolo della fossa sorgeva ancora alla mia fantasia il negro torrione, dove tante volte aveva ammirato Germano che caricava l'orologio; rivedeva i lunghi corritoi pei quali Martino mi conduceva per mano all'ora di coricarsi, e la sua romita cameretta dove le rondini non avrebbero piú sospeso il loro nido. Mi sembrava veder passare sullo sterrato o Monsignore col breviario sotto l'ascella, o il grandioso carrozzone di famiglia con entro il Conte la Contessa e il signor Cancelliere, o il cavalluccio di Marchetto sul quale soleva arrampicarmi. Vedeva capitare ad una ad una le visite del dopopranzo, monsignore di Sant'Andrea, Giulio Del Ponte, il Cappellano, il Piovano, il bel Partistagno, Lucilio; udiva le loro voci tumultuare nel tinello intorno ai tavolini da gioco, e la Clara leggicchiare a mezza bocca qualche ottava dell'Ariosto sotto i salici dell'ortaglia. Succedevano poi gli inviti clamorosi de' miei compagni di trastulli; ma io non rispondeva loro, e ritraevami invece soletto e beato a giocolare colla Pisana sul margine della peschiera. Oh con qual religiosa mestizia, con quanto dilicato tremore mi accostava a questa memoria che pur palpitava in tutte le altre, e cresceva ad esse soavità e melanconia!... Oh Pisana, Pisana! quanto piansi quel giorno; e benedico te, e benedico Iddio che le lagrime dell'ottuagenario non furono tutte di dolore. Mi ritrassi a notte fatta da quelle rovine; le passerette sui pioppi vicini cinguettavano ancora prima di addormentarsi come nelle sere della mia infanzia. Cinguettavano ancora; ma quante generazioni si erano succedute da allora anche in quella semplice famiglia di augelli!... Gli uomini vedono la natura sempre uguale, perché non si degnano di guardarla minutamente; ma tutto cangia insieme a noi; e mentre i nostri capelli di neri si fanno canuti, milioni e milioni d'esistenze hanno compiuto il loro giro. Uscii dal mondo vecchio per tornare nel nuovo; e vi rimisi il piede sospirando; ma il bocchino sorridente e le mani carezzevoli della Carolina mi pacificarono anche con esso. Il passato è dolce per me; ma il presente è piú grande per me e per tutti. L'anno dopo fu triste assai per la notizia che ricevetti della morte di Giulio; ma a quel dolore ineffabile veniva compagno un conforto, in due figliuoletti ch'egli mi lasciava. Sua moglie era morta anch'essa prima ch'io sapessi d'averla per nuora. Il general Urquiza, nell'adempiere alla volontà del defunto col mandare a me i due orfanelli e tutte le sue carte, mi scrisse una bella lettera nella quale testimoniava la gran perdita che la Repubblica Argentina avea fatto per la morte del colonnello Altoviti. La Pisana diventò madre amorosa de' suoi due nipotini, a' quali un dilicato pensiero di Giulio aveva imposto i nomi di Luciano e di Donato: i miei due figliuoli uno assente e l'altro morto, rivivevano in quelle due care creaturine e la Pisana stessa s'incaricò di risuscitare il terzo, generando un fratello alla Carolina che fu chiamato Giulio. Allora io compresi appieno quanta cagione di dolcezza e di speranza sia in quel rigoglio di vita nuova e giovanile che circonda gli anni cadenti della vecchiaia. Non è tutta immaginazione quella somiglianza di piaceri tra la gioventù vissuta per sé e amata e protetta negli altri. La famiglia forma di tutte le anime che la compongono quasi un'anima collettiva; e che altro infatti son mai le anime nostre se non memoria, affetto, pensiero e speranza? - E quando cotali sentimenti sono comuni in tutto od in parte, non si può dir veramente che si vive l'uno nell'altro? Cosí l'umanità s'eterna e si dilata come un solo spirito in quei principii immutabili che la fanno pietosa, socievole e pensante. La Pisana avea dato ragione al mio pronostico, e s'era fatta una cosí buona ed amorosa madre, che invero mi pareva un sogno quel colloquio avuto con lei dieci anni prima a proposito delle letterine profumate. Il merito di cotal conversione era in gran parte suo; ma le dure circostanze per le quali eravamo passati, e l'indole robusta ed assennata del marito non ci furono per nulla. Guardate se io dovea rendere un omaggio sí giusto a quell'Enrico che mi sembrava proprio per l'addietro un capo da galera! Non malediciamo a nulla, figliuoli miei, neppure alle disgrazie. Dicono i Francesi che a qualche cosa sono buone anch'esse, e piucché a tutto, a procurare quella felicità certa e duratura che s'insalda sulla fortezza dell'animo. Fra le carte di Giulio mandatemi dall'America era anche il suo giornale indirizzato a me, e che può essere una prova di quanto ora vi ho detto. Io ci piansi sopra assai su quelle pagine; ma figuratevi! sono suo padre. Per voi basterà che impariate ad amarlo e lo rimeritiate con un postumo suffragio dell'ingiustizia che vivo egli ha saputo cosí nobilmente sopportare. Eccovelo trascritto, che non vi tolgo né vi aggiungo sillaba. CAPITOLO VENTESIMOTERZO Nel quale si contiene il giornale di mio figlio Giulio, dalla sua fuga da Venezia nel 1848, fino alla sua morte in America nel 1855. Dopo tanti errori, tante gioie, tante disgrazie, la pace della coscienza mi rende dolce la vecchiaia; e fra i miei figli e i miei nipotini, benedico l'eterna giustizia che m'ha fatto testimone ed attore d'un bel capitolo di storia, e mi conduce lentamente alla morte come ad un riposo ad una speranza. Il mio spirito, che si sente immortale, si solleva oltre il sepolcro all'eternità dell'amore. Chiudo queste Confessioni nel nome della Pisana come le ho cominciate; e ringrazio fin d'ora i lettori della loro pazienza. Tonale, giugno 1848 "La superbia fu giudicata il capitale dei peccati capitali. Chi diede questa sentenza conobbe per certo l'umana natura. Ma vi sono castighi che sorpassano in terribilità qualunque gravezza di colpa. Quello che soffersi io non ha paragone in qualunque genere di pena: i tiranni della Sicilia non ne seppero inventare di piú atroci. È vero; fui orgoglioso. Disprezzai chi non era forse né meno veggente né meno coraggioso di me; m'aggirai fra essi colla testa ritta e colla frusta in mano come fra uno sciame di conigli; diedi ragione se non al diritto certo alla forza dei padroni, e risi di vederli calpestati perché non li credeva possibili ad una riscossa. Povero vanerello, che pretendeva conoscere il vigore dei muscoli dalla morbidezza della pelle, e giudicava di cavalli nella stalla! Sorse il giorno che il derisore fu lo scherno dei derisi; e dovette chinar il capo sotto la punizione piú tremenda che possa affliggere il cuore d'un uomo, sotto un oltraggio immeritato, ma giusto. "È assurdo, lo veggo; ma lo toccai con mano, e bisogna rassegnarsi. Felice me che non m'ingroppai nei legami insolubili dell'orgoglio, ma rispettai la giustizia nella stessa ingiustizia, preferendo di nutrirmi col pane del pentimento piuttostoché col sangue dei fratelli!... Traditore e spia! Queste orrende parole mi rintronano ancora le orecchie!... Oh era allora il momento di sollevare ai numi il voto infernale di Nerone. Che tutto il genere umano avesse un sol capo per reciderlo: che un silenzio pieno di rovine di tenebre di strage succedesse a quell'accusa nefanda; che io potessi sorgere Nemesi implacabile a cantar l'inno della vendetta e dello sterminio! Ma i numi non ascoltano i voti del superbo; essi versano l'ambrosia nei calici eterni per immortalare gli eroi, e stringono nella destra il fulmine infallace, divorator dei Titani. Una voce divina, che mi parlava in cuore ma non sorgeva certo dal cuore briaco d'ira e d'orgoglio, mi riscosse le intime fibre dell'anima. "Sí! io fui traditore che conculcai la cervice degli oppressi, e uccisi la fede per mettere in suo luogo lo scherno e il disprezzo! Fui traditore che risi della debolezza degli uomini, anziché piangere con essi e aiutarli a francarsi! Fui lo spione codardo che denunzia delitti immaginari, e viltà sognate, per non vergognar di se stesso dinanzi a coloro ch'egli accusa!... Coraggio! Il capo nella polvere, superbo! Adora quelli stessi che ieri hai vituperato!... Accetta umilmente il vitupero che si paga oggi degli oltraggi ieri sofferti! Vendicati se puoi, imitandoli grandemente!... "Queste furono le parole che volsi fremendo a me stesso; e mentre tumultuavano sitibondi di sangue i consigli dell'ira, l'umiltà del pentimento volse i miei passi alla fuga. Oh io ti benedico e ti ringrazio, santa divina improvvisa umiltà! Io non dispero piú dell'umanità che sa armarsi di un cosí subito valore contro le proprie passioni. Ti benedico, o soave dolore dell'espiazione, o sublime sacrifizio che mi abbassasti la fronte per risollevare l'animo mio!... Non ho piú famiglia, né nome. Sono uno schiavo della penitenza che ricomprerà i proprii diritti d'uomo di cittadino di figlio a prezzo della sua vita. E quando i fratelli leggeranno in lettere di sangue le virtù del fratello, allora s'apriranno le braccia, e sorgeranno mille voci a festeggiare il ritorno dell'uomo redento. Nessuno qui mi conosce; mi chiamano Aurelio Gianni, un trovatello dell'umanità, un guerriero della giustizia, e nulla piú. Cerco i posti piú arrischiati, combatto le scaramucce piú audaci; ma il cielo mi vede e mi protegge, il cielo che mi darà vita bastevole a rigenerare il mio nome." Tonale, luglio 1848 "Suonano tristissime voci; il nostro esercito è in volta; noi sentinelle perdute fra le gole dei monti, difendiamo il confine che ci fu affidato, né chiediamo oltre. Battaglie continue ma senza gloria, patimenti lunghi e ignorati, veglie di mesi interi interrotte da sonni sospesi e da brevi avvisaglie. Cotale era il tirocinio che mi conveniva. Dove la speranza della gloria e l'emozione acuta del pericolo compensano ad usura il sacrifizio della vita, non è il luogo di chi cerca penitenza e perdono. Ma qui sopra queste erte montagne che si avvicinano al cielo, in mezzo ai burroni profondi e ai fragorosi torrenti, qui vengono i peccatori a cercar Iddio nella solitudine, qui salgono i soldati della libertà alla redenzione del martirio. "Dopo aver combattuto nelle prime file d'una giornata campale, dopo aver piantato uno stendardo sul bastione nemico, dopo aver ributtato la carica dei lancieri, e gridato l'urlo della vittoria sui cannoni inchiodati, chi sarà tanto prosuntuoso da dire: io ho ben meritato dalla patria, datemi la corona di quercia? "La ricompensa è nella grandezza, nella fama dell'impresa. Ringraziate, o vincitori, la patria che vi diede occasione di mostrarvi valorosi, e di pregustare la gioia del trionfo. Non chiedetele corone, ma porgete riverenti i vostri trofei. Le corone sono per coloro che senza l'applauso degli spettatori, senza la speranza della gloria, senza l'avidità del trionfo combattono pazienti e ignorati. Posterità servile ed ingrata che da tanti secoli t'imbratti i ginocchi dinanzi alle statue di Cesare e d'Augusto, sorgi una volta, e incurvati ad adorare le larve sanguinose dei Galli e dei compagni d'Arminio. Non la fama ma la virtù comanda gli ossequi; la magnanimità che s'asconde sotto le ombre pugnaci delle selve eclissa col suo splendore quella che passeggia tronfia e baldanzosa le strade di Roma. Anco una volta gli uomini sono ingiusti: ma Dio, signore del premio e del castigo, siede nella coscienza." Lugano, agosto 1848 "Pur troppo era vero. Eccoci ora fuggiaschi senza sconfitta, come fummo prima vincitori senza trionfo. Ci avevano annunziato una guerra di disperazione e di sterminio; invece un passo dietro l'altro, oggi valicando un fiume domani una montagna, il volere dei capi ci ritrasse a questi alpestri ripari. Suonarono al solito voci di tradimento: tradimenti involontari come il mio, di uomini che non disprezzarono, ma stimarono troppo. Ma è questo il consueto conforto dell'umana debolezza di scaricarsi delle proprie colpe sulle spalle altrui. Intanto io che aveva sperato un assalto disperato e glorioso, una morte o un trionfo che compissero la redenzione del mio nome, eccomi riconfitto alla pazienza dei taciti sacrifizi e delle lunghe aspettazioni. Deggio attendere da un dolore senza fine quello che sperava da una sùbita vittoria. Espiazione anche questa. Lo ripeto; il sacrifizio, fosse pur quello della vita, non ricompera nulla senza la prova della costanza. Finire non è redimere; fra compassione e gratitudine corre l'ugual tratto che tra colpa perdonata e perdono meritato. Soffrirò dunque ancora colla ferma coscienza che la Provvidenza mi apre la miglior via a provare con argomenti invincibili se non la giustizia certo la purezza del mio passato. Nei patimenti, vivaddio, io non ho bisogno di ritemprarmi; ma avrò la forza di tacere, finché mi venga incontro spontanea la stima dei miei fratelli." Genova, ottobre 1848 "Era impaziente di combattere, non per giovanile baldanza ma perché temeva che mi fosse apposto a infingardaggine il forzato riposo. Ma qui pure si va per le lunghe, e forse non hanno torto. Si ricordino che chi presume troppo è chiamato poi traditore, al pari di chi fugge nel momento del pericolo. Grande stupidità è la nostra di misurare la vita dei popoli da quella degli individui; i popoli devono, perché possono, aspettare; lo possono perché hanno dinanzi non venti trenta o cinquant'anni, ma l'eternità. Io stesso fin'ora avrei voluto sacrificare la sorte della nazione alla mia smania di menar le mani; ma non ricadrò in questo errore che par generoso ed è pazzo disperato vile. Finché i nostri desiderii non concorderanno appunto colla moderazione e coll'opportunità della vera sapienza le imprese cadranno o in eccesso o in difetto. Impariamo ad aspettare pazientemente per non aspettar lungamente. Cosí negli avvenimenti che consentono la deliberazione; ma quando il dado è gittato, quando l'onore è in ballo, si gettino allora peritanze scrupoli timori. Allora è concesso anzi imposto di mutarsi da soldati in vittime; allora son proibiti i postumi rincrescimenti, le scambievoli rampogne; allora il sacrifizio è una necessità non una speranza. Dove si accenda la prima miccia io volerò colla mia carabina: non affretterò mai lo scoppio, ma farò mio il pericolo. "Qui alcuni esuli delle provincie venete, compagni di scuola o di stravizzo, credettero riconoscermi. Ghignarono fra loro senza peraltro affrontarmi; ma al giorno dopo li rividi, e diedero segnali piuttosto di stupore d'ammirazione che di sprezzo. Pareva che avessero indovinato il mio disegno, e lo rispettassero. Seppi dappoi che aveano chiesto di me ad alcuni commilitoni, i quali avevano detto loro il nome col quale mi conoscevano, e fatta ampia testimonianza del valore dimostrato nelle fazioni montane del Tirolo e del Varesotto. Lí fra quei profughi era sorto un diverbio; ché alcuni affermavano ch'io era Giulio Altoviti ed altri no; e taluno dei primi mormorava della dubbiezza della mia fede, e dell'obliqua condotta, ma i miei compagni d'arme sorsero fieramente a difendermi, dicendo che Altoviti o Gianni, io era per fermo un valoroso soldato, un uomo integro e leale. "Giuseppe Minotto, uno di quei veneziani, approvò le parole di questi e persuase i suoi che se io aveva scelto quella via per rintegrarmi nella stima de' miei concittadini bisognava sapermene grado, e che l'aver io risposto all'insulto con imprese forti e magnanime era già validissimo indizio a ritenermi innocente. Io ringrazio questo generoso a me appena noto per figura, di aver innalzato la voce a difendermi fra molti che pochi mesi fa mi si professavano amici. Infatti le sue parole poterono assai, e ad esse devo il guardingo ma nobile rispetto di cui son ora circondato. Cercherò di rendermene degno e saprò grado alla Provvidenza di questi primi conforti ch'ella mi porge a proseguire animoso il mio intento. "Due giovani Partistagno che hanno combattuto valorosamente a Vicenza nell'aprile decorso, erano il primo giorno i miei piú accaniti detrattori; ma in seguito mi spiavano piú vogliosamente degli altri, e pareva quasi bramassero di rappiccare la vecchia amicizia. A me non istava correr loro incontro; li aspettai. Ma oggi sento che partirono per Torino, ove si stanno ordinando alcuni reggimenti lombardi. Anch'io ebbi il ticchio di accorrer colà, e d'inscrivermi in quelle schiere; ma la modestia m'impose nuovamente di non far pompa del mio valore; fors'anco fui consigliato da un resticciuolo d'orgoglio a non esporre la mia penitenza agli sguardi dei conoscenti e degli amici. Parrebbe ch'io chiedessi il perdono delle colpe che non ho; mentre voglio meritarlo di quelle che ho, e pretendo insieme riparazione delle altre iniquamente imputatemi." In mare, dicembre 1848 "Per te, padre mio, per te soltanto io mi tolsi di scrivere questi cenni della mia vita. Acciocché se morissi lontano, tu abbia in quelli una prova che al tutto non fui indegno del nome che porti, e ch'io riprenderò nel sepolcro, o tornando ribenedetto fra le tue braccia. Oh come nei primi giorni d'esiglio mi pesò grave sul capo il sospetto della tua maledizione! Ma tu hai creduto alla veracità delle parole che ti scrissi da Padova; non badando alla mia vita dissoluta e superba t'affidasti alla costanza dei nuovi proponimenti, e appena puoi conoscere il luogo di mia dimora ecco che mi giungono da te parole di lode, di conforto, di benedizione! Oh come ho baciato riverente e commosso quel foglio che mi recava la certezza dell'amor tuo, della tua stima! Ti ringrazio, o padre mio, perché ti sei fatto solidale e rivendicatore dell'onor mio presso i nostri concittadini. Certo che le tue parole meglio che le mie opere varranno a redimermi dal loro disprezzo; ma lascia tuttavia ch'io combatta e vinca da me solo, finché possa non ricompensare ma esser degno della tua tenerezza. Ho baciato e ribaciato la tua lettera, ho accolto con dovuta gratitudine la tua benedizione, e ieri nell'imbarcarmi ne rileggeva il tenore e mi piovevano dagli occhi le lagrime. "- Eh, eh! giovinotto - disse un vecchio marinaio nel darmi braccio a salire sul cassero. - Consolatevi, passerà. Lontan dagli occhi, lontan dal cuore; cosí è l'amore! "Egli credeva che una lettera dell'amante mi facesse piangere a quel modo; credeva che avessi lasciato nella mia patria qualche mesta donzella che sospirasse al mio ritorno forse coll'anello della promessa nel dito!... Felici illusioni!... Che altro ho io lasciato a Venezia se non il disprezzo del mio nome, e, Dio lo volesse appieno, dimenticanza? Voi solo, padre mio, e mia madre, e mia sorella, serberete memoria non disdegnosa del povero Giulio, e l'anima mia, non beata d'altro che d'amar voi, si consacra fin d'ora a rendere non iniqua la vostra bontà!" Roma, 9 febbraio 1849 "Città eterna! Spettro immenso e terribile! Gloria, castigo, speranza d'Italia! Innanzi a te tacciono le ire fraterne, come dinanzi alla giustizia onnipresente. Tu sollevi la voce, e tacciono intenti i popoli dalle nevi dell'Alpi alle marine dell'Ionio. Arbitra sei del passato e del futuro. Il presente s'interpone come un punto, nel quale tu non puoi capire con tanta mole di memorie e di speranze. Oggi, oggi stesso un grande nome risorse dall'obblio dei secoli; e l'Europa miscredente e contraria non avrà coraggio di ripeterlo col solito ghigno: lo spirito trabocca dalle parole, sia rispetto o paura egli vi costringerà, tutti quanti siete, a pronunciarla con labbra tremanti. Ma ogni respiro di Roma è espiato con qualche vittima sanguinosa. Nacque dal fratricidio, la liberò il sangue di Lucrezia, e Virginia scannata e le recise teste dei Gracchi bruttarono le piú belle pagine della sua storia. Il pugnale di Bruto atterrò un gigante, e aperse la strada ai nipoti, striscianti nel fango. Ed anche ora proviene da un assassinio l'audacia del grande conato. Ne giudichi Iddio. Certo anche la coscienza ha i suoi momenti d'ebbrezza che non offuscano per altro l'immutabile santità delle leggi morali. Ma rifiuteremo noi gli effetti per la turpitudine della causa? E chi avrà il diritto di chieder conto ad un'intera nazione del delitto d'un uomo? Le storie vanno piene di simili esempi, e forse nell'ordine immenso della Provvidenza le grandi colpe sono compensate da piú grandi e generali virtù. Se fossimo anco destinati a nuove disgrazie, a funeste cadute, non accuserò il coltello d'un assassino della rovina d'un popolo. Dio punisce ma non vendica. Altre colpe non ancora scontate vorranno altre lagrime; e l'assassino nasconderà nelle tenebre i suoi rimorsi, e noi mostreremo alteramente alla faccia del sole il capo coperto di cenere e gli occhi splendenti di speranza." Roma, giugno 1849 "Aveva giurato di non aggiungere una parola, se non avessi a scrivere la mia redenzione. Eccomi finalmente... Ho ripreso il mio nome, l'onor mio! La mia famiglia la mia patria saranno contente di me, ed io godo nel vergar queste righe di sentir il dolore della ferita, e di veder la pagina imbrattarsi di sangue. "V'hanno nella mia legione alcuni giovani padovani che altre volte conobbi. Costoro mi sopportavano assai malvolontieri, e credo mi designassero alla diffidenza dei compagni; ma io fingeva non m'accorgere di nulla, aspettando che i fatti parlassero per me. Era tempo, giacché temeva che a lungo andare avrei perduto ogni pazienza. "Da dieci giorni i Francesi hanno aperta la trincea contro San Pancrazio. Gli assalitori ingrossavano sempre piú; ma iersera s'interpose una specie di tregua e i nostri ne approfittarono per dar riposo ai soldati. Soltanto una mezza coorte custodiva disposta in catena quel tratto minacciato dei bastioni; io stava in guardia dietro una gabbionata costrutta pochi giorni innanzi e già ridotta a mucchi dal tempestar delle bombe. La notte era profonda; e si vedevano da lontano i fuochi del campo d'Oudinot. Tutto ad un tratto io sentii giù nel fosso uno scalpitar di pedate; pareva che le scolte sonnecchiassero, giacché non diedero alcun segno; io gridai "all'armi!", e prima che mi venisse intorno una dozzina di legionari, già una colonna di cacciatori francesi guadagnava per la breccia il sommo del bastione. Mi ricordai di Manlio e solo colla mia baionetta ributtai i primi; l'altura della posizione mi favoriva e fors'anco il comando che avevano gli assalitori di non sparare se non si fossero prima stabiliti sul bastione. "Infatti essi non potevano offendermi di punta dal sotto in su, e indietreggiando misero qualche scompiglio nella prima fila che disordinò del pari la seconda. Credevano forse che un maggior numero di difensori guernisse il muro e vi fu un istante ch'io credetti d'aver bastato da solo a sgominare l'assalto. Ma in quella l'officiale che comandava la fazione, come spazientito del timore de' suoi, balzò innanzi e giunse sul bastione gridando e incoraggiandoli colla spada sguainata; gli altri ripresero animo e lo seguirono tosto. "Io non sapeva che fare; tornai a urlare: "all'armi! all'armi!", con quanto fiato aveva in corpo, e mentre alcuni legionari accorsi al grido si opponevano all'irruzione della colonna, io mi slanciai sull'officiale e prima che avesse tempo di adoperare la sciabola lo disarmai; egli aveva alla cintola una pistola, me ne scaricò un colpo a bruciapelo che non mi portò via fortunatamente altro che la falange d'un dito. "Ma intanto i difensori spesseggiavano; il bastione rimbombava di fucilate, gli uomini accorrevano ai cannoni, e i cacciatori, divisi dal loro capo ch'io aveva fatto prigioniero, furono respinti nel fosso. In pari tempo un altro assalto minacciava l'altra estremità della cortina, ma parte dei nostri ebbe tempo di accorrere colà, finché arrivarono gli aiuti delle caserme; e si seppe poi da alcuni prigionieri che tutto in quella notte era disposto per una sorpresa; ma che non era riescita per esser stata respinta la ricognizione dei cacciatori. "Debbo render giustizia ai miei compagni i quali tutti attribuirono a me l'onore di quel fatto d'armi, e chiesero unanimi ai capi che ne fossi ricompensato. Il giorno appresso, alla rassegna generale alla quale comparvi colla mano bendata, fu letto un ordine del giorno nel quale si rendevano pubbliche grazie al gregario Aurelio Gianni per aver bene meritato della patria, e lo si innalzava al grado di alfiere. Tutti gli occhi si volsero verso di me: io chiesi licenza di parlare. "Dite pure" soggiunse il capitano: giacché nelle nostre schiere la disciplina non era né tanto muta né cosí severa come negli altri eserciti. "Io buttai uno sguardo verso quei giovinotti padovani che stavano in fila poco lunge da me, e alzando tranquillamente la voce: "Chieggo" soggiunsi "come unica grazia di rimanere gregario, ma di essere onorato d'una pubblica lode sotto il mio vero nome. Una di quelle solite tacce di spionaggio e di tradimento che disonorano le nostre rivoluzioni mi costrinse momentaneamente a lasciarlo; ora che spero aver persuaso del loro torto i miei calunniatori, lo riprendo con orgoglio. Mi chiamo Giulio Altoviti; sono di Venezia!". "Un applauso generale scoppiò da tutte le file; credo che se gli ufficiali non li trattenevano avrebbero rotte le ordinanze per abbracciarmi, e vidi dentro a molti occhi avvezzi a sostenere fieramente il fuoco delle archibugiate luccicar qualche lagrima. Ricompostosi l'ordine e fatto silenzio, il capitano, dopo essersi consultato col generale, riprese con voce commossa che la patria si gloriava d'un figliuolo che si vendicava degli insulti tanto nobilmente; che mi additava per esempio onde le discordie nostre ricadessero a peggior danno dei nemici, e che in premio della mia generosa costanza mi creava aiutante di campo del generale Garibaldi col titolo di capitano. "Un nuovo applauso dei miei commilitoni approvò pienamente questa ricompensa; e poi fu sciolta la rassegna, e marciando verso la caserma io seguitai a piangere come un fanciullo e parecchi di quei prodi piansero con me. Indi a poco sopraggiunsero a intenerirmi piucchemai le proteste e le preghiere di quei giovani padovani che si disperavano di non avermi conosciuto prima e supplicavano di esser perdonati della loro diffidenza. Questo fu il premio piú dolce che mi ebbi; e lo palesai loro abbracciandoli uno per uno. La festa di tutta la legione, l'ammirazione dei compagni, l'affetto dei superiori, le lodi d'una città intera mi provarono che non è mai chiuso il varco a riconquistare la pubblica stima colla costanza dei sacrifizi, e che le imprese veramente nobili e generose non ispirate né da furore né da superbia ammutoliscono l'invidia e trovano ossequio nel mondo. Oh sarebbe cosí dunque, se questa calunniata umanità fosse cosí vile cosí perversa come taluni ce la descrivono e come io la credeva? Costretto ad accettar la sua stima come ricompensa, io vergognai fra me di averla disprezzata senza cognizione di causa, e conobbi che la mia penitenza non era stata soverchia per un sí grave peccato." Roma, 4 luglio 1849 "Oh a che giovò mai la nostra perseveranza? Eccoci raminghi in un esiglio che non finirà forse mai piú! La legione è partita per le Romagne e per la Toscana, sperando di colà riguadagnare Venezia o il Piemonte e la Svizzera; ma la ferita che mi si riaperse nelle fatiche di questi ultimi giorni m'impedisce di camminare. Il generale mi forní di alcune lettere per l'America, ove guarito che fossi mi permettessero d'imbarcarmi e mi volgessi colà. Sí! io mi volgerò oltre l'Atlantico! Colombo vi cercava un nuovo mondo: io non domanderò altro che pazienza. Ma sento che l'onore della nostra nazione è affidato a noi poveretti, sbalestrati dalla sventura ai quattro capi della terra. Attività dunque e coraggio! Un popolo non consta altro che di anime; e finché la virtù affoca l'anima mia, la scintilla non è morta. Sempre sarò degno del nome che riconquistai e del paese dove son nato. Tu, padre mio, che ai giorni passati mi lusingava di rivedere e che oggi dispero di abbracciare mai piú, abbiti l'ultimo sospiro del tuo figliuolo proscritto. L'amor mio d'or innanzi sarà senza sospiri e senza lagrime, come quello che si riposa solamente nelle eterne speranze. Penserò a mia madre e a mia sorella come a due angeli, che mi raddoppieranno quandochessia la beatitudine del cielo." In mare, settembre 1849 "La fortuna mi diede compagna d'esiglio una famiglia romana; un padre ancora giovine, di quarant'anni al piú, che sostenne cariche importantissime nelle provincie, il dottor Ciampoli di Spoleto, e due suoi figliuoli, la Gemma, credo di diciannove anni, e il Fabietto di dodici o quattordici. Al primo vederli mi risovvenne di un'incisione veduta alcuni anni sono, rappresentante una famigliuola di contadini raccolta ad aspettare e a pregare sotto una quercia, mentre infuria un gran temporale; tanto sono alieni dalla rabbia consueta dei profughi politici. Si consolano amandosi a vicenda, e, meno Roma, la loro vita è quella d'una volta. Avessi anch'io meco i miei genitori o i miei fratelli! Mi sembrerebbe di portar via una gran parte di patria. Ma sono illeciti questi desiderii di far comuni appunto ai nostri piú cari le peggiori disgrazie. Come sopporterebbero mai due poveri vecchi una vita varia stentata angosciosa, senza nessuna certezza né di riposo né di sepolcro? Meglio cosí; e che il destino mi condanni a patir solo. D'altronde la lontananza della patria stringe i compaesani quasi con legami di famiglia; e m'accorgo già di amare il dottor Ciampoli quasi come padre, e la Gemma e il Fabietto come fratelli. Quella giovinetta è la piú soave creatura che m'abbia mai conosciuto; non romana punto; ma donna in tutto, nella grazia nella gracilità nella compassione. "Forse che delle donne io non ho cercato finora che le piú abbiette, ma costei mi sembra un esemplare piú sublime, un tipo quale forse lo avrei sognato se fossi pittore o poeta, ma non avrei creduto mai d'incontrarlo vivo nel mondo. Non è certo di quelle che innamorano; io almeno non oserei; ma hanno in sé quanto può assicurare la felicità d'una famiglia, e spose e madri passano per la vita come apparimenti celesti, tutte per gli altri nulla per sé. Il mal di mare non è guari né piacevole a vedersi né facile a sopportare; pure con quanta premura la buona fanciulla si ricordava del Fabietto anche durante gli sforzi piú dolorosi! Si vedeva che non avea tempo di badare a sé; ed è la stessa che piangeva questa mattina perché un gatto che avevamo a bordo annegò in mare. Omai peraltro tutti ci siamo assuefatti alla vita marinaresca; e a non vedere altro che cielo ed acqua. Si ciarla, si gioca, si legge e di tratto in tratto anche si ride. La natura fu clemente di averci concesso il riso che se non rasserena l'anima, ristora almeno le forze: nelle ore che rimango solo, io salgo sul cassero e cerco nell'immensità che ne circonda il pensiero e l'immagine di Dio. Mi ricorda d'una nostra canzonetta popolare la quale benedice Iddio vestito di azzurro: infatti quella espressione non la riconosco vera che adesso. Nulla di meglio addita la nascosta presenza d'un Dio che questa immensità azzurra di cielo e di mare che par tutt'una e innalza la mente alla comprensione dell'eterno. Scommetto che quella canzone fu composta da un pescatore chiozzotto, mentre la bonaccia d'estate arrestava il suo burchio in mezzo all'Adriatico ed egli non vedeva altro che il mare, sua vita, e il cielo, sua speranza. "Ho insegnato quella canzone alla Gemma; essa la canta sí perfettamente colla sua nobile pronuncia romana, che questi inarmonici marinai inglesi sospendono la manovra per ascoltarla. Credeva che il viaggio mi annoiasse, ma comincio appunto ora a pigliarci gusto. Spero che a terra non sarò meno fortunato; purché trovi da impiegarmi a Nuova York, ove sembra che il dottor Ciampoli voglia accasarsi. Sono ben fornito di danaro, e non mi lasceranno sprovvisto; ma né l'ozio né la monotonia della mercatura son fatti per me; e le commendatizie che porto per gli Stati Uniti sono tutte per negozianti. Nell'America meridionale è una cosa diversa: là s'incomincia a vivere ora ed il nome italiano vi è altamente benemerito ed onorato. Sarei pur felice che vi s'andasse colà! La stessa natura vergine rigogliosa tropicale m'invita. Qui invece, a Nuova York, m'aspetto di vedere un mercato d'Europei bastardi, e casse di zucchero e balle di cotone e numeri e numeri e numeri! Pare impossibile che chi ha traversato l'Atlantico possa ridursi a fare una somma!..." Nuova York, gennaio 1850 "Quanto era stanco di pencolare col mio sigaro in bocca in mezzo a botteghieri e a sensali! Saranno ottima gente, ma mi par impossibile che siano pronipoti di Washington e di Franklin; non so, ma credo che questi grandi uomini morissero senza posterità. Ho fatto anche qualche gita nei dintorni, ma questa potente natura mi dà figura d'un leone in gabbia. È trattenuta spartita tagliuzzata; bisogna vederla da lontano assai, o nelle nebbie quasi britanniche che abbondano in questo paese, per aver un'idea dell'America raccontata dai viaggiatori. Per me stento a credere che la nebbia ci fosse ai tempi di Colombo. L'avranno portata le macchine a vapore, come si dice ora della crittogama da qualche pazzo giornalista europeo. Ad ogni modo son contento di partire, e si partirà perché l'ingegnere Carlo Martelli, che doveva giungere a Nuova York e al quale è raccomandato il dottor Ciampoli, non può muoversi da Rio Janeiro. Il Brasile è lontano, e il dottore non è per nulla contento d'imprendere un nuovo viaggio e lunghissimo. Io invece non vedo l'ora che si faccia vela, e la Gemma sembra piuttosto propendere per la mia opinione che per quella di suo padre. Quanto al fanciullo egli non parla che del Brasile, ed è ubbriaco di felicità! Ho buone notizie dei miei; godo ottima salute, le persone colle quali vivo mi amano e mi stimano; se trovassi un paese da sfogarmi la smania d'attività che mi divora, potrei star contento alla mia sorte. Che altro è mai la vita se non un lungo esiglio?..." Rio Janeiro, marzo 1850 "Qui almeno siamo in America. Si fiuta ancora l'Europa qua e là, ma l'Europa meridionale di Lisbona, non la nordica di Londra. L'ingegner Claudio Morelli è un uomo severo, abbronzato dal sole, e a quanto dicono, onesto e intraprendente: all'udire il mio nome egli dié un guizzo di sorpresa, e domandò se fossi parente di quel Carlo Altoviti che avea preso parte alle rivoluzioni di Napoli del novantanove e del ventuno. Saputo che era suo figlio, si sciolse dalla rigidezza per gettarmi le braccia al collo, e allora sperai che il suo cuore non fosse tutto matematico; imperocché a dirla schietta io ho dei matematici l'egual paura che dei mercanti. Guai se mi metton al gran cimento d'una regola del tre! Mi perderebbero la stima. "Egli mi domandò se mio padre m'avesse mai parlato di lui, ed io gli risposi che sí; perché infatti mi risovvenne allora come un barlume di qualche storia narratami nel quale figurava il nome di Martelli; ma io per disgrazia ho badato sempre poco alle parole di mio padre, e memoria precisa non me n'era rimasta. Mi significò allora che da poco aveva ricevuto lettere di suo fratello il quale sarebbe venuto in America e dimorava allora a Genova con mia sorella e mio cognato: profferendomisi poi in quanto mi poteva abbisognare, giacché si professava debitore a mio padre di grandi beneficii e ringraziava il cielo di poterglisi mostrar grato nell'aiutare i figliuoli. Seppi allora da lui quello che già sospettava, cioè che il dottor Ciampoli, privato dalla rivoluzione di ogni suo avere e già allo stremo di danaro, cercava in America un mezzo da accumulare alle spicce una piccola fortuna e ridursi poi a viver d'essa o a Genova o a Nizza o in qualche altra città del Piemonte. Se io avessi saputo prima di salpare da Civitavecchia la proscrizione di mio cognato, e la dimora di lui e di mia sorella a Genova, certo mi sarei volto colà. Ma allora, oltreché m'adescavano quelle imprese grandi e lontane, mi doleva anche l'anima di abbandonar il buon dottore e la sua famigliuola. La compagnia d'un giovane può esser loro di grande aiuto e beato me se potessi accelerare d'un giorno solo l'avveramento delle sue speranze! Rimasi dunque, fermo di partecipare alla sua sorte ed al ritorno. "Il Brasile è uno Stato nuovo ed ordinato. L'ingegnere non disperava di procurare al dottor Ciampoli un posto assai lucroso; ma ci voleva tempo. Aspettammo dunque; e al dottore si provvide intanto con un discreto impiego nell'ufficio delle Statistiche Imperiali, mentre io esponendo i miei titoli di capitano ottenni un grado di maggiore nella fanteria di confine. Nell'esercito trovai viva la memoria d'un altro amico di mio padre, del maresciallo Alessandro Giorgi, che partí due anni fa per Venezia al primo annunzio della rivoluzione, e lo dicono morto colà di ferite. Se deggio credere a quanto mi si narra, fu uomo veramente straordinario: non di sublime ingegno ma di quella virtù tenace confidente incrollabile che bene spesso tien vece anco d'ingegno. Egli solo, in poco tempo, con ottocento uomini di truppa regolare ridusse a soggezione, ordinò, e stabilí uniformità di leggi e d'imposte in quell'immensa provincia centrale di Mato-Grosso che vince la Francia in grandezza. A udir minutamente tutte le imprese da lui condotte a termine in trent'anni su quei confini ignorati della civiltà, c'è da credere che non sia passata ancora l'età dei portenti. Se sapessi di prosodia vorrei far vedere che i poemi non sono rancidumi; e si può benissimo scriverne finché cotali eroi ne porgono materia. L'Imperatore gli avea donato la duchea di Rio-Vedras; ma egli abbandonò tutto per volare a Venezia. Cosí vorrei vivere, cosí morire anch'io. Né pretendo diventar duca; mi basterebbe che fossi annoverato fra i benemeriti della civiltà. "Ora si ha la speranza che il dottor Ciampoli possa esser mandato come sopraintendente delle miniere in quella stessa provincia che fu campo di tanta gloria al maresciallo Giorgi. Io lo seguirei con una scorta di bersaglieri a piedi ed a cavallo. Ma questo non avverrà che nell'autunno." Rio Ferreires, novembre 1850 "Non so oggimai perché vado continuando ogni cinque o sei mesi questa mia storia affatto inconcludente. Quello ch'io scrivo, la mia famiglia lo seppe già per lettere; e io non sono un letterato ch'abbia in animo di stampar la sua vita: tuttavia l'abitudine mi padroneggia; ho cominciato a imbrattar carta parlando di me, e ci ho pigliato gusto, e di tanto in tanto debbo obbedire ad un ghiribizzo. Fortuna che è discreto; perché dal principio dell'anno non ho empito che due carte, e prima che riprenda la penna dopo averla lasciata questa volta, Dio sa quanto tempo vorrà passare!... Convengo peraltro col mio capriccio, che questi paesi sforzano a scrivere. Partiti una volta, bisognerà ricorrere ai segni scritti della nostra ammirazione per non credere che la memoria ci inganni, e che il prisma della lontananza ci cangi i minuzzoli in montagne e in diamanti i sassi. Tutto qui è grandioso intatto sublime. Montagne, torrenti, selve, pianure, tutto serba l'impronta dell'ultima rivoluzione che ha sconvolto il creato, e tràttone l'ordine meraviglioso della vita presente. Ma la vita della natura somiglia qui tanto all'europea, come la cadente esistenza d'un vecchio alla robusta e piena salute del giovine. Accavallamenti e serragli di montagne che s'aggruppano, s'addentrano, s'addossano le une alle altre circondate da boschi misteriosi, e vomitanti, frammezzo alle nevi, eterni vortici di fiamme. Piante secolari, ognuna delle quali sarebbe una selva sui fianchi scarnati dell'Appennino; vallate dove l'erba nasconde tutta una persona, e i tori selvatici fuggono cornando l'aspetto d'un uomo; torrenti abbandonati in cascate di cui l'occhio misura appena l'altezza; e le acque si disperdono in una lieve atmosfera nebbiosa che occupa tutta la valle e la immerge in un'iride incantevole; le viscere della terra chiudono l'oro e l'argento; i macigni si spaccano e ne escono diamanti; il gran fiume si volve immenso e tortuoso come un gran serpente addormentato, fra rive ombrose di banani e di catalpe. La terra lussureggiante, il sole infocato, il cielo quasi sempre sereno, ma la fresca brezza delle Ande consola ogni giornata di qualche ora di primavera. "Oh se si avessero qui le grandi ferrovie delle valli dell'Ohio e del Mississippí! Se questa provincia non fosse lontana tre mesi di cammino da Rio Janeiro! È inutile: la distanza aumenta la mestizia della separazione; e per quanto sia irragionevole, due anni nel Mato-Grosso devono sembrar piú lunghi di dieci e di venti in Francia od in Svizzera. Pure Venezia è tanto in Francia ed in Svizzera come nel Mato-Grosso, ma sembra che l'aria ci porti piú facilmente qualche sospiro dei nostri cari. "Noi siamo alloggiati da principi, ma la natura ci fa le spese e la mano dell'uomo ci ha poco merito. Una casa costrutta di pietra viva ma che somiglia una tenda, tanto è aperta per ogni lato da logge, da atrii, da gallerie; dietro un gran giardino che finisce alla sponda del fiume, dinanzi un cortile dove s'affaccendano gli schiavi e nitriscono i puledri quando sulla sera li raccolgono nelle stalle. La città si stende nella pianura sopposta, e giunge anch'essa fino al fiume che dietro il nostro giardino s'incurva rapidamente: un po' a sinistra sono le caserme dove io vado due volte al giorno a comandar gli esercizi e a fare l'appello della notte. Costoro sono ubbidientissimi soldati a Rio Janeiro, ma lungo la strada perdono mano a mano le loro virtù, si tramutano in scorridori, in briganti, e qui poi di poco dissomigliano dagli Indiani che ci molestano di continui assalti. "Sono brevi guerre, ma sanguinose e piene di rischi. Si tratta di superare, col vitto di parecchie giornate in ispalla, rupi quasi inaccessibili, di passare precipizi orribili sopra alberi tagliati al momento e buttati a cavalcioni da una sponda all'altra, di cercare i nemici come le fiere in antri profondi e tenebrosi, in boscaglie cupe paludose piene di agguati e di serpenti. Si ode un fischio rasente l'orecchio, e sono frecce scagliate da mani invisibili; non sono né feriti né prigionieri; le armi sono avvelenate e se fanno sangue uccidono; chi cade nelle mani del nemico è scannato senza remissione; dicono che qualche buongustaio si diverta anche a mangiarli. Del resto fuori di questi passeggeri trattenimenti la nostra vita è quella dei ricchi villeggianti sulle rive della Brenta; piú questo cielo, e questa magica natura che tramuta la terra in paradiso. Il dottor Ciampoli, ispettore delle miniere, rimase assente due o tre giornate nei suoi giri di sorveglianza: egli ha avviato un commercio di diamanti con Bahja, che frutterà assai in poco tempo. Di solito gli serve di scorta un sergente con dieci uomini, ma qualche volta l'accompagno io. Scegliamo allora le gite piú pittoresche e poetiche, e l'ultima volta che fummo in una miniera nuovamente scoperta, si vollero condurre anche la Gemma e il Fabietto. Il chiasso che si fece in quel piccolo viaggio non è a descriversi; mi parve esser tornato alle asinate di Recoaro e di Abano. Quando si aveva a varcare un torrente la Gemma tremava e rideva dalla paura ma pur si fidava di me; e metteva i suoi piedini sul passatoio l'un dopo l'altro, cosí daccosto, cosí leggieri, che era cosa da baciarla. Davvero non potrei volerle maggior bene se fosse mia sorella. "Piú spesso quando suo padre è assente, ed io rimango per badare alla soldatesca che ha bisogno di esser curata perché non diventi il flagello del territorio, noi passiamo insieme le piú simpatiche giornate che si possano immaginare. Studiamo insieme un tantino di storia, ed io le insegno quel poco che so di Atene e di Roma; ella m'insegna di ricambio a strimpellar qualche arietta sul cembalo, e cosí in due mesi si suona già a quattro mani, che in Europa sarebbe un martirio l'udirci; ma qui ne sono incantati, e due ragazze mulatte, che sono le sue cameriere, non tralasciano mai di ballare alla nostra musica una indiavolata sarabanda. Davvero che codeste signore schiave hanno bel tempo, e se qui stessero tutti i danni della servitù, sarebbe da sottoscriversi subito; ma ho già veduto le fattorie le piantagioni di zucchero, e non ho coraggio di parlare. "Anche la schiavitù ha la sua aristocrazia spensierata felice e dura ma odiata dagli inferiori piú forse degli stessi padroni. Fra me e la Gemma si fa anche un po' di scuola al Fabietto; egli sgrammatica già nel francese con inimitabile audacia, e tutti insieme poi prendiamo lezione di portoghese da un vecchio prete che è cappellano, vescovo, e direi quasi papa del paese. V'ha, sí nella provincia un vescovo, ma è miracolo se una volta in sua vita si cimenta fin quassù. Sono fatiche da bestie, e i nostri prelati suderebbero a figurarsele: non si trovano qui né parrochi ospitali, né canoniche spaziose e parate a festa, né mense ben fornite ad ogni due miglia. Bisogna serenare dieci notti prima di trovare una capanna dove un povero e coraggioso missionario arrischia la vita per insegnare ai selvaggi quell'abbicí della civiltà che è il cristianesimo. Il maresciallo Giorgi, l'invincibile duca di Rio-Vedras, ha fatto assai colle carabine; ma piú faranno, credo, questi preti ignorati pazienti. Qui Voltaire ha ancora torto. Insomma se non fosse la lontananza, l'incertezza delle corrispondenze, e quella smania di novità che accresce sempre mano a mano che si veggono cose piú nuove e stupende, torrei volentieri di finir qui la mia vita. Ma Venezia?... Oh non pensiamoci!... Papà e mamma, vi rivedrò io mai piú?... In cielo, è certo." Rio Ferreires, giugno 1851 "Quanti mesi che non aggiungo nulla a queste poche note del mio esiglio; ma converrebbe appunto o scrivere un volume al mese o restarsi. Qui tutto nuovo strano inopinato; ma dopo le lontane escursioni fra le tribù selvagge, si torna sempre alla pace e alla giocondità della famiglia. Il dottore è contentissimo de' suoi negozi. - Ancora un anno - mi dice - e rivedremo Genova!... Ma voi perché non prendete parte al nostro commercio?... perché non vi arricchite? - Egli crede che la mia famiglia sia povera, né suppone giammai che la loro compagnia fosse grandissimo motivo di trapiantarmi nel Mato-Grosso; perciò rispondo che non ho grandi bisogni, che son giovine, ed è mia sola ambizione lo avvezzarmi alle rischiose fazioni militari e tornar in Italia scarso di denari ma ricco d'esperienza. La Gemma sorride di queste mie parole, e il Fabietto strepita ch'egli pure vuol esser soldato e comandare l'esercizio. Il diavolino si fa robusto ed animoso; cavalca vicino a me le mezze giornate, e se usciamo a caccia mi vince nell'aggiustatezza del tiro. Ma io ho compassione di uccidere uccelli di sí vaghe piume, che ci guardano passare con tutta confidenza appollaiati sul loro ramo. La mano del fanciullo è meno pietosa e non trema come la mia; egli è intrepido, forte, quasi brasiliano; non serba di Venezia che il colore degli occhi e i bei capelli castano dorati; parla il portoghese come lo avesse imparato a balia, e fa vergogna a noi che zoppichiamo ancora nella pronuncia. "Ieri ho ricevuto lettera da casa; ma il papà mi dice di averne scritte otto o dieci, e questa è la prima che mi giunge. Chi sa qual sorte avranno corso le mie! Anche l'ingegner Martelli mi scrive che è giunto suo fratello e che andranno insieme a Buenos Aires, chiamati da quel governo per affari coloniali e militari. Colà gli Italiani hanno buon nome; il general Garibaldi ha lasciato gran desiderio di sé, e si diceva che ne sperassero il ritorno. Se fosse prima di tornar in Europa, vorrei passarvi per salutarlo, e con lui anche i Martelli che mi son cari come fossero del mio sangue. O patria patria, come allarghi i tuoi legami per tutto il mondo! Due nati sotto il tuo cielo si riconoscono senza palesar il proprio nome sulla terra straniera, e una forza irresistibile li spinge l'uno all'altro fra le braccia!..." Villabella, aprile 1852 "Che orribili giorni! Son due mesi che ci penso e non mi sono ancora indotto a scriver sillaba. Oh mi sarei strappato l'anima coi denti se avessi saputo l'anno scorso quali cose tremende e funeste doveva accogliere questa pagina! - Ella è là che dorme; la sua mente si è rischiarata, la salute si rinfranca ogni giorno meglio, tornando le rose sul suo bel volto, e gli occhi risplendono fra le lagrime. Qual doloroso spettacolo il freddo letargo e i sùbiti delirii dei giorni addietro! Ma adesso la tempesta ricade in calma; vince la buona natura, e sento di qui il suo respiro tranquillo ed uguale come d'un bambino addormentato. Scriviamo prima che le scene spaventose di quella tragedia non si confondano affatto nella memoria che raccapriccia tuttora. "Sul principio d'agosto dell'anno scorso erasi notata qualche inquietudine nelle tribù indiane che scendono a svernare sulle rive del fiume, anzi io avea fatto chiedere di soccorso il governatore di Villabella, ma per la lontananza non ci avea lusinga di averne prima della primavera susseguente; bensí avea fatto munire intanto con fuciliere e cannoni le nostre caserme, di modo che quel fortino improvvisato difendesse anche gli approcci della nostra residenza. Ma la cosa si contenne nei limiti delle avvisaglie fino al gennaio passato, quando essendo scoppiato un tumulto piú pericoloso intorno alla miniera dell'ovest, io dovetti accorrere in fretta colà con gran parte della guarnigione a dar un esempio. Quella fazione mi tenne lontano piú ch'io non credessi; i selvaggi combattevano con un'astuzia particolare, e soltanto dopo tre settimane giungemmo a ricacciarli di là dal fiume e a bruciar loro le barche. "Sicuri che non ci darebbero noia per un pezzo ci rivolsimo verso Rio Ferreires, quando a mezzo cammino si trovò un corriere che ci dava molta fretta per esser la città minacciata dagli Indiani. Ad onta che i soldati fossero stanchissimi, sforzammo disperatamente le marce perché molti aveano lasciato nelle caserme le loro mogli e si viveva in grandissima ansietà. Io temeva assai del dottor Ciampoli, il quale per essere molto fiero e risoluto poteva arrischiare sé ed i suoi a qualche tristo cimento. La prima cosa che mi colpí gli occhi quando giunsimo in vista di Rio Ferreires, fu la Sopraintendenza tutta quanta in fiamme. Il furore, la rabbia ci raddoppiarono le forze e per tutte quelle cinque miglia che restavano fu una corsa sfrenata. Gli Indiani, in fatto, avevano assaltato di nottetempo le caserme, inchiodato i cannoni, e scannato per sorpresa gran parte degli uomini, facendo prigioniere le donne. "I pochi superstiti si erano rifugiati alla residenza; ma colà appunto si era rovesciata proprio nel momento del nostro ritorno la rabbia dei selvaggi. Gridavano di voler uccidere i capi bianchi ch'erano venuti a spodestarli della pianura e della riva del Gran Fiume; e lanciavano contro le mura frecce e macigni. Il dottore coi suoi pochi soldati si difendeva gagliardamente, e dava tempo ai coloni del paese di armarsi e di correre in aiuto; fors'anco noi potevamo capitar a tempo e tutto era salvo. Ma a quelle fiere rabbiose capitò in mente il ripiego dell'incendio; grandi ammassi di canne delle vicine fattorie furono cacciati intorno alla Sopraintendenza, e per opposizione che facessero i rinchiusi, in breve un immenso vortice di fuoco invase i fabbricati. Allora furono veduti prodigi di valore e di disperazione; donne che si precipitavano nelle fiamme, uomini che si gettavano dalle finestre e usciti semivivi dall'incendio si facevano strada col pugnale traverso i selvaggi, schiavi e schiave che facevano schermo del proprio petto ai padroni, soldati che si piantavano le spade nel cuore piuttostoché correre il pericolo di esser arrostiti vivi. "Il dottor Ciampoli uscí dalla porta laterale dinanzi alla quale le fiamme erano meno dense; aveva intorno una scorta di sei uomini disperati e fedeli, dietro il Fabietto che con coraggio maggiore dell'età sua si trascinava per mano e quasi portava la Gemma; egli procedeva innanzi colla spada in una mano e il pugnale nell'altra. Sperava aprirsi un varco fra i nemici, ma usciti tutti a salvamento dall'incendio, tosto fu loro addosso una frotta tumultuosa di pelli-rosse. Parevano demonii guizzanti a tafferuglio nelle fiamme dell'inferno, e noi scendendo dal monte lontano un miglio appena, ne vedevamo allora le sinistre apparizioni. Il dottore cadde in ginocchio colpito da una freccia, ed ebbe il coraggio di volgersi ad attirare a sé il garzoncello che stringeva la Gemma fra le braccia, e continuava a difender sé e loro roteando la spada. Ma la ferita zampillava sangue come una fontana, e cadde riverso mentre cresceva intorno la rabbia degli assalitori. Allora il Fabietto, fanciullo miracoloso, brandí la spada del padre, e abbandonando la sorella svenuta sul cadaver di lui, sostenne per qualche minuto una battaglia terribile e senza speranza. Oh perché il corriere non ci avea incontrati un'ora prima!... Il fanciullo, colpito da molte frecce, stramazzò mormorando il nome di Maria, e i selvaggi si precipitarono sopra quei corpi benedetti per adornare il loro mostruoso trionfo; ma in quella il vecchio prete portoghese che avea saputo dell'eccidio della Sopraintendenza, accorse in camice e stola col crocefisso in mano. L'aspetto di quell'uomo disarmato che parlava loro di pace nel linguaggio nativo, e che si esponeva senza paura ai loro strazii per salvar i fratelli, arrestò un momento i selvaggi. Intanto ci si dié tempo di giungere. "Quello ch'io vidi, quello che soffersi e operai nel resto di quella notte, lo sa Iddio; io non me ne ricordo piú. Al mattino trecento cadaveri indiani s'ammucchiavano qua e là sullo sterrato dei forti; ma il povero dottore, suo figlio e duecento dei nostri, tra soldati e coloni, ci avean lasciato la vita. La Gemma non era tornata in sé che per cadere nella pazzia e d'allora in poi il suo delirio durò quasi due mesi. Le caserme rovinate, gli stabilimenti incesi, le tribù indiane che s'ingrossavano intorno sempre piú mentre noi eravamo assottigliati di numero e di forze, ci persuasero di ritirarci a Villabella. Qui la guarigione della Gemma sembra quasi assicurata; e mi riprometto entro l'estate di giungere a Buenos Aires, ove essendosi stabiliti Martelli, io la consegnerò a loro od anche dietro loro consiglio la condurrò io stesso in Europa. Dio secondi le mie buone intenzioni!..." Buenos Aires, ottobre 1852 "Tre mesi di viaggio, ma sempre vago, pittoresco, in paesi di bellezze quasi favolose. La distrazione guarí affatto la Gemma; ella mi sorrideva quasi per ringraziarmi delle molte brighe ch'io mi assumeva per lei. Giunti a Buenos Aires i Martelli n'erano partiti per una città dell'interno a stabilirvi i rudimenti d'una colonia; ma un capitano amicissimo dell'ingegnere, che salpava per Marsiglia, avrebbe fatto il piacere di condurre la Gemma a Genova presso una sua zia; egli aveva moglie a bordo, e il partito era per ogni verso convenientissimo. Quanto a me voleva tornare a Rio Janeiro per prendere di là la mia rivincita su quegli Indiani maledetti. Senonché, quand'io scopersi queste mie idee alla Gemma, ella chinò il mento sul petto e due fiumi di lagrime le sgorgarono dagli occhi. "- Cosa avete? - le chiesi - forse vi dispiace lasciar l'America? "- Oh tanto! - mi rispose ella singhiozzando e guardandomi con occhi pieni di preghiera. "Il resultato si fu che ci sposammo quattro settimane dopo e si pensò a partire in compagnia per l'Europa; allora non le dispiacque piú abbandonar l'America, e quanto a me rinunciai per amor suo alla vendetta sugli Indiani. "Oh qual creatura adorabile è la Gemma! Dio mi dia bene, ma da due mesi che siamo marito e moglie non ho pensato ad altro che ad amarla. Ci fermammo qui, sperando di salutare i Martelli ed anche un Partistagno che ci si dice esser con loro; ma siccome pare che tarderanno, penso d'intraprendere una gita nell'interno per salutarli. Intanto fui utile al governo col disegnare i piani d'una nuova colonia sulla spiaggia oltre il Rio, la quale sarà composta tutta d'Italiani, e pel luogo piú opportuno riescirà certo assai meglio dell'altra, alla quale invano attendono da un anno i Martelli. Anche vorrei abboccarmi con loro prima di partire per dar loro qualche ragguaglio in proposito; e soltanto mi spiace che essendosi sollevate le provincie del Mezzogiorno mi toccherà allungare d'assai il viaggio per trovarli." Saladilla, febbraio 1855 "Son prigioniero da ventotto mesi nelle mani di questi insorgenti che mi trascinano dietro al loro campo come un misero schiavo. Ho due bambini, figliuoli della schiavitù e della sventura; la loro povera madre mi accompagna sempre, e sconta amaramente l'audacia di aver voluto unire il suo destino al mio. Pur troppo, dopo aver lasciato il padre e il fratello sopra questa terra vorace di America, ci lascerà anche il marito!... La febbre mi consuma e domani forse sarò cadavere. "O padre, o madre mia! o miei dolci fratelli, quanto sarebbe lieto il mio spirito di spiccar d'infra voi il suo volo pel cielo!... Benedetto peraltro Iddio che anche sugli ultimi confini del mondo seppe circondar la mia morte di affetti soavi. Tre angeli intorno al letto mi fanno fede, notte e giorno, della eterna beatitudine!... "O padre mio, sento che la morte si avvicina, e che i miei patimenti terreni sono al loro termine! Tu, verso del quale io ebbi sí gran torti, perdona al mio spirito fuggitivo la sua ingratitudine, consola di qualche compianto la penitenza ch'egli si è imposta, rendi pura e onorata la mia memoria se non all'ossequio, alla compassion della patria, e raccogli fra le braccia questa vedova infelice questi innocenti orfanelli che la mano di Dio proteggerà guidandoli per mari e per terre fino alla soglia della tua casa!... Quand'essi picchieranno umilmente alla tua porta tremino di commozione i vostri cuori!... Che non ci sia neppur bisogno di pronunciare i vostri nomi!... Io vi farò conoscenti l'uno dell'altro, io vi spingerò l'uno all'altro fra le braccia! Ma il pensiero di Giulio aggiunga e non tolga dolcezza alle vostre lagrime!..." Cosí finiva di scrivere il mio sventurato figliuolo, e morí il giorno appresso fra le braccia della moglie. Costei non sapeva decidersi a partire da quel continente malaugurato nel quale riposavano i suoi piú cari. S'attardò a Saladilla per quanto gli insorgenti le permettessero di tornare a Buenos Aires per imbarcarsi: vi tornò finalmente nel giugno, ma la sua vitalità era già corrosa da un cancro immedicabile. I Martelli scrivevano di averla veduta piegarsi sulla tomba ogni giorno piú colla rassegnazione d'una martire; soltanto piangeva di abbandonar i suoi figliuoli ma consolavasi col pensiero che affidati a tali amici essi sarebbero giunti a salvamento nella famiglia del padre loro. Le parole ch'ella aggiunse di suo proprio pugno sotto il giornale di Giulio furono e saranno sempre inondate dalle mie lagrime ogniqualvolta le leggerò. "Padre - diceva ella - mi rivolgo a voi, perché altro padre, né fratello, né parente io ho piú sulla terra; soltanto due figliuoletti mi siedono ora sulle ginocchia, che domani giocheranno su una tomba. Padre mio, divisi da tanto mondo, pure l'affetto, o morti o vivi, ne congiungerà sempre. Io ho amato il vostro Giulio come lo amaste voi; ora egli mi chiama dall'alto dei cieli ed io per volontà di Dio son la prima a seguirlo. Oh perché non ho potuto bearmi almeno una volta delle vostre venerabili sembianze? Sconosciuti l'uno all'altra passammo per questa terra, ed eravamo tanto uniti quanto lo può essere a padre figliuola. Ma anche questa è un'arra che ci vedremo nel cielo. Dio non può dividere per sempre l'amore dall'amore; e gli spiriti traverso gli spazii dell'universo si trovano piú facilmente che due amici in un piccolo paese. Oh padre mio, voi tarderete a seguirci, tarderete pel bene dei figli nostri. Lo so; c'invidierete, e il tardare vi sarà un tormento, ma, per carità, non abbandonateli orfani affatto sopra la terra! Io son donna, io son debole, eppur prego e scongiuro Iddio ch'essi imparino dal vostro esempio e dalla vostra bocca ad imitare il padre mio. A rivederci, a rivederci in cielo!...". Cosí si volgeva a me quell'anima celeste dal suo letto di morte e posava la penna per posar insieme i dolori della sua vita mortale. Oh io mi ricordava suo padre, mi ricordava la fanciulletta che gli dava mano e attirava gli sguardi in piazza per la sua angelica bellezza! Cotale doveva trovarla!... figlia, fantasma e dolore!... Doveva perderla prima di sapere d'averla avuta!... Doveva cominciare ad amarla per piangere sopra due tombe invece che sopra a una! Doveva sollevare le mie speranze al cielo perché là mi si concedesse di rimeritarla presto dell'amore ch'ella aveva portato a mio figlio!... Il mio cuore ebbro di speranza, i miei occhi sono pieni di lagrime!... Ed ora vivo coi miei figli e coi figliuoli dei miei figli, contento di aver vissuto e contento di morire. Sono anche felice di poter far qualche bene a vantaggio degli altri. Raimondo Venchieredo, che è morto qui in campagna durante la rivoluzione, ha avuto l'idea molto onorevole per me di raccomandarmi la sua prole. Io ho scordato l'inimicizia d'un tempo, e allargo la mia paternità sopra quest'altra famiglia: cosí potessi beneficare tutti gli uomini e che la potenza corrispondesse alla buona volontà!... Luciano mi lusinga d'un'altra visita per questa primavera, e i piccoli sono lieti di avere per compagno di viaggio il loro zio Teodoro, che non si è mai ammogliato ed è la loro delizia. Demetrio, poveretto, datosi anima e corpo alla Russia, s'arrolò per colonnello nella Legione Moldava, e morí sui campi di Oltenizza, portando in cielo la speranza dell'impero greco di Bisanzio. Ma la forza delle idee non si spegne; e le anime dai loro misteriosi recessi seguitano a premere questo mondo riottoso e battagliero. Da ultimo ho ripreso fra mano la famosa opera del conte Rinaldo; e fra un mese ne sarà pubblicato il secondo fascicolo; la somma occorrente è già depositata presso il tipografo, e la stampa non soffrirà interruzioni. Spero che se ne gioverà assai la patria letteratura, e che gli studi critici sul commercio veneto e sulle istituzioni commerciali dei Veneziani durante il Medio Evo serviranno di splendido commento alla storia che va compilando con sí profonda dottrina il nostro Romanin. Gli Italiani impareranno a conoscere un altro ingegno sterminato e modesto che si consumò oscuramente nella polvere delle biblioteche e fra le cifre d'una ragioneria; io sarò contento di aver eseguito appuntino gli ultimi desiderii d'un uomo che meritava piú assai di quanto non cercò mai di ottenere. Le domeniche quando colla carrozza (ohimè! sento anch'io lo scirocco di Monsignore!) conduco la Pisana, mio genero e i quattro nipotini o alla fontana di Venchieredo od a Fratta, mi passa sulla fronte una nuvola di melanconia; ma la cancello tosto colla mano e riprendo la solita ilarità. Enrico si maraviglia di trovarmi cosí sereno ed allegro dopo tante disgrazie, nell'età non tanto allegra di ottantatré anni. Io gli rispondo: - Figliuolo mio, i peccati affliggono piú delle disgrazie; ma quei pochi che aveva io, credo averli scontati abbastanza, e non me ne spauro. Quanto alle disgrazie, non danno piú gran fastidio sul limitare della tomba: e senza creder nulla senza pretender nulla mi basta esser sicuro che al di là né mi attende sorte peggiore né castigo veruno! Bada a procacciarti una tal sicurezza, e morirai sorridendo! Sí, morire sorridendo! Ecco non lo scopo, ma la prova che la vita non fu spesa inutilmente, ch'essa non fu un male né per noi né per gli altri. Ed ora che avete stretto dimestichezza con me, o amici lettori, ora che avete ascoltato pazientemente le lunghe confessioni di Carlo Altoviti, vorrete voi darmi l'assoluzione? Spero di sí. Certo presi a scriverle con questa lusinga, e non vorrete negare qualche compassione ad un povero vecchio, poiché gli foste cortesi di sí lunga ed indulgente compagnia. Benedite, se non altro, al tempo nel quale ho vissuto. Voi vedeste come io trovai i vecchi ed i giovani nella mia puerizia, e come li lascio ora. È un mondo nuovo affatto, un rimescolio di sentimenti di affetti inusitati che si agita sotto la vernice uniforme della moderna società; ci pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia. Oh, se come dissi un'altra volta, noi non pretendessimo misurare col nostro tempo il tempo delle nazioni, se ci accontentassimo di raccogliere il bene che si è potuto per noi, come il mietitore che posa contento la sera sui covoni falciati nella giornata, se fossimo umili e discreti di cedere la continuazione del lavoro ai figliuoli ed ai nipoti, a queste anime nostre ringiovanite, che giorno per giorno si arricchiscono di quello che si fiacca si perde si scolora nelle vecchie, se ci educassero a confidare nella nostra bontà e nell'eterna giustizia, no, non sarebbero piú tanti dispareri intorno alla vita! Io non sono né teologo né sapiente né filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che, per quanto ignorante, può a buon dritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatré anni, figliuoli; posso dunque dire la mia. La vita è quale ce la fa l'indole nostra, vale a dire natura ed educazione; come fatto fisico è necessità; come fatto morale, ministero di giustizia. Chi per temperamento e persuasion propria sarà in tutto giusto verso se stesso verso gli altri verso l'umanità intera, colui sarà l'uomo piú innocente utile e generoso che sia mai passato pel mondo. La sua vita sarà un bene per lui e per tutti, e lascerà un'orma onorata e profonda nella storia della patria. Ecco l'archetipo dell'uomo vero ed intero. Che importa se anche tutti gli altri vivessero addolorati ed infelici? Sono degeneri, smarriti o colpevoli. S'inspirino a quell'esemplare dell'umanità trionfante, e troveranno quella pace che la natura promette ad ogni sua particella ben collocata. La felicità è nella coscienza; tenetevelo a mente. La prova certa della spiritualità, qualunque ella si sia, risiede nella giustizia. O luce eterna e divina io affido ai tuoi raggi imperituri la mia vita tremolante e che sta per ispegnersi!... Tanto sembra spento il lumicino al cospetto del sole, come la lucciola che si perde nella nebbia. La tranquillità dell'anima mia è oggimai imperturbata, come la calma d'un mare su cui non possono i venti; cammino alla morte come ad un mistero oscuro imperscrutabile, ma spoglio per me di minacce e di paure. Oh se fosse fallace questa mia sicurezza, la natura si piacerebbe a schernire a contraddire se stessa! Non posso crederlo; perché in tutto l'universo non ho trovato ancora né un principio che sfreddi e riscaldi né una verità che neghi ed affermi. Un brivido mi avvisa della vicinanza del pericolo; sarebbero tanto cieche le menti da non avere neppur l'involontario accorgimento dei nervi?... Oh no! lo sento dentro di me; lo dissi con fede incrollabile, e lo ripeto ora con ferma speranza. La pace della vecchiaia è un placido golfo che apre a poco a poco il varco all'oceano immenso infinito, e infinitamente calmo dell'eternità. Non veggo piú i miei nemici sulla faccia della terra, non veggo gli amici che mi hanno abbandonato ad uno ad uno velandosi dietro le ombre della morte. De' miei figli chi se n'è andato con generosa impazienza, chi si è scordato di me, e chi rimane al mio fianco per non farmi disprezzare i beni sicuri di questa vita mentre aspiro agli ignoti e misteriosi dell'altra. Ho misurato coi brevi miei giorni il passo d'un gran popolo; e quella legge universale che conduce il frutto a maturanza, e costringe il sole a compiere il suo giro, mi assicura che la mia speranza sopravviverà per diventar certezza e trionfo. Che deggio chiedere di piú?... Nulla, o fratelli!... Io piego la fronte piú contento che rassegnato sul guanciale del sepolcro; e godo di vedersi allargar sempre piú gli orizzonti ideali mano a mano che scompaiono i terrestri dalle mie pupille affralite. O anime, mie sorelle di sangue di fede e d'amore, trapassate o viventi, sento che non è finita ogni mia parentela con voi!... Sento che i vostri spiriti mi aleggiano carezzevoli d'intorno quasi invitando il mio a ricongiungersi col loro aereo drappello... O primo ed unico amore della mia vita, o mia Pisana, tu pensi ancora, tu palpiti, tu respiri in me e d'intorno a me! Io ti veggo quando tramonta il sole, vestita del tuo purpureo manto d'eroina, scomparir fra le fiamme dell'occidente, e una folgore di luce della tua fronte purificata lascia un lungo solco per l'aria quasi a disegnarmi il cammino. Ti intravvedo azzurrina e compassionevole al raggio morente della luna; ti parlo come a donna viva e spirante nelle ore meridiane del giorno. Oh tu sei ancora con me, tu sarai sempre con me; perché la tua morte ebbe affatto la sembianza d'un sublime ridestarsi a vita piú alta e serena. Sperammo ed amammo insieme; insieme dovremo trovarci là dove si raccolgono gli amori dell'umanità passata e le speranze della futura. Senza di te che sarei io mai?... Per te per te sola, o divina, il cuore dimentica ogni suo affanno, e una dolce malinconia suscitata dalla speranza lo occupa soavemente. FINE.torna all'inizio |
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