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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italiano

Ippolito Nievo
Spiro se ne persuase quando non v'avea piú tempo da rimediarci. Egli  le  andava
dicendo che, se voleva, poteva andarne  in  Grecia  con  suo  padre  alla  prima
occasione; ma la tenera madre  non  voleva  arrischiare  i  ragazzini  piuttosto
gracili anch'essi a  viaggi  lunghi  e  pericolosi.  Rispondeva  sorridendo  che
starebbe a Venezia, e che già, se l'aria nativa  non  la  rimetteva  in  salute,
nessun'altra avrebbe avuto una tale virtù. Io rimproverava Spiro di farsi troppo
mercante, di non badar altro che alle provvisioni delle cambiali e ai prezzi del
caffè che crescevano sempre per le crociere inglesi. Ma egli scrollava la testa,
senza risponder nulla, ed io non capiva  cosa  volesse  dirmi  con  questo  atto
misterioso.  Il  fatto  sta  che  mi  toccò  ripartir  solo  pel  Friuli,  e   i
divertimenti, e le gite, e i bei giorni di pace di moto di campagna  idoleggiati
insieme coll'Aglaura e i suoi fanciulletti, rimasero una  delle  tante  speranze
che mi affretterò di avverare nell'altro mondo.  Trovai  a  Cordovado  cresciuta
piucchemai l'amicizia l'intrinsichezza e direi piú se vi fosse  una  parola  piú
espressiva, fra la Pisana e l'Aquilina. Omai l'amore della prima non giungeva  a
me che pel canale di questa. A questa toccava dire: - Guarda il signor Carlo!...
il signor Carlo ti domanda!... Il signor Carlo ha bisogno di questo e di quello!
- Allora solamente la Pisana si prendeva cura di me; altrimenti gli era come  se
io non ci fossi; un'eclisse completa. L'Aquilina mi  stava  dinanzi,  e  l'anima
della Pisana non vedeva che lei. Fino in certi momenti, nei quali per solito  il
pensiero non ispazia  molto  lontano,  io  sorprendeva  la  mente  della  Pisana
occupata dell'Aquilina. Se fossimo stati ai  tempi  di  Saffo  avrei  creduto  a
qualche mostruoso stregamento. Che so io?...  Non  poteva  raccapezzarci  nulla:
l'Aquilina mi diventava alle volte perfino odiosa, e il minor male ch'io dicessi
in cuor mio della Pisana si era di chiamarla pazza. Eccomi arrivato ad un  punto
della mia vita che mi riuscirà molto difficile dichiarare agli  altri,  per  non
averlo potuto mai chiarir bene bene nemmeno a me: voglio dire al mio matrimonio.
Un giorno la Pisana mi chiamò  di  sopra  nella  nostra  stanza  e  senza  tanti
preamboli mi disse: - Carlo, io m'accorgo di esserti venuta a noia;  tu  non  mi
puoi voler piú l'un per cento del bene  che  mi  volevi.  Tu  hai  bisogno  d'un
affetto sicuro che ti ridoni la pace e la contentezza della famiglia.  Ti  rendo
la tua libertà e voglio farti felice. - Che parole, che stranezze son queste?  -
io sclamai. - Sono parole che mi vengono dal cuore, e le medito da un pezzo.  Lo
dico e lo ripeto; tu non puoi volermi bene. Seguiti ad amarmi o per abitudine  o
per generosità; ma io non posso sacrificarti piú a lungo, e devo per  ricompensa
metterti sulla vera strada della felicità. - La strada della  felicità,  Pisana?
Ma noi l'abbiamo battuta lunga pezza insieme quella strada fiorita di rose senza
spine! Basterà unire ancora braccio a braccio,  perché  le  rose  ci  germoglino
sotto i piedi, e la contentezza ci sorrida di bel nuovo in  qualunque  parte  di
mondo! - Ecco che tu non mi capisci, o anzi non capisci te stesso. Questo  è  il
mio delirio. Carlo, tu non sei piú un giovinotto sventato e senza esperienza,  e
non puoi accontentarti d'una felicità che ti può mancare dall'oggi al dimani. Tu
devi prender moglie! - Dio lo volesse, anima mia! No, il cielo mi perdoni questo
sconsiderato movimento di desiderii, ma quando tuo  marito  avesse  lasciato  il
mondo delle infermità per quello della salute eterna, il primo mio voto  sarebbe
di unire la tua sorte alla mia colla santità religiosa del giuramento. -  Carlo,
non perderti ora in cotali sogni. Né mio marito vuol morire per ora, né tu  devi
consumare inutilmente gli anni piú belli della virilità. Io ti sarei una  moglie
assai manchevole; vedi che non son fatta per la fortuna di aver prole!... e cosí
cosa rimane una moglie?... No, no, Carlo, non illuderti; per esser  felice  devi
appigliarti al matrimonio. - Basta, Pisana!... Vuoi dirmi che non mi ami piú?  -
Voglio dirti che ti amo piú di me stessa; e  per  questo  m'ascolterai  e  farai
quello che ti consiglio... - Non farò null'altro che  quello  che  il  cuore  mi
comanda. - Ebbene, il  tuo  cuore  ha  parlato.  E  tu  la  sposerai.  -  Io  la
sposerò?... Ma tu vaneggi! ma tu non sai quello che dici! - Sí!  ti  dico...  tu
sposerai... sposerai l'Aquilina!... - L'Aquilina!... Basta!... Torna in  te,  te
ne scongiuro. - Parlo del mio miglior senno. L'Aquilina è innamorata di te, ella
ti piace, ti conviene per tutti i versi. La sposerai! - Pisana, Pisana! oh,  non
vedi il male che mi fai! - Vedo il bene che ti procuro; e se avessi anche voglia
di sacrificare me stessa al tuo meglio, nessuno potrebbe impedirmelo.  -  Te  lo
impedisco io!... Ho sopra di te diritti tali che tu non devi, che  tu  non  puoi
dimenticare! - Carlo, senza di te io avrò il coraggio di vivere... Misura la mia
forza dalla sfrontatezza di questa confessione. L'Aquilina invece  ne  morrebbe.
Ora scegli tu stesso. Per me ho bell'e scelto. - Ma no, Pisana, ravvediti!... Tu
stravedi, tu ti immagini quello che non è. L'Aquilina nutre per me un tenero  ma
calmo affetto di sorella: ella gioirà sempre  della  nostra  felicità.  -  Taci,
Carlo: credi all'onniveggenza d'una donna. Lo spettacolo della  nostra  felicità
avvelena la sua giovinezza... - Dunque fuggiamo, torniamo a Venezia. - Tu, se ne
hai il cuore: io no. Io amo l'Aquilina. Io voglio farla  felice:  credi  che  tu
pure sarai felice di sposarti a lei: e io unirò le vostre mani,  e  benedirò  le
vostre nozze. - Oh ma io ne morrei!... Io dovrei odiarla: sentirei tutte le  mie
viscere sollevarsi contro di essa, e il mio peggior nemico non mi sarebbe  tanto
abbominevole a dovermelo stringer fra le braccia. - Abbominevole  l'Aquilina!...
Scusa, Carlo; ma se ripeti simili infamie, io fuggo da  te,  io  non  vorrò  piú
vederti!... Gli angeli comandano l'amore: tu non sei tanto perverso da abborrire
quello che ci scende dal cielo, come la piú  bella  incarnazione  d'un  pensiero
divino. Guarda, guarda,  apri  gli  occhi,  Carlo!...  guarda  l'assassinio  che
commetti. Fosti cieco finora e non t'accorgesti né del suo martirio né de'  miei
rimorsi. Fui tua complice finora ma giuro di  non  volerlo  esser  piú;  io  non
assassinerò colle mie mani una creatura innocente che mi ama come una figliuola,
benché... Oh ma sai, Carlo, che il suo eroismo è di quelli che  oltrepassano  la
stessa immaginazione!... Mai un movimento di rabbia, mai uno sguardo  d'invidia,
una rassegnazione stanca, un amore invece che cava  le  lagrime!...  No,  no  ti
ripeto, io non pagherò coll'assassinio l'ospitalità che ebbimo in questa casa; e
tu pure mi seconderai nella mia opera di carità!... Carlo, Carlo,  eri  generoso
una volta!... Una volta mi amavi,  e  se  io  t'avessi  incitato  ad  un'impresa
coraggiosa e sublime non avresti  aspettato  tante  parole!  Che  volete?...  Io
ammutolii dapprincipio, indi piansi, supplicai, mi strappai i capelli.  Inutile!
Rimase incrollabile, dovessimo morirne ambidue;  mi  ripeteva  di  guardare,  di
guardare, e che se non mi fossi convinto di quanto  ella  affermava,  e  se  non
avessi accondisceso a quanto mi proponeva  sarei  stato  un  essere  spregevole,
indegno al pari d'amore che incapace d'ogn'altro sentimento. D'allora in poi  mi
negò ogni sguardo ogni sorriso d'amore; mi proibí l'accesso alla sua stanza;  fu
tutta per l'Aquilina, e nulla per me. Infatti, per quanto volessi illudermi,  mi
fu forza riconoscere che in quanto all'amore della  giovinetta  per  me  i  suoi
sospetti non andavano lontani dal vero. Per qual incantesimo  non  me  ne  fossi
accorto non ve lo saprei dire: e  arrabbiai  della  mia  sciocchezza  della  mia
ingenuità. Mi provai anche a volgere contro l'Aquilina qualche parte  di  questa
rabbia, ma non ne fui capace. Dopoché ella indovinò quanto fra me  e  la  Pisana
era avvenuto, ella assunse verso di me un contegno cosí supplice vergognoso  che
mi tolse ogni coraggio. Pareva mi chiedesse perdono del  male  involontariamente
commesso; e la vidi talvolta adoperarsi presso la Pisana  per  rabbonirmela.  Si
studiava perfino di sfuggirmi,  di  fare  con  me  la  stizzosa  perché  non  si
avvedessero di quanto succedeva nel suo cuore,  e  la  concordia  rinascesse  in
mezzo a noi. Bruto, che fin'allora era andato in solluchero per  l'allegra  vita
che si menava, scoperse con  rammarico  quei  primi  segni  di  dissapore  e  di
trasordine, non ne capiva gran fatto ma gliene doleva all'animo. Ne mosse  anche
parola a me, ma io mi ritraeva  burbanzoso,  stringendomi  nelle  spalle;  altro
motivo di disgusto e di sospetto. L'Aquilina intanto ci perdeva nella salute; il
fratello se ne inquietò; furono chiamati medici che fantasticarono molto, e  non
indovinarono nulla. La Pisana mi stringeva sempre; io mi rammoliva.  Alla  fine,
non so come, mi lasciai sfuggire dalla bocca un sí. Bruto  fu  meravigliatissimo
della proposta fattagli dalla  Pisana,  ma  dietro  reiterate  assicurazioni  di
questa e che tutto fra me e  lei  era  terminato  di  spontaneo  accordo  e  che
l'Aquilina moriva  per  me,  egli  se  ne  persuase.  Se  ne  fece  parola  alla
giovinetta, che non volle credere dapprincipio, e poi ne smarrí i sentimenti per
la consolazione. Ma poi all'abboccarsi con me rimase senza fiato e senza parola;
la poverina presentiva che io me le offeriva trascinato  a  forza  e  non  aveva
coraggio di chiedermi un tal sacrifizio. Lo credereste  che  la  sua  attitudine
finí di commovermi affatto, e che sentii d'un  subito  nel  cuore  l'annegazione
stessa della Pisana?... Mi parve di salvare la vita d'una  creatura  angelica  a
prezzo della mia, e la coscienza di questa valorosa azione diede al mio  aspetto
la serena contentezza  della  virtù.  All'Aquilina  non  parve  vero:  in  prima
stentava a credere quello che la Pisana le aveva dato ad intendere, che cioè noi
due non ci eravamo amati mai altro che come  buoni  parenti,  ma  poi  vedendomi
presso di lei calmo affettuoso e alle volte  perfino  felice,  se  ne  capacitò.
Allora non pose piú freno agli slanci di gioia dell'anima  sua,  e  mi  convenne
esserlene grato se non altro  per  compassione.  Vedere  quell'ingenua  creatura
rifiorir allora come una rosa inaffiata dalla rugiada, e  risorgere  sempre  piú
bella e ridente ad un mio sguardo  ad  una  parola,  fu  lo  spettacolo  che  mi
innamorò non forse di lei, ma di quell'opera miracolosa di carità. La Pisana non
capiva in sé pel contento di questi felici effetti,  e  la  sua  gioia  talvolta
m'incaloriva in una virtuosa emulazione, tal'altra  mi  cacciava  nel  cuore  la
fitta della gelosia. Oh  qual  tumultuoso  vortice  d'affetti  s'ingroppa  e  si
sprofonda fra le piccole pareti d'un cuore!  Anche  allora  io  diedi  prova  di
quell'estrema pieghevolezza che impresse molte azioni della mia vita d'un colore
strano e  bizzarro,  per  quanto  la  mia  indole  tranquilla  e  riflessiva  mi
allontanasse dalla stranezza e dalla bizzarria. Ma la stravaganza era di chi  mi
conduceva pel naso; benché poi non possa dire  se  in  quell'occasione  adoperai
male lasciandomi condurre, o se meglio avrei fatto di  inspirarmi  da  me  e  di
prendere qualche deliberazione contraria. Certo i miei sentimenti, lo dico senza
adulazione, toccarono allora l'ultimo segno della generosità; e me ne maraviglio
senza pentirmene. Pentirsi d'una azione buona e sublime, per quanto danno ce  ne
incolga, è sempre atto di gran codardia. Meglio è contarvela  in  poche  parole.
Per la Pasqua del milleottocentosette si stabilirono  le  nozze.  La  Pisana  fu
tanto accorta da farsi invitare dallo zio monsignore a starne presso di lui come
governante. Io rimasi con Bruto e l'Aquilina e lo sposalizio  fu  celebrato  mio
malgrado e a richiesta della Pisana con grande solennità. L'Aquilina, poveretta,
gongolava tutta e non toccava terra pel gran piacere, io mi sforzava  di  godere
della sua gioia, e posso credere di non averla almeno guastata.  Alle  volte  mi
guardava indietro sorprendendomi di esser arrivato fin là, e non comprendendo né
il perché né il come; ma la corrente mi trascinava; se fu tempo in cui  credessi
alla fatalità fu certamente allora. Io sposai l'Aquilina. Monsignore  di  Fratta
benedisse il matrimonio; la Pisana fu matrina della sposa. Io mi  sentiva  entro
una  gran  voglia  di  piangere,  ma  non  era  senza  qualche  dolcezza  quella
melanconia. Al pranzo di nozze non ci fu grande allegria; ma anco  non  rimasero
sui piatti molti avanzi. Monsignore mangiava come avesse vent'anni; io, vicino a
lui e un po'  sbalordito  dagli  inopinati  accidenti  che  m'intervenivano,  lo
domandai non so quante volte della sua salute durante il pranzo.  Mi  rispondeva
fra un boccone e l'altro: - La salute andrebbe a  meraviglia  se  non  ci  fosse
questo benedetto scirocco! Una volta non era  cosí.  Te  ne  ricordi,  Carlo?...
Peraltro non pioveva da un mese; e fra tutti i popoli d'Italia Monsignore era il
solo che sentisse lo scirocco. Alle mie nozze intervennero, ci s'intende, Donato
colla moglie e i figliuoli, il Capitano colla signora Veneranda, e il cappellano
di Fratta. Un altro  commensale  di  cui  forse  vi  sarete  dimenticati  fu  lo
Spaccafumo; il quale in tanta confusione di governi e di avvenimenti  che  s'era
succeduta, avea sempre continuato ad amministrare la giustizia a suo modo; ma ad
ogni anno passava qualche mesetto in prigione e allora  s'era  fatto  vecchio  e
ubbriacone. Le sue prodezze erano omai piú di parole che di opere; e  i  monelli
si trastullavano di stuzzicarlo e di fargli dire  sui  mercati  le  piú  strambe
corbellerie. Egli viveva si può  dire  di  elemosina,  e  per  quanto  Bruto  lo
invitasse a sedere alla mensa comune non ci fu verso di  poterlo  stanare  dalla
cucina, ove godette delle nozze coi gatti coi cani e  colle  guattere.  La  sera
gran festa da ballo: allora si pensò piú che agli sposi a darsi bel tempo, e  la
giocondità fu piena e spontanea. Marchetto, sagrestano  che  pareva  il  diavolo
vestito da prete, grattava il contrabbasso, e in onta all'età con una tal  furia
da cavallante che le gambe duravano fatica a tenergli dietro. La Pisana cercò di
scomparir quella sera alla muta; ma io m'accorsi del momento di sua partenza:  i
nostri  occhi  s'incontrarono,  e  si  scambiarono,  credo,  un  ultimo   bacio.
L'Aquilina parlava allora colla Bradamante  ma  rimase  un  momento  svagata.  -
Cos'hai? - le chiese la sorella. - Nulla, nulla - rispose tramortita la  novella
sposa. - Non ti pare che qua dentro si affoghi  dal  caldo?...  Io  udii  quelle
parole benché pronunciate a bassissima voce; e non pensai piú che a  compiere  i
nuovi doveri che mi era imposto. Fui  gentile,  amoroso  coll'Aquilina  fino  al
finir della festa.  E  poi?...  E  poi  m'accorsi  che  in  certi  sacrifizi  la
Provvidenza, forse per retribuirne il merito, sa mettere qualche  discreta  dose
di piacere. L'innocenza, la leggiadria di mia moglie vinsero affatto la causa; e
feci assoluto proponimento di mostrarmele sempre  buon  marito.  "Quello  che  è
fatto è fatto" pensai "il da farsi facciamolo bene...". Non credo che l'Aquilina
s'accorgesse  nemmeno  durante  i  primi  giorni  dello  sforzo   indurato   per
dimostrarle quell'ardenza d'amore che infatti io non sentiva. Ma a poco  a  poco
m'abituai a volerle bene in quel nuovo modo che  doveva;  non  durai  piú  tanti
sforzi; e se sospirava ripensando al passato,  trovava  che  anche  senza  molta
filosofia si poteva accontentarsi del presente. Le opere  buone  sono  una  gran
distrazione. Quella di far felice mia moglie mi occupò tutto, e mi vidi dopo  un
solo mese piú buon marito di quanto non avrei mai osato sperare.  La  Pisana  fu
testimone di questo mio interno mutamento.  Persuaso  che  quel  suo  grande  ma
troppo facile sacrifizio a favore della Aquilina non potesse spiegarsi  che  con
un sensibile raffreddamento del suo  amore  per  me,  non  mi  diedi  briga  per
nasconderle l'agevolezza ch'io trovava maggiore d'ogni speranza nel  rassegnarmi
a portare la mia parte di sacrifizio. Sperava  che  vedendomi  meno  malcontento
avrebbe avuto minor rimorso della tirannia con cui aveva fatto violenza alla mia
volontà. Sulle prime ella la capí per questo verso;  ma  i  giorni  passavano  e
nelle frequenti visite che ne faceva andava sempre piú oscurandosi  in  viso;  e
quelle congratulazioni che recava negli occhi della mia bravura si cambiarono  a
poco a poco in sospetti ed in stizza. Io  credeva  non  mi  trovasse  abbastanza
premuroso presso l'Aquilina e raddoppiava di  zelo  e  di  buona  volontà;  ella
invece s'ostinava nel suo broncio, ed anche con mia moglie non si  mostrava  piú
tanto affettuosa come dapprincipio.  Un  mattino  capitò  a  casa  nostra  tutta
scalmanata che Bruto e l'Aquilina erano fuori per  non  so  qual  motivo.  Senza
aspettare neppure ch'io la salutassi mi chiuse la bocca con un gesto. - Tacete -
mi disse - ho fretta di sbrigarmi. Voi adesso vi amate: non avete piú bisogno di
me. Torno a Venezia. Io non voleva rispondere, ma  ella  non  me  ne  lasciò  il
tempo. Mi gridò nell'uscire che salutassi mia moglie e il cognato: indi  rimontò
nel calessino col quale era venuta accompagnata dal cappellano di Fratta, e  per
correre che facessi non mi venne fatto di raggiungerla.  Un'ora  dopo,  quand'io
capitai al castello era già partita né si sapeva se per la strada di Portogruaro
o di Pordenone colla carrettella  dell'ortolano.  Fui  imbrogliatissimo  di  dar
ragione all'Aquilina e a Bruto d'una sí precipitosa partenza, ma ebbi la  felice
idea d'inventar la favola d'una malattia improvvisa della  signora  Contessa;  e
fui creduto senza  fatica.  Allora  non  felice  né  immemore  ma  tranquillo  e
rassegnato mi rimisi alla mia vita di organista e di marito. L'Aglaura  e  Spiro
scrivevano sempre piú maravigliati di  quella  mia  improvvisa  conversione;  io
rispondeva celiando che Dio m'avea toccato il cuore: ma sovente si scrive quello
che non si sente. I mesi correvano via semplici,  laboriosi;  sereni  come  quei
cieli d'autunno  nei  quali  il  sole  abbellisce  la  natura  senza  scaldarla.
L'Aquilina, tutta mia, si rivestiva ogni giorno di nuove grazie di  nuovi  pregi
per  piacermi;  la  riconoscenza  per  un  amore  cosí   nobilmente   dimostrato
m'inchinava sempre piú verso di lei, e rendeva sempre piú rari i  rimpianti  del
passato. Il  cuore  volava  ancora  talvolta;  ma  quando  la  mente  instituiva
confronti le conveniva confessare che l'Aquilina era la piú  amabile  e  la  piú
perfetta fra quante donne io m'avessi mai conosciuto. A lungo andare  i  giudizi
della   mente   hanno   qualche   influenza   sugli   affetti   d'un   uomo   di
trentaquattr'anni. Quando poi m'avvidi ch'ella era incinta,  quando  mi  strinsi
fra le braccia il fantolino piú robusto e piú roseo che m'avessi  mai  veduto  e
sentii commoversi le mie viscere di padre,  e  di  questa  consolazione  dovetti
confessarmi debitore a lei, allora non seppi piú chi mi fossi; ringraziai  quasi
la Pisana di avermi sforzato a quello strambo spropositato matrimonio.  Peraltro
la mia memoria non era né morta né ingrata. Io voleva avere sovente  notizie  da
Venezia, e sapendo che la Pisana accasata colla  Clara  presso  suo  marito  non
d'altro si occupava che di curare le infermità di questo, mi  uscirono  da  capo
certi giudizi temerari che aveva fatto sulla sua fuga dal Friuli.  S'ella  fosse
stata arrabbiata contro di me, non  ne  avrebbe  dato  segno  a  quel  modo.  Io
conosceva per pratica le  vendette  della  Pisana.  Intanto  anche  lontano  non
cessava di esserle utile. Avea rimesso in buon sesto l'amministrazione  di  quei
pochi  coloni  che  dipendevano  ancora  dal  castello  di  Fratta,  e  regolato
l'esazione  di  molti  livelli.  Le  entrate  crebbero  del  trenta  per  cento.
Monsignore poté mangiare qualche cappone che non era gallo, e il conte  Rinaldo,
malgrado la sua selvatichezza, m'ebbe a  ringraziare  dell'essermi  adoperato  a
loro pro' senz'essere richiesto, e con tanta efficacia. Vi  prenderà  stupore  e
noia  che  la  mia  vita  per  qualche  tempo  cosí  capricciosa  e  disordinata
riprendesse allora un tenore sí quieto e monotono. Ma io racconto e non invento:
d'altra parte è questo un fenomeno  comunissimo  e  naturale  nella  vita  degli
Italiani, che somiglia spesso al corso d'un  gran  fiume  calmo  lento  paludoso
interrotto a tratti da sonanti e precipitose cascate.  Dove  il  popolo  non  ha
parte del governo continuamente, ma se la prende a  forza  di  tanto  in  tanto,
questi sbalzi queste metamorfosi devono succedere di necessità, perché altro non
è la vita del popolo se non la somma delle vite individuali. Per questo io girai
alcuni anni lo spiedo, fui studente e un po' anche cospiratore; indi  tranquillo
cancelliere, poi patrizio  veneto  nel  Maggior  Consiglio  e  segretario  della
Municipalità: da amante spensierato di tutto mi mutai di colpo  in  soldato:  di
soldato in ozioso un'altra volta, poi in intendente e in  maggiordomo:  finii  a
maritarmi e a sonar l'organo. In questo perpetuo su e giù, se salii o  scesi  lo
direte voi: io per me so che ci  consumai  trentaquattr'anni,  quegli  anni  nei
quali vissi tutto per me.  Dopo,  la  famiglia  i  legami  i  doveri  precisi  e
materiali s'impadronirono de' miei  sentimenti.  Non  fui  piú  il  puledro  che
scorazza pei paludi saltando fossati  e  sforacchiando  fratte,  ma  il  cavallo
bardato che tira gravemente o la carrozza d'un cardinale  o  il  carretto  della
ghiaia. Ma non vi spaventate; non mancheranno terremoti e rovesciate per tornare
in libertà il cavallo e fargli riprendere una matta corsa attraverso  il  mondo.
Solamente ora sono sicuro di non correr piú; ma ho, vi ripeto, come  Monsignore,
lo scirocco degli ottant'anni nelle gambe. Mentre io mi faceva dí per dí  sempre
piú casalingo e campagnuolo, e al mio piccolo Luciano  che  già  trottolava  nel
cortile aggiungeva un secondo fanciulletto cui misimo nome Donato in onore dello
zio che  gli  fu  padrino,  nel  mondo  strepitavano  le  glorie  guerresche  di
Napoleone. Vinceva la Prussia a Jena, l'Austria a  Wagram;  s'imparentava  colle
vecchie dinastie, e signore dell'Europa chiudeva il continente all'Inghilterra e
minacciava il mezzo asiatico impero degli Czar. L'Italia,  tutta  in  suo  pugno
sbocconcellata  a  capriccio,  aveva  tuttavia  ritto  a  Milano  lo   stendardo
dell'unità. Si avvezzavano a guardar quello, e Napoleone  piuttosto  nemico  che
protettore, per la sua ambizione smisurata e noncurante di storia o  di  popoli.
Ma quando la spada dataci  da  lui  fosse  caduta  a  terra  chi  avrebbe  osato
impugnarla? A questo non pensavano. Si credevano forti, non sapendo che la forza
riposava sopra  il  colosso  e  con  lui  si  sarebbe  fiaccata.  Di  cento  che
armeggiavano uno solo pensava, e agli altri novantanove sarebber cadute le  armi
e le braccia nel maggior cimento. Io non era spettatore,  ma  indovinava.  Spiro
frattanto scriveva lettere sempre piú animate e misteriose;  e  ben  m'accorgeva
che qualche sublime idea fermentava nell'anima  del  greco  mercante.  Rigas  il
poeta aveva fondato la prima Eteria; e ottenutone per ricompensa  il  tradimento
dai cristiani naturali alleati e il palo dai Turchi.  Una  seconda  congiura  si
ordiva in Italia a profitto dei  Greci,  protetta  da  Napoleone.  Sognavano  di
contrapporre al nuovo Carlomagno un nuovo impero di Bisanzio. Ed erano sogni, ma
raccendevano le ceneri non mai spente dei greci vulcani  e  si  cantava  fra  le
montagne dei Mainotti: "Un fucile una sciabola e s'altro manca una fionda,  ecco
l'armi nostre. "Io vidi gli agà prosternati a' miei piedi;  mi  chiamavano  loro
signore e padrone. "Io avea rapito loro il fucile, la sciabola, le  pistole.  "O
Greci, alto le fronti umiliate! Prendete il fucile la sciabola la  fionda.  E  i
nostri oppressori ci nomeranno ben presto loro signori e padroni." Fra  le  orde
selvagge degli Albanesi e le tribù pastorecce del Montenegro, ove è  un  insulto
dire: - I tuoi son morti a lor letto! - serpeggiava  il  fuoco  dell'entusiasmo.
Alí Tebelen trionfava colla crudeltà e colla perfidia ma gli  esuli  dell'Ellade
inspiravano a tutta Grecia il disegno di terribili rappresaglie. Quella  non  si
manifestava ancora ma era forza verace; forza invincibile d'una nazione  che  ha
meditato da lungo la propria sventura,  ha  accumulato  gli  insulti  e  aspetta
paziente il momento della vendetta. Il vecchio Apostulos partí  un'ultima  volta
per la Morea; la speranza di rigenerare la Grecia colla politica  dei  Fanarioti
era svanita; egli si volgeva a speranze di guerra e di sangue  coll'avidità  del
leone che si vede strappata la preda quando appunto credeva  di  addentarla.  La
morte lo colse a Scio, e Spiro me ne diede il tristo annunzio colle forti parole
che gli ultimi desiderii di suo padre sarebbero  stati  lo  spirito  d'ogni  sua
impresa. Egli m'invitava sempre a trasferirmi  colla  famiglia  a  Venezia,  ove
diceva non mi sarebbe mancato né decoroso sostentamento né  occasione  di  esser
utile a me ed agli altri. Ma contento  di  quello  che  aveva,  non  arrischiava
d'avventurar me e soprattutto i miei in malcerti tentennamenti.  Bruto  leggendo
qualche brano delle lettere di mio cognato  si  mordeva  le  labbra,  e  pestava
rabbiosamente la sua gamba di legno. Io guardava l'Aquilina e il piccolo  Donato
che le pendeva alla mammella: non poteva distogliermi da quella  pace.  Successe
la  gran  guerra  dei  moderni  giganti.  Napoleone  entrò   in   Germania   con
cinquecentomila uomini, diede la posta a Dresda a imperatori e re  piú  vassalli
che alleati; e quando alcuni fra essi gli erano annunciati, diceva: - Aspettino.
- Voleva chieder conto allo Czar della tiepida amicizia. Il  mistico  Alessandro
chiamò all'armi la santa Russia, oppose alla guerra dell'ambizione la guerra del
popolo; e quella miserabile cavalleria dei Cosacchi, come la chiamava Napoleone,
fu il  flagello  e  lo  sgomento  dell'invincibile  esercito.  Giunse  a  Mosca,
vincitore sempre: ne fuggí vinto dal fuoco, dal gelo, dagli elementi insomma, ma
non dagli uomini. Quarantamila italiani insanguinarono  delle  proprie  vene  le
nevi della Russia per assicurare la ritirata agli avanzi dispersi  della  grande
armata. Ma il bollettino che  annunziava  l'immenso  disastro  conchiudeva:  "La
salute di Sua Maestà non fu mai migliore." Conforto bastevole alle vedove,  agli
orfani, alle madri orbate della prole! Egli è a Parigi a levar nuovi eserciti  a
rincalorire la devozione colla presenza, e il coraggio con nuove  bugie.  Ma  la
Francia non gli crede, la Germania insorge, gli alleati tradiscono. Egli  ricade
a Lipsia; abdica all'Impero di Francia al Regno d'Italia e si  ritira  all'isola
d'Elba. Allora si vide cosa fosse il Regno d'Italia senza Napoleone, e a  che  i
popoli sieno menati da istituzioni anche maschie senza libertà. Fu uno  sgomento
una confusione universale: un risollevarsi un combattersi  di  speranze  diverse
mostruose, tutte vane. A Milano si trucida un ministro, si abbattono le  insegne
dell'antico potere, si gavazza nella presente licenza non pensando al futuro.  E
il futuro fu come lo volevano gli altri;  in  onta  alle  rispettose  e  sensate
domande della Reggenza provvisoria, in onta alle belle parole degli ambasciatori
esteri. Il popolo non aveva vissuto; non  viveva.  Se  io  fossi  costernato  di
questi avvenimenti che mi scotevano dal mio torpore  di  padre  di  famiglia,  e
avveravano quelle paure che da lunga pezza aveva  concepito,  non  è  d'uomo  il
dirlo. Dal racconto di questa vita  dovete  già  avermi  conosciuto  abbastanza.
Sospirai per me, piansi di disperazione  per  la  patria,  indi  guardando  alle
sembianze tenerelle dei figliuoli mi consolai e rividi un barlume  di  speranza.
Eravamo nati, si può  dire,  diciott'anni  prima;  ci  voleva  la  scuola  delle
sventure per educarci, e la vita dei  popoli  non  si  misura  da  quella  degli
individui; se noi figliuoli s'aveva scontato la viltà  dei  padri,  i  figliuoli
nostri forse avrebbero raccolto la messe fecondata dal  nostro  sangue  e  dalle
lagrime. Padri e figliuoli sono un'anima sola, sono la nazione che  non  perisce
mai. Cosí mi affidava alla rigenerazione morale, non al viceré  Beauharnais,  né
allo czar Alessandro, né a lord Bentink, né al general Bellegarde. A questo modo
passano rapidi gli anni come i mesi della giovinezza; ma  non  crediate  che  in
effetto fossero tanto veloci come sembra a raccontarli. Piú il tempo è  lungo  a
narrarlo e piú forse fugge rapidamente in realtà. A  Cordovado  i  giorni  erano
tranquilli, sereni, dolci anche se volete, ma la soverchia brevità  non  era  il
loro difetto. Le lettere della Pisana assai rare dapprincipio diventarono mano a
mano  piú  frequenti  all'infuriare  delle  tempeste  politiche;   pareva   che,
immaginandosi quanto ne  doveva  soffrire,  ella  s'affrettasse  a  porgermi  il
conforto della sua parola. Mi diceva dei grandi schiamazzi che  aveano  fatto  i
Venchieredo l'Ormenta e il padre Pendola coi suoi proseliti; delle belle cariche
date ai suoi cugini Cisterna, massime ad  Augusto  ch'era  diventato  di  botto,
credo, segretario di governo; e d'Agostino Frumier che volendo  ritirarsi  dagli
affari ed essendo ricchissimo non avea sdegnato di  domandare  il  quarto  o  il
quinto di pensione che gli competeva. Molte, come vedete, furono le porcherie; e
non poteva essere altrimenti perché l'astinenza era la virtù dei migliori, né si
giungeva a fare di  meglio.  Peraltro  il  vecchio  Venchieredo  osteggiato  pel
soverchio zelo avea perduto  assai  della  sua  influenza  ed  era  scaduto  dai
primissimi gradi fino a quello di direttore della Pulizia. Egli ne sbuffava;  ma
non c'era rimedio. Servir troppo è servir male. Non era stato furbo  abbastanza.
- Il Partistagno invece rimise il piede in Venezia colonnello degli ulani; aveva
sposato una baronessa morava, diceva, perché somigliantissima ad una sua cavalla
prediletta. Egli serbava ancora il suo astio contro la  famiglia  di  Fratta;  e
saputo che  la  Clara  uscita  di  convento  abitava  il  Palazzo  Navagero,  si
pavoneggiava sovente in grande assisa sotto le finestre di  quello  sperando  di
darle nell'occhio e persuaderla a dire:  "Gran  peccato  quello  di  non  averlo
voluto ad ogni costo!". - Ma la Clara, diventata miope a forza  di  aguzzar  gli
occhi nell'Uffizio della Madonna, non ci  vedeva  piú  fin  nella  calle  e  non
distingueva uno di que'  pezzenti  che  fermano  le  gondole,  dal  magnifico  e
spettacoloso colonnel Partistagno. Fuvvi chi disse che anche  Alessandro  Giorgi
fosse passato  dall'esercito  italiano  all'austriaco  serbandosi  il  grado  di
generale guadagnato alla Moskova, ma io non ci credeva. Infatti alcuni mesi dopo
mi giunsero notizie dal Brasile dove si era rifugiato e aveva  trovato  un  buon
posto. Non si dimenticava di offrirmi la sua protezione presso l'imperatore  don
Pedro; e mi diceva di aver trovato a Rio Janeiro parecchie contesse Migliane che
mi potrebbero fare ben altro che maggiordomo. Probabilmente egli si  dimenticava
che ero organista ammogliato e con figli; pure mi  aveva  veduto  me  e  la  mia
famigliuola  nel  passare   col   principe   Eugenio   quando   marciavano   nel
milleottocentonove verso l'Ungheria. Ma in onta  ai  suoi  quarant'anni  il  bel
generale si conservava alquanto libertino e smemorato. Gli smorti anni  seguenti
non furono che un melanconico cimitero. Il primo a traboccare fu  il  cappellano
di Fratta, indi toccò allo Spaccafumo; poi a Marchetto il cavallante, sagrestano
e sonatore di contrabbasso  che  morí  colpito  dal  fulmine  mentre  scampanava
durante un temporale. Gli abitanti della parrocchia  lo  venerano  anche  adesso
come un martire. Durante l'anno della carestia e nel susseguente la  morte  fece
man bassa sulla povera gente; fu un sonare a morto continuo, e cosí se n'andò ma
non per colpa della carestia anche la signora Veneranda, lasciando  il  Capitano
vedovo per la seconda volta ma con settecento  lire  di  usufrutto,  il  che  lo
liberò dal pensiero di torsi una terza moglie. Ed anche noi in quell'anno ebbimo
a stringerci non poco; perché non si trovavano piú né famiglie che pagassero  il
ripetitore ai loro ragazzi né pievani che racconciassero organi. Anzi  le  spese
fatte in quell'anno furono il principio del nostro sbilancio che  poi  s'aggravò
sempre e mi condusse ai nuovi  rivolgimenti  che  udrete  in  appresso.  Non  mi
ricordo precisamente quando, ma certo in quel torno il conte  Rinaldo  fece  una
gita nel Friuli: veniva per denari e  siccome  non  ne  trovò,  vendette  ad  un
imprenditore i materiali della parte piú diroccata del castello.  Io  assistetti
alla demolizione e mi parve al funerale d'un amico; cosí pure il Conte non  poté
reggere allo spettacolo di quella rovina, e toccati quei pochi quattrini  se  ne
tornò a Venezia. Ve lo richiamava anche la malattia di sua madre che  cominciava
a dar gravi timori. Appena sgomberi i cortili delle pietre spaccate a  forza  di
piccone e delle macerie ragunatevi a montagne durante la  demolizione,  cominciò
Monsignore a sentir piú molesto che  mai  lo  scilocco.  Una  mattina  ebbe  uno
svenimento durante la messa, e dopo d'allora non uscí piú della sua  camera.  Io
fui a trovarlo il penultimo giorno di sua vita, gli domandai del suo stato e  mi
rispose colla  solita  solfa.  Sempre  quello  scirocco  ostinato!!...  Tuttavia
mangiava anche a letto a doppie ganasce, e all'ultima ora aveva il breviario  da
un lato e dall'altro  mezzo  pollastrello  arrostito.  La  Giustina  gli  veniva
domandando: - Non mangia, Monsignore?... - Non ho piú fame! - rispose  egli  con
voce piú fioca del solito. Cosí morí monsignor Orlando di Fratta,  sorridendo  e
mangiando com'era vissuto; ma almeno si avea cavata la fame. Invece sua cognata,
che gli andò dietro qualche mese dopo, farneticò fino agli estremi di carte e di
trionfi; morí sognando vincite favolose, collo scrigno asciutto e con  ogni  sua
roba al Monte di Pietà. I Cisterna dovettero prestare qualche  ducato  al  conte
Rinaldo per farla seppellire, giacché né la Clara né la Pisana avevano un ducato
in tasca, e Sua Eccellenza Navagero si commiserava sempre della propria povertà.
Tutti se n'andavano, ma costui batteva duro; segno che i miei ardentissimi  voti
di qualche anno addietro non  avevano  ottenuto  grazia  presso  Domeneddio.  La
Pisana mi partecipò con assai dolenti parole la morte della madre; e in  segreto
mi raccontò anche una visita assai impreveduta che avevano  ricevuto.  Una  sera
mentr'essa e la Clara recitavano il rosario nella cappella di casa  (questa  poi
dalla Pisana non me la sarei aspettata),  s'era  annunziato  un  forestiero  che
chiedeva premurosamente di loro. Un signore piccolo, magro, dicevano,  folto  di
barba, cogli occhi lucentissimi ad onta dell'età che sembrava di cinquant'anni e
piú, colla fronte molto alta e nuda affatto di capelli. Chi può essere? chi  non
può essere?... Vanno in sala e la Pisana riconosce piú alla voce che alla figura
il dottor Lucilio Vianello. Era giunto sopra  una  nave  inglese,  sapeva  della
Clara tornata al secolo, e veniva a chiederle per l'ultima  volta  l'adempimento
delle sue promesse. La Pisana diceva di aver avuto paura del dottore  tanto  era
cupo e minaccioso; ma la Clara gli rispose netto netto che non lo conosceva piú,
che si era sposata a Dio e che avrebbe continuato a pregarlo  per  l'anima  sua.
"Vi assicuro" cosí scriveva la Pisana "che in quel momento lo sdegno  il  furore
lo ringiovanirono di trent'anni; indi si fece pallido pallido e prese un  colore
terreo di  morte  e  l'aspetto  d'un  ottuagenario.  Partí  curvo,  barcollante,
mormorando strane parole. La Clara si fece il segno della croce, e m'invitò  con
voce posatissima a  riprendere  il  nostro  rosario.  Io  soggiunsi  che  doveva
riscaldar il brodo per mio marito, e me  ne  dispensai;  perché  proprio  quella
scena mi avea fatto male. Non avrei mai creduto che tanta passione covasse sotto
quelle  apparenze  di  ghiaccio,  durando  invitta  attraverso  le  vicende  gli
strabalzi i rivolgimenti d'una vita poco meno che favolosa. Ve  lo  ricordate  a
Napoli e a Genova? Non pareva che si fosse dimenticato affatto della  Clara?  Ce
ne chiedeva egli mai  novella?  Mai!  Certo  mi  son  convinta  che  a  giudicar
nettamente gli uomini bisogna aspettare che siano  morti.  E  voi  pure,  Carlo,
soprastate a giudicar me finch'io non abbia raggiunto  la  mia  povera  madre!".
Seguivano poi i soliti saluti e piú affettuosi del solito per l'Aquilina Bruto e
i miei figliuoli, già grandicelli,  poverini,  e  pieni  di  cuore  e  di  buona
volontà.  Mi  si  raccomandava  inoltre  di  porre   una   piccola   pietra   di
commemorazione nel cimitero di Fratta per monsignor Orlando; ma a ciò  io  aveva
già pensato mesi addietro, e don Girolamo, a dispetto del  fratello  notaio,  mi
avea prevenuto in questa pia opera. Quella lapide portava un'iscrizione  di  cui
si potevano perdonare le eleganti bugie, perché già nessuno ci capiva  nulla  in
paese.  Peraltro  un  certo  compare  che  sapeva  di  lettere  era  giunto   ad
interpretarla fino ad un certo punto, dove si diceva che il  reverendo  canonico
era morto octuagenarius: il che significava agli otto di gennaio,  secondo  lui.
Ma molti si ribellavano, soggiungendo che non agli otto di gennaio era morto  ma
ai quindici. - Eh? cosa mai! - rispondeva  il  valentuomo  -  vorreste  che  gli
scalpellini badassero a queste minuzie? Giorno piú giorno meno,  l'importante  è
che sia morto per incastrargli addosso la lapide. Io diedi contezza alla  Pisana
di questo suo pietoso desiderio già adempiuto da un pezzo, lodandone  molto  don
Girolamo, il quale, benché non fosse né un Vincenzo di  Paola  né  un  Francesco
d'Assisi, pur sapea farsi perdonare dai poverelli di  Portogruaro  la  roba  mal
acquistata dal padre. - Non son tutti come il padre Pendola! - diceva  io.  Ella
mi rispose che a proposito del padre Pendola se ne contavano di belle. Dappoiché
il Papa aveva reintegrato la Compagnia  di  Gesù,  egli  s'adoperava  molto  per
ottenerne  lo  stabilimento  in  Venezia.  Siccome  il  novello  istituto  delle
convertite non prosperava, si voleva ottenere dal  consenso  delle  poche  suore
rimaste e colla debita licenza dei superiori di erogarne  le  entrate  al  primo
impianto d'una casa e d'un collegio di novizi. Peraltro il governo pareva alieno
dal favoreggiare quest'idea; anzi l'avvocato Ormenta, che la caldeggiava, era in
voce di dover essere giubilato. Da questa notizia io capii tutto il maneggio  di
quella faccenda e come  quei  dabben  sacerdoti  primi  fondatori  dell'istituto
fossero stati ubbidientissimi burattini nelle mani del  padre  Pendola.  Ma  già
anche per costui poco dovea durare la cuccagna;  infatti  morí  anch'esso  senza
vedere i reverendi Padri stabiliti in Venezia. Buoni e tristi, tutti alla  lunga
dobbiamo andare. Al padre  Pendola  non  mancarono  né  epitaffi  né  satire  né
panegirici né libelli. Chi voleva canonizzarlo e chi  seppellirne  in  acqua  il
cadavere. Egli avea supplicato, morendo, quelli che  lo  assistevano  di  essere
dimenticato come un indegno servo del  Signore;  né  credeva  che  lo  avrebbero
ubbidito cosí appuntino. Dopo una settimana non se ne  parlava  già  piú,  e  di
tanta ambizione null'altro era rimasto che un vecchio e marcio carcame  ravvolto
in una tonaca e inchiodato fra quattro assi d'abete. Nemmeno gli avean  lustrato
la cassa come si usa ai morti di rilievo! Che ingratitudine!... In fin dei conti
poi credo che la Curia patriarcale fu contenta di essere liberata dal pericoloso
aiuto d'un sí furbo zelatore della  gloria  di  Dio  e  dei  proprii  interessi.
Uscivano i vecchi attori, entravano i nuovi. Demetrio Apostulos, il  primogenito
di Spiro aveva vent'anni; Teodoro, il secondo, toccava i diciotto.  I  miei  due
stavano fra i dieci ed i dodici. Donato ne aveva tre, fra i sedici e i ventidue,
tre robusti giovinotti davvero, che guai se fossero stati in età al tempo  delle
ultime leve napoleoniche!...  Allora  si  continuava  bensí  anno  per  anno  la
coscrizione,  in  onta  ai  largheggianti  proclami  della  Santa  Alleanza;  ma
facilmente si concedevano gli scambi, e colla pace che si prevedeva  lunghissima
e profonda, molti infingardi concorrevano volentieri ai ben pasciuti ozii  della
milizia. La giovine generazione accennava all'antica di ritrarsi;  poteva  anche
accennare superbamente, come poco contenta di noi; non avrebbe avuto  il  torto.
Ma al contrario ci ammirava come aiutatori e testimoni  di  grandi  imprese,  di
generosi tentativi, di incredibili portenti:  pareva  ci  dicesse:  "Dirigetemi,
acciocché non cada dove voi siete caduti!...". Ci voleva altro che direzione; ci
voleva nerbo e non ne avevamo piú; ci abbisognava la concordia, e  avean  saputo
renderla   impossibile.   Al   milleottocentodiciannove   durava    in    Europa
quell'inquietudine nervosa che dura  in  un  corpo  dopo  la  corsa  sfrenata  e
trafelante di alcune ore; idee chiare,  sentimenti  generosi  e  universali  non
erano piú, se non forse in qualche testa segregata dalla  folla  per  indolenza,
per disdegno, per disperazione. Anche dove i  popoli  per  sentimento  nazionale
avevano cooperato alla reazione contro la Francia, la ingratitudine  premeditata
dei grandi e la varia diffidenza dei piccoli mettevano ogni  cosa  a  subbuglio.
Credevano di tirar innanzi una grande impresa di  libertà;  invece  non  avevano
assicurato che l'interesse di alcuni sommi a scapito di molte vere franchigie. E
questo avveniva  specialmente  in  Germania.  Da  noi  invece,  malcontenti  del
passato, perché passato senza lasciarci quella grassa eredità  che  s'aspettava,
malcontenti del presente, perché  somigliava  una  crudele  canzonatura,  i  piú
s'adagiarono a vivacchiare, come si dice, a imbottirsi un guscio,  a  fornir  la
cucina. L'esperienza aveva indotto una grandissima disparità d'opinioni;  perciò
anche i pochi bene avveduti non ne speravano nulla o speravano  troppo  lontano.
Solamente coloro che si erano avvezzati a quella  meravigliosa  attività  e  non
potevano distogliersene a  rischio  anche  di  lavorare  per  nulla,  guardavano
ansiosamente alla Spagna  dove  ferveva  lo  spirito  liberalesco.  Esclusi  dal
maneggio degli affari, il talento di comandare, invincibile  e  legittimo  negli
operosi ed assennati,  li  traeva,  come  dissi,  alle  società  segrete.  Dalle
Calabrie i Carbonari aprivano le loro vendite per tutta Italia e davano mano  ai
democratici di Francia, ai progressisti  di  Spagna.  La  vecchia  razza  latina
ringiovanita dall'immaginazione e dal  sentimento  si  gettava  col  suo  impeto
naturale nella battaglia dei tempi. Di là dal mare rispondeva  la  Grecia,  meno
avanzata in civiltà, ma piú matura all'indipendenza per consentimento del popolo
e per armonia d'opinioni. Il grido disperato di libertà che la vendetta  di  Alí
Tebelen volse ai Greci, prima suoi  nemici,  risonò  in  tutti  i  cuori,  dalle
fumanti rovine di Parga alle rive melodiose di Sciro. I congressi degli  alleati
avevano posato un gran masso di ghiaccio sul  cuore  dell'Europa;  ma  il  fuoco
sprizzava all'estremità; muggivano minacciose le viscere della terra.  Fu  sullo
scorcio del milleottocentoventi che,  essendosi  immiserite  d'assai  le  nostre
condizioni, e venendomi da Spiro buone speranze di aver pagamento del mio famoso
credito di Costantinopoli, deliberai andarne a Venezia per  abboccarmi  secolui.
Già fino dal luglio i Carbonari avevano improvvisato la rivoluzione  di  Napoli,
ricavandone pel paese una larghissima costituzione; ma il re Ferdinando era  già
ito al Congresso degli Alleati in Troppau ove non istava  piú  tanto  in  parola
colle libere note ad essi inviate  da  Napoli.  Laggiù  si  armavano  contro  la
tempesta che s'addensava a settentrione. Una mia gita  nel  Regno  era,  secondo
Spiro, necessaria per cercar l'atto di morte di mio padre, senza  del  quale  il
governo turco non intendeva saldare le sue cedole. Dovendo trovar  testimoni,  e
richiamar loro alla mente circostanze dimenticate forse per  la  lontananza,  un
tal negozio non poteva trattarsi per lettera. Questo fu il motivo di ottenere il
passaporto; del resto era incaricato d'altre bisogne abbastanza delicate per non
poterlesi dire a voce alta. Appoggiai la famiglia a Spiro che sarebbe  andato  a
visitarla durante la mia assenza; e partii senza rincrescimento  perché  la  mia
discreta conoscenza delle cose napoletane mi faceva obbligo  di  prestarmi  dove
poteva; e questa circostanza avendo richiamato gli occhi sopra di me, non  volli
demeritare dell'altrui fiducia per privati riguardi, benché forse io vedessi piú
scuro di ogni altro nelle rosee lusinghe di quel  tempo.  Del  resto  a  Venezia
vidi, come potete credere, la Pisana. In verità che ne rimasi  maravigliato.  Io
mi guardava qualche volta allo specchio e sapeva come i quarantacinqu'anni mi si
leggessero comodamente sulla fisonomia; ella all'incontro mi  parve  essere  piú
giovine di quando l'avea lasciata; una maggiore rotondità  di  forme  aggiungeva
dolcezza alla sua idea  di  bontà,  ma  erano  sempre  i  suoi  occhi  languidi,
infuocati, voluttuosi, il suo bel volto fresco ed ovale, il suo collo morbido  e
bianco, il suo  andare  saltellante  e  leggiero.  Aveva  un  bel  che  fare  ad
accordarsi colla monacale rigidezza della Clara, un bel dirmi che facevano  vita
santa insieme, io la vedeva sempre la mia Pisana d'una volta; e basta!... ma  se
non avessi avuto moglie!!... Tanto piú  mi  maravigliai  di  questa  sua  ottima
salute perché bisognava loro, si può dire, guadagnarsi il  vitto  colle  proprie
mani; non bastando a pagare i  medici  e  le  medicine  i  pochi  quattrini  che
stillavano a fatica dalle mani aggranchite  del  Navagero.  Costui  nella  breve
visita che gli feci si lodò molto della moglie, ma non mi vide, credo, con molto
piacere, per la gran paura che gliela portassi via. - Lo creda, signor  Carlo  -
mi disse - che se mi scappasse via la mia infermiera  io  ne  morrei  il  giorno
dopo! - Eh, vecchio, lo sai pure che si vuol maggior bene  ai  malati  che  agli
amanti noi altre donne! - gli rispose la Pisana. Il malato strinse la mano a lei
ed a me; e li lasciai promettendo che presto nel ripassar da Venezia ci  saremmo
riveduti. Ma la Pisana  mi  si  dimostrò  anche  nei  commiati  assai  fredda  e
contegnosa come si conveniva ad una santa. La sera  prima  di  partire  vidi  in
Piazza il colonnello Partistagno colla moglie; in verità aveva proprio  ragione:
quella sua baronessa somigliava proprio  una  cavalla;  tanto  aveva  lunghe  le
braccia le gambe il muso. Tuttavolta Raimondo Venchieredo le  faceva  la  corte.
Costui mi vide appena che s'imbucò nella stanzuccia piú scura del caffè Suttil a
leggere attentamente la  Gazzetta.  Era  invecchiato,  livido,  brutto  come  un
vizioso marcio; né io credo che se la guazzasse molto largamente  dappoiché  suo
padre insieme coll'Ormenta aveva avuto la giubilazione a metà soldo. Questi  due
decrepiti finivano assai male la loro vita subdola e ladronesca;  ma  l'avvocato
stava a miglior partito perché suo  figlio  era  allora  a  Roma,  dicevasi,  in
missione diplomatica e ne aspettava  grandissimo  aiuto.  Certo  non  piansi  di
lasciar a Venezia una tal gentaglia; ma mi dolse che quando partii l'Aglaura era
piucchemai afflitta dal suo male di debolezza e di melanconia. Povera donna! Chi
avrebbe riconosciuto allora il bel marinaio che m'aveva accompagnato da Padova a
Milano al tempo della Cisalpina!


CAPITOLO VENTESIMO

I Siciliani al campo di Pepe negli Abruzzi. Io faccio conoscenza colla  prigione
e quasi col patibolo; ma in grazia della Pisana ci perdo  solamente  gli  occhi.
Miracoli d'amore d'una infermiera. I  profughi  di  Londra  e  i  soldati  della
Grecia. Riacquisto la vista per opera di Lucilio, ma poco stante perdo la Pisana
e torno in patria vivo non d'altro che di memorie.

Povero Adriatico! Quando rivedrai le glorie delle  flotte  romane  di  Brindisi,
delle navi liburniche e delle galee veneziane? Ora  il  tuo  flutto  travolto  e
tumultuoso sbatte due sponde quasi deserte, e alle fratte paludose della  Puglia
corrispondono le spopolate montagne dell'Albania. Venezia, una locanda, Trieste,
una bottega, non bastano a consolare le tue rive del loro  abbandono;  e  l'alba
che ti liscia ogni giorno le chiome ondeggianti cerca indarno per le  tue  prode
altro che rovine e memorie. Quando salpammo da Malamocco il tempo era  quieto  e
sereno. L'inverno non ci pareva quasi nulla, e meno poi nell'alto mare  dove  la
nudità degli alberi e il biancheggiar delle  nevi  non  attestano  la  vecchiaia
dell'anno. Il tepido favonio fiato scherzava  a  sommo  dell'onde,  e  conduceva
all'arida Dalmazia i memori sospiri dell'Africa sorella. Dove sono  ora  Salona,
il rifugio di Diocleziano, ed Ippona, la sede vescovile di Agostino?... Memorie,
memorie, sempre memorie traverso queste onde non mai quiete né mutate da secoli,
per queste aure  sempre  dolci  e  profumate,  sopra  questa  terra  eternamente
divoratrice e feconda. L'Oriente produsse a rilento una  civiltà  che  stultizza
ancora decrepita; il Settentrione bamboleggia da  trecento  anni  nella  puerile
superbia di chi si crede adulto, e non è forse ben nato ancora. L'Italia per due
volte sorpassò l'Oriente e prevenne il Settentrione; per due volte fu maestra  e
regina al mondo; miracolo di fecondità, di potenza e di sventura.  Ella  rimugge
ancora nelle viscere profonde; senza rispetto agli epicedi di Lamartine  e  alla
sfiducia dei pessimisti, ella può un giorno raggiungere  chi  sta  dinanzi  d'un
passo e si crede innanzi le mille miglia. Un passo, un passo e null'altro, ve lo
dico io; ma è assai lungo a fare. Nei paraggi d'Ancona cominciò  lo  scirocco  a
darci noia ed attraversarci il  cammino.  Il  trabaccolo  chioggiotto  resisteva
bene; ma il vento opponeva migliori  ragioni  delle  sue  vele,  e  ci  convenne
calarle. Ormeggia di qua, ormeggia di là, ci misimo quattro settimane  a  toccar
Manfredonia ov'io doveva sbarcare. Giunsi di là a Molfetta ch'eravamo  ai  primi
di febbraio, e le cerne provinciali concorrevano sul  confine  dell'Abruzzo  per
opporsi col general Guglielmo Pepe  all'invasione  straniera  da  quella  banda.
Peraltro il grosso dei nemici si aspettava dalla  strada  romana,  e  l'esercito
regolare gli si opponeva  sotto  il  comando  di  Carascosa  campeggiando  sulla
costiera occidentale fra Gaeta e gli Appennini. Io sbrigai le  mie  faccende  in
pochi giorni. Il vecchio curato era morto, ma aveva scritto il nome di mio padre
fra i decessi nell'anno millesettecentonovantanove; rilevai regolarmente  l'atto
di morte, e mi affrettai al campo del general Pepe come erano le mie istruzioni.
Fui ricevuto assai cortesemente  dal  giovane  generale  che  aveva  grandissima
confidenza nelle sue torme di volontari e si proponeva con  esse  di  combattere
validamente la diversione che i nemici avrebbero tentato da quella banda. Non si
immaginava mai piú che Nugent gli sarebbe piombato addosso con tutto l'esercito;
perciò, fidandosi molto ancora dei Papalini, divisava afforzarsi meglio  facendo
una punta a Rieti nello Stato romano. Si  occupava  appunto  dell'esecuzione  di
questo ardito disegno, quand'io gli fui  introdotto  dinanzi,  e  diedi  le  mie
lettere commendatizie. Mi accarezzò molto bene,  disse  delle  speranze  che  si
avevano, e che alla peggio poi il ritorno del Re doveva  accomodar  tutto  senza
intervento di forestieri. Allora dal canto mio gli  esposi  quanto  m'era  stato
commesso; ed egli se ne compiacque molto,  soggiungendo  che  a  ciò  si  poteva
pensare ove i nemici, non aprendo nessuna trattativa, fossero venuti  alle  mani
ed egli li ributtasse, come sperava, oltre il Po. Mi disse  anzi  che  c'era  al
campo un signore milanese incaricato di proposizioni  consimili,  e  che  me  lo
avrebbe fatto conoscere. Ci trovammo infatti a tavola;  ma  mi  dolse  assai  di
ravvisare in esso uno dei piú assidui frequentatori della conversazione di  casa
Migliana; una cotal scelta non mi garbava punto. Questo  signore  parlava  poco,
guardava e sbofonchiava assai, come appunto era costume di tutti in  casa  della
Contessa. Stette ancora un giorno; indi nel maggior pericolo  scomparve,  e  non
l'udimmo piú nominare, senonché fu veduto giorni appresso a Roma  col  dottorino
Ormenta, al quale diceva egli di essersi raccomandato unicamente per ottenere il
libero ritorno in Lombardia. Molti gli credettero; io no; infatti  il  suo  nome
non figurò molto degnamente nei processi degli  anni  seguenti;  e  benché  poco
sapesse, di quel poco si valse per salvar sé e lasciar gli  altri  nel  pantano.
Eranvi anche al campo alcuni siciliani, venuti per accordarsi  circa  alle  cose
del paese loro che discordavano allora scandalosamente dalle napoletane: giovani
ardenti, cortesi e squisitamente educati.  Sicilia  è  la  Toscana  della  Bassa
Italia; per  questo  appunto  non  si  marita  bene  a  Napoli  rozzo,  manesco,
millantatore. Saranno sempre gelosie ove non  sarà  uguaglianza;  e  checché  ne
dicano del nostro municipalismo, anche Marsiglia in Francia sbufferebbe di esser
sottoposta a Lione, come sbuffò per secoli Edimburgo di assoggettarsi a  Londra:
forse sbuffa tuttora. Sebbene Londra sovrasti ad ogni  città  del  Regno  Unito,
piucché Roma a qualunque capitale della penisola nostra; ma per Roma  stanno  le
tradizioni le memorie le glorie la maestà che la fanno capo nonché d'Italia, del
mondo; e nessun luogo sarebbe sí ardito da vergognarsi di  ubbidire  a  lei.  Il
fatto era che due valli della Sicilia pretendevano al disgiungimento da  Napoli,
e che un  esercito  condotto  da  Florestano  Pepe  era  stato  spedito  colà  a
racchetarli: errore  anche  questo  di  distrarre  le  forze  in  badalucchi  di
preminenza quando si trattava in un'altra parte dell'essere o del non essere. Se
mentre Carascosa colle sue  schiere  stanziali  guardava  la  strada  di  Capua,
l'esercito di Florestano si fosse congiunto alle cerne disordinate del  fratello
Guglielmo per afforzarle, forse non saremmo precipitati nelle disfatte di  Rieti
e d'Antrodoco: macchie  dell'esercito  napoletano  che  non  ci  ebbe  parte,  e
conseguenza necessaria d'uno scontro improvviso fra soldati regolari, cavalleria
ordinata,  e  bande  raccogliticce  di  pastori  e  di  briganti.  I   Siciliani
difendevano la patria loro dalle imputazioni di arroganza e  di  sprovvedutezza;
secondo essi quell'inopportuna riscossa dell'orgoglio palermitano si doveva alle
mene dei Calderari, di quella società segreta che il ministro di Polizia  Canosa
avea creduto opporre all'influenza dei Carbonari. Ma le società segrete protette
dai governi sono un mero fantasma; o non esisteranno mai,  o  si  cangeranno  in
leghe spadroneggianti di zelatori che riescono nocive al governo stesso. Infatti
Canosa fu destituito pel troppo operare alla  scoperta  de'  suoi  cagnotti.  Il
partito che comanda alla luce del giorno non  sente  il  bisogno  e  non  ha  la
necessità di comandare nell'ombra del mistero e della congiura. Risposimo dunque
che se i Calderari facevano presa a Palermo, ciò  dinotava  la  cedevolezza  del
terreno. Ma quei giovani animosi non volevano udir parlare di ciò;  e  in  prova
anzi del contrario recavano alcune proposizioni, accettate le quali, Sicilia  si
sarebbe racchetata a un tratto. Il Generale diede buone parole;  ma  quello  era
giorno da fatti e piú che le cose di Sicilia lo preoccupavano le  notizie  delle
Marche. Si seppe subito dopo il pranzo che uno squadrone di ulani era passato la
sera  prima;  contadini  fuggiaschi  dalle  terre  aperte  narravano  che  tutto
l'esercito tenea loro dietro. Fu chiaro  allora  nella  mente  del  Generale  il
disegno astutissimo degli Imperiali di accennare a Napoli per la via  di  Capua,
richiamando colà lo sforzo maggiore della difesa, e di giungervi  invece  per  i
passi malguerniti degli Abruzzi. Però si  aveva  campo  ancora  a  supporre  che
fossero esagerazioni quelle ciarle di contadini, come  sempre;  e  che  avessero
scambiato per migliaia le poche schiere di  cacciatori  a  piedi  ed  a  cavallo
destinate a qualche ricognizione. Si sperava di poter concentrare dietro a Rieti
le guardie appostate qua e là, e di dare almeno tempo a Carascosa  di  frapporsi
da quel lato fra Napoli e il nemico alle spalle delle  cerne  di  Pepe.  Volendo
questi mandar subito a Rieti, io e quei giovani siciliani ci offrimmo  all'uopo;
egli ce ne ringraziò, ci diede una scorta di cavalleggieri,  raccomandandoci  di
farlo avvisato di tutto nel piú breve spazio di tempo possibile. Intanto avrebbe
spiccato messi a tutti i comandanti, che rifluissero colle  loro  schiere  sulla
strada da Rieti ad Aquila. Quello che piú si temeva era vero  purtroppo.  Nugent
premeva con tutto l'esercito il  confine  degli  Abruzzi;  un  grosso  corpo  di
cavalleria minacciava la importantissima posizione di Rieti.  Pepe  fu  avvisato
entro due ore: ma già troppo tardi perché potesse provvedere  a  tanta  urgenza.
Ebbe tempo di accorrere e di accomunarsi al  maggior  pericolo.  Già  i  cavalli
imperiali  aveano  cominciato  l'assalto.  I  volontari   armati   di   carabine
resistevano male all'impeto della  cavalleria;  la  campagna  era  spazzata,  le
strade correvano sangue, il terrore si diffondeva  accresciuto  dalla  sorpresa,
dal gran numero degli assalitori, dalla pochezza dei mezzi di difesa.  Mancavano
le artiglierie; i cavalleggieri non sommavano, credo, in tutto  a  quattrocento;
gli altri erano sparpagliati in diverse posizioni. Dopo due ore di combattimento
Rieti era perduta e Pepe costretto a ritirarsi. Ma uscito appena e raccozzati  i
suoi, e afforzato dalle schiere che giungono fresche, s'avvede che a Rieti è  il
capo della guerra, e che sfuggitogli di mano, altra speranza non resta. Aduna un
consiglio di guerra; si giudica impossibile riprender la piazza contro i cannoni
già appostati in buon numero  dagli  Imperiali.  Tuttavia  il  Generale  insiste
nell'ardita ma necessaria deliberazione. Egli grida che  chi  vuol  seguirlo  lo
segua, ma che egli non abbandonerà il confine  d'Abruzzo  prima  di  aver  fatto
sopra Rieti un ultimo sforzo. L'onor suo, il dovere glielo comandano.  Al  grido
disperato del loro capitano accorrono animosi  molti  dei  volontari,  io  ed  i
giovani siciliani tra i primi. Il pensiero di mia moglie de' miei figli  non  mi
balenò che un istante alla mente; fu per persuadermi che primo dovere dei  padri
è di lasciare una buona eredità di esempi forti ed animosi. Converrete meco  che
per un organista di Cordovado non c'era poi tanto male. La morte in quel momento
mi parve sí bella e gloriosa, da meritare una vita assai piú lunga della  mia  e
piena a tre tanti di dolori e di sventure  per  procurarsela.  Nel  lungo  tempo
ch'io ho attraversato, mancarono è vero occasioni di viver bene,  ma  quelle  di
morir meglio non scarseggiarono; conforto anche questo di poter lasciare  questo
mondo senza rimpiangerlo. Il nostro assalto fu subito e vigoroso, ma  manchevole
per lo scarso numero  degli  assalitori:  i  cannoni  tuonavano  e  menavano  un
orribile guasto nelle nostre file. Di quei bravi siciliani uno solo rimase  vivo
e fu prigioniero alla bocca d'un obice. Tornammo al secondo scontro,  ma  i  piú
erano disanimati; ci rispose una grandine di palle, le ordinanze si  ruppero,  i
volontari si sbandarono; feriti e morti rimasero in  buon  numero  sul  terreno,
tementi della cavalleria nemica che ruinava fremebonda. Il Generale  ebbe  tempo
di rifuggir quasi solo ad Aquila dove avea fatto capo il resto dell'esercito; ma
scoraggiato affatto pel primo disastro, e per la fallita fazione di  Rieti.  Per
me, ferito profondamente in  una  spalla,  usai  ogn'arte  per  nascondermi  per
trascinarmi entro una macchia; ma alcuni bersaglieri mi  scopersero;  fui  fatto
prigioniero, e scoperto non essere napoletano, condotto al Quartier generale per
esservi esaminato. Avanzando  poi  coll'esercito  imperiale  ebbi  mano  a  mano
contezza delle rotte di Aquila e di Antrodoco. Nel marzo fui condotto a  Napoli,
accasato pulitamente in Castel Sant'Elmo, e consegnato ad un tribunal di  guerra
perché si decidesse della qualità del mio delitto. Infatti l'aver io  combattuto
volontariamente per un governo costituzionale che non era il  mio,  fu  ritenuto
crimine di alto tradimento. E poiché fui sanato della ferita, mi lessero un  bel
mattino la mia sentenza di morte. Io nulla aveva scritto a casa, perché, secondo
me, va sempre bene ritardar altrui  la  notizia  di  sventure  irreparabili;  mi
disposi dunque a morire colla maggior rassegnazione, solo spiacentissimo di  non
veder la fine di quel tristo capitolo  di  storia.  Vennero  anche  ad  offrirmi
pulitamente la grazia, se voleva dire chi mi aveva mandato e perché era  venuto;
ma a queste indiscretissime domande rispondeva abbastanza l'atto di morte di mio
padre datato da Molfetta e trovatomi indosso. Risposi adunque che non per  altro
che per questo era venuto; e che essendomi  soffermato  a  salutare  il  general
Pepe, il mio cattivo destino m'avea tirato addosso  quel  brutto  accidente.  Fu
dunque come non si fosse parlato; ma io colsi la  buona  occasione  per  pregare
quei compiti signori di voler mandare alla  mia  famiglia  quell'atto  di  morte
nonché il mio, perché fossero tolti se non altro a loro vantaggio  gli  scrupoli
un po' spilorci della  Porta  Ottomana.  Quei  signori  sogghignarono  a  questo
discorso immaginandosi forse ch'io lo avessi fatto per darmi a diveder pazzo; ma
io soggiunsi col miglior sorriso del mondo, che facessero l'onore di credere  al
mio miglior senno, e che tornava a pregarli di quella cortesia. Dettai  anzi  ad
uno di essi l'indirizzo di Spiro Apostulos a Venezia, e dell'Aquilina  Provedoni
Altoviti a Cordovado nel Friuli. Dal che essi furono persuasi che non celiava  e
mi promisero che sarebbe fatto secondo la mia volontà. Dimandai anche quando  io
sarei uscito di prigione per la cerimonia, giacché  marciva  là  dentro  da  tre
mesi, e mi pareva un onesto mercato quello  di  pagar  colla  vita  una  boccata
d'aria libera. Saputo poi che l'esecuzione era stabilita pel terzo giorno e  che
sarebbe avvenuta nelle fosse del castello,  me  ne  imbronciai  alquanto.  Dover
morire essendo a Napoli, e senza poterlo rivedere! Confessate che la era un  po'
dura. Tuttavia partiti ch'essi furono mi racconsolai del mio meglio.  Dissi  fra
me e me che quegli ultimi giorni non doveva perderli in  frivolezze  e  in  vani
desideri, e che il meglio si era prender la morte sul grave, e dar un esempio di
grandezza d'animo almeno ai carnefici. I buoni esempi parlano  colle  bocche  di
tutti, e giovano sempre; e il boia fece sovente maggior danno  col  parlar  poi,
che non avea recato vantaggio  coll'impiecare.  Il  giorno  appresso  dopo  aver
dormito, lo confesso, con qualche inquietudine, udii venire pel corritoio alcuni
passi che non erano né di guardie né di carcerieri. Quando  apersero  dunque  la
porta mi aspettava il confessore o qualche cameriere  del  boia  che  venisse  a
tondermi il capo o a misurarmi in  collo.  Niente  di  tuttociò.  Entrarono  tre
figure lunghe lunghe nere nere, l'una delle quali trasse di sotto al braccio una
carta, la spiegò lentamente, e cominciò a leggere con voce tronfia e nasale.  Mi
pareva udire Fulgenzio quando recitava l'epistola e questa reminiscenza  non  mi
diede piacere alcuno. Tuttavia era tanto persuaso di  dover  morire  l'indomani,
tanto occupato di osservare quei tre scuriscioni, che non mi curai di dar  retta
a quanto leggevano. Mi fermò solamente l'attenzione la parola di grazia. - Cosa?
- diss'io sguizzando tutto. - "Cosí si commuta la pena di morte  in  quella  dei
lavori forzati in vita da  subirsi  nella  galera  di  Ponza"  -  continuava  il
nasaccio parlatore del signor cancelliere. Allora capii di che  si  trattava,  e
non so se me ne consolassi, perché tra la morte  e  la  galera  ci  vidi  sempre
pochissima differenza. I giorni appresso poi ebbi campo a convincermi che se  ci
aveva qualche vantaggio era forse dal lato della forca. Nell'isola  di  Ponza  e
precisamente nell'ergastolo ove fu confinato il libero arbitrio della mia  umana
libertà non si può dire che abbondassero i  commodi  della  vita.  Uno  stanzone
lungo e stretto guernito di tavolate di legno per coricarsi, acqua  e  zuppa  di
fagiuoli, compagnia numerosissima di ladri napoletani e di  briganti  calabresi;
per soprammercato legioni d'insetti d'ogni stirpe e qualità che le maggiori  non
ne ebbe addosso Giobbe quando giaceva sul letamaio.  Fosse  effetto  di  chi  ci
mangiava addosso o degli scarsi e pitagorici alimenti, fatto sta che  si  pativa
la fame; i guardiani dicevano che l'aria di Ponza  ingrassa,  io  trovai  che  i
fagiuoli mi smagrivano e guai se fossi stato colà piú di un mese.  Non  so  come
abbia fatto la figlia o la nipote d'Augusto a durarci dieci anni;  probabilmente
si cibava di qualche cosa di piú succolento oltre la fagiuolata.  Fortuna,  come
dissi, che ci rimasi non piú di un mese; ma mi mandarono a  Gaeta  ove  se  ebbi
miglior compagnia e se fui meglio pasciuto,  cominciai  invece  a  patire  nella
vista. Aveva per me solo un gabbiotto tutto bianco di calcina  che  guardava  il
mare; e di là il sole splendente in cielo e riflesso dalle acque  mandava  entro
un cotal riverbero che si perdevano gli occhi. Feci istanze sopra istanze: tutto
inutile. Forse che ritenevano lecito di privar degli occhi un uomo cui  si  avea
regalato la vita; ma non capisco allora perché non si fossero riserbati un cotal
privilegio nell'atto di grazia. In tre mesi diventai quasi cieco: vedeva le cose
azzurre verdi rosse, non mai del color naturale;  perdeva  ogni  giorno  piú  il
criterio delle proporzioni; alle volte il mio camerotto  mi  sembrava  una  sala
sconfinata e la mia mano la zampa d'un elefante. I carcerieri poi mi  sembravano
addirittura rinoceronti. Il quarto mese cominciai a vedere quel mio pezzetto  di
mondo traverso una nebbia; al quinto principiò a calare  un  gran  buio,  e  dei
colori che vedeva prima non era rimasto che un rosso cupo, una tintura mista  di
polvere e di sangue. Allora capitò un ordine di trasferirmi a Napoli nel  Castel
Sant'Elmo; e mi tornarono innanzi i due soliti cancellieri a leggere  la  solita
tiritera. Era graziato del resto della pena! Pazienza! Se non avrei  piú  veduto
il mondo del colore che veramente era, lo avrei almeno passeggiato e  fiutato  a
mio grado!... Avrei riveduto il mio paese, i miei figlioli, la moglie...  Adagio
con queste grandiosità!... Mi si graziava, sí, ma relegandomi fuori d'Italia;  e
potete credere che cacciato di lí, né Francia né Spagna sarebbero state disposte
ad aprirmi le braccia. Qual razza di grazia fosse quella che mandava  un  povero
cieco a cercar la limosina, Dio vel saprebbe dire. Peraltro ebbi il conforto  di
sapere che la grazia m'era venuta per intercessione della Principessa Santacroce
e che con lei mi era concesso di  abboccarmi  prima  di  salpare  dal  porto  di
Napoli. La signora Principessa doveva essere invecchiata d'assai, ma aveva  quel
fare di bontà che è la perpetua giovinezza della donna. Mi accolse benissimo;  e
poiché non poteva vederla, io avrei giurato che l'aveva trent'anni come al tempo
della Partenopea. Ella mi disse di essersi molto adoperata per me sia nel  farmi
graziare della vita sia nell'ottenere la mia liberazione; ma che non avea potuto
riescir prima. Inoltre confessava che un'altra persona v'era alla quale piú  che
a lei era certo obbligato; e che quella persona io la  conosceva  assaissimo  ma
che prima di consentire a farsi riconoscere da  me  voleva  esser  sicura  dello
stato di mia salute, e se veramente era cosí infermo degli occhi come  dicevano.
Non so chi  credetti  che  fosse  quell'incognita  e  pietosa  persona,  ma  era
impaziente di vederla quel tanto che poteva. - Signora Principessa -  sclamai  -
pur troppo la luce piú limpida degli occhi miei l'ho lasciata a  Capua;  e  sono
omai condannato a vivere in un perpetuo crepuscolo!... Le fattezze delle persone
che amo mi sono nascoste per sempre, e soltanto coll'immaginazione posso  bearmi
delle serene ed amabili vostre sembianze! M'accorsi che la  Principessa  sorrise
mestamente, come di chi credesse guadagnare a non esser veduto. - Quand'è cosí -
soggiunse ella aprendo un uscio che dava in un gabinetto - venite pure,  signora
Pisana, che il signor Carlo ha proprio bisogno di voi. Per quanto il cuore me lo
avesse detto, credo che in quel punto fui per impazzire. La Pisana  era  il  mio
buon  angelo;  io  la  trovava  dappertutto  dove  il  destino  sembrava  avermi
abbandonato nei  maggiori  pericoli;  vincitrice  in  mio  favore  dello  stesso
destino. Ella si precipitò di furia fra le  mie  braccia,  ma  si  ritrasse  nel
momento che io le chiudeva per istringermela al cuore. Mi prese poi le mani e si
accontentò di porgermi la guancia a baciare. In  quel  punto  dimenticai  tutto;
l'anima non visse che di quel bacio. - Carlo - cominciò ella a dirmi allora  con
voce interrotta dalla commozione - sono venuta a Napoli or sono sette  mesi  con
licenza anzi dietro invito  di  vostra  moglie.  La  signora  Principessa  aveva
scritto in gran premura a Venezia se un tal Carlo Altoviti che stava accusato di
alto tradimento in Castel Sant'Elmo fosse quello stesso da lei  vent'anni  prima
conosciuto. Ne scrisse a me non conoscendo altri vostri parenti. Figuratevi come
ci sentimmo a questa novella, io  che  da  tre  mesi  aspettava  indarno  vostri
scritti e pur  troppo  vi  temeva  involto  o  per  volontà  o  per  caso  nella
rivoluzione napoletana!... Avrei voluto partir  subito,  ma  le  convenienze  mi
trattennero. Mi apersi dunque con vostro cognato esponendogli che a mezzo di una
potente protettrice io poteva a Napoli tentar molto per voi. Egli avrebbe voluto
accompagnarmi, ma sua moglie, vostra sorella, era aggravata del suo male, e  gli
fu forza restare. Cosí mi forní dei denari pel viaggio, ché già sapete come  noi
fossimo sempre al verde; ma  prima  di  partire  io  pretesi  da  lui  un  altro
servigio; volli che vedesse vostra moglie, che le raccontasse il tutto e che  da
lei mi venisse il permesso di adoperarmi  per  voi.  L'Aquilina,  poveretta,  fu
disperata di una tanta  sciagura;  ma  che  farci,  mio  Dio!...  Colla  miseria
intorno, con due figliuoli garzonetti, col fratello quasi impotente, ella voleva
tuttavia abbandonar tutto, e venir a soffrire, a morire con voi. Vostro  cognato
la dissuase  mostrandole  che  il  viaggio  di  lei  non  vi  recherebbe  nessun
vantaggio, e molti invece la sua  fermata  pel  vantaggio  dei  figli.  Ella  si
rassegnò e fu beatissima di sapere come  io  m'esibiva  a  tentar  ogni  via  di
salvarvi, e mi confidava molto pei validi patrocinii che aveva. Venni qui;  ogni
vostra grazia la dovete alla graziosa intercessione della  signora  Principessa;
ma perché Iddio ha voluto affliggervi d'un'altra sventura che non è in poter suo
di alleggerirvi, eccomi qui io, che mi tengo  superba  della  confidenza  in  me
riposta da vostra moglie, e che vi sarò amica, guida se  mi  compatirete,  e  in
ogni caso poi infermiera! - Pisana, voi siete troppo modesta -  prese  allora  a
dire la Principessa - le vostre intercessioni hanno  potuto  a  Napoli  tanto  e
quanto le mie. Se io ho piegato le volontà, voi avete saputo convincere i cuori.
- Oh, tutte due voi siete le mie migliori benefattrici! - io sclamai. -  La  mia
vita non avrà spazio bastante  per  provarvi  se  non  altro  a  parole  la  mia
riconoscenza. - Ci sono di troppo le cerimonie - soggiunse la Principessa. - Ora
attendiamo a qualche cosa di piú utile.  Domani  dovete  partire  per  un  lungo
viaggio, e vi sarà necessario pensarvi a tempo onde  nulla  vi  manchi.  Infatti
quell'ottima signora, benché la sua fortuna non fosse  molto  splendida,  m'avea
preparato un baule pieno di quanto poteva abbisognarmi; né a me rimase  nulla  a
desiderare, eccettoché un modo qualunque per provarle la mia  gratitudine.  Ella
si era adoperata  molto  in  quel  frattempo  anche  pei  figliuoli  del  povero
Martelli, dacché la vedova era morta non molti anni dopo l'eroico sacrifizio del
marito. Ambidue avevano ricevuto ottima educazione; uno era già ingegnere  molto
stimato e l'altro navigava come sotto-capitano d'un bastimento mercantile. Prima
di partire ebbi la consolazione di conoscer il primo e di ravvisare  in  lui  il
ritratto  vivente  del  padre.  Era  stato  anche  lui  involto   negli   ultimi
rivolgimenti e assoggettato ad un processo, ma aveva potuto  liberarsene,  e  la
stima del paese gliene era anzi accresciuta di molto per la mirabile fermezza da
lui in ogni incontro dimostrata. Il giorno appresso  abbandonai  con  dispiacere
quelle incantevoli spiagge di Napoli che pur m'erano state fatali due volte: non
le potei salutare cogli occhi, ma il cuore armonizzò  co'  suoi  palpiti  l'inno
mestissimo della partenza. Sapeva di non doverle  piú  rivedere,  e  se  io  non
moriva per loro, esse restavano come morte per me. Il mese  appresso  eravamo  a
Londra. Era il solo paese ove per allora mi fosse concesso  di  abitare;  ma  le
condizioni nostre erano tali che là piú  che  altrove  ci  sforzavano  a  penose
privazioni. Il gran costo del vitto, la carezza delle pigioni, la  mia  malattia
d'occhi che peggiorava sempre, la povertà alla quale ci accostavamo  sempre  piú
senza speranza di uscirne per alcun modo; tutto concorreva  ad  angustiarci  pel
presente ed a farci temere un futuro ancor piú disastroso. La Pisana, poveretta,
non era né piú né meno d'una suora di carità. Lavorava per me notte e  giorno  e
studiava l'inglese proponendosi di dare in seguito  lezioni  d'italiano  e  cosí
provvedere al mio mantenimento. Ma intanto si spendeva troppo  piú  che  non  si
guadagnasse e in onta a medici ed a cure io era ridotto  cieco  affatto.  Allora
appunto, quando aspettavamo da Venezia un qualche soccorso, ci scrisse l'Aglaura
che pochissimo poteva mandarci, perché Spiro  coi  due  figliuoli  ed  ogni  sua
ricchezza avea fatto vela per la Grecia al primo grido di ribellione levato  dai
Mainotti. Ella stessa avea creduto suo debito d'incuorarli a ciò;  soltanto  per
la cagionevole salute  non  avea  potuto  seguirli  ed  era  rimasta  a  Venezia
contenta, nelle sue strettezze e ne' suoi dolori, di  pensare  che  erano  tutti
sacrifizi utili e dovuti alla santa causa d'un gran popolo oppresso. Cosí io  mi
compiacqui con lei e col cognato di  tanta  magnanimità  ma  scomparve  l'ultima
lusinga di ottenere qualche elemosina da quella banda. Quanto al  credito  colla
Porta, non se ne parlava nemmeno, allora che Spiro le avea rotto guerra co' suoi
compatrioti. Rimaneva di rivolgersi a Cordovado; ma colà voleva  la  delicatezza
che fossimo piú bugiardi per nascondere che  sinceri  per  descrivere  i  nostri
bisogni. L'Aquilina e Bruto si sarebbero cavati il sangue dalle vene per  aiutar
noi; ma per impedir appunto la rovina di loro e de'  miei  figli  avevamo  preso
l'usanza di non raccontar loro  altro  che  buone  venture.  Cosí  della  nostra
estrema strettezza e della mia cecità sapevano nulla; e per coonestare l'assenza
della Pisana e il mio carattere tanto infame  quanto  può  esserlo  quello  d'un
cieco che si sforza di scrivere, dava loro ad intender che io era occupatissimo,
ed ella occupata molto utilmente presso una grande famiglia in qualità  di  aia,
né premurosa di tornare perché sapeva essere piú di peso  che  di  vantaggio  al
marito dopo l'assistenza prestatagli dalla Clara. Intanto ella studiava tutti  i
mezzi per trarre qualche utile dal proprio lavoro; e  sebbene  sulle  prime  non
avesse  voluto  stabilirsi  nell'istessa  casa   con   me,   col   crescer   poi
dell'infermità e del bisogno vi si era indotta. Vivevamo come fratelli, immemori
affatto di quel tempo nel quale vincoli  piú  soavi  ci  stringevano;  e  se  io
sbadatamente lo richiamava, tosto era sollecita la Pisana o a volger la cosa  in
burla o a stornar il discorso. Pur troppo ogni nostra lusinga era susseguita, si
può dire, d'un disinganno. La Pisana con  prodigiosa  prestezza  aveva  imparato
l'inglese, e lo parlava abbastanza correttamente; ma le  aspettate  lezioni  non
venivano punto e per brigare ch'ella facesse non aveva trovato che  i  figliuoli
di qualche gramo mercantuccio cui insegnare  l'italiano  o  il  francese.  Cercò
allora aiutarsi col lavoro dei merli nei quali le donzelle  veneziane  erano  al
tempo  andato  maestre;  ma  benché  ci  guadagnasse  discretamente  in   questa
industria, la fatica era tanta che non poteva durarvi a lungo. Io mi perdeva  le
lunghe ore a ringraziarla di quanto la faceva per me, e non credo aver  sofferto
mai maggior tormento di allora nell'accettare sacrifizi che costavano tanto  per
la conservazione d'una vita cosí inconcludente come la  mia.  La  Pisana  rideva
delle mie  grandi  parlate  di  devozione  e  di  riconoscenza,  e  attendeva  a
persuadermi che quanto a me pareva le costasse molto, non le  dava  infatti  che
pochissimo fastidio. Ma dal suono della  voce  dalla  magrezza  della  mano  che
qualche volta le stringeva, io m'era ben accorto che i disagi  e  il  lavoro  la
consumavano. Io invece m'impinguava proprio come un  cavallo  tenuto  sempre  in
istalla; e questo non era l'ultimo dei miei dispiaceri; temeva di esser  creduto
poco sensibile a tante prove di eroica amicizia che mi venivano date. "Amicizia,
amicizia!" ci filava molto dietro questa parola, come diciamo noi  Veneziani;  e
mi pareva impossibile che la Pisana fosse capace di stare fra i limiti di questo
moderato sentimento. Non so se temessi o mi  lusingassi  qualche  volta  che  la
memoria, se non altro, del passato  ci  avesse  un  gran  merito  nei  sacrifizi
d'allora. Ma ella mi scherniva tanto  piacevolmente  quando  cadeva  in  qualche
lontana allusione a ciò, che mi vergognava de' miei sospetti come nati da troppa
mia  superbia  o  da  scarsa  fiducia  nell'eroismo  disinteressato  di   quella
prodigiosa creatura.  D'altronde,  a  dissuadermi  da  quell'opinione  sarebbero
bastati i continui e caldi discorsi ch'ella era sempre la  prima  ad  intavolare
sull'Aquilina sui miei figli e sulla felicità che  avrei  gustato  quandocchesia
fra le loro braccia. Pareva che la Pisana d'una volta  dovesse  essere  morta  e
seppellita per me. Cosí passavano i mesi senza differenza per me di giorno e  di
notte: avea perduto affatto la speranza di racquistare la vista; non  mi  moveva
mai dalla stanza se non la domenica per passeggiare  un  poco  a  braccio  della
Pisana. Costei si affaticava sempre oltre ogni misura, per quanto volesse  darmi
ad intendere il contrario; e sovente stava assente le intiere mattine, a volerle
credere, per darsi bel tempo o per correre da casa a casa alle numerose  lezioni
che diceva avere. In fatto io mi figurava che avesse  preso  lavoro  in  qualche
negozio; né mi sarei mai immaginato quello che scopersi in seguito. -  Pisana  -
le domandava talvolta - per cosa oggi che è domenica non ti metti il vestito  di
seta? (lo conosceva al fruscio). Mi rispondeva di averlo dato ad accomodare;  io
sapeva che se n'era privata per far denaro, e me lo avea confessato  una  vicina
che l'aveva aiutata a smerciarlo. Un altro giorno era lo sciallo che le mancava;
e me ne accorgeva, perché, essendo  freddo,  la  sentiva  battere  i  denti.  Mi
assicurava di averlo indosso e mi facea palpare una lana ch'ella  diceva  essere
lo sciallo. Ma io  conosceva  per  antica  pratica  il  molle  tessuto  di  quel
cascemire, e non m'ingannava col mettermi in mano una pellegrina di merinos o di
signorea. Lo sciallo avea fatto l'egual viaggio del vestito di seta. Alle  volte
mi consolava di esser cieco per non soffrire lo  spettacolo  di  tante  miserie,
dimenticando che quella disgrazia ne era certo la prima cagione. Poco stante  mi
disperava conoscendomi tanto impotente da dover essere debitore del  vitto  alla
pietà miracolosa d'una donna.  L'Aquilina,  in  onta  alle  nostre  proteste  di
agiatezza, mandava quanto piú denaro poteva; ma erano gocce d'acqua in  un  gran
vaso pieno di bisogni. Ancora ella scriveva che metteva qualche  cosa  da  parte
ogni giorno per venirmi a trovare, e che molto si era adoperata  a  Venezia  per
ottenermi la grazia di rimpatriare. Io crollava la testa perché omai la speranza
mi era uscita affatto dal cuore: ma la Pisana mi dava sulla voce  sclamando  che
era uno sciocco a scoraggiarmi a quel modo, e che eravamo  abbastanza  fortunati
di camparla onestamente senza tante fatiche. Solamente talvolta nello  sgridarmi
di quella mia prostrazione d'animo ella punzecchiava alquanto col  suo  umorismo
bizzarro e maligno di altri tempi. Ma non passava  un  minuto  che  si  rifaceva
buona e paziente, quasiché o il suo temperamento si fosse cambiato del  tutto  o
avesse preso a dipendere dalla volontà e dalla ragione. Insomma vi saranno figli
che costano molto alle madri, e amanti che deggiono assai alle amanti, e  mariti
che ebbero dalle spose le piú grandi prove d'affetto, ma un uomo  che  riconosca
da una donna maggiori beneficii che io dalla Pisana  non  è,  credo,  sí  facile
trovarlo. Né madre né amante né sposa potea fare di piú per l'oggetto  dell'amor
suo. Se poi la sua condotta fosse giudicata anche a mio riguardo molto balzana e
irregolata, e le fosse data taccia di pazza, come da taluno de' suoi  conoscenti
di Venezia, appunto per la  magnanima  spensieratezza  di  tanti  sacrifizi,  io
benedirei allora la pazzia  e  vorrei  abbattere  l'altare  della  sapienza  per
innalzarne un altro ad essa mille volte piú santo e  meritato.  Ma  pur  troppo,
essendo stabilito che i pochi debbano esser pazzi, e i savi i piú, al tempo  che
corre vanno rinchiusi all'ospedale coloro che pensano prima alla generosità indi
alla regolarità e all'interesse delle loro azioni. Se  il  cervello  rispondesse
meglio ai palpiti del cuore, e le braccia rispondessero ubbidienti piú a  questo
che a quello, credete voi che tutto si avrebbe a rifare?...  Oh  no,  la  nostra
storia si sarebbe chiusa con  un  magnifico  "Fine";  e  saremmo  ora  occupati,
tutt'al piú, in qualche gloriosa appendice. Pur troppo bisognerà cambiar strada;
e il rinnovamento nazionale appoggiarlo necessariamente ad un concorso  tale  di
interessi che lo dimostrino un ottimo capitale con grassi  e  sicuri  dividendi.
Questo pure non è possibile; ma qual differenza coi sublimi  e  generosi  slanci
d'una volta!... Un povero cieco, e  una  donna  avvezza  fin'allora  a  tutti  i
commodi dell'oziosa nobiltà  veneziana,  v'immaginerete  dunque  come  potessero
vivere in quel gran turbine soffocante e affaccendato che è Londra.  I  profughi
politici non godevano d'un certo favore, né la moda ne  avea  fatto  una  specie
curiosissima di bestie da serraglio. Ci facevano pagare perfin  l'acqua  che  si
beveva, e meno gli scarsi aiuti mandatici da  casa,  la  Pisana  a  tutto  dovea
provvedere. Ma cosa son mai a Londra tre in quattrocento ducati che mi  potevano
capitare in un anno da Venezia o da Cordovado!... Miserie! Massime poi colla mia
infermità che la Pisana voleva curare sempre  e  coi  consulti  dei  medici  piú
riputati; benché io, sfidato d'ogni soccorso dell'arte, ne la rimproverassi come
d'un lusso affatto inutile. Le sue  assenze  da  casa  si  facevano  sempre  piú
frequenti e lunghe; il mio umore diventava tetro e sospettoso; ella,  poveretta,
per correggermi montava in collera e  allora  cominciavano  gli  alterchi  e  le
dissensioni. Toccava a me, è vero, l'arrendermi e il tacere,  come  debitore  di
tutto che le era; ma alle volte mi pareva aver diritto a qualche  maggior  grado
di confidenza e sapete che quella appunto che vien negata sembra essere la  cosa
unicamente  desiderabile.  Allora   m'incapava   di   volerla   spuntare;   ella
imbizzarriva dal suo lato e non sempre questi diverbi  finivano  all'amichevole.
Soventi ella partiva dalla camera pestando  i  piedi  e  brontolando  della  mia
diffidenza:  mai  una  volta  ch'ella  mi  tacciasse  perciò  di  cattiveria   o
d'ingratitudine. E sí che le ne diedi  sovente  l'occasione.  Intanto  io  aveva
campo di fare l'esame di coscienza di ravvedermi e di prepararmi calmo e pentito
per quando la sarebbe tornata. - Carlo  -  mi  diceva  ella  -  ti  sei  rifatto
buono?... Allora rimango: se no esco ancora, e  tornerò  piú  tardi.  Non  posso
soffrire che tu dubiti di me: e credi che quello che non ti dico gli  è  proprio
che non debbo dirtelo, perché non è vero.  Io  fingeva  di  crederle  e  di  non
annettere piú importanza a quella parte della sua vita che mi celava  con  tanto
mistero; ma l'immaginazione lavorava e soventi anche  non  andai  lontano  dalla
verità. Giustizia di Dio! Come raccapricciai solamente  al  pensarlo!...  Ma  in
certe idee non mi fermava perché non ne aveva alcun diritto; e  faceva  anzi  il
possibile di persuadermi che nulla essa mi  nascondesse  e  che  le  lezioni  le
rubassero tutto quel tempo che rimaneva fuori di casa. Tuttavia a  poco  a  poco
ella non ebbe piú il coraggio  di  dirmi  che  la  stava  benissimo  e  che  non
invidiava  gli  anni  piú  floridi  di  sua  gioventù;  io  la  sentiva   ansare
faticosamente dopo aver fatto le scale, tossire sovente, e qualche  volta  anche
sospirava a sua insaputa con tanta forza che la  compassione  mi  squarciava  le
viscere. Principiando il secondo anno del  nostro  esiglio,  ammalò  gravemente;
quali fossero allora i tormenti la disperazione del  povero  cieco,  non  potrei
certo descriverli, poiché ancora mi meraviglio di esserne uscito vivo. Di piú mi
toccava soffocar tutto per non crescerle  affanno  colle  mie  smanie,  ma  ella
veniva incontro a' miei  nascosti  dolori  coi  piú  delicati  conforti  che  si
potessero immaginare. Si sentiva morire e parlava  di  convalescenza;  aveva  il
fuoco d'una febbre micidiale nelle vene e compativa il mio male come il suo  non
fosse nemmen degno che se ne parlasse. Divisava sempre di  uscire  la  settimana
ventura; pensava quali creditucci aveva nel tale e nel tal luogo per far  fronte
alle maggiori spese e ai mancati proventi di quel frattempo, si studiava insomma
di farmi dimenticare la sua malattia o persuadermi che credeva ad un vicinissimo
miglioramento. Io passava cionullameno le notti ed i giorni  al  suo  capezzale,
tastandole ogni poco il polso e interrogando con intento orecchio il suo respiro
greve ed  affaticato.  Oh  quanto  avrei  pagato  io  un  barlume  di  luce  per
intravvedere le sue sembianze, per capacitarmi di quello che doveva credere alle
sue parole pietosamente bugiarde! Con quanto sgomento non seguiva io  il  medico
fin sul pianerottolo pregandolo e scongiurandolo che mi dicesse  la  verità!  Ma
piú d'una volta sospettai che ella ci venisse dietro  appunto  per  impedire  al
medico che disubbidisse alla sua  raccomandazione  e  tutto  mi  dichiarasse  il
pericolo del suo stato!... Quando poi io non voleva  ad  ogni  costo  acchetarmi
alle sue proteste, ell'aveva ancora il coraggio di adirarsi, di  pretendere  che
le credessi per forza e che non mi martoriassi con paure immaginarie. Oh  ma  io
non restava ingannato da queste frodi!... Il cuore mi  ammoniva  della  sciagura
che ci minacciava, e le pozioni che il medico ordinava non  erano  tali  che  si
convenissero ad un lieve incommodo passeggiero. Eravamo allo stremo d'ogni cosa;
mi convenne vendere le  biancherie  i  vestiti;  avrei  venduto  me  stesso  per
procurarle un momentaneo sollievo. Dio finalmente  ebbe  compassione  di  lei  e
delle mie orribili angosce. Il malore fu domato se non vinto; l'ardore  febbrile
si rallentò nel suo corpo estenuato; riebbe a poco a poco le forze. Si alzò  dal
letto, volle subito licenziar la fantesca per risparmiare la  spesa,  e  accudir
lei alle faccende di casa; io me le opposi quanto seppi,  ma  la  volontà  della
Pisana era irremovibile; né malattie né  disgrazie  né  persuasioni  né  comandi
valsero mai a piegarla. I primi giorni che uscí di casa non mi  lasciai  vincere
neppur io e volli accompagnarla: ma ella se ne stizziva tanto  che  mi  convenne
anco di questo accontentarla e lasciare ch'ella uscisse sola. - Ma Pisana  -  le
andava io dicendo - non mi vuoi dar ad intendere che devi raccogliere qua  e  là
qualche piccolo credito delle tue lezioni? Andiamo dunque,  io  ti  accompagnerò
dove vorrai. - Bella guida - mi rispondeva celiando - bella  guida  quella  d'un
cieco! Davvero che io ho tutta la voglia di diventar ridicola mostrandomi per le
case a questo modo!... E poi chi sa cosa andrebbero a pensare!  No,  no,  Carlo.
Gli Inglesi sono scrupolosi: te lo dico e te lo ripeto che non  mi  farò  vedere
che sola. Adunque pur brontolando e per nulla persuaso della verità di quanto mi
diceva, io dovetti lasciarla fare a suo talento. Ricominciò  daccapo  colle  sue
lunghe assenze, durante le quali io stava sempre col cuore sospeso, e  dubitando
di non vederla tornare mai piú. Infatti alle volte tornava a casa tanto  esausta
di forze che  per  quanto  si  sforzasse  non  giungeva  a  nascondermi  il  suo
sfinimento. Io ne la rimproverava dolcemente, ma poi mi convenne tacere  affatto
perché ogni  piú  lieve  rimbrotto  le  dava  tanta  stizza  che  per  poco  non
l'assalivano le convulsioni. Non credo che fosse  possibile  immaginare  miseria
maggior della mia. Londra, voi lo sapete, è grande; ma le montagne stanno e  gli
uomini girando s'incontrano. Cosí dunque avvenne che la  Pisana  s'incontrò  una
mattina nel dottor Lucilio il quale io supponeva sí che fosse a Londra,  ma  non
avea voluto rivolgermi a lui, per la freddezza dimostratami tanto  ingiustamente
per l'addietro. S'incontrò adunque colla Pisana;  costei  gli  raccontò  le  mie
vicende e le sue, e la cagione per la quale allora eravamo a  Londra  sprovvisti
di tutto. Sembra che la mia posizione lo persuadesse  della  falsità  di  quelle
accuse ch'egli in altri tempi avea ritenute vere a  mio  discapito.  Infatti  mi
venne a trovare e mi dimostrò tanta amicizia quanta forse mai non  me  ne  aveva
mostrata. Era un bel modo di chieder perdono della lunga ingiustizia; né di  piú
io poteva pretendere dall'indole orgogliosa di  Lucilio.  Bensí  mi  riconfortai
assaissimo di quell'incontro, e lo presi per una promessa della Provvidenza  che
le sorti nostre avessero a cambiare in meglio. Non ebbi che a convincermi sempre
di piú di questa felice persuasione per la  bella  piega  che  parvero  prendere
allora tutto d'un  tratto  le  cose  nostre.  Prima  di  tutto  Lucilio  esaminò
attentamente i miei occhi, e dettomi che erano coperti da caterratte e che entro
pochi mesi sarebbero maturate per l'operazione della quale  non  dubitava  punto
che sarebbe riescita a meraviglia, mi si rimise l'anima in  corpo.  Oh  il  gran
dono è la luce! Non l'apprezza mai degnamente che  chi  l'ha  perduta.  Indi  il
dottore mi chiese notizia di me della mia famiglia e come  stavano  le  cose,  e
chiarito di tutto mi diede lusinga che egli avrebbe fatto venire in  Inghilterra
l'Aquilina e i figliuoli miei, dove avrebbe pensato a  stabilirmi  in  modo  che
fossero piuttosto utili pel futuro che costosi al presente. Egli aveva una  gran
clientela di Lordi e di principi dei quali governava a suo grado l'influenza;  e
le rimostranze che si  erano  udite  al  Parlamento  per  le  deliberazioni  del
Congresso di Verona furono, credo, inspirate da lui. Io voleva ritrarmi  per  le
grandi spese che a ciò si dovevano incontrare, e per le quali certamente la  mia
borsa era tutt'altro che preparata; e  poi,  debbo  confessarvelo,  aveva  quasi
vergogna di manifestare questa gran  premura  di  avere  presso  di  me  la  mia
famiglia, parendomi quasi far onta alla devozione unica e generosa della Pisana.
Rimasti soli un momento, soffiai questo mio scrupolo al dottore. - No, no  -  mi
rispose egli mestamente - gente di casa  vi  sarà  necessaria;  credete  che  ne
proverrà gran bene anche alla contessa Pisana. Io voleva che mi chiarisse meglio
questo enigma, ma egli se ne schivò soggiungendo che certo la  cura  d'un  cieco
doveva pesare assai ad una signora  avvezza  alle  delicature  veneziane  e  che
l'aiuto d'un'altra donna l'avrebbe alleggerita di molto.  -  Ditemi  la  verità,
Lucilio - soggiunsi io - la salute della Pisana non c'entra per nulla in  queste
vostre considerazioni? - C'entra sí...  perché  potrebbe  guastarsi.  -  Dunque,
adesso che parliamo la trovate buona? - Mio Dio,  si  può  mai  dire  quando  la
salute sia buona o cattiva? La natura ha i suoi segreti e non è dato  neppur  ai
medici indovinarli. Vedete, io son invecchiato nella professione,  eppure  anche
ieri mattina lasciai un malato che mi sembrava in via di miglioramento e a  sera
lo trovai morto. Sono schiaffi che la natura regala a chi vuol conoscerla troppo
addentro e violare la sua misteriosa verginità. Credetelo, Carlo, la  scienza  è
proprio vergine ancora, finora non l'abbiamo che carezzata sulle  guance!  -  Oh
non credete neppur nella scienza! Ma in cosa credete dunque? - Credo nel  futuro
della scienza, se almeno qualche cometa  o  il  raffreddamento  della  corteccia
terrestre non verrà a guastare l'opera dei secoli.  Credo  all'entusiasmo  delle
anime che irrompendo quandocchesia nella vita sociale anticiperanno  di  qualche
millennio il trionfo della scienza, come il matematico calcolatore  è  prevenuto
nelle sue scoperte  dalle  audaci  ipotesi  del  poeta!  -  E  perciò,  Lucilio,
seguitate il sogno della vostra gioventù, e credete rinfocolare  questo  immenso
entusiasmo colle mene segrete,  e  colle  oscure  macchinazioni!...  -  No,  non
censurate almeno beffardamente quello che non capite. Io non corro dietro  a  un
fantasma; accontento un bisogno. Carlo, le mene non sono sempre segrete,  né  le
macchinazioni oscure!... Toccate questa cicatrice!... -  si  scoperse  il  petto
vicino alla gola, - questa la toccai or è l'anno a Novara!  Fu  inutile;  ma  la
ferita mi rimase.  -  E  guardate  questa  che  m'ebbi  a  Rieti  -  risposi  io
rimboccandomi la manica e mostrando il braccio. Lucilio mi buttò le  braccia  al
collo con una effusione che non mi sarei mai aspettato da lui.  -  Oh  benedette
queste anime - diss'egli - che veggono il vero, e lo seguono, benché non  ve  le
spinga una forza irresistibile! Benedetti gli uomini pei quali il sacrifizio non
ha voluttà eppure vi si offrono egualmente, vittime volontarie e generose!  Sono
i veri grandi. - Non adulatemi - soggiunsi. - Io andai a Napoli,  si  può  dire,
per amor proprio, e avrei anzi un mezzo  rimorso  di  aver  sacrificato  al  mio
orgogliuzzo l'interesse della mia famiglia. - No, ve  lo  giuro  io,  non  avete
sacrificato nulla. La vostra famiglia vi raggiungerà qui. Voi rivedrete la bella
luce del giorno e le desiderate sembianze dei vostri cari. Gli  è  vero  che  il
sole di Londra non è quello  di  Venezia;  ma  la  melanconia  delle  sue  tinte
s'accorda perfettamente alle pupille  lagrimose  dell'esule.  -  Mi  date  anche
speranza che la Pisana sarà per allora perfettamente guarita? - Perfettamente  -
rispose con un fremito nella voce il dottore.  Io  tremai  tutto  che  mi  parve
udire, che so io? una sentenza di morte; ma egli seguitò innanzi parlandomi  con
tanta pacatezza della malattia della Pisana, e del corso  che  dovea  tenere,  e
della cura piú adattata e dell'infallibile guarigione, che la  memoria  di  quel
funereo perfettamente mi uscí per allora del capo. Il dottore si  diede  attorno
assai per giovarci; d'allora in  poi  grazie  a'  suoi  spontanei  soccorsi  non
mancammo piú di nulla, ed io mi vergognava di vivere in quel  modo  d'elemosina,
ma egli diceva alla Pisana che avea dei doveri verso la sua futura cognata e non
voleva per oro al mondo cedere ad altri il diritto di esserle utile. -  Come?  -
gli diceva la Pisana - ancora v'incaponite nell'idea di sposar mia  sorella?  Ma
non vedete che l'è vecchia piú ancora d'anima  che  di  corpo  e  per  soprappiù
monaca dalle unghie ai  capelli?...  -  Sono  incorreggibile;  -  rispondeva  il
dottore - quello ch'io ho tentato a vent'anni, e non son riescito, lo  tentai  a
trenta a quaranta a cinquanta, lo tenterò ai sessanta che sono molto vicini.  La
mia vita voglio che sia un tentativo ma un forte ostinato  tentativo:  in  tutto
sono cosí e beati gli altri se mi imitassero! Battendo si conficca il chiodo.  -
Ma non si sconficca l'ostinazione d'una monaca. - Bene; dunque non parliamone di
grazia: parliamo  piuttosto  della  signora  Aquilina  e  dei  due  ragazzi  che
dovrebbero star poco ad arrivare. Ne aveste novelle sul  loro  viaggio?  -  Ebbi
ieri lettera da Bruxelles - m'intromisi a dir io. - Bruto  li  accompagna  colla
sua vecchia gamba di legno. In verità non so come ringraziarvi d'una  sí  grossa
spesa che vi siete addossata. -  Ringraziar  me?...  Ma  non  sapete  che  cento
sterline non mi costano che la stesa d'una ricetta? Prolungo di due giornate  la
gotta aristocratica d'un nobile lord e guadagno di che far viaggiare l'Europa  a
tutti voi. Conoscete lord Byron il poeta?... Egli mi volle dare diecimila ghinee
se riesciva ad allungargli di un pollice la gamba diritta di cui zoppica. Benché
ci avessi qualche pretensione di riuscire con un certo metodo  scoperto  da  me,
non avea allora bisogno di denaro, né voleva perdere il mio tempo a  stirare  le
gambe della Camera alta. Risi dunque sul muso al gran poeta  rispondendogli  che
avevano bisogno di me  allo  Spedale.  -  Ed  egli?  -  Ed  egli  si  compiacque
dell'epigramma; e se ne vendicò coll'addrizzarmi il piú caro sonettino  che  sia
mai stato scritto in inglese. Ve l'assicuro io che sotto quell'anima  tempestosa
di Don Giovanni e di Manfredo cova una pura fiamma che  scoppierà  un  giorno  o
l'altro. Byron è troppo grande; oltreché nei libri e nelle rime deve finir poeta
anche nella vita. - Dio lo voglia! - sclamai - perché  la  poesia  è  la  realtà
della felicità spirituale, la sola vera  e  completa.  -  Ben  detto  -  rispose
Lucilio rimormorando le mie parole, ed io rigonfiava di tanto onore. - La poesia
è la felicità reale  dello  spirito.  Fuor  d'essa  vi  sono  godimenti  ma  non
contentezze!... - Ed io, son dunque poetessa perché son contenta? -  chiese  con
voce allegra ma fievole la Pisana. - Voi  siete  Corinna!  Voi  siete  Saffo!  -
sclamò Lucilio. - Ma non vi accontentate di balbettar odi o poemi  e  li  create
colle opere, e porgete  alla  sublimità  poetica  la  loro  piú  degna  effigie,
l'azione. Achille e Rinaldo prima d'esser poeti furono eroi. La Pisana si mise a
ridere ma con tutta quell'ingenuità che esclude ogni sospetto di falsa modestia.
- Sono una Corinna molto pallida, una Saffo assai  magra!  -  diss'ella  ridendo
ancora. - Mi sembra quasi esser diventata inglese, che somiglio una  cavalletta!
ma ho guadagnato in idea aristocratica. - Avete guadagnato in tutto -  soggiunse
Lucilio infervorandosi sempre piú. - L'anima vostra trasparente dal pallore  del
viso vi ringiovanisce e vi impedirà di diventar mai vecchia!... Chi giurasse che
avete venticinqu'anni potrebbe esser creduto!... - Sí, sí, ora che  è  morto  il
povero Piovano che m'ha battezzata! Sapete ch'è una gran malinconia il trovar la
nostra vita sempre piú cinta e ombrata da sepolcri! Ormai la prima fila è andata
quasi tutta. In prima fila siam noi. - Ma non tremeremo al fuoco, siatene certa.
Né voi né io  né  Carlo  abbiamo  la  smania  di  vivere.  Abbiamo  tre  tempere
differenti ma che s'accordano meravigliosamente in questo di esser ubbidienti  e
rassegnate alla natura. Bensí la mia propria natura mi comanda di spender bene e
di usare spietatamente la vita. Voglio proprio cavarne ogni succo,  e  far  come
dei vinacci i quali, poiché ne fu spremuto il  vino,  si  torchiano  ancora  per
estrarne l'olio. - E ne avrete guadagnato? - Assai!  d'aver  fatto  fruttificare
ogni mio talento e d'aver offerto un buon esempio  a  quelli  che  verranno.  Io
approvai del capo, ché quella teoria del buon esempio mi  avea  sempre  frullato
entro come un ottimo negozio: e me ne  fidava  piú  che  dei  libri.  La  Pisana
soggiunse ch'ella per verità in tutte le sue cose non  aveva  mai  pensato  alla
gloria di trovar imitatori ma che si era data con tutta  l'anima  al  sentimento
che la trasportava. -  Almeno  non  avete  dato  altrui  il  vostro  spirito  da
intisichirlo! -  soggiunse  mestamente  Lucilio.  Io  compiansi  nel  mio  cuore
quell'animo forte e tenace che da quarant'anni covava una piaga;  e  non  voleva
saperne né di guarigione né d'obblio.  Era  l'orgoglio  smisurato  di  chi  vuol
sentire il dolore per mostrarsi capace di  sopportarlo,  e  poterlo  rinfacciare
altrui come un tradimento o una viltà. Il medico riverito dai duchi e  dai  Pari
di Londra non ripudiava il mediconzolo di  Fossalta;  non  confessava  di  esser
stato piccolo, ma pretendeva di esser sempre stato  grande  ad  un  modo;  e  la
ferrea vecchiaia porgeva la mano alla bollente giovinezza  per  sollevarla  alla
ricompensa d'ogni dolore, alla forza incrollabile della coscienza sicura  in  se
stessa. In quei pochi giorni che precedettero l'arrivo dei  nostri  viaggiatori,
la Pisana mi si mostrava piú fredda che pel consueto; ma di tratto in tratto  le
saltava qualche strano capriccio di tenerezza, e dopo si ostinava a provarmi con
mille sgarberie che era stato un mero capriccio quasi una burla. - Povero Carlo!
- diceva ella talvolta. - Cosa sarebbe stato di te  se  la  compassione  non  mi
persuadeva di farti un po' di assistenza! Anche fu fortuna che la seccaggine  di
quel mio vecchio marito mi  invogliasse  di  partire  da  Venezia;  cosí  ti  ho
procacciato qualche utile e tu avrai presto il bene di rabbracciare i tuoi cari.
Ella non m'aveva parlato mai con tale crudezza;  e  dava  ben  pochi  indizi  di
generosità col noverarmi quasi la lista dei beneficii  ch'io  doveva  unicamente
alla sua compassione. Ne patii acerbamente; ma mi persuasi vieppiù  che  nessuna
traccia d'amore le era rimasta nell'anima, e  che  l'eroismo  stesso  della  sua
pietà era un capriccio una vera bizzarria. Finalmente potei stringere al seno  i
miei figli; baciare quelle loro guance fresche e rotonde,  rinfrescarmi  l'anima
nei puri sentimenti di quei  cuori  giovanili.  La  buona  Aquilina,  che  tanto
amorevole quanto animosa madre s'era dimostrata nell'educarli, ebbe la sua parte
delle mie carezze, e corrisposi con effusione agli amichevoli abbracciamenti  di
Bruto. Oh ma le loro sembianze non poteva vederle!... Allora per la prima  volta
ebbi entro un movimento di stolida rabbia contro il destino, e mi pareva che  il
fuoco della volontà dovesse bastare a raccendermi le pupille, tanto era  intenso
ed ardente. Lucilio mise un po' di balsamo sulla piaga assicurandomi che dopo un
breve tempo avrebbe tentato l'operazione;  e  cosí  riserbandomi  per  allora  i
piaceri della vista mi diedi subito a godere di  tutti  gli  altri  che  m'erano
concessi dalla mia condizione infelice. Furono,  per  tutto  il  resto  di  quel
giorno e pel seguente continue inchieste, domande, commemorazioni di questa e di
quella persona, delle cose piú minute, dei fatti piú fuggevoli e  inconcludenti.
Di Alfonso Frumier sapevano nulla, di Agostino avevano detto a Venezia  che  era
affamato di fettucce e di croci e ne aveva intorno un altarino:  cosí  pure  gli
abbondavano i figliuoli, ad uno dei quali assegnava  pel  futuro  la  carica  di
ministro, all'altro quella di generale, di patriarca, di  papa.  Sua  Eccellenza
Navagero stava al solito né morto né  vivo;  sempre  colla  Clara  al  capezzale
quand'ella non aveva da recitare le Ore e le Compiete:  allora,  morisse  anche,
non voleva saperne. Il vecchio Venchieredo era morto finalmente ed avea lasciato
a suo figlio una sostanza cosí imbrogliata che non avea  speranza  di  cavarsene
con quella sua testa  balzana  e  spensierata;  bisbigliavano  che  Raimondo  si
potesse sposare colla primogenita di Alfonso Frumier il quale peraltro  stentava
a largheggiar nella dote. Del resto le cose al solito;  il  paese  indifferente,
taluni svagati dai divertimenti, altri allettati dalle paghe; nessun  commercio,
nessuna vita. I processi politici avevano messo  gran  malumore  nelle  famiglie
senzaché la comune della gente se ne avvedesse;  solamente  questa  seguitava  a
lamentarsi della coscrizione; ma son malanni tolti appoco appoco dall'abitudine,
massime quando il farsi soldato vuol dire mangiare una buona minestra col lardo,
e fumare degli ottimi cigarri alle spese di chi s'abborraccia di polenta  e  non
fuma altro che cogli occhi lagrimosi sotto la cappa del camino. - E a Cordovado?
- domandai io. A Cordovado ci aveano piú scarse novità che in ogni  altro  sito,
se si eccettui la pazzia  dello  Spaccafumo  che  diceva  esser  assalito  dagli
spiriti e  li  stornava  sempre  colla  mano  a  destra  e  a  sinistra.  Questa
preoccupazione lo menò poi a capitombolare nel Lemene dove  un  bel  mattino  lo
trovarono  annegato.  Ma  si  credette  che  i  troppi  bicchierini  d'acquavite
ingollati ne avessero per lo meno tanta colpa quanto gli spiriti.  Cosí  terminò
un uomo  che  sarebbe  diventato  un  eroe  se...  Perdono!  dopo  questo  "se",
bisognerebbe vi raccontassi tutti i perché della nostra storia dal  Trecento  in
seguito. Val meglio troncar il periodo. Il conte Rinaldo avea fatto atterrare un
altro pezzo del castello di Fratta; e Luciano e la Bradamante aveano  seppellito
senza grandi lagrime il signor Capitano per le settecento lire di usufrutto  che
ne ereditarono. - Appunto, si conserva  bene  Donato?  -  chiese  la  Pisana.  -
Figuratevi, come un giovinotto; - rispose Bruto - non ha né un capello grigio né
una ruga sul viso. Non par nemmeno uno speziale. - Oh gli era davvero il piú bel
giovane che si potesse vedere! - soggiunse l'altra.  -  A'  miei  tempi  gli  ho
voluto bene anch'io piú che ad ogni altro. Io troncai quel discorso  perché  non
mi piaceva ed anche per chiedere piú larghe informazioni intorno a  mia  sorella
la quale mi avevano annunciato esser partita per la Grecia a raggiungervi  Spiro
il marito, ma non m'avevano detto di piú.  -  A  proposito  di  tua  sorella;  -
soggiunse Bruto - non avesti una sua lettera ch'era per te a Venezia e  che  noi
ti abbiamo spedita di colà? - Non l'ebbi -  rispos'io;  infatti  non  ne  sapeva
nulla. - Allora la si sarà smarrita per via; - riprese Bruto - ma dal  carattere
e da chi la portava, che era un mercante  greco,  io  l'avea  giudicata  ed  era
dell'Aglaura. Un cotal incidente mi spiacque assaissimo; ma  pochi  giorni  dopo
quella lettera mi capitò un po' guasta nel suggello e negli angoli. Non avrò  il
coraggio né di darla a brani né di spremerne il succo. Eccola tal quale.

"Carlo, fratel mio.

"La Grecia mi voleva e m'ebbe finalmente; credetti  appartenerle  un  tempo  pel
sangue de' miei genitori; ma poiché non era vero, la natura mi rilegò a lei  per
mezzo del marito e dei figliuoli. Ecco ch'io ho diviso il mio cuore fra  le  due
patrie piú grandi e sventurate che uomo mai possa  sortire  nascendo.  Nulla  ti
dirò della mia salute che vacillò piucchemai dopo la partenza di Spiro e che  si
rimise allora soltanto  quando  pensai  che  rafforzata  mi  avrebbe  servito  a
raggiungerlo. Appena dunque ho potuto  m'imbarcai  sopra  una  nave  idriotta  e
veleggiammo verso le sacre onde dell'Egeo. Mi pareva essere la suora  di  carità
che dopo aver assistito alle ultime ore d'un malato passa ad un altro  capezzale
dove la chiamano dolori piú vivi sí ma forse al pari micidiali. Sai che  io  non
sono una donna molto debole e dovresti ricordartelo per prova; ma ti  confesserò
che ho pianto molto durante il tragitto. A Corfù s'imbarcarono parecchi italiani
fuggiti da Napoli e dal Piemonte che si proponevano di versar per la  Grecia  il
sangue che non avean potuto spargere per la  propria  patria.  Io  piangeva,  ti
dico, come una buona veneziana; fu soltanto al toccare il  suolo  della  Laconia
che mi sentii ruggir nel cuore lo spirito delle antiche spartane. Qui  le  donne
sono le compagne degli uomini non le ministre dei loro piaceri. La moglie  e  la
sorella di Tzavellas precipitavano dalle rupi di  Suli  sassi  e  macigni  sulle
cervici dei Musulmani cantando  inni  di  trionfo.  Alla  bandiera  di  Costanza
Zacarias accorrono le donne di Sparta, armate d'aste e di spade.  Maurogenia  di
Mirone corre i mari con un vascello, solleva l'Eubea e promette la mano di sposa
a chi vendicherà sugli Ottomani il supplizio di suo padre. La moglie di  Canaris
a chi le disse che aveva per marito un prode, rispose: - Se non  fosse,  l'avrei
sposato? - Cosí, o Carlo, le  nazioni  risorgono.  "Giunta  appena,  trovai  mio
figlio Demetrio che tornava colle navi di Canaris dall'aver abbruciato a  Tenedo
la flotta turca. Colà le flotte cristiane d'Europa stavano  contro  di  noi;  la
croce alleata della mezzaluna contro la croce! Dio disperda  gli  infedeli  e  i
rinnegati prima di loro. Demetrio aveva abbrustolita  una  guancia  e  mezzo  il
petto dalla fiamma della pece; ma il mio cuore materno lo riconobbe;  egli  ebbe
fra le mie braccia la ricompensa degli eroi, la gloria di  veder  insuperbire  a
diritto la madre. Spiro e Teodoro chiusi in Argo  con  Ipsilanti  attendevano  a
frenare il torrente dei Turchi mentre Colocotroni e Niceta  tagliavano  loro  la
ritirata alle spalle coll'insurrezione dei  montanari.  "Oh  Carlo!  fu  un  bel
giorno quello in cui tutti quattro ci riabbracciammo là sulle soglie  quasi  del
Peloponneso libero affatto da' suoi nemici. Si affortificava Missolungi,  Napoli
di Romania era nostro. La marina aveva un porto, il  governo  una  rocca,  e  la
Grecia trionfa al pari della barbara tirannia di Costantinopoli che della venale
inimicizia delle flotte cristiane. Omai qualunque  nave  porti  ai  Turchi  armi
viveri munizioni sarà passata per le armi; la barbarie otterrà forse quello  che
non ottennero gloria eroismo sventura. "Qui ogni interesse  privato  scomparisce
affatto e si confonde al comune. Si  possiede  quello  che  non  abbisogna  alla
patria, e lo si serba a lei pei bisogni della domane; si gode de' suoi  trionfi,
si soffre de' suoi dolori. Perciò non ti parlo in particolare  di  noi.  Basterà
dirti che ad onta delle fatiche  io  non  peggioro  nella  salute  e  che  Spiro
guarisce delle ferite guadagnate sulle mura di Argo. Teodoro ha combattuto  come
un leone; tutti lo citano e lo additano  per  esempio;  ma  un'egida  divina  lo
protesse e non ebbe la minima scalfittura.  Quand'io  passeggio  per  le  strade
d'Atene ove abitiamo in questo momento di tregua ed ho uno per parte i miei  due
figliuoli abbronziti dal sole del campo e dal fuoco delle battaglie,  mi  sembra
che il secolo di Leonida non sia ancora  passato.  Spiro  parla  sovente  di  te
anch'esso, e mi dice di pregarti che tu mandi in Grecia uno  o  ambidue  i  tuoi
figli se vuoi farne degli uomini. Qui un  ragazzo  di  sedici  anni  non  è  piú
giovinetto ma un nemico dei Turchi che può avvicinarsi a nuoto ad un loro  legno
ed incendiarlo. Mandaci, mandaci il  tuo  Luciano,  ed  anche  se  vuoi  Donato.
Persuadi l'Aquilina che vivere senz'anima non è vivere; e  che  morire  per  una
causa santa e sublime deve sembrare una sorte invidiabile alle madri  cristiane.
Ieri fu la seconda radunanza dei deputati della Grecia fra i cedri  dell'Astros.
Ipsilanti, Ulisse, Maurocordato,  Colocotroni!...  Son  nomi  d'eroi  che  fanno
dimenticare Milziade, Aristide, Cimone e gli altri antichi  di  cui  la  memoria
rivive qui nelle opere dei pronipoti. Io lo ripeto, Carlo - bada a  tua  sorella
che non può darti un consiglio snaturato. Mandaci i tuoi figli: per essere buoni
Italiani converrà si facciano un pochettino Greci; e allora vedremo  quello  che
non si vide finora. - Se sei ancora a Londra e se hai teco la  Pisana,  salutami
lei e il dottor Lucilio Vianello che stimo ed  amo  per  fama.  Abbiamo  qui  un
alfiere di vascello napoletano, Arrigo Martelli, che dice di averti  conosciuto,
e doverti assai  fino  dal  tempo  della  Rivoluzione  francese.  Egli  pure  si
raccomanda che ti ricordi a lui, e di parteciparti che suo  fratello  è  partito
per l'America del Sud ove si faceva grande richiesta di buoni ingegneri. "Addio,
mio Carlo!... Bada a star forte nelle  tue  infermità  e  se  ti  permettono  un
viaggio vieni anche tu fra  noi!...  Oh  che  bel  sogno!...  Vieni,  che  sarai
benedetto da tutti quelli che ti amano!..."

Io son fatto cosí. Dopoché Lucilio  mi  lesse  quanto  sopra,  io  feci  chiamar
Luciano, e gli porsi la lettera  perché  la  leggesse,  e  attesi  intanto  alle
espressioni che si dipingevano sulle sue maschie ed aperte  sembianze.  Non  era
giunto ancora alla fine del foglio che mi si gettò fra le braccia esclamando:  -
Oh sí, padre mio, lasciami partire per la  Grecia!  D'una  stretta  di  mano  io
ringraziai l'Aquilina ch'essendo  entrata  in  quel  punto,  mi  si  era  seduta
daccanto. - Di che si tratta? - chiese ella. Ed io le spiegai le profferte e gli
inviti che ci venivano dalla Grecia. - Se hanno vera vocazione, partano pure;  -
ella rispose facendo forza a se stessa - bisogna  correre  ove  si  è  chiamati,
altrimenti non si fa nulla di bene. - Grazie, mia Aquilina! - sclamai. - Tu  sei
la vera donna che ci abbisogna per rigenerarci! Quelle  che  non  ti  somigliano
sono nate per strisciare nel fango. Udii una lieve pedata entrar  nella  stanza;
era della Pisana che da alquanti giorni non parlava quasi  piú.  Io  sentiva  la
mancanza della sua voce, ma col tenerle il broncio  mi  vendicava  delle  ultime
volte che mi aveva parlato sí  acerbo.  Lucilio  quel  giorno  le  mosse  alcune
richieste sulla sua salute, alle quali rispose per monosillabi e  con  voce  piú
fioca del solito. Indi uscí  come  indispettita,  l'Aquilina  le  tenne  dietro,
Luciano ubbidí forse ad un'occhiata di Lucilio e restammo noi due soli. - Ditemi
- principiò con un accento che annunziava  un  serio  colloquio  -  ditemi  qual
diritto avete di fare il burbanzoso colla Pisana? - Ah ve ne  siete  accorto?  -
rispos'io - allora avrete anche badato alla straordinaria freddezza  ch'ella  mi
dimostra!... So che di molto le sono debitore; non lo dimentico mai, vorrei  che
tutto il mio sangue bastasse a provarle la mia riconoscenza e lo verserei  tutto
fino  all'ultimo  gocciolo.  Ma  alle  volte  non  posso  schivarmi  di  qualche
ghiribizzo di superbia. Sapete che ultimamente ella mi ha cantato sopra tutti  i
toni che soltanto per isvagarsi delle sue noie maritali è corsa a Napoli, e  che
io deggio unicamente ad un sentimento di compassione tutta l'assistenza  di  cui
m'è stata generosa?... - Dunque voi sospettate ch'ella non  serbi  piú  per  voi
l'amore d'un tempo? - Ne sono certo, dottore, ne sono persuaso  come  della  mia
propria esistenza. Perché io sia cieco, non veggo meno perciò col discernimento.
Conosco l'indole della Pisana come la mia stessa, e so ch'ella non è  capace  di
assoggettarsi a certi riguardi nulla nulla che un'interna inquietudine la spinga
a violarli. Vi parlo  cosí  alla  libera  perché  siete  fisiologo  e  le  umane
debolezze  vorrete  compatirle  massime  quando  mescolate  a  tanta   dose   di
magnanimità. Ve lo ripeto, la convivenza affatto fraterna di questi due anni  mi
convinse che la Pisana ha dimenticato il passato; e non duro fatica  a  crederle
che la sola pietà le sia stato incentivo  a  tanti  miracoli  di  affetto  e  di
devozione. Del resto l'umor suo è troppo bizzarro per ubbidire  ad  una  massima
premeditata di continenza. - Oh Carlo,  trattenetevi  dai  giudizi  precipitati!
Questi temperamenti straordinari son quelli appunto  che  sfuggono  alle  regole
comuni. Diffidate del vostro discernimento, ve lo ripeto: gli  occhi  del  corpo
alle volte ragionano assai meglio che quelli dell'anima, e se vedeste...  -  Che
bisogno ho io di vedere, dottore?... Non sapete... che io l'amo ancora, che l'ho
amata  sempre?...  Non  vi  ho  narrato  l'altro  giorno  la  storia   del   mio
matrimonio?... Oh pur troppo ella ha giurato di farmi sentire  quanto  perdetti,
uscendo da quell'intima parte del cuore ove m'avea ricevuto!... Pur troppo  ella
punisce colla compassione un amore troppo  docile  insieme  ed  ostinato.  È  un
castigo tremendo, una crudeltà raffinata, la vendetta coi  benefizi!  -  Tacete,
Carlo; ognuna delle vostre parole è un sacrilegio. - Una verità, volevate  dire.
- Un sacrilegio, vi ripeto. Sapete cosa faceva per voi la Pisana  quand'io  l'ho
incontrata pallida estenuata cenciosa per le vie di Londra? - Sí... orbene?... -
Tendeva la mano ai passeggieri!... Ella accattava, Carlo, vi accattava la  vita!
- Cielo! no, non è vero!... È impossibile! - Tanto impossibile che io stesso  le
porgeva non so quale moneta, quando... Oh ma vi posso descrivere  quanto  provai
nel ravvisarla?... Come dirvi il suo smarrimento ed il mio? - Basta, basta!  per
carità, Lucilio; la mia mente si perde e  vengo  meno  di  dolore  volgendomi  a
guardare dove siamo passati! - E dubiterete ancora dell'amor suo?... È un  amore
senza misura e senza esempio, un amore che la tiene  in  vita,  e  che  la  farà
morire!... - Pietà, pietà di me!... no, non parlate a questo modo! - Parlo  come
un medico e vi dico intera la verità. Ella vi ama ed ha imposto a se  stessa  di
non palesarvi l'amor suo. Questo sforzo continuo, piú che i patimenti  i  dolori
le veglie, le logora la salute... Carlo, aprite gli occhi sopra tanto eroismo, e
adorate la virtù d'una donna a cui voi non osaste fidarvi!... Adorate, vi  dico,
questa  vergine  potenza  della  natura  che  innalza  gli  slanci   disordinati
d'un'anima alla sublimità del miracolo, e la trattiene là  sospesa  per  la  sua
stessa forza, come l'aquila sopra le nubi!... Infatti  io  era  prostrato  dalla
sublimità di quella virtù che non avrei quasi osato sperare da anima  umana.  La
Pisana poi, chi l'avrebbe creduta  capace  di  quella  pudica  riservatezza,  di
quell'abnegazione umile nascosta, di quella santa impostura  portata  tant'oltre
da lasciarsi quasi credere vera per non turbare la pace d'una  famiglia  da  lei
stessa si può dire composta?... Quanto falsi erano stati i miei giudizi  intorno
a quell'animo vacillante forse nei piccoli sentimenti, ma costante e  indomabile
nella grandezza quanto non lo  fu  alcun  altro  giammai!...  Il  suo  fare  piú
sostenuto all'annunzio del prossimo arrivo dell'Aquilina, que'  suoi  impeti  di
tenerezza subitamente frenati e la sua melanconia successiva, il suo  volontario
allontanamento da me, tutto contribuí a farmi  capace  della  verità  di  quanto
affermava Lucilio. Due anni interi aveva errato col  mio  giudizio;  ma  il  mio
medesimo errore era una  prova  dell'estrema  sua  delicatezza,  e  dell'assidua
perseveranza colla quale avea mantenuto i suoi eroici proponimenti. - Dottore  -
risposi con voce tanto commossa che stentava ad articolar parola - disponete  di
me. Dite parlate insegnatemi un mezzo da salvarla. La vita di me e  di  tutti  i
miei, sí, tutto basterà appena a ricomprare tanti sacrifizi! Il  meno  ch'io  le
possa offrire è tutta intera la vita che mi rimane! - Pensiamoci, Carlo; son qui
con voi apposta. E la salute di tutti i miei illustri clienti, credetelo, mi  dà
minor pensiero che un rammarico, un sospiro, un lamento solo della Pisana.  Ella
avrebbe il diritto di vivere tutti i suoi giorni pieni felici; e di  morire  per
un eccesso di gioia. - Non parlate di morire! per carità non parlatene! - E cosa
sapete voi che per certe anime eccessive e privilegiate la  morte  non  sia  una
ricompensa?... Tuttavia ragioniamo come si ragiona per tutti.  La  sola  maniera
ch'io vegga di redimerla è collocarla ancora in qualche necessità di pazienza  e
di sacrifizio. Rendetela a suo marito: vicino al suo letto ella riavrà la  forza
di vivere: fors'anco l'aria nativa aiuterà questo rifiorimento della  salute.  -
Rimandarla  a  Venezia  voi  dite?...  Ma  come,  Lucilio,  come?...  Deggio  io
allontanarla, cacciarla da me, ora che sembro non aver  piú  bisogno  della  sua
assistenza? - Tutt'altro: dovete anzi raccompagnarla voi. E ch'ella continui  ad
avere nella vostra famiglia quell'intimità di affetto senza la quale non possono
durare temperamenti simili al suo. Quando la forza  smoderata  della  sua  anima
troverà altre azioni in cui sfogarsi, altri miracoli da tentare, altri sacrifizi
da compiere, il passato perderà per lei ogni tormento, i  desiderii  impossibili
s'adagieranno in una dolce e  contenta  melanconia.  Riavrete  un'amica,  e  una
sublime amica!... - Oh volesse il cielo, Lucilio! Domani partiremo per  Venezia!
- Vi dimenticate due cose. La prima che ho promesso di  rendervi  la  vista;  la
seconda che non avete facoltà di tornare a Venezia  senza  pericolo.  Ma  mentre
m'adoprerò di procurarvi questa, le cateratte si matureranno e vi  prometto  che
vedrete il pallido sole del Natale. - E non si potrebbe affrettarsi?... Non  per
gli occhi miei, Lucilio, ma per lei,  per  lei  solamente!...  Credo  che  anche
adesso potreste tentar l'operazione...  -  Bravissimo  Carlo!  Vorreste  che  vi
accecassi affatto  per  pagar  forse  cogli  occhi  vostri  un  gran  debito  di
riconoscenza?...  Umiliatevi,  amico  mio,  due  occhi  non  bastano;  è  meglio
serbarli, e pagheranno poi colle occhiate molto e molto di  piú.  Voi  avete  un
credito colla Turchia, il quale appoggiato a sole  rimostranze  private  non  vi
frutterà mai nulla. Volete che io  cerchi  di  venderlo  a  qualche  inglese?...
L'Inghilterra ha qualche diritto ora  alla  benevolenza  della  Porta  Ottomana,
poiché sono vascelli di Londra di Liverpool e di  Corfù  che  la  aiutano  nella
santissima opera  di  martirizzare  la  povera  Grecia.  L'Inghilterra  è  madre
amorosa: sopratutto nel far pagare ai suoi figli quanto è loro dovuto, essa vale
un tesoro; pel credito di mille sterline non avrà rimorso di appiccare il  fuoco
ai quattro cantoni del mondo. Fate a modo mio: lasciate  ch'io  dipani  un  poco
questa matassa!... - Ma a persuadermi di ciò non faceano  d'uopo  tante  parole.
Domani vi passerò le carte che sono ora nelle mani di  mio  cognato.  Certo  non
poteva trovare miglior procuratore. - A domani dunque e siamo intesi. Io mi darò
attorno a questa faccenda. Di qui a un paio di settimane  l'operazione;  poi  il
consueto riposo di quaranta giorni e il viaggio a Venezia. Non mi ci vorrà tanto
per procurarvi il passaporto. - Sí, ma intanto?... - Intanto tenete colla Pisana
un contegno umile ed affettuoso, e  non  riscaldatevi  tanto  nel  lodar  vostra
moglie, come facevate ora.  Li  merita  questi  elogi  ma  non  sono  opportuni.
L'altra, ve lo dico io, ne soffre acerbamente!... - Grazie, grazie, dottore,  io
non ebbi mai amico migliore di voi. - Ve ne ricordate eh?... La è un'amicizia di
data vecchia. Ho cominciato col risparmiarvi i rimbrotti e le busse, ordinandovi
un purgante. A questa memoria io scoppiai in un pianto dirotto. Anche ai  ciechi
è concesso il ristoro delle lagrime. E furono sí copiose sí dolci che non sentii
in  appresso  la  metà  de'  miei  dolori.  -  Lucilio  se  n'andò  stringendomi
affettuosamente la mano; e l'Aquilina  mi  venne  accanto  dopo  alcuni  momenti
dicendomi che aveva ad intrattenersi meco di cose di  grandissimo  rilievo.  Per
quanto fossi mal disposto, cercai di adattarmi a quanto ella voleva,  e  risposi
che parlasse pure, e che io starei molto volentieri ad ascoltarla.  Si  trattava
dei nostri figli, massime di Luciano al quale quella mezza parola  di  un'andata
in Grecia avea racceso nel cuore un tale entusiasmo  che  non  pareva  possibile
calmarlo. Ella non si era opposta in sua presenza  perché  né  voleva  mostrarsi
d'un parere contrario al mio, né rintuzzare palesemente quella fiera  gagliardia
del giovine, ma in segreto poi  mi  confessava  che  le  sembrava  un  consiglio
precipitato e Luciano troppo tenerello ancora per esporsi senza rischio  ad  una
vita avventurosa. Meglio era dunque ristare per poco finché fosse piú maturo, ed
aspettare dal tempo ispirazioni piú sincere. Queste  considerazioni  mi  parvero
giustissime; le approvai dunque pienamente lodandola  della  sua  magnanimità  e
prudenza; e anche a me infatti  non  andavano  mai  a  sangue  le  deliberazioni
avventate per mera fanciullaggine, che conducono sovente ad una precoce sfiducia
in noi e negli altri. Cosí fra noi  restammo  d'accordo;  ma  nell'altra  stanza
intanto Luciano e Donato non parlavano d'altro che d'Atene,  di  Leonida,  dello
zio Spiro e dei cugini: non vedevano l'ora di schierarsi in campo anch'essi e di
menar le mani contro quei  Turchi  manigoldi.  Soltanto  Donato  si  commiserava
talvolta di dover lasciare sua madre, mentre i cugini loro l'avevano  in  Grecia
testimone delle loro prodezze. - Nostra madre ci starà sempre nel  pensiero  per
animarci a imprese grandi e generose - rispondeva Luciano. - Sai com'erano fatte
le madri spartane?... Esse godevano di procrear figli per poterli  offrire  alla
patria; e porgendo loro lo scudo  dicevano:  "O  con  questo  tornate,  o  sopra
questo!". Il che significava:  o  vincitori  o  morti;  perché  sullo  scudo  si
adagiavano i corpi dei caduti per la patria. Cosí scaldavano  a  vicenda  i  due
giovinetti; e ognuno sognava o l'eroica gloria di Botzari o la morte sublime  di
Tzavellas. S'avvicinava il giorno nel quale Lucilio avrebbe  adoperato  i  mezzi
piú squisiti dell'arte per risuscitarmi alla luce. Egli  non  mi  parlava  della
Pisana, e questa mi sfuggiva sempre per quanto  cercassi  ammaliarla  colle  piú
tenere carezze. Perfino l'Aquilina ne era gelosa;  ma  pensando  a  quanto  essa
aveva operato per me, non aveva coraggio di lamentarsene. Il silenzio di Lucilio
non mi pronosticava nulla di bene, e le  rare  parole  di  conforto  ch'egli  mi
volgeva, io le attribuiva piú che a sincerità a premura  di  tenermi  calmo  pel
giorno della gran prova. Fui  beato  quando  potei  dire:  sarà  dopodimani.  Mi
batteva il cuore poi al pensare che sarebbe dimani. Quando dissi - È oggi! - fui
assalito da tanta impazienza,  che  credo  sarei  morto  se  avessero  protratto
d'altre  ventiquattr'ore.  Lucilio  si  accinse  all'opera   con   ogni   voluto
accorgimento; si trattava non d'un malato ma d'un amico; se potevasi  pretendere
un prodigio si era certamente da  lui,  e  certo  non  gli  fallí  la  fede  del
paziente. Quando mi disse: - È finito! - avevano già intercetto  la  luce  delle
porte e  delle  finestre  perché  l'improvvisa  sensazione  non  mi  offendesse.
Tuttavia mi parve travedere e travidi infatti un incerto  barlume,  e  misi  uno
strido tale che Bruto e l'Aquilina che mi sostenevano diedero un guizzo. Rispose
un fievole grido della Pisana che credette forse  a  qualche  disgrazia,  ma  la
rassicurò Lucilio soggiungendo scherzosamente: - Scommetto io che il briccone ha
già veduto qualche cosa! ma mi raccomando che non ispostiate questa visiera  che
gli accomodo ora;  e  sopratutto  che  le  imposte  restino  chiuse  come  sono,
ermeticamente. L'operazione è riuscita cosí appunto che presagisco fin d'ora che
le sei settimane di convalescenza potranno ridursi a quattro. - Oh grazie grazie
grazie, amico! Sollecitate piucché potete! - io sclamai coprendogli le  mani  di
baci. Piú che di avermi reso la vista lo ringraziava di quella  speranza  datami
di poter tentare qualche cosa a vantaggio  della  Pisana  prima  che  non  avrei
creduto. Quando tutti  furono  usciti  dalla  stanza  in  coda  al  dottore  per
ringraziarlo d'un tanto benefizio o fors'anco per informarsi di quanto  dovevano
credere alle parole dette in mia presenza, la Pisana mi si accostò pianamente, e
sentii il suo tiepido alito che m'accarezzava le guance. - Pisana -  mormorai  -
quanto fosti ammirabile d'amore e di pietà!!... Ella fuggí via  inciampando  nei
mobili della stanza, e due singhiozzi le sollevarono il petto ansiosamente.  Mia
moglie che rientrava la incontrò sulla porta... -  Come  ti  pare  che  vada  il
nostro malato? - le domandò. - Io spero che andrà bene - rispose  ella  con  uno
sforzo supremo. Ma non poté resistere piú a lungo. E  fuggí  ancora  e  corse  a
rinchiudersi nella sua stanza  prima  che  l'Aquilina  avesse  neppur  tempo  di
avvertire il suo turbamento. Allora compresi un'altra volta tutta la forza e  la
nobiltà di quell'anima, e dalla sua camera ch'era all'altro capo della  casa  mi
pareva udire il suo pianto i suoi singhiozzi, ognuno dei quali mi dava nel petto
un colpo crudele. Per tutto quel giorno non pensai alla mia vista; e coloro  che
si occupavano di essa mi davan stizza e fastidio. Si trattava ben d'altro che di
due stupidi occhi!... Lucilio veniva sovente a visitarmi, ma  di  rado  potevamo
trovarci soli; pareva anzi ch'egli sfuggisse le mie confidenze. Nulla ostante io
lo chiedeva spesso della salute della Pisana  e  se  la  lusinga  di  tornare  a
Venezia avesse operato quel buono effetto che si sperava. Il dottore  rispondeva
con mezzi termini senza dire né sí né no; ella poi, se anche entrava  nella  mia
stanza, non apriva bocca quasi mai; io me ne accorgeva  dal  minor  chiasso  che
facevano i miei figliuoli, certo  perché  la  sua  mestizia  imponeva  rispetto.
Quando Lucilio  mi  portò  il  passaporto  ottenuto  per  mezzo  dell'Ambasceria
austriaca, le domandai se quel nostro  divisamento  le  piaceva.  -  Oh  la  mia
Venezia! - rispose - mi domandate se la vedrei volentieri!... Dopo  il  paradiso
l'è il mio solo desiderio. - Or bene - soggiunsi  -  quand'è,  dottore,  che  mi
permetterete di aprir la finestra, di buttar via queste bende, e d'andarmene?  -
Dopodimani - rispose Lucilio - ma quanto  all'imprendere  il  viaggio  bisognerà
soprastare qualche giorno; non dovete  arrischiarvi  cosí  subito  al  sole  del
Mezzodí. Io pazientai quei due giorni, deliberato di non protrarre  d'un  attimo
la mia partenza quando avessi avuto gli occhi nulla nulla guariti. Ma la  Pisana
in quel frattempo frequentava meno che mai la mia  stanza,  e  mi  dicevano  che
stava quasi sempre rinchiusa nella sua. Finalmente venne Lucilio che  mi  liberò
la fronte dalla visiera, e mi sciolse dai legacci che mi coprivano gli occhi; le
finestre erano già  socchiuse;  e  una  luce  quieta  diffusa  come  quella  del
crepuscolo mi accarezzò dolcemente le pupille. Se tanto ci incanta lo spettacolo
dell'alba, quantunque  rinnovato  ogni  ventiquattr'ore,  figuratevi  quanto  mi
facesse beato quell'alba che succedeva  ad  una  notte  di  quasi  due  anni!...
Ritrovare ancora quei facili godimenti dei quali non ci curiamo potendoli  avere
ad ogni istante, e tanto se ne  apprezza  il  valore  quando  ci  sono  vietati,
ravvivare coll'esercizio presente  la  memoria  di  quelle  sensazioni  che  già
cominciava a svanire, come una  tradizione  che  coll'andar  del  tempo  diventa
favola, saziarsi ancora nelle contemplazioni di quanto v'ha di bello  di  grande
di sublime al mondo e interpretare dagli affetti dei nostri cari  un  linguaggio
disusato per noi, son tali piaceri che fanno quasi desiderare d'esser ciechi per
racquistare la vista. Certo io metto quel momento fra i  piú  felici  della  mia
vita. Ma ne ebbi subito dopo uno assai doloroso. La Pisana era accorsa anch'essa
ad assistere all'ultima parte del miracolo:  quando  dopo  il  primo  soavissimo
impeto fatto dalla luce negli occhi miei, cominciai a distinguere le  persone  e
le cose che mi circondavano, il primo volto nel quale sostenni lo sguardo fu  il
suo. Oh se l'aveva ben meritata una tal preferenza! Né  amici,  né  parenti,  né
figliuoli, né moglie, né il medico che m'avea reso la  vista,  meritavano  tanto
della mia gratitudine. Ma quanto la trovai cambiata!... Pallida trasparente come
l'alabastro, profilata nelle sembianze come  una  Madonna  addolorata  di  Frate
Angelico, curva della persona come chi ha portato sul dorso  gravissimi  pesi  e
non potrà piú raddrizzarsi; gli occhi le si erano ingranditi  meravigliosamente,
e la metà superiore della pupilla adombrata dalle palpebre traspariva da  queste
in guisa d'un lume dietro un cristallo colorato: l'azzurrognolo della melanconia
e il rosso del pianto si fondevano nel bianco della retina, come  nel  simpatico
splendore dell'opale. Era una  creatura  sovrumana;  non  mostrava  alcuna  età.
Soltanto si poteva dire: costei è piú  vicina  al  cielo  che  alla  terra!  Che
volete? Io son debole di temperamento e non ve lo nascosi mai. Mi si  gonfiò  il
petto d'un'angoscia improvvisa e profonda e scoppiai in lagrime  dirotte.  Tutti
immaginarono che fosse per la consolazione; ma Lucilio forse giudicò altrimenti;
infatti io piangeva perché gli occhi mi riconfermavano il terribile  significato
attribuito da me al suo silenzio dei giorni passati.  Vidi  che  la  Pisana  non
apparteneva piú a questo mondo; Venezia, come avea detto ella  stessa,  non  era
che il suo secondo desiderio; il primo era pel paradiso!  Mentre  questo  triste
pensiero mi rompeva il petto a sconsolati singhiozzi, ella si tolse dalla spalla
dell'Aquilina su cui s'era appoggiata, e la vidi uscir barcollone dalla  camera.
Io pregai allora quanti lí erano che mi  lasciassero  quieto  in  compagnia  del
dolore perché la soverchia commozione mi imponeva qualche  riposo.  Partiti  che
furono mi ripigliò piú tremenda che mai quella convulsione di pianto, e  Lucilio
non vide altro di meglio che aspettare un po' di tregua dalla stanchezza. Quando
poi le lagrime e il singulto concessero un varco alla voce, quali  parole  quali
preghiere quali promesse non adoperai io perché mi salvasse  una  vita  a  mille
doppi piú preziosa della mia! Lo supplicai come i devoti supplicano Iddio; tanto
avea bisogno di sperare che avrei rinnegato la ragione, e stravolto l'ordine del
mondo per conservare una qualche lusinga. Una pietosa astuzia della speranza  mi
persuase che ben potea rendere la salute e la vita alla Pisana quello che in  me
avea racceso la fiaccola della luce!... - Oh sí! Lucilio! - sclamai - voi potete
tutto purché lo vogliate. Fin  da  piccino  io  vi  riguardava  come  un  essere
sovrannaturale e quasi onnipotente. La vostra volontà comanda alla natura sforzi
incredibili. Cercate, studiate, tentate: mai causa piú giusta, mai  impresa  piú
alta e generosa meritò i prodigi della vostra scienza.  Salvatela,  per  carità,
salvatela!... - Avete dunque indovinato tutto; - rispose Lucilio dopo un momento
di pausa - l'anima sua non è piú tra noi; il corpo vive, ma non so nemmeno io il
perché. Salvatela, voi mi dite, salvatela!... E chi  vi  dice  che  la  provvida
natura non la salvi raccogliendola nel  suo  grembo?...  Molto  si  può  tentare
contro le malattie della carne e del sangue; ma lo spirito, Carlo? dove  sono  i
farmaci che guariscon lo spirito, dove gli istrumenti che ne tagliano  la  parte
incancrenita per prolungar vita alla sana, dove l'incanto  che  lo  richiami  in
terra quando una virtù irresistibile lo assorbe a poco  a  poco  in  quello  che
Dante chiamava il mare dell'essere?... Carlo, voi non siete un fanciullo, né  io
un ciarlatano; voi non volete esser ingannato, per quanto la presente  debolezza
vi renda piú care le false e fuggitive illusioni che  l'inesorabile  realtà.  In
questo mondo si viene quasi colla certezza di veder morire il padre e la  madre:
solo chi paventa la morte per sé, deve disperarsi  dell'altrui;  la  morte  d'un
amico fa piú male a noi per la compagnia che ci ruba che non a lui per  la  vita
che gli toglie. Io e voi  dobbiamo,  mi  pare,  conoscer  la  vita,  e  stimarla
adeguatamente al suo giusto valore. Compiangiamo  sí  la  nostra  condizione  di
mortali, ma  sopportiamola  forti  e  rassegnati;  non  siam  tanto  egoisti  da
desiderare altrui un prolungamento di noie di mali di dolori  per  servire  alla
nostra utilità, per iscongiurare quella sciocca paura che hanno i  fanciulli  di
rimaner soli nelle tenebre. Le tenebre la solitudine sono il sepolcro;  entriamo
coraggiosamente nel gran regno delle ombre; vivi o morti, soli dobbiamo restare;
dunque non pensiamo ad altro  che  ad  addolcire  agli  amici  il  dolore  della
partenza! Io non sono un medico che crede aver sviscerato tutti i segreti  della
natura per aver veduto palpitare qualche nervo sotto il coltello anatomico:  v'è
qualche cosa in noi che sfugge all'esame del notomista e che appartiene  ad  una
ragione superiore perché colla nostra non siamo in grado di capirla.  Confidiamo
a  quel  supremo  sentimento  di  giustizia  che  sembra  esser  l'anima  eterna
dell'umanità il destino futuro ed imperscrutabile di quelli  che  si  amano.  La
scienza, le virtù, i  doveri  della  vita  si  riassumono  in  un'unica  parola:
Pazienza!... - Pazienza! - io soggiunsi, piú avvilito che confortato  da  questi
freddi ma inespugnabili ragionamenti. - Pazienza è buona  per  sé;  ma  per  gli
altri?... Avreste voi, Lucilio, la viltà di consigliarmi pazienza pei mali ch'io
ho  cagionato,  per  le  sventure  di  cui  il  rimorso  non  cesserà   mai   di
perseguitarmi?... Ma non vedete, non comprendete il dolore senza  fine  e  senza
speranza che mi strazia le viscere, al solo  pensiero  che  io,  io  solo  abbia
affrettato d'un giorno la partenza  d'un'anima  sí  generosa  e  diletta?...  La
morte, voi dite, è necessità. Ben venga la morte!... Ma  l'assassinio,  Lucilio,
l'assassinio di quella sola creatura che vi ha amato piú di se stessa, piú della
vita, piú dell'onore, oh questo è un delitto che non ha per iscusa la  necessità
né per espiazione la pazienza. Sia per lavarlo che per dimenticarlo fa d'uopo il
sacrifizio di un'altra vita; la morte sola salda il debito  della  morte.  -  La
morte anzi non salda nulla, credetelo a me. La morte come consolazione  non  può
tardarvi a lungo, e l'affrettarla sarebbe fuggire dalla  penitenza;  come  oblio
sareste tanto pusillanime da cercarla?... Io non sono di quei prudenti  idolatri
della vita che nella moglie nei figliuoli nella patria si preparano  altrettante
scuse per non arrischiarla neppur al pericolo d'un'infreddatura:  ma  quando  ad
una virtù dubbia ed  inutile  s'oppongono  virtù  certe,  utilissime,  generose,
quando le passioni vi lasciano il tempo di  deliberare,  oh  allora,  Carlo,  la
famiglia, la patria, l'umanità vi comandano di non disertare, di combattere fino
all'estremo!... - No! è inutile sperarlo! io non avrò piú forza  di  combattere!
Meglio è sbarazzare il campo  d'un  inutile  ingombro.  Ogni  altro  affetto  mi
sarebbe un rimorso; son troppo infelice, Lucilio! Avrò veduto morire colei  alla
quale avrei dovuto abbellire la vita colle gioie piú sante dell'amore,  e  della
devozione! - Ed io dunque, ed io? - sclamò con un ruggito Lucilio,  afferrandomi
il braccio convulsivamente. - Ed io, cosa credete voi, che sia poco infelice?...
Io che ho veduto disseccarsi l'anima dell'anima mia, io che ho assistito  ancora
e bollente di passioni al funerale d'ogni mia speranza, io che non ho veduto  la
morte di colei che mi amava, ma il suicidio dell'amor suo,  io  che  ho  vissuto
trentacinque anni vagando disperato col pensiero fra le rovine della mia fede  e
chiedendo indarno  alla  vita  il  lampo  d'un  sorriso,  io  che  ho  avventato
freneticamente ogni virtù del mio  ingegno,  ogni  potenza  del  mio  spirito  a
scrollare invano le porte  d'un  cuore  che  era  mio,  io  che  ho  sognato  di
sconvolgere il mondo per carpire dalla confusione del caos quell'unico bene  che
desiderava e che m'era sfuggito, io che ho veduto tutta la forza d'una  attività
senza pari accasciarsi sconfitta dinanzi ad una indifferenza forse bugiarda,  io
che vedeva il paradiso non piú discosto da me che non lo siano fra loro le anime
di due amanti, e non ho potuto giungervi, non ho potuto dissetarmi queste  avide
labbra d'una stilla sola di felicità, perché vi si opponeva la  memoria  di  tre
parole imprudenti spergiure, io dunque che avea  trovato  l'anima  piú  pura  il
cuore piú delicato e sublime che sia mai stato  quaggiù,  e  questa  arra  quasi
infallibile di felicità la vidi mutarsi in mia mano senz'alcuna  ragione  in  un
veleno mortale e senza rimedio, credete  voi  che  io  non  abbia  avuto  motivi
bastevoli e  volontà  e  forza  di  uccidermi?...  Perché,  ditelo  voi,  perché
ostinarmi a rimanere fra gli uomini, quando la creatura piú virtuosa e perfetta,
colei che sola io avea  riputata  degna  dell'amor  mio,  col  tradimento  colla
crudeltà ricompensava le mie adorazioni?... Perché affaticarsi  nel  creare  una
patria a questa umanità che nelle sue migliori  virtù  mi  scopriva  agguati  sí
perfidi e micidiali?... Perché  combattere,  perché  studiare,  perché  guarire,
perché vivere?... Volete saperlo, Carlo, questo perché?... Perché mi mancava una
certezza. Perché l'uomo fornito di ragione non deve piegarsi ad atto alcuno  che
non sia ragionevole; perché non era né poteva  esser  certo  che  la  morte  mia
sarebbe stata giusta ed utile a me od agli altri; mentre la vita  invece  poteva
esserlo in qualche maniera, e deferiva alla natura una  sentenza  ch'io  non  mi
sentiva in grado di pronunciare. Ecco perché vissi,  perché  cercai  con  ardore
sempre crescente la verità e la giustizia, perché pugnai per esse per la libertà
per la patria; perché curvai la mia mente  a  creder  un  bene  quello  che  dal
consenso universale era creduto un bene, e mi studiai di rendere  la  pace  agli
afflitti, la speranza agli increduli, agli infermi la salute. La natura ci dà la
vita indi ce la toglie; siete voi tanto sapiente da comprendere e  giudicare  le
leggi di natura? Riformatele mutatele giudicatele a vostro talento!... Ma non vi
sentite   quest'autorità,   questa   potenza?...   Ubbidite   allora.   Infelice
martoriatevi, innocente soffrite,  colpevole  pentitevi  e  riparate:  ma  siate
ragionevole e vivete. - Sí, Lucilio! Vivano pure gli innocenti nel  dolore,  gli
infelici nel martirio e i colpevoli nell'espiazione; sopportino  tutti  la  vita
coloro  che  nella  ragione  non  trovano  bastevoli   argomenti   per   poterla
distruggere. Ma io, Lucilio, io son fuori della vostra legge; io morirò!...  Reo
lo sono e pur troppo, e d'un delitto tale che è piú infame piú mostruoso a parer
mio dello stesso matricidio. Se la natura mi  comanda  ch'io  viva,  sorga  ella
dunque e m'ispiri il modo di ripararlo!... Oh! ai  mali  senza  rimedio  v'è  un
unico scampo, e voi lo sapete che la natura non  lo  preclude.  E  cos'è  dunque
questo odio  forsennato  della  luce,  questo  spavento  di  me  stesso,  questo
desiderio infinito d'obblio e di riposo che  tutto  mi  occupa?  Non  son  forse
altrettanti richiami con cui la natura mi invita a sé, al suo grembo  misterioso
pieno di misteri, di pace, e fors'anco  di  speranza?...  -  Forse!...  Ecco  la
parola che vi dà torto. Qui invece nella vita una cosa  sola  v'ha  di  certo  e
immutabilmente certo. La  giustizia!...  Rispondetemi  ora  preciso  e  sincero,
perché già vedete ch'io espongo la quistione nei termini piú chiari. Credete voi
fermamente di esser giusto verso tutti, verso i vostri figli, verso la moglie  i
parenti gli amici  la  patria,  verso  la  Pisana  stessa,  e  verso  la  vostra
coscienza, rifiutando cieco e disperato la vita?... Orsù dunque; non  obbiezioni
né debolezze; rispondete! - Pietà, pietà di me, Lucilio!... Ve ne prego,  ve  ne
scongiuro, lasciate ch'io muoia!... Ho veduto i miei figli, ho veduto quanto piú
di caro e prezioso aveva nel mondo; li stringerò a lungo sul cuore, li  esorterò
ad essere buoni e leali, cittadini forti ed operosi; li vedrò ancora per  grazia
vostra un'ultima volta, e spirerò l'anima in  pace!...  Pietà,  Lucilio!...  Per
carità, lasciatemi morire!... - E se la coscienza vostra vivesse oltre la tomba,
e vi mostrasse i figli vostri miseri sciagurati  vili  forse  e  spregevoli  per
cagion vostra... - Oh no, Lucilio, essi hanno la loro madre: essa li aiuterà de'
suoi consigli che valgon  certo  quanto  i  miei.  -  E  se  alla  morte  vostra
conseguitasse quella di vostra moglie?... Se fosse il primo anello  d'una  lunga
catena di sciagure e di disperazioni che si perpetuasse nel sangue  vostro  fino
all'ultima generazione? E se pesasse sopra di voi morto  lontano  impotente,  ma
conscio ancora, la terribile responsabilità dell'esempio?... Se lo spirito della
Pisana rifiutasse un omaggio deturpato dalle lagrime del  sangue  altrui?...  Se
forte  com'ella  fu  nel  dolore  nella  pietà  nell'abnegazione  guardasse  con
disprezzo  a  voi  fuggitivo  per  ignoranza  per  debolezza,  e  le  sue  forti
aspirazioni vaganti nell'aereo mondo  dei  fantasmi  rifuggissero  dalle  vostre
misere e ingiuste?... Se doveste esser separati  per  tutta  l'eternità,  se  la
vostra morte pusillanime e spietata fosse il principio d'un  allontanamento  che
dovesse crescere sempre, crescendo insieme i tormenti della disunione e  i  vani
desiderii di  raggiungersi?...  Se  la  natura,  che  voi  pazzamente  affermate
complice del vostro delirio, un unico mezzo di riparazione vi offerisse,  quello
di imitarla nella virtù nella rassegnazione, quello di vivere per farvi  il  piú
che è possibile simile a lei, e confondervi ad essa quando la natura  stessa  vi
inviti a quelle che voi chiamate dubbiose e arcane speranze? Oh Carlo! pensateci
altamente. Non aggravate gli insulti verso  la  Pisana,  facendo  la  sua  virtù
responsabile di tutti i mali che potrebbero  derivare  dalla  vostra  pazzia.  -
Amico, dite bene, ci penserò. Sento che in questo istante la fredda ragione  non
potrebbe trovar posto nel tumulto delle mie passioni; e  mi  conosco  abbastanza
forte per credere che non cerco pretesti nella dilazione, e che  di  qui  ad  un
anno sarò come adesso ove le condizioni del mio spirito non  sieno  cambiate.  -
Del resto - riprese Lucilio - io mi studiai finora premunirvi contro ogni evento
possibile; e spero che se parlerete colla Pisana i suoi discorsi il suo contegno
i suoi sguardi vi persuaderanno meglio de' miei ragionamenti. Ma non voglio  poi
dire che siamo giunti a tale eccesso di disperazione  e  di  pericolo.  Se  ella
potesse giungere a Venezia, e riposarsi nelle sue abitudini d'altro  tempo...  -
Oh dite il vero,  dottore?  ci  sarebbero  delle  speranze?  Non  fate  ora  per
confortarmi, per illudermi? - Son tanto lontano dal volervi ingannare che finora
vi lasciai persuaso del peggio. Adesso non vi rendo molte speranze,  ma  sibbene
quelle che la provvida natura ci consente sempre, finch'ella non arresta,  forse
provvida del pari, l'arcano movimento della vita. Intanto questo  vi  consiglio,
che vi parrà certo strano, di intrattenervi a lungo colla Pisana, e  di  fidarvi
alla scuola de' suoi esempi. Vi prometto che ella  finirà  di  sconsigliarvi  da
ogni azione disperata: e questa confidenza che ho in lei suggelli  la  sincerità
di quanto vi son venuto dicendo. - Grazie! - io soggiunsi stringendogli la  mano
- certo né da lei mi possono venire esempi, né da voi consigli  indegni  di  me.
Cosí finí quel colloquio per me assai memorabile, e che decise forse di tutta la
mia vita avvenire. Io rimasi  perplesso  e  costernato  assai;  ma  la  fortezza
d'animo di Lucilio mi avea in certo qual modo rattemprato, e perciò  mi  proposi
di dargli retta raccostandomi  alla  Pisana  e  cercando  di  riparare  ai  mali
involontariamente commessi coll'accordare la mia condotta ai suoi  desiderii,  e
darle cosí la piú alta testimonianza che si potesse d'amore e di devozione.  Pur
troppo sulle prime que' miei tentativi mi sconfortarono piú che altro: la povera
Pisana faceva il possibile di sfuggirmi, pareva che sentendosi  in  procinto  di
abbandonarmi non volesse trovar  piacere  alla  mia  compagnia  per  provar  poi
maggiori angosce nel momento della separazione. Od anche le dispiaceva che io le
dimostrassi qualche preferenza in confronto dell'Aquilina. Ad ogni modo, non  mi
scoraggiando per que' suoi forzati dispetti, e  continuando  a  dimostrarle  con
ogni maggiore accorgimento la mia gratitudine e il  profondissimo  rammarico  di
non averla dimostrata meglio e prima d'allora, giunsi a  vincere  quell'ostinata
ritrosia e a rimenarla ben presto all'antica confidenza. Mio Dio, qual  tormento
era per me il veder ravvivarsi dentro agli occhi suoi la fiamma  della  vita,  e
assistere insieme al continuo deperimento delle sue forze che  a  mala  pena  le
reggevano  la  stanca  e  stremata  persona!...  Qual  terribile  spettacolo  la
giocondità con cui accoglieva quel mio ritorno alla tenerezza di una volta; e la
spensierata rassegnazione che la faceva scrollare le spalle e  sorridere  quando
accennava del suo futuro! Un giorno io avea parlato  con  Lucilio  il  quale  mi
assicurava che se le cose procedevano a quel  modo  avremmo  potuto  arrischiare
nella settimana seguente il viaggio verso Venezia. La  sera  mi  trovai  soletto
colla Pisana, perché Lucilio aveva accompagnato mia moglie mio cognato e i  miei
ragazzi a vedere non so quali meraviglie di Londra; ell'era piú pallida  ma  piú
allegra del solito; sperava sempre che nel suo bizzarro  temperamento  anche  la
salute potesse ravvivarsi d'improvviso sfuggendo alle regole comuni degli  altri
esseri, e che il male non fosse irreparabile con quella  festività  d'umore  che
allora le rinasceva. - Pisana - le dissi - il  mese  venturo  potremo  essere  a
Venezia. Non ti pare che soltanto il  pensiero  ci  faccia  bene?  Ella  sorrise
levando gli occhi al cielo, né rispose nulla. - Non  credi  -  continuai  -  che
l'aria nativa, la pace che  gioiremo  tutti  uniti  e  tranquilli  finiranno  di
guarirti dalla  melanconia?  -  Melanconia,  Carlo?  -  mi  rispose.  -  E  come
t'immagini mai ch'io sia melanconica?... Avrai osservato che una vera giocondità
naturale e continua non l'ho mai avuta; erano sprazzi di luce, lampi fuggitivi e
nulla piú. Sono sempre stata  una  creatura  molto  variabile,  ma  piú  sovente
taciturna e ingrognata. Soltanto ora mi sorride un bel tempo di  serenità  e  di
pace; non mi son mai sentita cosí calma e contenta. Credo che ho recitato la mia
parte e spero qualche applauso. - Pisana, Pisana, non parlare cosí!... Tu meriti
molto maggiori applausi che noi non ti possiamo dare e  li  avrai.  Torneremo  a
Venezia; là... - Oh Carlo! non parlarmi di Venezia, la mia patria  è  molto  piú
vicina, o lontana se vuoi, ma ci si arriva con  un  viaggio  molto  piú  rapido.
Lassù, lassù, Carlo!... Vedi; la povera Clara mi ha fatto se non altro credere e
sperare nella misericordia di Dio. Non è giunta  a  cacciarmi  in  capo  la  sua
teoria dei peccati; ma pel resto ci credo,  e  m'aspetto  di  non  esser  punita
troppo severamente del poco male che senza volerlo ho commesso. Tutto quel  poco
bene che poteva fare io l'ho fatto;  è  giusto  che  non  mi  si  tardi  qualche
ricompensa; il mio desiderio è di riceverla subito, e di abbandonarvi per  breve
tempo col sorriso sulle labbra e, concedetemi anche questa speranza, col  vostro
compatimento. - Non vedi, Pisana, che tu mi strazi l'anima, che mi rinfacci  con
queste parole la cecità colla quale in questi ultimi anni ho voluto credere alla
tua apparente freddezza?... Infame, sconoscente,  assassino  che  non  badava  a
tutti i tuoi sacrifizi, che mi sforzava a creder vera la tua indifferenza  forse
per isdebitarmi a poco  prezzo  con  te,  che  non  volli  conoscere  nella  tua
devozione e nel modo ammirabile con  cui  me  la  dimostravi  quel  suggello  di
sublime delicatezza di cui sola sai improntare i  sacrifizi  e  farli  comparire
azioni affatto comuni e prive di merito!... Oh maledicimi,  Pisana!...  Maledici
il primo momento che mi hai conosciuto, e che ti ha condotta a sprecare  per  me
tanto eroismo quanto avrebbe bastato a premiare la virtù d'un santo e i  fecondi
dolori d'un martire!...  Maledici  la  mia  stupida  superbia,  la  mia  ingrata
diffidenza, e il vile egoismo con cui  son  vissuto  due  anni  bevendo  il  tuo
sangue, e suggendoti dalle carni la vita!... Oh sí, ricada sul mio capo la  pena
di tanta infamia! La meritai la imploro la voglio! Finché non  avrò  scontato  a
lagrime di sangue tutto  il  mio  delitto  contro  di  te,  tutti  i  dolori  le
umiliazioni che ti ho imposto, non avrò né pace né ardire di sollevar il capo  e
chiamarmi uomo!... - Vaneggi, Carlo?... Che fai ora, che pensi?...  Non  conosci
piú la Pisana, o credi ch'ella finga ancora per esser  creduta  contenta  o  per
isbarazzarsi dell'altrui compianto?... No, Carlo, te lo giuro!...  La  quistione
di vivere o di morire non c'entra per nulla nella mia felicità. Non ti  nascondo
che la mia ultima ora la credo molto vicina; ma son io men  felice  per  ciò?...
Tutt'altro,  Carlo;  la  tua  tenerezza  la  tua   confidenza   erano   l'ultima
consolazione  che  mi  aspettava;  tu  me  l'hai  ridonata.  Oh,  che   tu   sia
benedetto!... Una sola tua parola di riconoscenza, un  solo  sguardo  affettuoso
pagherebbero due vite piú lunghe della mia e piene a tre doppi di  privazioni  e
di  sacrifizi!...  Tu  hai  diffidato  di  me,  tu  mi  hai  imposto  dolori   e
patimenti?... Ma quando, Carlo,  quando?  Io  peccai  e  tu  mi  perdonasti;  io
t'abbandonai, e non ne movesti lamento;  tornata  a  te  mi  raccogliesti  colle
braccia aperte e col miele sulle labbra!...  Tu  sei  l'essere  piú  nobile  piú
confidente e generoso che possa esistere... Se avessi dinanzi a me l'eternità, e
dovessi passarla in continui stenti neppur consolata dalla tua presenza, e tutto
per risparmiarti una lagrima un  sospiro  solo,  non  esiterei  un  momento.  Mi
rassegnerei giubilando, e contenta solo nel pensiero che  tutti  i  miei  giorni
tutti i miei affanni sarebbero consacrati al tuo bene. Tu solo, Carlo,  non  hai
ripudiato l'anima mia. Dall'amor tuo solo cosí  generoso  e  costante  presi  il
coraggio di guardare dentro di me e dire: "Non son poi tanto  spregevole  se  un
tal cuore continua ad amarmi." Oh Carlo, perdonami!... Perdonami per carità,  se
non ti ho amato come tu meritavi!... -  Alzati,  Pisana!  le  tue  preghiere  mi
svergognano; non  avrò  piú  cuore  di  guardarti  in  viso,  né  di  domandarti
perdono!... Oh mio Dio!... Come ricordare senza angoscia  tutti  i  momenti  nei
quali una mia parola d'amore, un mio sguardo umile e mansueto ti avrebbe se  non
ricompensata almeno fatta persuasa della mia gratitudine?  Invece  mi  rinchiusi
ne' miei tristi sospetti e punii col sussiego e col silenzio il  sacrifizio  piú
nobile forse piú costoso che abbia fatto una donna, quello... sí, voglio  dirlo,
Pisana, quello dell'amor tuo!... E se credeva che  non  mi  amassi  piú,  perché
dunque mi valsi di te  come  d'una  schiava,  strascinandoti  pel  mondo  legata
miseramente al mio sciagurato destino!... Oh sí, Pisana! fui pur troppo un  vile
tiranno e un carnefice spietato!... - Ed io  ti  ripeto  ancora  che  o  non  ti
ricordi bene, o dopo tanti anni non conosci per anco la Pisana. Ma  non  capisci
che tutti quelli che tu chiami dolori patimenti sacrifizi, erano per me  piaceri
ineffabili, colmi d'una voluttà tanto piú dolce quanto piú nobile e sublime? Non
capisci che l'indole mia strana e mutabile mi  portava  forse  a  stancarmi  dei
piaceri piú comuni, e a cercare in un'altra sfera anche a  rischio  di  perdermi
contentezze diverse e diletti che non avessero paragone nella mia vita  passata?
Non hai ravvisato il primo sintomo di questa, direi quasi, pazzia  in  quel  mio
incredibile  e  tirannico  capriccio  di  sposarti  all'Aquilina?...  Oh  te  ne
scongiuro in ginocchio, Carlo!... Perdonami di averti amato alla mia maniera; di
aver sacrificato te ad un mio ghiribizzo strano e  inconcepibile,  di  non  aver
cercato nella tua  vita  altro  che  un'occasione  di  appagare  le  mie  strane
fantasie!... Tu  non  potevi  capirmi,  tu  dovevi  odiarmi,  e  invece  mi  hai
sopportato!...  Quando   negli   ultimi   anni   io   trovava   tanta   dolcezza
nell'assisterti, e nel nasconderti l'amor mio dandoti ad intendere che  solo  la
necessità e la compassione mi movevano, non doveva io conoscere che  con  questo
contegno ti tormentava, e che toglieva il maggior valore a  quei  pochi  servigi
che poteva renderti?... Ciò nulla ostante io seguitai  a  far  pompa  della  mia
barbara delicatezza, mi ostinai in quel sistema di virtuosa vanità  in  cui  col
tuo matrimonio avea segnato il primo passo, volli il piacer mio prima di  tutto,
ad ogni costo!... Vedi, vedi, Carlo, se fui cattiva ed egoista? Non avrei  fatto
meglio a confidarmi nella tua generosità tanto maggiore e piú provata della mia,
e dirti: "Ho sbagliato, Carlo! ho sbagliato per sbadataggine per bizzarria!  Ora
i nostri doveri son questi! Adempiamoli d'accordo senza ipocrisia e superbia"!??
Ma io diffidai di te, Carlo! Te lo confesso coll'umiltà della vera penitente!...
Il tuo amore sí grande sí magnanimo non meritava una sí  trista  ricompensa;  ma
una sincera confessione mi rialzerà agli occhi tuoi. Mi amerai  ancora;  sí,  mi
amerai sempre, e la mia memoria santificata dalla morte vivrà perenne tra i tuoi
piú soavi e mesti pensieri. - La morte? non pronunciare, perdio, questa  parola,
o non contento di seguirti, io ti precedo!... - Carlo,  Carlo,  per  carità  non
mettermi nel cuore un sí atroce rimorso! Libera questi miei ultimi giorni  dalla
sola paura che possa amareggiarli!... Vedi! impara da me...  Cento  volte  avrei
potuto, avrei dovuto uccidermi... e in  quella  vece...  in  quella  vece...  io
muoio!... - No, non morrai... Pisana, Pisana! ti giuro che non morrai!... - Ed è
vero; non morrò affatto se tu vivi; se tu onori la mia memoria col render  utili
quei pochi sacrifizi che sebben malamente pure ho fatto per te!...  Se  penserai
all'Aquilina che io ti ho confidato, ai figliuoli che tu generasti e ai quali ti
stringono sacri e inviolabili doveri, alla tua patria, alla mia  patria,  Carlo,
per la quale ha sempre battuto questo mio piccolo cuore, per la  quale  dovunque
mi porti la volontà di Dio io non cesserò di pregare, e  di  sperare!...  Carlo,
Carlo, te lo raccomando! Vivi perché la tua vita sarà degna di esser imitata  da
quelli che verranno. Possa almeno dire morendo che le  mie  parole  che  i  miei
consigli ebbero questa  fortuna  di  lasciare  un'eredità  di  grandi  e  nobili
azioni!... Null'altro ti chieggo null'altro desidero  perché  il  momento  della
partenza sia insieme il piú felice della mia vita. Del resto tutto quel  po'  di
bene che poteva operare  mi  sono  studiata  di  farlo:  muoio  contenta,  muoio
sorridendo  perché  vado  ad  aspettarti!...  -  Eccomi,  eccomi,  Pisana;   non
aspetterai un attimo! Io sono con te! - E se ti dicessi che queste sarebbero  le
prime dure parole che avrei udito da te, e che  cosí  mi  avvilisci  agli  occhi
miei, e mi togli quel lievissimo premio col quale io partiva tutta beata?...  Oh
Carlo, se mi ami ancora, tu non vorrai vedermi morire fra le paure e i  rimorsi!
Sai che quando voglio una cosa, la voglio la pretendo ad ogni costo! Or bene, io
voglio e pretendo che la mia morte  a  me  tanto  facile  e  soave  non  sia  la
disperazione d'una intera famiglia, e non tolga a tutto un paese ed  all'umanità
tutto quel bene che puoi  che  devi  ancora  operare!...  Carlo,  sei  tu  forte
animoso? Hai fede nella virtù e nella giustizia? Giurami allora  che  non  sarai
vile, che non abbandonerai il tuo posto, che misero  o  felice,  accompagnato  o
solo, per la virtù per la giustizia combatterai fino all'estremo! -  Oh  Pisana,
cosa mi chiedi mai? Come credere alla virtù e alla giustizia quando non ti abbia
al fianco, quando una vita come la tua ottenga una sí misera ricompensa?  -  Una
vita come la mia è cosí invidiabile che beati gli  uomini  se  potessero  averne
ciascuno una di simile! Una vita che principia coll'amore e termina col  perdono
colla pace colla speranza per sollevarsi in un altro  amore  che  non  avrà  piú
fine, è tanto superiore ad ogni mio merito che ne ringrazio e ne benedico  Iddio
come d'un dono grazioso. Ma una sola felicità  mi  manca,  la  quale  anche  son
sicura di ottenerla perché è in  tua  potestà  il  concederla.  Giurami,  Carlo,
giurami quanto ti ho domandato. No, non sarà mai vero che tu nieghi a me l'unica
grazia che ti chiedo, supplicandoti per quanto hai di piú sacro e di piú caro al
mondo, per la memoria per l'eternità dell'amor nostro! - Oh Pisana,  io  non  ho
mai violato alcun giuramento! - E per questo appunto te ne scongiuro;  vedi?  la
felicità de' miei ultimi momenti pende ora dalla tua volontà, dalle tue  labbra!
- Dunque è proprio necessario?... È un tuo decreto irrevocabile?  -  Sí,  Carlo;
irrevocabile! Come il dono che ho fatto  a  te  di  tutta  me  stessa;  come  il
giuramento ch'io rinnovo ora che tu sei l'essere piú nobile e generoso che abbia
vestito mai spoglie mortali!... - Oh ma tu mi stimi piú assai che non valga;  tu
mi chiedi quello che non posso... - Tutto tutto potrai!... se mi ami  ancora!...
Giurami che vivrai pel bene della famiglia ch'io ti imposi,  per  l'onore  della
patria che insieme abbiamo amato, e ameremo sempre!... - Pisana, lo vuoi?...  Or
bene, lo giuro!... Lo giuro per quel desiderio che avrei di seguirti,  lo  giuro
per la speranza invincibile che la natura penserà presto a sciogliermi  del  mio
giuramento!... - Grazie, grazie, Carlo!... Adesso sono felice;  torno  degna  di
Dio!... - Ma una cosa anch'io ti dimando, Pisana, di non pascerti  piú  a  lungo
dei lugubri pensieri che ti fanno morire prima del tempo,  di  adoperare  quella
felicità che in te rinasce, a ravvivare  la  tua  salute,  a  rianimare  il  tuo
coraggio, a serbarti insomma per noi, per noi che ti amiamo tanto! - Oh  tu  sí,
vedi, tu mi chiedi  piú  di  quanto  possa  concederti!...  Carlo,  guardami  in
volto!... Vedi tu questo sorriso di beatitudine, queste  lagrime  di  gioia  che
m'inondano gli occhi? Or bene,  credi  tu  che  io  povera  donna  pazza  briaca
d'amore, mi rassegnerei a lasciarti ad abbandonarti per sempre a non vederti mai
piú né in terra né in cielo, se una speranza certa, profonda, invincibile non mi
affidasse che ci rivedremo che saremo uniti e contenti a  mille  tanti  che  nol
fummo mai, per tutta la eternità?... - Pisana, oh sí, ti  credo!  Veggo  l'anima
tua che risplende da quegli occhi divini!... Rimani, rimani con noi; per  carità
rimani!... - E credi che  se  dovessi  rimanere  avrei  goduto  i  piaceri  puri
ineffabili di quest'ultima ora?... Oh no, Carlo; ogni altra gioia sarebbe per me
omai troppo ignobile e scolorita. Lascia lascia che me ne vada. Ammira  tu  pure
insieme con me la clemenza di Dio che circonda dei colori piú splendidi il  sole
che tramonta!... Ringrazialo di farci pregustare  in  questo  mondo  le  voluttà
inesprimibili dell'altro quasi un'arra infallace che le promesse infuseci da lui
nel cuore non sono né  manchevoli  né  menzognere!...  Addio,  Carlo,  addio!...
Separiamoci ora che le nostre anime sono  forti  e  preparate!...  Ci  rivedremo
ancora forse molte volte, forse una sola!... Ma  un'ultima  volta  ci  rivedremo
certo per non separarci mai piú. Vado  ad  aspettarti,  ad  imparare  ad  amarti
veramente come meriti!... Addio addio!... E mi sfuggí d'infra le braccia, e  non
ebbi la forza di trattenerla; e piansi piansi com'ella  veramente  fosse  morta,
come quell'addio fosse stato la sua ultima parola. E per vagar  che  facesse  il
mio pensiero non vedeva altro intorno a sé che buio e deserto. Quell'anima  cosí
grande e sublime risplendeva tanto, che fuggendo ella mi  parevano  larve  tutti
gli  altri  splendori  di  quaggiù,  e  ogni  affetto  perdeva  forza  e  calore
raffrontandosi al suo. Entrarono di lí a poco Lucilio, l'Aquilina con tutti  gli
altri; io non ebbi forza che  di  segnare  con  un  gesto  la  porta  donde  era
scomparsa la Pisana e sciogliermi di bel nuovo in pianto.  La  vista  di  quelle
persone che mi inchiodavano sí irremissibilmente alla vita mi fu in  quel  punto
insopportabile e direi quasi odiosa. Era perfino snaturato contro la moglie e  i
figliuoli. Ma partiti che furono dalla camera, spaventati dal mio  pianto  e  da
quel gesto terribile, i consigli della Pisana mi  mormorarono  pietosamente  nel
cuore. L'amore di lei, che era si può dire immedesimato coll'anima mia,  diffuse
sui miei sentimenti un fiato salubre e vigoroso. Pensai che veramente per amarla
avrei dovuto se non uguagliare imitare almeno la sua  grandezza  e  sacrificarmi
agli altri com'ella si era sacrificata per me. Pensai che non sono bugie  quelle
sante parole di famiglia e di patria  che  sonando  dal  suo  labbro  pigliavano
un'autorità religiosa e quasi profetica. Pensai che espiazione  o  battaglia  la
vita nostra è un bene almeno per gli altri; e che quanto piú è un male  per  noi
tanto piú meritorio è il coraggio di portarla fino alla  fine.  I  suoi  sguardi
inspirati dalla fede delle cose misteriose ed  eterne  mi  lampeggiavano  ancora
dinanzi; sentii che la loro luce non si sarebbe offuscata mai piú nel mio  cuore
e che si sarebbe tramutata in una felice speranza in un  desiderio  paziente  ma
sicuro. Piansi allora di bel nuovo, ma le lagrime scorrevano tranquille giù  per
le guance, e non precipitai piú disperato e violento  ma  mi  sollevai  lieve  e
rassegnato all'aspettazione della morte. Dopo circa  un'ora,  durante  la  quale
bene avvisarono di lasciarmi solo, tornò Lucilio a significarmi  che  la  Pisana
era stata colta da un improvviso  sfinimento,  ma  che  riavutasi  col  bere  un
cordiale, s'era allora allora acquetata in un dolcissimo sonno. Raccomandava  la
lasciassimo in pace e che la natura operasse sola perché non vi sono ristori piú
potenti de' suoi. Egli sarebbe venuto prima di sera a vedere se potesse  aiutare
coi soccorsi dell'arte  i  miglioramenti  ottenuti  da  quelle  ore  di  riposo.
Successe infatti la tregua di alcuni  giorni,  né  la  gioconda  serenità  della
Pisana fu smentita mai un istante. Quand'ella poteva avermi vicino a sé e  farmi
sommessamente  ripetere  che  avrei  mantenuto  le  mie  promesse,  un   sorriso
celestiale irradiava le sue sembianze; non  l'aveva  mai  veduta  cosí  contenta
neppur negli istanti delle maggiori beatitudini. Cosí vidi illanguidirsi a  poco
a poco in una calma ilare e serena quell'anima di fiamma che avea sempre vissuto
in una sí fiera tempesta di passioni; vidi la  sua  parte  piú  pura  sorgere  a
galla, e risplendere d'una luce sempre piú  tersa  e  tranquilla,  e  scomparire
affatto que' profani sentimenti che l'avevano  per  qualche  istante  appannata:
vidi quanto aveva potuto un affetto solo, ma pieno e costante  contro  un'indole
bizzarra e tumultuosa, contro un'educazione falsa e pervertitrice:  vidi  tacere
affatto le passioni al volo rapido e lieve che spiccava lo spirito, e  la  morte
avvicinarsi bella amica sorridente  al  bacio  del  pari  sorridente  delle  sue
labbra. Il delirio dell'agonia fu per  lei  un  sogno  di  visioni  incantevoli;
fin'allora io avea creduto che fossero artifiziose bugie  quelle  grandi  parole
che si mettono in bocca ai moribondi; ma mi persuasi allora che le  anime  sante
rivolgendosi dal punto supremo a gettare sulla loro vita un ultimo  sguardo,  ne
spremono quasi i piú alti e generosi sentimenti  per  farsene  viatico  al  gran
viaggio verso Dio. Molte volte nominò l'Italia, molte volte stringendomi la mano
mormorava parole di coraggio e di fede. - I tuoi  figli;  i  tuoi  figli!  -  mi
diceva. - Carlo, li vedi, essi sono piú felici di noi!... Ma  nel  mondo,  vedi,
nel mondo! Fuori del mondo noi saremo beati al pari, di aver preparato  la  loro
felicità! - Un altro momento  si  perdette  in  vaghi  balbettamenti  dai  quali
credetti rilevare che parlasse di Napoli, e  dei  giorni  gloriosi  e  terribili
vissuti colà ventiquattr'anni prima. Dopo evocate quelle lontane memorie mise le
mani in croce e con piglio supplichevole soggiunse: - Perdono, perdono!... -  Oh
il perdono, anima mia, a chi e perché lo chiedevi? forse a  me  che  avrei  dato
tutto il mio sangue per meritare il tuo? Forse a quel Dio che da tanto tempo era
spettatore de'  tuoi  coraggiosi  sacrifizi,  e  ammirava  in  quel  momento  la
sublimità virtuosa e serena a cui può sollevarsi una sua creatura? Oh godi  ora,
godi, anima benedetta, di quest'ultima testimonianza che io,  ancora  vivo  dopo
altri trent'anni di pazienza e di dolori, rendo sul limitare del  sepolcro  alle
tue eroiche virtù!... Godi di sapere che se qualche  splendore  di  coraggio  ha
illustrato il resto della mia vita, se di qualche utile impresa si  onorarono  i
miei figli, e si onoreranno mai i figliuoli loro, il merito si appartiene  a  te
sola! A te che mi pregasti di rimanere e di perpetuare e rinnovare in me e negli
altri l'esempio della tua vita  magnanima!...  Sorridi  ancora  alla  mia  mente
annebbiata e decrepita, o anima pura, da quel cielo alto  e  profondo  dove  per
l'intima forza della sua sublimità si rifugiò la tua voce,  e  additami  con  un
raggio di speranza il sentiero per cui possa raggiungerti!...  Se  nel  pensiero
abbuiato dalla vecchiaia e curvo sul sepolcro del mio figliuolo prediletto, dura
ancora un poetico barlume delle eterne speranze, lo deggio a  te  sola.  Per  te
sola ebbi famiglia, patria e altezza di cuore, e incorruttibilità di  coscienza;
per te sola conservo il fuoco eterno della fede; e  lo  unirò,  dovechessia,  al
fuoco eterno dell'amor tuo. No, non sogna non  bamboleggia  un  vecchio  d'oltre
ottant'anni; non resiste a tanti dolori per cadere in quel  supremo  dolore  che
sarebbe la confusione del bene e del male. V'ha una sfera sovrumana,  un  ordine
eterno dove le colpe piombano nella materia e le virtù si sollevano  a  spirito.
Io che ti vidi scrollare d'intorno queste spoglie frali e  caduche,  io  che  ti
ricordo piú bella piú giovane piú felice che mai all'istante supremo  e  pauroso
della morte, io che ti amo ora piú che non ti amassi mai,  compagna  nella  vita
nelle debolezze negli errori, io deggio credere  per  necessità  a  una  sublime
purificazione, a un misterioso travestimento degli esseri! Sí, per  grazia  tua,
per amor tuo, o animo felice, mettendo il piede nella tomba rinnego superbamente
quella filosofia timida e senza cuore che nega ciò che non vede.  Piuttosto  che
abbassare  coi  sensi  la  ragione  umana,   mille   volte   meglio   sublimarla
coll'immaginazione e col sentimento. Grazie, o Pisana, di quest'ultimo  conforto
che mi piove dall'alto dei cieli. Tu sola potevi tanto sopra di me.  Non  credo,
non ragiono, ma spero. Quand'ella fu tornata in  sé  l'Aquilina  le  domandò  se
voleva che si chiamasse un prete perché la religione assicurasse  viemmeglio  la
meravigliosa serenità del suo spirito.  -  Oh  sí!  -  rispose  ella  sorridendo
mestamente. - A mia sorella dorrebbe assai di sapere  ch'io  fossi  morta  senza
prete! - No, non parlar di morire! - soggiunse l'Aquilina, -  i  conforti  della
religione aiutano anche a vivere secondo la volontà  del  Signore.  -  Vivere  o
morire è lo stesso dinanzi a lui - riprese con voce calma e solenne  la  Pisana;
poi rivolse a me una lunga occhiata  di  speranza.  Io  mi  asciugai  gli  occhi
furtivamente, e nel rivolgermi all'altro lato vidi mio cognato e i  due  ragazzi
che contemplavano meravigliati e quasi invidiosi quella forte  moribonda.  Tutto
spirava intorno a quel letto pace e grandezza; e io pure finii col  credere  che
non si trattasse di altro che della separazione di pochi anni; non assisteva  ad
una morte disperata ma ad un mesto ed amichevole  commiato.  Venne  Lucilio  che
tastò il polso e sorrise alla morente come volesse dirle: partirai fra breve  ma
in pace. Egli pure credeva. Venne  da  ultimo  il  prete  col  quale  la  Pisana
s'intrattenne a lungo  senza  cinico  disprezzo  e  senza  affettata  divozione.
Contenta com'era di sé non le fu difficile persuadersi d'essere in pace con Dio;
e i primi funerali che si celebrano con pompa sí lugubre e spaventosa  al  letto
degli agonizzanti, non alterarono per nulla il suo aspetto sereno. Tornò poi  ad
intrattenersi con noi, a ringraziare Lucilio delle sue cure, l'Aquilina e  Bruto
della loro amicizia, a benedire i miei figli pregandoli di ubbidire e di imitare
i loro genitori. Mi prese poi per mano, e non volle piú che mi scostassi dal suo
letto nemmeno per prendere una tazza di cordiale che stava sopra l'armadio e che
le fu avvicinata alle labbra dall'Aquilina. Essa la ringraziò d'un sorriso, indi
si rivolse a me soggiungendomi all'orecchio: - Amala, sai, amala, Carlo! Te l'ho
data io! - Non ebbi fiato di rispondere, ma accennai col capo di sí; né  ho  mai
dimenticato quella promessa, e l'Aquilina stessa avrebbe potuto attestarlo,  per
quanto alcune disparità  d'opinione  abbiano  inasprito  in  appresso  i  nostri
temperamenti. Di momento in momento il respiro della Pisana diveniva piú raro ed
affannoso; mi stringeva sempre piú forte la mano, sorridendo ad  ora  ad  ora  a
ciascuno di noi; ma quando toccava a me era un'occhiata piú lunga ed intensa.  E
se ne stoglieva per guardar di nuovo l'Aquilina; quasi le chiedesse  perdono  di
quegli ultimi contrassegni d'amore. Proferiva di tanto in tanto qualche  parola,
ma la voce le veniva mancando; io mi sentiva mancare insieme  a  lei,  e  subito
collo sguardo ella mi inanimava a ricordarmi di  quanto  le  aveva  promesso.  -
Eccomi! - diss'ella ad un  tratto  con  voce  piú  forte  del  solito.  E  volle
sollevarsi dal guanciale, ma ricadde piú stanca che abbattuta, e  sorridendo  di
quello sforzo impotente. - Eccomi! - mormorò una seconda volta; poi volgendosi a
me soggiunse: - Ricordati: ti aspetto!... Io  sentii  un  brivido  passarmi  per
mezzo il cuore, era l'anima sua che nel partire risalutava la mia. Mi  stringeva
ancora per mano, le sue labbra sorridevano, gli occhi guardavano ancora;  ma  la
Pisana era già salita ad avverare le sue eterne speranze. Lo credereste? Nessuno
si mosse dal suo posto; tutti restammo là immobili silenziosi a  contemplare  la
serenità di quella morte; Lucilio mi raccontò poi di aver pianto  esso  pure  ma
quasi di consolazione; io non lo vidi allora come  nulla  vidi  per  tutto  quel
giorno. Non mi mossi, non piansi né parlai finché non tolsero dalla mia la  mano
della Pisana per adagiarla nella bara. Allora io stesso le  composi  intorno  le
vesti, io stesso la deposi nel suo ultimo  letto,  e  all'ultimo  bacio  che  le
impressi sulle labbra mi parve che l'anima mia fosse fuggita insieme  alla  sua.
Per molti giorni rimasi che non  sapeva  d'essere  né  morto  né  vivo:  ma  era
sospensione di vita e non disperazione, per cui a poco a  poco  il  pensiero  si
sciolse da quel letargo, e riebbi finalmente la coscienza di me e la memoria  di
quanto era stato, per  riaver  insieme  la  fortezza  che  mi  abbisognava  onde
ubbidire agli ultimi desiderii della Pisana.  D'allora  in  poi  la  mia  indole
assunse una gravità e una fermezza non mai avuta dapprima; e l'educazione  ch'io
diedi a' miei figliuoli s'inspirò tutta da quei magnanimi esempi di virtù  e  di
costanza. Quando l'Aquilina mi rimproverava dolcemente di avventurarli  cosí  ad
un destino compassionevole e tempestoso bastava ch'io  le  ricordassi  la  morte
della Pisana perché ella si ritraesse dicendo che aveva ragione! Infatti non  si
deve guardare né a pericoli né a sacrifizi per meritare  una  tal  morte.  Pochi
giorni prima che partissimo da Londra, arrivò  la  notizia  che  Sua  Eccellenza
Navagero era passato a miglior vita lasciando la Pisana sua erede universale,  e
ov'ella morisse senza testamento, instituendo con ogni suo avere uno spedale che
dovea portare il nome di lei. Possedeva netti netti un paio di  milioni  ed  era
vissuto quegli ultimi anni in una finta povertà per accumulare quella gran somma
allo scopo  per  cui  la  destinava.  Io  soffersi  assai  di  dover  abbandonar
l'Inghilterra dove in campestre cimitero rimaneva  tanta  parte  di  me;  ma  la
Pisana mi comandava di pensare ai miei figli, e partimmo. Spiro e  l'Aglaura  mi
raccomandavano di tutelare alcuni loro interessi rimasti sospesi a Venezia,  per
cui mi volsi colà, deliberato di fermarmivi.  Mio  cognato  dopo  una  corsa  in
Friuli per dar ordine alle sue cose ci avrebbe raggiunti  e  cosí  io  disponeva
mestamente il mio campo d'inverno per la vecchiaia. Molto  anche  avea  sofferto
nello staccarmi da Lucilio, ma egli mi avea lasciato dicendomi: - Verrò a morire
fra voi! - Sapeva ch'egli non avrebbe mancato alla  sua  promessa.  Giungemmo  a
Venezia il quindici settembre 1823. Passai  la  prima  notte  in  quella  memore
cameretta dov'avea vissuto giorni sí spensierati e felici, baciando fra  lagrime
e singhiozzi due ciocche di capelli. L'una l'aveva strappata dai bei ricci della
Pisana fanciulletta: l'altra l'avea tagliata religiosamente sulla pallida fronte
della Pisana morta.


CAPITOLO VENTESIMOPRIMO

Come io cooperassi  a  risvegliare  in  Venezia  qualche  attività  commerciale,
principio se non altro di vita, e come il maggiore de' miei due  figli  partisse
con lord Byron, per la Grecia. Un duello a cinquant'anni per l'onore dei  morti.
Viaggio di nozze a Napoli di Romania e funebre ritorno per Ancona nel marzo  del
1831. La morte mi toglie il mio secondogenito e  fa  man  bassa  sopra  amici  e
nemici.  Essa  trova  un  potente  alleato  nel  cholera.   Un   collegiale   di
sessantacinque anni.

Si sanno le cagioni per cui è caduta Venezia: e quelle cagioni stesse fecero sí,
che neppur potesse rialzarsi all'attività della vita materiale.  Il  destino  vi
ebbe  la  maggior  colpa,  perocché  il   torpore   medesimo   del   governo   e
l'infiacchimento del popolo derivarono dalla chiusura  di  quelle  vie,  per  le
quali  si  esercitava  con  massimo  buon  frutto  l'attività  sí  dell'uno  che
dell'altro. Che colpa ci ebbero i Veneziani  se  Colombo  e  Magellano  crearono
nuovi commerci a profitto d'altre nazioni, e se Vasco di Gama aperse nuovi scali
alle merci dell'Oriente? I Veneziani durarono  audaci  e  meravigliosi  mercanti
finché fu loro possibile  vendere  le  merci  dei  paesi  lontani  con  benefizi
maggiori degli altri concorrenti; serbarono abitudini e forze guerresche  finché
quel  vasto  e  ardito  commercio  abbisognò  d'una  poderosa  tutela.   Cessato
l'incentivo dell'utile, cessò il  naturale  richiamo  alle  antiche  e  gloriose
tradizioni; cessarono le spedizioni ormai troppo costose e poco proficue al  Mar
Nero ed alla Siria, dove si scambiavano le manifatture europee colle merci della
Moscovia, dell'India e della China portate  dalle  carovane;  cessò  lo  spirito
militare che in essi come negli Inglesi altro non era  che  un  difensore  della
prosperità commerciale. Cosí fu tolta a Venezia ogni ragione d'esistenza ed ogni
azione nella civiltà. Continuò a vivere per consuetudine,  per  accidente,  come
diceva il doge Renier; tuttavia tre secoli di decadenza lenta  onorata  e  quasi
felice diedero un'altra e solenne prova dell'antica potenza di Venezia  e  delle
virtù immedesimate nel suo governo e nel suo popolo da tanto tempo  di  glorioso
esercizio. Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte  vigorosamente  e
costantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo  scadere  de'
suoi commerci avrebbe trovato nell'allargamento in terraferma un nuovo fomite di
prosperità.  Invece  nelle  provincie  italiane  ella  comparve  ancora  piú  da
commerciante che da governatrice; non erano membra integranti del suo corpo,  ma
colonie destinate a nutrire il patriziato regnante, spoglio dei soliti mezzi  di
alimentare la propria ricchezza. Furono  accorti  politici  e  soldati  non  per
assodare e dilatare oltre  il  Po  ed  il  Mincio  l'influenza  del  governo,  e
prepararsi un futuro italiano, sibbene per difendere le loro proprietà, come  lo
erano stati dapprima in Crimea e nell'Asia  Minore  per  proteggere  gli  empori
mercantili. Da ciò, siccome per  abitudine  di  rispetto,  o  per  necessità  di
equilibrio, o per merito  delle  prudenti  transazioni,  gli  altri  governi  li
lasciarono godere in pace quei possedimenti commerciali, cessò poco a poco  ogni
necessità di tutela armata, e contenti di cancellare una  partita  sulla  pagina
del dare, i Veneziani affidarono  unicamente  al  proprio  accorgimento  e  alla
discrezione  altrui  la  sicurezza  del  dominio.  Forse  se  al  tramutarsi  di
mercatanti in proprietari e di marittimi in continentali, un'arida fazione o  un
capo fortunato dell'aristocrazia avesse cercato anche di cambiare  l'indole  del
governo di utilitaria in politica, la fortuna di Venezia avrebbe  corso  qualche
maggior rischio, ma racquistato insieme un argomento  ed  un  titolo  di  futura
grandezza, ove le fosse venuto fatto di sormontare vittoriosamente quella  nuova
esperienza. Si sarebbe rimediato con un nuovo congegnarsi delle forze  nazionali
al vecchio difetto di scarsa partecipazione al movimento italiano. Mancò  a  ciò
l'opportunità, o la forza, o la mente.  Venezia,  come  ebbi  campo  a  dire  in
addietro, rimase una città del Medio Evo colle apparenze d'uno Stato moderno. Ma
le apparenze non durano a lungo; e poiché non aveva  voluto  o  potuto  diventar
nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice  città.  Cosí
nell'economia politica come nella fisiologia medica. Bisogna deprimere e ridurre
un corpo invaso da umori corrotti a quella parsimonia naturale, onde poi risorga
ordinatamente alla piena salute. Venezia  in  quei  primi  rivolgimenti  che  le
tolsero ogni appiglio in terraferma, chiudendole piucché mai le vie insuete  del
mare, rimase a dir poco in fil di morte. Quando poi tornò la pace, e il mare  le
fu sbloccato dinanzi, le forze erano sí misere da non poter competere con quelle
degli altri porti che s'erano anzi  ringagliardite  durante  la  sua  indolenza.
"Rive opposte, animi contrari" dice un proverbio  inglese.  Trieste  entrava  in
lizza arditamente, spalleggiata dal commercio viennese e cogli aiuti del governo
che o disperava o non  si  curava  di  richiamare  l'attività  veneta  al  campo
primitivo de' suoi trionfi. Venezia si chiudeva melanconica e  dolorosa  fra  le
moli marmoree, come il principe scaduto che si rassegna a  morire  d'inedia  per
non tender la mano. Infatti dopo essersi atteggiata fino agli ultimi tempi  come
protettrice d'Europa contro i Turchi, dover chiedere altrui armi  e  denaro  per
mandare quattro stambecchi a caricar fichi a Corfù, l'era un gran boccone  amaro
da ingoiare. Si stette dunque, ma non si sapeva bene se rimuginando il  passato,
o maturando un futuro. "Prima che la statistica aprisse i suoi  registri"  disse
un ottimo pubblicista "ciascun paese credeva d'essere quello che avrebbe  voluto
essere." I Veneziani anche nel millesettecento ottanta si reputavano i  naturali
rintuzzatori della  prepotenza  mussulmana,  perché  l'ammiraglio  Emo  con  una
dozzina di galee avea tentato gloriosamente qualche rappresaglia contro  Tunisi.
Era omai l'unica scusa di loro esistenza e  si  incaponivano  a  crederla  vera.
Quando poi la terribile riprova statistica d'una guerra generale mise in  mostra
i duecento vascelli d'Inghilterra e i quattordici eserciti di Francia; e la fine
strozzata di quella lotta titanica confermò se non altro la nullità politica  di
Venezia, e che l'Europa non abbisognava omai di alcun freno contro i  Turchi,  e
che se ancora ne abbisognasse frenarli certamente non toccava a lei, allora essa
cominciò a stimarsi non quello che avrebbe  voluto  essere  ma  quello  che  era
veramente. Se questo primo esame di coscienza generò un frattempo di avvilimento
fu indizio di senno civile e di salutare vergogna. Non insultiamo a  coloro  che
morti solo da ieri già cominciarono a rivivere, mentre si onorano gli altri  che
con grandissimo scalpore non son giunti a vivere che per la calcolata tolleranza
di tutti. Intanto io tornava a Venezia che quel torpore d'inerzia e di  vergogna
era al suo colmo. Non commercio, non ricchezza fondiaria, non arti, non scienze,
non gloria, né attività di sorta alcuna: pareva morte, e certo  era  sospensione
di vita. Dovendo immischiarmi negli affari commerciali  di  Spiro  mio  cognato,
toccai con mano l'indolenza e l'infelicità di quelle funzioni sociali, da cui la
storia della Repubblica rilevava le sue piú splendide pagine.  Mettermi  a  capo
d'una riscossa, e ridestare una qualche operosità in quelle forze irrugginite  e
stagnanti, fu mio primo pensiero. Poco si poteva tentare perché quasi  nulla  si
aveva; ma chi ben comincia è  alla  metà  dell'opera.  Giudicai  che  Spiro  non
sarebbe stato alieno dal  mio  divisamento;  né  rifuggii  dall'arrischiare  nel
magnanimo tentativo il credito e le residue sostanze della  casa  Apostulos.  La
guerra della Grecia l'avea spolpata del meglio, ma qualche cosa rimaneva,  e  la
fiducia dei corrispondenti avrebbe  moltiplicato  il  valore  di  quegli  sparsi
rimasugli. Ravvivare anzi creare lo  spirito  d'associazione  sarebbe  stato  il
primo passo; e mi vi incuorava lo spettacolo della potenza  inglese  di  cui  mi
durava ancor fresca la maraviglia. Ma anche i giganti nascono bambini. M'accorsi
alle prime che m'avventurava in  un  sogno;  e  mi  ritrassi  a  tempo  per  non
disperdere con un subito tracollo la buona volontà che già  s'accumulava  in  un
tacito fermento. Nostro errore, nostra disgrazia è  di  misurare  la  vita  d'un
popolo da quella d'un  individuo:  lo  dissi  altre  volte.  Un  uomo  solo  può
precedere il progresso nazionale non  rimurchiarlo;  perché  l'esempio  suo  sia
utile conviene che sia facilmente imitabile e da molti,  sicché  si  allarghi  e
attecchisca nelle  abitudini;  allora  il  rimurchio  vien  da  sé.  Lo  spirito
d'associazione, indizio di ravvicinamento e strumento di piú vasta concordia, va
incoraggiato in ogni fatta d'intraprese; come educazione ad analogo esercizio di
altre operazioni, come fattore di confidenza e di  prosperità  e  d'altri  mezzi
generali di miglioria. Ma al suo perfetto sviluppo si  giunge  per  gradi:  alla
società di mille è proemio la fortunata società di  cento;  e  per  insegnare  a
persuadere i cento, fa d'uopo che i venti  i  dieci  o  cinque  si  uniscano,  e
coll'eloquenza dei fatti e delle cifre li convincano che  minore  sarebbe  stato
l'utile comune e il singolo se cadauno avesse adoperato per sé.  Fermi  in  capo
cotali principii, tornai al cimento,  e  li  posi  a  regola  dei  miei  negozi,
divisando di adoperarli alla vista di tutti non  come  argomenti  di  prosperità
pubblica ma di privata fortuna. Infatti una prima società da me  instituita  pel
commercio di frutta secche, di vallonea, di olio, e d'altre materie prime  cogli
scali del Levante e della Grecia, ebbe ottimo successo.  Aveva  messo  ogni  mia
cura nel non arrischiare e nell'allargarmi poco, perché l'effetto corrispondesse
piú certo per quanto piccolo. Dopo il primo passo si uscí se non altro da quella
profonda sonnolenza. Altre  società  si  formarono  simili  alla  nostra,  e  la
concorrenza accrescendo l'attività dilatò le sue intraprese  e  le  arrischiò  a
maggiori pericoli colla lusinga di piú  grossi  guadagni.  Infatti  l'esperienza
diede ragione il piú delle volte a chi spingeva  oltre;  dalla  concorrenza  fra
noi, che cominciava a inceppare  il  proficuo  sviluppo  dei  singoli  commerci,
nacque la fusione di alcune piccole  società  in  altre  piú  grandi.  E  queste
rivaleggiarono coraggiosamente colle piú  forti  e  antiche  d'altri  porti  del
Mediterraneo. I  proventi  erano  certo  minori,  e  perciò  Venezia  non  potea
competere né con Marsiglia, né con Genova, né con Trieste: ma onesti guadagni si
ottenevano e la speranza succedeva all'avvilimento  e  l'operosità  all'inerzia.
Sasso lanciato non si sa ove possa giungere: e se gli stranieri non erano ancora
adescati dalla prosperità di Venezia  a  stabilirvisi  con  i  propri  capitali,
almeno si aveva quanto bastava per muovere e fecondare le forze paesane. Non era
molto e sperava di piú. Senza contare  che  cotali  intraprese  fruttavano  alla
vecchia ditta Apostulos inusitati guadagni; e Spiro non faceva altro che lodarmi
pel grande aiuto che cosí recava a lui  ed  all'indipendenza  della  Grecia.  Il
commercio almeno per gli scambi locali aveva ripreso  un  andamento  naturale  e
ritrovato a poco a poco il suo sfogo ragionevole nella gran valle del Po. Ma  io
non voglio farmi merito di cotali successivi allargamenti: come il manovale  che
si gloriasse della bella architettura d'un palazzo per averne  egli  gettato  la
prima pietra. Si generano le grandi imprese come i  grandi  figliuoli,  piú  per
piacere proprio del momento che per  diretta  intenzione.  Io  peraltro  qualche
intenzione ce l'ebbi, e perciò mi do vanto di aver cooperato primo al  qualunque
siasi risorgimento del commercio veneziano. Sibbene  tutte  queste  magnificenze
avvennero in seguito, e mi tocca ora recedere ai primi mesi quando esse  non  mi
vagolavano pel capo che come lontane e forse infondate lusinghe. Donato, il  mio
secondogenito, si adattava facilmente ad aiutarmi  nella  nuova  professione  di
commerciante; e benché ragazzo affatto, per una sua acutezza mirabile  d'ingegno
mi giovava assaissimo. Egli era un pazzerello cosí godibile, che  quando  mi  si
oscurava l'anima di melanconia non aveva  che  a  rivolgermi  a  lui  per  esser
rischiarato. Teneva ottima compagnia a sua madre; e frequentava molto con lei la
casa del conte Rinaldo di Fratta, ove dopo la morte del Navagero si era  ridotta
anche la reverenda Clara. Il Conte era ancora registratore della Ragioneria  del
Governo  a  un  ducato  al  giorno,  e  non  viveva  che  nell'ufficio  e  nelle
biblioteche; ma la Clara, avendo serbati i suoi vincoli d'amicizia colle sorelle
smonacate di Santa Teresa, gli avea tirato in casa buon numero di visitatrici. A
poco a poco intorno a quel primo nocciuolo s'erano appostati altri  elementi  di
società: patrizi di vecchio o nuovo conio, per  la  maggior  parte  persone  che
rimpiangevano in fondo l'antico ordine di cose, e lodavano e facevano  lor  pro'
delle presenti per non esser costretti alle fatiche, e condannati all'inedia  di
nuove rivoluzioni. Donato  osservava  quegli  stampi  originalissimi,  e  sapeva
metterli in burla con qualche scontento di sua madre; io invece me ne  consolava
vedendo che soltanto a ragione di lei si piegava a trovarsi quasi tutti i giorni
con quelle mummie, e che non ne avrebbe mai imparato  le  sucide  massime  e  la
meschina ipocrisia. L'Aquilina dal canto suo stringeva ogni giorno  piú  le  sue
relazioni colla signora Clara, perché, diceva  ella,  non  si  sapeva  mai  dove
potesse condurci qualche mia ragazzata. Sopra questa o simile  parola  nascevano
per consueto i gran diverbi; ma io non vi badava piú che tanto,  e  sapendo  che
l'adoperava a fin di bene, lasciavala far a suo modo.  Altronde  le  antecedenze
giustificavano abbastanza questa nostra famigliarità coi Conti di Fratta; e  non
istava a me distoglierla da un'osservanza che era  imposta  anche  a  me  stesso
dalla gratitudine. Maggiore  argomento  di  discordia  ci  era  la  condotta  di
Luciano, il  quale  anziché  imitare  nell'arrendevolezza  e  nell'operosità  il
fratello minore, si buttava allo scapato, non voleva sentire né  ammonizioni  né
consigli, e quando lo  si  rimproverava,  massime  sua  madre,  di  non  volersi
occupare delle cose piú utili alla vita, rispondeva che, poiché non ci era vita,
non capiva in che potessero consistere quell'utile o quel disutile, e  che  egli
vi trovava il suo conto o bene o male a dimenticarsi di tutto. - Bada, Luciano -
lo ammoniva io - bada che dimenticando tutto sopraggiunge poi il giorno  che  ci
ricorda di qualche cosa, e allora troppo tardi ci accorgiamo d'aver  dimenticato
di farci uomini. - A questo penso  io  -  ripigliava  egli  ricisamente.  E  non
ismetteva nulla delle sue scapataggini, de' suoi stravizzi. Sicché io piú  volte
e con alquanta amarezza ebbi a beffarmi di sua madre che  avea  preso  una  gran
soggezione di quel suo ghiribizzo giovanile di andarsene in  Grecia.  Altro  che
Grecia! Mi pareva che la conversazione delle bionde veneziane, e il  bicchierino
di malvasia gli avessero  cancellato  dalla  memoria  quei  generosi  poemi.  Ma
secondo l'Aquilina era questa pure mia colpa,  ché,  lasciandolo  padrone  della
fantasia, lo aveva avvezzato a non aver riguardo né di padre  né  d'amici,  e  a
formarsi una felicità a suo modo. - Ieri era la Grecia - diceva ella - oggi sono
le scapestrataggini, domani sarà Dio sa che cosa!  E  tutto  per  avergli  detto
bravo, per avergli lasciato le redini sul collo! - Scusami - soggiungeva io - ma
quelle idee generose non bisognava soffocargliele come fossero  vituperi.  E  tu
stessa ve lo avevi mirabilmente preparato col formargli un temperamento  animoso
e robusto. - Sí, sí, io m'era ingegnata di allevarlo con buoni principii, ma non
già perché tu ne abusassi col lasciargliene  tirare  cotali  conseguenze.  -  Le
conseguenze, ben mio, procedono dritte dritte dalle cause.  -  Massime  peraltro
quando trovano aiuti che le indirizzino. - Sai cosa ho da dire? Che se dalle tre
cause fossero venute  quelle  conseguenze  che  sperava  io,  ne  avrei  proprio
picchiato le mani dal gran gusto! - Segno che hai sperato male, e che  malamente
hai aiutato le tue speranze! Vedi a che belle conseguenze siamo  venuti!  Tu  ti
ammazzi allo scrittoio, il nostro figliuolo piú tenerello ci sta anch'egli notte
e giorno come un martire, il maggiore invece, l'eroe,  batte  i  bordelli  e  le
taverne! - Eh diavolo! Che ce ne ho colpa io? Al postutto mi ricordo esser stato
giovine. - Ed io se avessi speso cosí brutalmente la mia gioventù mi vergognerei
di ricordarmene. - Io ti dico che è un riscaldo e che  si  ravvederà.  -  Io  ti
torno a ripetere che è una malattia, che  si  farà  cronica  se  non  attendi  a
rimediarvi presto. Cosí si altercava fra di noi. Luciano intanto stava fuori  di
casa le notti intere, e se lo si rimproverava faceva peggio, e tirava calci come
un puledro che non vuol essere domato. In mezzo a cotali dissensioni  una  bella
mattina quando non me lo sarei mai aspettato egli mi capitò  in  camera  pallido
stralunato, a dirmi netto e schietto che la settimana  ventura  sarebbe  partito
per la Grecia. - A che farvi? - risposi io beffardamente, ché non ci credeva piú
a quelle passeggiere tentazioni. - A difendere Missolungi contro Mustafà Bascià!
- soggiunse egli. - Ah ah! - ripresi coll'ugual tono di scherno. - Mi congratulo
vedere come tu sappia che vi sia nel Peloponneso un Mustafà  Bascià.  -  Non  lo
sapeva - ripigliò coi denti stretti Luciano - ma me lo disse lord Byron il quale
anche lui è deliberato di partir per la Grecia fra pochi giorni. - E dove mai ti
sei abbattuto in lord Byron? - Ti basti sapere che l'ho conosciuto, ch'egli si è
degnato parlarmi, e che mi prenderà per compagno della sua andata in  Grecia.  -
Scherzi, Luciano, o sono sogni codesti tuoi?... - No, anzi, papà mio, parlo cosí
seriamente che nella prima lettera che scriverete agli zii, darete loro contezza
di questo mio divisamento. - Or bene, se  dici  da  senno,  ripeterò  io  stesso
adesso quello che tua madre diceva or sono alcuni mesi.  Hai  proprio  una  vera
vocazione? Devi aver capito  che  in  questo  frattempo  mi  hai  fornito  molti
argomenti per dubitarne. - Padre mio, son tanto sicuro che questo mio  proposito
otterrà sanzione dalle opere di tutta la vita, che vi chieggo fin d'ora  perdono
della mala stima che vi ho lasciato  concepire  di  me,  e  vi  prego  di  esser
generoso e confidente anticipandomi d'alcuni mesi la buona opinione che mi  darò
poi cura di meritare. Perciò mi rivolgo tanto a voi  come  a  mia  madre.  -  Vi
penseremo, Luciano. Intanto impara a maturar bene le tue  idee  e  a  diffidare,
massime quando ne hai non poche ragioni. Egli non rispose verbo, mostrandomi col
suo contegno che di tutto avrebbe diffidato fuorché della saldezza di  quel  suo
divisamento. E infatti io ne maravigliai; ma  per  quanto  lo  tentassi  in  una
maniera o nell'altra egli rispondeva queste sole  parole:  -  Ho  capito  che  a
questo mondo si ha il dovere di vivere  a  vantaggio  di  qualcuno;  adunque  vi
prego, lasciatemi vivere! - Sua madre strepitò di questo disegno sul quale pochi
mesi prima sembrava affatto indifferente; ma ne ottenne nulla del pari.  Luciano
stette fermo nel voler partire; e non aspettava altro che un cenno di lord Byron
per imbarcarsi con esso lui. Io conosceva il famoso poeta di nome e di fama;  lo
aveva anche veduto due o tre volte in qualche  sua  rara  apparizione  sotto  le
Procuratie, giacché da molto tempo egli pareva aver adottato per patria l'Italia
ed in special modo  Venezia.  I  poeti  sono  come  le  rondini  che  volentieri
fabbricano il loro nido fra le rovine. Quell'accostarsi di Luciano alla generosa
disperazione del sublime misantropo non mi garbava gran  fatto;  temeva  che  ne
nascesse qualche somiglianza di passioni, che cioè la  grandezza  e  la  nobiltà
dell'impresa fosse  il  minor  incentivo  a  tentarla,  e  che  in  lui  potesse
l'ambizione come il fastidio dei piaceri nel torbido  lord.  Luciano  era  assai
giovinetto, facile perciò a rimaner abbagliato da quell'apparenze  di  sublimità
mefistofelica che in fin dei  conti  non  servono  ad  altro  che  a  nascondere
un'assoluta impotenza di comprendere la vita e di raggiungerne lo  scopo.  Bensí
era  impossibile  che  cosí  fanciullo  agognasse  sinceramente  questa  sterile
filosofia del disprezzo, e se ne imitava il corifeo, non poteva essere  che  per
vaghezza di rendersi singolare e di risplendere della  luce  altrui.  Or  dunque
temeva e non a torto, che, messo alla prova,  la  sua  risolutezza  non  sarebbe
stata vigorosa l'un per cento di quello  che  sembrasse  nelle  parole.  Luciano
rideva de' miei sospetti, soggiungendo che se io lo  tacciava  di  romanticismo,
era ben piú degno a scusabile l'esser romantici nei fatti,  che  nei  sospiri  e
nella capigliatura. - Non frignerò  romanze,  né  mi  tingerò  le  guance  della
preoccupazione del suicidio, come d'un cosmetico di moda -  rispondeva  egli.  -
Diventerò invece l'eroe  di  qualche  ballata,  e  le  donne  d'Argo  e  d'Atene
ricorderanno il mio nome insieme a quelli  di  Rigas  e  di  Botzaris.  Sarà  un
romanticismo utile a qualche cosa. S'aggiunga poi ch'io ho  diciott'anni  e  che
una volta o l'altra, lo sapete bene, converrebbe che me ne  andassi.  Colla  mia
indole non consentirò mai a farmi soldato né a comperare un altr'uomo che  paghi
il mio debito all'infelicità dei tempi. Che  volete  ch'io  soggiungessi?...  Lo
lasciai dunque partire; e lo raccomandai  caldamente  a  Spiro  che  si  trovava
allora  a  Missolungi,  dichiarandogli  anche  il  giudizio  ch'io  faceva   del
temperamento di Luciano e l'instabilità e gli altri pericoli che ne temeva.  Mia
moglie non pianse né si disperò punto; solamente mi rimbrottò per tre o  quattro
mesi della poca padronanza ch'io sapeva  conservare  sull'animo  dei  figli;  ma
intanto venivano dalla Grecia ottime  notizie;  essendosi  rifiutato  di  comune
consenso la divisione della Grecia  in  tre  ospodariati,  proposta  dallo  czar
Alessandro, la guerra era scoppiata piú feroce ed accanita che  mai.  Il  quarto
esercito mussulmano si  squaglia  come  neve  al  sole  sul  suolo  ardente  del
Peloponneso. Luciano coi suoi cugini  Demetrio  e  Teodoro  ha  l'onore  d'esser
ricordato in un bollettino pel suo maraviglioso coraggio. Spiro  me  ne  scrisse
mirabilia, e Niceta, quello che fu cognominato il Mangia-Turchi, lo propose come
modello alla sua legione nella  quale  ebbe  grado  di  capitano.  Tutta  Europa
applaudiva all'eroiche vittorie della Grecia: come gli spettatori del circo  che
sicuri dai loro scanni battevano le mani al bestiario che usciva  vincitore  dal
contemporaneo assalto d'un leone e di due tigri. Pochi aiuti d'armi e di uomini,
pochissimi di danaro davan mano a quegli sforzi sovrumani:  i  governi  d'Europa
cominciavano a sogguardarsi l'un l'altro e a tremare di non poter  rimettere  le
catene turche ai ribelli cristiani. Intanto si seguitava a combattere: i  Bascià
non si mostravano piú tanto ligi ai pronostici del sultano Mahmud, né ubbidienti
ai suoi comandi, i Giannizzeri stessi rifiutavano d'avventurarsi sopra una terra
che inghiottiva i nemici. Cresceva per la Grecia il favore  e  l'entusiasmo  dei
generosi. Byron offerse le sue  fortune,  negoziò  un  imprestito,  ma  in  quel
frattempo ammalò, e alla notizia della malattia tenne dietro ben  presto  quella
della morte. La Grecia accorse ai suoi funerali, tutta l'Europa pianse sopra  la
tomba santificata dall'ultimo anno di sua vita, e s'impose il suo  nome  ad  uno
dei bastioni di Missolungi. Luciano mi partecipò con commoventissime parole  una
tale disgrazia: egli si  diceva  desolatissimo  che  il  suo  illustre  amico  e
protettore non avesse potuto colle imprese dell'eroe oscurare la fama del poeta.
"Il tempo è nemico dei grandi" soggiungeva egli. Ma si sbagliava,  perché  Byron
non sarà mai tanto grande pel suo generoso sacrifizio, come quando alcuni secoli
si saranno  accumulati  sulla  sua  memoria.  Intanto  anche  a  me  a  Venezia,
comportabilmente col sito, erano intervenute abbastanza gravi vicende.  Raimondo
Venchieredo che s'avea sposato la figliuola maggiore di Agostino Frumier, e  per
le strettezze economiche nelle quali era, e il talento capriccioso della giovine
moglie, la faceva assai magra, si divertiva a sparlare di  me  e  della  Pisana,
narrando massime di costei cose affatto nefande ed incredibili. Mi fu detto  che
al caffè Suttil egli teneva crocchio, e che non mancava  sera  che  non  dicesse
qualche ignominia a carico nostro, forse per l'invidia che gli dava il  continuo
prosperare de' miei negozi commerciali. Per me forse avrei portato pazienza, non
per la Pisana la quale io avrei difeso  a  costo  anche  della  vita,  beato  di
poterla in qualche modo ricompensare di tanti suoi sacrifizi. Perciò mi diedi io
pure a frequentar quel caffè, e siccome pochissimi omai mi  ravvisavano,  me  ne
stava soletto in un cantuccio della camera posteriore, leggendo in apparenza  la
Gazzetta, ma in sostanza porgendo  l'orecchio  alla  conversazione  della  prima
stanza nella quale si mesceva sempre Raimondo colla sua solita  spavalderia.  La
seconda o terza sera ch'io mi metteva in quell'agguato (e già gli avventori e  i
garzoni mi adocchiavano di traverso sospettandomi  forse  una  spia),  udii  nel
caffè un romore insolito di sciabola e di sproni, e un gran chiasso di saluti  e
congratulazioni, e il rimbombo d'una vociaccia aspra e gutturale che mi parve di
dover conoscere. Sí, perbacco; doveva proprio  essere  il  Partistagno;  infatti
udii bisbigliare il suo nome da qualcheduno che rispondeva  a  chi  gliene  avea
chiesto,  e  Raimondo  poco  dopo,   gridando   evviva   al   signor   generale,
congratulandosi della sua grassezza, e domandandogli se veniva  per  tentare  la
reverenda badessa, non mi lasciò piú alcun dubbio che non fosse lui. - No,  caro
mio, non vengo piú a tentare la badessa: - rispose il Partistagno -  mia  moglie
mi ha favorito un dopo l'altro sette maschiotti che mi danno da  fare  piú  d'un
reggimento, e le monache mi sono uscite del capo. Peccato! perché  suppongo  non
mi vedrebbe malvolentieri, benché l'età debba aver cooperato molto a  finire  di
farla santa. Voi piuttosto, caro Raimondo, come ve la  siete  cavata  colla  sua
sorellina che non avea, mi pare, la minima disposizione di farsi monaca?  Se  vi
ricordate, l'ultima volta che fui a Venezia ne  eravate  ancora  infervorato!...
Giuggiole! Credo che ci sian corsi sopra vent'anni!... - Eh, eh!  Ci  son  corsi
sopra altro che anni! - soggiunse Raimondo - ne avrò delle belle da  raccontarvi
giacché siete tanto in addietro. Prima di tutto sapete la conclusione: la  bella
Pisana è morta. - Morta! - sclamò il Partistagno. - Non lo avrei mai creduto; le
donne non muoiono cosí  facilmente.  -  Infatti  la  Pisana  vi  ha  durato  una
grandissima fatica - continuò Raimondo. - Figuratevi che ha fatto la  serva  per
due anni al suo amante; ve ne ricordate?... A quel Carlino  Altoviti!...  -  Sí,
sí, me ne ricordo!... Quello che girava lo spiedo a Fratta e  che  poi  è  stato
segretario della Municipalità. - Per l'appunto. Or dunque la Pisana  sembra  che
alla sua maniera gli volesse un gran bene a quel Carlino. Del novantanove furono
insieme a Napoli e a Genova, sempre col consenso di  quell'ottimo  Navagero  che
l'avea sposata: in seguito vissero fra loro come marito e moglie a varie riprese
finché, non si sa come, essa incastrò nei  fianchi  all'amante  una  ragazza  di
campagna e gliela fece sposare. Sapete che fu  una  bella  scena!  Ognuno  volle
farvi sopra i suoi commenti, ma non si venne  in  chiaro  di  nulla!  Voi,  caro
generale, che  avete  una  sí  fervida  immaginazione,  dovreste  sciogliere  il
problema. Via, udiamo: cosa ne direste?... -  Eh!...  secondo!...  distinguo!...
scommetto che ella era stufa di lui, e che per liberarsene  per  sempre  gli  ha
cacciato alle coste una moglie!... - Bravo generale! Ma cosa rispondereste se io
vi dicessi ch'ella tornò allora a Venezia, e che si diede corpo ed anima a curar
le piaghe di suo marito e a biascicar paternostri  e  deprofundis  colla  vostra
badessa?... - Cosa direi... Giurabbacco!... Direi ch'ella voleva  far  pace  con
Domeneddio, e che per questo appunto si è liberata dell'amante.  -  Benone!  Voi
avete una fantasia feconda, caro generale, e  un  ingegno  che  accomoda  tutto.
Aveva un gran naso chi vi ha  fatto  generale!...  Ma  cosa  direste  se  vi  si
raccontasse che nell'ultima rivoluzione di Napoli il bel Carlino, benché  avesse
i suoi quarantacinqu'anni sonati, spiccò il volo un'altra  volta,  e  si  lasciò
mettere in gattabuia, e che andava a rischio di perdervi la testa, se la  Pisana
non piantava lí marito e genuflessorio per correre a intercedergli grazia,  e  a
fargli  tramutare  la  condanna  in  una  relegazione?...  Cosa  direste  se  vi
raccontassi che essendo rimasto cieco e al verde di quattrini l'amante, essa per
due anni fu con  lui  in  Inghilterra  sostentandogli  la  vita  colle  peggiori
fatiche? - Eh via! Matta matta! -  brontolò  col  suo  accento  oltramontano  il
Partistagno. - O matto io a credervi, e voi a contare simili fole! - Sono  tanto
vangelo! - ripigliò calorosamente Raimondo. - E già v'immaginerete qual  era  il
mestiero da cui la Pisana ritraeva i suoi guadagni... Una donzella veneziana non
ne sa molti, me lo consentirete. Or dunque bisogna fare di necessità virtù... Ad
onta de' suoi quarant'anni l'era cosí bella cosí fresca, che  ve  lo  giuro  io,
molti anche non inglesi sarebbero rimasti accalappiati...  L'amico  Carlino  poi
sapeva tutto e pappava in pace... Eh, che ne  dite?  eh!  che  buon  stomaco!...
Peraltro, lo ripeto,  bisogna  fare  di  necessità  virtù!...  Piú  anche  delle
indecenti menzogne di Raimondo mi scaldavano la bile i  sogghigni  e  le  risate
della brigata che tennero dietro  alle  sue  parole.  Perdetti  ogni  ritegno  e
precipitandomi nella stanza ove sedeva quella combriccola, m'avventai addosso  a
Raimondo stampandogli in viso lo schiaffo piú sonoro  che  abbia  mai  castigato
l'impudenza d'un calunniatore. - Anch'io faccio di necessità virtù! - gridai  in
mezzo alla confusione di tutti quei conigli che  o  fuggivano  dal  caffè  o  si
riparavano tramortiti dietro i tavolini e le seggiole. - Questo ch'io  ti  diedi
fu caparra di giustizia e  se  chiedi  riparazione  sai  dove  sto  di  casa.  I
calunniatori sono anche di solito vigliacchi. Raimondo tremava e fremeva, ma non
sapeva in qual modo difendersi. La sua vigoria naturale, sebbene affranta  dalle
molli abitudini di tanti anni, gli riscaldava ancora il sangue; ma  né  la  voce
gli ubbidiva, né, avvezzo com'era a vedersi passate buone le  sue  smargiassate,
poteva riaversi dalla sorpresa di quel subito assalto. Era  come  il  cane  che,
dopo aver abbaiato un pezzo e inseguito accanitamente il  ladro  che  fugge,  si
ritira ben tosto e ripara al pagliaio se quegli ha il coraggio  di  ripiombargli
addosso. Io intanto, già uscito dalla bottega, me ne andai a casa, e non ne udii
parlare per tre giorni. La mattina del quarto venne certo  Marcolini  che  aveva
voce del miglior schermidore di Venezia a parteciparmi che ritenendosi il signor
Raimondo di Venchieredo offeso  profondamente  dalla  maniera  con  cui  l'aveva
trattato al caffè Suttil, e chiedendo di ciò una  riparazione,  lasciava  a  me,
come ne aveva il diritto,  la  scelta  delle  armi:  perciò  scegliessi  pure  e
mandassi i miei testimoni coi quali regolare le condizioni del  duello.  Io  gli
risposi che avendo avuto il diritto di sfidare il signor Raimondo fin dal  primo
momento che lo udii  denigrare  la  fama  d'una  persona  rispettabile  e  a  me
carissima, e non avendolo fatto solamente per alcune mie speciali opinioni sopra
il duello, riteneva essere stato io il provocatore; facesse lui  per  la  scelta
delle armi, e i testimoni li avrei mandati quello stesso giorno. Il Marcolini mi
ringraziò di sí cavalleresca compitezza e andossene pei  fatti  suoi.  Seppi  in
seguito che, dopo la mia partenza dal caffè, Raimondo aveva strepitato assai,  e
giurato e spergiurato che mi avrebbe stracciato il cuore  coi  denti,  e  simili
altre cose degne in tutto della sua nota spavalderia; ma poi il  sonno  lo  avea
ricondotto a piú miti consigli, e il giorno appresso si limitava a ripetere  che
tutti i suoi giuramenti egli avrebbe mantenuto e piú assai, se non avesse  avuto
moglie e figliuoli. Quest'ultima clausola mosse le grandi risate e ne  andò  per
Venezia un grandissimo scalpore.  Tantoché  Raimondo,  avendo  infilato  il  suo
braccio in quello del general Partistagno per far secolui un  giretto  sotto  le
Procuratie, questi colle belle e colle  buone  se  n'era  liberato  soggiungendo
beffardamente che sarebbe ito con lui quando  non  avesse  avuto  né  moglie  né
figliuoli. Raimondo capí, fu spinto all'estremo,  e  dopo  molte  considerazioni
venne nella deliberazione di  sfidarmi  per  mezzo  del  Marcolini,  come  avete
veduto. Il Partistagno, che era l'altro testimonio, o non volle  impicciarsi  di
venire a casa mia, o Raimondo credette spaventarmi presentandomi quel cotale che
aveva una sí gran fama di valente spadaccino. Io poi di ciò non mi curava punto:
e come non avrei commesso mai la pazzia di sfidare alcuno,  cosí  non  mi  sarei
rifiutato  dall'accettare  una  sfida,  anco  se  mi  fosse  venuta  dal   primo
ammazzatore d'Europa. Il duello avvenne la settimana  seguente  in  un  giardino
vicino a Mestre. Io mi vi avviai come ad una passeggiata; avea l'occhio limpido,
il polso sicuro, e perfino nell'anima  m'era  svampata  ogni  rabbia  contro  il
Venchieredo; ne sentiva piuttosto compassione al vederlo pallido e tremante come
una foglia. Egli mi cedette sempre terreno, benché  spingessi  assai  debolmente
l'assalto finché si trovò col piede destro proprio sulla sponda d'un  fosso  che
cadeva parecchie braccia. Mi fermai con troppa generosità  avvertendolo  che  un
passo di piú in addietro e sarebbe precipitato; i suoi testimoni gli  ripetevano
questa ammonizione, quand'egli, approfittando della mia distrazione, mi  avventò
al petto una stoccata, che guai se non fossi balzato  indietro  d'un  salto!  Mi
avrebbe passato da banda a banda. Tuttavia mi sfiorò  una  mammella  e  ne  fece
zampillare il sangue: né il ghigno che gli vidi sul volto in allora cooperò poco
a rinfiammarmi di furore. Mi slanciai innanzi con due rapide finte e mentre egli
sorpreso atterrito armeggiava a destra e a sinistra, e pensava, credo, di gettar
via la spada e di fuggire, gli cacciai mezza la lama in un fianco e lo mandai  a
rotolare nel fosso. Non ebbi a soffrire verun fastidio per questo duello, benché
il codice di quel tempo lo punisse assai severamente. Quanto  a  Raimondo  guarí
della  ferita,  ma  nel  cadere  si  era  fratturato  il  femore,  e  ne  rimase
sconciamente sciancato. Credo che d'allora in poi egli si lodò sempre  di  me  e
della Pisana come de' suoi migliori amici; o le  sue  mormorazioni  furono  cosí
guardinghe e segrete che non mi obbligarono a nessun atto spiacevole. L'Aquilina
venne a cognizione di quella mia scappata giovanile, e non vi dirò i rimbrotti e
le lavate  di  capo  che  mi  toccò  subire.  In  onta  peraltro  alle  continue
dissensioni, la nascita d'un terzo figliuolo, cui tenne  dietro  due  anni  dopo
quella d'una bambina, provarono abbastanza che in qualche momento andavamo anche
troppo d'accordo. Dico  troppo;  perché  dopo  tanto  tempo  di  tregua  io  non
desiderava certamente questa crescenza di famiglia; ma poiché  la  natura  aveva
voluto operare per noi un mezzo miracolo, io  ebbi  il  buonsenso  di  esserlene
grato e di rassegnarmi. Il fanciullo ebbe nome di Giulio e la bambina Pisana, in
memoria di due cari che ci avevano preceduto nel  regno  dell'eternità.  A  quel
tempo tutti i capitali della casa Apostulos erano passati in Grecia,  ove  Spiro
molti ne aveva erogati a sussidio della  nazione,  e  alcuni  anche  impiegatine
nell'acquisto di fondi nelle vicinanze di Corinto. La  guerra  dell'indipendenza
era scaduta a contesa diplomatica. Dopo la  distruzione  della  flotta  turca  a
Navarino, Ibrahim Bascià co' suoi Egiziani teneva debolmente  qualche  posizione
della Morea: la Turchia non aveva né armi né cannoni onde aiutarlo, e la  guerra
santa promulgata con tanta enfasi  dava  ai  Greci  pochissima  paura,  e  minor
fastidio. Il conte Capodistria stringeva nelle sue mani le sorti  del  paese,  e
benché avesse voce di essere un turcimanno della Russia, pure la  necessità  gli
rendeva ubbidienti gli animi del popolo.  Spiro  lasciava  travedere  nelle  sue
lettere di sperarne ben poco; mi diceva anche che il suo figlio  maggiore  e  il
mio Luciano erano tra i prediletti del Conte con pochissimo suo aggradimento; ma
che i giovani corrono dietro alla gloria ed al  potere,  e  bisognava  scusarli.
Teodoro invece stava coi liberali, coi vecchi caporioni dell'insurrezione tenuti
d'occhio allora peggio dei Turchi, e non era ben veduto  dal  Conte  presidente;
bensí egli suo padre lo lodava assai di quella indipendenza veramente degna d'un
greco. Merito delle circostanze, di Capodistria, dei Francesi o  dei  Russi,  il
fatto sta che la Morea fu libera in breve da' suoi oppressori, e che con qualche
respiro di pace essa poté attendere dai congressi europei la decisione de'  suoi
destini. Toccava all'esercito della Russia menar l'ultimo  colpo.  Il  passaggio
vittorioso dei Balcani, cui tenne dietro il trattato di Adrianopoli,  sforzarono
il Divano a consentire la redenzione della Grecia, e ben  piú  avrebbe  ottenuto
fin d'allora lo czar Nicolò, se la gelosa diplomazia di Francia e  d'Inghilterra
non lo avesse arrestato. Spiro mi diede notizia di quel fausto  avvenimento  con
parole veramente bibliche ed  inspirate;  molto  egli  avea  rimesso  della  sua
antipatia per la Russia e  per  Capodistria,  e  nell'annunziarmi  il  probabile
matrimonio di mio figlio Luciano con una nipote del Conte, aggiungeva: "Cosí  la
tua famiglia sarà congiunta col sangue ad una nobile prosapia che inscriverà  il
suo nome sull'atto d'indipendenza della Grecia  moderna."  Lessi  dappoi  alcune
righe di mio figlio nelle quali mi domandava di consentire a quel matrimonio;  e
s'aggiungeva in fondo una affettuosa noterella dell'Aglaura, dove  interpretando
ella i piú timidi desiderii del marito e di suo  nipote,  mi  pregava  di  voler
assistere in persona allo sposalizio. "Se lo spettacolo d'un popolo  libero  pel
proprio eroismo  può  aggiunger  forza  all'affetto  di  padre  e  di  fratello"
conchiudeva ella "io ti esorto a venire, e vedrai cosa unica al mondo, e che  ti
darà animo se non altro a vivere e a morire sperando." Il  commercio  della  mia
ditta colla quale avea continuato le relazioni e gli affari della casa Apostolus
mi metteva in grado di intraprendere questo viaggio senza disagio: tanto piú che
mio cognato Bruto e Donato erano piucché capaci di supplire alla  mia  mancanza.
Avrei anche desiderato che l'Aquilina mi fosse compagna, ma lo impedirono i  due
piccoli. Cosí mi partii solo,  sopra  la  nave  d'una  casa  corrispondente,  al
principiare d'agosto del milleottocentotrenta, quando appunto la rivoluzione  di
Francia metteva in subbuglio o per  un  verso  o  per  l'altro  tutte  le  teste
d'Europa. Giunsi  a  Napoli  di  Romania  tre  settimane  dopo;  e  come  diceva
l'Aglaura, fu veramente un graditissimo spettacolo quello di vedere la  baldanza
e la sicurezza di un popolo che si avea tolto dal  collo  un  giogo  di  quattro
secoli, e portava impressi  ancora  sulla  fronte  la  gioia  e  l'orgoglio  del
trionfo. Solamente continuava qualche malcontento  per  l'ingratitudine  che  il
governo dimostrava ai vecchi capitani della guerra. Erano  sí  cervelli  un  po'
caldi, piú atti a infervorarsi sul  campo  di  battaglia  che  ad  assottigliare
disquisizioni legali; ma non bisognava dimenticare i  loro  immensi  servigi,  e
punirli di sí scusabili difetti colla prigione e coll'esiglio. Io faceva eco  ai
lamenti che movevano Spiro e Teodoro di cotali ingiustizie,  ma  Luciano  me  ne
rimproverava come d'una inescusabile debolezza. Ogni arte, secondo  lui,  doveva
tendere a' suoi fini senza piegare, senza patteggiare. Come durante la guerra si
avea menato dei Turchi una strage inesorabile, né si badava alle delicature e ai
mezzi termini dei Fanarioti; cosí, conquistata coll'indipendenza  la  pace,  per
assicurare al popolo quella vita calma ed ordinata che  sola  può  render  utile
l'acquisto della  libertà  ed  assicurarne  per  sempre  l'esercizio,  bisognava
rintuzzare ogni causa  d'inquietudine,  e  ridurre  all'obbedienza  quei  poteri
secondari che avevano cooperato validamente al buon esito della guerra,  ma  che
allora inceppavano con assai danno l'azione del governo. Avevano arrischiato  la
vita sul campo  per  la  salute  della  patria?  Per  l'egual  ragione  dovevano
accontentarsi di perderla anche sul patibolo, se non si sentivano  in  grado  di
correggersi dalle loro turbolente abitudini. Logica piú  inesorabile  di  questa
non si potrà trovare cosí facilmente; ma i ragionamenti senza pietà non  possono
vantarsi di esser perfetti secondo la logica  umana,  ed  io  li  ascoltava  con
raccapriccio. Del resto Luciano era cosí affettuoso cosí  compito  con  me,  che
quelle sue ciarle le attribuiva a vaghezza  di  contraddizione.  Un  giovane  di
ventiquattr'anni non poteva aver fitta in  capo  la  logica  di  Cromwell  e  di
Richelieu. Quanto al conte Capodistria mi parve un uomo  contento  discretamente
di sé e piú furbo che cattivo: non  credo,  come  dice  il  suo  manifesto,  che
soltanto per la gloria di Dio e  pel  vantaggio  dei  Greci  egli  avesse  fatto
violenza a se stesso per accettare la presidenza del governo, ma non  credo  del
pari ch'egli aspirasse a  farsi  tiranno  come  Pisistrato.  Serviva  forse  gli
interessi della Russia, perché la Russia piucché ogni altra potenza  aveva  mire
grandiose riguardo alla Grecia, e dalla comunanza di religione  e  di  odio  era
portata a favorirla. Se egli  avversò  l'assunzione  al  trono  di  Leopoldo  di
Coburgo, candidato dell'Inghilterra, io non vi veggo delitto di  sorta.  Se  tra
l'Inghilterra e la Russia prediligeva quest'ultima poteva  avere  cento  ragioni
piú che buone che cattive; e in ogni  occasione  io  son  disposto  a  diffidare
dell'Inghilterra e ad approvare chi ne diffida, benché degli Inglesi uno per uno
non possa dire che bene. La sposa di mio figlio, la quale dimorava allora presso
il Conte con pompa quasi principesca, non poteva certo pretendere a  gran  vanto
di bellezza. Io che ebbi sempre,  e  l'ho  ancora  malgrado  lo  scirocco  della
vecchiaia, una maledetta propensione per le belle donne, non ne fui  alle  prime
gran fatto contento. Ma poi guardandola meglio, intravvidi quel calmo trasparire
nel sorriso e negli occhi della  bontà  dell'animo  che  tien  luogo  perfin  di
bellezza. Non sarebbe stata una donna greca, ma una  buona  moglie;  e  cosí  mi
rappacificai con mio figlio perché s'avesse scelto per isposa  la  parente  d'un
mezzo principe. Ma bisogna convenire  che  l'Argenide  era  piú  impicciata  che
superba dal fasto  che  la  circondava;  e  anche  da  questo  rilevai  un  buon
pronostico per la sua indole e per la  felicità  di  Luciano.  Le  nozze  furono
celebrate con gran pompa; e siccome Luciano aveva buon nome fra  i  soldati,  il
conte Capodistria ne racquistò qualche popolarità. Credo anzi che nel concederla
egli avesse in mente questo buon fine politico; ma Luciano aveva  anche  lui  in
mente i suoi fini, e non guardò pel sottile se ai  proprii  meriti  o  ad  altre
considerazioni del  Presidente  dovesse  ascrivere  quella  fortuna.  Io  rimasi
qualche tempo in Grecia visitando il paese e ammirando del  pari  e  gli  avanzi
dell'antica grandezza, e i segni delle ultime devastazioni, monumenti di  genere
diverso ma che onoravano del pari quel poetico paese. Luciano non avrebbe voluto
che partissi mai piú, l'Argenide mi dimostrava una vera tenerezza  figliale,  il
conte Capodistria accennava a voler  far  di  me  qualche  cosa  di  grosso,  un
ministro delle Finanze o che so io. Ricordai allora sorridendo  i  sogni  dorati
dell'intendente Soffia, ma non beccai all'amo, e le lettere dell'Aquilina  erano
troppo pressanti perch'io non pensassi di tornare  al  piú  presto.  Un  crudele
avvenimento fu che mi tolse di accondiscendere quando avrei voluto a questo  mio
desiderio.  La  salute  dell'Aglaura,  che  anche  in  Grecia  non  si  era  mai
raffermata, peggiorò  in  qualche  settimana  di  sorte  che  si  disperò  della
guarigione. La disperazione di Spiro, l'accoramento dei suoi figliuoli  potevano
essere intesi solamente da me, che perdeva in lei l'unica  sorella,  e  la  sola
creatura che mi ricordasse la mia povera madre. Né cure né  medicine  né  tridui
valsero nulla. Ella spirò l'anima fra le mie braccia,  mentre  tre  soldati  tre
eroi che avevano perigliato cento volte  la  vita  contro  le  scimitarre  degli
Ottomani, si scioglievano in lagrime  intorno  al  suo  letto.  Non  era  ancora
assodata la terra che copriva il feretro di mia  sorella,  quando  mi  venne  da
Venezia un altro colpo terribile. Mio cognato scriveva che Donato era  scomparso
improvvisamente senza lasciar detto nulla, e  senza  che  si  sospettasse  alcun
motivo a quell'improvvisa partenza, sicché con ragione si temevano  le  peggiori
disgrazie. L'Aquilina sembrava impazzita pel dolore e la mia presenza a  Venezia
era necessaria in quei terribili frangenti. Senza  potersene  far  ragione  egli
conghietturava che Donato potesse  essere  involto  nei  torbidi  che  agitavano
allora la Romagna, ma raccomandava di darmi  fretta  che  forse  prima  del  mio
arrivo avrebbero saputo qualche  cosa.  Gli  altri  miei  figliuoletti  godevano
ottima salute, e s'impazientivano di non veder piú  il  loro  papà,  e  di  aver
malata la mamma. Vi figurerete  che  non  misi  piú  tempo  in  mezzo.  Accennai
confusamente tanto a Luciano che agli altri ad un affare che mi chiamava tosto a
Venezia, e m'imbarcai quel giorno stesso sopra un piroscafo francese che salpava
per Ancona. Ma se fu angoscioso il  viaggio  pei  tristi  presentimenti  che  mi
agitavano, fu ben peggiore l'arrivo. Giunsi  ad  Ancona  proprio  il  ventisette
marzo quando il general Armandi abbassava dinanzi agli Imperiali  vinto  ma  non
macchiato il vessillo della rivoluzione romagnuola. Dietro i vaghi  sospetti  di
Bruto mi affrettai a chiedere a  qualche  ufficiale  se  conoscessero  un  certo
Donato Altoviti, e se egli  avesse  preso  parte  a  quei  rivolgimenti.  Alcuni
dicevano di non conoscerlo, altri di sí; ma non potevano  guarentire  del  nome:
finalmente al Quartier generale fui accertato che un giovine veneziano  di  quel
nome erasi inscritto nella Legione imolese, che aveva combattuto come  un  leone
nello scontro di Rimini, e che colà era rimasto ferito due giorni  prima.  Corsi
alla  posta,  e  non  v'erano  cavalli  perché  tutti  requisiti   in   servizio
dell'esercito austriaco; uscii allora a  piedi  dalla  porta,  e  fuori  quattro
miglia trovata la carretta d'un ortolano feci suo quanto  danaro  aveva  indosso
purché mi conducesse a Rimini in quel giorno stesso. Infatti vi giunsi  che  per
tutto il viaggio avea tirato la carretta col fiato, e non ne poteva piú.  Cercai
dell'Ospitale ma Donato non v'era e non ne avevano mai udito parlare; con quello
struggimento d'animo che potete immaginarvi, mi rimisi in  traccia  di  lui  per
quella brutta città che dallo spavento della guerra e dall'imbrunire della notte
era fatta piú scura e deserta che mai. Domandare d'un volontario ferito  era  lo
stesso che farsi chiudere la porta in faccia:  alla  fine  tornai  allo  Spedale
divisando chiederne conto ai medici, uno dei quali doveva pur essere chiamato  a
curarlo in qualunque luogo egli si trovasse, se pur  non  lo  lasciavano  morire
come un cane. Benché mi sconfidasse il pensiero che non tutti i medici di Rimini
frequentavano certo l'Ospitale, pure non trovando di meglio m'appigliai a questo
partito, ed ebbi a lodarmene perché un  giovine  chirurgo  intenerito  alle  mie
preghiere mi tirò prudentemente da un lato, e,  dettomi  che  lo  aspettassi  in
istrada, soggiunse che avrei trovato  di  lí  ad  una  mezz'ora  quello  di  cui
cercava. - Oh per carità, in che stato si trova egli? - sclamai. -  Per  carità,
mi dica il vero, signor dottore; e non voglia ingannare un misero padre! - State
quieto: - soggiunse egli - la ferita è profonda ma non dispero di guarirlo. Egli
è in buone mani e miglior assistenza non avrebbe  se  avesse  al  capezzale  una
sorella e una madre. Di meno egli non meritava: intanto, vi prego,  aspettatemi,
e in pochi minuti sono con voi. Prudenza sopratutto, perché son cose dilicate, e
viviamo in tempi difficili. Io non fiatai; scesi pian piano le scale,  e  quando
fui in istrada ne andai su e giù, finché vidi uscire il dottore. Allora egli  mi
condusse in una casa di modesta apparenza, ove poiché ebbe preparato l'animo  di
mio figlio, mi introdusse nella camera ov'egli  giaceva.  Vi  dica  chi  può  la
dolcezza di quei primi abbracciamenti! certo chi non fu padre non potrà  nemmeno
immaginarsela. Allora mi toccò confermare quello che sempre aveva creduto,  cioè
che se le donne non fossero al  mondo  per  generarci,  Dio  le  avrebbe  dovute
regalare agli uomini per infermiere. Una zitella piuttosto attempata, maestra di
cucire che appena arrivava a tempo di campare la vita, aveva raccolto sulla  via
il mio Donato, e prestatogli tali cure che non mentiva il  dottore  dicendo  che
migliori né piú affettuose non le avrebbero prestate una sorella o una madre. Io
ringraziai piú a lagrime che a parole la buona giovine, e Donato si univa con me
nel manifestarle la sua riconoscenza; ma ella si schermiva rispondendo  che  non
aveva fatto piú di quanto era debito di  cristiana  carità,  e  raccomandava  al
ferito di pensare a sé e di non agitarsi, perché gliene poteva derivare  qualche
grave  nocumento.  Il  dottore  esaminò  la  piaga,  a  trovatala  in   via   di
miglioramento si partí raccomandando anch'esso che non tenessimo troppo occupato
l'infermo in parole; ma lo si lasciasse riposare che aveva buonissime  speranze.
Non tardai a partecipare queste buone novelle all'Aquilina e pochi  giorni  dopo
ne ebbi  in  risposta  che  avevano  bastato  per  guarirla  affatto  e  che  ci
aspettavano a braccia aperte non appena Donato fosse in  grado  d'imprendere  il
viaggio. Intanto io aveva saputo da lui il motivo principale della sua repentina
deliberazione. Ed erano state le esageratissime calunnie da lui  udite  in  casa
Fratta a danno dei repubblicani delle Romagne. -  Tante  parolacce  -  soggiunse
egli - mi rivoltarono lo stomaco,  e  perché  non  mi  avea  dato  il  cuore  di
rintuzzarle, mi decisi di far meglio e di mostrare col fatto in  qual  conto  le
tenessi!... - Oh, figliuolo mio! -  sclamai  -  che  tu  sia  benedetto.  L'uomo
vecchio risorgeva completamente in me.  I  giorni  precedenti,  assistendo  alla
penosa malattia di mio figlio, di gran cuore maladiceva fra me  e  me  tutte  le
rivoluzioni: e solamente mi pentiva  di  queste  maledizioni  pensando  che  mia
moglie avrebbe gridato anco lei per  lo  stesso  verso;  e  siccome  io  l'aveva
tacciata alcune volte di dappocaggine, non voleva darmi la zappa sui  piedi.  Ad
ogni modo toccava al malato rianimare il sano; e cosí infatti  m'intervenne.  La
guarigione andò per le lunghe piú di quanto il medico si immaginava: e solamente
in maggio potemmo metterci in viaggio a piccole giornate verso Bologna. La buona
maestra ebbe  una  ricompensa,  non  adeguata  al  suo  merito  ma  alle  nostre
condizioni, ed essendovi un giovine che l'amava e che l'avrebbe sposata senza la
loro estrema povertà, io mi confido averle procurato maggior bene che per solito
non si ottenga col danaro. A  Bologna  si  fece  sosta  parecchi  giorni,  e  vi
rappiccai amicizia con molte vecchie conoscenze; trovai molti morti, molti padri
di famiglia che al tempo della mia intendenza pendevano dalla mammella, e  molte
belle mammine che io avea fatto saltare sulle ginocchia.  Ahimè!  le  belle  che
avea corteggiato durai fatica a riconoscerle; e per molti giorni non fui  capace
di guardarmi nello specchio. Bologna non era  a  quei  giorni  né  affollata  né
allegra, ma trovai gli stessi cuori, l'ugual gentilezza,  e  cresciute  a  mille
tanti la  sodezza  e  la  concordia.  Non  si  viveva  piú  nella  confusione  e
nell'ansietà d'un tempo; tutto era chiaro e lampante e solamente aveano  mancato
le forze; ma la speranza perdurava. E non dico se a torto o  a  ragione,  ma  mi
pregio di raccontare questa prova di costanza ch'ebbi sotto gli occhi. Giunti  a
Venezia, lascio pensare a voi la  consolazione  dell'Aquilina,  e  la  gioia  di
Donato! Ma la salute di questo, che  si  sperava  dovesse  ristabilirsi  affatto
nell'aria natale, decadde anzi prontamente. La ferita  diede  prima  sentore  di
volersi riaprire, indi di far sacca internamente: dei  medici  chi  opinava  che
fosse leso l'osso e chi d'una scheggia di mitraglia rimasta in  qualche  cavità.
Tutti eravamo inquieti, afflitti, agitati. Il  solo  malato  allegro  sereno  ci
confortava  tutti  ridendo  assaissimo  della  burla   da   lui   accoccata   ai
frequentatori di casa Fratta, e godendo di  udir  narrare  da  Bruto  le  grandi
boccacce ch'essi ne avevano fatte. Il dottor Ormenta, reduce da poco da Roma con
non so quante pensioni ed onorificenze, avea sciolto la quistione  sentenziando:
tale il padre tale il figlio. Io per me era piú disposto a  insuperbire  che  ad
offendermi d'un cotal raffronto; e certamente non chiesi conto al sanfedista  di
cotali parole che forse egli credette ingiuriose all'ultimo segno. D'altra parte
pur troppo era occupato di piú gravi dolori. Donato andò  peggiorando  sempre  e
alla fine si morí sullo scorcio dell'autunno. Fra tutte le  sciagure  ch'ebbi  a
sopportare durante la mia vita, questa, dopo la morte della Pisana,  fu  la  piú
atroce ed inconsolabile. Tuttavia  il  mio  dolore  fu  un  nulla  appetto  alla
disperazione di sua madre; la quale non mi perdonò piú la morte di  Donato  come
se appunto io ne fossi stato il carnefice. E sí che ella piuttosto ne era  stata
la causa innocente, esponendolo a dover tollerare una contraddizione, alla quale
contraddisse egli poi generosamente versando il suo  sangue  alla  battaglia  di
Rimini. Invece ella continuò a praticare in casa Fratta e a  menarvi  gli  altri
due nostri figliuoletti; e quando io ne la biasimava ricordandole  sommessamente
il caso di Donato, ella mi rimbeccava stizzosamente che  quel  tristo  caso  non
avrebbe amareggiato la sua vita, se io colle mie tirate liberalesche non  avessi
guastato il buon frutto che  il  giovine  traeva  dalla  conversazione  di  casa
Fratta. Come vedete, o per influenza dell'età, o delle amicizie, o per tenerezza
materna, si faceva codina ogni giorno piú quella buona donna.  Ma  io  confidava
nel proverbio che sangue  non  è  acqua,  e  che  i  miei  figli  non  avrebbero
partecipato di quella curiosa  malattia.  Bensí  non  era  d'una  tal'indole  da
oppormi a mano  armata  ai  suoi  desiderii,  e  lasciavala  fare  a  suo  modo;
rampognandola con molta soavità solamente allora quando la  piccola  Pisana  era
colta in flagranti di bugia, o il Giulietto imbizzarriva di essere  corretto,  e
piuttosto che confessare un mancamento si sarebbe lasciato pestar  nel  mortaio.
Io le chiedeva se l'impostura la superbia e l'ostinazione  fossero  per  caso  i
frutti di quel suo nuovo  metodo  di  educazione.  Ella  mi  rispondeva  che  si
accontentava meglio d'aver figliuoli orgogliosi e bugiardi, che di  assassinarli
colle sue proprie mani, e che badassi a me, e che  pensassi  al  male  ch'io  le
aveva già fatto, senza avvelenarle la vita coi miei rimproveri. Io la  compativa
pel tanto che aveva sofferto, e cercava di tacere,  benché  forse  pensassi  che
meglio  era  la  morte  d'una  vita  disonorata  dall'impostura,  e  gonfia   di
vanagloria. Peraltro non guardava quei difettucci coll'occhio del bue, e sperava
che i miei figliuoletti se ne sarebbero corretti a tempo. Tuttavia un giorno che
non so a qual proposito ella mi citava il dottor Ormenta come il vero  esemplare
del cristiano e dell'onesto cittadino, io non potei  ristare  dall'opporle  come
mai quel perfetto cristiano e quell'onesto cittadino lasciasse morire suo  padre
si poteva dire d'inedia. - È una nefanda falsità! - si mise a gridar  l'Aquilina
- il vecchio Ormenta ha dal governo una grassa pensione  e  potrebbe  camparsela
molto agiatamente senza viziacci che lo dissanguano. - E  se  io  vi  dicessi  -
soggiunsi - che gli interessi dei debiti contratti per  assecondare  l'ambizione
del figlio gli divorano d'anno in anno buona parte  del  suo  soldo,  e  che  il
dottore sel sa e non si dà il benché minimo pensiero di soccorrerlo? - Oh  fosse
anche! - sclamò l'Aquilina - e  non  gli  darei  torto!  Suo  padre  fu  un  tal
birbaccione che merita una punizione esemplare, e tal sia  di  tutti  i  tristi,
come di lui. - Brava! - ripresi io. - Tu sei scrupolosa  cristiana  e  deferisci
agli uomini quel supremo ministero di  giustizia  che  Dio  ha  riserbato  a  se
stesso!... I figliuoli poi non so da qual legge di carità sieno messi  in  grado
di giudicare e punire  le  colpe  dei  padri!  -  Non  dico  questo,  -  mormorò
l'Aquilina - ma  Dio  può  ben  permettere  che  il  dottor  Ormenta  ignori  le
strettezze  di  suo  padre,  perché  questi  sia  castigato  anche  durante   il
pellegrinaggio terreno delle sue ribalderie!... - Benissimo! - ripigliai - ma io
certo non vorrei avere sulla coscienza quest'ignoranza!  -  Infatti  il  vecchio
Ormenta morí pochi giorni dopo accompagnato dalla generale esecrazione; ma se vi
fu sentimento che vincesse in veemenza  e  in  universalità  quell'odio  postumo
contro di lui, esso fu certamente quello che sorse nel  cuore  di  tutti  contro
l'ingratitudine e l'empietà di suo figlio che contrattò egli stesso le spese del
funerale, adí l'eredità col benefizio dell'inventario, e rifiutò la  mercede  al
medico perché il passivo fu trovato maggiore dell'attivo. Nonostante  i  diverbi
fra me e mia moglie su questo od altri argomenti consimili si ripetevano  sempre
piú spessi e finirono col guastare d'assai la nostra pace. Se  io  non  m'avessi
ridotto a mente le ultime raccomandazioni della Pisana, forse saremmo  venuti  a
qualche grosso guaio; ma  tirava  innanzi  con  pazienza  e  forse  con  maggior
indulgenza che non convenisse alla mia qualità di padre, perché della  soverchia
balía lasciata in allora all'Aquilina sopra i  figliuoli,  dovetti  pentirmi  in
appresso e indurarne rimorsi tanto piú acuti  quanto  piú  vani  e  tardivi.  La
piccola Pisana pigliava su quelle maniere  solite  dei  torcicolli  che  rendono
sospette e spiacevoli perfino le virtù, e Giulio accarezzato e  vezzeggiato  dai
maestri cresceva sempre in superbia, ed era oggimai tanto presuntuoso da non  si
sapere come persuaderlo ch'egli avesse fallato.  Io  capiva  benissimo  dove  lo
potevano condurre quei difettacci; ché  adulandolo  e  lusingandolo  un  pochino
ognuno lo avrebbe piegato a qualunque porcheria, ed egli avrebbe sempre  creduto
di essere dalla parte della ragione. Ma quanto al correggere queste male  pieghe
io la mandava dall'oggi in domane; anche perché non voleva  angustiare  la  loro
madre, e sperava che da un giorno all'altro ella avrebbe aperto  gli  occhi  sul
loro conto. Per esempio  a  me  non  sapeva  bene  che  ogni  loro  moralità  si
appoggiasse ciecamente all'autorità, dicendo  che  a  quel  modo  dovevano  fare
perché cosí era comandato. Avrei  voluto  aggiungere  che  cosí  era  comandato,
perché appunto  la  ragione  l'ordine  sociale  e  la  coscienza  inducevano  la
necessità di quei comandamenti; desiderava insomma che la volontà di  Dio  fosse
loro dimostrata, oltreché nella parola della rivelazione, anche  nelle  leggi  e
nelle necessità morali che regolano la coscienza degli individui e  la  pubblica
giustizia. Cosí, se anche una contraria educazione li privava dei sostegni della
fede, essi restavano sempre uomini soggetti ad una legge ragionevole  ed  umana;
mentre una volta che fossero alieni dalla religione, cosí com'erano  sudditi  a'
suoi precetti unicamente per paura, la loro coscienza rimaneva senza alcun lume,
e nullo affatto il valor morale dell'animo. L'Aquilina  non  voleva  sentire  da
quest'orecchio. Secondo lei era un  sacrilegio  solo  il  supporre  che  i  suoi
figliuoli potessero apostatar col pensiero dalla religione in cui li educava;  e
se erano tanto tristi e sfortunati da cadere nell'abisso  dell'incredulità,  non
valeva la pena di arrestarli a metà  strada.  Perdute  le  loro  anime,  non  le
importava nulla che la società avesse dalle loro azioni giovamento o danno.  Era
egoista non solamente in sé, ma anche a nome loro. A mio credere  invece,  anche
nel giusto giudizio dei credenti, questo era un cattivo sistema e alieno affatto
dai divini precetti. Prima di tutto  la  natura,  interprete  di  Dio,  ci  pose
nell'animo di preferire il minor male al  piú  grande,  e  poi  l'istinto  della
compassione ci obbliga ad ogni accorgimento perché la felicità dei nostri simili
sia tutelata piucché è possibile contro le  soperchierie  dei  malvagi.  Ora  il
nuocere insieme all'anima propria colla miscredenza, e alla sorte  altrui  colle
azioni, è certo cosa assai peggiore e dannosa  all'ordine  sociale  che  non  il
mantenersi ligi colle opere alle leggi morali e  solamente  peccare  in  difetto
d'opinioni religiose. Preparar dunque gli animi dei fanciulli in modo che, anche
provvisti di queste credenze, debbano ubbidire per intimo sentimento alla regola
universale di giustizia che illumina le coscienze, sarà non solamente  opera  di
prudente educator sociale, ma anche cura  lodevole  e  consentanea  alla  natura
pietosa di Dio! Quanto al poter supporre questo pervertimento nelle opinioni  di
color che si istituiscono, gli uomini son sempre uomini, perciò mutabili sempre,
né ci veggo né ci vedrò mai sacrilegio di  sorta.  Bensí  è  un  tradimento  del
proprio ministero la trascuranza di quei  maestri  che  pur  vedendo  rinnovarsi
tutto giorno migliaia di questi casi in cui  esseri  umani  forniti  di  qualità
pregevolissime cessando di esser devoti diventano bestie, tuttavia  si  ostinano
ad appoggiare soltanto al precetto religioso la moralità dei discepoli  mettendo
cosí a grave repentaglio l'economia morale della società. Non dite  che  viviamo
in tempi di tiepidezza religiosa  e  di  miscredenza?  Adunque  adoperatevi  per
difender almeno la felicità dei terzi e l'ordine sociale con miglior riparo  che
non sia l'adempimento dei doveri appoggiato unicamente  a  quella  fede  di  cui
lamentate l'insufficienza.  Non  vi  dico  che  cessiate  dall'inculcare  e  dal
predicar questa,  se  lo  portano  le  vostre  convinzioni;  dico  soltanto  che
aggiungiate un'altra caparra, perché  la  società  possa  fidarsi  della  vostra
educazione, che cosí come la intendete voi e nei secoli di sùbite conversioni  e
di scarsi sacrifizi in cui viviamo,  è  affatto  manchevole  di  sicurezza.  Io,
vedete, se avessi rilevato ogni mia regola morale dalla Dottrina, sarei  rimasto
un gran birbaccione; e se cito me non è né per ammenda né per  orgoglio;  è  per
recare in mezzo un fatto del quale non possiate dubitare. Letta poi che  abbiate
questa vita, e qualunque sieno le vostre opinioni, dovete confessare che se  non
ho fatto molto bene, poteva certo operare molto maggior male. Ora del  male  che
non operai, tutto il merito ne viene a quel freno  invincibile  della  coscienza
che mi trattenne anche dopoché cessai di credermi obbligato a certe formule.  Il
fatto era che non credeva piú ma sentiva sempre di dover fare  a  quel  modo;  e
poco cristiano alle parole, lo era poi scrupolosamente nei fatti in tutte quelle
infinite circostanze nelle quali la moralità cristiana concorda colla  naturale.
Se voi mi proverete che diventando usuraio,  spergiuro,  venale,  assassino,  io
sarei  stato  piú  utile  alla  società,  consentirò  allora  con  voi  che  sia
perfettamente inutile dare un appoggio filosofico ed assoluto anche ai  precetti
morali della religione. Senzaché colla lettura del testo si può schermeggiare  e
stabilire contr'esso la battaglia ordinata della casuistica; ma coi  sentimenti,
eh, maestri miei non v'ha scherma o casuistica che tenga! Se si opera a  ritroso
ne siam tosto puniti dai rimorsi che son forse meno formidabili ma piú  presenti
dell'inferno. Io  non  credo  d'aver  mai  avuto  il  coraggio  di  schiccherare
all'Aquilina una cosí lunga predica, ché allora non dubito che l'avrei persuasa;
anzi colgo l'occasione di dichiararvi che per quanto parolaio  e  quaresimalista
possa sembrarvi nel racconto della mia vita, all'atto pratico  poi  sono  sempre
stato assai parco di parole, e tre persone che avessi  dinanzi  piú  del  solito
bastavano per impegolarmi lo scilinguagnolo. Pure qualche volta bel bello  venni
con mia moglie su quel discorso; e battuto da una parte  ci  tornai  dall'altra,
sempre coll'ugual risultato di buscarmi nelle orecchie una solenne  gridata.  La
lasciai dunque in balía di disporre ogni cosa a suo modo, anche perché tra padre
e madre in verità era imbrogliato  a  decidere  quale  avesse  maggiori  diritti
dell'altro. A far pesare la bilancia dal suo lato contribuí anche  non  poco  la
circostanza del cholera, il quale, penetrato allora per la prima volta in Italia
collo spavento che accompagna le malattie contagiose  ed  insolite,  mise  tutta
Venezia in grandissima costernazione. Il nostro Giulio fu colpito da quel  morbo
terribile, e la costanza e il coraggio col quale sua madre lo assisté le diedero
quasi un'altra volta i diritti di madre. Io dovetti metter la piva nel sacco coi
miei; e se serbai qualche pretesa fu sulla Pisana, la quale  piú  del  fanciullo
abbisognava d'un indirizzo certo e morale per essere a tre doppi di lui  accorta
e maligna. Sembrava  che  col  nome  ella  avesse  ereditato  qualche  cosa  del
temperamento della mia Pisana, e quando prima di improvvisare una filastrocca di
bugie, con un leggiadro movimento del capo si liberava la fronte  dalle  diffuse
anella dei bei capelli castani che la inondavano, la  mia  mente  correva  tosto
alla piccola maga di Fratta; e cosí io  mi  lasciava  corbellare  colla  massima
dabbenaggine. Senonché la mia figliuolina  non  aveva  la  spensieratezza  e  la
petulanza della Pisana; anzi sapeva calcolar molto bene i fatti suoi, e piegarsi
e torcer il collo oggi per drizzar il capo e impennarsi  meglio  domani.  Io  la
teneva d'occhio e vedeva crescere in lei ogni giorno quello  studio  di  piacere
che è la fortuna  e  la  rovina  delle  donne.  Cercava  con  bella  maniera  di
indirizzarla convenevolmente, di renderle pregevole il suffragio dei buoni e  di
farle avere in poco conto l'ammirazione dei tristi, dimostrandole come  bontà  e
tristizia non si conoscano dalle apparenze piú o meno splendide ma dalle qualità
delle azioni; ma mi accorgeva di far poco frutto. Le  avevano  troppo  inculcato
che chi comanda ha ragione di comandare, e  non  può  desiderare  altro  che  il
meglio di chi ubbidisce, perch'ella credesse e potesse  amare  la  virtù  povera
dispregiata ed oppressa; per lei merito, virtù, onori, ricchezza, potenza  erano
una sola cosa, e  la  sua  capricciosa  testolina  s'empiva  di  fantasmi  e  di
corbellerie. Correva dietro al lume come la farfalla. Ma le  ali,  poverina,  le
ali?... Come farai, leggiera farfalletta, a spiccare il  volo  quando  il  fuoco
della candela t'avrà incenerito le ali?... Quest'era la mia paura;  che  qualche
triste disinganno le togliesse ogni poesia dall'anima, e che restasse come  quei
sciagurati che si credono esseri spregiudicati, positivi, perfetti, e  non  sono
altro  che  mostruosi  bastardumi  dell'umana  progenie,  corpi  senza   spirito
destinati a corrompere per alcuni anni  una  certa  quantità  d'aria  pura  e  a
popolare di vermi la cavità d'un sepolcro. Io lottava  pertinacemente,  come  le
mie occupazioni me lo consentivano, contro i dubbiosi  istinti  di  quell'indole
femminile; ma non altro faceva che arrestar  il  male  senza  poterlo  togliere,
anche perché le parole dell'Aquilina contrastavano  alle  mie,  e  le  compagnie
ch'essa le faceva frequentare le offrivano esempi totalmente  opposti  a  quelli
che si affacevano per confermare le mie belle teorie. Il cholera se non altro fu
benemerito di spazzare il mondo da molte persone che non si sapeva il perché  ci
fossero capitate. Uno dei primi ad andarsene  fu  Agostino  Frumier  che  lasciò
numerosa figliolanza, e fu accoratissimo di scender sotterra senza la chiave  di
ciambellano cosí lungamente ambita. Suo fratello  ci  perdette  nella  moria  la
vecchia Correggitrice che morí credo piú di paura che  di  vero  male;  ed  egli
allora tornò cosí nuovo al mondo che credo si maravigliasse di non  trovarsi  in
capo la perrucca e di non veder il Doge e le cappe magne  degli  Eccellentissimi
Procuratori. Dicevano per Venezia: - Ecco il  cavalier  Alfonso  Frumier  che  è
uscito or ora di collegio. - Aveva all'incirca sessantacinque anni, e la signora
Correggitrice passavi settanta quando s'era decisa a  morire.  Per  trovare  una
costanza simile a questa bisognerebbe risalire  ai  primordi  del  genere  umano
quando non c'era che un uomo ed una donna  sola.  In  quel  contagio  credo  che
morisse anche la Doretta che dopo una vita piena di vitupero e di  pellegrinaggi
era tornata in Venezia ad infamare  la  propria  vecchiaia.  Certo  seppi  dalla
signora Clara ch'ella mancò nell'estate di quell'anno nell'Ospitale.  Io  l'avea
incontrata parecchie volte, ma finto di  non  conoscerla  perché  la  sua  sozza
figura mi moveva proprio ribrezzo; e mi sapeva di sacrilegio l'unire la  memoria
di Leopardo a quella svergognata creatura. Peraltro anche la sua fine  contribuí
a persuadermi che una suprema giustizia domina le vicende di questo mondo; e che
vi sono sí molte e dolorose eccezioni, ma in generale  ne  resta  confermata  la
regola che il  male  raccoglie  male.  Durante  la  giovinezza,  quando  l'animo
bollente ed impetuoso non ha tempo di considerare le  pienezze  delle  cose,  ma
s'arresta piú facilmente ai particolari, è possibile  il  prender  abbaglio.  Di
mano in mano poi che il giudizio si raffredda e che la memoria fa maggior tesoro
di fatti e di osservazioni, cresce la confidenza nella  ragione  collettiva  che
regola l'umanità, e s'intravvede la sua salita verso migliori stazioni. Cosí non
accorgiamo il pendio d'un torrente nello  spazio  di  pochi  piedi  ma  bensí  a
specularlo da un'altura in buona parte del suo corso. Ci eravamo appena  riavuti
dallo sgomento di quella pestilenza, quando una sera, mi pare a mezzo  novembre,
mi fu annunciata la visita del dottor Vianello. Io era sempre stato  in  qualche
corrispondenza con Lucilio, ma dopo il trent'uno quand'egli pure era  venuto  in
Italia per ripartirne tantosto, le nostre lettere s'erano sempre fatte piú rare.
Allora poi non ne aveva notizia da piú d'un anno. Lo  trovai  curvo,  pallido  e
bianco affatto di quei pochi capelli rimastigli; ma negli occhi era sempre  lui;
l'anima forte e integerrima scaldava ancora le  sue  parole,  quando  alzava  un
gesto s'indovinava la vigoria dello spirito  che  covava  in  quel  corpicciuolo
asciutto e sparuto. - T'ho detto che verrò a morire fra voi! - mi disse egli.  -
Or bene, vengo a mantenere la mia parola.  Ho  settantadue  anni,  ma  sarebbero
nulla senza un noioso mal di petto regalatomi dal clima di  Londra.  Abbiamo  un
bel difenderci noi, figliuoli del sole; le nebbie ci rovinano. - Spero bene  che
scherzi - gli risposi io - e che come hai guarito me nella vista, cosí  guarirai
te nel petto. - Ti ripeto che vengo a mantenere la mia parola. Del resto noi  ci
conosciamo, e non si abbisognano né scambievoli cerimonie,  né  bugie.  Sappiamo
cosa si può sperare della vita, e qual bene o qual male è la  morte.  Se  io  ti
recitassi ora la commedia  con  questa  mia  indifferenza,  avresti  ragione  di
piagnucolare; ma sai che parlo come penso, e che se dico di morire in  pace,  in
pace anche morrò. Soltanto ti confesso che mi duole all'anima di non  vedere  la
fine; ma è un malanno che è toccato a dieci generazioni prima della  mia  e  non
giova lamentarsene. Le mie azioni, le mie idee, il mio spirito  che  con  grande
studio e con qualche fatica ho educato ad amare ed a volere il bene,  soffocando
anche le passioni che lo dominavano, tutto io credo seguiterà a  servire  quella
meravigliosa provvidenza che va perfezionando l'ordine morale.  Ti  ricordi  dei
mondi concentrici  di  Goethe?  Non  saranno  una  verità;  ma  una  profonda  e
filosofica allegoria. I nostri sospiri le nostre parole si  ripercotono  lontano
lontano affievoliti sempre annullati  mai,  come  quei  cerchi  che  s'allargano
intorno a quel punto del lago che fu percosso da un  sasso.  La  vita  nasce  da
contrazione, la morte da espansione; ma la vitalità  universale  assorbe  in  sé
questi varii movimenti che sono per lei quasi funzioni di  visceri  diversi.  Io
ascoltava devotamente le parole di Lucilio, perché  rarissimi  sono  coloro  che
sanno volgere a vero conforto le alte speculazioni della filosofia, e  questo  è
privilegio concesso ai pochissimi  che  ebbero  da  natura  o  si  procacciarono
coll'educazione e colla forza della volontà la concordia intima  dei  sentimenti
coi pensieri. Certo io non era in grado di batter l'ali dietro  a  quell'aquila,
ma ne ammirava da terra il volo  luminoso,  consolandomi  di  vedere  che  altri
saliva col ragionamento ov'io di  sbalzo  m'era  stabilito  colla  coscienza.  -
Lucilio - gli risposi abbracciandolo nuovamente -  parlando  con  voi  mi  sento
proprio rinvigorire; questo è segno che le vostre sono idee vere e salutari.  Ma
per questo appunto non mi proibirete di  sperare  che  la  vostra  compagnia  ci
durerà piú lungo di quello che volete darci da intendere... - Ti prometto che ci
faremo buona e allegra compagnia; nulla di piú. Potrei anche dirti il tempo,  ma
non voglio farmi scornare come medico. Insomma son contento di me e  tanto  deve
bastare. - Desiderereste riveder la Clara? - gli chiesi io. - O ve ne è  passata
affatto la voglia? - No, no! - egli mi  rispose.  -  Anzi  intendo  vederla  per
contemplare ancora una volta il fine  diverso  di  un'istessa  passione  in  due
temperamenti  diversi,  e  diversamente  educati.  Imparare  piú  che  si   può,
dev'essere la legge suprema delle anime. Questa sete inestinguibile che  abbiamo
di sapere e che ci tormenta fino  all'istante  supremo  non  dipende  da  motivo
alcuno apparente alla ragione individuale. Essa  può  benissimo  rilevare  dalla
necessità d'un ordine piú vasto che si dilata oltre la morte. Impariamo  dunque,
impariamo!... La natura sembra disperdere la pioggia a capriccio; ma ogni goccia
per quanto minuta per quanto infinitesima è bevuta dalla terra, e trascorre  poi
per meati invisibili dove la richiama la soverchia aridità. L'ozio è un  trovato
della imbecillità umana; nella natura non v'è ozio, né cosa che sia  inutile.  -
Dunque guarderete la Clara come il notomista  che  indaga  un  cadavere?  -  No,
Carlo, ma guarderò lei come guardo me: per convincermi sempre piú,  anche  nelle
obiezioni apparenti dei fatti, che una ragione solo sommove  spinge  ed  acqueta
quest'umanità varia ed immensa; per provare ancora una volta colla costanza  de'
miei affetti, che essi tendono ad un'esistenza piú vasta,  ad  un  contentamento
piú libero e pieno che non si possa ottenere in  questa  fase  umana  dell'esser
nostro. Perché se cosí non fosse, Carlo, io sarei ben  pazzo  ad  amare  chi  mi
affligge e mi disprezza; ma un'intima coscienza mi assicura che non  sono  pazzo
per nulla, e che il mio giudizio è tanto retto tanto imparziale come può esserlo
quello d'altr'uomo al mondo. -  Ascoltatemi,  com'è  che  non  vi  udii  mai  né
stupirvi né  sdegnarvi  per  l'incredibile  cambiamento  della  Clara  a  vostro
riguardo? Gli è già un pezzo che voleva chiedervene: ma mi sembra caso anche piú
maraviglioso della stessa pertinacia dell'amor vostro. - Com'è  che  non  me  ne
stupii, e non ne ebbi sdegno? È piano il chiarirtelo.  La  Clara  aveva  l'anima
disposta alle sublimi illusioni; e non poteva maravigliare di vedermela sfuggire
per quella via; massime che io svagato da diversi pensieri m'era abbandonato  ad
una stupida sicurezza. Le donne ci possono fuggire per di sotto; allora è facile
racquistarle ed è la disgrazia piú comune, e il pericolo generalmente temuto. Io
che mi sentiva certo da quella parte, non pensai all'altra. Guai guai quand'elle
ci sfuggono per di sopra!... L'inseguirle è inutile, richiamarle è vano;  nessun
piacere è piú grande della voluttà dei sacrifizi, nessun ragionamento  vince  la
fede, nessuna pietà  le  distoglie  dalla  considerazione  assoluta  delle  cose
eterne!... E le donne, vedete, hanno maggior facilità di  noi  a  vivere,  direi
quasi, oltre la vita. Come medico io ebbi occasione di  convincermi  che  nessun
uomo  per  quanto  forte  e  sventurato   uguaglia   una   misera   donnicciuola
nell'indifferenza della morte. Sembra ch'esse  abbiano  piú  chiaro  di  noi  il
presentimento d'una vita futura. Quanto poi al non aver preso in ira  la  Clara,
prima di tutto, scusami, ma l'ira è sentimento da ragazzi;  io  poi  non  l'ebbi
contro di lei perché la sua non fu ingiustizia ma allucinazione: ella credeva di
amarmi meglio a quel modo, e di procurarmi non un piacer mondano e  passeggiero,
ma una contentezza celeste ed eterna. Figurati! Doveva anzi esserlene grato.  Io
ammirai la facilità colla quale Lucilio subordinava alla ragione i piú fuggevoli
e involontari movimenti dell'animo. A forza di  costanza  e  di  esercizio  egli
governava se stesso come un orologio; e passioni affetti pensieri si  aggiravano
in quel modo ch'egli avea loro prefisso. Bensí  non  si  poteva  dire  che  egli
sentisse fiaccamente; anzi a conoscerlo bene bisognava confessare  che  soltanto
con una pressura quasi sovrannaturale di volontà egli  potea  giungere  a  tener
regolate e compresse le passioni che lo agitavano. Lucilio e la Clara si  videro
quasi tutte le sere durante quell'inverno, e la  conversazione  di  casa  Fratta
ebbe piú volte a scandolezzarsi delle violente  scappate  del  vecchio  dottore.
Augusto Cisterna andava dicendo che si dovea perdonargli per la vecchiaia, ma la
Clara portava piú oltre la tolleranza, affermando che era sempre stato  pazzo  a
quel modo e che Dio lo avrebbe scusato pei suoi buoni motivi.  Ella  aveva  gran
cura di non porre gli occhi addosso al dottore, forse perché cosí  s'era  votata
di fare uscendo di convento; ma del resto tanta era la semplicità della sua fede
e la ingenuità delle maniere che Lucilio ne sorrideva piú di ammirazione che  di
scherno. Quello  che  si  era  mostrato  contentissimo  di  rivedere  il  dottor
Vianello, fu, non ve lo immaginereste mai, il conte Rinaldo. Ma ve ne spiego ora
il motivo. Dalle sue diuturne incubazioni sui libri  delle  biblioteche  era  in
procinto di nascere qualche cosa; un operone colossale sul commercio  di  Veneti
da Attila a Carlo Quinto nel quale  l'arditezza  delle  ipotesi,  la  copia  dei
documenti e l'acume della critica si sussidiavano a vicenda mirabilmente, come a
quel tempo mi diceva Lucilio. Questi poi  riuscí  molto  comodo  all'autore  per
l'esame di certi punti parziali sui quali lo  sapeva  profondamente  erudito;  e
infatti corressero insieme  qualche  proposta,  ne  ammendarono  qualche  altra.
Lucilio faceva le grandi maraviglie di scoprire tanto tesoro di sapienza e tanto
fervore d'amor  patrio  in  quell'omiciattolo  sucido  e  brontolone  del  conte
Rinaldo; ma insieme anche indovinava le cause del fenomeno. - Ecco - diceva egli
- ecco come si sfruttano, in tempo di errori e di ozii nazionali, le  menti  che
vedono giusto e lontano, e le forze che non consentono di  poltrire!...  I  loro
affetti la loro  attività  si  sprecano  a  rianimare  le  mummie;  non  potendo
migliorare le istituzioni e studiare ed amar gli uomini, scavano antiche lapidi,
macigni frantumati, e studiano ed amano quelli. È il destino  quasi  comune  dei
nostri letterati! Ma Lucilio diceva troppo. Perché con Alfieri con  Foscolo  con
Manzoni con Pellico era già cresciuta una  diversa  famiglia  di  letterati  che
onorava sí le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr'esse:  e  sfidava  o
benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che  insuperbí  di  quella
ragione alla quale malediceva, Giusti che flagellò i  contemporanei  eccitandoli
ad un rinnovamento morale, sono rampolli di quella famiglia sventurata ma  viva,
e vogliosa di vivere. Il disperato cantore della  Ginestra  e  di  Bruto  sapeva
meglio degli altri che soltanto la lunghezza della vita può sollevar  l'anima  a
quella  sublimità  di  scienza  che  comprende  d'uno  sguardo  tutto  il  mondo
metafisico e non s'arresta ai gemiti fanciulleschi d'un uomo che si  spaura  del
buio. Giulio, il mio figliuoletto, si sarebbe assai vantaggiato della  compagnia
e della conversazione di Lucilio se questi fosse rimasto piú a lungo con noi. Ma
pur troppo il suo male si aggravò all'aprirsi della primavera, e giusta  le  sue
previsioni lo condusse ben presto a morire. Egli spirò guardandomi fieramente in
volto quasi mi vietasse di compiangerlo; la  Clara  era  nell'altra  camera  che
pregava per lui, e l'ultima parola del moribondo fu  questa:  -  Ringraziala!  -
Infatti io la ringraziai, ma non  sapeva  bene  di  cosa.  Per  quanto  l'avessi
pregata non avea consentito a  consolare  il  morente  della  sua  presenza;  ma
siccome ella faceva uno studio peculiare di attraversare le proprie voglie, cosí
mi è lecito il credere che ne sentiva anzi desiderio; e che offerse  anche  quel
sacrifizio per maggior bene dell'anima di lui. Io  rimasi  piú  meditabondo  che
addolorato dopo la perdita di Lucilio; ma mi diede molta stizza il  piacere  che
ne dimostrò mia moglie senza  alcun  riguardo.  Secondo  lei  la  frequenza  del
dottore in casa nostra metteva a pericolo la moralità de' suoi figliuoli, e  Dio
le avea fatto una grazia segnalata mandandolo all'ultima  dimora  che  gli  avea
destinata. Quel giorno appiccai coll'Aquilina una  furiosa  battaglia,  che  non
passò senza lagrime e senza strepiti; ma pazientava anche  troppo,  e  una  tale
ingiustizia mescolata a tutto  potere  di  riconoscenza,  meritava  le  scopate.
Confesso che io né ebbi né avrò mai la serena pacatezza di Lucilio. Del resto la
morte di questo come già quella della Pisana mi persuase sempre piú che ad esser
forti e generosi c'è sempre da guadagnare. Non foss'altro si muore allegramente:
e questa, oltrecché ventura desiderabilissima, è anche la pietra del paragone su
cui si differenziano i galantuomini dai tristi. Durante la  vita  c'è  di  mezzo
l'ipocrisia; ma sul gran punto!!... Eh, credetelo, amici  miei,  non  si  ha  né
tempo né voglia di far la commedia. E il castigo piú  grande  e  piú  certo  dei
birbanti è quello di morire tremando. Nel riandare la mia storia io penso sempre
alla margheritina, a quel modesto  fiorellino  dal  botton  d'oro  e  dai  raggi
bianchi, sul quale le zitelle traggono il pronostico d'amore.  Una  per  una  le
cavano tutte le foglie, finché resta solo l'ultima, e cosí  siamo  noi  che  dei
compagni coi quali venimmo camminando lungo i sentieri della vita, uno cade oggi
l'altro domani e ci troviamo poi soli, melanconici nel deserto della  vecchiaia.
Alla morte di Lucilio tenne dietro quella di mio cognato, Spiro, la quale ci  fu
annunciata da Luciano e raddoppiò il lutto del mio cuore. Quanto a lui, egli non
pensava piú di abbandonare la Grecia ed  io  l'avea  preveduto  che  l'ambizione
dovea soperchiare in quel giovane  qualunque  altro  sentimento.  S'era  un  po'
scoraggiato dopo l'assassinamento del conte Capodistria, ma  poi  all'assunzione
al trono di re Ottone aveva ottenuto un buon posto nel Ministero della guerra, e
di colà agognava i posti piú alti coll'avida pazienza del cane che mette il muso
sul ginocchio del padrone per aver un tozzo del suo pane. Di  noi,  di  Venezia,
dell'Italia egli  non  parlava  piú  che  come  di  altrettante  curiosità:  piú
affettuosamente forse mi scriveva sua moglie,  benché  dai  figliuoli  di  Spiro
sapessi che non la trattava molto bene. E già s'intende che della trascuranza di
Luciano mia moglie seguitava ad  accagionar  me  come  della  morte  di  Donato.
Peraltro nei  due  o  tre  anni  che  seguirono,  disgrazie  che  colpirono  piú
direttamente lei me la resero un po' piú indulgente;  e  di  ciò  ebbi  ed  avrò
sempre rimorso pei grandi malanni che provennero dalla mia fiacca indulgenza. Le
mancarono ad uno ad uno tutti i suoi fratelli, e non restava piú  che  Bruto  il
quale sopportava  assai  lietamente  il  crescer  degli  anni,  e  solamente  si
lamentava che il destino gli prefiggesse per dimora Venezia ove gli  spessissimi
ponti davano un soverchio incommodo alla sua gamba di legno. Cosí  noi  andavamo
pian piano scadendo verso la vecchiaia,  mentre  il  paese  racquistava  la  sua
gioventù, e quello che seguí poi prova abbastanza  che  tutti  quegli  anni  non
furono né perduti né dormiti come cianciano i pessimisti. Dal nulla nasce nulla:
è assioma senza risposta.


CAPITOLO VENTESIMOSECONDO

Nel quale è dimostrato a conforto dei letterati come il conte Rinaldo  scrivendo
la sua famosa opera sul Commercio dei Veneti si consolasse pienamente della  sua
miseria. Tristissima piega di mio figlio  Giulio  e  temperamento  comico  della
piccola Pisana. I giovani d'adesso valgono assai meglio dei giovani d'una volta;
e sbagliando s'impara, quando si sa ciò che si vuole e si vuole ciò che si deve.
Fuga di Giulio e visita dei vecchi amici.  Feste  e  lutti  pubblici  e  privati
durante il 1848. Ritorno in Friuli, dove alcuni  anni  dopo  ricevo  la  notizia
della morte di mio figlio.

Vi sarete accorti che di tutte le professioni cui io mi dedicai,  a  nessuna  mi
avea condotto il mio libero arbitrio; e che o  la  volontà  degli  altri,  o  la
necessità del momento, o un concorso straordinario di circostanze m'aveano  dato
in mano il partito bell'e fatto senza ch'io potessi pur ragionarci sopra.  Nella
negoziatura poi io m'era immischiato per puro riguardo a mio cognato; e  se  non
me ne stolsi quando la ditta Apostulos ebbe finito  di  liquidare  i  conti,  fu
solamente perché il maneggio commerciale de' miei piccoli capitali mi serviva  a
parar innanzi la famiglia. Intorno al  quaranta  peraltro  essendo  io  divenuto
vecchio e debole ancora negli occhi, e sommando già la mia sostanza a tanto  che
anche impiegata in fondi poteva darmi di che vivere, deliberai ritirarmi affatto
dal commercio. A ciò fare m'ingegnava da qualche tempo, quando l'Internunziatura
di Costantinopoli mi diede  avviso  che  il  governo  ottomano  avea  finalmente
riconosciuto in parte il credito di mio padre; e che se non la piú grossa  somma
della quale si ritenevano debitori gli eredi del Gran Visir d'allora, almeno  un
rilevante capitale mi sarebbe pagato. Lucilio, tre quattr'anni prima m'avea  già
avvertito che l'Ambasceria  inglese  non  avea  trascurato  quest'affare  e  che
solamente lo rallentava il misero stato delle finanze della  Porta,  ma  io  non
avrei mai creduto che si dovesse giungere  a  qualche  risultato:  e  perciò  mi
parvero un grazioso presente le ottantamila piastre che  mi  furono  contate,  e
quanto agli eredi del Visir li  lasciai  in  pace  perché  mio  figlio  Luciano,
incaricato di prenderne contezza, aveva risposto ch'erano tutta gente  oscura  e
miserabile. Tra le ottantamila piastre e i trentamila ducati che  mi  fruttò  la
liquidazione finale dei miei conti, formai una bella somma, colla quale comperai
un grande e bel podere intorno alla casa Provedoni di  Cordovado,  nonché  molti
fondi del patrimonio Frumier, dei quali il  dottor  Domenico  Fulgenzio  cercava
sbarazzarsi per adoperare piú liberamente la propria  sostanza  nel  circuire  e
incorporarsi quella degli altri. Tuttavia l'educazione di Giulio  consigliandoci
la dimora in città, continuammo ad abitare la mia casa paterna di  Venezia:  pei
due mesi d'autunno si prendeva a pigione un casino sul Brenta  e  là  si  godeva
dell'aria libera e  d'una  compagnevole  villeggiatura.  A  poco  a  poco  m'era
avvezzato a Venezia, ch'era diventato anch'io come quel dabbenuomo che non potea
vivere un giorno senza vedere il campanile di San  Marco.  E  non  vi  dirò  del
campanile, ma certo la chiesa, le Procuratie,  il  Palazzo  Ducale  li  rivedeva
sempre con un piacere misto di dolcissima melanconia quando il  San  Martino  ci
faceva dar le spalle alla campagna. Bruto invece, che colla sua gamba  di  legno
si trovava meglio d'assai in terraferma, ci serviva volonterosamente da fattore;
e gran parte della buona stagione la  passava  in  Friuli,  dove  anche  la  sua
presenza era utile per uno sciame di nipoti d'ogni  sesso  ed  età  che  avevano
lasciato i suoi fratelli e ch'egli si studiava alla bell'e meglio di beneficare.
Io per me aveva provveduto a tutti i figliuoli di Donato e della Bradamante. Due
ragazze erano maritate assai decentemente una a Portogruaro l'altra a San  Vito;
e dei giovani l'uno guadagnava il bisogno nella sua professione di  veterinario,
l'altro attendeva alle cose sue, e dall'affitto della spezieria  e  da  uno  dei
miei poderi che gli  aveva  ceduto  da  amministrare,  ricavava  abbastanza  per
ristorar la famiglia delle sofferte sciagure. Quelli invece che andavano di male
in peggio erano i Conti di Fratta. Sarà stata una sciocchezza  ma  a  me  doleva
sempre e ne duol tuttavia di vedersi  spegnere  la  famiglia  della  Pisana.  Il
dissesto poi d'ogni loro fortuna non era pareggiato che  dalla  stoica  felicità
colla quale lo sopportavano.  Rinaldo  con  compere  di  libri  e  con  neglette
esazioni; la Clara con improvvide beneficenze, ognuno dal canto  suo  avea  dato
fondo ai rimasugli del proprio avere. Rimanevano ancora due  o  tre  coloni  con
un'ala  cadente  del  castello  e  due  torri  sfiancate,  ma  gli  affitti   si
disperdevano a  destra  e  a  sinistra  nelle  mani  rabbiose  e  litiganti  dei
creditori: non un quattrino ne giungeva a Venezia, quando mai si avrebbe  potuto
scrivere colà che ne mandassero. Ma bisogna rendere questa giustizia agli ultimi
rappresentanti dell'illustre prosapia dei Conti di Fratta, erano tanto restii  a
pagare come noncuranti di riscuotere. Il conte Rinaldo adunque  e  la  reverenda
Clara si trovavano ridotti all'entrata di un ducato al giorno, piú le  tre  lire
venete che la signora riceveva dall'Erario pubblico come patrizia bisognosa.  Ma
lo vedete bene che non c'era da gozzovigliare; e infatti l'anno non era per loro
che una lunga quaresima. Fortuna che la signora per le sue estasi  serafiche  ed
il Conte per le continue distrazioni della scienza non aveano  tempo  di  badare
allo stomaco. S'assottigliavano ogni giorno piú, ma senza accorgersene; e  credo
che si sarebbero avvezzati a viver d'aria come l'asino  d'Arlecchino.  Certo  mi
ricordo che un giorno avendo io domandato alla contessa Clara  perché  pigliasse
tanti caffè, minacciata com'era da una paralisi,  mi  rispose  che  il  caffè  a
Venezia costava poco e ne beveva assai per far  senza  brodo.  Tra  il  caffè  e
l'aria, in punto di nutrizione credo che ci sia  pochissima  differenza.  Notate
che qualunque donnicciuola si fosse presentata alla loro porta  piagnucolando  e
paternostrando era certa di non partire che dopo aver ricevuto  un  soldo  o  un
tozzo di pane. Son certo che la Clara al suo peggior nemico, se lo avesse avuto,
avrebbe fatto parte dell'ultimo caffè, e datoglielo anche  tutto,  se  si  fosse
imbronciato del poco. Il conte Rinaldo intanto cercava per mare e per  terra  un
editore della sua opera; ma pur troppo non  lo  trovava.  Le  ricchezze  s'erano
accresciute notevolmente in quella lunga pace, non tanto forse quanto si voleva,
ma certo cresciute erano; il senso pubblico  e  l'educazione  aveano  migliorato
assai benché a rilento e quasi a ritroso delle circostanze; ma non  si  guardava
tanto lontano e la carità patria cercava bisogni presenti da soddisfare,  piaghe
da sanare, desiderii da adempiere, non glorie remote  da  ravvivare,  o  vecchie
eredità passive da raccogliere. Un inno manzoniano in onore della strada ferrata
che si progettava allora  per  congiungere  Milano  a  Venezia  avrebbe  trovato
editori compratori e  lodatori;  ma  un'opera  voluminosa  sul  commercio  degli
antichi Veneti non stuzzicava la curiosità del pubblico, e non dava speranza  ai
librai di guadagnarci gran fatto. Perciò facevano tanto di  cappello  al  signor
Conte, e dopo aver pesato colla mano  il  suo  manoscritto  glielo  restituivano
garbatamente senza pur volerlo leggere. Indarno egli si sfiatava  a  persuaderli
di  esaminare  l'opera  sua  per  conoscerne  il  valore  e  l'estensione;  essi
rispondevano che la reputavano  un  capolavoro,  ma  che  i  lettori  non  erano
preparati a cose tanto sublimi e profonde, e che se lo  scrittore  secondava  le
proprie idee, agli stampatori invece si  conveniva  di  soddisfare  ai  desideri
della gente. Il conte Rinaldo aveva la modestia  del  vero  merito,  ma  insieme
anche la dignità naturale di chi è sinceramente modesto. Perciò non s'abbassava,
come dice il volgo,  a  leccar  le  scarpe  di  nessuno,  e  tornava  nella  sua
solitudine a vendicarsi nobilmente e  a  consolarsi  dei  sofferti  rifiuti  col
limare correggere ed emendare il proprio lavoro. Trent'anni di studi di ricerche
di meditazioni non gli sembravano sufficienti; ed ogni giorno gli  saltava  agli
occhi qualche passo dove una piú larga critica avrebbe rischiarato  le  idee,  o
avviato meglio il lettore a comprendere lo spirito dell'autore. Per poco non era
grato agli editori che gli aveano lasciato il tempo di lumeggiar meglio  qualche
parte del quadro e ritoccare il disegno. Ma poi quando tornava a credere di aver
finito, e si rimetteva in giro per le botteghe dei librai  col  suo  manoscritto
sotto il tabarro, gli toccavano sempre le uguali repulse condite da ultimo anche
da  qualche  motteggio  e  dalle  sgrugnate  dei  meno  cortesi.  Consigliato  a
rivolgersi agli editori  piú  noti  delle  altre  città,  cominciò  un  ostinato
carteggio  con  Firenze  con  Milano  con  Torino  con  Napoli.  I  piú  neanche
rispondevano; qualcheduno che serbava rispetto al Galateo lo invitava a  mandare
saggi della sua opera. Ed eccotelo il  dabbenuomo,  a  scegliere  a  ripulire  a
trascrivere ancora: ma in fin dei conti capitava una lettera che  trovava  o  lo
stile troppo astruso o l'argomento troppo alieno dagli  studi  presenti;  lo  si
invitava a  scrivere  di  statistica  e  d'economia,  che  sarebbe  decentemente
retribuito, ma in quanto a quei  lavori  monumentali  d'erudizione  storica  non
s'affacevano al nostro secolo. Il  povero  Conte  metteva  anche  quelle  ultime
lusinghe nella cantera delle illusioni svanite; ma ne aveva una tal provvista da
frustar ancora, che corsero parecchi anni prima che si persuadesse dell'assoluta
impossibilità di trovare un editore per la Storia Critica del Commercio  Veneto.
Gli capitò in mente che farsi  raccomandare  da  qualche  uomo  già  noto  nella
letteratura e nelle scienze poteva giovargli assai;  ma  siccome  non  conosceva
alcuno si consultò intorno a questo partito col cavalier Frumier. Figuratevi che
bazza! Il Cavaliere dopo la morte della dama Dolfin non  aveva  piú  racquistato
l'uso dei sensi, e a parlare a lui di letterati e di scienziati, era  lo  stesso
come farsi narrare la storia letteraria del secolo scorso. Egli non  veniva  piú
in qua dell'abate Cesarotti e del conte Gaspare Gozzi; sicché diede assai scarso
conforto al cugino. Il conte Rinaldo allora deliberò di fare da sé, e cominciò a
vendere tutto quello che aveva ancora di vendibile per cominciare se  non  altro
la stampa; dopo dati alla luce  i  primi  fascicoli  confidava  nel  favore  del
pubblico che non  poteva  mancare  ad  un'opera  di  decoro  patrio  e  di  alta
importanza storica. La signora Clara bevette d'allora in  poi  un  piú  moderato
numero di caffè, egli si tolse perfino il pane di bocca  per  raggranellare  piú
presto quelle cinquecento lire che abbisognavano alla stampa dei  quattro  primi
capitoli.  Come  poi  le  ebbe  in  tasca,  andò  dal  tipografo,  e  senza  pur
contrattare, le depose sul banco dicendo trionfalmente:  -  Stampatemi  piú  che
potete del mio manoscritto.  -  In  qual  sesto  lo  comanda,  quante  copie  ne
desidera, vuol distribuire schede d'associazione o  farne  senza?  -  chiese  lo
stampatore. Tutte cose delle quali Rinaldo non s'intendeva un'acca.  Ma  fattosi
dichiarare ogni cosa pel minuto, rimasero d'accordo che si sarebbero sparse  per
tutta Italia quattromila schede di  associazione  con  quattro  parole  d'invito
contenenti i sommi capi dell'opera, e che si sarebbero stampate mille copie  del
primo fascicolo in ottavo grande. Il Conte tornò a  casa  che  non  toccava  coi
piedi il selciato; e le tre settimane che impiegò  a  correre  dalla  casa  alla
stamperia, rivedendo bozze, emendando errori, cambiando vocaboli  e  aggiungendo
postille furono per lui il tempo piú felice della vita, quello che sarebbe stato
il primo amore ad un giovinetto qualunque. Ma lo stampatore non partecipava gran
fatto di questo  eccesso  di  giubilo;  le  schede  non  tornavano  colle  firme
desiderate; e appena era se in Venezia e nelle città vicine se n'erano  raccolte
un paio di dozzine. Queste poi capitavano loro per mezzo dei commessi librari  e
si sa quanto stenti il denaro a rifluire per questi incerti canali. Peraltro  il
Conte era sicuro di veder stampato entro  un  mese  il  suo  primo  fascicolo  e
dormiva sulle rose. Ebbe sí a litigare  colla  censura  per  qualche  frase  per
qualche periodo, ma erano correzioni che  non  intaccavano  menomamente  l'opera
d'importanza, e le concesse volentieri.  Cosí  finalmente  venne  alla  luce  il
famoso frontespizio coi quattro capitoli che gli tenevano  dietro,  e  il  conte
Rinaldo ebbe la straordinaria consolazione di poter contemplare i cartoni  della
sua opera nelle vetrine dei librai. A questa consolazione tenne  dietro  l'altra
non meno vitale di udirne strombettar il titolo sui giornali, e  di  vederne  la
critica tirata giù a campane  doppie  in  qualche  appendice.  Fu  il  primo  un
giornale di Milano a lodare l'intento e la profonda erudizione del libro, nonché
il grande valor pratico che poteva acquistare anco per l'odierno commercio,  ove
concorressero circostanze tali che lo avviassero a  ritentare  gli  scali  d'una
volta. Si parlava  in  quel  cenno  critico  delle  Indie,  della  China,  delle
Molucche, dell'Inghilterra, della Russia, dell'oppio, del pepe e della paglia di
riso, di Mehemet Alí, dell'Impero birmano e del taglio dell'istmo  di  Suez,  di
tutto insomma fuorché del lavoro di Rinaldo e della mercatura e  degli  istituti
commerciali veneziani durante il Medio Evo. Tuttavia Rinaldo  se  ne  accontentò
perché infatti l'intento  patriottico  e  la  critica  vasta  e  profonda  erano
designati come i pregi principali; il che era vero e l'autore sel  sapeva,  come
seppe buon grado al giornalista di aver letto e interpretato  a  dovere  l'opera
sua. Un diario toscano copiò nella sostanza il giudizio  del  giornale  milanese
aggiungendo qualche cosa del suo, e dando a divedere con queste aggiunte di aver
al piú malamente sfogliazzato quel libro. Ma dopo cominciarono a comparire qua e
là cento critiche, cento giudizi gli uni  piú  strambi  degli  altri,  ricalcati
servilmente e variati a piacere da quelle prime  relazioni.  Si  accorgeva  alle
prime che gli scrittori conoscevano il libro appena nel  titolo,  e  non  aveano
forse neppur pensato due volte a questo, perché un dotto pubblicista  di  Torino
ebbe a raccomandare lo studio del Conte di Fratta come  un  ottimo  manuale  per
quei commercianti  che  vogliono  aiutare  la  pratica  dei  loro  negozi  colle
speculazioni della moderna economia. Leggendo quest'ultimo  giudizio  il  povero
autore si stropicciò gli occhi, e credette aver  straveduto  o  che  almeno  non
parlassero di lui e della sua opera. Ma poi ci tornò sopra e se ne persuase  pur
troppo. - Razza  di  somari!  -  mormorò  egli  fra  i  denti.  -  Pazienza  non
comperarlo, pazienza non  leggerlo!  Ma  non  intendere  nemmeno  il  titolo!...
Giudicarlo a rompicollo prima  di  osservarne  il  frontespizio!...  Questa  poi
trascende ogni misura, e dico il vero che vorrei piuttosto essere  lacerato  che
lodato da simile genia di aristarchi. Era vissuto fino allora nelle  biblioteche
il conte Rinaldo e non sapeva che quelli non erano tempi da perdersi in letture.
E che si lodava e si biasimava senza leggere, appunto perché si  apprezzava  piú
lo spirito e l'intento che il valore scientifico e la forma delle opere.  Ognuno
diceva al vicino: "leggi quel libro che a primo assaggio mi parve buono!". Ma le
parole passavano e il libro restava in bottega. Piuttosto si correva a  divorare
le recentissime di qualche giornale. Io  non  voglio  dire  che  non  restassero
studiosi di polso che avean tempo a tutto; ma la gioventù, la gran  consumatrice
dei libri nuovi, era  troppo  occupata.  Volendo  tener  dietro  ai  chiassi  ai
trastulli agli amorazzi nei quali  era  cresciuta  e  alle  nuove  passioni  che
fermentavano nelle combriccole, non era bastevole un'anima per individuo. Allora
appunto era morto Gregorio XVI, al  quale  succedette  nella  sedia  pontificale
Giovanni Mastai Ferretti sotto il nome di Pio IX. Chi al leggere questo nome non
lo sente rimormorare sulle labbra, come una nota  melodia  che  ci  ronza  negli
orecchi lungo tempo dopo averla ascoltata?... Pio IX era anzitutto  sacerdote  e
papa e lo si volle trasformare in un Giulio II  pontefice  e  soldato;  fu  come
quando si travede in una nuvola un simbolo una figura che chi l'ha  in  capo  la
ravvisa, ma invano si cercherebbe farla vedere agli altri. Allora il nuovo  Papa
o non capí o non volle capire il significato di quegli applausi che lo portavano
a cielo, e tacendo diede ragione a chi sperava da lui  piú  forse  che  non  era
disposto a concedere. Non so se l'entusiasmo fosse di moda o la  moda  generasse
l'entusiasmo; so che entusiasmo e moda  pervennero  dal  bisogno  universalmente
sentito  di  ricoverare  le  proprie  speranze  dietro  un  vessillo  santo   ed
inviolabile: non v'avea né  congiura,  né  impostura,  era  saviezza  d'istinto.
Questi avvenimenti che rompevano la lunga sonnolenza  d'Italia  non  secondarono
per nulla l'impresa tipografica del conte Rinaldo; certo anche in  tempi  soliti
non avrebbe guadagnato dal primo fascicolo di che aiutare  almeno  per  metà  la
stampa del secondo, ma allora poi non ci cavò uno scudo che  l'è  uno  scudo.  E
quello che è piú curioso, toccò anche a lui dimenticarsi del proprio  libro  per
correre cogli altri in piazza a gridare: Viva Pio IX! Sua  sorella  era  fra  le
meglio invasate pel nuovo Pontefice; ne parlava come d'un profeta,  e  tutta  la
sua conversazione se n'era scandolezzata perché mai piú  s'immaginavano  che  la
vecchia bigotta, la badessa emerita di Santa Teresa plaudisse di gran  cuore  ad
una papa che tirava piú al politico che al sacerdotale;  almeno  cosí  credevano
allora. Ma ignoravano forse il perché la Clara si era fatta bigotta e monaca,  e
a quali condizioni s'era obbligata verso Domeneddio all'osservanza dei voti.  Io
non lo sapeva ancora di sicuro; ma  da  qualche  mezza  parola  credeva  già  di
poterlo indovinare. Intanto in mezzo a questi torbidi il danaro  si  faceva  piú
raro che mai; e fu allora che il conte Rinaldo mandò un ordine  urgente  al  suo
castaldo di Fratta che gli si spedisse qualche soldo ad ogni costo; e il  povero
contadino si tolse d'impiccio vendendo i materiali che rimanevano del castello e
anticipandone al padrone il prezzo. Il Conte con quella sommetta voleva  aiutare
la fondazione d'un giornale patriottico in non so qual città  di  terraferma;  e
cosí anche allora il danaro gli scappò dalle dita, e Clara rimase  senza  caffè,
ed egli con poco pane: ma l'una pregando, l'altro leggendo  e  fantasticando  si
difendevano valorosamente contro la fame. Qualche volta  io  ebbi  la  cristiana
previdenza d'invitarlo a pranzo, ma era tanto svagato che benché sovente  avesse
nello stomaco l'appetito vecchio d'un paio di giorni, si smemorava dell'ora  del
pranzo e non veniva che alle frutta. Peraltro rimesse che furono in movimento le
mascelle mostravano assai buona memoria del digiuno e una discreta previdenza di
non volerlo patire per un buon pezzettino di futuro. Questo era il poco bene che
poteva operare a vantaggio de' miei cugini, dei fratelli della Pisana; del resto
non aveva il coraggio di esibirmi conoscendo la loro permalosa  delicatezza;  ed
anche qualche libbra di caffè di cui l'Aquilina regalava la Clara,  la  facevano
giungere a loro di soppiatto per mezzo della serva. Confesso la verità che negli
anni antecedenti quei due stampi singolari  mi  erano  oltremodo  antipatici,  e
durava fatica a sopportarli pensando di qual sangue erano; ma mano a mano che  i
tempi minacciavano scuri e temporaleschi mi riappaciava con loro, e  serbava  la
mia bile contro la gente che li circondava. Là si vide il doppio  intento  d'una
condotta e d'un modo di pensare che pareva uguale ed era tutt'altro:  l'Ormenta,
i Cisterna e i loro satelliti pensavano all'utile proprio, alla sicura  comodità
della vita sotto la scusa della gloria di Dio; Rinaldo e la Clara operavano  per
la gloria di Dio in tutto e per tutto, e la sostanza i commodi la vita avrebbero
sacrificato allegramente per quel santissimo scopo. Gli è vero forse  che  anche
la gloria di Dio la intendevano assai diversamente tra fratello e sorella, ma ad
ogni modo nelle azioni e nell'opinion loro uno scopo ideale c'era; e picchiavano
anch'essi le mani e si univano al generale entusiasmo, mentre il dottor  Ormenta
guardava sospettoso dalla finestra e  mandava  il  canchero  nel  cuore  a  quei
maledetti gridatori. Tuttavia all'occasione gridava quant'ogni altra buona gola;
e non si faceva grattar la pancia come le cicale. Mio figlio intanto era  andato
inzaccherandosi sempre piú in sí trista compagnia: e per quanto mi studiassi  di
sollevargli la mente dalle cose basse e materiali e di tenergli viva la gioventù
dello spirito, egli non mi badava piú che tanto e mi pareva piú  vecchio  lui  a
ventidue anni che non fossi io a settanta. Piú anche mi studiava di  volgerlo  a
sentimenti forti e generosi in  quegli  ultimi  anni  quando  m'accorgeva  delle
vicende che ci pendevano sopra,  e  sentendomi  già  poco  meno  che  decrepito,
l'avrei dovuto lasciare senza guida nei momenti in  cui  piú  forse  ne  avrebbe
abbisognato. Ma il sozzo dolciume dei vizii gli aveva troppo guasto il palato, e
quei  pervertitori  della  gioventù  lo  avevano  persuaso   che   fuori   della
tranquillità, della  buona  tavola  e  del  buon  letto,  non  sono  altre  cose
desiderabili al mondo; cotali opinioni le ostentava come segno di animo forte  e
d'indipendenza filosofica, facendosi merito di sprezzare  la  puerilità  di  chi
metteva gran parte delle sue speranze nel  contentamento  di  qualche  desiderio
meno umile. Era la reazione contro il romanticismo, della quale quei volponi  si
giovavano per fuorviare i giovani secondo il loro  interesse.  E  siccome  altri
giovani di piú matura esperienza o piú rettamente guidati si opponevano a quelli
colla parola coll'esempio, gridando che era un abbominio  il  negare  cosí  ogni
idealità delle vita, e il rendersi come porci in brago schiavi solo dei  commodi
e dei  godimenti;  quei  maestri  di  corruzione  soffiavano  che  eran  gridate
d'invidia e che non bisognava badarci, e che era tutto effetto  d'ipocrisia,  ma
che ci voleva coraggio per beffarsi delle predicazioni di quei  farisei.  Giulio
che era di volontà forte e ricisa non si buttava a mezzo in un partito: per  lui
quell'opporsi a visiera alzata alle censure dei puritani, come li chiamavano, fu
una prova di coraggio, e tanto essi lo biasimavano, d'altrettanto egli esagerava
la cinica scapestratezza dei costumi. Gioco, beverie, donne, erano  le  sue  tre
virtù principali; ne aveva molte altre di accessorie, e sopra tutte poi,  quella
ch'essi rimproveravano agli avversari, una profonda e spontanea ipocrisia. Messo
ch'egli aveva il piede oltre la soglia della casa, senza nemmeno pensarlo la sua
persona assumeva un contegno composto, la sfacciataggine e la  dissolutezza  gli
cadevano dagli occhi, e le labbra dimenticavano il solito frasario di  bordello.
Vicino a sua madre pareva un angelino; e quando io, per colpire il  lato  debole
di quell'educazione cui l'aveva avviato, ripeteva quanto  de'  suoi  costumi  mi
riferivano le pubbliche voci, ella mi smaniava  contro  gridando  che  le  erano
falsità, e che il suo Giulio bastava guardarlo per conoscerlo fin nel fondo  del
cuore. Che se egli non perdeva il capo  dietro  le  fantasticaggini  solite  dei
giovani, che  se  teneva  invece  al  sodo  e  cogli  uomini  posati,  bisognava
ringraziarne il cielo; e che già una tremenda lezione  l'avea  già  avuta  nella
fine di Donato. E lí rappiccava i soliti capi d'accusa; sui quali a me conveniva
scrollare le spalle ed andarmene per  non  udir  predicare  tutta  la  giornata.
Peraltro non potei far a meno di somministrar a Giulio una gran lavata di capo e
minacciarlo di peggio pel futuro quando alle solite voci che correvano  sul  suo
conto se ne aggiunsero di peggiori e quasi infami. Un amico del cavalier Frumier
mi avvertí aver udito raccontare d'una scena avvenuta in una bisca  a  proposito
di alcuni tagli di macao,  eseguiti,  a  quanto  dicevano,  da  mio  figlio  con
soverchia  destrezza.  Egli  non  avea  risposto  che  coi  pugni  all'importuno
osservatore, e questa maniera di  difendere  la  propria  onestà  non  gli  dava
ragione presso il giudizio dei piú. Giulio,  interpellato  da  me  sopra  questa
circostanza, rispose per la prima volta con qualche alterezza  che  egli  voleva
giocare a suo piacimento senza che altri gliene prescrivesse  il  modo,  che  si
beffava delle loro ciarle, ma che non voleva ricevere mali atti, e che  chi  era
malcontento de' suoi pugni se li facesse levare. Quanto  al  delitto  appostogli
non disse né sí né no: e vi scivolò sopra  con  qualche  confusione  lasciandomi
quasi persuaso che non glielo apponessero a torto.  Peraltro  aveva  ancora  una
lontana lusinga che quei suoi mali diportamenti provenissero da un amor  proprio
fuorviato, da una smania eccessiva di contraddizione, e che se ne sarebbe  forse
allontanato prima che, batti e ribatti, le petulanze diventassero  abitudini,  e
quelle  colpe  vizii.  Attendeva  a  questa  mia  speranza,  quando   in   mezzo
all'entusiasmo propagatosi per tutta Italia all'amnistia  concessa  da  Pio  IX,
Giulio fu appunto  il  solo  ch'ebbe  il  coraggio  di  opporsi  all'invasamento
universale; di deridere quelle feste quelle gridate  in  piazza,  e  di  chiamar
pazzi e femminette coloro che ci credevano. Non parlava e non agiva  forse  cosí
per antiveggenza politica, ma per mostra di eccentricità e di cinismo;  ad  ogni
modo, fosse  anche  stata  profonda  convinzione,  era  piú  sfacciataggine  che
coraggio manifestarla a quel modo, in quei momenti. Anche le illusioni  meritano
qualche volta rispetto, e cosí non bisogna sfiorare la  verginità  d'animo  d'un
garzoncello, come non è lecito infirmare la fiducia generosa d'un popolo, quando
la  fede  è  per  sé  una  forza  rigeneratrice.  Giulio  invece  motteggiava  e
beffeggiava senza riguardo; coloro stessi che forse meglio di lui erano persuasi
delle sue opinioni, e ai quali  tornava  conto  quell'opposizione,  in  pubblico
facean le viste di non  udire,  o  tirati  in  mezzo,  disertavano  lesti  lesti
all'entusiasmo dei piú. Giulio allora s'ostinava sempre piú e percotendo  a  due
mani  amici  e  nemici,  smascherava  la  doppiezza  di  quelli,  scherniva   la
dabbenaggine di questi, e si godeva di esser fuggito come il  corvo  dalle  male
nuove, e odiato come il paladino delle anticaglie e dello statu quo. Piú  l'odio
era generale piú si faceva un vanto  di  resistere;  e  fors'anco  cominciava  a
credere nella verità di alcune fra le sue idee; ma  raccolse  il  solito  frutto
della sua imprudenza. Gli uomini troppo assoluti e  sinceri  sono  caricati  per
solito delle  colpe  di  tutto  il  loro  partito,  e  Giulio  si  ebbe  addosso
l'esecrazione generale. Senza sapere appuntino tutte queste  vicende,  perché  i
parenti son gli ultimi  ad  aver  contezza  della  condotta  dei  figliuoli,  ne
subodorai abbastanza per metter Giulio in avvertenza di tutto il male che gliene
poteva intervenire. Egli mi rispose che della vita faceva omai il conto  ch'ella
merita, e che nulla di  male  poteva  intervenirgli  persuaso  com'era  che  non
fossero mali quelli che affliggono  solamente  l'immaginazione.  -  Bada,  bada,
Giulio! - io soggiunsi con voce di preghiera e quasi colle lagrime agli occhi. -
La vita non si compone soltanto di quello che tu  credi!  L'anima  tua  potrebbe
svegliarsi, sentir bisogno d'amore di stima... - Oh  padre  mio  -  m'interruppe
sogghignando il giovane - non parliamo di queste poesie! Transeat se gli  uomini
fossero savi giusti e perfetti, ma cosí come sono tanto importa posseder l'amore
e la stima del proprio cane che  quella  di  costoro.  Io  per  me  vi  rinunzio
volontieri e per sempre! - Non dir per sempre, Giulio,  ché  non  lo  puoi!  Sei
troppo giovane! (Egli sorrise, come tutti i  giovani,  quando  si  appunta  loro
mancanza d'esperienza). Quegli uomini che tu giudichi  cosí  pazzi  cosí  tristi
possono sollevarsi per uno  slancio  magnanimo  da  quella  solita  abiezione  e
riavere momenti sublimi di giustizia e di generosità!... Ora se tu,  Giulio,  in
quei momenti dovessi sopportare  il  loro  disprezzo,  credilo,  ti  spezzerebbe
l'anima, a meno che tu non abbia perduto ogni pudore ogni dignità umana. In quei
momenti non è l'ostracismo della pazzia e della nequizia che  soffrirai,  ma  la
sentenza della generosità e della giustizia!...  E  non  potrai  illuderti,  non
potrai difenderti!... Contro uno  contro  due  contro  dieci  potrai  insorgere,
fremere, vendicarti; ma contro l'opinione d'un popolo non  v'ha  riparo:  gli  è
come un incendio che  compresso  da  una  parte  divampa  subitaneo  e  maggiore
dall'altra!... In tanta sciagura uno solo  è  il  ricovero  che  la  Provvidenza
permette all'onest'uomo; il ricovero della coscienza. Ma  tu,  Giulio,  come  ti
troverai di faccia alla coscienza?... quali conforti ti darà essa? A te  che  ti
sei fatto una gloria di calpestare quanto di piú nobile di piú etereo  racchiude
l'umana speranza?... A te che professando un  disprezzo  profondo  degli  uomini
senza pur conoscerli, ti sei accostato ai peggiori, e hai con ciò dato  appiglio
a credere che tu disprezzi te stesso piú di ogni altro?... Via, rispondi; non ti
pare che fra i tuoi maestri, i tuoi amici, fra il dottor  Ormenta,  fra  Augusto
Cisterna, i suoi figliuoli e il resto della gente non corra alcun divario? Ma se
la gente accusa, vitupera, perseguita le azioni  di  quelli,  non  è  segno  che
almeno la coscienza pubblica è migliore della loro, e che v'è una vita possibile
possibilissima, e se non felice e dignitosa in tutto, certo piú degna di  quella
cui essi ti hanno invitato?... Temi, temi, Giulio, di esser  confuso  con  simil
razza di serpenti; temi che la contraddizione  non  ti  trascini  piú  oltre  di
quanto non vuoi; e che per la tua smania di distinguerti e  di  capitaneggiarti,
non ti si faccia carico dei delitti e dei vizii di coloro che stanno ora  dietro
a te, e che al maggior uopo avranno la furberia di lasciarti solo. -  Ti  sbagli
di grosso sul mio conto - rispose Giulio colla massima pacatezza e senza onorare
la mia predica neppur d'un istante di esame. - Io non ho adottato  il  credo  di
nessuno. Il dottor Ormenta e il signor Augusto  Cisterna  sono  vecchi  furbi  e
scostumati non migliori né peggiori degli altri; ho continuato a stare con  loro
per abitudine e perché non ci vedea ragione di mutar compagnia,  cascando  dalla
padella nelle bragie, cioè dal vizio nell'impostura. I giovani coi quali costumo
son quelli che consentono meglio colle mie idee; e se hanno i loro  difetti  non
posso avermene a male. Quanto poi a farmi soggezione delle ciarle  della  gente,
non sono cosí sciocco. La mia coscienza  mi  dirà  sempre  ch'io  la  penso  piú
dirittamente di loro, e il mio buonsenso riformerà le sentenze  appellabilissime
dell'altrui ignoranza. Capii che a predicare tutta una quaresima  non  ci  avrei
cavato alcun frutto; e lasciai che se n'andasse, sperando e temendo insieme  che
l'esperienza avrebbe fatto quello che indarno io aveva tentato. Ma cominciava  a
dubitare che la mia trascuranza e la soverchia deferenza all'Aquilina  dovessero
essere gravemente punite, e che i figliuoli  preparassero  i  piú  fieri  dolori
della mia vecchiaia. Infatti non era solamente Giulio che mi  dava  da  pensare;
anche la Pisana cominciava a sgarrare sul serio, ed io m'accorgeva troppo  tardi
di aver perduto sopra di essi ogni  paterna  autorità.  Quella  ragazza,  ve  lo
dissi, era la piú furba ed entrante che avessi mai conosciuto; ma  mi  confidava
che l'esempio di sua madre e la scrupolosa  religione  nella  quale  la  educava
l'avrebbero preservata dai maggiori pericoli. Intanto andava tenendola  d'occhio
alla lontana, e non mi pareva che traesse molto buon frutto dalle sue devozioni.
Era umile ed affettuosa con sua madre, con  me  del  pari  serbava  un  contegno
modesto e discreto, e quando si trovava in mezzo alla gente in nostra  compagnia
pareva addirittura una santoccia. Ma coi servi colle cameriere si mostrava  dura
ed altera; e a sbalzi poi l'udiva scherzare e ridacchiare insieme  ad  essi  con
modi tali che dissomigliavano da quelli tenuti in nostra presenza. Cosí  se  sua
madre voltava l'occhio quando si trovavano in qualche  brigata,  subito  mandava
via occhiate di fuoco a destra e a sinistra, e m'accorgeva che non si  sbagliava
nel cernere i bei giovani dai brutti. Arrossiva anche talora e si storceva sulla
seggiola in modo che dimostrava la malizia maggiore della  santità.  Insomma  io
non era quieto per nulla sul suo conto, e quando l'Aquilina, pur consentendo che
Giulio dava un po' nello  scapato,  si  consolava  della  sua  buona  fortuna  e
ringraziava il cielo di averci compensato a mille doppio  in  quella  eccellente
figliuola, io non poteva stare che non torcessi un po' il grugno.  -  Come?  Che
avresti a ribattere? - saltava su mia moglie con una voce aspra e  convulsa  che
le serviva costantemente nei suoi colloqui col marito. - Eh, nulla! - diceva  io
fregandomi il mento. - Nulla, nulla!... Credi che io non capisca i tuoi  attucci
da censore malcontento?... Ma via mo, sentiamo  che  avresti  ad  osservare  sul
conto della Pisana!... Non è bella e perfetta che pare un angelo?... Non ha  due
occhi colore del lapislazzulo  che  dinotano  un'anima  candida  ed  amorosa,  e
colorito e capelli e statura che a scegliere non si potea fare di meglio?... Non
è fornita di buon ingegno, e di modi riserbati e gentili come si addicono ad una
zitella? Non è divota come un santino, umile ed ubbidiente  poi  che  sembra  un
agnello?... Dove vorresti trovare una figliuola  piú  esemplare?...  Io  per  me
torrei di essere un giovine per poterla sposare; e fortunato  tre  volte  quello
cui toccherà una tanta fortuna, ma ci guarderò tre volte prima di dargliela.  Io
non rispondeva nulla e lasciava che si sbizzarrisse nel suo panegirico; soltanto
accennandole di parlar piano quando sospettava che la ragazza fosse nella camera
vicina, e stesse anche origliando come qualche  volta  io  l'aveva  scoperta.  -
Orsù, dunque! - continuava l'Aquilina - non istarti lí ingrognato che  pari  una
statua!... Sei forse padre per nulla?... Dacché non hai piú negozi in piazza,  e
mio fratello sgobba per te in campagna, sei diventato il piú gran  disutile  che
si possa immaginare!... Non sei buono ad altro che ad impancarti in un caffè,  a
legger le gazzette e fors'anco, Dio non voglia, a chiacchierare  senza  prudenza
con qualch'altro vecchio matto e a comprometterti. - Aquilina, se si potesse, ti
giuro che parlerei sovente, ma... - E cosa faccio ora dunque?... Non ti dico  di
parlare? Non ti esorto da un'ora palesare le tue osservazioni? Non son qui anche
con troppa pazienza ad ascoltarti?... - Allora ti dirò  che  la  Pisana  non  mi
sembra cogli altri la stessa che si mostra con noi: e che quando non la si  tien
d'occhio cambia subito maniere che è una meraviglia, sicché ho  gran  paura  che
tutte le sue belle doti non sian altro che fintaggini, e... -  Anche  questa  mi
toccava sentire!... Oh povera me!... Povera figliuola! Tu sí che hai proprio  il
diritto di accusarla!... Tu che infatti la curi molto! Non ti trovi con  noi  in
mezzo alla gente due volte l'anno, e vuoi insegnare a me che  sto  con  essa  da
mattina a sera, che non l'abbandono mai né col pensiero né cogli occhi!... -  Ti
dirò, Aquilina!... Tu stai sempre con lei; ma ti piace molto  il  conversare,  e
non l'abbandonerai forse col  pensiero,  ma  cogli  occhi  ti  assicuro  che  la
abbandoni sovente. Io  certo  non  vengo  con  voi  tutti  i  giorni  perché  la
conversazione di casa Fratta né quella di casa Cisterna si affanno al mio gusto,
ma quando ci vengo, siccome con quelle persone non ho voglia d'intrattenermi, ho
tutto il tempo di osservarla. Fidati di me; e credi che  hai  voluto  farne  una
santa ma che se la continua a quel  modo  ne  avrai  fatto  invece  una  civetta
sopraffina! - Oh Madonna santissima! Ti prego,  vammi  fuori  dei  piedi  e  non
bestemmiare!... La mia Pisana  una  civetta!...  -  Zitto,  zitto,  per  carità,
Aquilina, che non la ti senta. - Eh che non importa nulla!... E non c'è pericolo
che ella c'intenda nulla di tali nefandità!... Ho capito già;  tu  non  le  vuoi
alcun bene a quella ragazza: vorresti  degli  omacci  duri  e  sconoscenti  come
Luciano, o qualche pazzerello come quel povero Donato, che tu solo hai  condotto
al precipizio. Ma i giovani discreti e affettuosi, le fanciulle oneste e dabbene
non ti si convengono per nulla...  Hai  proprio  ragione  di  dire  che  sei  un
giacobino incorreggibile... Infatti tu non ti  ci  trovi  bene  in  casa  Fratta
quando ci siamo noi: ma se si  tratta  poi  di  gironzolare  le  ore  colle  ore
fabbricando castelli in aria e impasticciando  bestemmie  ed  eresie  col  conte
Rinaldo, allora non ti ritraggi punto, allora la casa Fratta ti  conviene!...  -
Non confondere una cosa coll'altra, Aquilina. Il conte Rinaldo non ci ha nulla a
che fare con quei volponi che la fiduciosa santocchieria di sua sorella  gli  ha
tirato in casa. - Ecco, ecco, sempre insulti sempre motteggi a tutto quello  che
v'è di santo, di venerabile al mondo!... - Ti ripeto quello che ti ho  detto  le
mille volte. Io venero e rispetto la santità della signora badessa: ma la mi  sa
un po' troppo d'ingenua: e non me ne fiderei per conoscer  gli  uomini.  Infatto
ora che si trovano in tanta strettezza, cosa hanno  fatto  per  essi  quei  loro
ottimi parenti, quei loro amici sfegatati?... - Han fatto, han fatto  poco  meno
di quello che facciamo noi. E farebbero di piú se la signora badessa  non  fosse
tanto permalosa. - Infatti è l'esser dessa permalosa che li fa scappare come  le
mosche dalla tavola poiché si levano le portate! - Se  ora  stanno  ritirati  ce
n'hanno delle ottime ragioni, e tu adopreresti saggiamente imitandoli.  Non  son
tempi questi da ciarle e da conversazioni, massime  pei  vecchi.  -  Secondo  te
bisognerebbe risparmiar al  becchino  la  noia  di  seppellirci:  e  nascondersi
appunto allora che un barlume di speranza torna a luccicare, e un po' di vita  a
fermentare nelle nostre anime. - Belle speranze! Bella vita!...  Ride  bene  chi
ride l'ultimo. La discussione cominciava a dare nel politico e  me  la  svignai:
non dimenticando peraltro il punto principale del  diverbio  e  proponendomi  di
osservar la Pisana piú che non avessi fatto per l'addietro. Negli ultimi  giorni
principalmente la mi sembrava cosí preoccupata cosí facile a cambiar di colore e
confondersi che se gatta ci covava non me  ne  sarei  meravigliato.  Mia  moglie
invece affermava che quelli erano gli indizi  soliti  di  quel  certo  passaggio
dall'adolescenza alla giovinezza, che turba inconsapevolmente l'innocenza  delle
ragazze. Io che d'innocenza me n'intendeva, e piú forse ancora di  malizia,  non
sapeva star contento a quell'opinione, e  guardava  e  spiava  sempre  con  ogni
accorgimento di prudenza, persuaso che  alla  lunga  la  paziente  furberia  del
vecchio l'avrebbe spuntata contro l'accortezza della fanciulla. Le cure  ch'ella
si dava di comparir tranquilla e disinvolta ogniqualvolta s'accorgesse di  esser
osservata, mi confermavano nel sospetto che non si trattasse né punto né poco di
quell'inconsapevole turbamento messo innanzi da sua madre; ma i giorni passavano
e non veniva a capo di scoprir nulla. Finalmente una  sera  che  l'Aquilina  era
uscita con suo fratello giunto allor  allora  dal  Friuli,  ed  io  pure  doveva
rimaner assente fino ad ora tarda, tornandomene non so per qual cagione a  casa,
ed entrato nella stanza ove lavoravano di solito le  donne,  non  ci  trovai  la
Pisana. Ne chiesi alla cameriera e mi rispose che la era nella stanza da  letto.
Allora avvicinatomi pian piano  mi  parve  udire  lo  scricchiolio  d'una  penna
d'acciaio, e tutto ad un tratto facendo per aprir l'uscio, non lo  potei  perché
era chiuso a chiave. - Chi è? - disse con voce un po' paurosa  la  fanciulla.  -
Eh, nulla!... Son io che veniva a vedere di te. - Subito, subito, papà:  mi  son
cambiata tutta perché a finir  quel  ricamo  sudai  tanto  questa  sera,  ch'era
bagnata come un pulcino. Ma ora vengo ad aprirti. Infatti aperse e m'accolse con
un sí bel sorriso sulle labbra che dovetti baciarla, e rimettere anche non  poco
dei miei sospetti. Vidi alcuni capi di vestiario gettati qua  e  là  come  tolti
appena di dosso; ma avvicinandomi al tavolino osservai che la penna  era  ancora
intinta d'inchiostro. Certo dunque aveva scritto e non voleva farmelo sapere: il
che  bastava  per  farmi  sospettare  piucchemai,  e  la  lasciai  indi  a  poco
augurandole la buona notte se non  l'avessi  piú  veduta.  Il  giorno  appresso,
quand'ella uscí per la messa insieme a sua madre, entrai nella sua stanza e feci
di tutti i cassetti di tutti gli armadi un diligentissimo esame.  Ma  tutto  era
aperto, e niente trovai che potesse dar ragione ai sospetti  concepiti  la  sera
prima. Guardai nella cantera del buffetto vicino alla lettiera, e ci  vidi,  fra
molti libricciuoli devoti, una specie di sacchettino  ricamato  nel  quale  ella
costumava riporre medaglie, reliquie, immagini e altre simili cianfrusaglie.  Mi
parve che colle dita non si potesse giungere ben in fondo di quel  sacchetto;  e
sentiva come alcune cartoline che non poteva  carpire:  allora  lo  rovesciai  e
scopersi una cucitura fatta, pareva, in  gran  fretta  e  con  refe  bianco.  La
disfeci e trovai tre  letterine  graziosette  profumate  ch'era  una  delizia  a
vederle. - Ah ti ho colta, birbona! - diss'io, e non ebbi piú  rimorso  di  aver
messo la mano ne' suoi segreti; l'autorità paterna è forse, anzi certo, la  sola
che dia cotali diritti, perché è obbligata a procurare il bene dei  figli  anche
contro la loro volontà. Quelle tre letterine portavano la  firma  di  Enrico  il
quale era appunto il nome dell'ultimo  figliuolo  di  Augusto  Cisterna;  vi  si
parlava oltre il bisogno di tenerezze di  baci  di  abbracciamenti;  ed  io  non
cercava di saperne di piú. Le misi in tasca e aspettai che le signore tornassero
dalla chiesa. Infatti di lí a mezz'ora la  Pisana  venne  alla  sua  stanza  per
levarsi  il  cappello  e  riporre  la  mantiglia,  e   fu   meravigliata   assai
d'incontrarsi in suo padre. - Pisana - le dissi io senza  andare  tanto  per  le
lunghe, ché di avere fatto l'inquisitore ero già piucché stanco - qui ti bisogna
esser sincera, ed espiare con una pronta  confessione  le  colpe  che  per  mera
fanciullaggine hai commesse: dimmi subito dove e con qual mezzo ti trovi da sola
a solo con quel signor Enrico che ti  scrive  tanto  teneramente?  La  fanciulla
traballò sulle gambe e tramortí in viso a segno ch'ebbi compassione di  lei;  ma
poi ricominciò a balbettare che non sapeva nulla, che  non  era  vero,  in  modo
ch'io perdetti la pazienza e ripetei con voce piú autorevole il comando di esser
ubbidiente e sincera. Contuttociò ella rimase imperterrita a rispondermi che non
ci capiva un ette e a far l'indiana con tanta buona grazia,  che  mi  sentii  il
solletico di schiaffeggiarla. - Senti, figliuola - ripresi io un  po'  sbuffando
un po' trattenendomi. - Se io ti dicessi che tu ricevi e scrivi lettere a Enrico
Cisterna, e che discorri con lui dopo che noi siamo a letto, alla finestra della
Riva, non andrei un dito lontano dal vero. Ma non voleva dirlo per lasciarti  il
merito della sincerità.  Ora  che  tocchi  con  mano  ch'io  so  tutto,  e  vedi
cionnostante che mi dispongo ad usar di tutta la mia  bontà,  spero  che  vorrai
mostrartene degna, con dirmi come  sei  venuta  in  tanta  confidenza  con  quel
giovine, cosa ti piace tanto  in  lui,  e  perché,  se  credevi  onesta  la  tua
condotta, hai creduto bene di celarla ai tuoi genitori. So che sei ben  avveduta
quando ne hai voglia, e adesso dovresti accorgerti che il partito piú saggio piú
onesto piú furbo è di aprirti a me come ad un amico, perché si  veda  di  metter
ordine a tutto, accordando le  nostre  convenienze  anche  col  tuo  talento  se
vuoi!... A queste parole la Pisana dimise affatto quel suo contegno di figliuola
modesta e paurosa per diventare lesta sicura sfacciatella quale io l'avea veduta
piú volte colle cameriere, o in qualche crocchio durante le  lunghe  distrazioni
di sua madre. - Padre mio - mi rispose col piglio disinvolto d'una prima amorosa
che recitasse la sua parte - vi chieggo perdono di una mancanza che  non  finirò
mai di rimproverarmi; ma non  vi  conosceva  e  aveva  piú  paura  della  vostra
autorità che confidenza nel vostro affetto. Sí, è vero; gli sguardi le preghiere
di Enrico Cisterna mi hanno commossa,  e  per  non  vederlo  patire,  ho  voluto
concedergli quanto mi domandava. - E se io ti dicessi che Enrico Cisterna  è  un
tristo, un giovinastro senza decoro e senza  probità,  al  quale  l'abbandonarti
sarebbe il peggior castigo  che  potessimo  infliggerti?  -  Oh  non  andate  in
collera!... No, per carità, che non ce n'è il motivo! È vero,  ebbi  compassione
di Enrico; ma non ci sono tanto ostinata, e  se  non  è  di  vostro  piacimento,
meglio qualunque altro che lui!... - Cosí tu rispondevi alle sue lettere, tu  ti
abboccavi tutte le sere con esso lui alla finestra... - Non tutte le sere, padre
mio. Appena quella in cui la mamma spegneva  il  lume  prima  di  mezzanotte.  E
siccome ella ha molte divozioni distribuite per varii  giorni  della  settimana,
cosí questo non avveniva che il lunedí il mercoledí e la  domenica.  -  Ciò  non
monta affatto. Voleva dire che quanto facevi lo facevi per mera  compassione.  -
Te lo giuro, papà: proprio per  compassione.  -  Sicché  se  domani  venisse  un
gondoliere, un cenciaiolo a domandarti per compassione di far all'amore con lui,
gli risponderesti di sí! - No certo, papà. Il caso sarebbe molto  differente.  -
Ah dunque convieni che ci vedi dei meriti  particolari  in  Enrico,  per  sentir
piuttosto compassione di lui che di un altro?... Ora favorirai dirmi quali  sono
questi meriti. - In vero, papà, sarei  molto  imbrogliata  a  dichiararveli,  ma
giacché siete tanto buono, voglio farmi forza per accontentarvi. Prima di  tutto
quando s'andava a teatro, io vedeva Enrico accarezzato e festeggiato  dalle  piú
belle signore. Non vorrai  già  negare  ch'egli  non  sia  almeno  almeno  molto
simpatico!... Io non sapeva piú in qual  mondo  mi  fossi  udendo  la  santoccia
parlare a quel modo; ma volendo pur vedere fin dove sarebbe arrivata: - Avanti -
soggiunsi. - E poi?... - E poi ha una foggia di vestire molto elegante,  un  bel
modo di presentarsi, una loquela sciolta e brillante. Insomma  per  una  ragazza
senza esperienza c'era, mi pare, quanto bastava per rimaner  abbagliata.  Quanto
ai suoi costumi al suo temperamento io non me ne intendo, padre mio;  credo  che
tutti siano buoni, e non sarei mai tanto sfacciata da chiedere cosa voglia  dire
un giovane scostumato! Era però abbastanza imprudente per farmi  capire  che  lo
sapeva; laonde io le risposi che senza cercar tanto addentro le doti  morali  di
Enrico, ella doveva capire che quei pregi  esterni  e  affatto  d'apparenza  non
dovevano bastare per meritargli l'affetto d'una donzella bennata. - E  chi  dice
ch'egli abbia il mio affetto? - riprese ella. - Vi giuro,  padre  mio,  che  gli
corrispondeva unicamente per compassione, e che adesso giacché vedo ch'egli  non
ha la fortuna di piacervi, lo dimenticherò senza fatica,  e  accetterò  di  buon
grado quello sposo che avrete la bontà di procurarmi. -  Eh,  sporchetta!  -  io
sclamai - chi vi parla  ora  di  sposo?...  Che  premura  avete?...  Chi  vi  ha
insegnato a tirar in mezzo  voi  simili  discorsi?  -  Nulla!  -  balbettò  essa
alquanto confusa - non ho  parlato  cosí  che  per  dimostrarvi  meglio  la  mia
docilità. - Capisco - risposi io - fin dove giunge la  vostra  docilità.  Ma  ti
esorto a moderare la tua indole, a educare i tuoi sentimenti, perché fino che tu
non sia in grado di apprezzare i veri meriti d'un onest'uomo, oh  no,  perbacco,
che non ti lascerò andare a marito!... Non voglio fare né  la  tua  né  l'altrui
rovina. - Ti prometto, papà, che d'ora in poi tutte le mie cure saranno  rivolte
a moderare la mia indole e ad educare i miei sentimenti. Ma mi  prometti  almeno
che la mamma non saprà nulla? - Perché vorresti che tua  mamma  non  ne  sapesse
nulla? - Perché mi vergognerei troppo di comparirle dinanzi! - Eh  via,  che  un
po' di vergogna non ti starà male:  vorrei  anzi  che  la  sentissi  molto,  per
cercare di non averla a soffrire altre volte. Intanto ti avverto che  non  posso
lasciar ignorare a tua madre una cosa che le darà la  giusta  misura  della  tua
santità. - Oh per carità, padre mio! - No, non  affannarti  e  non  piangere!...
Pensa a correggerti, ad esser sincera d'ora  in  avanti,  a  non  invaghirti  di
frascherie e a non distribuire il tuo affetto con  tanta  leggerezza.  -  Oh  ti
giuro, padre mio... - Non tanti giuramenti; a ora di pranzo ti  dirà  tua  madre
quello che avremo disposto a tuo riguardo. Non v'è male che  non  abbia  il  suo
rimedio: sei giovinetta ancora e spero che tornerai una buona figliuola,  capace
di fare la felicità nostra, e dell'uomo cui il cielo  ti  ha  destinato,  se  la
sorte vuole  che  ti  accasi.  Intanto  pensa  ai  casi  tuoi;  e  medita  sulla
sconvenienza di quelle azioni che costringono una figliuola ad arrossire dinanzi
ai suoi genitori. Cosí la lasciai; ma era tanto  sbalordito  che  nulla  piú.  E
quelle lusinghe di ravvedimento le avea buttate lí  per  vezzo;  del  resto  non
sapeva da  qual  banda  cominciare  per  ridurre  a  donna  di  garbo  una  tale
fraschetta. Confesso che m'immaginava di scoprire  un  giorno  o  l'altro  delle
assai brutte cose sotto quella vernice  di  santità,  non  mai  peraltro  quella
sfrontata e ingenua frivolezza che ci aveva trovato. L'Aquilina fu per  diventar
pazza alla contezza ch'io le diedi per lungo e per largo di  tutto  il  marrone.
Non volea credere sulle prime, ma aveva le  tre  letterine  in  tasca  e  se  ne
persuase; allora prese a gridare e a graffiarsi il viso colle unghie,  che  guai
per la Pisana se le capitava fra le mani! - Ma io la trattenni, e giunsi  appoco
appoco a calmarla, sicché pensammo anche  al  modo  di  troncare  senza  chiasso
quell'amoruzzo e di assicurarci meglio dei costumi della ragazza con  un  metodo
diverso d'educazione. Quanto al licenziare quell'Enrico, che era  in  verità  un
capo da galera, si decise che era meglio lasciare l'incarico a lei  come  quella
risoluzione venisse spontanea dalla sua volontà,  e  noi  né  ci  entrassimo  né
sapessimo nulla. Poi si pensò di  cambiar  tutte  le  donne  di  servizio,  alla
compagnia delle quali io attribuiva non senza ragione la strana  leggerezza  con
cui quella mattina mi aveva parlato. Conducendola meno a teatro e in mezzo  alla
gente, invogliandola a letture piacevoli e salutari, io mi lusingava di  ottener
qualche cosa; non  nascondeva  peraltro  all'Aquilina  che  il  guasto  era  piú
profondo di quanto non mi sarei mai  immaginato,  e  che  ogni  rimedio  avrebbe
potuto essere inutile. Mia moglie mi dava sulla voce per questo  mio  scoramento
soggiungendo  che  alla  fine  poi  era  una  scappata  piú  che  di  cattiveria
d'inesperienza, e ch'ella scommetteva  senz'altro  di  rendere  la  Pisana  cosí
ragionevole e posata che in un mese avrei stentato a riconoscerla. - L'ha un tal
fondo di religione - diceva ella - che soltanto a  richiamarle  alla  memoria  i
suoi doveri, si pentirà del fallo commesso, e farà  fermo  proponimento  di  non
ricadervi mai piú. - Fidati della sua religione! - le risposi io. - Ti dico  che
è tutta apparenza, ed ora tocchi con mano lo sbaglio gravissimo di non armare la
sua coscienza con altri motivi di ben fare che non sono i  Comandamenti  puri  e
semplici!... L'Aquilina cominciò ad inalberarsi, io a tempestare; e perdemmo  di
vista la  Pisana  per  litigare  fra  noi  due;  ma  io  me  ne  risovvenni  per
raccomandarle di adoperarsi intorno alla fanciulla con molta prudenza, e poi  me
n'andai sperando che l'istinto materno l'avrebbe condotta assai meglio  del  suo
accorgimento di bigotta. Come infatti mi parve essere sulle  prime;  ché  trovai
giorno per giorno la ragazza migliorata d'assai; e benché continuasse sempre  un
po' frivola e scapata, pure non usava piú arte veruna per comparire diversa.  La
vergogna le avea fruttato bene, ma anco io aveva adoperato  destramente  di  non
ribadirle  l'impostura  mostrandomi  troppo  scandolezzato  della  sua  naturale
leggerezza. Cosí sperava che se non una donna forte ed  esemplare,  una  sposina
discreta e come tutte le altre ci verrebbe fatto di cavarne. Peraltro mi ficcava
sempre piú in capo che bisognava allettarla con quello che le piaceva; e  se  ci
fosse capitato un giovine bennato che allo splendore  dell'apparenza  unisse  la
bontà della sostanza, io avrei ceduto  l'educazione  a  lui,  quasi  sicuro  che
sarebbe riuscito a buon fine e che di lí a qualche anno avrebbe avuto una moglie
secondo i suoi desiderii. Nessun miglior maestro dell'amore; egli insegna  anche
quello che non sa. Mentre la strana condotta di Giulio e la  dubbia  conversione
della  Pisana  mi  tenevano  col  cuore  sospeso,  le  dimostrazioni  in  piazza
prendevano per tutta Italia un tenore  piú  fiero  e  guerresco;  dalla  Francia
mutata improvvisamente in Repubblica soffiava un vento  pieno  di  speranza;  la
rivoluzione minacciò a Vienna, proruppe a Milano, e fu compiuta anche a  Venezia
nel modo che tutti sanno. In quei momenti, per quanto fossi vecchio, mezzo cieco
e padre di famiglia, certo non ebbi tempo di pensare a' miei affaruzzi di  casa.
Uscii in piazza cogli altri, buttai via i miei settant'anni,  e  mi  sentii  piú
forte piú allegro piú giovane che non lo fossi mezzo secolo prima,  quando  avea
fatto la mia prima comparsa politica  come  segretario  della  Municipalità.  Si
armava allora la Guardia Nazionale, e mi vollero far  colonnello  della  seconda
legione; senza consultare né gli occhi né le gambe  io  accettai  con  tutto  il
cuore; richiamai alla memoria tutto il mio antiquato sapere di tattica militare,
misi in fila e feci voltare a destra ed a sinistra alcune centinaia  di  giovani
buoni e volonterosi, indi me  n'andai  a  casa  col  cervello  nelle  nuvole,  e
l'Aquilina al vedermi incamuffato in una certa assisa che mi dava figura piú  di
brigante che di colonnello, fu per cadere in terra per un repentino  travaso  di
bile. Checché ne mormorasse la moglie, mangiai all'infretta un boccone, e tornai
fuori ai miei esercizi; vi giuro che non mi sentiva indosso  piú  di  vent'anni.
Soltanto la sera, quando mi ridussi a casa verso la mezzanotte, dopo aver subíto
le piú gran rampogne che possa soffrire una buona pasta di marito da una  moglie
bisbetica, chiesi che ne fosse di Giulio, il quale io lo aveva  cercato  indarno
qua e là per tutto quel giorno. Non lo avevano veduto, non ne sapevano nulla;  e
fu un nuovo appiglio all'Aquilina per tornar daccapo cogli  strapazzi.  Peraltro
io era troppo inquieto sul conto di quel giovine per badare a lei:  la  condotta
tenuta in fino allora, l'indole superba e violenta lo esponevano  ai  piú  gravi
pericoli, e dopo molte considerazioni e un'altra mezz'ora  di  aspettativa,  non
potei trattenermi, ed uscii in cerca di lui. Non mi sarei immaginato mai piú  il
colpo terribile che mi aspettava!... Ne chiesi a casa Fratta a casa Cisterna,  e
non seppero dirmene nulla;  tentai  a  casa  Partistagno,  ove  usava  molto  in
quell'ultimo tempo, ma mi risposero che il signor generale era  partito  da  due
giorni bestemmiando contro  i  suoi  sette  figliuoli  che  tutti  avean  voluto
rimanere a Venezia, e  che  il  signor  Giulio  non  lo  aveano  veduto  da  una
settimana. Mi venne in capo di cercarne contezza al Corpo di Guardia del  nostro
sestiere, e là mi toccò strappare dalla bocca di un giovine studente  la  triste
verità. Il mattino Giulio era accorso  insieme  a  loro  all'Arsenale,  dove  si
distribuivano le armi, e già s'aveva cinta la sciabola, quando uno  sconsigliato
(diceva lo studente) s'era messo ad insultarlo; lí Giulio s'era volto contro  di
lui, quando dieci e cento altri avevano preso le parti dell'insolente, e fra gli
urli gli oltraggi gli schiamazzi,  mio  figlio  avea  dovuto  ceder  al  numero,
abbastanza fortunato di salvar la vita. Ma alcuni dabbene che non  volevano  che
quel giorno fosse macchiato di sangue fraterno  lo  avevano  difeso  colle  loro
armi. - Spero - continuò  lo  studente  -  che  il  suo  signor  figlio  otterrà
giustizia e che messe in chiaro le cose egli  otterrà  nella  Guardia  Nazionale
quel posto che gli si compete come cittadino. E queste parole furono pronunciate
in modo che significavano piú compassione al padre  che  rispetto  e  confidenza
alla causa del figlio. Io avea capito anche troppo, anche quello che la pietà di
quel giovane avea creduto opportuno di sottacere: fui tanto  padrone  di  me  da
ritirarmi rasente il muro, rifiutando il soccorso  di  chi  voleva  porgermi  il
braccio. Ma giunto che fui  a  casa  mi  sopraggiunse  un  violento  assalto  di
convulsione, prima ancora  che  potessi  porgere  quella  notizia  all'Aquilina,
accomodando come avrei saputo meglio. Con un salasso, con  qualche  cordiale  mi
calmarono in modo che verso l'alba riebbi l'uso  della  parola;  e  allora,  con
quell'indifferenza che seppi  maggiore,  accagionai  del  mio  male  le  fatiche
esorbitanti del giorno prima, e aggiunsi che avea ricevuto notizie di  Giulio  e
ch'egli era partito da Venezia per affari di  qualche  momento.  Mia  moglie  mi
credette, o finse credermi: ma verso mezzogiorno essendo capitata una lettera da
Padova coi caratteri di Giulio essa l'aperse a mia insaputa, la lesse, e  capitò
poi nella mia camera con quel foglio in mano, gridando come una  forsennata  che
le avevano ammazzato un altro figlio, ché certo lo  avrebbero  ammazzato!...  La
Pisana  che  in  quei  frangenti  dimostrò  assai  maggior  cuore  che  io   non
m'aspettassi, si mise intorno a sua madre, e  poiché  s'accorse  che  vaneggiava
chiamò la cameriera, e la posero a letto anche lei. Poi  dal  capezzale  di  sua
madre a quello del padre la vispa fanciulla fu per due buone  settimane  la  piú
assidua e affettuosa infermiera che si potesse immaginare. Aveva  torto  a  dire
che l'amore è maestro di tutto; anche le disgrazie insegnano assai.  La  lettera
di Giulio era del seguente tenore: "Padre mio! Tu avevi  ragione:  contro  dieci
contro venti si può ribattere un insulto, non contro una moltitudine; e vi  sono
certi momenti nella vita d'un popolo che  ne  rendon  terribili  i  decreti.  Io
portai la pena della mia albagia e del mio sconsiderato disprezzo. Non potrò piú
vivere in quella patria che tanto amava, benché disperassi di vederla risorgere;
essa si vendica del mio codardo abbattimento respingendomi dal suo seno  appunto
nell'istante che si raccoglie d'intorno tutti i suoi figliuoli  a  trionfo  e  a
difesa. Padre mio, tu approverai, credo, la deliberazione d'un infelice che vuol
ricompensare col proprio sangue la stima de' suoi fratelli. Vado a combattere, a
morire forse, certo ad espiar fortemente un errore di cui pur troppo mi confesso
colpevole. Conforta mia madre, dille che il rispetto al vostro nome come al  mio
m'imponeva di partire. Io non poteva rimanere in un paese dove pubblicamente fui
chiamato traditore, spia! E dovetti ingoiar l'insulto e fuggire. Oh  padre  mio!
la colpa fu grave; ma ben tremendo  il  castigo!...  Ringrazio  il  cielo  e  la
memoria delle tue parole, che mi preservarono dal ribellarmi al sopportar quella
pena,  consigliandomi  di  cercar  la  pace  della  coscienza  in  un   glorioso
pentimento, non il contentamento dell'orgoglio in una  vendetta  fratricida.  Di
rado avrete mie novelle perché voglio che il mio nome resti  morto,  finché  non
risuoni benedetto ed onorato sulle labbra di tutti. Addio addio;  e  mi  consolo
nella certezza dell'amor vostro del vostro perdono!". Volete che ve lo dica?  La
lettura di questa lettera mi rimise l'anima in corpo; temeva assai peggio, e  mi
maravigliai meco stesso che un animo superbo e impetuoso come quello  di  Giulio
si fosse piegato a confessare  i  proprii  torti  e  a  cercarne  una  sí  degna
espiazione. Ebbi il conforto di compianger mio figlio in vece di maledirlo, e mi
rassegnai del resto a quell'imperscrutabile giustizia che  m'imponeva  sí  fieri
dolori. Guarito che fui, sebbene lo stato di mia moglie fosse ancora  tutt'altro
che rassicurante, e la desse di quando in quando segni palesi di pazzia, ripresi
il mio servizio come colonnello della Guardia; e poiché  fu  sparsa  la  novella
della partenza di mio figlio e della lettera che egli m'aveva scritta,  ebbi  la
soddisfazione di veder pietosi e riverenti verso la  mia  canizie  forse  coloro
stessi che l'avevano vituperato. Tuttavia non ebbi di lui ulterior contezza fino
al maggio seguente, quando ci capitarono da Brescia alcune sue righe. Argomentai
dal sito che si fosse arruolato nei corpi franchi che difendevano da quel lato i
confini alpestri del Tirolo e si vedrà in seguito come mi apponessi alla verità.
Io lo benedissi dal fondo del cuore e sperai che il cielo avrebbe  secondato  le
generose speranze del figlio e i supplichevoli voti del padre. Due  giorni  dopo
che furono entrati in Venezia i sussidii napoletani sotto il comando del general
Pepe, mio vecchio conoscente, due uffiziali di quelle truppe vennero  a  chieder
di me. L'uno era Arrigo Martelli che, fino dal 1832 reduce dalla  Grecia,  s'era
immischiato nel susseguente  anno  a  Napoli  nella  congiura  di  Rossaroll,  e
d'allora in poi era sempre stato in prigione nel Castel Sant'Elmo. Mi presentava
il suo valoroso amico,  il  maggiore  Rossaroll  stesso  che  dalla  lunghissima
prigionia aveva sí affievolita la vista, ma non  affranta  per  nulla  l'invitta
forza d'animo. Fummo amici d'un tratto, e mi sfogai con essoloro de' miei vecchi
e nuovi dolori. E cosí riandando poi le vecchie storie mi cascò per  caso  dalle
labbra il nome di Amilcare Dossi, ch'era rimasto nel Regno e piú non  avea  dato
sentore di sé. Il Martelli allora rispose che pur troppo egli ne sapeva la  fine
miseranda; che immischiato nella guerra abruzzese del ventuno, e carcerato,  era
giunto a fuggire, ma che poi passato in Sicilia, dopo una vita piena di sventure
e di delitti, avea terminato sul patibolo arringando  fieramente  il  popolo,  e
imprecando sui suoi carnefici la giustizia di Dio. Queste  cose  avvenivano  nel
milleottocentotrentasei,  e  furono  incentivo  alle  turbolenze  che  agitarono
l'isola, e scoppiarono  l'anno  dopo  in  violente  sommosse  all'occasione  del
cholera. - Povero Amilcare! - io sclamai. Ma già di meglio non isperava del  suo
destino; e mi rammaricai colla mia sorte perversa che perfino da amici da  lungo
tempo sepolti mi suscitava nuovi dolori. Cara del pari e non amareggiata  da  sí
tristi evocazioni, mi fu indi a qualche mese la visita di Alessandro Giorgi, che
tornava dall'America meridionale, vecchio, abbrustolito, storpio, maresciallo, e
duca di Rio-Vedras. Col suo gran corpaccione insaccato in una  sfarzosa  giornea
scarlatta, piena d'ori e di  fiocchi,  egli  sembrava  a  dir  poco  un  qualche
grottesco  antenato  della  regina  Pomaré.  Ma  il  cuore  che  batteva   sotto
quell'assisa indescrivibile era sempre il suo; un cuore di fanciullo  insieme  e
di soldato. Vedendolo, non potei far  a  meno  di  instituire  in  cuor  mio  un
confronto fra lui e il Partistagno: ambidue presso a poco della  stessa  indole,
avviati alla stessa carriera; ma ohimè quanto diversi nella fine! Tanto  possono
su quei temperamenti ingenui e pieghevoli i consigli, gli esempi, le  compagnie,
le  circostanze:  se  ne  foggiano  a  capriccio  sgherri  od  eroi.  -  Carlino
dilettissimo - mi diss'egli dopo avermi abbracciato sí strettamente  che  alcune
delle sue croci mi si uncinarono negli occhielli del  vestito  -  come  vedi  ho
piantato lí tutto, il  ducato  l'esercito  e  l'America  per  tornare  alla  mia
Venezia! - Oh non dubitava: - soggiunsi io - quante volte udendo salire  per  la
scala una pedata insolita ho pensato fra me: che sia Alessandro? -  Ora  contami
un poco; qual fu la tua vita di tutti questi anni, Carlino? Gli narrai  cosí  di
sfuggita tutte le mie vicende  e  la  conclusione  fu  di  presentargli  la  mia
figliuola che allora appunto entrava nella stanza. - Non lo nego;  hai  sofferto
delle grandi sciagure, amico mio; ma ci hai qui delle consolazioni massicce - (e
stringeva fra le nocca dell'indice  e  del  medio  le  guance  rotondette  della
Pisana). - Con tutta la mia duchea non son arrivato a fare  altrettanto:  eppure
ti giuro che tutte le belle brasiliane mi volevano per marito. Amico mio, se hai
figliuoli in istato di prender moglie, affidali a  me:  guarentisco  loro  delle
belle cicciotte e qualche milioncino di reali. - Grazie, grazie; ma come vedi si
pensa ad altro ora che  a  maritarsi.  -  Eh!  ti  pigli  soggezione  di  queste
frottole? son cose finite subito, credilo a me!... Noi  in  America  si  fa  due
rivoluzioni all'anno, e ci resta anco il tempo di goder la  villeggiatura  e  di
curar la gotta alla stagione dei bagni. La Pisana stava  lí  con  tanto  d'occhi
ammirando quello stampo singolarissimo di duca e  di  maresciallo;  ond'egli  la
prese ancora soldatescamente per un braccio soggiungendo che si compiaceva molto
di fermar ancora l'attenzione delle signorine veneziane. - Eh! ai tempi  nostri,
eh, Carlino?... Ti  ricordi  la  contessa  Migliana?...  -  Me  ne  ricordo  sí,
Alessandro; ma la contessa è morta da dieci o dodici anni in odore di santità, e
noi strasciniamo assai malamente pel mondo i nostri peccati. - Oh  quanto  a  me
poi, se non avessi quest'arpia di  gotta  che  mi  assassina  le  gambe,  vorrei
ballare la tarantella... Oh Bruto, fratello mio!...  eccone  qui  un  altro  dei
ballerini!... Capperi, come ti sei fatto nero... Giuro e sacramento che  se  non
fosse per la tua gamba di legno non ti avrei riconosciuto.  Queste  esclamazioni
furono provocate dalla comparsa di Bruto che nel suo arnese di cannoniere civico
faceva un'assai strana figura, degna da contrapporsi alla  macchietta  americana
del Duca Maresciallo. Egli dal canto suo non risparmiò né braccia né  polmoni  e
la Pisana, vedendo quei due  cosí  abbracciati  e  bofonchianti,  crepava  dalle
grandi risate.  Peraltro  se  furono  buffi  in  camera,  si  diportarono  assai
gravemente fuori; e porsero un bell'esempio di obbedienza  militare  a  parecchi
giovani che volevano esser nati ammiragli e  generali.  Alessandro  in  onta  al
ducato e al maresciallato si accontentò del grado di colonnello; e  Bruto  tornò
al suo cannone come appunto lo  avesse  abbandonato  il  giorno  prima.  La  sua
andatura zoppicante, e l'umore sempre allegro e burliero anche fra i razzi e  le
bombe tenevano in susta il coraggio dei giovani commilitoni. Tutti a quel  tempo
si facevano soldati, perfino il conte Rinaldo che molte volte,  e  lo  vidi  io,
montò la guardia dinanzi al Palazzo con tanta serietà che pareva proprio una  di
quelle  sentinelle  mute  che  adornano  il  fondo  scenico  di  qualche   ballo
spettacoloso. Quello, poveretto, che non arrivò a tempo di montar la guardia, fu
il cavalier Alfonso Frumier. Cascato di cielo in terra dopo la morte  della  sua
dama, non avea piú rappiccato il  filo  delle  idee,  e  cercava  cercava  senza
potervi mai riescire, quando un giorno entra il cameriere a raccontargli che  in
Piazza si grida: - Viva San Marco! - e che c'è la repubblica, e altre mille cose
l'una piú strana dell'altra. Il vecchio gentiluomo si  diede  una  gran  palmata
nella fronte. "Ci sono!" parve ch'ei  dicesse;  indi  cogli  occhi  fuori  della
testa, e le membra convulse e tremolanti: - Orsù, presto! - balbettò. -  Portami
la toga... dammi la parrucca... Viva San Marco!... La toga...  la  parrucca,  ti
dico! Presto!... che si faccia a tempo!  Al  cameriere  sembrò  che  il  padrone
stentasse a proferire queste ultime parole, e che vacillasse sulle gambe;  stese
le braccia per sostenerlo; ed egli stramazzò al suolo, morto per un  eccesso  di
consolazione. Mi ricordo ancora ch'io piansi all'udir  raccontare  quella  scena
commoventissima, la quale spiegava nobilmente il torpore semisecolare  del  buon
cavaliere. Intanto anche noi, senza essere cosí felici da morire, pure ebbimo le
nostre consolazioni. La concordia d'ogni classe di cittadini, la serena pazienza
di quell'ottimo popolo veneziano in ogni fatta di disgrazie, la cieca confidenza
nel futuro, l'educazione militare che dietro i forti ripari della  laguna  aveva
tempo di assodarsi, tutto dava a sperare che quello era il fine, o  come  diceva
Talleyrand, il principio della fine. L'attività  pubblica,  occupando  le  menti
d'ogni fatta di persone, impediva l'ozio, migliorando  grandemente  la  moralità
del paese, e non ultimo conforto era l'abbassamento dei tristi, i quali, a  quel
ridestarsi vittorioso della coscienza popolare, s'erano rimpiattati  nelle  loro
tane, come ranocchi nel fango. Il dottor Ormenta era fuggito  in  terraferma,  e
morí, come seppi in appresso, per uno spavento  fattogli  da  una  scorreria  di
Corpi franchi. Non gli giovò per nulla lo aver portato  nell'infanzia  l'abitino
di sant'Antonio, ed ebbe di grazia che lo accettassero  in  camposanto.  Augusto
Cisterna dimenticato e disprezzato da tutti  rimase  a  Venezia;  ma  perfino  i
figliuoli vergognavano di portare il suo nome; ed  Enrico,  quello  scapestrato,
riconquistò qualche parte della mia stima col riportare uno sfregio traverso  la
faccia nella sortita di Mestre. Un giorno ch'io tornava da una visita al general
Pepe, il quale sopportava volentieri le mie chiacchiere, la Pisana  mi  si  fece
innanzi con cera piú grave  del  solito,  dicendo  che  aveva  cose  di  qualche
rilevanza da comunicarmi. Io risposi che parlasse pure, ed ella  soggiunse  che,
siccome io le aveva promesso per marito un giovine di proposito  e  che  valesse
piú per la sostanza che per l'apparenza, credeva di  aver  trovato  chi  facesse
all'uopo. - Chi mai? - le chiesi un po' trasecolato perché la  furbetta  non  si
staccava mai dal letto di sua madre che allora appena cominciava  a  guarire.  -
Enrico Cisterna! - sclamò ella  gettandomi  le  braccia  al  collo.  -  Come?...
quello... - No, non dite male di lui, padre mio!... dite quel  giovine  bravo  e
generoso, quel giovine che ad onta d'una  educazione  trasandata  e  d'una  vita
floscia e pettegola, ha saputo farsi tagliar il viso dalle sciabolate, e  tornar
una settimana dopo al suo posto come fosse  nulla!...  Oh  io  gli  voglio  bene
piucché a me stessa, padre mio!... Adesso sí conosco cosa voglia dire il volersi
bene!... Diceva di amarlo per  compassione,  quando  di  compassione  non  aveva
certamente bisogno; ma ora che forse la meriterebbe, io l'amo per istima,  l'amo
per amore. - Sí, tutto va bene, benissimo; ma tua madre... - Mia madre sa  tutto
da questa mattina; ella unisce le sue preghiere alle mie... In quel  momento  si
spalancò sgangheratamente la porta, ed Enrico stesso che stava in agguato  nella
stanza vicina mi si precipitò di là, supplicandomi di  non  volerlo  allontanare
prima che non avessi pronunciato la sua sentenza di vita o  di  morte.  Egli  mi
stringeva le gambe, quell'altra furiosetta mi attorcigliava il collo colle mani,
chi sospirava chi piangeva...  fu  un  vero  colpo  da  commedia.  -  Sposatevi,
sposatevi nel nome di Dio! - sclamai raccogliendoli ambidue fra  le  braccia;  e
mai lagrime piú dolci non isgorgarono dagli occhi miei sopra esseri piú  felici.
Allora volli anche sapere se e come  il  loro  amore  avesse  continuato  a  mia
insaputa e dopo quella licenza formale intimata al giovine da Pisana per  ordine
nostro. Ma la fanciulla mi confessò arrossendo di aver scritto quel  giorno  due
lettere invece di una, nella seconda delle quali  raddolciva  d'assai  il  crudo
tenore della prima. - Ah traditorella! - le dissi - e cosí m'ingannavi!...  cosí
quella faccenda delle lettere continuò poi sotto il mio naso infino ad ora. - Oh
no, padre mio - rispose la Pisana - non avevamo piú bisogno di  scriverci.  -  E
perché mo non avevate bisogno di scrivervi? - Perché... perché ci vedevamo quasi
ogni sera. - Ogni sera vi vedevate?... Ma se fuori dell'inferriata io  ho  fatto
inchiodare le imposte di quella maledetta finestra?... - Papà mio, scusatemi; ma
poiché la mamma s'era addormentata, io scendeva pian piano ad aprirgli la  porta
della riva... - Ah sciagurati!... ah sfacciata!... in casa lo tiravi!...  tiravi
l'amante in casa!... Ma se di chiavi di quella porta  non  ce  n'ha  che  una  e
l'aveva sempre io, vicino al letto!... - Appunto...  papà  mio;  non  andate  in
collera, ma tutte le sere quella chiave io ve la portava via, e la riponeva  poi
la mattina quando portava il brodo alla mamma. - Scommetto  io  che  mi  giocavi
questo bel tiro nel darmi il bacio della buona notte e quello della  sveglia!  -
Oh papà, papà!... siete  tanto  buono!...  perdonateci!  -  Cosa  volete?...  Vi
perdonerò, ma col patto che nessuno ne sappia nulla; non vorrei che ne cavassero
un libretto per qualche opera buffa. Enrico si stava tutto vergognoso, mentre la
sfacciatella mi confessava tra supplichevole e burlesca i suoi tradimenti; ma io
gli diedi del pugno sotto il mento. - Va' là, va' là, non farmi  l'impostore!  -
gli dissi - e prenditi la tua sposa,  giacché  te  l'hai  guadagnata  a  Mestre.
Infatti egli non fu zoppo ad abbracciarla, e andammo a terminar l'allegria nella
camera dell'Aquilina. Tre settimane dopo Enrico era mio genero, ma gli imposi il
sacrifizio di rimanere in casa  nostra,  perché  non  voleva  essere  burlato  e
pagarne anche le spese. I miei vecchi amici onorarono tutti il pranzo di  nozze,
e fu provato anche una volta che  lo  stomaco  non  conta  gli  anni  quando  la
coscienza  è  tranquilla.  Quello,  credo,  fu  il  colmo  delle  nostre  gioie.
Successero poi i brutti giorni, i disastri di Lombardia, gli  interni  sgomenti,
le lungherie ubbriache ancora di speranze ma volgenti sempre al peggio.  Eh!  ai
vecchi non la  si  dà  ad  intendere  tanto  facilmente!  Quell'inverno  fra  il
quarantotto e il quarantanove fu pregno di lugubri meditazioni: non credeva  piú
alla Francia, non credeva all'Inghilterra, e la  rotta  di  Novara  piú  che  un
improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi  timori.  Si  combatteva
omai piú per l'onore che per la vittoria; sebbene  nessuno  lo  diceva  per  non
scemar agli altri coraggio. Dopo le pubbliche sciagure cominciarono  per  noi  i
lutti privati. Un giorno vennero a raccontarmi che il  colonnello  Giorgi  e  il
caporal Provedoni, feriti sul ponte da una bomba, erano stati  trasportati  allo
Spedale  militare,  donde  per  la  gravità  della  ferita  non  era   possibile
traslocarli. Accorsi piú morto che vivo; li trovai giacere su due lettucci l'uno
accanto all'altro, e parlavano dei loro anni giovanili, delle loro guerre  d'una
volta, delle comuni speranze come due amici in procinto di addormentarsi.  E  sí
che respiravano a fatica, perché avevano il petto  squarciato  da  due  orribili
piaghe. - La è curiosa! - bisbigliava Alessandro. - Mi par d'essere nel Brasile!
- E a me a Cordovado sul piazzale della Madonna! - rispose Bruto. Era il delirio
dell'agonia che li prendeva; un  dolcissimo  delirio  quale  la  natura  non  ne
concede che alle anime elette per render loro facile e  soave  il  passaggio  da
questa vita. - Consolatevi! - diss'io trattenendo a stento le lagrime.  -  Siete
fra le braccia d'un amico.  -  Oh,  Carlino!  -  mormorò  Alessandro.  -  Addio,
Carlino! Se vuoi che faccia  qualche  cosa  per  te,  non  hai  che  a  parlare.
L'Imperatore del Brasile è mio amico. Bruto mi strinse la mano  perché  non  era
affatto fuori di sé; ma indi a  poco  tornò  a  svariare  anch'esso,  e  ambidue
svelavano in quelle ultime fantasticaggini dell'anima tanta  bontà  di  cuore  e
tanta altezza di sentimenti, che io piangeva a cald'occhi e mi disperava di  non
poter trattenere i loro spiriti che si alzavano al cielo.  Tornarono  in  sé  un
momento per salutarmi, per salutarsi a vicenda, per sorridere e per  morire.  La
Pisana, l'Aquilina ed Enrico, che vennero indi a poco, mi trovarono piangente  e
genuflesso fra due cadaveri. Il giorno  stesso  moriva  nel  campo  dell'assedio
sotto Mestre il general Partistagno. Aveva, lontani di là poche miglia, numerosi
figliuoli de' quali nessuno poté consolare i  suoi  ultimi  momenti.  Dopo  aver
chiuso gli occhi a due tali amici mi parve che non era un peccato desiderare  la
morte; e mi levai  col  pensiero  alla  mia  Pisana  che  forse  mi  contemplava
dall'alto dei cieli, domandandole  se  non  era  tempo  ch'io  pure  passassi  a
raggiungerla. Un'intima  voce  del  cuore  mi  rispose  che  no:  infatti  altri
tristissimi uffici mi restavano da compiere.  Pochi  giorni  appresso  il  conte
Rinaldo fu colto dal cholera che già cominciava la sua strage massime nel popolo
affamato. Le bombe avevano accalcato  la  gente  nei  sestieri  piú  lontani  da
terraferma, ed era uno spettacolo doloroso e solenne quella mesta pazienza sotto
a tanti e cosí mortiferi flagelli. Il povero Conte era già agli estremi quand'io
giunsi al suo capezzale; sua sorella, incurvata dagli anni e dai  patimenti,  lo
vegliava con quell'impassibile coraggio che non abbandona mai coloro che credono
davvero. - Carlino - mi disse il moribondo - ti ho  fatto  chiamare  perché  nei
frangenti in cui mi trovo mi risovvenne della mia opera che  corre  pericolo  di
rimaner imperfetta. Or dunque l'affido a te; e voglio  che  tu  mi  prometta  di
stamparla in quaranta fascicoli nell'egual carta e formato del primo!... - Te lo
prometto - risposi quasi con un singhiozzo. -  Ti  raccomando  la  correzione  -
mormorò il morente - e... se giudicassi opportuno... qualche cambiamento...  Non
poté continuare, e  morí  guardandomi  fiso,  e  raccomandandomi  di  bel  nuovo
coll'ultima occhiata quell'unico frutto della sua vita. Io m'adoperai perché gli
fossero resi onori funebri convenienti al suo merito; e raccolsi in casa mia  la
signora Clara che afflitta piucchemai dalla sua paralisi, era quasi impotente  a
muoversi da sola. Ma assai breve ci durò il contento di prestarle  le  cure  piú
assidue ed affettuose che si potessero. Spirò anch'ella il giorno della  Madonna
d'agosto, ringraziando la Madre di Dio che la chiamava a sé  nella  festa  della
sua assunzione al  cielo,  e  benedicendo  Iddio  perché  i  voti  ch'ella  avea
pronunciati cinquant'anni prima per la salute della Repubblica di Venezia, e che
le aveano costato tanti sacrifizi, avessero ricevuto un bel premio sul  tramonto
della sua vita. Io pensai allora a Lucilio; e forse vi pensava anch'ella con  un
sorriso di speranza; perché assai confidava nelle proprie  preghiere,  e  piú  a
mille  doppi  nella  clemenza  di  Dio.  Ai  ventidue  d'agosto  fu  firmata  la
capitolazione. Venezia si ritrasse ultima dal campo delle battaglie italiane,  e
come disse Dante: "A guisa di leon quando si  posa".  Ma  un  ultimo  dolore  mi
rimaneva;  quello  di  vedere  il  nome  di  Enrico  Cisterna  sulla  lista  dei
proscritti. Luciano ch'io aveva lungamente aspettato durante quei due anni s'era
dimenticato affatto di noi; di Giulio aveva ricevuto una  lettera  da  Roma  nel
luglio decorso, ma i disastri successivi mi lasciavano molto dubbioso sulla  sua
sorte; la Pisana avanzata nella gravidanza  s'avviava  col  marito  ai  martirii
dell'esiglio; partí con loro, sopra un bastimento che salpava per Genova, Arrigo
Martelli che avea seppellito a Venezia il povero Rossaroll... Quanti sepolcri  e
quanti dolori viventi e lagrimosi  sopra  i  sepolcri!...  Restammo  soli  io  e
l'Aquilina oppressi costernati taciturni; simili  a  due  tronchi  fulminati  in
mezzo a un deserto. Ma la dimora di Venezia ci diventava ogni giorno piú  odiosa
e insopportabile, finché di  comune  accordo  ci  trapiantammo  in  Friuli,  nel
paesello di Cordovado, in quella vecchia casa Provedoni, piena per noi di  tante
memorie. Là vissimo un paio d'anni nella religione  dei  nostri  dolori;  infine
anch'essa la povera donna fu visitata pietosamente dalla  morte.  E  rimasi  io.
Rimasi a meditare, e a comprendere appieno il terribile  significato  di  questa
orrenda parola: - Solo!... Solo?... ah no, io non era solo!...  Lo  credetti  un
istante; ma subito mi ravvidi; e benedissi  fra  le  mie  angosce  quella  santa
Provvidenza che a chi ha cercato il bene  e  fuggito  il  male  concede  ancora,
supremo conforto, la pace della coscienza e la melanconica  ma  soave  compagnia
delle memorie. Un anno dopo  la  morte  di  mia  moglie  ebbi  la  visita  tanto
lungamente sperata di Luciano e di tutta la sua famiglia: aveva  due  ragazzetti
che parlavano meglio assai il greco che l'italiano, ma tanto essi  che  la  loro
madre mi presero a volere un gran bene, e fu per tutti assai doloroso il momento
della separazione la quale Luciano avea fissato  al  sesto  mese  dopo  il  loro
arrivo, e non fu  possibile  ottenere  la  protrazione  d'un  giorno.  Egli  era
cosifatto; ma per quanti difetti abbia, gli è pur sempre  mio  figliuolo,  e  lo
ringrazio di essersi ricordato di me, e penso con profondo dolore che  non  devo
mai piú rivederlo. Spero che la mia famiglia prospererà sempre nella  sua  nuova
patria; ma nel ricordarmi quei due vezzosi nipotini non posso  fare  a  meno  di
sclamare: perché non son essi Italiani! La Grecia non ha certo bisogno di  cuori
giovani e valorosi che la amino!... Giulio dopo la caduta di Roma mi  avea  dato
novella di sé da molte stazioni del suo  esiglio:  da  Civitavecchia,  da  Nuova
York, da Rio Janeiro. Egli era esule pel mondo, senza tetto, senza speranza,  ma
superbo di aver lavato  col  sangue  la  macchia  dell'onor  suo,  e  di  portar
degnamente un nome glorioso ed amato. Ma poi tutto ad  un  tratto  cessarono  le
lettere e soltanto ne ebbi contezza dai giornali, i quali lo  nominavano  fra  i
direttori di una nuova Colonia Militare Italiana che si formava nella Repubblica
Argentina, nella provincia di Buenos Aires. Ascrissi adunque a infedeltà postali
la mancanza de' suoi scritti, e attesi pazientemente che  il  cielo  tornasse  a
concedermi quella consolazione.  Ma  un'altra  non  meno  desiderata  me  ne  fu
concessa a quel tempo; voglio dire il ritorno in patria della Pisana e d'Enrico,
con una vaga bamboletta che portava il mio nome  e  dicevano  somigliasse  a  un
ritratto fattomi a  Venezia  quand'era  segretario  della  Municipalità.  Allora
solamente, coi miei figliuoli al fianco e colla Carolina sui ginocchi, mi sentii
rivivere. Fu come una tiepida primavera per una pianta secolare che ha  superato
un rigidissimo inverno. Allora solamente,  dopo  quattr'anni  ch'era  tornato  a
Cordovado, ebbi il coraggio di visitar  Fratta,  e  là  passai  coi  nipoti  del
vecchio Andreini, già padri essi pure di  numerosa  figliuolanza,  l'ottantesimo
anniversario del mio ingresso in castello, quando  vi  era  giunto  da  Venezia,
chiuso in un paniere. Dopo il pranzo uscii soletto per rivedere almeno  il  sito
dove già era stato il famoso castello. Non ne rimaneva  piú  traccia;  solamente
qua e là alcuni ruderi fra i  quali  pascolavano  due  capre,  e  una  fanciulla
canterellava lí presso spiandomi curiosamente e sospendendo di filare.  Ravvisai
lo spazio del cortile e in mezzo ad esso la pietra sotto  la  quale  avea  fatto
seppellire il cane da caccia del Capitano. Forse era l'unico monumento delle mie
memorie che restasse intatto; ma no, m'inganno;  tutto  ancora  in  quei  luoghi
diletti mi ricordava i cari anni dell'infanzia e della giovinezza. Le piante  la
peschiera i prati l'aria ed il cielo mi menavano  a  rivivere  in  quel  lontano
passato. Sull'angolo della fossa sorgeva  ancora  alla  mia  fantasia  il  negro
torrione, dove tante volte  aveva  ammirato  Germano  che  caricava  l'orologio;
rivedeva i lunghi corritoi pei quali Martino mi conduceva per  mano  all'ora  di
coricarsi, e la sua romita cameretta dove le rondini non avrebbero  piú  sospeso
il loro nido.  Mi  sembrava  veder  passare  sullo  sterrato  o  Monsignore  col
breviario sotto l'ascella, o il grandioso carrozzone di famiglia  con  entro  il
Conte la Contessa e il signor Cancelliere, o il  cavalluccio  di  Marchetto  sul
quale soleva  arrampicarmi.  Vedeva  capitare  ad  una  ad  una  le  visite  del
dopopranzo, monsignore di Sant'Andrea,  Giulio  Del  Ponte,  il  Cappellano,  il
Piovano, il bel Partistagno, Lucilio; udiva le loro voci tumultuare nel  tinello
intorno ai tavolini da gioco, e la Clara  leggicchiare  a  mezza  bocca  qualche
ottava dell'Ariosto sotto i salici dell'ortaglia.  Succedevano  poi  gli  inviti
clamorosi de'  miei  compagni  di  trastulli;  ma  io  non  rispondeva  loro,  e
ritraevami invece soletto e beato a giocolare colla  Pisana  sul  margine  della
peschiera. Oh con qual  religiosa  mestizia,  con  quanto  dilicato  tremore  mi
accostava a questa memoria che pur palpitava in tutte le altre,  e  cresceva  ad
esse soavità e melanconia!... Oh Pisana, Pisana! quanto piansi  quel  giorno;  e
benedico te, e benedico Iddio che le lagrime dell'ottuagenario non furono  tutte
di dolore. Mi ritrassi a notte fatta da quelle rovine; le passerette sui  pioppi
vicini cinguettavano ancora prima di addormentarsi come  nelle  sere  della  mia
infanzia. Cinguettavano ancora; ma quante  generazioni  si  erano  succedute  da
allora anche in quella semplice famiglia di augelli!...  Gli  uomini  vedono  la
natura sempre uguale, perché non si degnano di guardarla minutamente;  ma  tutto
cangia insieme a noi; e mentre i nostri capelli di neri si fanno canuti, milioni
e milioni d'esistenze hanno compiuto il loro giro. Uscii dal mondo  vecchio  per
tornare nel nuovo; e vi rimisi il piede sospirando; ma il bocchino sorridente  e
le mani carezzevoli della Carolina mi pacificarono anche con esso. Il passato  è
dolce per me; ma il presente è piú grande per me e per  tutti.  L'anno  dopo  fu
triste assai per la notizia che ricevetti della  morte  di  Giulio;  ma  a  quel
dolore ineffabile veniva compagno un conforto, in due  figliuoletti  ch'egli  mi
lasciava. Sua moglie era morta anch'essa prima ch'io sapessi d'averla per nuora.
Il general Urquiza, nell'adempiere alla volontà del defunto col mandare a  me  i
due orfanelli e tutte le sue carte, mi scrisse una  bella  lettera  nella  quale
testimoniava la gran perdita che la Repubblica Argentina avea fatto per la morte
del colonnello Altoviti. La Pisana diventò madre amorosa de' suoi due  nipotini,
a' quali un dilicato pensiero di Giulio aveva imposto i nomi  di  Luciano  e  di
Donato: i miei due figliuoli uno assente e l'altro morto, rivivevano  in  quelle
due care creaturine e la Pisana  stessa  s'incaricò  di  risuscitare  il  terzo,
generando un fratello alla Carolina che fu chiamato Giulio. Allora  io  compresi
appieno quanta cagione di dolcezza e di speranza sia in quel  rigoglio  di  vita
nuova e giovanile che circonda gli anni cadenti della  vecchiaia.  Non  è  tutta
immaginazione quella somiglianza di piaceri tra la gioventù  vissuta  per  sé  e
amata e protetta negli altri. La  famiglia  forma  di  tutte  le  anime  che  la
compongono quasi un'anima collettiva; e che  altro  infatti  son  mai  le  anime
nostre se  non  memoria,  affetto,  pensiero  e  speranza?  -  E  quando  cotali
sentimenti sono comuni in tutto od in parte, non si può  dir  veramente  che  si
vive l'uno nell'altro? Cosí l'umanità s'eterna e si dilata come un solo  spirito
in quei principii immutabili che la fanno  pietosa,  socievole  e  pensante.  La
Pisana avea dato ragione al mio pronostico, e s'era  fatta  una  cosí  buona  ed
amorosa madre, che invero mi pareva un sogno quel colloquio avuto con lei  dieci
anni prima a proposito delle letterine profumate. Il merito di cotal conversione
era in gran parte suo; ma le dure circostanze per le quali  eravamo  passati,  e
l'indole robusta ed assennata del marito non ci furono per nulla. Guardate se io
dovea rendere un omaggio sí giusto a quell'Enrico che mi  sembrava  proprio  per
l'addietro un capo da galera! Non malediciamo a nulla, figliuoli  miei,  neppure
alle disgrazie. Dicono i Francesi che a qualche cosa  sono  buone  anch'esse,  e
piucché a tutto, a procurare quella felicità  certa  e  duratura  che  s'insalda
sulla fortezza dell'animo. Fra le carte di  Giulio  mandatemi  dall'America  era
anche il suo giornale indirizzato a me, e che può essere una prova di quanto ora
vi ho detto. Io ci piansi sopra assai su quelle pagine; ma figuratevi! sono  suo
padre. Per voi basterà che impariate ad amarlo e lo rimeritiate con  un  postumo
suffragio dell'ingiustizia che vivo egli ha saputo cosí  nobilmente  sopportare.
Eccovelo trascritto, che non vi tolgo né vi aggiungo sillaba.


CAPITOLO VENTESIMOTERZO

Nel quale si contiene il giornale di  mio  figlio  Giulio,  dalla  sua  fuga  da
Venezia nel 1848, fino alla sua morte in America nel 1855.  Dopo  tanti  errori,
tante gioie, tante  disgrazie,  la  pace  della  coscienza  mi  rende  dolce  la
vecchiaia; e fra i miei figli e i miei nipotini, benedico l'eterna giustizia che
m'ha fatto testimone ed attore  d'un  bel  capitolo  di  storia,  e  mi  conduce
lentamente alla morte come ad un riposo ad una speranza. Il mio spirito, che  si
sente immortale, si solleva oltre il sepolcro  all'eternità  dell'amore.  Chiudo
queste Confessioni nel nome della Pisana come le ho cominciate; e ringrazio  fin
d'ora i lettori della loro pazienza.


Tonale, giugno 1848

"La superbia fu giudicata il capitale dei peccati  capitali.  Chi  diede  questa
sentenza conobbe per certo l'umana natura. Ma vi sono castighi che sorpassano in
terribilità qualunque gravezza di colpa. Quello che soffersi io non ha  paragone
in qualunque genere di pena: i tiranni della Sicilia non ne seppero inventare di
piú atroci. È vero; fui  orgoglioso.  Disprezzai  chi  non  era  forse  né  meno
veggente né meno coraggioso di me; m'aggirai fra essi colla testa ritta e  colla
frusta in mano come fra uno sciame di conigli; diedi ragione se non  al  diritto
certo alla forza dei padroni, e risi di vederli calpestati perché non li credeva
possibili ad una riscossa. Povero vanerello, che pretendeva conoscere il  vigore
dei muscoli dalla morbidezza della pelle, e giudicava di cavalli  nella  stalla!
Sorse il giorno che il derisore fu lo scherno dei derisi; e  dovette  chinar  il
capo sotto la punizione piú tremenda che possa affliggere il  cuore  d'un  uomo,
sotto un oltraggio immeritato, ma giusto. "È assurdo, lo veggo; ma lo toccai con
mano, e bisogna rassegnarsi. Felice me che non m'ingroppai nei legami insolubili
dell'orgoglio, ma rispettai la giustizia nella stessa ingiustizia, preferendo di
nutrirmi col pane  del  pentimento  piuttostoché  col  sangue  dei  fratelli!...
Traditore e spia! Queste orrende parole mi rintronano ancora le orecchie!...  Oh
era allora il momento di sollevare ai numi il  voto  infernale  di  Nerone.  Che
tutto il genere umano avesse un sol capo per reciderlo: che un silenzio pieno di
rovine di tenebre di strage succedesse a quell'accusa nefanda;  che  io  potessi
sorgere Nemesi implacabile a cantar l'inno della vendetta e dello sterminio!  Ma
i numi non ascoltano i voti del superbo;  essi  versano  l'ambrosia  nei  calici
eterni per immortalare gli eroi, e stringono nella destra il fulmine  infallace,
divorator dei Titani. Una voce divina, che mi parlava in cuore  ma  non  sorgeva
certo dal  cuore  briaco  d'ira  e  d'orgoglio,  mi  riscosse  le  intime  fibre
dell'anima. "Sí! io fui traditore che conculcai la  cervice  degli  oppressi,  e
uccisi la fede per mettere in suo luogo lo scherno e il disprezzo! Fui traditore
che risi della debolezza degli uomini, anziché piangere con essi  e  aiutarli  a
francarsi! Fui lo spione  codardo  che  denunzia  delitti  immaginari,  e  viltà
sognate, per non vergognar di se stesso  dinanzi  a  coloro  ch'egli  accusa!...
Coraggio! Il capo nella polvere, superbo!  Adora  quelli  stessi  che  ieri  hai
vituperato!... Accetta umilmente il vitupero che si  paga  oggi  degli  oltraggi
ieri sofferti! Vendicati se puoi, imitandoli grandemente!... "Queste  furono  le
parole che volsi fremendo a me stesso; e mentre tumultuavano sitibondi di sangue
i consigli dell'ira, l'umiltà del pentimento volse i miei passi alla fuga. Oh io
ti benedico e ti ringrazio, santa divina improvvisa umiltà! Io non  dispero  piú
dell'umanità che sa armarsi di un cosí subito valore contro le proprie passioni.
Ti benedico, o  soave  dolore  dell'espiazione,  o  sublime  sacrifizio  che  mi
abbassasti la fronte per risollevare l'animo mio!... Non  ho  piú  famiglia,  né
nome. Sono uno schiavo della penitenza che ricomprerà i proprii  diritti  d'uomo
di cittadino di figlio a prezzo della sua vita. E quando i  fratelli  leggeranno
in lettere di sangue le virtù del fratello, allora  s'apriranno  le  braccia,  e
sorgeranno mille voci a festeggiare il ritorno dell'uomo redento. Nessuno qui mi
conosce; mi chiamano Aurelio Gianni, un trovatello  dell'umanità,  un  guerriero
della giustizia, e nulla  piú.  Cerco  i  posti  piú  arrischiati,  combatto  le
scaramucce piú audaci; ma il cielo mi vede e mi protegge, il cielo che  mi  darà
vita bastevole a rigenerare il mio nome."

Tonale, luglio 1848

"Suonano tristissime voci; il nostro esercito è in volta; noi sentinelle perdute
fra le gole dei monti, difendiamo il confine che ci fu  affidato,  né  chiediamo
oltre. Battaglie continue ma senza gloria, patimenti lunghi e  ignorati,  veglie
di mesi interi interrotte da sonni sospesi e da brevi avvisaglie. Cotale era  il
tirocinio che mi conveniva. Dove la speranza della gloria e l'emozione acuta del
pericolo compensano ad usura il sacrifizio della vita, non è  il  luogo  di  chi
cerca penitenza e perdono. Ma qui sopra queste erte montagne che  si  avvicinano
al cielo, in mezzo ai burroni profondi e ai fragorosi torrenti,  qui  vengono  i
peccatori a cercar Iddio nella solitudine, qui salgono i soldati  della  libertà
alla redenzione del martirio. "Dopo  aver  combattuto  nelle  prime  file  d'una
giornata campale, dopo aver piantato uno stendardo  sul  bastione  nemico,  dopo
aver ributtato la carica dei lancieri,  e  gridato  l'urlo  della  vittoria  sui
cannoni inchiodati, chi sarà tanto prosuntuoso da dire: io ho ben meritato dalla
patria, datemi la corona di quercia? "La ricompensa  è  nella  grandezza,  nella
fama dell'impresa. Ringraziate, o vincitori, la patria che vi diede occasione di
mostrarvi valorosi, e di pregustare la gioia del trionfo. Non chiedetele corone,
ma porgete riverenti i vostri trofei.  Le  corone  sono  per  coloro  che  senza
l'applauso degli spettatori, senza la speranza della gloria, senza l'avidità del
trionfo combattono pazienti e ignorati. Posterità  servile  ed  ingrata  che  da
tanti secoli t'imbratti i ginocchi dinanzi alle statue di  Cesare  e  d'Augusto,
sorgi una volta, e incurvati ad adorare le larve  sanguinose  dei  Galli  e  dei
compagni d'Arminio. Non la fama ma la virtù comanda gli ossequi; la  magnanimità
che s'asconde sotto le ombre pugnaci  delle  selve  eclissa  col  suo  splendore
quella che passeggia tronfia e baldanzosa le strade di Roma. Anco una volta  gli
uomini sono ingiusti: ma Dio, signore del premio  e  del  castigo,  siede  nella
coscienza."

Lugano, agosto 1848

"Pur troppo era vero. Eccoci ora fuggiaschi senza sconfitta,  come  fummo  prima
vincitori senza trionfo. Ci avevano annunziato una guerra di disperazione  e  di
sterminio; invece un passo dietro l'altro, oggi valicando un  fiume  domani  una
montagna, il volere dei capi ci ritrasse a questi alpestri ripari. Suonarono  al
solito voci di tradimento: tradimenti involontari come il mio, di uomini che non
disprezzarono, ma stimarono troppo. Ma è questo il consueto conforto  dell'umana
debolezza di scaricarsi delle proprie colpe sulle spalle altrui. Intanto io  che
aveva sperato un assalto disperato e  glorioso,  una  morte  o  un  trionfo  che
compissero la redenzione del mio  nome,  eccomi  riconfitto  alla  pazienza  dei
taciti sacrifizi e delle lunghe aspettazioni.  Deggio  attendere  da  un  dolore
senza fine quello che sperava da una sùbita vittoria. Espiazione  anche  questa.
Lo ripeto; il sacrifizio, fosse pur quello della vita, non ricompera nulla senza
la prova della costanza. Finire non è redimere; fra  compassione  e  gratitudine
corre l'ugual tratto che tra colpa perdonata e perdono meritato. Soffrirò dunque
ancora colla ferma coscienza che la Provvidenza mi apre la miglior via a provare
con argomenti invincibili se non la giustizia certo la purezza del mio  passato.
Nei patimenti, vivaddio, io non ho bisogno di ritemprarmi; ma avrò la  forza  di
tacere, finché mi venga incontro spontanea la stima dei miei fratelli."

Genova, ottobre 1848

"Era impaziente di combattere, non per giovanile baldanza ma perché  temeva  che
mi fosse apposto a infingardaggine il forzato riposo. Ma qui pure si va  per  le
lunghe, e forse non hanno torto. Si ricordino che chi presume troppo è  chiamato
poi traditore, al pari di chi fugge nel momento del pericolo. Grande stupidità è
la nostra di misurare la vita dei popoli da quella  degli  individui;  i  popoli
devono, perché possono, aspettare; lo possono perché  hanno  dinanzi  non  venti
trenta  o  cinquant'anni,  ma  l'eternità.  Io  stesso  fin'ora   avrei   voluto
sacrificare la sorte della nazione alla mia smania di  menar  le  mani;  ma  non
ricadrò in questo errore che par generoso ed è pazzo disperato  vile.  Finché  i
nostri desiderii non concorderanno appunto colla moderazione e  coll'opportunità
della vera sapienza le imprese cadranno o in eccesso o in difetto. Impariamo  ad
aspettare pazientemente per non aspettar lungamente. Cosí negli avvenimenti  che
consentono la deliberazione; ma quando il dado è gittato, quando  l'onore  è  in
ballo, si gettino allora peritanze  scrupoli  timori.  Allora  è  concesso  anzi
imposto di mutarsi  da  soldati  in  vittime;  allora  son  proibiti  i  postumi
rincrescimenti, le scambievoli rampogne; allora il sacrifizio  è  una  necessità
non una speranza. Dove si accenda la prima miccia io volerò colla mia  carabina:
non affretterò mai lo scoppio, ma farò mio il pericolo. "Qui alcuni esuli  delle
provincie venete, compagni di scuola o di  stravizzo,  credettero  riconoscermi.
Ghignarono fra loro senza peraltro affrontarmi; ma al giorno dopo li  rividi,  e
diedero segnali piuttosto di stupore d'ammirazione che di  sprezzo.  Pareva  che
avessero indovinato il mio disegno, e lo rispettassero. Seppi dappoi che  aveano
chiesto di me ad alcuni commilitoni, i quali avevano  detto  loro  il  nome  col
quale mi conoscevano, e fatta ampia testimonianza del  valore  dimostrato  nelle
fazioni montane del Tirolo e del Varesotto. Lí fra quei profughi  era  sorto  un
diverbio; ché alcuni affermavano ch'io era Giulio Altoviti ed altri no; e taluno
dei primi mormorava della dubbiezza della mia fede, e dell'obliqua condotta,  ma
i miei compagni d'arme sorsero fieramente a difendermi, dicendo che  Altoviti  o
Gianni, io era per fermo un valoroso soldato, un uomo integro e leale. "Giuseppe
Minotto, uno di quei veneziani, approvò le parole di questi e  persuase  i  suoi
che se io  aveva  scelto  quella  via  per  rintegrarmi  nella  stima  de'  miei
concittadini bisognava sapermene grado, e che l'aver io risposto all'insulto con
imprese forti e magnanime era già validissimo indizio a ritenermi innocente.  Io
ringrazio questo generoso a me appena noto per figura, di aver innalzato la voce
a difendermi fra molti che pochi mesi fa mi si professavano  amici.  Infatti  le
sue parole poterono assai, e ad esse devo il guardingo ma nobile rispetto di cui
son ora circondato. Cercherò di rendermene degno e saprò grado alla  Provvidenza
di questi primi conforti ch'ella mi porge a proseguire animoso il  mio  intento.
"Due  giovani  Partistagno  che  hanno  combattuto   valorosamente   a   Vicenza
nell'aprile decorso, erano il primo giorno i miei piú accaniti detrattori; ma in
seguito mi spiavano piú vogliosamente degli altri, e pareva quasi bramassero  di
rappiccare la vecchia amicizia.  A  me  non  istava  correr  loro  incontro;  li
aspettai. Ma oggi sento che partirono per Torino, ove si stanno ordinando alcuni
reggimenti lombardi. Anch'io ebbi il ticchio di accorrer colà,  e  d'inscrivermi
in quelle schiere; ma la modestia m'impose nuovamente di non far pompa  del  mio
valore; fors'anco fui consigliato da un resticciuolo d'orgoglio a non esporre la
mia penitenza  agli  sguardi  dei  conoscenti  e  degli  amici.  Parrebbe  ch'io
chiedessi il perdono delle colpe che non ho; mentre voglio meritarlo  di  quelle
che ho, e pretendo insieme riparazione delle altre iniquamente imputatemi."

In mare, dicembre 1848

"Per te, padre mio, per te soltanto io mi tolsi di scrivere questi  cenni  della
mia vita. Acciocché se morissi lontano, tu abbia in  quelli  una  prova  che  al
tutto non fui indegno del nome che porti, e ch'io  riprenderò  nel  sepolcro,  o
tornando ribenedetto fra le tue braccia. Oh come nei primi giorni  d'esiglio  mi
pesò grave sul capo il sospetto della tua maledizione! Ma tu  hai  creduto  alla
veracità delle parole che ti scrissi  da  Padova;  non  badando  alla  mia  vita
dissoluta e superba t'affidasti alla costanza dei nuovi proponimenti,  e  appena
puoi conoscere il luogo di mia dimora ecco che mi giungono da te parole di lode,
di conforto, di benedizione! Oh come ho baciato riverente e commosso quel foglio
che mi recava la certezza dell'amor tuo, della tua stima! Ti ringrazio, o  padre
mio, perché ti sei fatto solidale e rivendicatore dell'onor mio presso i  nostri
concittadini. Certo che le tue  parole  meglio  che  le  mie  opere  varranno  a
redimermi dal loro disprezzo; ma lascia tuttavia ch'io combatta e  vinca  da  me
solo, finché possa non ricompensare ma  esser  degno  della  tua  tenerezza.  Ho
baciato e ribaciato la tua lettera, ho accolto con  dovuta  gratitudine  la  tua
benedizione, e ieri nell'imbarcarmi ne rileggeva il tenore e mi piovevano  dagli
occhi le lagrime. "- Eh, eh! giovinotto - disse un vecchio  marinaio  nel  darmi
braccio a salire sul cassero. - Consolatevi, passerà. Lontan dagli occhi, lontan
dal cuore; cosí è l'amore! "Egli credeva che una lettera dell'amante mi  facesse
piangere a quel modo; credeva che avessi lasciato nella mia patria qualche mesta
donzella che sospirasse al mio ritorno  forse  coll'anello  della  promessa  nel
dito!... Felici illusioni!... Che altro ho io  lasciato  a  Venezia  se  non  il
disprezzo del mio nome, e, Dio lo volesse appieno, dimenticanza? Voi solo, padre
mio, e mia madre, e mia sorella, serberete memoria  non  disdegnosa  del  povero
Giulio, e l'anima mia, non beata d'altro che d'amar voi, si consacra fin d'ora a
rendere non iniqua la vostra bontà!"


Roma, 9 febbraio 1849

"Città eterna! Spettro immenso e terribile! Gloria, castigo, speranza  d'Italia!
Innanzi a te tacciono le ire fraterne, come dinanzi alla giustizia onnipresente.
Tu sollevi la voce, e tacciono intenti i popoli dalle nevi dell'Alpi alle marine
dell'Ionio. Arbitra sei del passato e del futuro. Il presente  s'interpone  come
un punto, nel quale tu non puoi capire con tanta mole di memorie e di  speranze.
Oggi, oggi stesso un grande nome risorse  dall'obblio  dei  secoli;  e  l'Europa
miscredente e contraria non avrà coraggio di ripeterlo  col  solito  ghigno:  lo
spirito trabocca dalle parole, sia rispetto o paura egli vi  costringerà,  tutti
quanti siete, a pronunciarla con labbra tremanti. Ma  ogni  respiro  di  Roma  è
espiato con qualche vittima sanguinosa. Nacque dal  fratricidio,  la  liberò  il
sangue di Lucrezia, e Virginia scannata e le recise teste dei Gracchi bruttarono
le piú belle pagine della sua storia. Il pugnale di Bruto atterrò un gigante,  e
aperse la strada ai nipoti, striscianti nel fango. Ed anche ora proviene  da  un
assassinio l'audacia del grande  conato.  Ne  giudichi  Iddio.  Certo  anche  la
coscienza ha i suoi momenti d'ebbrezza che non offuscano per altro  l'immutabile
santità delle leggi morali. Ma rifiuteremo noi gli effetti  per  la  turpitudine
della causa? E chi avrà il diritto di chieder conto  ad  un'intera  nazione  del
delitto d'un uomo? Le storie vanno piene di simili esempi, e  forse  nell'ordine
immenso della Provvidenza le grandi  colpe  sono  compensate  da  piú  grandi  e
generali virtù. Se fossimo anco destinati a nuove disgrazie, a  funeste  cadute,
non accuserò il coltello d'un assassino della rovina d'un popolo. Dio punisce ma
non  vendica.  Altre  colpe  non  ancora  scontate  vorranno  altre  lagrime;  e
l'assassino  nasconderà  nelle  tenebre  i  suoi  rimorsi,  e   noi   mostreremo
alteramente alla faccia  del  sole  il  capo  coperto  di  cenere  e  gli  occhi
splendenti di speranza."


Roma, giugno 1849

"Aveva giurato di non aggiungere una parola, se non avessi  a  scrivere  la  mia
redenzione. Eccomi finalmente... Ho ripreso il mio  nome,  l'onor  mio!  La  mia
famiglia la mia patria saranno contente di me, ed  io  godo  nel  vergar  queste
righe di sentir il dolore della ferita, e di  veder  la  pagina  imbrattarsi  di
sangue. "V'hanno nella mia legione  alcuni  giovani  padovani  che  altre  volte
conobbi. Costoro mi sopportavano assai malvolontieri, e  credo  mi  designassero
alla diffidenza dei compagni; ma io fingeva non m'accorgere di nulla, aspettando
che i fatti parlassero per me. Era tempo, giacché  temeva  che  a  lungo  andare
avrei perduto ogni pazienza. "Da dieci giorni i Francesi hanno aperta la trincea
contro San  Pancrazio.  Gli  assalitori  ingrossavano  sempre  piú;  ma  iersera
s'interpose una specie di tregua e i nostri ne approfittarono per dar riposo  ai
soldati. Soltanto una mezza coorte custodiva  disposta  in  catena  quel  tratto
minacciato dei bastioni; io stava in guardia  dietro  una  gabbionata  costrutta
pochi giorni innanzi e già ridotta a mucchi dal tempestar delle bombe. La  notte
era profonda; e si vedevano da lontano i fuochi del campo d'Oudinot. Tutto ad un
tratto io sentii giù nel fosso uno scalpitar di pedate;  pareva  che  le  scolte
sonnecchiassero, giacché non diedero alcun segno; io gridai "all'armi!", e prima
che mi venisse intorno una dozzina di legionari, già una colonna  di  cacciatori
francesi guadagnava per la breccia il sommo del bastione. Mi ricordai di  Manlio
e solo colla mia  baionetta  ributtai  i  primi;  l'altura  della  posizione  mi
favoriva e fors'anco il comando che avevano gli assalitori di non sparare se non
si fossero prima stabiliti sul bastione. "Infatti essi non  potevano  offendermi
di punta dal sotto in su, e  indietreggiando  misero  qualche  scompiglio  nella
prima fila che disordinò del pari la seconda. Credevano  forse  che  un  maggior
numero di difensori guernisse il muro e vi fu un istante ch'io  credetti  d'aver
bastato da solo a sgominare l'assalto. Ma in quella l'officiale che comandava la
fazione, come spazientito del timore  de'  suoi,  balzò  innanzi  e  giunse  sul
bastione gridando e incoraggiandoli colla spada sguainata; gli  altri  ripresero
animo e lo seguirono tosto. "Io non sapeva che fare; tornai a urlare: "all'armi!
all'armi!", con quanto fiato aveva in corpo, e mentre alcuni  legionari  accorsi
al  grido  si  opponevano  all'irruzione   della   colonna,   io   mi   slanciai
sull'officiale e prima che avesse tempo di adoperare la  sciabola  lo  disarmai;
egli aveva alla cintola una pistola, me ne scaricò un colpo a bruciapelo che non
mi portò via fortunatamente altro che  la  falange  d'un  dito.  "Ma  intanto  i
difensori  spesseggiavano;  il  bastione  rimbombava  di  fucilate,  gli  uomini
accorrevano ai cannoni, e i cacciatori, divisi dal loro capo ch'io  aveva  fatto
prigioniero,  furono  respinti  nel  fosso.  In  pari  tempo  un  altro  assalto
minacciava l'altra estremità della cortina, ma parte dei nostri  ebbe  tempo  di
accorrere colà, finché arrivarono gli aiuti delle caserme; e  si  seppe  poi  da
alcuni prigionieri che tutto in quella notte era disposto per una  sorpresa;  ma
che non era riescita per esser stata respinta la  ricognizione  dei  cacciatori.
"Debbo render giustizia ai miei compagni i quali tutti attribuirono a me l'onore
di quel fatto d'armi, e chiesero unanimi ai capi che ne fossi  ricompensato.  Il
giorno appresso, alla rassegna generale alla quale comparvi colla mano  bendata,
fu letto un ordine del  giorno  nel  quale  si  rendevano  pubbliche  grazie  al
gregario Aurelio Gianni per aver bene meritato della patria, e lo  si  innalzava
al grado di alfiere. Tutti gli occhi si volsero verso di me: io  chiesi  licenza
di parlare. "Dite pure" soggiunse il capitano: giacché nelle nostre  schiere  la
disciplina non era né tanto muta né cosí severa come negli altri  eserciti.  "Io
buttai uno sguardo verso quei giovinotti padovani che stavano in fila poco lunge
da me, e alzando tranquillamente la voce: "Chieggo" soggiunsi "come unica grazia
di rimanere gregario, ma di essere onorato d'una pubblica lode sotto il mio vero
nome. Una di quelle solite tacce di spionaggio e di tradimento che disonorano le
nostre rivoluzioni mi costrinse momentaneamente a lasciarlo; ora che spero  aver
persuaso del loro torto i miei calunniatori, lo riprendo con orgoglio. Mi chiamo
Giulio Altoviti; sono di Venezia!". "Un applauso generale scoppiò  da  tutte  le
file; credo che  se  gli  ufficiali  non  li  trattenevano  avrebbero  rotte  le
ordinanze per abbracciarmi, e vidi dentro a  molti  occhi  avvezzi  a  sostenere
fieramente il fuoco delle archibugiate luccicar  qualche  lagrima.  Ricompostosi
l'ordine e fatto silenzio, il capitano, dopo essersi  consultato  col  generale,
riprese con voce commossa che la  patria  si  gloriava  d'un  figliuolo  che  si
vendicava degli insulti tanto nobilmente; che mi additava per  esempio  onde  le
discordie nostre ricadessero a peggior danno dei nemici, e che in  premio  della
mia generosa costanza mi creava aiutante di campo  del  generale  Garibaldi  col
titolo di capitano. "Un nuovo applauso dei miei commilitoni  approvò  pienamente
questa ricompensa; e poi fu sciolta la rassegna, e marciando verso la caserma io
seguitai a piangere come un fanciullo e parecchi di quei prodi piansero con  me.
Indi a poco sopraggiunsero a intenerirmi piucchemai le proteste e  le  preghiere
di quei giovani padovani che si disperavano di non  avermi  conosciuto  prima  e
supplicavano di esser perdonati della loro diffidenza. Questo fu il  premio  piú
dolce che mi ebbi; e lo palesai loro abbracciandoli uno per  uno.  La  festa  di
tutta la legione, l'ammirazione dei compagni, l'affetto dei superiori,  le  lodi
d'una città intera mi provarono che non è mai chiuso il varco a riconquistare la
pubblica stima colla costanza dei sacrifizi, e che le imprese veramente nobili e
generose non ispirate né da furore né  da  superbia  ammutoliscono  l'invidia  e
trovano ossequio nel mondo. Oh sarebbe cosí dunque, se questa calunniata umanità
fosse cosí vile cosí perversa come taluni ce la descrivono e come io la credeva?
Costretto ad accettar la sua stima come  ricompensa,  io  vergognai  fra  me  di
averla disprezzata senza cognizione di causa, e conobbi che la mia penitenza non
era stata soverchia per un sí grave peccato."


Roma, 4 luglio 1849

"Oh a che giovò mai la nostra perseveranza? Eccoci raminghi in  un  esiglio  che
non finirà forse mai piú! La legione è partita per le Romagne e per la  Toscana,
sperando di colà riguadagnare Venezia o il Piemonte e la Svizzera; ma la  ferita
che mi si  riaperse  nelle  fatiche  di  questi  ultimi  giorni  m'impedisce  di
camminare. Il generale mi forní di alcune lettere per l'America, ove guarito che
fossi mi permettessero d'imbarcarmi e mi volgessi colà. Sí! io mi volgerò  oltre
l'Atlantico! Colombo vi cercava un nuovo  mondo:  io  non  domanderò  altro  che
pazienza. Ma sento che l'onore della nostra nazione è affidato a noi  poveretti,
sbalestrati dalla sventura ai  quattro  capi  della  terra.  Attività  dunque  e
coraggio! Un popolo non consta altro che di anime;  e  finché  la  virtù  affoca
l'anima mia,  la  scintilla  non  è  morta.  Sempre  sarò  degno  del  nome  che
riconquistai e del paese dove son nato. Tu, padre mio, che ai giorni passati  mi
lusingava di rivedere e che oggi dispero di abbracciare mai piú, abbiti l'ultimo
sospiro del tuo figliuolo proscritto. L'amor mio d'or innanzi sarà senza sospiri
e senza lagrime, come quello che si  riposa  solamente  nelle  eterne  speranze.
Penserò a mia madre e a mia sorella come a due  angeli,  che  mi  raddoppieranno
quandochessia la beatitudine del cielo."

In mare, settembre 1849

"La fortuna mi diede compagna d'esiglio una famiglia  romana;  un  padre  ancora
giovine, di quarant'anni al piú,  che  sostenne  cariche  importantissime  nelle
provincie, il dottor Ciampoli di Spoleto, e due suoi figliuoli, la Gemma,  credo
di diciannove anni, e il Fabietto di dodici o quattordici. Al primo  vederli  mi
risovvenne  di  un'incisione  veduta  alcuni  anni  sono,   rappresentante   una
famigliuola di contadini raccolta ad aspettare e a pregare  sotto  una  quercia,
mentre infuria un gran temporale; tanto sono alieni dalla  rabbia  consueta  dei
profughi politici. Si consolano amandosi a vicenda, e, meno Roma, la loro vita è
quella d'una volta. Avessi anch'io meco i miei genitori o i  miei  fratelli!  Mi
sembrerebbe di portar via una gran parte di  patria.  Ma  sono  illeciti  questi
desiderii di far comuni appunto ai nostri piú cari le peggiori  disgrazie.  Come
sopporterebbero mai due poveri vecchi una vita varia stentata angosciosa,  senza
nessuna certezza né di riposo né di sepolcro? Meglio cosí; e che il  destino  mi
condanni  a  patir  solo.  D'altronde  la  lontananza  della  patria  stringe  i
compaesani quasi con legami di famiglia; e m'accorgo  già  di  amare  il  dottor
Ciampoli quasi come padre, e la  Gemma  e  il  Fabietto  come  fratelli.  Quella
giovinetta è la piú soave creatura che m'abbia mai conosciuto; non romana punto;
ma donna in tutto, nella grazia nella gracilità nella  compassione.  "Forse  che
delle donne io non ho cercato finora che le piú abbiette, ma costei mi sembra un
esemplare piú sublime, un tipo quale forse lo avrei sognato se fossi  pittore  o
poeta, ma non avrei creduto mai d'incontrarlo vivo nel mondo.  Non  è  certo  di
quelle che innamorano;  io  almeno  non  oserei;  ma  hanno  in  sé  quanto  può
assicurare la felicità d'una famiglia, e spose e madri passano per la vita  come
apparimenti celesti, tutte per gli altri nulla per sé. Il  mal  di  mare  non  è
guari né piacevole a vedersi né facile a sopportare; pure con quanta premura  la
buona fanciulla si ricordava del Fabietto anche durante gli sforzi piú dolorosi!
Si vedeva che non avea tempo di badare a sé; ed è la stessa che piangeva  questa
mattina perché un gatto che avevamo a bordo annegò in mare. Omai peraltro  tutti
ci siamo assuefatti alla vita marinaresca; e a non vedere  altro  che  cielo  ed
acqua. Si ciarla, si gioca, si legge e di tratto in tratto  anche  si  ride.  La
natura fu clemente di averci concesso il riso  che  se  non  rasserena  l'anima,
ristora almeno le forze: nelle ore che rimango solo,  io  salgo  sul  cassero  e
cerco nell'immensità che ne circonda il pensiero e l'immagine di Dio. Mi ricorda
d'una nostra canzonetta popolare la quale benedice  Iddio  vestito  di  azzurro:
infatti quella espressione non la riconosco vera che  adesso.  Nulla  di  meglio
addita la nascosta presenza d'un Dio che questa immensità azzurra di cielo e  di
mare che  par  tutt'una  e  innalza  la  mente  alla  comprensione  dell'eterno.
Scommetto che quella canzone fu composta da un pescatore chiozzotto,  mentre  la
bonaccia d'estate arrestava il suo burchio in mezzo all'Adriatico  ed  egli  non
vedeva altro che il mare, sua vita, e il  cielo,  sua  speranza.  "Ho  insegnato
quella canzone alla Gemma; essa la  canta  sí  perfettamente  colla  sua  nobile
pronuncia romana, che questi inarmonici marinai inglesi  sospendono  la  manovra
per ascoltarla. Credeva che il viaggio mi annoiasse, ma comincio appunto  ora  a
pigliarci gusto. Spero che a terra non sarò  meno  fortunato;  purché  trovi  da
impiegarmi a Nuova York, ove sembra che il  dottor  Ciampoli  voglia  accasarsi.
Sono ben fornito di danaro, e non mi lasceranno sprovvisto; ma né l'ozio  né  la
monotonia della mercatura son fatti per me; e le commendatizie che porto per gli
Stati Uniti sono tutte per  negozianti.  Nell'America  meridionale  è  una  cosa
diversa: là s'incomincia a vivere  ora  ed  il  nome  italiano  vi  è  altamente
benemerito ed onorato. Sarei pur felice che vi s'andasse colà! La stessa  natura
vergine rigogliosa tropicale m'invita. Qui invece, a Nuova  York,  m'aspetto  di
vedere un mercato d'Europei bastardi, e casse di zucchero e balle  di  cotone  e
numeri e numeri e numeri! Pare impossibile che  chi  ha  traversato  l'Atlantico
possa ridursi a fare una somma!..."

Nuova York, gennaio 1850

"Quanto era stanco di pencolare col mio sigaro in bocca in mezzo a botteghieri e
a sensali! Saranno ottima gente, ma mi par impossibile che  siano  pronipoti  di
Washington e di Franklin; non so, ma credo che questi  grandi  uomini  morissero
senza posterità. Ho fatto anche qualche gita nei  dintorni,  ma  questa  potente
natura mi dà figura d'un leone in gabbia.  È  trattenuta  spartita  tagliuzzata;
bisogna vederla da lontano assai, o nelle nebbie quasi britanniche che abbondano
in questo paese, per aver un'idea dell'America raccontata dai  viaggiatori.  Per
me stento a credere che la nebbia  ci  fosse  ai  tempi  di  Colombo.  L'avranno
portata le macchine a vapore, come si dice ora della crittogama da qualche pazzo
giornalista europeo. Ad ogni modo son contento di partire, e si  partirà  perché
l'ingegnere Carlo Martelli, che doveva giungere  a  Nuova  York  e  al  quale  è
raccomandato il dottor Ciampoli, non può muoversi da Rio Janeiro. Il  Brasile  è
lontano, e il dottore non è per nulla contento d'imprendere un nuovo  viaggio  e
lunghissimo. Io invece non vedo l'ora che si faccia  vela,  e  la  Gemma  sembra
piuttosto propendere per la mia opinione che per quella di suo padre. Quanto  al
fanciullo egli non parla che del Brasile, ed è ubbriaco di  felicità!  Ho  buone
notizie dei miei; godo ottima salute, le persone colle quali vivo mi amano e  mi
stimano; se trovassi un paese da sfogarmi la smania d'attività  che  mi  divora,
potrei star contento alla mia sorte. Che altro è mai la vita  se  non  un  lungo
esiglio?..."

Rio Janeiro, marzo 1850

"Qui almeno siamo in America. Si fiuta ancora l'Europa qua  e  là,  ma  l'Europa
meridionale di Lisbona, non la nordica di Londra. L'ingegner Claudio  Morelli  è
un uomo severo, abbronzato dal sole, e a quanto dicono, onesto e intraprendente:
all'udire il mio nome egli dié un guizzo di sorpresa, e domandò se fossi parente
di quel Carlo Altoviti che avea preso  parte  alle  rivoluzioni  di  Napoli  del
novantanove e del ventuno. Saputo che era suo figlio, si sciolse dalla rigidezza
per gettarmi le braccia al collo, e allora sperai che il  suo  cuore  non  fosse
tutto matematico; imperocché a dirla schietta io ho dei matematici l'egual paura
che dei mercanti. Guai se mi metton al gran cimento d'una  regola  del  tre!  Mi
perderebbero la stima. "Egli mi domandò se mio padre  m'avesse  mai  parlato  di
lui, ed io gli risposi che sí; perché  infatti  mi  risovvenne  allora  come  un
barlume di qualche storia narratami nel quale figurava il nome di  Martelli;  ma
io per disgrazia ho badato sempre poco alle  parole  di  mio  padre,  e  memoria
precisa non me n'era rimasta. Mi significò allora che  da  poco  aveva  ricevuto
lettere di suo fratello il quale sarebbe venuto in America e dimorava  allora  a
Genova con mia sorella e mio cognato: profferendomisi poi in  quanto  mi  poteva
abbisognare, giacché si professava debitore a mio padre di  grandi  beneficii  e
ringraziava il cielo di poterglisi mostrar grato nell'aiutare i figliuoli. Seppi
allora da lui quello che già sospettava, cioè che il  dottor  Ciampoli,  privato
dalla rivoluzione di ogni suo avere e già allo  stremo  di  danaro,  cercava  in
America un mezzo da accumulare alle spicce una piccola fortuna e ridursi  poi  a
viver d'essa o a Genova o a Nizza o in qualche altra città del Piemonte.  Se  io
avessi saputo prima di salpare da Civitavecchia la proscrizione di mio  cognato,
e la dimora di lui e di mia sorella a Genova, certo  mi  sarei  volto  colà.  Ma
allora, oltreché m'adescavano quelle imprese grandi e lontane, mi  doleva  anche
l'anima di abbandonar il buon dottore e la sua famigliuola.  La  compagnia  d'un
giovane può esser loro di grande aiuto e beato me  se  potessi  accelerare  d'un
giorno  solo  l'avveramento  delle  sue  speranze!  Rimasi  dunque,   fermo   di
partecipare alla sua sorte ed al ritorno. "Il  Brasile  è  uno  Stato  nuovo  ed
ordinato. L'ingegnere non disperava di procurare al  dottor  Ciampoli  un  posto
assai lucroso; ma ci voleva tempo. Aspettammo dunque; e al dottore  si  provvide
intanto con un discreto impiego nell'ufficio delle Statistiche Imperiali, mentre
io esponendo i miei titoli di  capitano  ottenni  un  grado  di  maggiore  nella
fanteria di confine. Nell'esercito trovai viva la memoria d'un  altro  amico  di
mio padre, del maresciallo Alessandro Giorgi, che partí due anni fa per  Venezia
al primo annunzio della rivoluzione, e lo dicono morto colà di ferite. Se deggio
credere a quanto mi si narra, fu uomo veramente straordinario:  non  di  sublime
ingegno ma di quella virtù tenace confidente incrollabile che bene  spesso  tien
vece anco d'ingegno. Egli solo, in poco tempo, con ottocento  uomini  di  truppa
regolare ridusse a soggezione, ordinò, e stabilí uniformità di leggi e d'imposte
in quell'immensa provincia centrale di  Mato-Grosso  che  vince  la  Francia  in
grandezza. A udir minutamente tutte le imprese da  lui  condotte  a  termine  in
trent'anni su quei confini ignorati della civiltà, c'è da credere  che  non  sia
passata ancora l'età dei portenti. Se sapessi di prosodia vorrei far vedere  che
i poemi non sono rancidumi; e si può benissimo scriverne finché cotali  eroi  ne
porgono materia. L'Imperatore gli avea donato la duchea di Rio-Vedras;  ma  egli
abbandonò tutto per volare a Venezia. Cosí vorrei vivere, cosí  morire  anch'io.
Né pretendo diventar duca; mi basterebbe che fossi annoverato fra  i  benemeriti
della civiltà. "Ora si ha la speranza che il dottor Ciampoli possa esser mandato
come sopraintendente delle miniere in quella stessa provincia che  fu  campo  di
tanta gloria al maresciallo Giorgi. Io lo seguirei con una scorta di bersaglieri
a piedi ed a cavallo. Ma questo non avverrà che nell'autunno."

Rio Ferreires, novembre 1850

"Non so oggimai perché vado continuando ogni cinque o sei mesi questa mia storia
affatto inconcludente. Quello ch'io scrivo, la mia famiglia  lo  seppe  già  per
lettere; e io non sono un letterato ch'abbia in animo di stampar  la  sua  vita:
tuttavia l'abitudine mi padroneggia; ho cominciato a imbrattar carta parlando di
me, e ci ho pigliato gusto, e di tanto in tanto debbo obbedire ad un ghiribizzo.
Fortuna che è discreto; perché dal principio dell'anno non  ho  empito  che  due
carte, e prima che riprenda la penna dopo averla lasciata questa volta,  Dio  sa
quanto tempo vorrà passare!... Convengo peraltro col mio capriccio,  che  questi
paesi sforzano a scrivere. Partiti  una  volta,  bisognerà  ricorrere  ai  segni
scritti della nostra ammirazione per non credere che la memoria  ci  inganni,  e
che il prisma della lontananza ci cangi i minuzzoli in montagne e in diamanti  i
sassi. Tutto  qui  è  grandioso  intatto  sublime.  Montagne,  torrenti,  selve,
pianure, tutto serba l'impronta dell'ultima  rivoluzione  che  ha  sconvolto  il
creato, e tràttone l'ordine meraviglioso della vita presente. Ma la  vita  della
natura somiglia qui tanto all'europea, come la cadente  esistenza  d'un  vecchio
alla robusta e piena salute del giovine. Accavallamenti e serragli  di  montagne
che s'aggruppano, s'addentrano, s'addossano le  une  alle  altre  circondate  da
boschi misteriosi, e vomitanti, frammezzo alle nevi, eterni vortici  di  fiamme.
Piante secolari, ognuna delle quali  sarebbe  una  selva  sui  fianchi  scarnati
dell'Appennino; vallate dove  l'erba  nasconde  tutta  una  persona,  e  i  tori
selvatici fuggono cornando l'aspetto d'un uomo; torrenti abbandonati in  cascate
di cui l'occhio misura appena l'altezza; e le acque si disperdono in  una  lieve
atmosfera  nebbiosa  che  occupa  tutta  la  valle  e  la  immerge  in  un'iride
incantevole; le viscere della terra chiudono l'oro e  l'argento;  i  macigni  si
spaccano e ne escono diamanti; il gran fiume si volve immenso e tortuoso come un
gran serpente addormentato, fra rive ombrose di banani e di  catalpe.  La  terra
lussureggiante, il sole infocato, il cielo quasi sempre  sereno,  ma  la  fresca
brezza delle Ande consola ogni giornata di qualche ora di primavera. "Oh  se  si
avessero qui le grandi ferrovie delle valli  dell'Ohio  e  del  Mississippí!  Se
questa provincia non fosse lontana  tre  mesi  di  cammino  da  Rio  Janeiro!  È
inutile: la distanza aumenta la mestizia della separazione;  e  per  quanto  sia
irragionevole, due anni nel Mato-Grosso devono sembrar piú lunghi di dieci e  di
venti in Francia od in Svizzera. Pure Venezia è tanto in Francia ed in  Svizzera
come nel Mato-Grosso, ma sembra che  l'aria  ci  porti  piú  facilmente  qualche
sospiro dei nostri cari. "Noi siamo alloggiati da principi, ma la natura  ci  fa
le spese e la mano dell'uomo ci ha poco merito. Una  casa  costrutta  di  pietra
viva ma che somiglia una tenda, tanto è aperta per ogni lato da logge, da atrii,
da gallerie; dietro un gran giardino che finisce alla sponda del fiume,  dinanzi
un cortile dove s'affaccendano gli schiavi e nitriscono i puledri  quando  sulla
sera li raccolgono nelle stalle. La città si stende nella  pianura  sopposta,  e
giunge  anch'essa  fino  al  fiume  che  dietro  il  nostro  giardino  s'incurva
rapidamente: un po' a sinistra sono le caserme dove io vado due volte al  giorno
a  comandar  gli  esercizi  e  a  fare  l'appello  della  notte.  Costoro   sono
ubbidientissimi soldati a Rio Janeiro, ma lungo la strada perdono mano a mano le
loro virtù, si  tramutano  in  scorridori,  in  briganti,  e  qui  poi  di  poco
dissomigliano dagli Indiani che ci molestano di continui  assalti.  "Sono  brevi
guerre, ma sanguinose e piene di rischi. Si tratta di  superare,  col  vitto  di
parecchie giornate in ispalla, rupi quasi inaccessibili,  di  passare  precipizi
orribili sopra alberi tagliati al momento e buttati a cavalcioni da  una  sponda
all'altra, di cercare i nemici come le fiere in antri profondi e  tenebrosi,  in
boscaglie cupe paludose piene di agguati  e  di  serpenti.  Si  ode  un  fischio
rasente l'orecchio, e sono frecce scagliate da  mani  invisibili;  non  sono  né
feriti né prigionieri; le armi sono avvelenate e se fanno sangue  uccidono;  chi
cade nelle mani del nemico è  scannato  senza  remissione;  dicono  che  qualche
buongustaio si diverta anche a mangiarli. Del resto fuori di  questi  passeggeri
trattenimenti la nostra vita è quella dei ricchi villeggianti sulle  rive  della
Brenta; piú questo cielo, e  questa  magica  natura  che  tramuta  la  terra  in
paradiso. Il dottor Ciampoli, ispettore delle miniere, rimase assente due o  tre
giornate nei suoi giri di sorveglianza: egli ha avviato un commercio di diamanti
con Bahja, che frutterà assai in poco tempo. Di solito gli serve  di  scorta  un
sergente con dieci uomini, ma qualche volta l'accompagno io. Scegliamo allora le
gite piú pittoresche e poetiche, e l'ultima  volta  che  fummo  in  una  miniera
nuovamente scoperta, si vollero condurre  anche  la  Gemma  e  il  Fabietto.  Il
chiasso che si fece in quel piccolo viaggio non è a descriversi; mi parve  esser
tornato alle asinate di Recoaro e  di  Abano.  Quando  si  aveva  a  varcare  un
torrente la Gemma tremava e rideva dalla paura ma pur si fidava di me; e metteva
i suoi piedini sul passatoio l'un dopo l'altro, cosí  daccosto,  cosí  leggieri,
che era cosa da baciarla. Davvero non potrei volerle maggior bene se  fosse  mia
sorella. "Piú spesso quando suo padre è assente, ed io rimango per  badare  alla
soldatesca che ha bisogno di esser curata perché non  diventi  il  flagello  del
territorio, noi passiamo insieme le  piú  simpatiche  giornate  che  si  possano
immaginare. Studiamo insieme un tantino di storia, ed io le  insegno  quel  poco
che so di Atene e di Roma; ella m'insegna  di  ricambio  a  strimpellar  qualche
arietta sul cembalo, e cosí in due mesi si suona già  a  quattro  mani,  che  in
Europa sarebbe un martirio l'udirci; ma qui ne sono  incantati,  e  due  ragazze
mulatte, che sono le sue cameriere, non tralasciano mai di ballare  alla  nostra
musica una indiavolata sarabanda. Davvero che codeste signore schiave hanno  bel
tempo, e se qui stessero tutti i danni della servitù, sarebbe da  sottoscriversi
subito; ma ho già veduto le fattorie  le  piantagioni  di  zucchero,  e  non  ho
coraggio di parlare. "Anche la schiavitù  ha  la  sua  aristocrazia  spensierata
felice e dura ma odiata dagli inferiori piú forse degli stessi padroni. Fra me e
la Gemma si fa anche un po' di scuola al  Fabietto;  egli  sgrammatica  già  nel
francese con inimitabile audacia, e  tutti  insieme  poi  prendiamo  lezione  di
portoghese da un vecchio prete che è cappellano, vescovo, e direi quasi papa del
paese. V'ha, sí nella provincia un vescovo, ma è miracolo se una  volta  in  sua
vita si cimenta  fin  quassù.  Sono  fatiche  da  bestie,  e  i  nostri  prelati
suderebbero a figurarsele: non si trovano qui né parrochi ospitali, né canoniche
spaziose e parate a festa, né mense ben fornite  ad  ogni  due  miglia.  Bisogna
serenare dieci notti prima di trovare una capanna dove un  povero  e  coraggioso
missionario arrischia la vita  per  insegnare  ai  selvaggi  quell'abbicí  della
civiltà che è il cristianesimo. Il maresciallo  Giorgi,  l'invincibile  duca  di
Rio-Vedras, ha fatto assai colle carabine; ma piú faranno, credo,  questi  preti
ignorati pazienti. Qui Voltaire  ha  ancora  torto.  Insomma  se  non  fosse  la
lontananza, l'incertezza delle corrispondenze, e quella  smania  di  novità  che
accresce sempre mano a mano che si veggono cose piú  nuove  e  stupende,  torrei
volentieri di finir qui la mia vita. Ma Venezia?... Oh non pensiamoci!... Papà e
mamma, vi rivedrò io mai piú?... In cielo, è certo."

Rio Ferreires, giugno 1851

"Quanti mesi che non aggiungo nulla a queste poche  note  del  mio  esiglio;  ma
converrebbe appunto o scrivere un volume al mese o  restarsi.  Qui  tutto  nuovo
strano inopinato; ma dopo le lontane escursioni fra le tribù selvagge, si  torna
sempre alla pace e alla giocondità della famiglia. Il  dottore  è  contentissimo
de' suoi negozi. - Ancora un anno - mi dice -  e  rivedremo  Genova!...  Ma  voi
perché non prendete parte al nostro commercio?... perché non  vi  arricchite?  -
Egli crede che la mia famiglia sia  povera,  né  suppone  giammai  che  la  loro
compagnia fosse grandissimo  motivo  di  trapiantarmi  nel  Mato-Grosso;  perciò
rispondo che non ho grandi bisogni, che son giovine, ed è mia sola ambizione  lo
avvezzarmi alle rischiose fazioni militari e tornar in Italia scarso  di  denari
ma ricco d'esperienza. La Gemma sorride di queste  mie  parole,  e  il  Fabietto
strepita ch'egli pure vuol esser soldato e comandare l'esercizio.  Il  diavolino
si fa robusto ed animoso; cavalca vicino a me le mezze giornate, e se usciamo  a
caccia mi vince nell'aggiustatezza del tiro. Ma io ho  compassione  di  uccidere
uccelli di sí  vaghe  piume,  che  ci  guardano  passare  con  tutta  confidenza
appollaiati sul loro ramo. La mano del fanciullo è meno pietosa e non trema come
la mia; egli è intrepido, forte, quasi brasiliano; non serba di Venezia  che  il
colore degli occhi e i bei capelli castano dorati; parla il portoghese  come  lo
avesse imparato a balia, e fa  vergogna  a  noi  che  zoppichiamo  ancora  nella
pronuncia. "Ieri ho ricevuto lettera da casa; ma  il  papà  mi  dice  di  averne
scritte otto o dieci, e questa è la prima che  mi  giunge.  Chi  sa  qual  sorte
avranno corso le mie! Anche l'ingegner Martelli  mi  scrive  che  è  giunto  suo
fratello e che andranno insieme a Buenos Aires, chiamati  da  quel  governo  per
affari coloniali e militari. Colà gli  Italiani  hanno  buon  nome;  il  general
Garibaldi ha lasciato gran desiderio di sé, e si diceva  che  ne  sperassero  il
ritorno. Se fosse prima di tornar in Europa, vorrei passarvi  per  salutarlo,  e
con lui anche i Martelli che mi son cari come fossero del mio sangue.  O  patria
patria, come allarghi i tuoi legami per tutto il mondo! Due nati  sotto  il  tuo
cielo si riconoscono senza palesar il proprio nome sulla terra straniera, e  una
forza irresistibile li spinge l'uno all'altro fra le braccia!..."

Villabella, aprile 1852

"Che orribili giorni! Son due mesi che ci penso e non mi sono ancora  indotto  a
scriver sillaba. Oh mi sarei strappato l'anima coi denti se avessi saputo l'anno
scorso quali cose tremende e funeste doveva accogliere questa pagina! -  Ella  è
là che dorme; la sua mente si è rischiarata, la salute si rinfranca ogni  giorno
meglio, tornando le rose sul suo bel volto,  e  gli  occhi  risplendono  fra  le
lagrime. Qual doloroso spettacolo il freddo  letargo  e  i  sùbiti  delirii  dei
giorni addietro! Ma adesso la tempesta ricade in calma; vince la buona natura, e
sento di qui il suo respiro tranquillo ed uguale come d'un bambino addormentato.
Scriviamo prima che le scene spaventose di quella  tragedia  non  si  confondano
affatto  nella  memoria  che  raccapriccia  tuttora.  "Sul  principio   d'agosto
dell'anno scorso erasi notata  qualche  inquietudine  nelle  tribù  indiane  che
scendono a svernare sulle rive  del  fiume,  anzi  io  avea  fatto  chiedere  di
soccorso il governatore di Villabella, ma per la lontananza non ci avea  lusinga
di averne prima della primavera susseguente; bensí avea fatto munire intanto con
fuciliere e cannoni le nostre caserme, di modo  che  quel  fortino  improvvisato
difendesse anche gli approcci della nostra residenza. Ma la cosa si contenne nei
limiti delle avvisaglie fino al gennaio passato,  quando  essendo  scoppiato  un
tumulto piú pericoloso intorno alla miniera dell'ovest, io dovetti accorrere  in
fretta colà con gran parte della guarnigione a dar un esempio. Quella fazione mi
tenne lontano piú ch'io non credessi; i  selvaggi  combattevano  con  un'astuzia
particolare, e soltanto dopo tre settimane giungemmo a  ricacciarli  di  là  dal
fiume e a bruciar loro le barche. "Sicuri che non ci darebbero noia per un pezzo
ci rivolsimo verso Rio Ferreires, quando a mezzo cammino si  trovò  un  corriere
che ci dava molta fretta per esser la città minacciata dagli  Indiani.  Ad  onta
che i soldati fossero stanchissimi, sforzammo  disperatamente  le  marce  perché
molti aveano lasciato nelle caserme le loro mogli e  si  viveva  in  grandissima
ansietà. Io temeva assai del dottor Ciampoli, il quale per essere molto fiero  e
risoluto poteva arrischiare sé ed i suoi a qualche tristo cimento. La prima cosa
che mi colpí gli occhi  quando  giunsimo  in  vista  di  Rio  Ferreires,  fu  la
Sopraintendenza tutta quanta in fiamme. Il furore, la rabbia ci raddoppiarono le
forze e per tutte quelle cinque miglia che restavano fu una corsa sfrenata.  Gli
Indiani, in fatto, avevano assaltato di  nottetempo  le  caserme,  inchiodato  i
cannoni, e scannato per sorpresa gran parte degli uomini, facendo prigioniere le
donne. "I pochi superstiti si erano rifugiati alla residenza; ma colà appunto si
era rovesciata proprio nel momento del nostro ritorno la  rabbia  dei  selvaggi.
Gridavano di voler uccidere i capi bianchi ch'erano venuti a  spodestarli  della
pianura e della riva del Gran Fiume;  e  lanciavano  contro  le  mura  frecce  e
macigni. Il dottore coi suoi pochi soldati si difendeva gagliardamente,  e  dava
tempo ai coloni del paese di armarsi  e  di  correre  in  aiuto;  fors'anco  noi
potevamo capitar a tempo e tutto era salvo. Ma a quelle fiere rabbiose capitò in
mente il ripiego dell'incendio; grandi ammassi di canne  delle  vicine  fattorie
furono cacciati intorno alla Sopraintendenza, e per opposizione che facessero  i
rinchiusi, in breve un immenso vortice di  fuoco  invase  i  fabbricati.  Allora
furono veduti prodigi di valore e di disperazione; donne  che  si  precipitavano
nelle  fiamme,  uomini  che  si  gettavano  dalle  finestre  e  usciti  semivivi
dall'incendio si facevano strada col pugnale  traverso  i  selvaggi,  schiavi  e
schiave che facevano schermo del  proprio  petto  ai  padroni,  soldati  che  si
piantavano le  spade  nel  cuore  piuttostoché  correre  il  pericolo  di  esser
arrostiti vivi. "Il dottor Ciampoli uscí dalla porta laterale dinanzi alla quale
le fiamme erano meno dense; aveva intorno una scorta di sei uomini  disperati  e
fedeli, dietro il Fabietto che con coraggio maggiore dell'età sua si  trascinava
per mano e quasi portava la Gemma; egli procedeva innanzi  colla  spada  in  una
mano e il pugnale nell'altra. Sperava aprirsi un varco fra i nemici,  ma  usciti
tutti a salvamento dall'incendio, tosto fu loro addosso una frotta tumultuosa di
pelli-rosse. Parevano demonii guizzanti a tafferuglio nelle fiamme dell'inferno,
e noi scendendo dal monte lontano  un  miglio  appena,  ne  vedevamo  allora  le
sinistre apparizioni. Il dottore cadde in ginocchio colpito da una  freccia,  ed
ebbe il coraggio di volgersi ad attirare a sé il garzoncello  che  stringeva  la
Gemma fra le braccia, e continuava a difender sé e loro roteando la spada. Ma la
ferita zampillava sangue come una  fontana,  e  cadde  riverso  mentre  cresceva
intorno la rabbia degli assalitori. Allora il  Fabietto,  fanciullo  miracoloso,
brandí la spada del padre, e abbandonando la sorella svenuta sul cadaver di lui,
sostenne per qualche minuto una battaglia terribile e senza speranza. Oh  perché
il corriere non ci avea incontrati un'ora prima!...  Il  fanciullo,  colpito  da
molte  frecce,  stramazzò  mormorando  il  nome  di  Maria,  e  i  selvaggi   si
precipitarono sopra quei corpi benedetti per adornare il loro mostruoso trionfo;
ma in quella il vecchio prete portoghese  che  avea  saputo  dell'eccidio  della
Sopraintendenza, accorse in camice e stola col crocefisso in mano. L'aspetto  di
quell'uomo disarmato che parlava loro di pace nel linguaggio nativo,  e  che  si
esponeva senza paura ai loro strazii per salvar i fratelli, arrestò un momento i
selvaggi. Intanto ci si dié tempo di giungere. "Quello ch'io  vidi,  quello  che
soffersi e operai nel resto di quella notte, lo sa Iddio; io non me  ne  ricordo
piú. Al mattino  trecento  cadaveri  indiani  s'ammucchiavano  qua  e  là  sullo
sterrato dei forti; ma il povero dottore, suo figlio e duecento dei nostri,  tra
soldati e coloni, ci avean lasciato la vita. La Gemma non era tornata in sé  che
per cadere nella pazzia e d'allora in poi il suo delirio durò quasi due mesi. Le
caserme rovinate, gli stabilimenti incesi, le tribù indiane  che  s'ingrossavano
intorno sempre piú mentre noi eravamo assottigliati di numero  e  di  forze,  ci
persuasero di ritirarci a Villabella. Qui la guarigione della Gemma sembra quasi
assicurata; e mi riprometto entro l'estate  di  giungere  a  Buenos  Aires,  ove
essendosi stabiliti Martelli, io la consegnerò  a  loro  od  anche  dietro  loro
consiglio  la  condurrò  io  stesso  in  Europa.  Dio  secondi  le   mie   buone
intenzioni!..."

Buenos Aires, ottobre 1852

"Tre mesi di viaggio, ma sempre vago, pittoresco, in  paesi  di  bellezze  quasi
favolose. La distrazione guarí affatto la Gemma; ella  mi  sorrideva  quasi  per
ringraziarmi delle molte brighe ch'io mi assumeva per lei. Giunti a Buenos Aires
i Martelli n'erano partiti per una città dell'interno a stabilirvi  i  rudimenti
d'una colonia;  ma  un  capitano  amicissimo  dell'ingegnere,  che  salpava  per
Marsiglia, avrebbe fatto il piacere di condurre la Gemma a Genova presso una sua
zia;  egli  aveva  moglie  a  bordo,  e  il   partito   era   per   ogni   verso
convenientissimo. Quanto a me voleva tornare a Rio Janeiro per prendere di là la
mia rivincita su quegli Indiani maledetti. Senonché,  quand'io  scopersi  queste
mie idee alla Gemma, ella chinò il mento sul petto e due  fiumi  di  lagrime  le
sgorgarono dagli occhi. "- Cosa avete? - le chiesi - forse vi  dispiace  lasciar
l'America? "- Oh tanto! - mi rispose ella singhiozzando e guardandomi con  occhi
pieni di preghiera. "Il resultato si fu che ci sposammo quattro settimane dopo e
si pensò a partire in compagnia per  l'Europa;  allora  non  le  dispiacque  piú
abbandonar l'America, e quanto a me rinunciai per amor suo alla  vendetta  sugli
Indiani. "Oh qual creatura adorabile è la Gemma! Dio mi dia bene, ma da due mesi
che siamo marito e moglie non ho pensato ad altro che  ad  amarla.  Ci  fermammo
qui, sperando di salutare i Martelli ed anche un  Partistagno  che  ci  si  dice
esser con loro; ma siccome pare che tarderanno, penso d'intraprendere  una  gita
nell'interno per salutarli. Intanto fui utile al governo col disegnare  i  piani
d'una nuova colonia sulla spiaggia oltre il Rio, la quale  sarà  composta  tutta
d'Italiani, e pel luogo piú opportuno riescirà certo  assai  meglio  dell'altra,
alla quale invano attendono da un anno i Martelli. Anche vorrei  abboccarmi  con
loro prima di partire per dar loro qualche ragguaglio in proposito;  e  soltanto
mi spiace che essendosi sollevate  le  provincie  del  Mezzogiorno  mi  toccherà
allungare d'assai il viaggio per trovarli."

Saladilla, febbraio 1855

"Son prigioniero da ventotto  mesi  nelle  mani  di  questi  insorgenti  che  mi
trascinano dietro al  loro  campo  come  un  misero  schiavo.  Ho  due  bambini,
figliuoli della schiavitù e della sventura; la loro povera madre  mi  accompagna
sempre, e sconta amaramente l'audacia di aver voluto unire  il  suo  destino  al
mio. Pur troppo, dopo aver lasciato il padre e il fratello  sopra  questa  terra
vorace di America, ci lascerà anche il marito!... La febbre mi consuma e  domani
forse sarò cadavere. "O padre, o  madre  mia!  o  miei  dolci  fratelli,  quanto
sarebbe lieto il mio spirito di spiccar d'infra voi il suo  volo  pel  cielo!...
Benedetto peraltro  Iddio  che  anche  sugli  ultimi  confini  del  mondo  seppe
circondar la mia morte di affetti soavi. Tre angeli intorno al  letto  mi  fanno
fede, notte e giorno, della eterna beatitudine!... "O padre mio,  sento  che  la
morte si avvicina, e che i miei patimenti terreni  sono  al  loro  termine!  Tu,
verso del quale io ebbi sí gran torti, perdona al mio spirito fuggitivo  la  sua
ingratitudine, consola di qualche compianto la penitenza ch'egli si  è  imposta,
rendi pura e onorata la mia memoria se non all'ossequio, alla  compassion  della
patria, e raccogli fra  le  braccia  questa  vedova  infelice  questi  innocenti
orfanelli che la mano di Dio proteggerà guidandoli per mari  e  per  terre  fino
alla soglia della tua casa!... Quand'essi picchieranno umilmente alla tua  porta
tremino di commozione i vostri cuori!...  Che  non  ci  sia  neppur  bisogno  di
pronunciare i vostri nomi!... Io vi farò  conoscenti  l'uno  dell'altro,  io  vi
spingerò l'uno all'altro fra le braccia! Ma il pensiero di Giulio aggiunga e non
tolga dolcezza alle vostre lagrime!..."

Cosí finiva di scrivere il mio sventurato figliuolo, e morí il  giorno  appresso
fra le braccia della moglie. Costei non  sapeva  decidersi  a  partire  da  quel
continente malaugurato nel  quale  riposavano  i  suoi  piú  cari.  S'attardò  a
Saladilla per quanto gli insorgenti le permettessero di tornare a  Buenos  Aires
per imbarcarsi: vi tornò finalmente nel giugno,  ma  la  sua  vitalità  era  già
corrosa da un cancro  immedicabile.  I  Martelli  scrivevano  di  averla  veduta
piegarsi sulla tomba ogni giorno piú colla rassegnazione d'una martire; soltanto
piangeva di abbandonar i suoi figliuoli ma consolavasi col pensiero che affidati
a tali amici essi sarebbero giunti a salvamento nella famiglia del  padre  loro.
Le parole ch'ella aggiunse di suo proprio pugno  sotto  il  giornale  di  Giulio
furono e saranno sempre inondate dalle mie lagrime ogniqualvolta le leggerò.

"Padre - diceva ella - mi rivolgo a voi, perché altro  padre,  né  fratello,  né
parente io ho piú sulla terra; soltanto due figliuoletti mi  siedono  ora  sulle
ginocchia, che domani giocheranno su una  tomba.  Padre  mio,  divisi  da  tanto
mondo, pure l'affetto, o morti o vivi, ne congiungerà sempre.  Io  ho  amato  il
vostro Giulio come lo amaste voi; ora egli mi chiama dall'alto dei cieli  ed  io
per volontà di Dio son la prima a seguirlo.  Oh  perché  non  ho  potuto  bearmi
almeno una volta delle vostre venerabili sembianze? Sconosciuti l'uno  all'altra
passammo per questa terra, ed eravamo tanto uniti quanto lo può essere  a  padre
figliuola. Ma anche questa è un'arra che ci  vedremo  nel  cielo.  Dio  non  può
dividere per sempre l'amore  dall'amore;  e  gli  spiriti  traverso  gli  spazii
dell'universo si trovano piú facilmente che due amici in un  piccolo  paese.  Oh
padre mio, voi tarderete a seguirci, tarderete pel bene dei figli nostri. Lo so;
c'invidierete,  e  il  tardare  vi  sarà  un  tormento,  ma,  per  carità,   non
abbandonateli orfani affatto sopra la terra! Io son donna, io son debole,  eppur
prego e scongiuro Iddio ch'essi imparino dal vostro esempio e dalla vostra bocca
ad imitare il padre mio. A rivederci, a rivederci in cielo!...".

Cosí si volgeva a me quell'anima celeste dal suo letto  di  morte  e  posava  la
penna per posar insieme i dolori della sua vita mortale. Oh io mi ricordava  suo
padre, mi ricordava la fanciulletta che gli dava mano e attirava gli sguardi  in
piazza per la sua angelica bellezza! Cotale doveva trovarla!... figlia, fantasma
e  dolore!...  Doveva  perderla  prima  di  sapere  d'averla  avuta!...   Doveva
cominciare ad amarla per piangere sopra due tombe invece che sopra a una! Doveva
sollevare le mie speranze al cielo perché là mi  si  concedesse  di  rimeritarla
presto dell'amore ch'ella aveva portato a mio figlio!... Il mio cuore  ebbro  di
speranza, i miei occhi sono pieni di lagrime!... Ed ora vivo coi  miei  figli  e
coi figliuoli dei miei figli, contento di aver vissuto  e  contento  di  morire.
Sono anche felice di poter far qualche bene a vantaggio  degli  altri.  Raimondo
Venchieredo, che è morto qui in campagna durante la rivoluzione, ha avuto l'idea
molto  onorevole  per  me  di  raccomandarmi  la  sua  prole.  Io  ho   scordato
l'inimicizia d'un tempo, e allargo la mia paternità sopra quest'altra  famiglia:
cosí potessi beneficare tutti gli uomini e che la  potenza  corrispondesse  alla
buona volontà!... Luciano mi lusinga d'un'altra visita per questa primavera, e i
piccoli sono lieti di avere per compagno di viaggio il loro zio Teodoro, che non
si è mai ammogliato ed è la loro delizia. Demetrio, poveretto,  datosi  anima  e
corpo alla Russia, s'arrolò per colonnello nella Legione  Moldava,  e  morí  sui
campi di Oltenizza, portando in cielo la speranza dell'impero greco di Bisanzio.
Ma la forza delle idee non si spegne; e le anime  dai  loro  misteriosi  recessi
seguitano a premere questo mondo riottoso e battagliero. Da  ultimo  ho  ripreso
fra mano la famosa opera del conte Rinaldo; e fra un mese ne sarà pubblicato  il
secondo fascicolo; la somma occorrente è già depositata presso il  tipografo,  e
la stampa non soffrirà interruzioni. Spero che se ne  gioverà  assai  la  patria
letteratura, e che gli studi critici sul commercio veneto  e  sulle  istituzioni
commerciali dei Veneziani durante il Medio Evo serviranno di splendido  commento
alla storia che va compilando con sí profonda dottrina il  nostro  Romanin.  Gli
Italiani impareranno a conoscere un altro ingegno sterminato e  modesto  che  si
consumò oscuramente nella  polvere  delle  biblioteche  e  fra  le  cifre  d'una
ragioneria; io sarò contento di aver eseguito  appuntino  gli  ultimi  desiderii
d'un uomo che meritava piú assai  di  quanto  non  cercò  mai  di  ottenere.  Le
domeniche  quando  colla  carrozza  (ohimè!  sento  anch'io   lo   scirocco   di
Monsignore!) conduco la Pisana, mio genero e i quattro nipotini o  alla  fontana
di Venchieredo od a Fratta, mi passa sulla fronte una nuvola di  melanconia;  ma
la cancello tosto colla mano e riprendo la solita ilarità. Enrico si  maraviglia
di trovarmi cosí sereno ed allegro dopo  tante  disgrazie,  nell'età  non  tanto
allegra di ottantatré  anni.  Io  gli  rispondo:  -  Figliuolo  mio,  i  peccati
affliggono piú delle disgrazie;  ma  quei  pochi  che  aveva  io,  credo  averli
scontati abbastanza, e non me ne spauro. Quanto alle disgrazie,  non  danno  piú
gran fastidio sul limitare della tomba: e senza  creder  nulla  senza  pretender
nulla mi basta esser sicuro che al di là né mi attende sorte peggiore né castigo
veruno! Bada a procacciarti una tal sicurezza, e morirai sorridendo! Sí,  morire
sorridendo! Ecco non lo scopo, ma la prova che la vita non fu spesa inutilmente,
ch'essa non fu un male né per noi né per gli altri. Ed  ora  che  avete  stretto
dimestichezza con me, o amici lettori, ora che avete ascoltato pazientemente  le
lunghe confessioni di Carlo Altoviti, vorrete voi darmi l'assoluzione? Spero  di
sí. Certo presi a scriverle con questa lusinga, e  non  vorrete  negare  qualche
compassione ad un povero vecchio, poiché  gli  foste  cortesi  di  sí  lunga  ed
indulgente compagnia. Benedite, se non altro, al tempo nel quale ho vissuto. Voi
vedeste come io trovai i vecchi ed i giovani  nella  mia  puerizia,  e  come  li
lascio ora. È un mondo nuovo affatto, un rimescolio  di  sentimenti  di  affetti
inusitati che si agita sotto la  vernice  uniforme  della  moderna  società;  ci
pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia. Oh, se  come
dissi un'altra volta, noi non pretendessimo misurare col nostro tempo  il  tempo
delle nazioni, se ci accontentassimo di raccogliere il bene che si è potuto  per
noi, come il mietitore che posa contento  la  sera  sui  covoni  falciati  nella
giornata, se fossimo umili e discreti di cedere la continuazione del  lavoro  ai
figliuoli ed ai nipoti, a queste  anime  nostre  ringiovanite,  che  giorno  per
giorno si arricchiscono di quello che  si  fiacca  si  perde  si  scolora  nelle
vecchie,  se  ci  educassero  a  confidare  nella  nostra  bontà  e  nell'eterna
giustizia, no, non sarebbero piú tanti dispareri intorno alla vita! Io non  sono
né teologo né sapiente né filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il
viaggiatore che, per quanto ignorante, può a buon dritto giudicare se  il  paese
da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello.  Ho  vissuto  ottantatré
anni, figliuoli; posso dunque dire la mia. La vita è quale  ce  la  fa  l'indole
nostra, vale a dire natura ed educazione; come fatto fisico  è  necessità;  come
fatto morale, ministero di giustizia. Chi per temperamento e persuasion  propria
sarà in tutto giusto verso se stesso verso gli  altri  verso  l'umanità  intera,
colui sarà l'uomo piú innocente utile e generoso che sia mai passato pel  mondo.
La sua vita sarà un bene per lui e  per  tutti,  e  lascerà  un'orma  onorata  e
profonda nella storia della patria. Ecco l'archetipo dell'uomo vero  ed  intero.
Che importa se anche tutti gli altri  vivessero  addolorati  ed  infelici?  Sono
degeneri, smarriti  o  colpevoli.  S'inspirino  a  quell'esemplare  dell'umanità
trionfante, e troveranno  quella  pace  che  la  natura  promette  ad  ogni  sua
particella ben collocata. La felicità è nella coscienza; tenetevelo a mente.  La
prova certa della spiritualità, qualunque ella si sia, risiede nella  giustizia.
O luce eterna e divina io affido ai tuoi raggi imperituri la mia vita tremolante
e che sta per ispegnersi!... Tanto sembra spento il  lumicino  al  cospetto  del
sole, come la lucciola che si perde nella nebbia. La tranquillità dell'anima mia
è oggimai imperturbata, come la calma d'un mare su  cui  non  possono  i  venti;
cammino alla morte come ad un mistero oscuro imperscrutabile, ma spoglio per  me
di minacce e di paure. Oh se fosse fallace questa mia sicurezza,  la  natura  si
piacerebbe a schernire a contraddire se stessa! Non posso  crederlo;  perché  in
tutto l'universo non ho trovato ancora né un principio che sfreddi e riscaldi né
una verità che neghi ed affermi.  Un  brivido  mi  avvisa  della  vicinanza  del
pericolo; sarebbero tanto cieche le menti da  non  avere  neppur  l'involontario
accorgimento dei nervi?... Oh no! lo sento dentro  di  me;  lo  dissi  con  fede
incrollabile, e lo ripeto ora con ferma speranza. La pace della vecchiaia  è  un
placido golfo che apre a poco a poco il varco  all'oceano  immenso  infinito,  e
infinitamente calmo dell'eternità. Non veggo piú  i  miei  nemici  sulla  faccia
della terra, non veggo gli  amici  che  mi  hanno  abbandonato  ad  uno  ad  uno
velandosi dietro le ombre della morte. De' miei figli  chi  se  n'è  andato  con
generosa impazienza, chi si è scordato di me, e chi rimane al mio fianco per non
farmi disprezzare i beni sicuri di questa  vita  mentre  aspiro  agli  ignoti  e
misteriosi dell'altra. Ho misurato coi brevi miei  giorni  il  passo  d'un  gran
popolo; e quella legge universale che conduce il frutto a maturanza, e costringe
il sole a compiere il suo giro, mi assicura che la mia speranza sopravviverà per
diventar  certezza  e  trionfo.  Che  deggio  chiedere  di  piú?...   Nulla,   o
fratelli!... Io piego la fronte piú contento che rassegnato  sul  guanciale  del
sepolcro; e godo di vedersi allargar sempre piú gli orizzonti ideali mano a mano
che scompaiono i terrestri dalle mie pupille affralite. O anime, mie sorelle  di
sangue di fede e d'amore, trapassate o viventi, sento che non è finita ogni  mia
parentela con voi!... Sento  che  i  vostri  spiriti  mi  aleggiano  carezzevoli
d'intorno quasi invitando il mio a ricongiungersi col loro aereo drappello...  O
primo ed unico amore della mia vita, o mia Pisana, tu pensi ancora, tu  palpiti,
tu respiri in me e d'intorno a me! Io ti veggo quando tramonta il sole,  vestita
del tuo purpureo manto d'eroina, scomparir fra le fiamme dell'occidente,  e  una
folgore di luce della tua fronte purificata lascia un  lungo  solco  per  l'aria
quasi a disegnarmi il cammino. Ti  intravvedo  azzurrina  e  compassionevole  al
raggio morente della luna; ti parlo come a  donna  viva  e  spirante  nelle  ore
meridiane del giorno. Oh tu sei ancora con me, tu sarai sempre con me; perché la
tua morte ebbe affatto la sembianza d'un sublime ridestarsi a vita  piú  alta  e
serena. Sperammo  ed  amammo  insieme;  insieme  dovremo  trovarci  là  dove  si
raccolgono gli amori dell'umanità passata e le speranze della futura.  Senza  di
te che sarei io mai?... Per te per te sola, o divina, il  cuore  dimentica  ogni
suo  affanno,  e  una  dolce  malinconia  suscitata  dalla  speranza  lo  occupa
soavemente.

FINE.

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