Online Utenti Main site mappa sito pagina gratis e-mail gratis guadagna blog (?)
 goto english version
translate
Home
Aggiorna pagina
Aggiungi ai preferiti
Cerca nel sito
Aggiungi link a
questa pagina
Pagina iniziale
Guestbook
Stampa pagina
contatta AOL - ICQ
Compra da
Astalalista
Inserisci annuncio
Aggiungi Link
Dì ad un amico
di questo sito
Aiuta la battaglia contro lo Spam!
powered by astalalista
Random Link!
Hosted By
HostedScripts.com
preleva - bambini - incontri - meta - altre

Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana

STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA di Francesco De Sanctis

I I SICILIANI

        Il più antico documento della nostra letteratura è  comunemente  creduto
la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo  di  Vincenzo)  di  Alcamo,  e  una
canzone di Folcacchiero da Siena.
        Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo
esse non principio, ma parte di  tutta  un'epoca  letteraria,  cominciata  assai
prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.
        Federico secondo, imperatore d'Alemagna e re  di  Sicilia,  chiamato  da
Dante «cherico grande», cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi  nel  novelissimo
signore, nella cui corte a Palermo venia «la gente che avea  bontade,  sonatori,
trovatori e belli favellatori». E perciò i  rimatori  di  quel  tempo,  ancorchè
parecchi sieno d'altra parte d'Italia, furono detti siciliani.  Che  cosa  è  la
cantilena di Ciullo?
        È una tenzone, o dialogo tra Amante e  Madonna,  Amante  che  chiede,  e
Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle  canzoni
popolari di tutt'i tempi e luoghi, e  che  trovo  anche  oggi  a  Firenze  nella
Canzone tra il Frustino e la Crestaia.
        Ciascuna domanda  e  risposta  è  in  una  strofa  di  otto  versi,  sei
settenari, di cui tre sdruccioli e  tre  rimati,  chiusi  da  due  endecasillabi
rimati. La lingua è ancor rozza e  incerta  nelle  forme  grammaticali  e  nelle
desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi, latine.
Diamo ad esempio due strofe:

AMANTE

        Molte sono le femine
        c'hanno dura la testa,
        e l'uomo con parabole
        le dimina e ammonesta:
        tanto intorno percacciale
        sinchè l'ha in sua podesta.
        Femina d'uomo non si può tenere.
        Guàrdati, bella, pur di ripentere.

MADONNA

Che eo me ne pentesse?
        Davanti foss'io auccisa,
        ca nulla buona femina
        per me fosse riprisa.
        Er sera ci passasti
        correnno alla distisa.
        Acquistiti riposo, canzoneri:
        le tue paraole a me non piaccion gueri.

La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di naturalezza e di  brio  e  di
movimenti drammatici,  rapida,  tutta  cose,  senza  ombra  di  artificio  e  di
rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti  in  forma  ancor  greggia,
ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perchè se l'ingegno  del  poeta
apparisce ne' concetti e ne' sentimenti  e  nell'andamento  vivo  e  rapido  del
dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto  immediato  e  genuino  di  quel
tempo.
        E studiando in quella forma, è facile indurre che c'era  allora  già  la
nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava,  ma
si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio di  frasi  e  di
concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.
        Chi sa quanto tempo si richiede perchè una  lingua  nuova  acquisti  una
certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che
la lingua di Ciullo, ancorachè in uno stato  ancora  di  formazione,  dovea  già
essere usata da parecchi secoli indietro.
        E ci volle anche almeno un secolo, perchè  fosse  possibile  una  scuola
poetica, giunta allora all'ultimo grado della sua storia, quando i  concetti,  i
sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono  in  tutti  i
medesimi.
        Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano  i
dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le lingue nuove o
moderne neolatine, quando e  come  siesi  formato  il  nostro  volgare,  si  può
congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare  per  la
insufficienza de' documenti. Oltrechè, non è questo  il  luogo  di  esaminare  e
chiarire quistioni filologiche  di  così  alto  interesse,  materia  non  ancora
esausta di sottili e  appassionate  discussioni.  Si  possono  affermare  alcuni
fatti.
        La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta  della  nazione,
parlata e scritta da' chierici, da' dottori, da'  professori  e  da'  discepoli.
Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe «la lingua nostra  latina  e
il nostro volgare».
        Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il  volgare.  E
che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell'uso comune  della  vita,
si vede pure da' contratti e istrumenti  scritti  in  un  latino  che  pare  una
traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce  in
uso con un «vulgo dicitur», o «dicto.»
        Questo volgare non era in fondo che lo stesso  latino,  come  erasi  ito
trasformando nel linguaggio comune,  detto  il  «romano  rustico».  Nell'812  il
concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le  omelie  in
«lingua romana rustica». Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli
spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così  nota  alla
plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, «solo che l'oratore
si fosse accostato alla guisa del volgo». Il volgo dunque  parlava  un  dialetto
molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il  nostro  volgare,
anzi quasi non altro che questo, uno nelle  sue  forme  sostanziali,  vario  ne'
diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali,  come  desinenze,  accenti,
affissi, ecc. C'era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine,
e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun'altra.
        Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per le
scuole, negli atti pubblici era usato  un  latino  barbaro,  molto  simile  alla
lingua del volgo. Nell'uso comune il volgare non era parlato in  nessuna  parte,
ma era dappertutto, come il tipo unico a cui s'informavano i dialetti e  che  li
certificava di una sola famiglia.
        Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e  nella  somiglianza
de' vocaboli e delle forme  grammaticali,  e  ne'  mezzi  musicali  e  analitici
sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua  latina.  Il  nome
generico della nuova lingua, come  segno  di  distinzione  dal  latino,  era  il
«volgare». Così Malespini dicea: «la nostra lingua latina e il nostro  volgare»,
cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.
        Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero  rozzi  e
barbari, come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile
a svilupparsi dagli elementi locali  e  plebei,  e  prendere  un  colore  e  una
fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante  variazioni
municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere  fra
loro i dialetti più o meno  conformi  a  quello  stampo,  e  che  si  diceva  il
«volgare», così prossimo al romano rustico.
        Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni  meno  materiali,
formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in  comunicazione
con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse
non quello che è locale, ma quello che è comune.
        La coltura italiana produsse questo doppio  fenomeno:  la  ristaurazione
del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili  da  una  parte  si
studiarono di scrivere in un latino meno  guasto  e  scorretto,  dall'altra,  ad
esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita,  lasciando  alla
spregiata plebe i natii dialetti,  cercarono  forme  di  dire  più  gentili,  un
linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già
uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso  fra
la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.
        Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove sia un gran centro
di coltura, che avvicini le classi colte e sia come il convegno degli uomini più
illustri. Questo fu a Palermo, nella corte di Federico secondo, dove convenivano
siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per dirla col Novellino, «dove
la gente che avea bontade venìa a lui da tutte le parti».
        Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa  Dante.  E
in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto, che non è più dialetto
siciliano e non è ancora lingua  italiana,  ma  è  già,  malgrado  gli  elementi
locali, un parlare comune a tutt'i rimatori italiani, e che tende più  e  più  a
scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire il linguaggio  delle  persone
civili.
        La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di  coltura,  l'araba  e  la
normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era  penetrato  con  gli
arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi  era  penetrato  co'  normanni,  che
ebbero parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che in altre parti  d'Italia
erano vive le impressioni, le rimembranze e i sentimenti di quella grande  epoca
da Goffredo a Saladino; i canti de' trovatori, le novelle orientali,  la  Tavola
rotonda, un contatto immediato con popoli così diversi di  vita  e  di  coltura,
avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita  intellettuale  e  morale.  La
Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella  corte  del
normanno Guglielmo II convenivano i trovatori italiani. Sotto  Federico  secondo
l'Italia colta  avea  la  sua  capitale  in  Palermo.  Tutti  gli  scrittori  si
chiamavano «siciliani». Cronache, trattati scrivevano  in  un  latino  già  meno
rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I  sentimenti  e
le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico,  fondo  comune
di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente  colta,  il  «volgare»,  di
tutt'i volgari moderni il più simile al latino.
        La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com'era
usato in tutt'i trovatori italiani,  ancora  barbaro,  incerto  e  mescolato  di
elementi locali, materia ancora greggia.
        Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco
assai bene inteso di rime, e grande  ricchezza  e  spontaneità  di  forme  e  di
concetti.  Per  giungere  fin  qui  è  stato  necessario  un  lungo  periodo  di
elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova  svegliatasi  in
Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la  sua  espressione  anche  in
Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella  vita  un'espressione  ancor
semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale, è nella  romanza
attribuita  al  re  di  Gerusalemme  e  nel  Lamento  dell'amante  del
crociato, di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti  gentili  e  affettuosi  sono  qui
espressi in lingua schietta e di un pretto stampo  italiano,  con  semplicità  e
verità di stile,  con  melodia  soave.  Cantato  e  accompagnato  da  istrumenti
musicali, questo «sonetto», come lo  chiama  l'innamorata,  dovea  fare  la  più
grande impressione. Comincia così:

        Giammai non mi conforto
        nè mi voglio allegrare.
        Le navi sono al porto
        e vogliono collare.
        Vassene la più gente
        in terre d'oltremare.
        Ed io, oimè lassa dolente!
Come degg'io fare?
        Vassene in altea contrata,
        e nol mi manda a dire:
        ed io rimango ingannata.
        Tanti son li sospire
        che mi fanno gran guerra
        la notte con la dia;
        nè in cielo nè in terra
        non mi pare ch'io sia.

Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di  preghiere  e  di
lamenti, ora raccomandando a Dio l'amato, ora dolendosi con la croce:

        La croce mi fa dolente,
        e non mi val Deo pregare.
        Oimè, croce pellegrina,
        perchè m'hai così distrutta?
        Oinzè lassa tapina!
        ch'io ardo e incendo tutta.

Finisce così

        Però ti prego, Dolcetto,
        che sai la pena mia,
        che me ne facci un sonetto
        e mandilo in Soria:
        ch'io non posso abentare
        notte, nè dia:
        in terra d'oltremare
        ita è la vita mia.

La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana, e  molto  sviluppata
ne' suoi elementi musicali e ne' suoi lineamenti essenziali.
         L'amante  che  prega  e  chiede  amore,  l'innamorata  che  lamenta  la
lontananza dell'amato, o che teme di essere abbandonata, le punture e  le  gioie
dell'amore, sono i temi semplici de' canti  popolari,  la  prima  effusione  del
cuore messo in agitazione dall'amore. E queste poesie, come le  più  semplici  e
spontanee, sono anche le  più  affettuose  e  le  più  sincere.  Sono  le  prime
impressioni, sentimenti giovani e nuovi,  poetici  per  sè  stessi,  non  ancora
analizzati e raffinati.
        Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la partenza in  Storia
della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo  delle  Colonne,
da Messina, dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la sua  pena  e  la  sua
gelosia. Eccone il principio:

        Oi lassa innamorata,
        contar vo' la mia vita,
        e dire ogni fiata,
        come l'amor m'invita,
        ch'io son, senza peccata,
        d 'assai pene guernita
        per uno che amo e voglio,
        e non aggio in mia baglia,
        siccome avere io soglio;
        però pato travaglia.
        Ed or mi mena orgoglio,
        lo cor mi fende e taglia.
Oi lassa tapinella,
        come l'amor m'ha prisa!
        Come lo cor m'infella
        quello che m'ha conquisa!
        La sua persona bella
        tolto m'ha gioco e risa,
        ed hammi messa in pene
        ed in tormento forte:
        mai non credo aver bene,
        se non m'accorre morte,
        e spero, là che vene,
        traggami d'esta sorte.
Lassa che mi dicia,
        quando m'avìa in celato:
         - Di te, o vita mia,
        mi tegno più pagato,
        che s'io avessi in balìa
        lo mondo a signorato.

        Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian fuori  nella  loro
natia integrità senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di  quel  tempo,
anche tra i meno naturali, dove  non  trovi  qualche  esempio  di  questa  forma
primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta  popolare,  e  com'è
una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed  è  allora  che  la
lingua esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e
la diresti «pur mo' nata», e fa contrasto con altre parti  ispide  dello  stesso
canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla,  vi
trova questa gemma:

        Giorno non ho di posa,
        come nel mare l'onda:
        core, chè non ti smembri?
        Esci di pene e dal corpo ti parte:
        ch'assai val meglio un'ora
        morir, che ognor penare.

Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine
trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione,  pur
semplice e sincera:

        Perzò meglio varria
        morir in tutto in tutto,
        ch'usar la vita mia
        in pena ed in corrutto,
        come uomo languente.

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e
colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori  nella
loro crudità elementare. Udite questi versi:

        E par ch'eo viva in noia della gente:
        ogni uono m' è selvaggio:
        non paiono li fiori
        per me, com' già soleano,
        e gli augei per amori
        dolci versi faceano - agli albori.

Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia e lo
commuovono e lo interessano, senza ch'ei  senta  bisogno  di  svilupparli  o  di
abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la
cronaca del suo cuore.
        Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di  forma  e  di
sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo  delle  Colonne.  Sono
due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.
        Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di  fuori,
quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali, non  avea
riscontro nella vita nazionale. La gaia scienza, il codice  d'amore,  i  romanzi
della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle  arabe,  Tristano,  Isotta,
Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto questo era penetrato in  Italia,  e  se
colpiva l'immaginazione, rimaneva estraneo all'anima e alla  vita  reale.  Nelle
corti ce ne fu l'imitazione. Avemmo anche  noi  i  trovatori,  i  giullari  e  i
novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni,  contraffazioni  di  poemi,
romanzi,  rime  cavalleresche.  L'Intelligenzia,  poema  in   nona   rima
ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere. L'amore divenne un'arte,
col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella  donna,  ma  la
donna con forme e lineamenti fissati, così  come  era  concepita  ne'  libri  di
cavalleria. Tutte le donne sono  simili.  E  così  gli  uomini:  tutti  sono  il
cavaliere con sentimenti fattizii e attinti da' libri. Ma il movimento si  fermò
negli strati superiori della società, e non penetrò molto addentro nel popolo, e
non durò. Forse, se la  Casa  sveva  avesse  avuto  il  di  sopra,  questa  vita
cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa  sveva  e
la vittoria de' comuni nell'Italia centrale fecero  della  cavalleria  un  mondo
fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di Fiesole e di Troia.
        Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella e fatta, non trovate
e non lavorate da noi, si trovano messe lì, come tolte di  peso,  con  manifesto
contrasto tra la forma ancor rozza e i  concetti  peregrini  e  raffinati.  Sono
concetti scompagnati dal sentimento che li produsse, e che non  generano  alcuna
impressione. Quando vengono  sotto  la  penna,  il  cervello  e  il  cuore  sono
tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa «trovare» lo rende un trovatore; ma  è
un amore come lo trova scritto nel codice e ne' testi, nè ti è dato sentire  ne'
suoi versi una tragedia sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee in voga
gli tengono luogo d'ispirazione. Sono migliaia di poesie, tutte di un  contenuto
e di un colore, così somiglianti che spesso sei impacciato a  dire  il  tempo  e
l'autore del canto, ove ne' codici sia discordanza o silenzio: ciò  che  non  di
rado accade. La poesia  non  è  una  prepotente  effusione  dell'anima,  ma  una
distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo,
come  erano  le  corti  d'amore,  è  la  gaia  scienza  un  modo  di  passarsela
allegramente, e acquistarsi facile riputazione di spirito e di coltura,  facendo
sfoggio della dottrina d'amore; e chi più mostrava saperne,  era  più  ammirato.
Invano cerchi ne' canti di Federico, di Enzo, di Manfredi, di Pier  delle  Vigne
le preoccupazioni o le agitazioni della loro vita: vi  trovi  il  solito  codice
d'amore, con le stesse generalità. L'arte diviene un mestiere, il poeta  diviene
un  dilettante;  tutto  è  convenzionale,  concetti,  frasi,  forme,  metri:  un
meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel  volgo,  specialmente  usato
dalle donne; la Nina Siciliana  e  la  Compiuta  Donzella  fiorentina  dovettero
parere un miracolo.
        Quello che avvenne si può indovinare.  Migliori  poeti  son  quelli  che
scrivono senza guardare all'effetto e senza pretensione, a diletto e a sfogo,  e
come viene. Anche nelle poesie più  rozze  trovi  bei  movimenti  di  affetto  e
d'immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di  forma,  che  viene  dal  di
dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai  su,
quando ti accosti a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana, ti trovi
già lontano dal vero e dalla  natura,  ed  hai  tutt'i  difetti  di  una  scuola
poetica, nata e formata fuori d'Italia, e  già  meccanizzata  e  raffinata.  Hai
tutt'i difetti della decadenza, un seicentismo  che  infetta  l'arte  ancora  in
culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non  prende  quei  concetti,  così
crudi e nudi, come fanno i rozzi nella loro semplicità, ma per fare  effetto  li
assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi  un  lavoro
c'è, ma freddo e meccanico. Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri,  rime,
tutto è  sforzato,  tormentato,  oltrepassato,  sì  che  il  lettore  ammiri  la
dottrina, lo  spirito  e  le  difficoltà  superate.  Trovi  insieme  rozzezza  e
affettazione. La lingua ancor giovane non  è  raffinata,  come  il  concetto,  e
scopre l'artificio di un lavoro, a cui rimane estranea. E fosse almeno originale
questo lavoro, sì che rivelasse nei poeta una vera svegliatezza e attività dello
spirito! Ma è un seicentismo venuto anch'esso dal di fuori. Eccone un esempio:

        Umile sono ed orgoglioso,
        prode e vile e coraggioso,
        franco e sicuro e pauroso,
        e sono folle e saggio.
        Facciome prode e dannaggio,
        e diraggio
         - Vi' como
        mal e bene aggio
        più che null'omo. -

Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su  questo  andare,  dove  la
rozzezza e la negligenza della forma esclude  ogni  serietà  di  lavoro:  è  una
litania di antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casaccio.
        I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tempi sono  Guido
delle Colonne e il notaio Iacopo da Lentino.
        Guido, dottore o, come allora dicevasi,  giudice,  fu  uomo  dottissimo.
Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco  in  latino  la  Storia
della caduta di Troia, di Darete, una versione che fu poi  recata  parecchie
volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende
ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e gravità del latino: sì  che  meritò  che
Dante le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e  illustre.  Ma
la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il lungo uso di  scrivere
non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica, della  quale  non  era
esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e  di  passaggi,
uno studio di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e  a  freddo.
Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la  dottrina,  studiandosi  di  fare
effetto con la peregrinità d'immagini e  concetti  esagerati  e  raffinati,  che
parrebbero ridicoli, se  non  fossero  incastonati  in  una  forma  di  grave  e
artificiosa apparenza. Ecco un esempio:

        Ancor che l'aigua per lo foco lasse
        la sua grande freddura,
        non cangerea natura,
        se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
        anzi avverrea senza alcuna dimura
        che lo foco stutasse,
        o che l'aigua seccasse;
        ma per lo mezzo l'uno e l'alto dura.
        Così, gentil criatura,
        in me ha mostrato amore
        l'ardente suo valore,
        che senz'amore - era aigua fredda e ghiaccia.
        Ma el m'ha sì allumato
        di foco, che m'abbraccia,
        ch'eo fòra consumato,
        se voi, donna sovrana,
        non foste voi mezzana
        infra l'amore e meve,
        che fa lo foco nascere di neve.

E non si ferma qui, e continua con l'acqua e il foco e la neve, e poi  dice  che
il suo spirito è ito via, e lo «spirito ch'io aggio, credo lo vostro sia che nel
mio petto stia», e conchiude ch'ella lo tira a sè, ed ella  sola  può,  come  di
tutte le pietre la sola calamita ha balìa di  trarre:  paragone  in  cui  spende
tutta la strofa, spiegando come la  calamita  abbia  questa  virtù.  Questi  son
concetti e freddure dissimulate nell'artificio della  forma;  perchè  se  guardi
alla condotta del periodo, all'arte de' passaggi,  alla  stretta  concatenazione
delle idee, alla felicità dell'espressione in dir cose così sottili e difficili,
hai poco a desiderare. In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino  alla
stravaganza, massime ne' sonetti. Non mancano movimenti d'immaginazione  ed  una
certa energia d'espressione, come:

        Ben vorria che avvenisse
        che lo meo core uscisse
        come incarnato tutto,
        e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:
        ch'Amore a tal n 'addusse,
        che se vipera fusse,
        naturia perderea:
        ella mi vederea: - fòra pietosa.

Ma sono  affogati  fra  paragoni,  sottigliezze  e  freddure,  che  nella  rozza
trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente
amore, ma sottilizza d'amore, come:

        Fino amor di fin cor vien di valenza,
        e scende in alto core somigliante,
        e fa di due voleri una voglienza,
        la qual è forte più che lo diamante,
        legandoli con amorosa lenza,
        che non si rompe, nè scioglie l'amante.

Su questa via giunge sino alla più goffa espressione  di  una  maniera  falsa  e
affettata, come è un sonetto, che comincia:

        Lo viso, e son diviso dallo viso,
        e per avviso credo ben visare,
        però diviso viso dallo viso,
        ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc.

Nondimeno questi  passatempi  poetici,  se  rimasero  estranei  alla  serietà  e
intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del  volgare,
sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e  il  periodo  e  gli  elementi
musicali: come si vede principalmente in Guido  delle  Colonne.  Ne'  più  rozzi
trovi de' brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il  Petrarca.
Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi:

        E vero certamente credo dire,
        che fra le donne voi siete sovrana,
        e d'ogni grazia e di virtù compita,
        per cui morir d'amor mi saria vita.

L'Intelligenzia,   poema   allegorico,   pieno    d'imitazioni    e    di
contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che  mostra  nell'ignoto
autore un'anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della  natura,  e  fa
presumere a quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C'è una descrizione
della primavera, non nuova di concetti, ma piena di espressione  e  di  soavità,
come di chi ne ha il sentimento. E continua così:

        Ed io stando presso a una fiumana
        in un verziere all'ombra di un bel pino,
        d'acqua viva aveavi una fontana
        intorneata di fior gelsomino.
        Sentìa l'àire soave a tramontana:
        udìa cantar gli augei in lor latino;
        allor sentìo venir dal fino amore
        un raggio che passò dentro dal core,
        come la luce che appare al mattino.

E descrive così la sua donna:

        Guardai le sue fattezze dilicate,
        che nella fronte par la stella Diana,
        tant' è d'oltremirabile biltate,
        e nell'aspetto sì dolce ed umana!
        Bianca e vermiglia di maggior clartate
        che color di cristallo o fior di grana:
        la bocca picciolella ed aulorosa,
        la gola fresca e bianca più che rosa,
        la parlatura sua soave e piana.
        Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
        che stanno in sì salutevole loco,
        quando li volge, son sì dilettosi,
        che il cor mi strugge come cera foco.
        Quando spande li sguardi gaudiosi
        par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.

Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della natura e della bellezza:
ond'è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche  correzioni  potresti
dir di oggi; così è giovine e fresca.
        E se il sonetto dello «sparviere» è della Nina,  se  è  lavoro  di  quel
tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era
venuto il volgare, maneggiato da un'anima piena di tenerezza e d'immaginazione:

        Tapina me che amava uno sparviero,
        amaval tanto ch'io me ne moria;
        a lo richiamo ben m'era maniero,
        ed unque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito sì altero,
        assai più altero che far non solia;
        ed è assiso dentro a un verziero,
        e un'altra donna l'averà in balìa.
Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito;
        sonaglio d'oro ti facea portare,
        perchè nell'uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
        ed hai rotto li geti e sei fuggito,
        quando eri fermo nel tuo uccellare.

Con la caduta degli Svevi questa vivace  e  fiorita  coltura  siciliana  stagnò,
prima che acquistasse una coscienza più chiara di sè e venisse  a  maturità.  La
rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi,  dopo  tante
ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.
        Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi già nelle  classi
inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non  è
la forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall'immaginazione e  non
so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella  lingua  penetra
questa mollezza, e le dà una fisonomia abbandonata e musicale, come  d'uomo  che
canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità spiccata  de'  dialetti
meridionali.
        La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile
signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli  Angioini,
loro fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e la libertà de' comuni
fu assicurata. La vita italiana, mancata nell'Italia meridionale in  quella  sua
forma cavalleresca e feudale, si concentrò in Toscana.  E  la  lingua  fu  detta
toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De' siciliani  non  rimase  che
questa epigrafe:

Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.




II I TOSCANI

Mentre  la  coltura  siciliana  si  spiegava  con  tanto   splendore   e   lusso
d'immaginazione, e attirava a sè i  più  chiari  ingegni  d'Italia,  ne'  comuni
dell'Italia centrale oscuramente, ma con assiduo lavoro, si formava e puliva  il
volgare. Centri principali erano Bologna  e  Firenze,  intorno  a'  quali  trovi
Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena,  Faenza,  Ravenna,  Todi,  Sarzana,  Pavia,
Reggio.
        Gittando uno sguardo su  quelle  antichissime  rime,  non  vi  trovi  la
vivacità e la tenerezza meridionale; ma uno stile sano e  semplice,  lontano  da
ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare già assai più fino, per la  proprietà
de' vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.
        Trovo una tenzone di Ciacco dall'Anguillara,  fiorentino,  sullo  stesso
tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e più impeto,
e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di  Ciacco  tutto  è  su  uno
stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e in una lingua così propria  e
sicura, che non ne hai esempio ne' più tersi e puliti siciliani. Comincia così:

AMANTE O gemma leziosa,
        adorna villanella,
        che sei più virtudiosa
        che non se ne favella;
        per la virtude ch'hai,
        per grazia del Signore,
        aiutami, chè sai,
        ch'io son tuo servo, Amore.

DONNA Assai son gemme in terra
        ed in fiume ed in mare,
        ch'anno virtude in guerra,
        e fanno altrui allegrare:
        amico, io non son dessa
        di quelle tre nessuna:
        altrove va per essa,
e cerca altra persona. Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase,
che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una
grazia ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita  meridionale.  E  vaglia
per prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile,  così  lontana  dal
plebeo «allo letto ne gimo» di Ciullo:

DONNA Tanto m'hai predicata,
        e sì saputo dire,
        ch'io mi sono accordata:
        dimmi: che t' è in piacere?

AMANTE Madonna, a me non piace
        castella, nè monete:
        fatemi far la pace
        con l'amor che sapete.
        Questo addimando a vui,
        e facciovi finita.
        Donna, siete di lui,
        ed egli è la mia vita.

Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e  sono  i  più
acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare  in
Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:

        Mentr'io mi cavalcava,
        audivi una donzella;
        forte si lamentava,
        e diceva: - Oi madre bella,
        lungo tempo è passato
        che deggio aver marito,
        e tu non lo m'hai dato.
        La vita d'esto mondo nulla cosa mi pare...
         - Figlia mia benedetta,
        se l'amor ti confonde
        de la dolce saetta,
        ben te ne puoi sofferere...
         - Per parole mi teni,
        tuttor così dicendo;
        questo patto non fina,
        ed io tutta ardo e incendo;.
        La voglia mi domanda
        cosa che non suole,
        una luce più chiara che il sole;
        per ella vo languendo.

In queste rappresentazioni schiette dell'animo, e non astratte e pensate, ma  in
casi ben determinati e circoscritti il  poeta  è  sincero,  vede  con  chiarezza
istintiva quello s'ha a fare e dire, come fa il popolo, e  non  esprime  i  suoi
sentimenti, perchè non ne ha coscienza,  tutto  dietro  alle  cose  che  gli  si
presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal
poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione, senza dimorarvi
sopra, parendogli che la cosa in se  stessa  dica  tutto:  semplicità  rara  ne'
meridionali, dov'è maggiore espansione, ma che è qualità principale del  parlare
fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella
fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama maestro Torrigiano:

        Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
        accresce gioia a tutt'i fini amanti:
        vanno insieme alli giardini allora
        che gli augelletti fanno nuovi canti.

        La franca gente tutta s'innamora
        ed in servir ciascun traggesi innanti,
        ed ogni damigella in gioi' dimora,
        e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.

        Chè lo mio padre m'ha messa in errore,
        e tienemi sovente in forte doglia:
        donar mi vuole a mia forza signore.

        Ed io di ciò non ho disio, nè voglia,
        e in gran tormento vivo a tutte l'ore:
        però non mi rallegra fior, nè foglia.

Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di concetto e di condotta,
con minor movimento e grazia e freschezza,  ma  superiore  d'assai  per  arte  e
perfezione di forma:

        Quando l'aria rischiara e rinserena,
        il mondo torna in grande dilettanza,
        e l'acqua surge chiara dalla vena,
        e l'erba vien fiorita per sembianza,

        e gli augelletti riprendon lor lena,
        e fanno dolci versi in loro usanza,
        ciascun amante gran gioi' ne mena
        per lo soave tempo che s'avanza.

        Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
        come altro amante non posso gioire,
        chè la mia donna m' è tanto orgogliosa.

        E non mi vale amar, nè ben servire:
        però l'altrui allegrezza m'è noiosa,
        e dogliomi ch'io veggio rinverdire.

In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero  e  di  andamento,  e  una
perfetta misura. Si ha aria  di  narrare  quello  si  vede  o  si  sente,  senza
riflessioni ed emozioni, ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le  più
vive impressioni. Il secondo sonetto è  cosa  perfetta,  se  guardi  alla  parte
tecnica, ed accenna a maggior coltura; non solo la  nuova  lingua  è  pienamente
formata, ma è già elegante, già la frase surroga i vocaboli propri: a  me  piace
più la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza  più  vivace,  più
immediata e più naturale.
        La proprietà, la grazia e la  semplicità  sono  le  tre  veneri  che  si
mostrano nel volgare, come si era ito formando in  Toscana;  qualità  che  trovi
ancora dove è più difficile a serbarle, quando per  una  impazienza  interna  si
rompe il freno e si dicono i secreti più  delicati  dell'animo,  con  tanta  più
audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e  con  la  sicurezza  di  chi
sente che non ha torto, ma ragione: è una  violenza  raddolcita  da  una  grazia
ineffabile, e  che  per  una  naturale  misura  rimane  ipotetica  nel  seguente
madrigale di Alesso di Guido Donati:

        In pena vivo qui sola soletta
        giovin rinchiusa dalla madre mia,
        la qual mi guarda con gran gelosia.
        Ma io le giuro, alla croce di Dio,
        s'ella mi terrà più sola serrata,
        ch'i' dirò: - Fa' con Dio, vecchia arrabbiata. -
        E gitterò la rocca, il fuso e l'ago,
        amor, fuggendo a te, di cui m'appago.

Questa bella forma, in tanto  spirito  e  vivacità  così  castigata,  propria  e
semplice e piena di grazia, si andò sviluppando  non  perchè  il  suo  contenuto
voleva così, ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed  astratto.  Anzi  che
qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra  il  progresso  naturale
dello spirito toscano, dotato di un certo senso artistico, che  lo  tirava  alla
forma, nella piena indifferenza del contenuto. Perciò  queste  qualità  spiccano
più, dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona
a rappresentare i  fatti  e  i  moti  dell'animo,  come  gli  si  affacciano  in
situazioni ben  determinate,  e  come  sono  nella  realtà  della  vita.  Allora
contenuto e forma sono una cosa stessa, ed  hai  ciò  che  di  più  perfetto  ha
prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate.
Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per
un movimento ingenito, naturale e popolare, com'è stato presso altri popoli.  Ma
sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il  contenuto
era già formato  e  meccanizzato  e  convenzionale:  la  lingua  si  moveva,  il
contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne' più puliti  scrittori,  tutti  del
pari dimenticati, perchè quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da un
contenuto attivo e reale, vivente della vita comune.
        Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a  quei  tempi.
In Toscana, come in Sicilia, ci era già tutto un mondo poetico,  non  formato  a
poco a poco insieme col  volgare,  ma  già  fissato  con  lineamenti  precisi  e
costanti. C'era già una poetica, e c'era anche un vocabolario comune. Concetti e
parole sono in tutt'i trovatori gli stessi. Come più tardi avemmo  le  maschere,
cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nessuno si  attentava  di
alterare, così ci era allora Madonna e Messere.
        Madonna, l'«amanza» o la cosa amata, era un ideale di tutta  perfezione,
non la tale e tale donna, ma la donna in genere, amata  con  un  sentimento  che
teneva di adorazione e di culto. Messere era l'amante, il «meo sere»,  che  avea
qualche valore solo amando. Uomo senz'amore è uomo senza valore. Amare è indizio
di cor gentile. Chi ama è cavaliere, ubbidiente alle leggi dell'onore, difensore
della giustizia, protettore de' deboli, umile servo o servente d'amore, e soffre
volentieri ove a sua Madonna piaccia, e amato sta allegro, ma «senza  vanitate»,
senza menar vanto, e spregia le ricchezze, perchè chi è amato è ricco.  Amore  è
«di due voleri una voglienza», ed  è  senza  «fallimento»  o  «villania»,  senza
peccato, e sta  contento  al  solo  sguardo;  nello  stesso  paradiso  la  gioia
dell'amante è contemplare Madonna, e senza Madonna  «non  vi  vorria  gire».  Il
codice d'amore descrive  i  concetti  e  i  sentimenti  degli  amanti  «fini»  e
«cortesi». Il codice della cavalleria descrive le leggi dell'onore, i doveri  di
cavaliere «leale» e «franco». Come si vede, amore era tutta  la  vita  ne'  suoi
vari aspetti, era Dio, patria e legge; la donna era la divinità  di  quei  rozzi
petti. Chi cerca nelle memorie della prima  età,  troverà  questo  ideale  della
donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l'universo è la Donna.  E  tale
fu negl'inizi della società moderna in Germania, in  Francia,  in  Provenza,  in
Spagna, in Italia. La storia fu fatta a quella immagine. Troiani e romani  erano
concepiti come cavalieri erranti, e così arabi, saraceni, turchi, lo  soldano  e
Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e
Ginevra, Tristano e Isaotta  la  bionda.  In  questa  fraternità  universale  si
trovano gli angioli, i santi, i miracoli, il paradiso in istrana mescolanza  col
fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato sotto  nome  di
cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di uscire nella loro forma,
e sono ancora allegorie. Le idee morali sono motti e proverbi. La letteratura di
questa età infantile sono romanzi e novelle e favole e motti, poemi allegorici e
sonetti nel loro primo significato, cioè rime con suoni, canti e balli, onde  la
canzone e la ballata.
        La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e  castellane  col  loro
corteggio di giullari, trovatori, novellatori e  bei  favellatori  doveano  aver
poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella, e s'era  ordinato
a comune. Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi Casa sveva, quella vita  di
popolo fu assicurata, e le tradizioni  feudali  e  monarchiche  perdettero  ogni
efficacia nella realtà. Rimasero nella memoria, non come regola della  vita,  ma
come un puro gioco d'immaginazione. Nessuno credeva a quel  mondo  cavalleresco,
nessuno gli dava serietà e valore pratico: era un passatempo dello spirito,  non
tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora  quando  un  contenuto  non
penetra   nelle   intime   latebre   della   società   e   rimane   nel    campo
dell'immaginazione, diviene subito frivolo e  convenzionale,  come  la  moda,  e
perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa  immaginazione  era  inaridita
innanzi a un contenuto dato e fissato, come si trovava in  una  letteratura  non
nata e formata con la vita  nazionale,  ma  venuta  dal  di  fuori  per  via  di
traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale, nessun moto di fantasia o
di sentimento; nessuna varietà di contenuto; una così noiosa uniformità, che mal
sai distinguere un poeta dall'altro.
        Questo contenuto non può aver  vita,  se  non  si  move,  trasformato  e
lavorato dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico, che  avea  condotta
già a tanta perfezione la lingua, dovea altresì  risuscitare  quel  contenuto  e
dargli moto e spirito.
        L'Italia avea già una coltura  propria  e  nazionale  molto  progredita:
l'Europa andava già  ad  imparare  nella  dotta  Bologna.  Teologia,  filosofia,
giurisprudenza, scienze naturali, studi classici aveano già con vario  indirizzo
dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto  cavalleresco  dovea
parer frivolo e superficiale ad uomini  educati  con  Virgilio  ed  Ovidio,  che
leggevan san Tommaso e  Aristotile,  nutriti  di  Pandette  e  di  dritto
canonico, ed aperti a  tutte  le  maraviglie  dell'astronomia  e  delle  scienze
naturali. Le tenzoni d'amore doveano parer cosa puerile a  quegli  atleti  delle
scuole, così pronti e così sottili nelle lotte universitarie.  Quella  forma  di
poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente  già  iniziata  in  tutti  gli
artifici della rettorica. Nacque l'entusiasmo della scienza, una specie di nuova
cavalleria che detronizzava l'antica. Lo stesso impeto che  portava  l'Europa  a
Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli  storici  descrivono  co'  più
vivi colori questo grande movimento di curiosità scientifica, il  cui  principal
centro era in Italia.
        E la scienza fu madre della poesia  italiana,  e  la  prima  ispirazione
venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio, e  fu  il  padre  della
nostra letteratura, fu il bolognese Guido Guinicelli,  il  nobile,  il  massimo,
dice Dante, il padre

        mio e degli altri miei miglior, che mai
        rime d'amor usàr dolci e leggiadre.

Guido nel 1270 insegnava lettere nell'università di Bologna. Il volgare era  già
formato, e si chiamava  «lingua  materna»:  l'uso  moderno,  in  opposizione  al
latino. Egli vi gittò dentro tutto  l'entusiasmo  di  una  mente  educata  dalla
filosofia alle più alte speculazioni, e commossa da' miracoli dell'astronomia  e
dalle scienze naturali. È il mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue
fresche impressioni nella sua canzone sulla natura dell'amore. In  generale,  le
poesie de' trovatori sono una filza di concetti addossati gli  uni  agli  altri,
senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed  è  il  luogo  comune  de'
trovatori, espresso nel celebre verso:

        Amore e cor gentil sono una cosa.

Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido, e si mostra  ne'  più
nuovi aspetti. Risorge l'immaginazione,  e  attinge  le  sue  immagini  non  da'
romanzi di cavalleria, ma dalla fisica, dall'astronomia, da'  più  bei  fenomeni
della natura, con la compiacenza, con la voluttà e l'abbondanza di chi addita  e
spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano, s'incalzano, ti par di essere
in un mondo incantato, e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:

        Al cor gentil ripara sempre amore,
        siccome augello in selva alla verdura;
        nè fe, amore anti che gentil core
        nè gentil core anti che amor, Natura.
        Che adesso com' fu il Sole
        sì tosto fue lo splendor lucente
        nè fu davanti al Sole.
        E prende Amore in gentilezza loco
        così propiamente,
        come il calore in chiarità di foco.

        Foco d'Amore in gentil cor s'apprende
        come virtute in pietra preziosa;
        chè dalla stella valor non discende,
        anzi che il Sol la faccia gentil cosa...

        Amor per tal ragion sta in cor gentile,
        per qual lo foco in cima del doppiero...

        Amore in gentil cor prende rivera
        com' diamante dal ferro in la miniera.

        èere lo Sol lo fango tutto il giorno:
        vile riman: nè il Sol perde calore.
        Dice uom altier: - Gentil per schiatta torno: -
        lui sembra il fango; e il Sol gentil valore.
        Chè non dee dare uom fè
        che gentilezza sia fuor di coraggio
        in dignità di re,
        se da virtute non ha gentil core:
        com'acqua ei porta raggio
        e il ciel ritien la stella e lo splendore.

C'è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo stento, come di  un  pensiero
in travaglio, e n'escono vivi guizzi di luce che rivelano le profondità  di  una
mente sdegnosa di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è
ancora trasformato internamente, non è ancora poesia, cioè vita e realtà;  ma  è
già un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere, con
la serietà e la profondità di chi si addentra  ne'  problemi  della  scienza,  e
illuminato da una immaginazione, eccitata non  dall'ardore  del  sentimento,  ma
dalla stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore, non  riceve  e  non
esprime impressioni amorose, ma contempla l'amore e la bellezza con uno  sguardo
filosofico; quello che gli si affaccia non è  persona  idealizzata,  ma  è  pura
idea, della quale è innamorato con quello stesso amore  che  il  filosofo  porta
alla verità intuita e contemplata dalla sua mente,  quasi  fosse  persona  viva.
Così Platone amava le sue idee;  l'amore  platonico  non  era  altro  che  amore
d'intuizione e di contemplazione, una specie di parentela tra il contemplante  e
il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama  la  creatura  della  sua
meditazione, e l'amore gli move l'immaginazione e gli fa trovare  i  più  ricchi
colori, sì ch'ella par fuori pomposamente abbigliata. L'artista è  un  filosofo,
non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo  e  convenzionale,
così fecondo presso i popoli dove  nacque,  così  sterile  presso  noi  dove  fu
importato, succede Platone, la contemplazione filosofica. Non  ci  è  ancora  il
poeta, ma ci è l'artista.  Il  pensiero  si  move,  l'immaginazione  lavora.  La
scienza genera l'arte.
        La coltura cavalleresca, se  giovò  a  formare  il  volgare,  impedì  la
libertà e spontaneità del sentimento popolare, e creò  un  mondo  artificiale  e
superficiale,  fuori  della  vita,  che  rese  insipidi  gl'inizi  della  nostra
letteratura, così interessanti presso altri popoli. Quel  contenuto  stazionario
comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore,
ma da contemplazione  scientifica  dell'amore  e  della  bellezza,  che  se  non
riscalda il core, sveglia l'immaginazione. Questo dunque si ricordi bene, che la
nostra letteratura fu  prima  inaridita  nel  suo  germe  da  un  mondo  poetico
cavalleresco, non potuto penetrare nella vita  nazionale,  e  rimaso  frivolo  e
insignificante; e fu poi sviata dalla scienza, che l'allontanò sempre più  dalla
freschezza e ingenuità del sentimento popolare, e creò una  nuova  poetica,  che
non fu senza grande influenza sul suo avvenire. L'arte italiana nasceva  non  in
mezzo al popolo, ma  nelle  scuole,  fra  san  Tommaso  e  Aristotele,  tra  san
Bonaventura e Platone.
        La poesia di Guido ha  il  difetto  della  sua  qualità:  la  profondità
diviene  sottigliezza,  e  l'immaginazione  diviene  rettorica,   quando   vuole
esprimere sentimenti che non prova.  Vuol  esprimere  il  suo  stato  quando  fu
colpito dal dardo di amore, e dice che quel dardo

        per gli occhi passa, come fa lo trono,
        che fèr per la finestra della torre
        e ciò che dentro trova, spezza e fende.
        Rimagno come statua d'ottono,
        ove spirto, nè vita non ricorre,
        se non che la figura d 'uomo rende.

Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo da Lentino. Ci si  vede
l'uomo d'ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio  d'innamorato  questo
sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.
        Immensa fu l'impressione che produsse questa poesia di Guido se vogliamo
giudicarla da quella che n'ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che  lo  chiamò
padre suo, che la magnifica terza strofa scelse  a  materia  della  sua  canzone
sulla nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica, che nota la  celebrità  a  cui
venne l'uno e l'altro Guido e aggiunge:

        e forse è nato
        chi l'uno e l'altro caccerà di nido.

Guido oscurò tutt'i trovatori e salì a gran fama presso  un  pubblico  avido  di
scienza e pieno d'immaginazione, di cui  Guido  era  il  ritratto;  un  pubblico
uscito dalle scuole, per il  quale  poesia  era  sapienza  e  filosofia,  verità
adorna, e che non pregiava i versi, se non come velame della dottrina:

        Mirate la dottrina che s'asconde
        sotto il velame de li versi strani.

Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando  una  scuola  poetica,  il  cui
codice è il Convito di Dante.
        Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il suo Guittone,  Todi
il suo Iacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.
        Dante mette Guittone tra quelli che  «sogliono  sempre  ne'  vocaboli  e
nelle locuzioni somigliare la plebe». Alla qual  sentenza  contraddicono  alcuni
sonetti attribuiti a lui, e che per l'andamento e la maniera sembrano di fattura
molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni  e  alle  sue  prose,  non  sarà
alcuno che non stimerà giusta la sentenza  di  Dante.  In  Guittone  è  notabile
questo, che nel poeta senti l'uomo: quella forma  aspra  e  rozza  ha  pure  una
fisonomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una  certa  energia
d'espressione. L'uomo ci è, non l'innamorato, ma l'uomo  morale  e  credente,  e
dalla sincerità della coscienza gli viene  quella  forza.  E  c'è  anche  l'uomo
colto, una mente esercitata alla meditazione e al  ragionamento.  I  suoi  versi
sono non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi,
che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico.  Venne  perciò  a  tale
celebrità che fu tenuto per qualche tempo il  primo  de'  poeti;  ma  nella  sua
vecchia età si vide oscurato da' nuovi astri, onde dice il Petrarca:

        Guitton d'Arezzo,
        che di non esser primo par ch'ira aggia.

Nondimeno gli rimasero ammiratori e  seguaci,  con  grande  ira  di  Dante,  che
esclama: «Cessino i seguaci dell'ignoranza, che estollono Guittone d'Arezzo».
        Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in versi,  senza  quelle
grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d'immaginazione ornano i  ragionamenti
di Guinicelli. Non è poeta, e non è neppure artista: gli  manca  quella  interna
misura e melodia, che condusse poeti inferiori a lui di coltura  e  d'ingegno  a
polire il volgare. È privo di gusto e di grazia.
        Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Iacopone, come quelle che
segnano un nuovo indirizzo nella nostra letteratura. Sono le poesie di un santo,
animato dal divino amore. Non sa di provenzali, o  di  trovatori,  o  di  codici
d'amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura  arte,  e  non  cerca  pregio  di
lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso  piacere  con
che i santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole, dare  sfogo  ad  un'anima
traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia
e filosofia, e non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta  così  fuori
di moda dovea in breve esser dimenticato dal  colto  pubblico,  sì  che  le  sue
poesie ci furono conservate come un libro di divozione,  anzi  che  come  lavoro
letterario. E nondimeno c'è in Iacopone  una  vena  di  schietta  e  popolare  e
spontanea ispirazione, che non trovi ne' poeti colti finora discorsi. Se i mille
trovatori italiani avessero sentito amore con la  caldezza  e  l'efficacia,  che
desta tanto incendio nell'anima religiosa di Iacopone, avremmo avuta una  poesia
meno dotta e meno artistica, ma più popolare e sincera.
        Iacopone riflette la vita italiana sotto uno de' suoi aspetti con  assai
più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore. È il  sentimento
religioso nella sua prima e natia  espressione,  come  si  rivela  nelle  classi
inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo, e portato sino al misticismo
ed all'estasi. In comunione di spirito con  Dio,  la  Vergine,  i  santi  e  gli
angeli, parla loro con tutta dimestichezza, e li dipinge  con  perfetta  libertà
d'immaginazione, co' particolari più pietosi e più affettuosi che sa trovare una
fantasia commossa dall'amore. Maria è soprattutto il suo idolo, e le  parla  con
la familiarità e l'insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla:

        Di', Maria dolce, con quanto disio
        miravi 'l tuo figliuol Cristo mio Dio.

        Quando tu il partoristi senza pena,
        la prima cosa, credo, che facesti,
        sì l'adorasti, o di grazia piena,
        poi sopra il fien nel presepio il ponesti;
        con pochi e pover' panni l'involgesti,
        maravigliando e godendo, cred'io.

        O quanto gaudio avevi e quanto bene,
        quando tu lo tenevi fra le braccia!
        Dillo, Maria, chè forse si conviene
        che un poco per pietà mi satisfaccia.
        Baciavi tu allora nella faccia,
        se ben credo, e dicevi: - O figliuol mio! -

        Quando «figliuol», quando «padre» e «signore»,
        quando «Dio», e quando «Gesù» lo chiamavi;
        o quanto dolce amor sentivi al core,
        quando in grembo il tenevi ed allattavi!
        Quanti dolci atti e d'amore soavi
        vedevi, essendo col tuo figliuol pio!

        Quando un poco talora il dì dormiva,
        e tu destar volendo il paradiso,
        pian piano andavi che non ti sentiva,
        e la tua bocca ponevi al suo viso,
        e poi dicevi con materno riso:
         - Non dormir più che ti sarebbe rio. -

Sotto l'impressione del sentimento religioso Iacopone indovina tutte le gioie  e
le dolcezze dell'amor materno. Iacopone  non  concepisce  il  divino  nella  sua
purezza, come un teologo o un filosofo, ma vestito di tutte le apparenze  e  gli
affetti umani. Questa  è  una  scena  di  famiglia,  colta  dal  vero,  con  una
franchezza di colorito e con una grazia di movenze, tutta intuitiva.  Preghiere,
sdegni, follie d'amore, fantasie, estasi, visioni, tutto trovi  in  Iacopone  al
naturale e come gli viene di dentro; ciò che ci è più semplice e  commovente,  e
ciò che ci è più strano e volgare. La forma è il sentimento  esso  medesimo;  ed
ora è soave, efficace, quasi elegante, ora stravagante e plebea. Ha una facilità
che gli nuoce, ed un impeto di espressione che non dà luogo alla  lima.  Ma  ne'
suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e felici, che non disdegnarono
d'imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno terribile che soave; e vagliano  a  prova
alcuni tratti:

        Andiam tutti a vedere
        Iesù quando dormia.
        La terra, l'aria e il cielo
        fiorir, rider facia:
        tanta dolcezza e grazia
        dalla sua faccia uscia.

La faccia di Gesù  bambino,  il  Natale,  la  Vergine,  il  volo  dell'anima  al
paradiso, gli angioli sono visioni piene di  grazia  e  di  efficacia.  Nascendo
Gesù:

        le gerarchie superne
        eran dal ciel discese:
        lucean come lucerne
        d'ardente foco accese
        le loro ale distese.

Gesù ha un corteggio di donne,  che  gli  danzano  intorno,  Verginità,  Umiltà,
Carità, Speranza, Povertà, Astinenza: è qualche cosa di simile alle tre  sorelle
di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Iacopone descrive l'Umiltà:

        E questa era gioconda
        onesta e mansueta,
        e con la treccia bionda
        e a cantar la più lieta;

        d'ogni virtù repleta,
        a me il capo chinava:
        tanto m'assecurava
        ch'io presi a favellare.

Quella stessa immaginazione, che  dipinge  con  tanta  grazia,  rappresenta  con
evidenza terribile i terrori dell'anima peccatrice nel giudizio universale:

        Chi è questo gran Sire,
        rege di grande altura?
        Sotterra i' vorrei gire,
        tal mi mette paura.
        Ove potria fuggire
        dalla sua faccia dura?
        Terra, fa' copritura,
        ch'io nol veggia adirato.
        ... ... ... .
        Non trovo loco dove mi nasconda,
        monte, nè piano, nè grotta o foresta:
        chè la veduta di Dio mi circonda,
        e in ogni loco paura mi desta...
        Tutti li monti saranno abbassati,
        e l'aire stretto e i venti conturbati,
        e il mare muggirà da tutt'i lati.
        Con l'acque lor stara fermi adunati
        i fiumi ad aspettare.
        Allor udrai dal ciel tromba sonare,
        e tutti i morti vedrai suscitare,
        avanti al tribunal di Cristo andare,
        e il foco ardente per l'aria volare
        con gran velocitate.

Iacopone non è un'apparizione isolata; ma si collega  a  tutta  una  letteratura
latina  popolare,  animata  dal  sentimento  religioso.  Là  trovi  il  Salve
regina, e l'Ave maria stella, e il Dies irae, e drammi e  vite
di  santi  scritte  da  uomini  eloquenti  e  appassionati.  Anche  in   volgare
comparivano già cantici e laudi: di Bonifazio papa c'è rimasto un breve e  rozzo
cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia, la passione e morte  di  Cristo,  le
visioni e i miracoli de' santi, i lamenti e le preghiere delle  anime  purganti,
le mistiche gioie del paradiso, i terrori dell'inferno, erano il tema comune de'
predicatori e rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di
«misteri», «feste», «moralità». È rimasta memoria di una  visione  dell'inferno,
con la quale Gregorio settimo quando era predicatore  atterriva  l'immaginazione
de' suoi uditori: ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori  che
mette il brivido. In Morra, mio paese nativo,  ricordo  che  nella  festa  della
Madonna, quando la processione è giunta sulla piazza, comparisce l'angiolo,  che
fa l'annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell'angiolo, che allora apriva
la rappresentazione, annunziando l'argomento. È nota la grande  rappresentazione
dell'altro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte di legno sull'Arno, costò  la
vita a molte persone.
        Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di  pittura  e  di
scultura e di architettura, era efficacissima fonte di poesia,  congiungendo  in
sè il fantastico e l'affetto, il  divino  e  l'umano,  e  nelle  sue  gradazioni
dall'inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde  dello  spirito.  La  sua
tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso  popolare,  che
paganizzava e umanizzava tutto. In  questa  storia  religiosa,  il  cui  proprio
teatro è l'altra vita, a cui questa è  preparazione,  l'uomo  mescolava  le  sue
passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue opinioni, i  suoi  amori.
Maria era l'anello che giungeva la terra al cielo, e  il  devoto  le  parla  con
tutta familiarità, e le ricorda che la è stata pur donna. Iacopone dice:

        Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
        le mie lacrime amare.
        Tu sai che ti son prossimo e fratello,
        e tu nol puoi negare.

Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a lei si raccomanda anche oggi
il brigante nelle sue scellerate spedizioni. Maria, Gesù, i santi, gli  angioli,
Lucifero non bastano: l'immaginazione popolare personifica le virtù, e ne fa  un
corteggio  di  figure  allegoriche  alla  divinità,  rappresentandole  con  ogni
libertà, come fa Iacopone, e come si vede ne' bassirilievi e in tante  opere  di
scultura e  di  pittura.  E  come  il  paganesimo  ne'  suoi  ultimi  tempi  era
interpretato allegoricamente, anche le figure pagane entrano  in  questo  mondo,
torte dal senso letterale e volte a significato generale, come  Giove,  Plutone,
Amore, Apollo, le Muse, Caronte. Come il papa aspirava a far sua tutta la terra,
la storia religiosa assorbiva in sè tutt'i tempi e tutte le  storie.  In  questa
mescolanza universale, opera di una immaginazione primitiva e ancor  rozza,  non
hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo oscuro, il sentimento di
un di là della vita, di un infinito non rappresentabile, superiore  alla  forma,
che riempie lo spazio di grandi ombre;  e  quelle  mescolanze  di  divino  e  di
terreno, di antico e di moderno, di serio e di comico non sono  ben  fuse,  anzi
stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono  un'impressione
irresistibile di contrasto, di cose che cozzano.  Quel  difetto  di  luce  è  il
gotico, e quel difetto di armonia  è  il  grottesco:  e  però  il  gotico  e  il
grottesco sono le prime forme artistiche di quel mondo, com'è  nella  sua  prima
ingenuità, non ancora vinto e domato dall'arte. Il sublime del gotico  si  sente
nel Giudizio universale di Iacopone. Dove la veduta di Dio  ti  circonda,
senza   che   tu   lo   veda,   chiarissimo   al    sentimento,    inaccessibile
all'immaginazione. Il peccatore vede sonar le trombe, turbati  i  venti,  l'aria
immobile, e i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare  per  l'aria;
dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda, non gli dà
forma: non è un'immagine, è un sentimento senza forma,  che  riempie  della  sua
ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi  stupendi,  che
sono veri decasillabi sotto apparenza di endecasillabo, pieni di movimento e  di
armonia:

        chè la veduta di Dio mi circonda
        e in ogni loco paura mi desta.

È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma
ciò che prevale in Iacopone è  il  grottesco,  una  mescolanza  delle  cose  più
disparate, senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che, se fatto  con
intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuità, è grottesco. Trovi  il  plebeo,
l'indecente, il disgustoso misto coi più gentili affetti:  ciò  che  è  pure  il
carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Iacopone
non è già un contrasto che celi alte intenzioni  artistiche,  ma  rozza  natura,
così discorde e mescolata come si trova nella  realtà.  Ecco  il  principio  del
cantico 48:

        O Signor, per cortesia,
        mandami la malsania;
        a me la febbre guartana,
        la continua e la terzana:
        a me venga mal di dente,
        mal di capo e mal di ventre,
        mal de occhi e doglia di fianco
        la postema al lato manco.

La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella de' trovatori. In  questi
è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In
Iacopone è realtà ancora  naturale,  non  ancora  spiritualizzata  dall'arte;  è
materia greggia, tutta discorde, che ti dà alcuni tratti bellissimi,  niente  di
finito e di armonico.
        Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima  impressione
spunta la vita morale, un certo modo  di  condursi  con  regola  e  prudenza;  e
anch'essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia,  è
pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume  la
sapienza degli avi. Il motto rimato è la più antica forma di poesia  nel  nostro
volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:

        Ancella donnea,
        se donna follea.

        In terra di lite
        non poner la vite.

        Uomo che ode, vede e tace
        sì vuol vivere in pace.

        Chi parla rado
        tenuto è a grado.

        Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Iacopone in un  suo
carme, una specie di catechismo a  uso  della  vita,  illustrati  brevemente  da
qualche immagine o paragone, ora goffo, ora egregio  di  concetto  e  di  forma.
Sulla vanità della vita dice:

        Lo fior la mane è nato,
        la sera il vei seccato.

Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la elegante  traduzione  dello
stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una  Venere  intonacata  e
lisciata:

        Fresca è la rosa di mattino: e a sera
        ella ha perduta sua bellezza altera.

I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per esempio  e  per  immagini,
come fa l'immaginazione popolare, e nella loro brevità e succo è  il  principale
attrattivo.

        Ove temi pericolo,
        non fare spesso posa.

        Sappi di polver tollere
        la pietra preziosa,
        e da uom senza grazia
        parola graziosa;
        dal folle sapienzia,
        e dalla spina rosa.
        Prende esempio da bestia
        chi ha mente ingegnosa.

        Vediamo bella immagine
        fatta con vili deta;
        vasello bello ed utile
        tratto da sozza creta;
        pigliam da laidi vermini
        la preziosa seta,
        vetro da laida cenere,
        e da rame moneta.

        Non dimandare agli uomini
        che lor nega natura:...
        e non pregar la scimia
        di bella portatura,
        nè il bue, nè l'asino
        di dolce parladura...

        Quel che non si conviene,
        ti guarda di non fare:
        nè messa ad uomo laico,
        nè al prete saltare;
        non dece spada a femmina,
        nè ad uom lo filare...

        Non piace se 'n suo loco
        non ponesi la cosa:
        innanzi che ti calzi,
        guarda da qual piè è l'uosa.
        Se leggi, non far punto
        dove non è la posa;
        dov'è piana la lettera,
        non fare oscura glosa.

        In ogni cosa al prossimo
        ti mostra mansueto:...
        Da nimistate guàrdati,
        se vuoi viver quieto...
        A quel modo conformati
        che trovi nel paese:
        al Genovese, in Genova,
        ed in Siena, alsSanese...

        Uomo che spesso volgesi,
        da tuo consiglio caccia.
        Se vedi volpe correre,
        non dimandar la traccia:
        non ti sforzare a prendere
        più che non puoi con braccia:
        chè nulla porta a casa
        chi la montagna abbraccia.

        Quando puoi esser umile,
        non ti dimostrar forte:
        il muro tu non rompere,
        se aperte son le porte...
        Con signore non prendere,
        se tu puoi, quistione;
        ch'ei ti ruba ed ingiuria
        per piccola cagione,
        e tutti gli altri gridano:
         - Messere ha la ragione... -

        Uomo senz'amicizia
        castello è senza mura...
        Quella è buona amicizia,
        che d'ogni termpo dura:
        povertà non la parte,
        nè nulla ria ventura.

        Quel che tu dici in camera
        non dire in ogni loco:
        a piaga metti unguento,
        non vi mettere il foco...

E così hai motto a motto, spesso senz'altro legame che il caso, qual  più,  qual
meno  felice,  in  quella  forma  sentenziosa  ed  esemplata,  che   è   propria
dell'immaginazione popolare, prima ancora che nasca la favola e il  racconto.  E
trovi certo più gusto in queste prime rozze formazioni così piene della  vita  e
del sentire comune, che ne' sonetti e canzoni morali in forma  più  artificiosa,
ma contorta e scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori. Questi uomini
con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a'  santi,  con
l'immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel piccolo
spazio del comune una vita politica ancora più vivace e concentrata, che  non  è
oggi, allargata com'è e diffusa in quegl'immensi spazi che si chiamano  «regni».
Certo, i costumi si polivano, come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri
e romanzi, se colpivano le immaginazioni, poco bastavano a contenere e  regolare
le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita era
troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perchè potesse esser  vista
con la serenità e la misura dell'arte. Si  manifesta  con  la  forma  grossolana
dell'ingiuria, appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito. Un  esempio
è il verso:

        Quando l'asino raglia, un guelfo nasce.

Questa  forma  primitiva  dell'odio  politico,  amara  anche  nel  motteggio   e
nell'epigramma, e così sventuratamente feconda  tra  noi  anche  ne'  tempi  più
civili, non esce mai dalle quattro mura del comune, con particolari e  allusioni
così personali, che manca con la chiarezza ogni  interesse:  prova  ne  sieno  i
sonetti di Rustico. Certo, in questo antico esempio di satira politica  vedi  il
volgare condotto a tutta la sua  perfezione,  e  ci  senti  uno  spirito  e  una
vivacità propria dell'acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi  che
prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino,
con quel suo parlare  sotto  figura  per  allusioni,  che  non  ne  comprendiamo
un'acca? Ciò che è meramente personale muore con la persona. Il comune sembra un
castello incantato, dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al
di fuori. Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di cui l'Italia  era  stata  ed
era il teatro; niente  che  accennasse  ad  alcuna  partecipazione  alle  grandi
discussioni tra papato e  impero,  tra  guelfi  e  ghibellini,  o  rivelasse  un
sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia  del  comune.
Tutto è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del
comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un'ombra trovi in un sonetto  di
Orlandino Orafo, eco delle preoccupazioni  e  ansietà  pubbliche,  quando
Carlo d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa
Orlandino non è il risultato politico e  nazionale  della  lotta,  ma  la
grande strage che ne verrà:

        Ed avverrà tra lor fera battaglia,
        e fia sanfaglia - tal, che molta gente
        sarà dolente - chi che ne abbia gioia.

        E molti buon destrier coverti a maglia,
        in quella taglia - saran per niente;
        qual fia perdente - allor convien che muoia.

A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione è la  lotta  in
se stessa co' suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli
e delle passioni de' combattenti, che contempla avido di emozioni  i  vari  casi
della pugna.
         Questa  rozzezza  della  vita  italiana  sotto  i  suoi  vari  aspetti,
religioso, morale, politico, spicca più, perchè in  evidente  contrasto  con  la
precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo.  La
scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma
la scienza era come il Vangelo, che s'imparava e non si discuteva. A  quel  modo
che  troiani,  romani,   franchi   e   saraceni,   santi   e   cavalieri   erano
nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone,  Tommaso  e  Bonaventura
erano una sola scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più era  più
ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profondità era  in  quel  sapere.
Perciò venne a grandissima fama ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro  e  il
Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite  che  un
uomo potesse saper tanto, ed esporre in  verso  Aristotele  e  Tolomeo.  Di  che
nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l'uomo  e  il  suo
libro in quei versi celebri:

        sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io vivo ancora.

La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia, com'è la  vita  religiosa
in Iacopone e la vita politica in Rustico. Il suo  studio  è  di  cacciar  fuori
tutto quello che sa, così crudamente come gli è venuto  dalla  scuola,  e  senza
farlo passare  a  traverso  del  suo  pensiero.  Ciò  che  dice  gli  pare  così
importante, e pareva così importante a' suoi contemporanei, ch'egli  non  chiede
altro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è  che  prosa
rimata.
        Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i loro
studi nell'Università di Bologna, dalla quale uscì  pure  Cino  da  Pistoia.  Si
sente in tutti e tre la scuola di Guido  Guinicelli.  Amore  si  scioglie  dalle
tradizioni cavalleresche, e diviene materia  di  teologia  e  di  filosofia.  Si
discute sulla sua origine su' suoi fenomeni e sul  suo  significato.  Nella  sua
apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole  e  le  stelle;  il
poeta lascia al volgo il  senso  letterale  e  cerca  un  soprasenso,  il  senso
teologico e filosofico, di cui quello  sia  il  velo.  Il  lettore  con  le  sue
abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso, e cerca dietro  di  quello
la scienza. L'esistente non è per lui  che  un  velo  del  pensiero,  una  forma
dell'essere; Cino da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo «forma del  bene»;  il
corpo è un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione  morale  e
intellettuale: spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e  fanno
una sola dottrina. L'allegoria, ch'era  già  prima  la  forma  naturale  di  una
coltura poco  avanzata,  diviene  una  forma  fissa  del  pensiero  teologico  e
filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso  di  cercare  il
senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma
il pensiero esercitato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che poteva
anco bastare a se stesso ed avere  la  sua  espressione  diretta.  Perciò  nella
poesia entra non solo l'allegoria, ma il nudo concetto  scientifico,  sviluppato
dal ragionamento e da tutt'i procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti  e  Dante
erano tra' più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti  dalla  scuola
di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le  cose
il generale e l'astratto, e a svilupparlo col  sussidio  della  logica  e  della
rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati.  Anche  verseggiando,  ciò  che
ammirano i contemporanei è la loro scienza.
        Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo,  fu  dottissimo
giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice  fu  la
maraviglia di quell'età. Ristoratore del diritto romano, aperse nuove  vie  alla
scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che più di lui desse luce alla  civil
giurisprudenza. L'amore di Selvaggia lo fece poeta, ma non potè  mutare  la  sua
mente. In luogo  di  rappresentare  i  suoi  sentimenti,  come  poeta,  egli  li
sottopone ad analisi, come critico, e ne ragiona sottilmente. Posto fuori  della
natura e nel campo dell'astrazione, ogni limite del reale  si  perde,  e  quella
stessa sottigliezza che legava insieme i concetti  più  disparati  e  ne  traeva
argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtà e di ogni senso comune, creava
ora una scolastica poetica, o, per dirla col suo  nome,  una  rettorica  ad  uso
dell'amore,  piena  di  figure  e  di  esagerazioni,  dove  vedi  comparire  gli
spiritelli d'amore che vanno in giro e  i  sospiri  che  parlano.  In  luogo  di
persone vive, abbondano le  personificazioni.  In  un  suo  sonetto  de'  meglio
condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta la
salute: mèta sì alta, che avanza ogni sforzo  d'intelletto,  e  però  non  resta
altro che morire. Questo è rettorica, non solo per la  strana  esagerazione  del
concetto, ma per il modo dell'esposizione scolastico e dottrinale.

        Questa donna che andar mi fa pensoso,
        porta nel viso la virtù d'Amore:
        la qual fa disvegliare altrui nel core
        lo spirito gentil che vi è nascoso.
        Ella m'ha fatto tanto pauroso,
        poscia ch'io vidi quel dolce signore
        negli occhi suoi con tutto 'l suo valore,
        che io le vo presso e riguardar non l'oso.
E s'avvien poi che quei begli occhi miri,
        io veggio in quella parte la salute,
        ove lo mio intelletto non può gire.

        Allor si strugge sì la mia vertute,
        che l'anima, che move li sospiri,
        s'acconcia per voler del cor fuggire.

Una così strana esagerazione non può essere  scusata  che  dall'impeto  e  dalla
veemenza della passione. Ma qui non ce n'è vestigio; ed hai invece una specie di
tèma astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica.  La
prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto, animo,  core,  sospiri,
virtù di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni  delle
scuole. Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe  della  venuta
di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse  una  canzone.
Quale materia di poesia! Dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le
illusioni e i dolori dell'esule. Ma è invece una esposizione a modo  di  scienza
sulla potenza della morte e l'immortalità della virtù.  Ancora  più  astratta  e
arida è la canzone sulla natura  d'amore  di  Guido  Cavalcanti,  dottissimo  di
filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo da' contemporanei.
        Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima
formazione, e la splendida vita che raggiava da Bologna  era  anch'essa  materia
greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.
        Siamo alla seconda metà del Dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina, è
già nell'ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e  Firenze,  l'una
centro del movimento scientifico, l'altra centro dell'arte.  Nell'una  prevaleva
il latino, la lingua de' dotti;  nell'altra  prevaleva  il  volgare,  la  lingua
dell'arte.
        L'impulso scientifico partito da Bologna, traendosi  appresso  anche  la
poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de'  trovatori:  il  pubblico
domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una  scuola
poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spontanei e popolari  finisce  per
sempre.
        Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che  poeta,  egli  è  lume  di
scienza;  si  chiama  Brunetto   Latini,   l'enciclopedico,   Cino,   il   primo
giureconsulto dell'età, Cavalcanti, filosofo  prestantissimo,  Dante,  il  primo
dottore e disputatore de' tempi suoi. Scrivono  versi  per  bandire  la  verità,
spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e  della  natura.  La
poesia è per loro un ornamento, la bella veste della verità o  della  filosofia,
uso amoroso di sapienza, come dice Dante nel Convito. Ci è dunque in loro
una doppia intenzione. Ci è  una  intenzione  scientifica.  Ma  ci  è  pure  una
intenzione artistica, di ornare e di  abbellire.  L'artista  comparisce  accanto
allo scienziato. Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.
        È in  Toscana,  massime  in  Firenze,  che  si  forma  questa  coscienza
dell'arte. Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con
una proprietà e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d'Italia. Se
i poeti superficiali dispiacevano  a  Bologna,  i  poeti  incolti  e  rozzi  non
piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone  e
Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale, se a Bologna significava scienza,
a Firenze significava «arte».
        Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino.
Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non
solo la proprietà,  ma  anche  la  venustà  del  dire.  Aveva  animo  gentile  e
affettuoso, e orecchio musicale. Se a lui manca l'evidenza e l'efficacia,  virtù
della forza, non gli fa difetto la melodia e l'eleganza, con una certa  vena  di
tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco  Petrarca.  Ecco
un esempio della sua maniera:

        Poichè saziar non posso gli occhi miei
        di guardare a Madonna il suo bel viso,
        mireròl tanto fiso
        ch'io diverrò beato lei guardando.
        A guisa di Angel che di sua natura
        stando su in altura divien beato sol vedendo Iddio;
        così, essendo umana creatura,
        guardando la figura
        di questa donna, che tiene il cor mio,
        potrei beato divenir qui io.

Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna, che  ispirò  le
tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò  anche  la  fine,  che  è  piena  di
grazia:

        Or se prendete a noia
        lo mio amor, occhi d'amor rubegli,
        foste per comun ben stati men begli.
        Agli occhi della forte mia nemica
        fa', canzon, che tu dica:
         - Poi che veder voi stessi non possete,
        vedete in altri almen quel che voi sète. -

E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare  e  sottilizzare
si contenta di rappresentare con semplicità il  suo  stato,  e  sono  teneri  ed
affettuosi. Meno apparisce dotto, e più si rivela artista.
        La coscienza artistica si mostra  in  Cino  nelle  qualità  tecniche  ed
esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli  elementi
musicali della lingua e del verso, nè fino a quel tempo la lingua sonò sì  dolce
in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito,  da  cui  sia  rimossa
ogni asprezza e ineguaglianza Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in
Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica  è  somma,  anzi  in  lui  è
scienza. Innamorato della  lingua  natia,  pose  ogni  studio  a  dirozzarla,  e
fissarla, e scrisse una  gramatica  e  un'arte  del  dire.  Egli,  nota  Filippo
Villani, dilettandosi degli studi rettorici, essa arte in composizioni  di  rime
volgari elegantemente  e  artificiosamente  tradusse.  Di  che  si  vede  quanta
impressione dovè fare su' contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì
nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Così Guido  divenne
il capo della nuova  scuola,  il  creatore  del  nuovo  stile,  e  oscurò  Guido
Guinicelli:

        Così ha tolto l'uno all'altro Guido
        la gloria della lingua.

Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano  cose
accessorie, semplici ornamenti:  sostanza  era  la  filosofia.  Perciò  aveva  a
disdegno Virgilio, parendogli, dice il Boccaccio, «la filosofia, siccome ella è,
da molto più che la poesia». Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de'
Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira
a questo, non solo  di  dir  bene,  ma  dir  cose  importanti.  I  contemporanei
studiarono la sua canzone dell'Amore, come si fa un trattato  filosofico,
e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotele e di san  Tommaso:  anche  più
tardi il Ficino vi cercava  le  dottrine  di  Platone.  Così  Guido  era  tenuto
eccellente non solo  come  artificioso  ed  elegante  dicitore,  ma  come  sommo
filosofo.
        Questo voleva Guido, e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il
primo posto fra' contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l'artista.
        Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perchè
la divulgò, non perchè vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu  artefice  più
che artista, inteso massimamente alla parte meccanica  e  tecnica  della  forma:
vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell'arte.
        La gloria di Guido fu là, dov'egli non cercò altro che un sollievo e uno
sfogo dell'animo. Fu là, ch'egli senza volerlo e saperlo  si  rivelò  artista  e
poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed  essi  medesimi  sono  incapaci  di
apprezzare. Guido era più grande ch'egli  stesso  e  i  suoi  contemporanei  non
sapevano.
        Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perchè è il  primo
che abbia il senso e l'affetto del reale. Le  vuote  generalità  de'  trovatori,
divenute poi un contenuto scientifico  e  rettorico,  sono  in  lui  cosa  viva,
perchè, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti
dell'anima. La poesia, che prima pensava e descriveva, ora narra e  rappresenta,
non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e  finitezza
a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui
sono due forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il  suo
segreto d'amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto,  e  ti  abbozza
una scena d'amore colta dal vero. Sono gli stessi  concetti  de'  trovatori,  ma
realizzati, non solo ornati e illeggiadriti al di fuori,  ma  trasformati  nella
loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti,  cioè  a  dire  vita  e
azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore,  ora  lieta  e  serena  che  si
esprime con una grazia ineffabile, come nelle ballate delle  forosette  e  della
pastorella, ora penetrata di una malinconia che si effonde  con  dolcezza  negli
amabili sogni dell'immaginazione e  nella  tenerezza  dell'affetto,  come  nella
ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della
morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata. Tutto nasce  dal
di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il  sentimento  e
l'espressione. Il  poeta  non  pensa  a  gradire,  a  cercare  effetti,  a  fare
impressione con le sottigliezze della dottrina  e  della  rettorica:  scrive  se
stesso, come si sente in un certo stato dell'animo, senz'altra  pretensione  che
di sfogarsi, di espandersi,  segnando  la  via  nella  quale  Dante  fece  tanto
cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:

        Io mi son un, che quando
        Amor mi spire, noto, e a quel modo
        ch'ei detta dentro, vo significando.

Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al di qua  del  «dolce  stil
nuovo», perchè esagerarono i sentimenti, andarono al di  là  della  natura,  per
«gradire», piacere a' lettori.

        E qual più a gradire oltre si mette,
        non vede più dall'uno all'altro stilo.

Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro  fu  Cino,  il
poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza più  chiara
dell'arte. La filosofia per sè sola fu stimata insufficiente, e si  richiese  la
forma. Guittone  d'Arezzo  non  fu  più  apprezzato,  quantunque  «di  filosofia
ornatissimo, grave e sentenzioso», come dice  Lorenzo  de'  Medici,  perchè  gli
mancava lo stile, «alquanto ruvido e severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza
acceso». Anche Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le
gravi sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso, il senso
della forma.
        A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel  suo
fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. Dante da Maiano era un'eco
de' trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, Orbiciani da Lucca
erano poeti dotti, ma rozzi, come i bolognesi Onesto e  Semprebene.  Ma  già  il
culto della forma, l'amore del bello stile si  sente  in  parecchi  poeti.  Dino
Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d'Ascoli sono
il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.
        Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di  Dante
Alighieri, legati insieme da un'amicizia che non si  ruppe  se  non  per  morte.
Parvero le «nuove rime», e fu tale l'impressione ch'ei  salì  subito  accanto  a
Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema  di  esprimere  le  profondità
della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava.  Perciò  ebbe  molta
voga la sua canzone:

Donne, che avete intelletto d'amore; e ancora più l'altra:

        Voi che intendendo il terzo ciel movete.

Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di  Bologna  mira  poetando  a
divulgare la scienza, usando modi piani e aperti alla intelligenza comune. Nella
canzone, dove esorta la donna a dispregiare uomo  che  «da  sè  virtù  fatta  ha
lontana», dice:

        Ma perocchè il mio dire util vi sia,
        discenderò del tutto
        in parte ed in costrutto
        più lieve, perchè men grave s'intenda;
        chè rado sotto benda
        parola oscura giugne allo 'ntelletto;
        par che parlar con voi si vuole aperto.

E quando pure è costretto a celare sotto  benda  i  suoi  concetti  aggiunge  un
comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che
fa alla canzone:

        Voi che intendendo il terzo ciel movete;

e parendogli che senza quel comento la canzone presa in se stessa rimanga  fuori
dell'intelligenza volgare, finisce così:

        Canzone, io credo che saranno radi
        color che tua ragion intendan bene,
        tanto lor parli faticosa e forte:
        onde se per ventura egli addiviene
        che tu dinanzi da persone vadi,
        che non ti paian d'essa bene accorte;
        allor ti priego che ti riconforte,
        dicendo lor, diletta mia novella:
         - Ponete mente almen com'io son bella. -

C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora  nella
forma diretta del ragionamento, ora sotto il velo dell'allegoria, ma in modo che
la poesia quando anche non fosse compresa  da'  più,  avesse  un  valore  in  se
stessa, fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua più
alta espressione, una coscienza  artistica  più  chiara  e  più  sviluppata.  Il
rispetto della verità scientifica è tale, che Dante  si  domanda  come,  essendo
Amore non sostanza, ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare, come  fosse
persona. E adduce a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare, hanno
gli stessi privilegi de' poeti, nome che dà a' latini, i quali,  come  Virgilio,
Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate: il  che  egli
chiama «rimare sotto vesta  di  figura  o  di  colore  rettorico»,  qualificando
rimatori stolti quelli che domandati non sapessero «dinudare le loro  parole  da
cotal vesta». Onde si vede che Dante e Cavalcanti, ch'egli  qui  chiama  il  suo
primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti che usavano rettorica vuota di
contenuto,  e  quelli  che  ti  davano  un  contenuto  scientifico  nudo,  senza
rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasa per molti secoli l'ultima
parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò «condire il vero in molli
versi».
        Con queste teorie, con queste abitudini della mente, parecchie canzoni e
sonetti sono ragionamenti con lume  di  rettorica,  concetti  coloriti.  Di  tal
natura è la canzone sulla gentilezza o nobiltà:

        Le dolci rime d'amor ch'i' solìa

e l'altra:

        Amor, tu vedi ben che questa donna,

dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che  sul  suo
animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell'amore  e  della  natura
sono spiegati scientificamente, più che  rappresentati,  com'è  l'inverno  nella
canzone:

        Io son venuto al punto della rota,

e come è l'amore nella canzone:

Amor che muovi tua virtù dal cielo, e come è la bellezza nella canzone:

        Amor ci è nella mente mi ragiona.

Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile e popolare è  quella
delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza, germane d'amore, che  cacciate
dal mondo vanno mendicando.

        Ciascuna par dolente e sbigottita
        come persona discacciata e stanca,
        cui tutta gente manca,
        e cui virtute e nobiltà non vale.
        Tempo fu già, nel quale
        secondo il lor parlar, furon dilette
        Or sono a tutti in ira ed in non cale.

Qui il poeta non ragiona, ma narra e  rappresenta.  Il  concetto  scientifico  è
vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza  del  sentimento.
Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.
        In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità e
ricchezza di concetti e di colori che i  due  Guidi.  Egli  fu  il  suo  proprio
comentatore, avendo  nella  Vita  nuova  e  nel  Convito  spiegata
l'occasione, il concetto, la  forma  delle  sue  poesie.  E  quanto  alla  parte
tecnica, all'uso della lingua, del verso e  della  rima,  nel  suo  libro  De
vulgari eloquio mostra che ne  intendeva  tutt'i  più  riposti  artifici.  I
contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della  loro  scuola
poetica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.
        Il mondo lirico di Dante è  la  stessa  materia  che  s'era  ita  finora
elaborando, con maggior varietà e con più chiara coscienza.  Il  dio  di  questo
mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti  e  le  immaginazioni  della
giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo  filosofico.  Amore  non  può
operare che ne' cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini  e  cortesi.
Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da virtù.  E  però  le  virtù
sono suore d'Amore e fanno star lucente il suo  dardo  finchè  sono  onorate  in
terra. Ma la virtù è in pochi, e l'amore è perciò «di pochi vivanda». L'obbietto
dell'amore è la bellezza, non il «bello di fuori», le parti nude, ma  il  «dolce
pomo», concesso solo a chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non  a
chi la intende: amore è chiamato dagli antichi «intendanza», e  Dante  non  dice
«sentire amore», ma «avere intelletto d'amore». Ad  appagare  l'amore  basta  il
vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore è intendere.
E chi la vede e non se n'innamora
        d'amor non averà mai intelletto.

Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:

        Voi che intendendo il terzo ciel movete.

Dio move l'universo pensando:

        costei pensò chi mosse l'universo.

Nè altro è amore nell'uomo che «nova intelligenza che lo tira su»,  lo  avvicina
alla  prima  intelligenza.  La  donna  esemplare  della   bellezza   è   «nobile
intelletto»:

        ... O nobile intelletto
        oggi fu l'anno che nel ciel partisti.

La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della  scienza,  che
invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova intelligenza lo fa intendere.  La  donna
dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella  apparenza:  e
questo è la bellezza il dolce pomo consentito a  pochi.  Intendere  è  amore,  e
amore è operare come s'intende; perciò filosofia è «uso  amoroso  di  sapienza»,
scienza divenuta azione mediante l'amore. La virtù non  è  altro  che  sapienza,
vivere secondo i dettati della scienza. Perciò l'amante è chiamato saggio; e  la
donna è saggia prima di esser bella:
        Beltade appare in saggia donna pui
che piace agli occhi... La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza,  sì
che piaccia e innamori di sè.
        Con questo misticismo filosofico si accordava il  misticismo  religioso,
secondo il quale il corpo è il velo dello spirito, e la bellezza è la luce della
verità, la faccia di Dio, somma intelligenza, contemplazione degli angioli e dei
santi. Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano  anche  qui  la  loro  parte.
Teologia e filosofia si danno la mano.
        È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua  integrità  e
con così perfetta coscienza. È l'idealismo di  quel  tempo,  con  la  sua  forma
naturale, l'allegoria. Aggiungi l'opera della immaginazione, che dà alle  figure
tanta vivacità di colorito ed hai l'ultimo segno di  perfezione  che  si  poteva
allora desiderare.
III LA LIRICA DI DANTE

Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi più in là, ti risponde come
Raffaello: «Noto, quando Amor mi spira», ubbidisco all'ispirazione.  E  appunto,
se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo  qui,  fuori  della  sua  coscienza,
nella spontaneità della sua ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la
sincerità dell'ispirazione. Chi legge la Vita nuova, non può  mettere  in
dubbio la sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna,  pieno  il  capo  di
astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di
poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra  come
colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito  dello  studente  ci  è  un
cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle adorazioni e alle
disperazioni, ed una  fervida  immaginazione  che  lo  tiene  alto  da  terra  e
vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per  la  bella  fanciulla  involta  di
drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore
giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel  cuore.
Beatrice è più simile a sogno, a  fantasma,  a  ideale  celeste,  che  a  realtà
distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la  storia
di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse  donna,  e  l'amore  non
ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un
sospiro. Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e personalità,  esiste  più
nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi  coesiste  e  si  confonde  con
l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza  fatta
con perfetta  buona  fede,  e  perciò  grottesca  certo,  ma  non  falsa  e  non
convenzionale. Queste che  presso  gli  altri  sono  astrattezze  scolastiche  e
rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del  quadro,  sono  non  il  quadro,  ma
contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in
sè l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore  e  sulla  sua
immaginazione. Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta,  che  per  questo  o
quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se  stesso
in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino il
dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso,
Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e  le  sue
reminiscenze poetiche, e ubbidisce a  l'ispirazione.  Allora  è  Beatrice,  solo
Beatrice, che occupa  la  sua  mente,  e  le  sue  impressioni,  appunto  perchè
immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si  rivela
schietto come lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato  amore  di
donna. Tale è il sonetto

        Tanto gentile e tanto onesta pare.

E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa  pur
ora di cielo così parla Beatrice:

        Io mi son pergoletta bella e nova,
        e son venuta per mostrarmi a vui
        dalle bellezze e loco, dond'io fui.

        Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
        per dar della mia luce altrui diletto;
        e chi mi vede e non se ne innamora,
        d'amor non averà mai intelletto...

        Ciascuna stella negli occhi mi piove
        della sua luce e della sua virtute:
        le mie bellezze sono al mondo nuove,
        perocchè di lassù mi son venute.

Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico; o per  dir  meglio,  ci  è
l'allegoria e ci è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in  questa
creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che
apparisce all'immaginazione giovanile.
         Se  nell'espressione  di  questa  ingenua  ammirazione  trovi   qualche
reminiscenza di  repertorio  e  qualche  preoccupazione  scientifica,  senti  un
accento di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa  di
questa lirica. Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari  intervalli  di
gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore,  il
presentimento della sua morte e la sua morte sono la  sostanza  del  quadro,  il
motivo tragico della poesia. Finchè Beatrice vive, è un secreto del cuore che il
poeta s'industria con ogni più sottile arte  di  custodire;  la  storia  è  poco
interessante, intessuta  di  artificiose  e  fredde  dissimulazioni:  ma  quando
quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire, quando scompare, al  poeta
manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire
insieme con quello. Ne nasce una situazione  nuova  nella  storia  della  nostra
poesia: l'amore appena nato,  simile  ancora  a'  primi  fuggevoli  sogni  della
giovanezza, che acquista la sua realtà presso alla  tomba  ed  oltre  la  tomba.
L'amore si rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e convenzionale, che
gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto,  nè  allegoria,
ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della donna non si è  potuto
ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e  pura  espressione,  ora  che
Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte più eletta e poetica  di
questa lirica. Poi  vengono  sentimenti  più  temperati:  il  poeta  si  consola
cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo,  diviene  la  Verità,  la
cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue  speculazioni,  la  bella
faccia della Sapienza. Non hai più la Vita nuova, hai il  Convito.
L'amore non è più un sentimento individuale, ma è il principio della vita divina
e umana. Beatrice nella sua gloriosa  trasfigurazione  diviene  un  simbolo,  il
dolce nome che il poeta dà al suo nuovo amore, alla Filosofia. Ma  la  filosofia
non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con
che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù,  che
ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza  di  sangue,  e  ti  dà  la  vera
nobiltà, che ti viene da te e non dagli altri. Intendere è per lui il  principio
del fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà  è
l'amore. In questa triade è  l'unità  della  vita:  l'uno  non  può  star  senza
l'altro.  Or  tutto  questo  in  Dante  non  è  mera  speculazione,  nè   vanità
scientifica; ma è vero amore,  ma  è  un  sentimento  morale  così  profondo  ed
efficace, come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo,  e  si
addentra in tutti  gli  aspetti  della  vita.  Questa  serietà  e  sincerità  di
sentimento fa  penetrare  fra  tante  sottili  e  scolastiche  speculazioni  una
elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente  nel
tono, nel colorito, nello stile. Tale  è  la  sublime  risposta  di  Amore  alle
sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:

        L'esilio che m'è dato onor mi tegno;

e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria, quanta è  nella  canzone
sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui  da  un
certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi  privilegiato  da
Dio alla sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:

        ... elli son quasi dèi
        que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;
        chè solo Iddio all'anima la dona.

Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri  accenti
di sdegno contro la moltitudine degli uomini, «bestie  che  somigliano  uomo.  E
dove non è virtù, non è amore, e non dovrebbe esser  bellezza:  onde  esorta  le
donne a partirla da loro:

        Chè la beltà ch'Amore in voi consente
        a virtù solamente
        formata fu dal suo decreto antico
        contra lo qual fallate.
        Io dico a voi che siete innamorate,
        che se beltate a voi
        fu data e virtù a noi,
        ed a costui di due potere un fare,
        voi non dovreste amare,
        ma coprir quanto di beltà v'è dato
        poichè non è virtù, ch'era suo segno.
        Lasso! A che dicer vegno?
        Dico che bel disdegno
        sarebbe in donna di ragion lodato
        partir da sè beltà per suo comiato.

Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto dell'amore, che  fa  uno
di due, unisce bellezza e virtù. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente,  è
l'anima del mondo, l'unità della vita. E  poichè  vede  bellezza,  e  non  trova
virtù, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno.  Indi
quel movimento d'immaginazione così nuovo e  originale,  quel  desiderare  nella
donna e sperar poco un atto di «bel disdegno»,  per  il  quale  dica:  -  Poichè
nell'uomo non è virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. -  Dante  si  crede
obbligato ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e  qui
è il suo torto, qui è la forma che  lo  certifica  di  quel  tempo;  ma  qui  il
concetto scientifico e  la  sua  esposizione  scolastica  è  un  accessorio;  la
sostanza è il sentimento che  sveglia  nel  poeta  la  contraddizione  tra  quel
concetto e la realtà: «Lasso! a che dicer vegno?». Il poeta sente la vanità  de'
suoi desidèri e che il mondo andrà sempre a quel modo.
        Come l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma  nella
sua morte, cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui  trovi  un  sentimento
chiaro e vivo dell'unità della vita, fondata nella  concordia  dell'intendere  e
dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme il  dolore
della scissura, che mette il poeta in uno  stato  di  ribellione  contro  l'uomo
«caduto  in  servo  di  signore»,  già  signore  di  sè,  ora  servo  delle  sue
inclinazioni animali. Ma il  sentimento  di  questa  contraddizione  non  uccide
l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti  moderni:  l'anima  del  poeta  è  ancora
giovane, piena di una fede robusta, che il disinganno nobilita  e  fortifica;  e
però il dolore del disaccordo non lo conduce  alla  negazione  della  filosofia,
anzi alla sua glorificazione, ad un più ardente amore della derelitta, fiero  di
possederla e amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio  tra  la
gregge degli uomini.
        Adunque, il primo carattere di questo  mondo  lirico  è  la  sua  verità
psicologica. Se c'è negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il
fondo è vero, è la sincera espressione di quello che  si  passa  nell'animo  del
poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La  vita  è
la filosofia, la verità realizzata; e la poesia è la  voce  e  la  faccia  della
verità. Amico della filosofia, con orgoglio  non  minore  si  chiama  poeta,  il
banditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come investito di  una  missione,
di una specie di apostolato laicale, e parla dal tripode alla  moltitudine,  con
l'autorità e la sicurezza di chi possiede la verità.
        Ma il sentimento che move questo mondo lirico così serio e  sincero  non
rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente
appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità  a  quel  tempo,  la  sua
forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi.  Quell'angeletta  scesa
dal cielo, che non giunge ad esser donna,  breve  apparizione,  che  ritorna  al
cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano «Osanna»,
ma rimasa in terra, come luce della verità, della quale l'amante si fa apostolo,
è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'età: è la vita che ha la  sua
verità nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno, apparenza,  velo
della eterna verità. Se la terra è un luogo di passaggio e di prova, la poesia è
al di là della terra, nel regno della verità. Beatrice comincia a vivere  quando
muore.
        Un mondo così mistico e  spiritualista  nel  concetto,  così  dottrinale
nella forma, se può essere  allegoricamente  rappresentato  dalla  scultura,  se
trova nella pittura e nella musica le sue movenze,  le  sue  sfumature,  il  suo
indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la parola. Perchè la  parola  è
analisi, distinzione, precisione, e non può rappresentare che un  contenuto  ben
determinato, e ne' suoi momenti successivi, più che nella sua unità.  Analizzate
questo mondo, e vi svanisce dinanzi, come realtà  o  vita:  l'analisi  vi  porta
irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è  la
negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo
è la scienza, come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata  ancora
nella vita e divenuta fatto. È vero che per Dante  la  scienza  dee  essere  non
astratto pensiero, ma realtà. Se non che  il  male  è  appunto  in  questo  «dee
essere». Perchè, prendendo a fondamento non quello che  è,  ma  quello  che  dee
essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se  non
in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad un contenuto  così  in
se stesso astruso e scientifico.
        I contemporanei sentirono la difficoltà e  credettero  vincerla  con  la
rettorica, ornando quei concetti di vaghi fiori.  Anche  Dante  credeva  rendere
poetica la filosofia, dandole una bella faccia. Certo, questo era un  progresso;
ma siamo ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione. Guinicelli,
Cino, Cavalcanti non possono attirare la  nostra  attenzione,  e  neppur  Dante,
ancorchè dotato di una immaginazione così potente.  Anzi  egli  riesce  meno  di
questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire, perchè quelli  vi
pongono il massimo studio, non essendo il mondo da  essi  rappresentato  che  un
gioco d'immaginazione, dove a Dante quel mondo  è  lui  stesso,  parte  del  suo
essere, e che ha la sua importanza in se  stesso:  ond'egli  è  sobrio,  severo,
schivo del «gradire», e spesso  nudo  sino  alla  rozzezza.  E  non  corre  agli
ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere
palpabile ed evidente il suo concetto.
        Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo, che  quel
mondo è vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non  pure  sulla
sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non
è però sufficiente a farne un poeta. La  fede  è  la  base,  il  sottinteso,  la
condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non è la poesia.  Il  poeta
dee essere un credente, ma non ogni credente è poeta; può essere  un  santo,  un
apostolo, un filosofo. Dante non fu il santo, nè il filosofo del suo  mondo:  fu
il poeta. La fede svegliò le mirabili  facoltà  poetiche  che  avea  sortito  da
natura.
        Dante ha in  supremo  grado  la  principale  facoltà  di  un  poeta,  la
fantasia,  che  non  si  vuol  confondere  con  l'immaginazione,  facoltà  molto
inferiore. L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore, liscia la superficie:  il
suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita  nell'allegoria  e  nella
personificazione. La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea,  è  la
vera musa, il «deus in nobis», che possiede il secreto della vita,  e  te
la coglie a volo  anche  nelle  sue  più  fuggevoli  apparizioni,  e  te  ne  dà
l'impressione e il sentimento. L'immaginazione è plastica; ti dà il disegno,  ti
dà la faccia: «pulcra species, sed cerebrum non habet»: l'immagine  è  il
fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non  ti  coglie
il  di  fuori,  se  non  come  espressione  e  parola  della   vita   interiore.
L'immaginazione è analisi, e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire,
più le fugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è
sintesi: mira all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e  i
sentimenti  di  persona  viva  e   te   ne   porge   l'immagine.   La   creatura
dell'immaginazione è l'immagine finita in se stessa e opaca; la  creatura  della
fantasia è il «fantasma», figura abbozzata e trasparente, che si compie nel  tuo
spirito. L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune  alla  poesia  e  alla
prosa, a' sommi e a' mediocri; la  fantasia  è  essenzialmente  organica,  ed  è
privilegio di pochissimi che son detti Poeti.
        Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo  secolo,  così  mistico  e
spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In  balìa  di  questa
esso non è che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e
astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli,  di  Cavalcanti  e  di  Cino.
L'organo naturale di questo mondo è la fantasia, e la sua forma è  il  fantasma.
Il suo primo e  solo  poeta  è  Dante,  perchè  Dante  ha  l'istrumento  atto  a
generarlo, è la prima fantasia del mondo moderno.
        Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra,  se  non  quando
essa è lume che come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia  d'esempio  la
sua canzone all'Amore:

        Amor che movi tua virtù dal cielo
        come 'l sol lo splendore,
        chè là s'apprende più lo suo valore,
        dove più nobiltà suo raggio trova...
        Ed hammi in foco acceso,
        come acqua per chiarezza foco accende...
        È sua beltà del tuo valor conforto,
        in quanto giudicar si puote effetto
        sopra degno suggetto,
        in guisa che al sol raggio di foco;
        lo qual non dà a lui, nè to' virtute;
        ma fallo in alto loco
        nell'effetto parer di più salute.

Queste immagini  non  sono  il  concetto  esso  medesimo,  ma  paragoni  atti  a
lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e  vi  spiega
un lusso e una pompa che passa il segno  e  affoga  il  concetto  nell'immagine.
Dante è più severo, perchè il concetto non  gli  è  indifferente  e  non  te  ne
distrae, anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e  irsuto  com'è
da natura. Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il  suo  romanzo,
la sua storia intima. Il concetto  allora,  non  che  abbia  bisogno  di  essere
illuminato da una immagine tolta dal di fuori, è trasformato,  è  esso  medesimo
l'immagine. In quest'opera di trasformazione si rivela la  fantasia.  Pigmalione
non è più una statua di  marmo;  ma  riscaldato  dall'amorosa  fantasia  diviene
persona. La donna astratta  e  anonima  del  trovatore,  divenuta  innanzi  alla
filosofia un'idea platonica, l'esemplare di  ogni  bellezza  e  di  ogni  virtù,
eccola qui persona viva:  è  Beatrice,  quell'angeletta  scesa  dal  cielo,  che
annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:

        Ciascuna stella negli occhi mi piove
        della sua luce e della sua virtute.

Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che il concetto sia  come
seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo  dell'arte  greca),  nè  questo
avviene per manco di calore e di fantasia. Dante è così  immedesimato  con  quel
suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia  non  può  oltrepassarlo,
non può materializzarlo. In questa dissonanza può capitare l'artista  a  cui  il
contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione  del  modello,  non  il
poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola  e
il suo limite. Dante non può  paganizzare  quel  mondo  dello  spirito,  appunto
perchè esso è il suo spirito, il  suo  mondo,  il  suo  modo  di  sentire  e  di
concepire. La sua immagine è ricordevole e trascendente, e  appena  abbozzata  è
già scorporata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare  e
determinare l'immagine, come quella a  cui  l'intelletto  non  giunge.  Gli  sta
innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore  all'espressione,  visibile
non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non quello che ella è,
ma quello che pare. Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione,  non  è
il corpo, ma lo spirito, non è l'immagine, ma il suo «parere», l'impressione:

        Quel ch'ella par, quando un poco sorride,
        non si può dicer, nè tenere a mente:
        sì è novo miracolo e gentile.
        ... .....
        Ed avea seco umiltà sì verace,
        che parea che dicesse: - Io sono in pace. -
        E par che dalla sua labbia si mova
... ..... uno spirto soave e pien d'amore,
        che va dicendo all'anima: - Sospira. -

Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove
il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni.  Beatrice
non la vedi mai. Ella è come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma  senti  la  sua
presenza in quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte  del  padre.  Lo
sguardo del poeta non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta  e  nel
pianto delle donne che gli sono intorno,  che  la  udirono,  e  non  osarono  di
guardarla:

        che qual l'avesse voluta mirare,
        saria dinanzi a lei caduta morta.

Beatrice saluta, e

        ... . ogni lingua divien tremando muta
        e gli occhi non l'ardiscon di guardare.

Di  questa  giovinetta,  inaccessibile  allo   sguardo,   non   descritta,   non
rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che  due
immagini: del nascere e del morire, l'angeletta scesa di  cielo,  che  torna  al
cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire.  La  vede  in  sogno,  e  già
morta, e quando le donne la coprian di un velo. Ma  se  della  morte  non  ci  è
l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:

        ... Morte, assai dolce ti tegno:
        tu dèi omai esser cosa gentile,
        poi che tu se' nella mia donna stata,
        e dèi aver pietate e non disdegno.
        Vedi, ch' è sì desideroso vegno
        d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
        Vieni, chè 'l cor ti chiede.

L'universo muore con Beatrice:

        Ed esser mi parea non so in qual loco,
        e veder donne andar per via disciolte,
        qual lagrimando, e qual traendo guai,
        che di tristizia saettavan foco.
        Poi mi parve vedere appoco appoco
        turbar lo sole ed apparir la stella,
        e pianger egli ed ella;
        cader gli augelli volando per l'äre,
        e la terra tremare:
        e uom m'apparve scolorito e fioco,
        dicendomi: - Che fai? non sai novella?
        Morta è la donna tua ch'era sì bella.

«Sì bella!» Questa è l'immagine. Gli basta chiamarla bella, chiamarla  Beatrice.
Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore:

        Chè non piangete, quando voi passate
        per lo suo mezzo la città dolente?

        Se voi restate per volere udire,
        certo lo core de' sospir mi dice
        che lagrimando ne uscirete pui.

        Ella ha perduta la sua Beatrice;
        e le parole ch'uom di lei può dire,
        hanno virtù di far piangere altrui.

La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri, in  quello  che  fa
sentire.  L'immagine  è  immediatamente  trasformata  in  sentimento.  E  questa
immagine spiritualizzata è quella  mezza  realtà  che  si  chiama  il  fantasma,
esistente più nella immaginazione del lettore che nella espressione  del  poeta.
Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze  del  suo  spirito.
Siamo nel regno musicale dell'indefinito. Beatrice è un rêve,  un  sogno,
una visione. La stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante,  una  fantasia,
accompagnata di particolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima de'
suoi fantasmi, e vive entro a  quel  mondo  e  ne  sente  e  riflette  tutte  le
impressioni. Beatrice muore, perchè «esta vita noiosa»

        non era degna di sì gentil cosa;

e tornata gloriosa nel cielo, diviene «spiritual bellezza grande» che spande per
lo cielo luce  d'amore  e  fa  la  maraviglia  degli  angioli.  Questa  bellezza
spirituale, o, come dice Dante altrove, «luce intellettual, piena d'amore», è il
mondo lirico realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e  la  verità
ti si  porge  nel  suo  splendore  intellettuale,  pura  intelligenza,  bellezza
spirituale, scorporata. Il fantasma, quella mezza  realtà  a  contorni  vaghi  e
indecisi, più visibile nelle impressioni e ne' sentimenti  che  nelle  immagini,
non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di questo regno del
puro spirito; era l'ombra dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa  ogni
ombra: non hai niente più d'indeciso, niente più  di  corporeo:  sei  nel  regno
della filosofia, dove tutto  è  precisione  e  dogmatismo,  tutto  è  posto  con
chiarezza, e discorso a modo degli scolastici.  E  poichè  la  filosofia  non  è
potuta divenire virtù, poichè in terra essa  è  proscritta,  rimane  una  realtà
puramente scientifica e dottrinale. L'impressione ultima è che  la  terra  è  il
regno delle ombre e de' fantasmi,  la  selva  dell'ignoranza  e  del  vizio,  la
tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la  realtà,
l'eterna e Divina Commedia, è nell'altro mondo.
        Nè prima, nè poi fu immaginato  un  mondo  lirico  così  vasto  nel  suo
ordito, così profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue parti,  così
armonico nelle sue forme, così personale  e  a  un  tempo  così  umano.  Esso  è
l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle  sue  visioni,
la  voce   dell'umanità   a   quel   tempo.   Il   mistero   di   questo   mondo
religioso-filosofico è la Morte «gentile», come passaggio dall'ombra alla  luce,
dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla
pace. La morte è il principio della vita, è la trasfigurazione. Perciò  il  vero
centro di questa lirica, la sua vera voce poetica è  il  sogno  della  morte  di
Beatrice, là dove sono in presenza questa vita  e  l'altra,  e  mentre  il  sole
piange e la terra trema, gli angioli cantano «Osanna», e Beatrice par che
dica: - Io sono in pace -. Ci è la terra co' suoi dolori e il cielo con  le  sue
estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della sua unità. Non credo che la
lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di
una rara perfezione per  chiarezza  d'intuizione,  per  fusione  di  tinte,  per
profondità  di  sentimento,  per  correzione  di  condotta  e  di  disegno,  per
semplicità e verità di espressione.
        Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde, esteticamente è scisso,
perchè non è insieme terra e cielo, ma è  ora  l'uno,  ora  l'altro,  imperfetti
ambidue. Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è
stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realtà è  pura
scienza, in forma scolastica. Si può dire che quando in questo mondo comincia la
realtà,  allora  appunto  muore  la  poesia,  s'inaridisce  la  fantasia  e   il
sentimento. È un difetto organico di questo  mondo,  che  resiste  a  tutti  gli
sforzi dell'arte, resiste a Dante.
        D'altra parte, Dante vi si mostra più poeta che artista.  Quel  mondo  è
per lui  cosa  troppo  seria,  perchè  possa  contemplarlo  col  sereno  istinto
dell'arte. Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci sia  sotto
qualche cosa che si mova. Perciò  è  sempre  evidente,  spesso  arido  e  rozzo.
L'Italia ha già il suo poeta; non ha ancora il suo artista.




IV LA PROSA

Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla  formazione  del  volgare,
non minore opera vi diedero i bei favellatori, o favoleggiatori. «Favella» viene
da «fabella», favoletta, e perciò  le  lingue  moderne  furon  dette  «favelle»,
lingue de' favoleggiatori. Costoro  nelle  corti  e  ne'  castelli  raccontavano
novelle, come i rimatori poetavano d'Amore. Così gl'inizi  della  nostra  lingua
furono

        versi d'amore e prose da romanzo.

Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di  fuori.
I  rimatori  attingevano  nel  codice  d'Amore;  i  novellatori  o   favellatori
attingevano ne' romanzi della Tavola  rotonda  o  di  Carlomagno.  Il  cavaliere
errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.
        Questa letteratura  non  produsse  altro  che  traduzioni  come  sono  i
Conti di antichi cavalieri, la Tavola  rotonda  e  i  Reali  di
Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re Meliadus, il profeta  Merlino,
Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell'immaginazione popolare.  Oggi  ancora  i
cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di  fatti  maravigliosi  le
geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana  prese  questa  forma.  Un
codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è  la  versione
del Giulio Cesare, romanzo in versi  rimati  di  Jacques  de  Forest.  La
guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari  tolti  alla  vita
cavalleresca. Cicerone, «mastro di rettorica» e «buono chierico», così  comincia
una sua aringa a Pompeo: «Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti richieggono
e pregano che tu non metta la cosa a indugio». E  non  è  maraviglia  che  anche
nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non senza diletto  i
Diurnali, o come oggi si direbbe, giornali di  Matteo  Spinelli,  la  più
antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza  del  racconto
in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de' fattarelli, che
pare un favellatore e non uno  storico.  Di  maggior  mole  è  la  Storia  di
Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si  stende  sino
al 1282. Quando narra fatti contemporanei, è testimonio veridico ed  esatto,  nè
la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da' suoi tempi,
ti trovi nell'infanzia della coltura.  Anacronismi  ed  errori  geografici  sono
accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde,  improntate
di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi. Dice che la  chiesa  di  san
Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo  stesso  non
erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste  fu  celebrata  la  messa  nella
chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina;  che  il  tempio  di  san
Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da  «pisare»
o «pesare», Lucca da «luce», e Pistoia da  «pistolenzia»;  narra  gli  amori  di
Catilina con la regina Belisea,  moglie  del  re  Fiorino,  e  le  avventure  di
Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in
voga. In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta, desinenze
goffe o dure, sgrammaticature  frequenti,  nessun  indizio  di  periodo,  nessun
colorito: non ci è ancora l'«io», la personalità dello scrittore.
        Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia.  Non
solo non ci fu nessun romanzo originale, ma  neppure  alcuna  imitazione.  Tutto
quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa  aridità  e  indifferenza,  che
senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte  di
Manfredi, o di Bondelmonte. Come l'uomo  inculto  parla  assai  meglio  che  non
scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con  una
vivacità d'immaginazione e di affetto,  che  non  trovi  ne'  racconti  e  nelle
cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che  sembrano
schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli  argomenti  che  si
danno a' giovinetti per esercizio di scrivere. Il  libro  fu  detto  «fiore  del
parlar gentile»; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti
a crederlo di quel secolo,  e  sembrano  piuttosto  racconti  rozzi  e  in  voga
raccolti e ripuliti più tardi. Ma se la lingua è assai più  schietta  e  moderna
che non è ne' Conti di antichi cavalieri e ne' romanzi di quel  tempo,  è
in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne' suoi punti  essenziali,  spogliato
di tutte le circostanze e i  particolari  che  gli  danno  colore,  e  senza  le
impressioni e i sentimenti che gli danno interesse.  Pure,  quando  il  fatto  è
semplice e breve, e non richiede  arte,  basta  a  conseguire  l'effetto  quella
naturalezza e quel candore pieno  di  verità  che  è  nel  racconto.  Eccone  un
esempio:

        "Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando era garzone,  si
avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado fallava,  li
maestri che gli eran dati a guardia, non batteano lui,  ma  batteano  di  questi
garzoni suoi compagni per lui. E quei dicea: - Perchè non battete me, chè mia  è
la colpa? - Diceano li maestri: - Perchè tu sei nostro signore. Ma noi  battiamo
costoro per te: onde assai ti dee dolere, se tu  hai  gentil  cuore,  che  altri
porti pena delle tue colpe. - E perciò si dice che lo  re  Currado  si  guardava
molto di fallire per la pietà di coloro."

        Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi,  e  non
divenne un lavoro d'arte, la ragione è che una materia tanto poetica  si  mostrò
quando lingua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori della vita e dei
costumi riuscì  un  frivolo  passatempo,  come  fu  della  poesia  cavalleresca.
Trattata da  illetterati,  questa  materia  non  potè  svilupparsi  e  formarsi,
sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de' classici e  il  rifiorire  delle
scienze, che trasse a sè  l'animo  delle  classi  colte.  Quantunque  «chierico»
significasse ancora uomo dotto, e da'  pergami  e  dalle  cattedre  si  parlasse
ancora latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato
usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza  nella
sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi la
dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale  tendeva  a
diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertà  municipale,
aprendo la vita pubblica a tutte  le  classi,  costituiva  in  modo  stabile  un
laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino, e che,  formato  nelle
scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre  classi,
aveva già un complesso d'idee comuni, che costituivano la  base  della  coltura.
Erano nuove forze che entravano in azione e davano  un  indirizzo  proprio  alla
vita italiana. A quella gente quei romanzi  e  quei  racconti  doveano  sembrare
trastullo di oziosi, spasso di plebe. Le  idee  religiose,  così  come  venivano
bandite dal pergamo, non  doveano  aver  molta  grazia  a'  loro  occhi;  quella
semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire  a  quegli  uomini,  che
tutto codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta  la  razza  de'
novellatori e de' predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò,
e i Conti de' cavalieri e le Vite de' santi  rimasero  occupazione
di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La  società  mirava  a
divulgare la scienza, a diffondere le utili  cognizioni,  a  far  sua  tutta  la
cultura passata, profana e sacra. I suoi eroi furono  Virgilio,  Ovidio,  Livio,
Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e san
Tommaso. Il volgare divenne l'istrumento naturale di  questa  coltura.  I  poeti
bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori
classici, i moralisti e  i  filosofi.  Era  un  movimento  di  erudizione  e  di
assimilazione dell'antichità, che durò parecchi secoli, e che  ebbe  una  grande
azione sulla nostra letteratura. La materia, a cui più volentieri si volgevano i
traduttori, era l'etica e la rettorica, l'arte del ben fare  e  l'arte  del  ben
dire. Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento
del Libro de' costumi, opera scritta in  distici  latini  e  divisa  in  quattro
libri. L'opera ebbe tanta voga, che se ne  fecero  tre  versioni,  ed  è  spesso
citata dagli scrittori. Nè è maraviglia, perchè ivi la morale è nella sua  forma
più popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa  in  un  distico,  a
guisa di motto o proverbio o sentenza, facile  a  tenere  in  memoria.  Ecco  un
esempio:

Virtutem primam esse puto, compescere linguam:       proximus ille Deo
est Qui scit ratione tacere. 

Ed è tradotto egregiamente così:

        Costringere la lingua credo che sia la prima vertude:
        quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.

Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che  ti
mostra la lingua ne' diversi stati della  sua  formazione.  La  terza  versione,
pubblicata  dal  Manni,  ha  per   compagna   l'Etica   di   Aristotile   e   la
Rettorica di Tullio. Questa Rettorica di Tullio è il  Fiore  di
rettorica, attribuito a frate Guidotto  da  Bologna,  e  da  altri  con  più
verisimiglianza  a  Bono  Giamboni,  e  che  comincia  così:  «Qui  comincia  la
Rettorica nuova di Tullio, traslatata da grammatica in volgare per  frate
Guidotto da Bologna». Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea
produrre, si vede da queste parole del traduttore:

        "Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno  di
Puglia, il quale era fatto abitante della nobile città di Roma,  che  avea  nome
Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia  di
rettorica, la quale avanza tutte le altre  scienzie  per  la  bisogna  di  tutto
giorno parlare nelle valenti cose,  siccome  in  far  leggi  e  piati  civili  e
cherminali, e nelle cose cittadine,  siccome  in  fare  battaglie,  ed  ordinare
schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl'imperii, regni e  principati,
e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane  e  diverse  genti,  come
conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra."

        Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrà avere  «sufficiente
e adorno ammaestramento a dire in piuvico e  in  privato».  Accanto  a  Cicerone
comparisce il grande poeta Virgilio, «il  quale  Virgilio  si  trasse  tutto  il
costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara dimostranza».  Il
frate, cercando le «magne virtudi» di Cicerone, aggiunge: «Sì mi  mosse  talento
di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare  di  latino
in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere de' laici, volgarmente». Onde
pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici,  scrivendo
i chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si vede la
grande impressione che facea  su  quelle  menti  Virgilio  e  Cicerone,  «d'arme
maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno,  fornito  di
scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose». E ci si vede  pure  la
gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben
dire in pubblico e in privato bastasse imparare le  regole  dell'etica  e  della
rettorica. Nè si recavano in volgare le opere solo dell'antichità, ma  anche  le
contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto  da
Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de' Trattati di morale, dottissima
opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione. Il primo trattato,  Della
dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta, è  composto
l'anno 1238. L'opera levò tal grido, che fu tradotta in francese e in inglese, e
veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto
vivere, sacra e profana. L'impulso fu tale che gli uomini più chiari si  volsero
a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica,
di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla  Composizione  della  terra;
Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica;  ser  Brunetto  traduceva  il
trattato De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di
Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti  savi  raccoglieva  i
detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito,  Socrate,  Epicuro,
Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone. Ecco i «fiori» di Plato:

        "Plato fue grandissimo savio  e  cortese,  in  parole,  e  disse  queste
sentenzie:
        In amistade, nè in fede non ricevere  uomo  folle:  più  leggermente  si
passa l'odio de' folli e de' malvagi, che la loro compagnia.
        A neuno uomo ti fare troppo compagno. L'uomo è  cosa  troppo  singolare:
non puote sofferire suo pare, de' suoi maggiori hae invidia, de' suoi minori hae
disdegno, a' suoi iguali non leggeremente s'accorda.
        Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte allegri  e
nel cuore tristi."

Secondo la rettorica di quel tempo si diceva «fiore» quel raccogliere il  meglio
degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto.  E  si  diceva  anche
«giardino», come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione,
versione del latino: «e chiamasi questo Giardino di consolazione,  imperò
che siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti, così  in
questa opera si trovano molti  e  begli  detti,  li  quali  l'anima  del  divoto
leggitore indolcirà e consolerà». In  effetti  questo  bel  libro,  dov'è  molta
semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de' vizi e  delle  virtù,  con
sopra ciascuna materia i detti de' savi e de' santi  Padri,  tanto  che  si  può
veramente dire dell'autore: «il  più  bel  fior  ne  colse».  Ecco  il  capitolo
Dell'Ebrietade:

        «Ebrietade, secondo che dice santo  Agostino,  è  vile  sepoltura  della
ragione e furore della mente». Anche dice: «La ebrietà  è  lusinghiere  demonio,
dolce veleno, soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha  guasti,  toglie
il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai
non tiene segreto, induce a male parole.» Santo Basilio  dice:  «l'ebro,  quando
pensa bere, sì è beuto: come lo pesce  che  con  grande  desiderio  inghiottisce
l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così l'ebro, bevendo il vino, riceve in
sè nemico senza ragione.» E santo Paolo dice: «non t'inebriare di  vino,  imperò
che di vino esce lussuria.»

        Nè solo «fiore» o «giardino», ma si diceva pure  «tesoro»  o  «convito»,
quasi mostra di ricche pietre preziose, o di elettissime vivande. Brunetto,  che
scrisse il Fiore, avea già scritto il Tesoro, «in romanzo o lingua
francesca», come «più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi», e
voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos  di
quel tempo, l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole, la somma
o il compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto,  «un'arnia  di
mèle tratta di diversi fiori», un «estratto di tutt'i membri di filosofia in una
somma brevemente». Prende capo dalla filosofia, siccome «radice di cui  crescono
tutte le scienze», ed è descrizione  di  Dio,  dell'uomo,  della  natura.  Segue
l'etica, o filosofia pratica, e poi la  rettorica,  che  ha  come  appendice  la
politica, o l'arte di ben governare gli stati. È il disegno di una prima facoltà
universitaria, che prepara con questi studi i  giovani  alle  scienze  speciali.
Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia. Ma  più
importanti erano i trattati speciali,  dove  gli  scrittori  mostravano  qualche
originalità, come furono i tre trattati di Albertano e il famoso trattato  De
regimine  principum  di  Egidio  Colonna,  dottissimo  patrizio  napolitano,
volgarizzato da un toscano.
        Il luogo che teneva la fede, venne occupato dalla filosofia. Non che  la
filosofia negasse la fede, anzi era proprio di quel tempo  aver  fede  in  tutto
quello che era scritto; ma sotto quella forma s'affermava la società colta, e si
distingueva  da'  semplici  e  dagl'ignoranti.  Il  luogo  comune  di  tutte  le
invenzioni era l'eterno Giobbe l'uomo colpito dall'avversità, che maledice prima
alla vita e trova poi rimedio  e  consolazione  nella  filosofia,  ovvero  nello
studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la
grande popolarità del libro di Boezio Della consolazione, fondato appunto
su questa base, dove la filosofia è rappresentata «in  sembianza  di  donna,  in
tale abito e in sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva,  tanto
che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e  poggiava  a
monte  e  a  valle».  Tale  è  pure  la  visione  di  ser  Brunetto  Latini  nel
Tesoretto, ch'è visione delle cose umane «secondo il  corso  stabilito  a
ciascheduna»:

        Io le vidi ubbidire,
        finire e incominciare,
        morire e 'ngenerare.

La stessa base ha il libro, Introduzione alle virtù, di Bono Giamboni.  È
un giovine, «caduto di buono luogo in malvagio stato», che narra di sè in questo
modo:

        "Seguitando il lamento che fece Giobbe, cominciai a maledire l'ora e  il
die che io nacqui e venn'in questa misera vita, e il cibo che  in  questo  mondo
m'avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran  sospiri,  i
quali venieno della profondità del mio petto,  fra  me  medesimo  dissi:  -  Dio
onnipotente, perchè mi facesti tu vivere in  questo  misero  mondo,  acciocch'io
patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche  e  sostenessi  cotante  pene?
Perchè non mi uccidesti nel ventre della madre mia, o  incontanente  che  nacqui
non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio  alle  genti,  che
neuna miseria d'uomo potesse nel mondo più  montare?  -  Lamentandomi  duramente
nella profondità di un'oscura notte  nel  modo  che  avete  udito  di  sopra,  e
dirottamente piangendo m'apparve di sopra al  capo  una  figura,  che  disse:  -
Figliuolo mio,  forte  mi  maraviglio,  che  essendo  tu  uomo,  fai  reggimenti
bestiali, perciocchè stai sempre col capo chinato, e guardi le oscure cose della
terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi
il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi,  come
dee fare uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti purgato,  e  vedresti
la malizia de' tuoi reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello
che disse Boezio: che, conciossiacosachè tutti gli  altri  animali  guardino  la
terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo all'uomo è dato  a  guardare
il cielo, e le celestiali cose contemplare e  vedere?  -  Quando  la  boce  ebbe
parlato... , si riposò una  pezza,  aspettando  se  alcuna  cosa  rispondessi  o
dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno  sembiante  facea,  si
rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli  occhi,
i quali erano di molte lacrime gravati  per  duri  pianti  ch'io  avea  fatto...
Allora apersi gli occhi e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me  una  figura
bellissima e piacente, quanto più innanzi fue possibile alla natura di  fare.  E
della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che  abbagliava  gli
occhi di coloro che  guardare  la  volieno:  sicchè  poche  persone  la  poteano
fermamente mirare. E della detta  luce  nasceano  sette  grandi  e  maravigliosi
splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo  la  detta  figura  così
bella e lucente, avvegna che avessi  dallo  incominciamento  paura,  m'assicurai
tostamente, pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare. Cominciai
a guardar la figura tanto fermamente, quanto la debolezza del  mio  viso  poteva
sofferire. E quando l'ebbi assai mirata, conobbi certamente ch'era la Filosofia,
nelle cui magioni avea lungamente dimorato. Allora  incominciai  a  favellare  e
dissi: - Maestra delle virtudi, che vai tu facendo in tanta profondità di  notte
per le magioni de' servi tuoi? - "

        Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia, il cui
costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita  è  in
cielo, se però «porti in pace le pene e le tribulazioni  di  questo  mondo,  chi
vuole essere verace figliuolo di Dio, e non bastardo, pensando, che s'egli  sarà
compagno di Dio nelle  passioni,  sarà  suo  compagno  nelle  consolazioni».  La
Filosofia finisce con questo lamento:

        «O umana generazione, quanto se' piena di vanagloria, e  hai  gli  occhi
della mente, e non vedi! Tu ti rallegri  delle  ricchezze  e  della  gloria  del
mondo, e di compiere i desidèri della carne, che possono bastare quasi  per  uno
momento di tempo, perchè poco basta la vita dell'uomo: e queste sono veracemente
la morte tua, perchè meritano nell'altro mondo  molte  pene  eternali.  E  della
povertà e delle tribulazioni del mondo  ti  turbi  e  lamenti,  che  poco  tempo
possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perchè se  si  comportano
in pace, meritano nell'altro mondo molta gloria perpetuale... Disse uno savio: -
Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento,  e  quello  che  ne  tormenta
nell'altro, durerae mai sempre.»

E segue, citando i detti dell'Apostolo, di san Pietro e di Salomone. Questo  era
il tèma comune delle prediche, salvo che qui il predicatore è la Filosofia,  che
si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san Pietro e i  santi  Padri.  Questo
concetto è l'idea fondamentale della «leggenda», una storia fantastica,  la  cui
base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio  e  il  demonio
sono gli attori principali: Dio che co' suoi angioli e le sue virtù tira l'anima
alla rinunzia de' beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e  il
demonio che la tiene stretta e  affezionata  alla  terra.  L'uomo,  mosso  dalle
naturali inclinazioni, vende l'anima al demonio pur d'essere felice in terra,  e
lo spettacolo finisce nelle tenebre e  nel  fuoco  dell'inferno.  Ma  spesso  la
tragedia si solve nella commedia, cioè nel  trionfo  e  nel  gaudio  dell'anima,
quando, aiutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare  il
paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la  battaglia  dei  vizi  e  delle
virtudi, che nella Introduzione alle  virtù  del  Giamboni  la  Filosofia
mostra al suo servo, perchè in quella immagine fortifichi la sua fede. Questa  è
pure la base della leggenda del dottore Fausto che  vendè  l'anima  al  diavolo,
leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale  da  Goethe.  E  questo  è
anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia,
e le gioie e i  dolori  dell'amore  terrestre  svaniscono  nella  contemplazione
intellettuale della Scienza.
        Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto, esposto in
prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s'incontrano nella stessa idea,  o
per dir meglio, era questa l'idea comune, elaborata in tutto il medio evo, e che
sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sè.
Ma in prosa non trovò quell'adeguata espressione che seppe  dare  Dante  al  suo
mondo lirico. Mancò la leggenda, com'era mancata la novella, e mancò il  romanzo
religioso o spirituale, com'era mancato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore  è
più  intento  a  raccogliere  che  a  produrre.  Fra  tanti   «Fiori»   e
«Giardini»  e  «Tesori»  manca  l'albero   della   vita,   l'anima
impressionata e fatta attiva che produca. Ci è un  lavoro  di  traduzione  e  di
compilazione, non ci è ancora un  lavoro  di  assimilazione,  e  tanto  meno  di
produzione. Le ricchezze  son  tante,  che  tutta  l'attività  dello  spirito  è
consumata a raccoglierle, anzi che a crearne di nuove. Senti  una  stanchezza  a
leggere queste traduzioni o compilazioni,  dove  niente  è  affermato  senza  un
«ipse dixit», o piuttosto «ipsi dixerunt», tante e così accumulate
sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni,  non  varietà  in  questi
«giardini», dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre  con  la  stessa
voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d'immaginazione o  di  affetto;  nessun
vestigio di narrazione o  descrizione;  l'esposizione  didattica,  il  trattato,
riempie l'intelletto, e t'uccide l'anima. L'espressione più  chiara  del  secolo
furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni,  traduttori  e  compilatori
infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere  avanti  accennate,  ha
tradotto pure le Storie di Paolo Orosio, l'Arte  della  guerra  di
Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.
        La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è di aver preparato
il secolo appresso, lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni  fatte
volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel  tradurre
fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilità  alla  nuova  lingua,  e
quella pieghevolezza ed evidenza  che  viene  dalla  necessità  di  rendere  con
esattezza il pensiero altrui. Principe de' traduttori  fu  Bono  Giamboni,  così
terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte  oggi,
soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtù e di vizi.
        In queste prose didattiche non ci  è  di  arte  neppure  intenzione.  Ai
contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano
sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l'opinione che il volgare non
fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in
latino, come costumavano gli scrittori di polso.

V I MISTERI E LE VISIONI

Al  punto  a  cui  siamo  giunti,  ci  si  porge  chiara  l'immagine   delsecolo
decimoterzo. Due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria  e
le sacre scritture. L'eroe della cavalleria,  il  cavaliere,  è  l'uomo  che  si
sforza di realizzare in terra la verità e la giustizia, di  cui  è  immagine  la
donna, suo culto e amore. La sua vita è attiva, piena di avventure  e  di  fatti
maravigliosi. Senti la sua presenza nella più antica lirica, nelle novelle,  ne'
romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, venutaci di fuori, con gli stranieri
che occupavano il nostro suolo, non prese radice, non si sviluppò, non  produsse
alcuna opera originale, rimase stazionaria. Perdette il suo  carattere  serio  e
quasi religioso e restò un puro  gioco  d'immaginazione,  che  si  mescola  come
colorito e accessorio in  tutte  le  storie,  sacre  e  profane.  Di  ben  altra
efficacia era l'idea religiosa, penetrata ne' sentimenti e ne' costumi  e  nelle
istituzioni, compagna dell'uomo in tutti gli stati della vita. L'eroe  cristiano
è  chiamato  pure  «cavaliere»,  il  «cavaliere  di  Cristo»;  ma  è   un   eroe
contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito, il santo.  Come  il  cavaliere
errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri, ma la vita dell'uno è
militante, quella dell'altro è contemplante: ci è in fondo la  stessa  idea,  di
cui l'uno è il soldato, l'altro è il sacerdote. Certo, questi due  tipi  entrano
spesso l'uno nell'altro, e il frate diviene  il  templario  o  il  cavaliere  di
Malta, soldato della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma
il cavaliere, gittandosi nelle più strane avventure, dimentica e fa  dimenticare
il cielo, attirata l'attenzione dal maraviglioso delle  opere,  sì  che  destano
uguale curiosità e interesse le  geste  de'  cristiani  e  de'  saracini,  e  la
rappresentazione rimane terrena. L'altro  al  contrario  passando  la  vita  ne'
digiuni, nella povertà, nella castità  e  nell'orazione,  ci  tien  sempre  viva
innanzi l'immagine dell'altro  mondo;  e  perciò  questa  vita  contemplativa  è
schiettamente religiosa; anzi è ivi la perfezione, ivi il più  alto  ideale.  La
passione dell'anima è l'esser legata al corpo, alla carne, e la sua  beatitudine
o santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo:  al  che  è  via  la
contemplazione e la preghiera. Nelle tre  allegorie  sull'anima  pubblicate  dal
Palermo è detto: «Ogni bene e virtù, qualunque vogli, e buono in sè medesimo, ma
la preghiera solamente trae a sè tutte le  altre  virtù».  In  queste  allegorie
compariscono tre esseri, che sono i tre  gradi  della  santificazione:  «Umano»,
«Spoglia» e «Rinnova». Dapprima l'anima, impacciata dal terrestre, dall'«Umano»,
non può scorgere il vero che sotto figura, nel  sensibile.  Il  secondo  essere,
«Spoglia», è la virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri,  insino
a che viene «Rinnova», luce mentale, che «rinnova l'anima in tutto e  mostra  la
verità  senz'ombra  e  senza  figura».  Questi  tre  gradi   di   santificazione
comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella
carne, non vede che un barlume del vero, e non giunge all'ultima  luce  mentale,
all'ultimo grado, se non  purificandosi  e  mondandosi  della  parte  terrestre.
Anch'egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch'egli  macera  e
mortifica d'ogni maniera, e le sue armi sono la contemplazione e  la  preghiera.
Il maraviglioso di questa vita non è solo ne' miracoli, ma in  quella  forza  di
volontà che trae l'uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni  naturali,
com'è in santo Alessio, il tipo più commovente di questi cavalieri di Cristo. La
creazione del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo,  la
sua passione, morte e trasfigurazione, l'anticristo  e  il  giudizio  universale
sono l'epopea, il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E  questa
storia dell'umanità era tutt'i giorni innanzi al popolo,  nella  predica,  nella
confessione,  nella  messa,  nelle  feste.  La  messa  non  è  altro   che   una
rappresentazione simbolica di questa storia, un vero dramma senza che ce ne  sia
l'intenzione, rappresentato dal prete e da' fedeli. Ogni atto che fa il prete, è
pieno di significato, è rappresentazione mimica. La prima parte  della  messa  è
epica o narrativa; è  il  Verbum  Dei,  l'esposizione  che  comprende  le
profezie e il Vangelo, e finisce con la predica. La seconda parte è  drammatica,
è l'azione, il Sacrificium, l'adempimento delle profezie. La terza  parte
è lirica, come nelle risposte de' fedeli (il coro) al prete, o quando  due  cori
si alternano nel canto,  e  negl'inni  e  nelle  preghiere:  ciò  che  ha  luogo
principalmente nella messa cantata. Aggiungi le immagini de'  santi  e  i  fatti
dell'antico e del nuovo  Testamento  in  quelle  cappelle,  in  quelle  finestre
variopinte,  in  quelle  cupole,  e  quelle  grandi   ombre,   e   quelle   moli
restringentisi sempre più e terminate da croci  slanciate  verso  il  cielo,  ed
avrai l'immagine e l'effetto musicale di questo stacco dalla  terra,  di  questo
volo dell'anima a Dio. Dopo l'evangelo, il  predicatore  talora,  per  fare  più
effetto  sull'immaginazione,   esponeva   la   sua   storia   sotto   forma   di
rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali. I monaci  e  i
preti rappresentavano il fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e
considerazioni. Era una rappresentazione liturgica, cioè legata al culto,  parte
del culto, detta «divozione» o «mistero». Di tal natura sono due divozioni,  che
si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono piuttosto due  atti  di
una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La  prima  comincia
col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti Pasqua, e che
qui è il giovedì santo. Cristo viene da Gerusalemme, Maria con  Maddalena
e  Marta  gli  va  incontro.  Maria  prega  il   figlio   di   non   tornare   a
Gerusalemme, perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ubbidire
al Padre: pur si conforti, che niente farà che non lo dica a lei. Alla fine  del
banchetto Cristo scopre a Maddalena  che  dee  ire  a  Gerusalemme,  dove
patirà il supplizio  della  croce,  e  le  raccomanda  la  madre.  Cristo  esce.
Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle quello
che il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la  madre  va  a  Cristo  tutta  in
lacrime, e dice:
Dimilo, figlio, dimilo a mi,
        perchè stai tanto afannato?
        Amara mi, piena de suspiri,
        perchè a mi lo hai celato?
        De gran dolore se spezzano le vene,
        e de doglia, figlio, me esse il fiato,
        chè t'amo, o figlio, con perfecto core,
        dimilo a mi, o dolce Segnore.

Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e Maria sviene.  Tornata
in sè e lamentandosi, raccomanda  il  figlio  a  Giuda,  che  risponde  in  modo
equivoco: - So quello che ho a fare. - Poi  si  volge  a  Pietro,  che  promette
difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a una porta della città, Maria
non vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede più e sa che  per  un'altra
porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti innanzi al popolo:

        O figlio mio, tanto amoroso,
        o figlio mio, due se' tu andato?
        O figlio mio, tuto gracioso,
        per quale porta se' tu entrato?
        O figlio mio, assai deletoso,
        tu sei partito tanto sconsolato!
        Ditime, donne, per amor de Dio,
        dov'è andato lo figlio mio?

Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo, tolte al Vangelo, sono
dette in latino. E la «divozione» finisce con la prigionia di Cristo.
        La «divozione» del venerdì santo racconta la  passione  e  la  morte  di
Cristo. Il predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni,  e
fa cenno quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte.  Mentre
Cristo prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:

        Inclina li toi rami, o croce alta,
        dona riposo a lo tuo Creatore;
        lo corpo precioso ià se spianta;
        lasa la tua forza e lo tuo vigore.

Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchiandosi e baciandole i piedi cerca
racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:

        O figlio mio, figlio amoroso,
        come mi lasi sconsolata!
        O figlio mio tanto precioso,
        come rimango trista, adolorata!
        Lo tuo capo è tutto spinoso,
        e la tua faza di sangue bagnata!
        altri che ti non voglio per figlio,
        o dolce fiato e amoroso giglio.

Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a' piedi, al  capo  Giovanni,  Maria  nel
mezzo. E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le
mani «con le quali benediva il mondo», i piedi su' quali «Maddalena sparse tante
lacrime».
        Queste rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano  in  latino,
come il Ludus paschalis, rappresentazione di  Pasqua,  dove  è  messo  in
azione l'anticristo. Le due «divozioni» avanti discorse non  sono  probabilmente
che versioni o imitazioni di opere più antiche, rimase  nella  tradizione.  Tale
era pure la rappresentazione del Nostro Signore  Gesù  Cristo,  che  ebbe
luogo a Padova nel 1243, e il Ludus Christi, una  trilogia  rappresentata
dal clero in  Cividale  negli  ultimi  due  giorni  di  maggio  il  1298.  Nella
Pentecoste e ne' tre seguenti giorni il capitolo di questa  città,  in  presenza
del vescovo e del patriarca di Aquileia, diede questa serie di rappresentazioni:
la creazione di Adamo ed Eva, la profezia o  l'annunzio,  la  nascita,  morte  e
risurrezione di Cristo, la discesa  dello  Spirito  santo,  l'Anticristo,  e  la
venuta di Cristo nel giudizio universale.  Era  tutta  l'epopea  biblica,  fatta
evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e  dalla
parola. Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma  nel  Coliseo  il
venerdì santo, dalla Compagnia del gonfalone nel 1264.
        Queste rappresentazioni, di cui i preti erano attori e  attrici,  aveano
tutto il carattere di solennità o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi  ha
pure la sua parte di tentatore, ma parla in modo serio e  semplice,  secondo  la
sua natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel recinto delle
chiese, de' conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili,
senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon  in  parte  nelle  feste  del
contado.
        La moralità di queste rappresentazioni  era  che  il  fine  dell'uomo  è
nell'altra vita,  o  come  si  diceva,  è  la  salvazione  dell'anima;  che  per
conseguire questo fine si ha a imitare Cristo,  soffrire  in  questo  mondo  per
godere nell'altro. Perciò l'ideale, l'eroico o, come si diceva,  la  «perfezione
della vita» era il dispregio de' beni di questo mondo, la resistenza a tutte  le
inclinazioni  naturali  e  il  vivere  in  ispirito  nell'altro  mondo  con   la
contemplazione e la preghiera. Questa è la vita de' santi, della quale  si  dava
anche rappresentazione a' fedeli. E tra le più antiche è una ancora inedita, che
ha per titolo: D'uno monaco che andò a  servizio  di  Dio,  probabilmente
recitata a monaci  da  monaci  in  un  convento.  L'eroe  è  questo  monaco,  un
giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele  del  padre,  alle
tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come figlio
da un romito. Ma ivi prove più dure l'attendono. Mentre egli  va  a  raccogliere
per il pasto radici, frutta, castagne e  noci,  il  romito  prega,  e  mosso  da
curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso, e un angelo
risponde che sarà dannato. Non perciò della notizia si turba il giovinetto, anzi
risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il demonio  lo
tenta, dicendogli che «ha guastato l'amor naturale», e che il meglio sarà
tornare in casa del padre, chè forse Dio gli avrà  misericordia.  Il  giovinetto
con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione.  Allora
l'angiolo annunzia al romito ch'egli è salvo. E il monaco e il romito  intuonano
il Te Deum o  una  lauda.  Nell'epilogo  o  commiato  sono  esortati  gli
spettatori a castigare la carne e  a  pensare  alla  vita  eterna.  Anima  della
rappresentazione è l' invitta fede del giovane monaco, che  la  preghiera  e  la
contemplazione è la più sicura guardia contro il peccato e la  tentazione  della
carne, e che si giunge alla santificazione con rinunziare al mondo e vivere  con
lo spirito in Dio. Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel  canto
del monaco, di cui ecco alcuni brani:

        L'anima sensitiva che s'inchina
        nel mondo a tutto quel che la diletta,
        apprezza poco la legge divina...

        L'alma piena di fede e semplicetta
        spesso si leva pura a contemplare
        quel ben che veramente la diletta.
        e quando a quel più intenta esser le pare,
        allor dal grave corpo è sì constretta,
        che giuso afflitta le convien tornare,
        e umile e isdegnosa piange e dice:
         - Deh! Chi mi sturba il mio esser felice? -

        Quell'anima gentile è sempre viva,
        e vive Iddio in lei per unione... ,
        e tutta sta nella contemplativa,
        e gode tutta; e s'ella ha passione,
        è per esser legata al corpo tristo,
        dal qual desia disciòrsi e star con Cristo.

Ci è una rappresentazione, intitolata  Commedia  dell'anima,  che  è  una
storia ideale della vita de' santi, una specie di  logica,  dove  sono  le  idee
fondamentali della santificazione, l'ossatura e lo scheletro di  tutte  le  vite
de' santi. L'anima esce pura dalle  mani  di  Dio  e  a  sua  immagine.  Dio  la
contempla con amore, dicendo:

        Quando io risguardo quella creatura,
        che all'immagine mia io ho formata,
        e ch'io la veggo immaculata e pura
        starmi dinanzi, la m'è accetta e grata:
        ma l'ha bisogno d'una buona cura,
        la quale a custodirla sia parata;
        e perchè ha in sè l'immagine d'Iddio,
        vo' che la guardi un angel santo e pio.

Ma il demonio, invidioso che «sì vil cosa abbia a fruire quel  regno,  del  qual
esso è privato», si apparecchia a darle  battaglia.  L'angelo  custode  conforta
l'anima, e le presenta la Memoria, l'Intelletto e la Volontà: le sue «potenzie».
L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:

        Io son di te la seconda potenzia
        e il nome mio è detto Intelligenzia.

        La mia quiete si sta nel Verbo eterno,
        e quivi sempre debb'esser saziato:
        però che in questo esilio io non discerno
        com'io sarò in quel regno beato.
        Allora io sarò sazio in sempiterno,
        e quivi il mio obbietto arò trovato,
        fermandomi in quel razzo rilucente,
        che senza quello inquieta è la mia mente.

        Lièvati sopra te tutta in fervore,
        e guarda un po' del ciel quell'ornamento:
        vedra'lo circondato di splendore;
        poi pensa, anima mia, quel che v'è drento.
        Lascia un po' star le cose esteriore,
        se vuoi aver di quell'intendimento:
        per questo i santi tutti innamorati
        il mondo disprezzorno, pompe e stati.

E la Volontà dice:

        Io son la Volontà che ho a fruire
        quel ben c'ha dichiarato l'Intelletto,
        e in quel fermando tutto il mio desire,
        perchè creata sono a quest'effetto... ,
        e perchè l'occhio corporal non vede,
        credendo ho da seguir con pura fede.

L'Intelletto dice alla Volontà:

        A te s'appartien sol deliberare
        di far quel che ti è mostro fedelmente;
        l'ufizio tuo è sempremai d'amare
        ed unirti con Dio perfettamente.

E la Volontà risponde:

        Nella tua spera i' m'ho sempre a guardare,
        benchè la mostri un po' con pura mente;
        quand'io sarò nella gloria beata,
        ciascuna cosa mi fie dichiarata.

L'anima confortata alza la preghiera a Dio, e l'angelo custode aggiunge:

        Dàgli, Signore, un'ardente fiammella,
        che la difenda da drago feroce:
        tu sai che l'è nel corpo incarcerata,
        e non può a te senza te esser grata.

Cioè a dire, non bastano  le  tre  potenzie  naturali,  Memoria,  Intelligenzia,
Volontà, perchè l'anima piaccia al  Signore;  ci  vuole  anche  la  sua  grazia,
l'ardente fiammella che dee cacciare il  drago,  il  demonio.  E  Dio  manda  ad
assisterla le virtù teologiche, Fede vestita di colore celeste,  con  una  croce
nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la patena; Speranza vestita
di verde, con gli occhi fissi al cielo e  le  mani  giunte,  Carità  vestita  di
rosso, con un parvolino  per  mano.  Intanto  il  demonio  chiama  l'Eresia,  la
Disperazione, la Sensualità e tutte le sue forze capitanate  dall'Odio.  Le  tre
virtù intorniano l'anima. La Fede dice dell'esser suo, e san Giovanni Crisostomo
celebra la sua potenza. Ma l'Infedeltà con acri parole la rampogna:

        È vien da levità chi crede presto.
        Tu ne sei ita quasi che per terra,
        e puossi dir che la fede è mancata;
        uomini grandi e dotti ti fan guerra,
        chi t'esaltò, or t'ha perseguitata...
        Va' nel Levante e in tutto l'Occidente,
        e guarda di noi dua chi ha più gente.

Allora la Speranza viene in soccorso:

        Leva su gli occhi alla città superna,
        ch'è fabbricata senz'ingegno umano.

Ma l'anima teme, pensando la sua debolezza:

        Come io digiuno un dì, i' son sì bianca
        che par che un curandaio m'abbi imbiancato
        io mi stare' a dormir sur una panca
        e il corpo vuole un letto sprimacciato.

La Speranza le pone avanti l'esempio de' santi, e soprattutto di santo Agostino:

        Quando diceva orando: - Signor mio,
        questo mio cor non si può consolare:
        tu solo se' quel che lo puoi quietare.

Allora l'assale la Disperazione e dice:

        Pensa che la giustizia arà il suo loco
        e tu hai fatt'assai ben di peccati:
         - O tu dirai: - io non vo' disperarmi
        perchè Dio è parato a perdonarmi? -

Ma l'anima risponde allo scherno, cacciandola da sè:

        E tu va via, bestiaccia maledetta.

Segue un'altra disputa tra la Carità, della quale san Paolo celebra le  lodi,  e
l'Odio, in cui spunta l'ombra di un carattere,  qualche  cosa  di  simile  a  un
capitano millantatore:

        Vòltati in qua, porgimi un po' l'orecchio
        e non guardar ch'io sie canuto e vecchio.
        Guardami un po' s'i' sono un bel vecchiardo,
        e per antichità tutto canuto,
        nell'operar son giovane e gagliardo,
        a ricordar l'ingiuria molto astuto,
        nel mio discorrer non son pigro o tardo,
        conosco tutte le persone al fiuto:
        subito che tu pigli qualche sdegno,
        in un momento io vi fo su disegno.
        La Carità t'exorta a perdonare,
        ed io ti dico: - Non lo voler fare. -

        Il perdonar vien da poltroneria
        e d'animo ch' è pien di debolezza;
        e chi t'ingiuria o dice villania,
        quando che tu sopporti, e' vi s'avvezza:
        rendigli il cambio a ognun, sia chi si sia,
        mettigli al collo una grossa cavezza,
        non lasciar mai la vendetta a chi resta,
        e a chi fosse, dàgli in su la testa.

        Io venni qui con una spada in mano
        per istar teco e messimi l'elmetto,
        io son del Satanasso capitano,
        attengo volentier quel ch'io prometto:
        quand'io veggo per terra il sangue umano,
        mi genera a vederlo un gran diletto,
        e tengo sempre 'l mio caval sellato
        per esser presto presto in ogni lato.
        Oh quante brighe, oh quante occisioni
        son per me fatte in città e in castella:
ho buon affar nelle religioni, Vommene pe' conventi in ogni cella,
        metto l'un l'altro in gran divisioni
        i' facendo mormorar di chi favella,
        poi mi metto in cammino e in poch'ore
        mi trovo in corte di qualche signore.

L'ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e la Ragione. L'anima pregando
si sente sopraffatta dal corpo:

        Io ti vorrei, Signor, sempre servire,
        ma questo corpo m' è molto molesto;
        che s'io voglio vegliar, e' vòl dormire,
        ogni po' di disagio lo fa mesto,
        e comincia di fatto a impallidire.
        la Sensualità che vede questo mi dice:
         - Tu vorrai volar senz'ale,
        e dare un buon guadagno allo spedale. -

E la Sensualità, così invocata, le dice beffando:

        Tu vorresti ir al ciel così vestita:
        io ti vo' dire il ver senza rispetto:
        a me pare che tu ti sie smarrita,
        faresti meglio a picchiarti un po' il petto:
        non vorresti patir caldo, nè gielo,
        e calzata e vestita andare in cielo.

Ma ecco la Ragione dire all'anima:

        Deh dimmi, anima mia, ch'hai tu avuto,
        io m'era appunto appunto addormentata.

E saputo il fatto, dice della sua nemica:

        Ella è una bestiaccia sì insolente,
        bisogna non lasciar punto la briglia:
        battila spesso senza discrezione,
        e non gli mostrar mai compassione.

 - Ma che dovevo fare? - dice l'anima:

        Dovevi tutta aprirti nelle braccia,
        a pigliare una mazza tanto grossa,
        che rompessi la carne e tutte l'ossa.

La Sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio di villanie aggiunge:

        Questa Ragione è sol ipocrisia,
        e non sa appena dir l'ave Maria.
        E m'incresce di te c'hai questo sprone,
        bisognerà che tu te lo cavassi.
        Deh! fa a mio modo, piglia un buon mattone,
        dàgli nel capo che tu lo fracassi.
        La sta 'l dì e la notte inginocchione
        col collo torto e dice pissi passi... :

         - Piglia qualche piacer, deh fa' a mio modo,
        che a dargli un po' di spasso gli è dovuto.

La Ragione è vinta e l'anima cede. Ella desidera una ghirlanda con un nodo,

        come di quelle ch'io ho già veduto.

E il demonio aggiunge:

        Fàtt'un bel tocco di velluto rosso
        e una zimarra per tenere in dosso.

Così la Ragione è impotente senza la Grazia. Comparisce Dio stesso:

        Vòltati a me, non mi far resistenza,
        ch'io t'ho aspettato e aspetto a penitenza.

L'anima pentita del mal pensiero risponde:

        Non merito da te essere udita
        pe' miei gravi pensieri, iniqui e stolti.
        Io ho la tua bontà tanto schernita,
        ch'io non son degna che tu mi ti volti,
        e senza te io son come smarrita,
        nessun non trovo che il mio cor conforti.
        Se tu, Signor, che hai per me il sangue sparso,
        non mi soccorri, ogni rimedio è scarso.

Allora Dio le manda  in  soccorso  le  virtù  cardinali,  Prudenza,  Temperanza,
Fortezza, Giustizia, Misericordia, Povertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla  di
sè, citando talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:

PRUDENZA - Io ti conforto che tu sia prudente
in tutte l'opre tue come il serpente. TEMPERANZA - Terrai la via  del  mezzo  in
ogni cosa,
e sarà la tua mente graziosa. FORTEZZA - Tullio dice di me questa parola:
        che ognun venga a imparare alla mia scuola.
        Che la Fortezza ancor rapisce il cielo,
lo dice san Matteo nell'Evangelo. GIUSTIZIA - Dice David con la sua voce amena:
«Di Giustizia è la  destra  d'Iddio  piena.»  MISERICORDIA  -  Mercè,  mercè,  o
Giustizia divina,
        abbi pietà dell'alma pellegrina... ;
        perdona volentieri a chiunche erra,
        chè son rinchiusi in un vaso di terra.

        E questo vaso è sì pericoloso,
        nel quale sta rinchiusa questa gioia.
        Mentre che l'alma resta in questa vita,
        di lacci trova presi tutt'i passi:
        però bisogna a lei il divin aiuto,
chè senza quello ogni cosa è perduto. POVERTÀ - Io son la Povertà, o città mia,
        che non so chi mi voglia in compagnia.

        E son quella virtù che da' potenti
        son rifiutata e mandata al profondo:
        non è nessun che di me si contenti,
        eziandio que' ch'han lasciato il mondo.
        Ognun va dreto a' ricchi e bei presenti,
        ma io di mendicar non mi vergogno,
        perchè gli è di me scritto nel Vangelo:
«Quel che mi segue arà il regno del cielo.» PAZIENZA - O popul mio,  io  son  la
Pazienzia;
        che più non ho chi mi dia audienzia.

        O degna Povertà, virtù perfetta,
        che tanto fust'accetta al Verbo eterno... ,
        felice è quella che ti sta suggetta,
        nel ciel sarà felice in sempiterno;
        che non si può godere in questa vita,
e il paradiso avere alla partita. POVERTÀ -... M'affliggo e doglio
        che la perfezione quasi è mancata,
        non è più il tempo de' padri passati,
ch'erano pover, vili e disprezzati. PAZIENZA - Chi  pensa  andare  al  ciel  per
altra via,
        che per patir, si troverà ingannato.
        Giesù diletto figliuol di Maria
        n'ha dato esempio e a tutti ha insegnato...
        Per dimostrarci che s'avea a patire,
elesse su la croce di morire. UMILTÀ - L'Umiltade son io, fratei diletti,
        oggi non c'è nessun che mi raccetti...
        Vestitevi di Cristo, o genti stolte,
        non vi avvedete voi che il tempo vola?
        Non entra in paradiso alcun difetto,
        non v'entra quel ch'a Dio non è suggetto.

        Andiam cercando, care mie sorelle,
        per tutto il mondo un po' nostra ventura:
        se nel gregge di Cristo una di quelle
        ci ricevessi con la mente pura,
        perchè noi siam vestite poverelle,
        non vorrei gli facessimo paura;
        ch'oggidì le virtù non son richieste,
        ma fassi onore a chi ha le belle veste.

        L'anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:

        A te mi do, Signor clemente e pio,
        e voglio a te servir tutt'i miei anni,
        altro che te non bramo e non desio.

        Io ho fuggito il mondo pien d'affanni,
        dove si trova sol doglia o mestizia,
        ben è infelice chi veste suo' panni.

        Ei mostra nel principio la letizia,
        e di dover donar pace e riposo:
        di poi non dà se non pianto e tristizia.

        O mondo cieco, falso e tenebroso,
        che hai tant'amator in questa vita,
        e non mostri il velen che hai drento ascoso,
        per dolenti poi farli alla partita.

Colpita da grave infermità, dice:

        O m'è venuto tanto male addosso,
        che più star ritta niente non posso.
        Che vuol dir questo? È mi manca la vita.
        Giesù Giesù, dolce Signore, aita.

Intorno alla morente fanno  l'ultima  battaglia  l'angiolo  e  il  demonio.  Gli
argomenti dell'angiolo si possono ridurre in questi tre versi:

        Umana cosa è cascare in errore,
        e angelica cosa è il rilevarsi... ,
        sol diabolica cosa è star nel vizio.

Dio accoglie l'anima e pronunzia il suo giudizio:

        E questa è la mia ultima sentenzia,
        che la venghi a fruir la mia presenzia.

E l'angiolo dice

        Partite tutti: la sentenza è data:
        sonate per dolcezza una calata.

E il coro accompagna l'anima al cielo con questo canto:

        O felice alma, che dal corpo sciolta
        e per amor congiunta col tuo Dio,
        la vita t'è donata e non t' è tolta... ,
        sei fatta ricca di un prezzo sì pio,
        e con veste sì bella e nupziale
        al convito starai celestiale.

Così finisce questa rappresentazione, detta «commedia» perchè si  conchiude  con
la salvazione e non con la perdizione dell'anima. È detta anche «misterio»,  per
la sua natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato,
ripulito, rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse  più
in là, a giudicare dalla  forma  franca  e  spigliata,  da  certi  tentativi  di
formazione  artistica,  come  nelle  figure  del   demonio,   dell'Odio,   della
Sensualità, della Povertà, e da un certo non so che beffardo  e  grottesco,  che
svela poca serietà e unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la  trama
è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso  e  della  Ragione,
così comune negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e
delle virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa  Commedia
dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione. Là trovi
tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova. E  anche  qui  l'anima  è
prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perchè «umana cosa  è  cascare
in errore», poi fa la sua penitenza, si spoglia e  si  monda  della  scoria  del
peccato, e così a Dio si rimarita, come dice  Dante,  o,  come  dice  il  nostro
autore, sta «al convito celestiale con veste bella e nuziale». Questi tre  gradi
aveano la loro formazione liturgica nell'inferno,  purgatorio  e  paradiso,  che
erano appunto il senso, l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia  o  la
penitenza, che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la  luce  mentale,  la
beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a  materia
l'altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni Villani, che ebbe luogo a
Firenze. L'altro  mondo  era  la  storia,  o  come  si  diceva  la  «Commedia
dell'anima», la quale non  potea  giungere  a  redimersi  dall'umanità,  dal
corpo, dalla carne, dall'inferno, se  non  con  la  penitenza,  purificandosi  e
purgandosi, e così contrita e  confessa  diveniva  leggiera,  saliva  al  cielo.
Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho  voluto  dare  un  sunto
possibilmente esatto, è il codice  di  quel  secolo,  il  contenuto  astratto  e
generale, particolarizzato nelle vite, nelle  leggende,  ne'  trattati  e  nella
lirica Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose
e a quelle poesie è la «Commedia dell'anima».
        Ma in tante prose e in tante poesie non  ci  è  ancora  un  vero  lavoro
d'individuazione e  di  formazione.  Il  contenuto  rimane  nella  sua  astratta
semplicità, innominato e impersonale, l'anima.  Essendo  il  suo  fondamento  la
contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza agl'istinti e
agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme, non
diventa la società. Certo, quell'azione negativa è molto poetica, è  il  sublime
religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e unzione. Ma
in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più  è
il grido della natura, come ne' lamenti della madre di santo Alessio o di  santa
Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam, che all'annunzio
della sua morte chiama la madre:

        O santa Sara, madre di pietade,
        se fussi in questo loco, io non morrei...
Tutta è l'anima mia trista e dolente
        per tal precetto, e sono in agonia.
        Tu mi dicesti già che tanta gente
        nascer doveva della carne mia.
        Il gaudio volge in dolor sì cocente,
        che di star ritto non ho più balìa.
        S'egli è possibil far contento Dio
        fa ch'io non mora, o dolce padre mio.

Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti  e  solitari  della  vita
umana, così ricca e varia ne' suoi aspetti, pure offre contrasti  e  gradazioni,
che lo rendono capacissimo di un grande  sviluppo  artistico.  Ma  in  quel  suo
albore la letteratura ha lo stesso carattere  che  mostra  nella  decadenza,  la
naturalità o materialità del contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni
stuzzicavano la curiosità  con  la  varietà  e  novità  degli  accidenti,  e  si
attendeva più allo spettacoloso, a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove
e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi  gli
oggetti a distanza e trasformarli: la  realtà  anche  nuda  era  per  se  stessa
maravigliosa e bastava ad  ottenere  l'effetto,  operando  in  modo  semplice  e
immediato sullo scrittore e su' lettori.
        Oltrechè, siccome il contenuto riposava su di  una  dottrina  liturgica,
stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione  libera  e
artistica, anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da'
laici, come fu anche de' misteri.  Impadronirsi  di  quel  contenuto,  cacciarlo
dalla sua generalità, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione.
Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di  esempli,  di
sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il  concreto  non
avea valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio  in  che  modo  è
nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:

        In su quel monte dove sta il Signore,
        v'è una fontana traboccante e bella,
        che sempre getta un mirabil liquore.

        D'oro e d'argento n'è la sua cannella,
        le sponde di smeraldi e d 'oro fine,
        e tutta la città circonda quella.

        Salite al monte, o alme peregrine,
        salite al monte, e lassù troverete
        soprabbondanti le grazie divine.

Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana  della  divina  Grazia.
Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice  personificazione  e
gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il
suo concetto. Oltre a ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici  e  volgari
dell'umile  credente,  mira  a  trasformare  quella  dottrina  in  un  contenuto
scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata  e
sillogizzata fa la filosofia, figliuola di  Dio.  Lo  studio  del  secolo  è  di
allegorizzare e  dimostrare,  anzichè  di  rappresentare;  è  di  chiarire  quel
contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anzichè coglierlo in azione e
nell'atto della vita. Perciò  l'opera  letteraria  tiene  dell'allegoria  e  del
trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane  nell'infanzia.  Mai  non  ti
senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e
costumi, anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue  lotte,
e dimora nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione. E  quando
pur scende a rappresentare la vita, ti senti d'un tratto balzato nel  regno  de'
misteri, delle leggende e delle visioni, nell'altro mondo.
        La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si
vuol rappresentarlo. La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e  lo
scrittore o guarda e  passa,  o  se  pur  vi  si  trattiene,  è  per  maledirla,
rappresentandola non quale appare in terra, ma  quale  è  nell'altro  mondo.  La
rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e là
si spazia e si diletta l'immaginazione. E se il mistero è commedia,  ed  ha  per
conclusione la santificazione e la beatitudine,  la  visione  è  spesso  pittura
delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione  de'  predicatori,  de'
vescovi, de' frati, de' santi Padri,  che  col  terrore  operavano  sulle  rozze
immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di  fuoco  o  di  ghiaccio,  botti  d'acqua
bollente, rettili, vermi, dragoni da' denti di fuoco, demòni armati di lance, di
fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti
sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi  che
«non pare la carne», o sospesi per le unghie in  mezzo  al  zolfo,  o  menati  e
rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a «cerchi rosseggianti», o infissi a
spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di  metalli  fusi:  ecco  la  realtà
delle visioni, rappresentata co' più vivi colori. I tre monaci che si mettono in
viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo  quaranta  giorni  di  cammino
attraversano l'inferno:

        «E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti  pareano  che
gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di  mirabili
popoli che  piagnessero  e  urlassero.  E  pervenuti  che  sono  fra  due  monti
altissimi, appare loro un uomo di statura in  lunghezza  bene  di  cento  cubiti
incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un  monte  e
l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente
che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo
e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima  e
scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e  quando  ella
volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il  capo
in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina  erano
grandi infino a terra.»

Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:

        «Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori,  e
la barba e i capelli pareano d'oro, e ' denti suoi  parevano  di  ferro,  e  gli
occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la  lingua,
e parea che per le nari e per la  bocca  gittasse  fuoco,  e  puzzo  gittava  di
zolfo.»

        Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio  di  frate
Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi  a
papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e  insieme  onesto,  «ciò  che  è
proprio un miracolo in questa gente», egli dice. Questo conte, morto dieci  anni
innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito,  starsi  al  sommo  d'una
scala  lunghissima,  che  ergevasi  illesa  tra  le  fiamme  e  si  perdeva  giù
nell'inferno. Su ciascuno scalino  stava  uno  degli  antenati  del  conte,  con
quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia,  doveva  occupare  il
primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di  un  grado
verso l'abisso, dove tutti  l'uno  appresso  l'altro  si  sarebbero  riuniti.  E
chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in  terra
buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati,  di  cui  il
conte è l'erede in decimo grado, tolse al  beato  Stefano  un  territorio  nella
chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro  sono  involti  nella  stessa
dannazione. - Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto  poetica,
mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo  costantemente
innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi  si  avvicinano
insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno  che  voleva  che  le  sue
vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.
        Da queste visioni  e  misteri  e  prose  e  poesie  si  sviluppa  questo
concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato;  che
la virtù è negazione della vita terrena, e  contemplazione  dell'altra;  che  la
vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà  non  è
quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la  scienza,  o  la  verità,
come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e  il
paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.
        Appunto perchè l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è  pura
scienza  ed  un  di  là  della  vita,  questo  mondo  resiste  ad  ogni   sforzo
d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così  possente,  non  ci  può
gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine  dell'amore
divino.  La  donna,  come  donna,  è  peccato;  essa  diviene  una   specie   di
medium che lega l'uomo a Dio.
        Il maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia  pervenuto,  è  nella
lirica di Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma,  è
Beatrice, la fanciulla uscita  pura  dalle  mani  di  Dio,  come  l'anima  nella
commedia spirituale, breve apparizione, tornata così presto in cielo tra'  canti
degli angioli. La sua vita terrena è quasi non altro che nascere  e  morire.  La
sua vera vita comincia dopo la morte, nell'altro mondo. Ivi  è  luce  mentale  o
intellettuale, verità e scienza, filosofia. Ma non è filosofia incarnata,  mondo
vivente, dove l'idea di Dio o del vero  sia  perfettamente  realizzata;  è  pura
scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di  trattato  e
di esposizione. È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è
visione; è didattica,  non  è  commedia  o  rappresentazione.  Hai  «misteri»  e
visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme  e
ne' suoi aspetti, dove sia  realizzato  quel  concetto  teologico  e  filosofico
dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale.
        Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando  una  lingua  già  formata,
molta varietà di forme metriche, una poetica, una rettorica, una  filosofia,  ed
un concetto della vita ancora didattico e allegorico,  con  rozzi  tentativi  di
formazione e individuazione. Il suo  primo  individuo  poetico  è  Beatrice,  il
presentimento e l'accento lirico di un mondo ancora  involto  nel  grembo  della
scienza, ancora fuori della vita.

VI IL TRECENTO

Quello che il secolo precedente concepì  e  preparò,  fu  realizzato  in  questo
secolo detto aureo. I posteri compresero sotto  questo  nome  tutto  un  periodo
letterario, dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti. E in  verità
le notizie cronologiche sono sì scarse e incerte, che non è facile assegnare  di
ciascuno scrittore l'età, seguire strettamente l'ordine  del  tempo.  Al  nostro
scopo è più utile seguire  il  cammino  del  pensiero  e  della  forma  nel  suo
sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza  cercare  una
precisione  di  date,  che  ci  farebbe  sciupare  il  tempo  in  conietture   e
supposizioni di poco interesse.
        Questo  secolo  s'apre  con  un  grande  atto,  il  Giubileo,  pontefice
Bonifazio ottavo. Tutta la cristianità  concorse  a  Roma,  d'ogni  età,  d'ogni
sesso, di ogni ordine e condizione,  per  ottenere  il  perdono  de'  peccati  e
guadagnarsi la salute eterna. Tutti animava lo  stesso  concetto  espresso  così
variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della  carne,  la
vanità de' beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita. Il
nuovo secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne  il  pensiero  comune
nella varietà della cultura. I preti e  i  frati  soprastavano  nella  riverenza
pubblica, non solo pel carattere religioso, ma  per  la  dottrina,  tenuta  loro
privilegio, tanto che il Villani loda di  scienza  Dante,  aggiungendo:  «benchè
laico», e i dotti uomini, benchè laici, erano detti chierici. Tutta  la  società
italiana, raccolta colà dallo stesso fine, rendeva una  viva  immagine  di  quel
pensiero comune e di quella varia cultura. Vedevi i contemplanti,  i  remiti,  i
solitari del deserto e della cella col corpo macero da' digiuni, da'  cilizii  e
dalle vigilie, ritratti viventi de' misteri e delle leggende. C'erano gli  umili
di spirito, animati da schietto sentimento religioso e che tenevano  la  scienza
come cosa profana, e ci erano i dotti, i predicatori  e  i  confessori,  il  cui
testo era la Bibbia e i santi  Padri.  Vedevi  gli  scolastici  e  gli  eruditi,
teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i classici e  i  santi
Padri, disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede, parlanti
un latino d'uso e di scuola, vibrato, rapido, vivace, dove  sentivi  il  volgare
destinato a succedergli, amici della filosofia con quello stesso ardore di  fede
che gli altri si professavano  servi  del  Signore,  ma  di  una  filosofia  non
ripugnante  alla  fede,  anzi  sostegno,  illustrazione  e  ragione  di  quella,
confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni, dove trovi spesso  Tullio
accanto a san Paolo. Alteri della loro scienza e del  loro  latino,  spregiatori
del volgare, da costoro uscivano que' trattati, que'  comenti,  quelle  «somme»,
quelle storie, che empivano di maraviglia il mondo. Accanto  a  questi  veggenti
della fede e della filosofia, a questa vita dello spirito, trovi la vita  attiva
e temporale, affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali
e i priori e gli anziani delle  repubbliche,  il  cavaliere  de'  romanzi  e  il
mercatante delle cronache. Là, appiè del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni
Villani, pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era  non  meno  degna  di
avere una storia, e la scrisse. Fra tanto splendore e potenza del chiericato, lo
spregiato laico cominciava a levare la testa  e  pensava  all'antica  Roma  e  a
Firenze, figliuola di Roma. Là  molte  amicizie  si  strinsero,  molte  paci  si
fecero, come avviene in certi  grandi  momenti  della  storia  umana;  sparirono
guelfi e ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli,  stretti  tutti  ad
una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno imperatore. Là il papato ebbe l'ultimo
suo gran giorno, l'ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sempre  dallo
schiaffo di Anagni.
        Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea essere la letteratura
nel secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente  la  sua  materia,  i  suoi
istrumenti e il suo concetto, del  quale  il  giubileo  fu  una  così  splendida
manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua  astrazione  intellettuale  e
allegorica, con così scarsi  inizi  di  rappresentazione  ne'  misteri  e  nelle
visioni, ancora senza nome altro che di Beatrice, breve  apparizione,  svaporata
subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita, e venne a
perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel
secolo.
        L'uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea già  trentatrè  anni,
avea creato Beatrice e volgea nella mente non so che  più  ardito,  che  dovesse
abbracciare tutta l'umanità. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il  poeta:  ci
era il Convito e ci  era  la  Commedia.  Ma,  per  apprezzare  più
degnamente quella vasta sintesi che ne uscì, è bene preceda l'analisi, studiando
la fisonomia del secolo negl'ingegni più modesti che  non  conobbero,  di  tutto
quel mondo, se non questa o quella parte.
         E  c'incontriamo  dapprima  nella  letteratura  claustrale,   ascetica,
mistica, religiosa, continuazione in prosa di fra  Iacopone,  ma  in  una  prosa
piena di poesia. Domenico Cavalca, l'autore de' Fioretti, Guido da  Pisa,
Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle  Celle  non  sono
scrittori astratti e impersonali, come quelli  del  secolo  innanzi,  ma,  anche
volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che
scrivono, e vivono là dentro, e ci lasciano  l'impronta  del  loro  carattere  e
della loro fisonomia intellettuale  e  morale.  Usciamo  dalle  astrattezze  de'
trattati e delle raccolte sotto nome  di  «fiori»,  «giardini»  e  «tesori»,  ed
entriamo nella realtà della vita, nel vero  giardino  dell'arte.  Perchè  questi
uomini non ragionano, non disputano, e di rado citano: la loro dottrina va  poco
al di là della Bibbia e de'  santi  Padri:  ma  narrano  quel  medesimo  che  si
rappresentava ne' misteri, vite, leggende e visioni, e sono narrazioni più  vive
e schiette, che non i misteri del Quattrocento, raffazzonamenti  degli  antichi,
con più liscio, ma dove desideri la purità e semplicità delle prime ispirazioni.
        Gli scrittori  son  tutti  frati,  ed  hanno  le  qualità  degli  uomini
solitari, il candore, l'evidenza, e l'affetto. Hanno l'ingenuità di un fanciullo
che sta con gli occhi aperti a sentire,  e  più  i  fatti  sono  straordinari  e
maravigliosi, più tende l'orecchio e tutto si beve:  qualità  spiccatissima  ne'
Fioretti di san  Francesco,  il  più  amabile  e  caro  di  questi  libri
fanciulleschi. L'immaginazione concitata dalla solitudine presenta  gli  oggetti
così vivi e propri, che vengon fuori di un getto, non solo figurati, ma  animati
e coloriti caldi  ancora  dell'impressione  fatta  sullo  scrittore.  Nel  quale
l'affetto è tanto più vivace e impetuoso e lirico, quanto  la  sua  vita  è  più
astinente e compressa: quasi vendetta della natura, che grida più alto, dove  ha
più contrasto. Non ci è in queste  prose  alcuna  intenzione  artistica,  nessun
vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto
il nesso, la distribuzione, la gradazione. Ma si conseguono  tutti  gli  effetti
dell'arte che nascono da movimenti  sinceri  e  gagliardi  dell'immaginazione  e
dell'affetto, e n'escon pagine animate, e potenti assai più sul tuo spirito  che
non tanti romanzi moderni. Cito fra l'altro la  storia  di  Abraam  romito,  che
prende veste e costume di cavaliere mondano, e mangia pane e beve  vino  ed  usa
nelle taverne per convertire la sua nipote Maria.  Il  suo  incontro  con  Maria
nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua  sorpresa  e  vergogna
quando nel bel cavaliere scopre il suo zio, e i rimproveri affettuosi di  lui  e
le grida strazianti  e  disperate  della  bella  pentita  sono  una  vera  scena
drammatica, alla quale non trovi niente  comparabile  nel  teatro  italiano.  In
queste Vite del Cavalca, che sono traduzioni,  ma  per  la  freschezza  e
spontaneità del dettato e per la commossa partecipazione  del  frate  sono  cosa
originale, il  concetto  del  secolo,  uscito  dalle  astrattezze  teologiche  e
scolastiche, prende carne, acquista una esistenza morale e materiale. Il santo è
esso medesimo il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione  ti  offre
il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e  divenuto  storia,  la
storia del santo. Cardine  di  questo  mondo  morale  è  la  realtà  della  vita
nell'altro mondo e la guerra a tutti gl'istinti e affetti terreni, l'astinenza e
la pazienza, il «sustine et abstine»; e però le sue virtù  non  esprimono
altro che la  vittoria  dell'uomo  sopra  se  stesso,  sulla  sua  natura:  indi
l'umiltà, il perdono delle offese, la povertà, la castità, l'ubbidienza.  Se  la
vittoria fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime; ma  il  più
sovente il santo entra in iscena ch'è già santo e  nell'esercizio  quieto  delle
sue cristiane virtù, interrotto a volte dalle tentazioni  del  demonio  cacciato
via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco più che sublime. Il santo
è troppo santo perchè la sua vita  possa  offrirti  una  vera  contraddizione  e
battaglia tra il cielo e la natura, ciò che rende così  drammatica  la  vita  di
Agostino e di Paolo. Qui hai racconti uniformi, infinite ripetizioni,  rarissimi
contrasti, e spesso provi noia e stanchezza. La musa di queste  cristiane  virtù
non è la forza, e non è l'azione, ma è un certo languir d'amore,  una  effusione
di teneri e dolci sentimenti, liriche  aspirazioni  ed  estasi  e  orazioni,  un
impetuoso prorompere degli affetti naturali  tosto  sedato  e  riconciliato,  il
sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo  la
morte. Una delle vite più interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che
abbandona la nobile casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregrinando
e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria, serve non conosciuto in casa
del padre, e non si scopre alla madre e alla sposa,  e  i  servi  gli  danno  le
guanciate, e lui umile e paziente. Questa vittoria sulla natura non fa  effetto,
perchè in Alessio non ci è l'«homo sum», non ci è lotta, non la coscienza
del sacrifizio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che  a
noi uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile.  L'innaturale  è  in  lui
natura: perfezione ascetica, ma non artistica. L'interesse comincia,  quando  la
natura fa sentire il suo grido, e col suo contrasto sublima  il  santo;  quando,
saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine  traendo  a  venerare  il
servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: «Prestatemi la via,  datemi
loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello  che  ha  succiato  le  mammelle
mie». E ragionando col cuore di madre, la donna accusa il  figlio  e  lo  chiama
«senza cuore», e poi nel suo dolore lo glorifica  e  ricorda  che  i  servi  gli
davano le guanciate.  Scene  simili  non  sono  scarse  in  queste  Vite:
ricorderò la madre di  Eugenia  e  Maria  Maddalena,  eloquentissima  nelle  sue
lacrime.
         Una  vera  intenzione  artistica  si  scorge   nello   Specchio   di
penitenza di Iacopo Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di
trattati morali, accompagnati con leggende e visioni dell'altro mondo. Il  frate
mira a fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione
de' vizi e delle pene. La musa del Cavalca è l'amore, e  la  sua  materia  è  il
paradiso, che tu pregusti in quello spirito di carità  e  di  mansuetudine,  che
comunica alla prosa  tanta  soavità  e  morbidezza  di  colorito.  La  musa  del
Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio e l'inferno,  rappresentato
meno nel suo grottesco e nella sua mitologia, che nel suo carattere umano,  come
il rimorso è il grido della coscienza. Intralciato e monotono nel  discorso,  il
suo stile è rapido, liquido pittoresco nel racconto. Diresti che provi voluttà a
spaventare e  tormentare  l'anima:  cerca  immagini,  accessorii,  colori,  come
istrumenti della tortura, e ti lascia  sgomento  e  assediato  da  fantasmi.  Il
periodo spesso ben congegnato,  svelto  e  libero,  la  cura  de'  nessi  e  de'
passaggi, la distribuzione degli accessorii e de' colori,  l'intelligenza  delle
gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna  lo  spettacolo,  fanno
del Passavanti l'artista di questo mondo ascetico.
        Ma ecco fra tante vite di santi il santo in persona, scrittore e pittore
di sè medesimo, Caterina da Siena. Abbandonata la madre  e  i  fratelli,  resasi
monaca, macerato il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di  estasi  e  di
visioni, e  scrive  in  astrazione  anzi  dètta  con  una  lucidità  di  spirito
maravigliosa. Scrive a papi a principi, a re  e  regine,  come  alla  madre,  a'
fratelli, a frati e suore, dall'altezza della sua santità, con lo stesso tono di
amorevole superiorità. Nelle  più  intricate  faccende  prende  il  suo  partito
risolutamente, consigliando e quasi  comandando  quella  condotta  che  le  pare
conforme alla dottrina di Cristo. Ho detto «pare», e  dovrei  dire  «è»:  perchè
nessun dubbio o esitazione è nel suo  spirito,  e  le  dottrine  più  astruse  e
mentali le sono così chiare e sicure come le  cose  che  vede  e  tocca.  Ha  la
visione dell'astratto, e lo rende come corpo, anzi fa del corpo  la  luce  e  la
faccia di quello. Indi un linguaggio figurato e  metaforico,  spesso  sazievole,
talora continuato sino all'assurdo. È un po' il fare biblico; un po'  vezzo  de'
tempi; ma è pure forma naturale della sua mente. Vivendo in  ispirito,  le  cose
dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia,  e  così  come
vede Cristo e angioli, vede le idee e i  pensieri.  È  una  regione  spirituale,
divenutale per lungo uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo e  il  suo
corpo. Questa chiarezza d'intuizione, accompagnata con la squisita sensibilità e
la perfetta sincerità della fede le fanno trovare forme  delicate  e  peregrine,
degne  di  un  artista.  Ma  le  spesse  ripetizioni,  l'esposizione  didattica,
quell'incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti senza tregua o  riposo
rendono il libro sazievole e monotono.
        In queste lettere di Caterina quel  mondo  morale,  rappresentato  nelle
vite, nelle estasi, nelle visioni de' santi, è sviluppato come dottrina in tutta
la sua rigidità ascetica. È il codice d'amore della cristianità. La perfezione è
«morire a se stesso» secondo la sua frase energica, morire  alla  volontà,  alle
inclinazioni, agli affetti umani, sino all'amore de' figli, e tutto  riferire  a
Dio, di tutto fare olocausto a Dio. Il  suo  amore  verso  Cristo  ha  tutte  le
tenerezze di un amore di donna,  che  si  sfoga  a  quel  modo,  lei  inconscia.
L'ultima frase di ogni sua lettera  è:  «Annegatevi,  bagnatevi  nel  sangue  di
Cristo». Ardente è la sua carità pel  prossimo:  «Amatevi,  amatevi»,  grida  la
santa, e predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce inascoltata.  La  regina
Giovanna rispondea alla santa con riverenza, e continuava la  vita  immonda.  Lo
scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e puro era l'ideale  della
santa, meno era efficace sugli uomini. La sua vita si  può  compendiare  in  due
parole: amore e morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte,  da  lei
assistito negli ultimi momenti: «Teneva il capo suo sul  petto  mio.  Io  allora
sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era senza l'odore  del  mio,
il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù». Il sangue  di  Cristo
la esalta, la inebbria di voluttà. Ad una serva di Dio scrive: «Inebriatevi  del
sangue,  saziatevi  del  sangue,  vestitevi  del   sangue».   «Sudare   sangue»,
«trasformarsi nel sangue», «bere l'affetto e l'amore nel sangue», sono  immagini
di questo  lirismo.  Della  cella  «si  fa  un  cielo»,  e  vi  gusta  «il  bene
degl'immortali, obumbrandola Dio di un  gran  fuoco  d'amore».  Nella  estasi  o
visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare  come  se  l'anima  sia
partita dal corpo. Il corpo pareva quasi venuto meno. Le membra del corpo,  dice
Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco.  E  altrove:
«Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come se fosse stato un
altro». Questi ardori d'anima, queste illuminazioni  di  mente,  questi  martìri
d'amore sono espressi con una semplicità ed evidenza, che  testimoniano  la  sua
sincerità. L'anima «innamorata e  ansietata  d'amore,  affocata»  dal  desiderio
«crociato» o della croce, «annegata la propria volontà» nell'amore del «dolce  e
innamorato Verbo», vive nel corpo come fosse fuori di quello. Posto il suo amore
al di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di là  della  vita.
Ma questa morte spirituale non l'appaga: «muoio e non  posso  morire»,  dice  la
santa. Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo,
e a trentatrè anni finì la vita, consumata dal desiderio.
        La «Commedia dell'anima» è  ora  pienamente  realizzata  nel  suo
aspetto religioso, come espressione letteraria. Quell'anima ora ha  un  nome,  è
una persona, Alessio, Eugenia, Caterina. Il demonio e la  carne  sono  un  mondo
pieno di vita ne' racconti del Passavanti. Quelle virtù allegoriche  che  escono
in processione sulla scena sono le opere, le volontà, le passioni e  i  pensieri
de' santi. E la Divina Commedia, la trasfigurazione e  la  glorificazione
dell'anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra  i  canti  degli
angioli, qui sono estasi,  rapimenti  dell'anima,  colloquii  con  Dio,  mistica
unione con Cristo, e  dopo  la  morte  la  santificazione  e  la  contemplazione
nell'eterna luce. Quel  concetto  è  uscito  dall'astrattezza  della  scienza  e
dell'allegoria, dalla sua vuota generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo.
        La prosa italiana in questa  letteratura  acquista  evidenza,  colorito,
caldezza di affetto, in un andar semplice e naturale, specialmente quando vi  si
esprimono sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di  stile  cristiano,
guasto di poi. Alla sua perfezione manca un più sicuro  nesso  logico,  maggiore
sobrietà e scelta di accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica  più
corretta. Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di  più
perfetto è nella prosa moderna. L'Imitazione  di  Cristo  è  certo  prosa
superiore, scritta in tempo di maggior  coltura.  Ci  è  una  maggiore  virilità
intellettuale, una logica più stretta, e pura di  quella  pedanteria  scolastica
che inseguiva i frati fino nel convento. Ma non è  superiore,  quanto  a  quelle
qualità organiche, dove è il segreto della vita, la schiettezza dell'ispirazione
e il calore dell'affetto; e spesso in quella prosa, mirabile di precisione e  di
proprietà, desideri l'energia e l'intuizione di Caterina.
        Nè questa prosa era già fattura di un solo, o di pochi, perchè la  trovi
anche ne' minori che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera  di
un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:

        «Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima  mamma  se
ne andò in paradiso domenica, addì  29  di  aprile  (1380);  lodato  ne  sia  il
Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso benedetto. A me ne pare  essere  rimaso
orfano, però che di lei avevo ogni  consolazione,  e  non  mi  posso  tenere  di
piangere. E non piango lei, piango me, che ho perduto  tanto  bene.  Non  potevo
fare maggiore perdita, e tu 'l sai... .Della mamma si  vuol  fare  allegrezza  e
festa, quanto che è per lei; ma di quelli suoi e di quelle che  sono  rimasi  in
questa misera vita, ène da piangere e  da  avere  compassione  grandissima.  Con
veruna persona mi so dare dolore, quanto che con teco, che mi fusti  cagione  di
acquistare tanto bene. Prendo alcuno conforto, perchè nel mio cuore ène rimasa e
incarnata la mamma nostra assai più che non era in prima; e ora me la pare  bene
conoscere. Chè noi miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo  e  non
savamo degni della sua presenzia... . Carissimo fratello, io  sono  fatto  tanto
smemoriato del bene che ho perduto, ch'io ti scrivo anfanando. E però di ciò non
ti scrivo più.»

        Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati.
Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari  della
fine di Caterina:

        «Nella domenica di sessaggesima svenne, e perdè  il  vigore  di  sanità,
mantenutole dalla forza dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia.  Il
dì poi, un altro svenimento  la  lasciò  lungamente  come  morta:  se  non  che,
risentitasi, stette in piede come se nulla fosse. Cominciò  la  quaresima  colle
solite pratiche, esercizio a lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina,  dopo
la comunione le è forza rimettersi, sfinita, a letto. Di lì a due ore  usciva  a
San Pietro un buon miglio di strada, e lì stava orando  infino  a  vespro.  Così
fino alla terza domenica di quaresima, quando il male  la  spossò.  E  per  otto
settimane giacque senza potere alzare  il  capo,  tutta  dolori.  A  ogni  nuovo
spasimo alzando il capo, ne  ringraziava  Iddio  lieta.  Alla  domenica  innanzi
l'Ascensione, Il corpo non era omai più che uno  scheletro,  nel  mezzo  in  giù
senza moto, ma nel volto raggiante la vita. Debole; un alito di respiro;  pareva
in fine; e le fu data l'estrema unzione.»

        Questa eccellenza di dettato trovi pure ne' volgarizzamenti de' classici
o di romanzi e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e  di
Sallustio, i Fatti di  Enea,  gli  Ammaestramenti  degli  antichi,
voltati da Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed  una  vigoria  degna  del
traduttore di Sallustio. È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa,  spesso
colorita, con tutto l'andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.
        I romanzi operavano sul popolo non meno  vivamente  che  la  letteratura
spirituale. Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere  di  Cristo  e  il
cavaliere di Carlomagno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio  e  i
fatti di Enea, e gli  amori  di  Lancillotto  e  Ginevra.  Caterina  trae  dalla
cavalleria molte sue immagini. Chiama Cristo un  «dolce  cavaliere»,  «cavaliere
dolcemente armato»; chiama la Redenzione un «torneo della morte colla vita».  Ma
la letteratura cavalleresca rimase  stazionaria  e  non  produsse  alcun  lavoro
originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in  prosa  scarna  e
trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de' fatti. Agli stessi  traduttori
è materia frivola, buona per passare il tempo, e non vi partecipano, non sentono
colà dentro il loro mondo e la loro vita.
        Accanto a questo mondo dello spirito e dell'immaginazione c'era il mondo
reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si dicea,  che  si  potea
maledire, ma non uccidere. Era la cronaca, memoria  dì  per  dì  de'  fatti  che
succedevano, inanime come il dizionario, o come la lista delle spese. Quelli che
ne scrivevano con qualche intenzione artistica, la  dettavano  in  latino  e  la
chiamavano storia.  Latini  erano  anche  i  trattati  scientifici  e  i  lavori
propriamente  d'arte.  Quella  letteratura  spirituale  e  cavalleresca  rimanea
circoscritta  al  popolo  ed  era  tenuta  in  poco  conto  da'  dotti.  Costoro
spregiavano il volgare, come buono solo a dir d'amore e di cose  frivole,  e  le
gravi faccende della vita le  trattavano  in  latino.  Di  questi  illustre  per
ingegno, per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta  in
Padova, sua patria. Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora  inedite.  Scrisse
in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris,  e  anche  De
gestis italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici  libri,  de'  quali
alcuni sono in versi esametri. Fece epistole, egloghe, elegie  e  due  tragedie,
l'Achilleis e l'Eccerinis. Quest'ultima rappresenta  la  tirannide
di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del demonio, e  la  vittoria  de'
comuni collegati contro di lui. È narrazione più che azione, come  ne'  misteri,
un narrare serrato e  nervoso,  le  cui  impressioni  patetiche  e  morali  sono
espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e  asciutto  palpita  l'anima  del
medio evo. Senti una società ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette,
senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di  proporzioni  epiche  anche  in
forma drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo  che  n'esca
fuori un personaggio drammatico. Egli rimane ravvolto nel suo manto epico,  come
Farinata. È figlio de demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera  come  genio  del
male, con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali. Invoca il padre
e dice:

     Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;       annue, Satan,  et
filium talem proba.

E quest'uomo rimane così intero e tutto di un pezzo: manca l'analisi,  senza  di
cui non è dramma.  Il  concetto  della  tragedia  è  più  morale  che  politico,
quantunque il fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i comuni
liberi e i tirannetti feudali. Certo, in  Mussato  c'è  il  guelfo  e  ci  è  il
padovano, che l'ispira e l'appassiona. Ma il motivo tragico  è  affatto  morale.
Ezzelino  è  punito  non  perchè   offende   la   libertà,   ma   perchè   opera
scelleratamente, e «qui gladio ferit, gladio perit»: ciò che è  in  bocca
al coro la conclusione del fatto:

     Consors operum       meritum sequitur quisque suorum. 

È il concetto ascetico dell'inferno applicato anche alla vita terrestre.  Questa
nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale, non
è sviluppata nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni e  nelle  sue
idee politiche: di che solo può nascere il dramma. Il senso del reale era ancora
troppo scarso, perchè  il  dramma  fosse  possibile.  Non  ci  è  il  sentimento
collettivo non il partito e non la società: ci è l'individuo appena  analizzato,
rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le  opere,  forma  elementare
della vita reale. Il feroce e il grottesco delle pene  infernali  hanno  qui  un
riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.
        Questo concetto morale, ancorchè non ancora penetrato  e  sviluppato  in
tutti gli aspetti della vita,  pure  non  è  più  un  motto,  un  proverbio,  un
ammaestramento, un «fabula docet», una esposizione didattica in  prosa  o
in verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con tutt'i caratteri della
personalità, così nella vita contemplativa come  nella  vita  attiva,  così  nel
carbonaio del Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.
        Onori straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a' classici,
quando i classici erano ancora  così  poco  noti.  Anche  Venezia  ebbe  i  suoi
latinisti, che  scrissero  la  sua  storia,  Andrea  Dandolo  e  Martin  Sanuto.
Nell'Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il volgare  vi  si  era
poco sviluppato. E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era
insegnata e trattata in  latino.  Scrissero  le  loro  opere  in  questa  lingua
Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.
        Ma in Toscana il Malespini  avea  già  dato  l'esempio  di  scrivere  la
cronaca in volgare. E Dino Compagni seguì  l'esempio,  scrivendo  in  volgare  i
fatti di Firenze dal  1270  al  1312.  Attore  e  spettatore,  prende  una  viva
partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti.
Non è questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto  è
rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a
tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto,  esprime  altamente  le  sue
impressioni e i suoi giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna  una  storia
indimenticabile. Questa storia è una immane catastrofe. Da lui preveduta  e  non
potuta impedire. E non si accorge che di quella catastrofe cagione non ultima fu
lui. O piuttosto ne ha un'oscura coscienza, quando con quel tale «senno di  poi»
dice: - Oh se avessi saputo!  Ma  chi  poteva  pensare?  -  Ma  Dino  peccò  per
soverchia bontà d'animo; gli altri peccarono per malizia, e Dino li  flagella  a
sangue. Era Bianco; ma più che Bianco, era onesto uomo e  patriota.  Gli  pareva
che que' Neri e que' Bianchi, quei Donati e quei Cerchi, non fossero  divisi  da
altro che da gara d'uffici, e gli parea che,  partendo  ugualmente  gli  uffici,
quelle discordie avessero a cessare. Gli parea pure che tutti amassero la città,
come facea lui, e fossero pronti per la sua libertà e il suo decoro  a  fare  il
sacrificio de' loro odii e delle loro cupidigie. E gli parea che uomo di  sangue
regio non potesse mentire nè spergiurare, e che  nessuno  potesse  mancare  alle
promesse, quando fossero messe in carta. E anche questo gli parea, che gli amici
stessero saldi intorno a lui e che  ad  un  suo  cenno  tutti  gli  avessero  ad
ubbidire. Che cosa non parea al buon Dino? E con  queste  opinioni  si  mise  al
governo della repubblica. È la prima volta che si trova in  presenza  la  morale
com'era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina, la morale de' libri e la
morale del mondo. E la contraddizione balza fuori con  tutta  l'energia  di  una
prima impressione. Il brav'uomo al contatto del mondo reale cade  di  disinganno
in disinganno, e ciascuna volta rivela  la  sua  ingenuità  con  un  accento  di
maraviglia e d'indignazione. Immaginatevelo alle  prese  con  Bonifazio  ottavo,
Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che di più astuto  e  violento  era  a  quel
tempo. L'energia del sentimento morale offeso è il secreto della sua  eloquenza.
Qui non ci è  nessuna  intenzione  letteraria:  la  narrazione  procede  rapida,
naturale, sino alla rozzezza. Vi è un materiale crudo e accumulato e  mescolato,
senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l'arte  del  subordinare  e  del
graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato;  spesso
il colorito è un po' risentito e teso difetti di  composizione  gravi.  Pure  le
qualità essenziali  che  rendono  un  libro  immortale  stanno  qui  dentro,  la
sincerità dell'ispirazione, l'energia e la  purità  del  sentimento  morale,  la
compiuta personalità dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l'indignazione,
il dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita. In  tempi
meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino  al
1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. Mira  a  dar  memoria
de' fatti, pigliandoli dove  li  trova,  e  spesso  copiando  o  compendiando  i
cronisti che lo precessero. Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa  diligenza,
anche i più minuti e familiari,  della  vita  fiorentina,  come  le  derrate,  i
drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la storia. Ma questa cruda
realtà, scompagnata dalla vita interiore che la produce, è priva di  colorito  e
di fisonomia e riesce monotona e sazievole.
         La  Cronaca  di  Dino  e  le  tre  Cronache  de'  Villani
comprendono il secolo. La prima narra la caduta de' Bianchi, le altre raccontano
il regno de' Neri. Tra, vinti  erano  Dino  e  Dante.  Tra,  vincitori  erano  i
Villani.  Questi  raccontano  con  quieta  indifferenza,   come   facessero   un
inventario.  Quelli  scrivono  la  storia  col  pugnale.  Chi  si  appaga  della
superficie, legga i Villani. Ma chi vuol conoscere le  passioni,  i  costumi,  i
caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
        Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della  storia,
perchè gli scrittori, o ascetici o  cavallereschi  o  didattici,  scrivono  come
segregati dal mondo. Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i  fatti  che  racconta
sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è  lo  specchio
del tempo, non nelle regioni astratte  della  scienza  o  nel  fantastico  della
cavalleria e dell'ascetica, ma nella realtà della vita pubblica.
        I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da Pistoia erano detti
i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati  da'  Donati  e  gli  altri  da'  Cerchi,
famiglie  potentissime  di  ricchezza  e  di  aderenze.  Dante  sperò  di  poter
pacificare la città, mandando in esilio i due  più  potenti  e  irrequieti  capi
delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato, il Cavalcanti
fu richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore,  massime  che
Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.
        I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui  popolani  e  sul  papa,
vicino, influente, e centro di  tutti  gl'intrighi  e  le  cospirazioni  guelfe.
Bonifazio ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea  chiamato  a
sè con molte promesse Carlo di Valois, detto  per  dispregio  «senza  terra»,  e
mandatolo a Firenze sotto colore di pacificare la città,  ma  col  proposito  di
ristorarvi la parte nera. Qui comincia il dramma, esposto con sì vivi colori dal
nostro Dino nel libro secondo.
        Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma. Si dice abbia detto:
- Se io vado, chi resta? - Restò il povero Dino. Certo, l'opera di Dante sarebbe
stata più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari. A Roma fu
tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla.
        Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra un  profeta  o  un
predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:

        «Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e
il fuoco con le vostre mani e distendete le  vostre  malizie.  Non  penate  più:
andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue de'
vostri fratelli, spogliatevi della fede e  dell'amore;  nieghi  l'uno  all'altro
aiuto e servigio. Credete voi che la giustizia  di  Dio  sia  venuta  meno?  Pur
quella del mondo rende una per una... Non v'indugiate,  o  miseri:  chè  più  si
consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola  è
quella favilla che a distruzione mena un gran regno.»

        Qui non ci è l'uomo politico.  Ci  è  la  realtà  vista  da  un  aspetto
puramente morale e religioso, come gli ascetici; il concetto  è  lo  stesso;  la
materia è diversa. Considerata così, la realtà riesce al buon Dino altra che non
pensava, e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la  realtà  e
la maledice. I suoi errori nascono dal concetto falso che avea  degli  uomini  e
delle cose, sì che divenne il trastullo degli uni e  degli  altri,  perdette  lo
stato e fu calunniato, come avviene a' vinti.  Allora  prende  la  penna,  e  li
maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuità che se le
male passioni degli altri son manifeste, non  è  men  chiara  la  sua  soverchia
bontà.
        Mentre gli ambasciatori armeggiano  con  Bonifazio,  largo  promettitore
purchè «sia ubbidita la sua volontà», furono in Firenze eletti i nuovi  signori,
e Dino fu di quelli. Piacque la scelta, perchè «uomini non sospetti e  buoni,  e
senza baldanza, e avevano volontà d'accomunare gli uffici, dicendo: -  Questo  è
l'ultimo rimedio». Questo è il  giudizio  che  porta  Dino  di  sè  e  de'  suoi
colleghi. Ma i loro avversari «n'ebbono speranza», perchè li conosceano  «uomini
deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli
ingannare». Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
        I Neri «a quattro e a sei insieme, preso accordo fra loro», li  andavano
a visitare e diceano: «Voi siete buoni uomini e di tali avea bisogno  la  nostra
città. Voi  vedete  la  discordia  de'  cittadini  vostri:  a  voi  la  conviene
pacificare, o la città perirà. Voi siete quelli che avete la balìa, e noi a  ciò
fare vi profferiamo l'avere e le persone di buono e leale animo». E  benchè  «di
così false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia coprissero
con falso parlare», pure Dino per commessione de' suoi compagni rispose: «Cari e
fedeli cittadini, le vostre profferte  noi  riceviamo  volentieri,  e  cominciar
vogliamo a usarle: e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pogniate l'animo  a
guisa che la nostra città debba posare». Che scellerati! E che buoni uomini! Non
si può meglio rappresentare la malizia degli  uni  e  l'innocenza  degli  altri.
Scrivendo dopo  i  fatti,  Dino  si  picchia  il  petto  e  dice  il  mea
culpa: «E così perdemmo il primo tempo, perchè non ardimmo a chiudere  le
porte, nè a cessare l'udienza ai cittadini. Demmo loro intendimento  di  trattar
pace, quando si convenia arrotare i ferri».
        Poichè si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle  offese  e  i  Neri
presero baldanza. E Dino confessa questo primo  effetto  della  sua  bontà:  «La
gente, che tenea co' Cerchi, ne prese viltà, dicendo: - Non è da  darsi  fatica,
chè pace sarà. - E i loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie».
        La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a' Cerchi e che
Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri,  che  a
costoro pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino  era  ispirato
da sincero amore di concordia. E quelle  pratiche  di  pace  spacciavano  covare
sotto un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la  forza
morale passava agli avversari, più audaci, e confidenti in vicina vittoria.  Già
ci era un'altra aria in città. Non pur gl'indifferenti, ma  anche  noti  seguaci
de' Cerchi mutavano lingua. Sicchè l'oratore di Carlo riferì che «la  parte  de'
Donati era assai innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata»,  veggendo
come dopo le sue parole «molti dicitori si levarono in piè affocati per  dire  e
magnificare messer Carlo».
        Dino, volendo negare l'ingresso a Carlo e non osando prendere su  di  sè
la  cosa,  «essendo  la  novità  grande»,  si  rimise  al  suffragio  de'   suoi
concittadini. Fu un plebiscito fatto dal debole  e  che  riuscì  in  favore  de'
forti: solito costume de' popoli, e il buon Dino nol sapea.  I  soli  fornai  si
mostrarono uomini, dicendo che «nè ricevuto, nè onorato fusse, perchè venìa  per
distruggere la città».
        Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a  Carlo  «lettere  bollate,
che non acquisterebbe ... niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore  della
città nè per titolo d'imperio, nè per altra cagione, nè  le  leggi  della  città
muterebbe, nè l'uso». Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e  provvide
che il passo gli fosse negato e «vietata la vivanda». Ma la lettera venne, e «io
la vidi e fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di  sua  volontà
era scritta. Rispose: - Sì, certamente -». Ora che Dino ha la lettera in  tasca,
può viver sicuro.
        E gli viene «un santo e onesto  pensiero,  immaginando:  Questo  signore
verrà, e tutt'i cittadini troverà divisi, di che grande  scandalo  ne  seguirà».
Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni,  e  loro  fa  un  fervorino,  perchè
«sopra quel sacrato fonte onde  trassero  il  santo  battesimo»,  giurino
buona e perfetta pace. Le parole di Dino sono di  quella  eloquenza  semplice  e
commovente che viene dal cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento
della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e onesti,  da  Albertano  a
Caterina. E non so che in Caterina si trovino parole nella loro semplicità  così
affettuose come queste di Dino: «Signori, perchè volete voi confondere e disfare
una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro  a'  vostri  fratelli?
Che vittoria avrete? Non altro che pianto». Tutti giurarono; e Dino aggiunge con
amarezza: «I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lacrime, e baciavano
il libro, ... furono i principali alla distruzione della città». Povero Dino!  E
si affligge il brav'uomo e si pente, e «di quel sacramento molte lacrime sparsi,
pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia».
        Carlo quintoenne, e diètrogli, dicendo che venìano a onorare il signore,
lucchesi, perugini, e Cante d'Agobbio e molti altri, a sei e  dieci  per  volta,
tutti avversari de' Cerchi: e «ciascuno si mostrava amico». Dino fece  il  ponte
d'oro al nemico che  entra,  contro  il  proverbio.  E  Carlo  ebbe  in  Firenze
milledugento cavalli.
        Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini  di  amendue  le  parti,  perchè
provveggano alla salvezza della terra. Ciò che ci era negli animi è qui scolpito
in pochi tratti: «Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano; gli  altri
aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri, uom vile, dicea: - Signori, io sto
bene, perchè io non dormia sicuro». Lapo Saltarelli,  per  riamicarsi  il  papa,
ingiuria la Signoria, e tiene in  casa  nascosto  un  confinato.  Albertano  del
Giudice monta in ringhiera, e biasima i signori.  Pare  coraggio  civile,  ed  è
viltà e diserzione. I nemici tacciono. Gli amici ingiuriano, per  farsi  grazia.
Cominciano i tradimenti. «I priori scrissero  al  papa  segretamente;  ma  tutto
seppe la parte nera, perocchè quelli che giurarono credenza non la tennono».
        Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando  «umilmente  e
con gran tenerezza» dello scampo della città. Ma era troppo tardi.  I  Neri  non
volevano parte, ma tutto.

        «E Noffo Guidi parlò e disse: - Io dirò cosa che tu  mi  terrai  crudele
cittadino. - E io li dissi che tacesse: e pur parlò, e fu  di  tanta  arroganza,
che mi domandò che mi piacesse far la  loro  parte  nell'ufficio,  maggiore  che
l'altra; che tanto fu a dire, quanto: - Disfa' l'altra parte - e  me  porre  nel
luogo di Giuda. E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i
miei figliuoli a mangiare a' cani.»

        Carlo quintoolea in mano  i  Signori,  e  li  facea  spesso  invitare  a
mangiare. E quelli si ricusavano, adducendo che la legge li costringea che  fare
non lo potevano; ma era «perchè  stimavano  che  contro  a  loro  volontà
li avrebbe ritenuti». Un giorno disse che in Santa  Maria  Novella  fuori
della terra volea parlamentare, e che piacesse alla Signoria  esservi.  Dino  vi
mandò tre soli de' compagni: «a' quali niente disse, come colui  che  non  volea
parole, ma sì uccidere».
«Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata, parendo loro che andassono
al martirio. E quando furono tornati,  lodavano  Dio,  che  da  morte  gli  avea
scampati.»

        Volevano, se la Signoria vi fosse  ita  tutta,  «ucciderli  fuori  della
porta e correre la terra per loro». E Dino che facea?
        C'è un brano stupendo, che è una  pittura.  Vedi  come  Dino  passava  i
giorni; la sua incapacità e i suoi affanni:

         «I  Signori  erano  stimolati  da  ogni  parte.  I  buoni  diceano  che
guardassero ben loro, e la loro città. I rei li contendeano con quistioni. E tra
le domande e le risposte il dì se ne  andava.  I  baroni  di  messer  Carlo  gli
occupavano con lunghe parole. E così viveano con affanno.»

        Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: - Fate fare  processione,
e del pericolo cesserà gran parte  -.  E  Dino  fece  la  processione,  e  molti
lo schernirono, dicendo  che  «meglio  era  arrotare  i  ferri».  E  Dino
conchiude, parlando di sè e de' colleghi: «Niente  giovò,  perchè  usarono  modi
pacifici, e voleano essere repenti e forti. Niente  vale  l'umiltà  contro  alla
grande malizia».
        Tutto ti è messo sott'occhio, come in una  rappresentazione  drammatica.
Vedi i Neri in  istrada,  corrompere,  far  gente,  mostrare  la  loro  potenza.
Diceano:

        «- Noi abbiamo un signore in casa; il  papa  è  nostro  protettore;  gli
avversari nostri non sono guerniti nè da guerra, nè da pace; danari non hanno; i
soldati non sono pagati. -»

        E misero in ordine «tutto ciò che a guerra bisognava, ... invitati molti
villani d'attorno e tutti gli sbanditi». I  Neri  si  armavano;  i  Bianchi  no,
perchè era contro la legge, e Dino minacciava di punirli. E ora  che  scrive,  a
scolparsi nota che fu per avarizia, perchè fece dire a' Cerchi: «- Fornitevi,  e
ditelo agli amici vostri -».
        I Neri, «conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il  vigore»,
vengono a' ferri. I Medici lasciano per morto Orlandi, un valoroso popolano.  Si
grida a' priori: - Voi siete traditi, armatevi -.
        Ecco finalmente sventolare sulle finestre  il  gonfalone  di  giustizia.
Molti vanno nascosamente ... dal lato di parte nera. Ma traggono alla Signoria i
soldati che non erano corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo. Era il
momento di operare con vigore. Ma «i Signori non usi a guerra erano occupati  da
molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe' notte». Il  podestà  non
si fe' vivo. Il capitano non si mosse, come «uomo più atto a riposo e a pace che
a guerra.» «La raunata gente non consigliò». Il giorno finì: e non  si  concluse
nulla, e la gente stanca se ne andò, e ciascuno pensò a se stesso. E  Dino  cosa
facea? Dava udienza.
I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole.  Li  Spini  diceano
alli Scali:

        «- Deh! Perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti e tutti
guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo,  che
tiene il popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non  siamo.  Mercè  per
Dio, siamo una cosa, come noi dovemo essere. - ...  Quelli  che  riceveano  tali
parole, s'ammollavano nel cuore, e i loro seguaci invilirono».

I  ghibellini,  credendosi  abbandonati,  si  smarrirono,  e  gli  sbanditi   si
avvicinavano alla  città.  Come  farli  entrare?  Carlo  primonstava  presso  la
Signoria, perchè si desse a lui la  guardia  della  città  e  delle  porte:  che
farebbe de' malfattori aspra giustizia. E sotto questo nascondea la sua malizia,
nota l'arguto Dino. Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle  porte  d'Oltrarno!
Bisogna proprio sentir lui:

«Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate,  e
levati ne furono i fiorentini, e furonvi messi i franciosi. E il  cancelliere  e
il manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino  ricevente  per  lo
comune.... E mai credetti che un tanto signore e della  casa  reale  di  Francia
rompesse la sua fede: perchè passò piccola parte della seguente notte che per la
porta che noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ... molti ... sbanditi.»

        Fatta la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta meno  tutta  la
loro speranza, «deliberarono, quando i villani fossero venuti in loro  soccorso,
prendere la difesa.» Che erà quel prender tempo e  non  risolversi  degli  animi
deboli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono là dov'era la forza:

        «I malvagi villani gli abbandonarono... e i ... famigli li tradirono....
Molti soldati si volsono a servire i  loro  avversari.  Il  podestà  ...  andava
procurando in aiuto di messer Carlo.»

        Carlo manda i suoi  a'  priori,  «per  occupare  il  giorno  e  il  loro
proponimento con  lunghe  parole».  Giuravano  che  il  loro  signore  si  tenea
tradito», e che farebbe la vendetta grande. - Tenete per fermo che se il  nostro
signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo,  fateci  levare  la
testa. - E ora che scrive, Dino aggiunge: «E non giurò messer Carlo primol vero,
perchè [Corso Donati] di sua saputa venne».
        Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune,  ma  ad
un patto, che si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle due parti. E
Dino consente.

        «I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza. Messer Carlo  li
fece guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne  presi  quella  notte
senza paglia e senza materasse, come uomini micidiali.»

Qui Dino non ne può più e prorompe:

        «O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov'è la fede della real casa
di  Francia,  caduta  per  mal  consiglio,  non  temendo  vergogna?  O   malvagi
consiglieri, che avete il sangue di così  alta  corona  fatto  non  soldato,  ma
assassino, imprigionando i cittadini a torto,  e  mancando  della  sua  fede,  e
falsando il nome della real casa di Francia!»

        L'indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo. Come pensare  che
il sangue di san Luigi, un Reale di Francia, fosse spergiuro e assassino?
        Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio. Dino fa sonare la
campana grossa, che era un chiamare  alle  armi.  Ma  nessuno  uscì:  «La  gente
sbigottita non trasse di casa i Cerchi. Non  uscì  uomo  a  cavallo,  nè  a  pie
armato».
        Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una  croce  vermiglia  sopra  il
palagio de' priori:

        «Onde la gente che la vide,  e  io  che  chiaramente  la  vidi,  potemmo
comprendere che Dio era fortemente contro alla nostra città crucciato.»
        La città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi ti sta  innanzi
il quadro:

        «Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case  de'
loro amici. L'uno nimico offendea l'altro; le case si cominciavano ad ardere; le
ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle  case  degl'impotenti.  I  Neri
potenti domandavano  danaro  a'  Bianchi;  maritavansi  le  fanciulle  a  forza;
uccideansi uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: -  Che
fuoco è quello? - Eragli risposto che era  una  capanna,  quando  era  un  ricco
palazzo.»

        I priori, multiplicando il mal fare, e non avendo rimedio, lasciarono il
priorato. E venne al governo la parte nera.
        Dino fu il Pier Soderini di  quel  tempo,  e  fu  a  se  stesso  il  suo
Machiavelli. Nessuno può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.
        In questa maravigliosa cronaca non ci è  una  parola  di  più.  Tutto  è
azione, che corre senza posa sino allo scioglimento. Ma  è  azione,  dove  paion
fuori caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo,  dopo  di
aver tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma e chiede danari a  Bonifazio.
- Ma io ti ho mandato alla fonte dell'oro, - risponde il papa. È  una  risposta,
che è un ritratto dell'uno e dell'altro. I discorsi sono sostanziosi,  incisivi,
non meno pittoreschi: vedi  personaggi  vivi,  con  la  loro  natura  e  i  loro
intendimenti, e fanno più effetto che  non  le  studiate  e  classiche  orazioni
venute poi. Uomo d'impressione più che di pensiero, Dino intuisce uomini e  cose
a prima vista, e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di Bonifazio
ottavo dice:

        «Fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo  modo,  e
abbassava chi non li consentia.»

Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:

        «Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma  più  crudele  di
lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore;  adorno  di  belli
costumi, sottile d'ingegno, coll'animo sempre intento  a  mal  fare  (col  quale
molti masnadieri si raunavano, e  gran  sèguito  avea)  molte  arsioni  e  molte
ruberie fece fare;... molto avere guadagnò e in grande altezza salì.  Costui  fu
messer Corso Donati che per sua superbia fu  chiamato  il  barone,  che,  quando
passava per la terra, molti gridavano: - Viva il barone. - E parea la terra sua.
La vanagloria il guidava e molti servigi facea.»

        La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose. Rapido,  arido,
tutto fatti, che balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni,  dalla  sua
maraviglia, dalla sua indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce, che «molte
lingue si cambiarono in pochi giorni». Non vi si sa rassegnare, e li  chiama  ad
uno ad uno, e ricorda loro quello che diceano e quello  che  erano.  Il  mutarsi
dell'animo secondo gli eventi non gli potea entrare:

        «Donato Alberti, ... dove sono le tue arroganze, che ti  nascondesti  in
una vile cucina? O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de'  rettori
che non ti serviano nelle tue quistioni, ove t'armasti? In casa i Pulci,  stando
nascoso, ... O messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto sì grande e temuto,
ove prendesti le armi?  ...  O  voi  popolani,  che  desideravate  gli  ufici  e
succiavate gli onori, e occupavate i  palagi  de'  rettori,  ove  fu  la  vostra
difesa? Nelle menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando
i nemici, solamente per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città.»

        I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e  ingenerose  sono  da  lui
rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come di cose non viste mai, e
svegliano nel suo  animo  onesto  una  indignazione  eloquente.  Ed  è  da  quei
sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:

        «Molti nelle pie opere divennero grandi, i  quali  avanti  nominati  non
erano, e nelle crudeli opere regnando, cacciarono molti  cittadini  e  feciongli
rubelli, e sbandeggiarono nell'avere e nella persona. Molte magioni  guastarono,
e molti ne puniano, secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne  campò
che non fosse punito. Non valse parentado nè amistà; nè pena si  potea  minuire,
nè cambiare a coloro a cui determinate erano. Nuovi  matrimoni  niente  valsero,
ciascuno amico  divenne  nimico;  i  fratelli  abbandonavano  l'un  l'altro,  il
figliuolo il padre, ogni amore, ogni umanità si  spense.  ...  Patto,  pietà  nè
mercè in niuno mai si trovò. Chi più dicea: - Muoiano, muoiano  i  traditori  -,
colui era il maggiore.»
        Tra' proscritti fu Dante. Condannato in contumacia, non  rivide  più  la
sua patria. Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private,  tutte
le passioni  che  possono  covare  nel  petto  di  un  uomo,  lo  accompagnarono
nell'esilio. Chi ha visto l'indignazione di Dino, può misurare quella di  Dante.
Il priorato fu il principio della sua rovina, com'egli  dice,  ma  fu  anche  il
principio della sua gloria. Non era uomo  politico;  mancavagli  flessibilità  e
arte di vita; era tutto  un  pezzo,  come  Dino.  Priore,  volle  procurare  una
concordia impossibile, e non riuscì che a farsi ingannare da' Neri in Firenze  e
da Bonifazio in Roma. Esule, non valse a mantenere  quella  preminenza  che  era
debita al suo ingegno e alla sua virtù, si lasciò soverchiare da' più  audaci  e
arrischiati, e non potendo impedire e non volendo accettare  molti  disegni,  si
segregò e si  fece  parte  per  se  stesso.  Toltosi  alle  faccende  pubbliche,
ripiegatosi in sè, sviluppò tutte le sue forze intellettive e poetiche.
        Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio che  la
vista ne fu debilitata. Finisce la Vita Nuova con la speranza «di dire di
lei quello che non fu mai detto di alcuna». E fece di questo suo  primo  e  solo
amore «la bellissima e onestissima figlia  dell'Imperatore  dell'universo,  alla
quale Pitagora pose nome Filosofia». Frutto di questi nuovi studi furono le  sue
canzoni allegoriche e scientifiche.
        Tra questi studi nacque la  seconda  Beatrice,  luce  spirituale,  unità
ideale, l'amore che  congiunge  insieme  intelletto  e  atto,  scienza  e  vita.
Intelletto, amore, atto, era questa la trinità, che fu il suo secondo amore,  la
sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì nella scienza.
        Quel mondo lirico, che a noi pare troppo astratto, parve poco spirituale
ai contemporanei, che chiamavano «sensuale» quel primo amore di  Dante,  e  poco
intendevano questo suo secondo amore. E Dante, per cessare da sè l'infamia e per
mostrare la dottrina «nascosa sotto figura di  allegoria»,  volle  illustrare  e
comentare le sue canzoni egli medesimo.
        Era dottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia,  giurisprudenza,
astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, di  tutto  lo  scibile  avea
notizia e non superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza e con padronanza
della materia. Il disegno gli si allargò: al poeta tenne dietro lo scienziato; e
pensò di chiudere in quattordici trattati, quante erano  le  canzoni,  tutta  la
scienza nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile, che  Brunetto
chiamò Tesoro, e altri chiamavano Fiore  o  Giardino,  egli
chiamò Convito, quasi mensa dov'è imbandito «il pane  degli  angeli»,  il
cibo della sapienza. Brunetto avea scritto il  Tesoro  in  francese,  gli
altri trattavano la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia
a  questa  materia,  massime  dopo  l'infelice  versione  dell'Etica   di
Aristotile, fatta da un tal Taddeo, celebre medico,  nominato  «l'ippocratista».
Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di  scrivere  in
volgare. Celebra il latino come «perpetuo e non corruttibile», e  perchè  «molte
cose manifesta concepute nella mente, che il volgare non può», e perchè «il  ...
volgare seguita uso e il latino arte»; onde il latino è «più bello, più virtuoso
e più nobile». Ma appunto  per  questo  il  comento  latino  non  sarebbe  stato
«suggetto alle canzoni» scritte in volgare, ma «sovrano», e il comento  per  sua
natura è servo e non signore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino  non
può ubbidire, perchè «comandatore» e sovrano del volgare. Oltrechè, come può  il
latino comentare il volgare, non conoscendo il volgare? E che il  latino  non  è
conoscente del volgare, si vede: «chè uno  abituato  di  latino  non  distingue,
s'egli è d'Italia, lo volgare provenzale dal tedesco nè il  tedesco  lo  volgare
italico o provenzale ». Ecco le opinioni,  le  forme  e  le  sottigliezze  della
scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare,  che  è  come  dare  a'
convitati «pane di biado e  non  di  formento»,  gli  pare  così  grande  che  a
difendersene spende otto capitoli, modello  di  barbarie  scolastica.  Lasciando
stare le sottigliezze, la sostanza è questa, ch'egli usa  «il  volgare  di  sì»,
perchè loquela propria e «delli suoi generanti»,  e  suo  «introducitore»
nello  studio  del  latino,  e  perciò  «nella  via  di  scienza,  ch'è   ultima
perfezione».  Scrisse  in  volgare  le  rime,  il  volgare   usò   «deliberando,
interpretando  e  quistionando»;  dal  principio  della  vita  ebbe   con   esso
«benivolenza e conversazione»; il volgare è l'amico suo, dal  quale  non  si  sa
dividere. Coloro «fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di  Provenza»,
che per «iscusarsi del non dire o dire male accusano  e  incolpano  la  materia,
cioè lo volgare proprio». La plebe, o come  dice  egli,  le  «popolari  persone»
cadono «nella fossa» di questa falsa opinione per  poca  discrezione:  «per  che
incontra che molte volte gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro vita
-, purchè alcuno cominci», e sono da chiamare «pecore, e non uomini». Gli  altri
vi caggiono per vanità o per vanagloria, o  per  invidia  o  per  pusillanimità.
Questo disamare lo volgare proprio e pregiare l'altrui, gli pare  un  adulterio,
conchiudendo con queste  sdegnose  parole:  «E  tutti  questi  cotali  sono  gli
abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a  vile  questo  prezioso  volgare,  lo
quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona  nella  bocca
meretrice di questi adulteri». E però egli scrive questo comento in volgare, per
fargli avere «in atto e palese quella bontade  che  ha  in  potere  e  occulto»,
mostrando che la sua virtù si manifesta anche in  prosa,  senza  le  accidentali
adornezze della rima e del ritmo, come donna «bella per natural bellezza  e  non
per gli adornamenti  dell'azzimare  e  delle  vestimenta»,  e  che  altissimi  e
novissimi concetti convenientemente, sufficientemente  e  acconciamente,  «quasi
come per esso latino», vi si esprimono. E finisce con queste profetiche  parole:
«Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l'usato tramonterà».
        Tanta veemenza nell'accusare, tanto  ardore  nel  magnificare  può  fare
intendere quanto  radicata  e  sparsa  era  l'opinione  degl'infiniti  «ciechi»,
com'egli li chiama, che tenevano il volgare inetto alla  prosa.  E  non  ottenne
l'intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a  mezza  via
il Convito, trattò in latino la rettorica e la politica, che insieme  con
l'etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.
        Il libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica, quale  si
costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi, ma  è
vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati.  La  base  di
tutto l'edifizio è  la  lingua  nobile,  aulica,  cortigiana,  illustre,  che  è
dappertutto e non è  in  alcuna  parte,  di  cui  ha  voluto  dare  esempio  nel
Convito. Questo ideale parlare italico è illustre, in  quanto  si  scosta
dagli elementi locali, ove prendono forma i dialetti e si accosta alla maestà  e
gravità del latino, la lingua modello. Voleva egli far del  volgare  quello  che
era il latino, non la lingua delle persone popolari, ma  la  lingua  perpetua  e
incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a  quello  di  una  lingua
universale, fondata con procedimenti artificiali  della  scienza.  Scegliere  il
meglio di qua e di là e far cosa una e perfetta,  sembra  cosa  facile  e  assai
conforme alla logica, ma è contro natura. Le  lingue,  come  le  nazioni,  vanno
all'unità per processi lenti e storici; e non per fusioni  preconcette,  ma  per
graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori.  Il  ghibellino  che
dispregiava i dialetti comunali e voleva  un  parlare  comune  italico,  di  cui
abbozzava l'immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
        Il trattato, De Monarchia, è  diviso  in  tre  libri.  Nel  primo
dimostra la perfetta forma di governo essere la  monarchia;  nel  secondo  prova
questa perfezione essere incarnata nell'impero  romano,  sospeso,  non  cessato,
perchè preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l'impero  e  il
sacerdozio, l'unico imperatore e l'unico papa.
        L'eccellenza della monarchia è fondata sull'unità di Dio. Uno  Dio,  uno
imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono «polizie oblique»,  governi  «per
accidente», reggimenti difettivi.  Fin  qui  tutti  erano  d'accordo,  guelfi  e
ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.
        E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo, e la
preminenza di quello, base della filosofia cristiana. E ne inferivano che  nella
società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il papa  e  l'imperatore.
Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
        Se lo spirito  è  superiore  al  corpo,  dunque,  conchiudeva  Bonifazio
ottavo, il papa è superiore all'imperatore. «Il potere spirituale -  dic'egli  -
ha il diritto d'instituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è  buono.
E chi resiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a meno  ch'egli  non  immagini,
come i manichei, due princìpi, Ciò che sentenziamo  errore  ed  eresia.  Adunque
ogni uomo dee essere sottoposto al  pontefice  romano,  e  noi  dichiariamo  che
questa sottomissione è necessaria per la salute dell'anima».  Filosofia  chiara,
semplice, popolare, irresistibile per il  carattere  indiscusso  delle  premesse
consentite da tutti e per l'evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era il
sostanziale e il corpo in se stesso era il peccato, e  non  valea  se  non  come
apparenza  o  organo  dello  spirito,  cos'altro  potevano   essere   i   re   e
gl'imperatori, che erano il potere temporale, se non gl'investiti dal papa,  gli
esecutori della sua volontà?  I  guelfi,  che,  salve  le  franchigie  comunali,
ammettevano premesse e conseguenze, erano detti «la parte di santa Chiesa».
        Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla conseguenza suppone  che
spirito e materia  fossero  ciascuno  con  sua  vita  propria,  senza  ingerenza
nell'altro, e da questa ipotesi deduce l'indipendenza de'  due  poteri,  amendue
«organi di Dio» sulla terra, di diritto divino, con gli stessi  privilegi,  «due
soli», che indirizzano l'uomo, l'uno per la via di Dio, l'altro per la  via  del
mondo, l'uno per la celeste, l'altro per la terrena felicità. Perciò il papa non
può unire i due reggimenti in sè, congiungere il pastorale  e  la  spada;  anzi,
come vero servo di Dio e immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di
questo mondo, e lasciare a Cesare ciò che è  di  Cesare.  L'imperatore  dal  suo
canto dee usar riverenza al papa, appunto per la preminenza  dello  spirito  sul
corpo; e poichè il popolo è corrotto e usurpatore, e  la  società  è  viziosa  e
anarchica, il suo uffizio è  di  ridurre  il  mondo  a  giustizia  e  concordia,
ristaurando l'impero della legge. Nè è a temere che sia  tiranno,  perchè  nella
stessa sua onnipotenza troverà il  freno  a  se  stesso:  perciò  rispetterà  le
franchigie de' comuni  e  l'indipendenza  delle  nazioni.  Questa  era  l'utopia
dantesca o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne  è  stato  il
filosofo.
        Scendendo alle applicazioni, Dante  mostra  nel  secondo  libro  che  la
monarchia romana fu di tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre  età
dell'uomo. Nell'infanzia ebbe i re:  adulta,  e  rettasi  a  popolo,  con  geste
maravigliose,  una  serie  di   miracoli   che   attestano   la   sua   missione
provvidenziale, si apparecchiò alla età virile, ordinandosi  a  monarchia  sotto
Augusto, che san Tommaso chiama vicario di Cristo,  e  che  Dante,  seguendo  la
tradizione virgiliana, dice  discendente  da  Enea  fondatore  dell'impero,  per
disegno divino. E fu a quel tempo che nacque Cristo, e «fu suddito dell'impero»,
e compì l'opera della redenzione delle anime, mentre Augusto componeva il  mondo
in perfetta pace.
        Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per  dritto  divino
dee essere la capitale del mondo, e che giustizia e pace non può venire in terra
se non con la ristaurazione dell'impero romano, «la monarchia  predestinata»  di
cui la più bella parte il giardino, era l'Italia.
        In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto
l'avvenire: ci era l'affrancamento del  laicato  e  l'avviamento  a  più  larghe
unità. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là  del  comune
vedi la nazione, e al di là della nazione  l'umanità,  la  confederazione  delle
nazioni. Era un'utopia che segnava la via della storia.
        Guelfi e ghibellini aveano comune la  persuasione  che  la  società  era
corrotta e disordinata, e  chiedevano  il  paciere.  La  selva,  immagine  della
corruzione, è  un  punto  di  partenza  comune  a  Brunetto  guelfo  e  a  Dante
ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del papa,
come Carlo di Valois, «che giostrò con la lancia di Giuda», come dice  Dante.  I
ghibellini invocavano l'imperatore. E credesi che  Dante  abbia  scritto  questo
trattato per agevolare la via all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo, sceso
a pacificare l'Italia e morto al principio dell'impresa, glorificato  da  Dante,
celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato, e guelfi e
ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui,  e  che  metter
l'ordine e  salvar  la  società  dalle  fazioni  è  antico  pretesto  di  tutt'i
conquistatori. Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto  ad
Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine, di cui la più
originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il  Convito,  si
può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.
        Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nè la filosofia fu  la  sua
vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per  lui  un
dato, un punto di partenza.  L'accettò  come  gli  veniva  dalla  scuola,  e  ne
acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò  un'orma  del
suo pensiero, posto il suo studio meno in esaminare che  in  imparare.  Accoglie
qualsiasi opinione anche più assurda, e gran parte degli errori e de' pregiudizi
di quel tempo. Cita con uguale  riverenza  Cicerone  e  Boezio,  Livio  e  Paolo
Orosio, scrittori pagani e cristiani.  La  citazione  è  un  argomento.  Il  suo
filosofare ha i difetti  dell'età.  Dimostra  tutto,  anche  quello  che  non  è
controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di  ogni
qualità, anche i più puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e  si
perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico  e  le  infinite
distinzioni. Pure, se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla  fine,  troverai
nella sua Monarchia un'ampiezza ed unità di disegno ed una concordanza di
parti, che ti fa indovinare il grande architetto dell'altro mondo.
         I  difetti  delle  opere  latine  sono  comuni  al  Convito,   e
gl'intralciano lo stile, e gl'impediscono quell'andamento naturale e  piano  del
discorso,  che  potea  renderlo  accessibile  agl'illetterati,  a'   quali   era
destinato. La sua teoria della lingua  illustre  lo  allontana  da  quell'andare
soave e semplice della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il latino,
egli latinizza il volgare,  cercando  nobiltà  e  maestà  nelle  perifrasi,  ne'
contorcimenti e nelle inversioni. Usa una lingua  ibrida,  non  italiana  e  non
latina, spogliata di tutte le  movenze  e  attitudini  vivaci  del  dialetto,  e
lontana da quella dignità e misura, che ammira nel latino  e  a  cui  tende  con
visibile e infelice sforzo. Se la natura gli avesse  concesso  un  più  squisito
senso artistico, avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa. Ma gli manca
la grazia, e senti la rozzezza nello sforzo della eleganza. Salvo  qualche  raro
intervallo, che la passione lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa,  come  la
sua lirica, fa desiderare l'artista.
        Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch'egli
cercava, non potè realizzarlo come scienza e come prosa.
         - Che cerchi? - Gli domandò un frate.  Rispose:  -  Pace.  -  E  questo
cercavano tutt'i contemporanei. Pace era concordia del regno terrestre col regno
celeste, dell'anima con Dio, il regno di Dio sulla  terra.  «Adveniat  regnum
tuum.» Pace vera quaggiù non può essere; vera  pace  è  in  Dio,  nel  mondo
celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: «Io sono in pace». La  vita  è  una
prova, un tirocinio, per accostarsi quanto si può all'ideale celeste e meritarsi
l'eterna pace.
        Lo scopo della vita è la salvazione dell'anima, la pace  dell'anima  nel
mondo celeste. Vivere è morire alla terra per vivere in  cielo.  La  vita  è  la
storia dell'anima, è un «mistero».  Uscita  pura  dalle  mani  di  Dio  «che  la
vagheggia», è sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non  può  tornare  nella
patria che purificata di ogni macula terrestre.  Per  giungere  a  pace  bisogna
passare per tre gradi, personificati ne' tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e
a' quali rispondono i tre mondi, inferno, purgatorio e paradiso. Il «mistero»  o
la storia finisce al primo grado, quando l'anima sopraffatta dall, Umano e vinta
nella sua battaglia col demonio  viene  in  potere  di  questo:  è  la  tragedia
dell'anima, la tragedia di Fausto, prima  che  Goethe,  ispirato  da  Dante,  lo
avesse riscattato. Ma quando l'anima vince  le  tentazioni  del  demonio,  e  si
spoglia e si purga dell'Umano, hai la sua glorificazione nell'eterna  pace:  hai
la «commedia» dell'anima. Questo è  il  mistero,  ora  tragedia,  ora  commedia,
secondo che prevale l'umano o il divino, il terrestre o il celeste, che giace in
fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell'età.  Messo  in
iscena, era detto «rappresentazione»: narrato. Era «leggenda» o «vita»,  esposto
in figura era «allegoria»,  rappresentato  in  modo  diretto  e  immediato,  era
«visione»; anzi le due forme si compenetravano, e  spesso  l'allegoria  era  una
visione,  e  la  visione   era   allegorica.   Allegorie,   visioni,   leggende,
rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero dell'anima, del  quale  i
teologi erano i filosofi, e i predicatori erano gli  oratori,  che  aggiungevano
spesso  alla  dottrina  l'esempio,  qualche  leggenda  o  visione,  com'è  nello
Specchio di vera penitenza. Il mistero dell'anima era in fondo tutta  una
metafisica religiosa, che comprendeva i  più  delicati  e  sostanziali  problemi
della vita, e produceva una civiltà a sè conforme. Ci entrava l'individuo  e  la
società, la filosofia e la letteratura.
        La letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per  due
secoli da Francesco  di  Assisi  e  Iacopone  sino  a  Caterina.  L'Allegoria
dell'anima, la rappresentazione del Giovane monaco, l'Introduzione
alle virtù, la Commedia dell'anima sono in forma letteraria la teoria
di questo mistero, che nelle lettere di Caterina  raggiunge  la  sua  perfezione
dottrinale,  ed  acquista  la  sua   individuazione   o   realtà   storica   ne'
Fioretti, nelle leggende e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.
        Ma questa letteratura era senza eco  nella  classe  colta  da  cui  esce
l'impulso della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come
privo di dolcezza e di armonia. Quello scrivere così alla buona e come si  parla
era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano  una  forma  di  dire  illustre  e
nobile,  prossima  alla  maestà  del  latino,  della  quale   Dante   die'   nel
Convito un saggio poco felice. Nè  potea  piacere  quella  semplicità  di
ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole
con tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma se  aveano
in poco conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era  diverso  il
concetto che essi avevano della  vita.  I  teologi  filosofavano  e  i  filosofi
teologizzavano. La rivelazione  rimaneva  integra  nelle  sue  basi  essenziali,
ammesse come assiomi indiscutibili. Tali erano l'unità  e  personalità  di  Dio,
l'immortalità dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.
        Ma se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia,  abbracciando
la coltura, oltre la Bibbia e i santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e
la forma era più libera, paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria  e  voltando
il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.
        Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E realizzare il  regno
di Dio era conformare il mondo a' dettati della filosofia unificare intelletto e
atto. Il mediatore era l'Amore, principio delle  cose  divine  e  umane,  e  non
l'amore sensuale, ch'era peccato,  ma  un  amore  intellettuale,  l'amore  della
filosofia. Il frutto dell'amore è la sapienza, che non  è  puro  intelletto,  ma
intelletto e atto congiunti, la virtù. Il regno di Dio in terra  era  dunque  il
regno della virtù, o come dicevano, della giustizia e della pace.  A  realizzare
questo regno erano istrumenti i due Soli,  i  due  organi  di  Dio,  il  papa  e
l'imperatore. La politica era l'arte di realizzare questo regno della  giustizia
e della pace, rendendo gli uomini virtuosi e felici. Il  criterio  politico  era
puramente etico, come s'è visto in Albertano  giudice,  in  Egidio  Colonna,  in
Mussato, in Dino Compagni. All'effettuazione di questo regno etico concorreva la
tradizione virgiliana; perchè Virgilio era un testo non meno rispettabile che la
Bibbia. E si  attendeva  la  monarchia  predestinata  da  Dio,  la  ristorazione
dell'impero romano.
        In  questi  due  secoli  abbiamo  due  letterature  quasi  parallele,  e
persistenti l'una accanto all'altra: una schiettamente religiosa,  chiusa  nella
vita contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a' santi  Padri,  e  che  ha  per
risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni, e l'altra
che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico, e abbraccia
i vari aspetti della vita, e dà per  risultato  somme,  enciclopedie,  trattati,
cronache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella
e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti  senza  seguito  e  senza  sviluppo,
quasi cosa profana e frivola.
        Gli uomini  istrutti  si  studiavano  di  render  popolare  la  cultura,
specialmente nella sua parte più accessibile e pratica,  l'etica  e  la  morale.
Indi le tante versioni e raccolte di precetti  etici  sotto  nome  di  Fiori,
Giardini, Tesori, Ammaestramenti.  Un  tentativo  di  questo  genere  fu  il
Tesoretto.
        Nella prima parte della lirica  dantesca  hai  la  storia  ideale  della
santa, nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne. È  il
mistero dell'anima così come è rappresentato nella  Commedia  dell'anima.
L'anima, che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve pellegrinaggio ritorna in
cielo bellezza spirituale, o luce intellettuale, è Beatrice;  e  Beatrice  è  la
santa della gente colta, è la donna platonica e innominata de' poeti, battezzata
e santificata.
        Nella  seconda  parte  Beatrice  è  la  filosofia,  che  riceve  la  sua
esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia  va
a metter capo nella  pura  scienza,  nell'esposizione  scolastica  di  un  mondo
morale, dell'etica.
        La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e  monotone
di  Caterina:  il  suo  difetto  ingenito  è  l'astrazione  dell'ascetismo.   La
letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito:
il suo difetto intrinseco è l'astrazione della scienza. Tutte e  due  hanno  una
malattia comune, l'astrazione, e la sua conseguenza letteraria, l'allegoria.
        Ma il mondo di Dante non  potea  rimaner  chiuso  in  questi  limiti,  o
piuttosto non era questo il suo mondo naturale e geniale, conforme alle  qualità
del suo spirito e del suo genio, e ci sta a disagio. La sua forza non è l'ardore
della ricerca e della investigazione, che è il genio degli spiriti  speculativi.
La scienza è per lui un dogma: il cervello rimane passivo in quelle  scolastiche
esposizioni. Avea troppa immaginazione, perchè potesse rimaner nell'astratto,  e
studia più a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo. La  fantasia
creatrice, il vivo sentimento della realtà, le  passioni  ardenti  del  patriota
disingannato e offeso, le ansietà della vita pubblica  e  privata,  non  poteano
avere appagamento in quella regione astratta della  scienza,  che  pur  gli  era
tanto cara. Sentiva il bisogno meno  di  esporre  che  di  realizzare.  E  volle
realizzare questo regno della scienza o regno di Dio che tutti cercavano,  farne
un mondo vivente.
        Il mondo è una  selva  oscura,  corrotto  dal  vizio  e  dall'ignoranza.
Rimedio è la scienza,  secondo  i  cui  princìpi  dovrebb'esser  conformato.  La
scienza è il mondo ideale, non qual è, ma quale dee  essere.  Questo  ideale  si
trova realizzato nell'altra vita, nel regno di Dio, conforme alla verità e  alla
giustizia. Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via, la contemplazione e
la visione dell'altra vita. Per questa via l'anima, superate  le  battaglie  del
senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna commedia, la beatitudine.
        Da questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione,
detta la Commedia, rappresentazione  allegorica  del  regno  di  Dio,  il
«mistero dell'anima» o la «Commedia dell'anima.»





VII LA COMMEDIA

Chi mi ha seguito vede che la «Divina Commedia» non è un concetto  nuovo,
nè originale, nè straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in  mezzo
a un mondo maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il
pensiero che giaceva in fondo a tutte  le  forme  letterarie,  rappresentazioni,
leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L'Allegoria
dell'anima e la Commedia dell'anima sono gli schemi, le categorie,  i
lineamenti generali di questo concetto.
        Nel Convito la sostanza è l'etica, che  Dante  cerca  di  rendere
accessibile agl'illetterati, esponendola in prosa volgare.  Qui  il  problema  è
rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno
al mistero dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte le leggende,  ed
è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel  tempo.  Con  questa
felice ispirazione, pigliando a base della coltura  le  tradizioni  e  le  forme
popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno  al
comune concetto che le ispirava, il mistero dell'anima. La rappresentazione e la
leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della
scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda.
Indi l'immensa popolarità di questo libro, che  gl'illetterati  accettavano  nel
senso letterale e i  dotti  comentavano  come  un  libro  di  scienza,  come  la
Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi  quel  medesimo  che
sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè è maraviglia  che
qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata,  dicesse:  -
Costui par veramente uscito ora dall'inferno. - Gli  eruditi  si  affannavano  a
cercare il senso de' versi strani, e  il  Boccaccio  iniziava  quella  serie  di
comenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più denso.
        In effetti la Divina Commedia  è  una  visione  dell'altro  mondo
allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell'altra vita è  il
dovere del credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito nell'altro  mondo;
le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a  cui  sospira.
Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere  l'altro
mondo  è  la  via  della  salvazione.  Per  campare  dalla  selva  del  vizio  e
dell'ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito  l'altro
mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni,
è la storia di tutt'i santi, è il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della
Commedia, visione dell'altro mondo, come via a salute. Ma  la  visione  è
allegoria. L'altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in  fondo  la
storia o il mistero dell'anima  ne'  suoi  tre  stati,  detti  nell'Allegoria
dell'anima Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a'  tre  mondi,  Inferno,
Purgatorio e Paradiso. È  l'anima  intenebrata  dal  senso,  nello
stato puramente umano, che spogliandosi e mondandosi  della  carne  si  rinnova,
ritorna pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune non  meno  che  la
lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro mondo con l'occhio di questo mondo,  con
le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione  delle
pene infernali, cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero dell'anima
era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende.  L'uomo,  caduto
nell'errore e nella miseria,  che  finisce  o  vendendo  l'anima  al  demonio  o
purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s'è
visto nell'Introduzione alle virtù e nella Commedia dell'anima. La
Commedia dell'anima è l'anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra
combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e  vince  assistita  dalla
grazia di Dio.  Vizi  e  virtù  combattono,  come  gli  dei  di  Omero,  intorno
all'anima; le  virtù  vincono  e  l'anima  è  salva.  Nell'Introduzione  alle
virtù è un giovane caduto in  miseria,  a  cui  apparisce  confortatrice  la
Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia  de'  Vizi  e  delle
Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia
è anche la divina consolatrice di Boezio, così popolare, e di Dante, a cui  dopo
la  morte  di  Beatrice  apparve  questa  «nobilissima  figlia   dell'Imperatore
dell'universo», facendolo  suo  amico  e  servo.  Il  vizio  e  l'ignoranza,  la
conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e  beatificazione,
visione di Dio e della scienza, era il luogo comune delle due  letterature,  de'
semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme, e tira  nella
sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e  scienza,  e  fa  un
mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L'anima nell'inferno  e  nel
purgatorio, non essendo uscita ancora dal terreno ha a guida il  lume  naturale,
la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio:
fatta libera e monda e  leggiera,  ha  nel  paradiso  maestra  la  grazia  o  la
teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo, o  Dio  nella
sua essenza.
        Perchè l'altro mondo è allegorico, figura dell'anima nella  sua  storia,
il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel  mondo  libero
dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera
alla sua costruzione tutt'i materiali della  scienza,  sacra  e  profana,  e  le
tradizioni e favole del mondo pagano,  mescolando  insieme  Enea  e  san  Paolo,
Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel  mondo
universale della coltura, tanto desiderato dalle  classi  colte  e  fino  allora
tentato invano, cristiano nel suo spirito e  nella  sua  lettera,  ma  dove  già
penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei
pare strana e grottesca, legittimata qui dall'allegoria, che  concede  al  poeta
libertà di forme ch'egli creda più acconce a significare  i  suoi  concetti.  Il
mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali  di  costruzione,  usati  a
edificare un tempio cristiano, a quel  modo  che  colonne  egizie  e  greche  si
veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo  e  figure  de'  nuovi
tempi e delle nuove idee. Così a questa  costruzione  gigantesca  prendon  parte
tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate da  un  solo
concetto, il concetto cristiano.
        L'ordito è semplicissimo: è la storia o  mistero  dell'anima  nella  sua
espressione elementare, come si trova nella rappresentazione  della  Commedia
dell'anima; e l'hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo  canto.  Dante
nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua  possanza
e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui,  si  trova  smarrito  in  una
selva oscura, e sta per soggiacere all'assalto delle  passioni,  figurate  nella
lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce  Virgilio,
e lo mena seco a contemplare l'inferno e il purgatorio, ove, confessati  i  suoi
falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e  di  luce  in  luce  giunge  alla
faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice
è la grazia, e l'altro mondo è questo mondo  stesso  nel  suo  aspetto  etico  e
morale, è l'etica realizzata, questo mondo quale dee essere  secondo  i  dettati
della filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il  regno
di Dio.
        Dante è l'anima non solo come individuo, ma come essere collettivo, come
società umana, o umanità.  Come  l'individuo,  così  la  società  è  corrotta  e
discorde, e non può aver pace se non instaurando  il  regno  della  giustizia  o
della legge, riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore.  E  qui
entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita  da  Dio,  fondata  da
Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del  mondo.  Questo
concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come  si  vede,  lo  stesso
concetto etico, applicato all'individuo e alla società. È tale  la  medesimezza,
che la stessa allegoria si può interpretare in un  senso  puramente  etico,  per
rispetto all'individuo, e in un senso politico, per rispetto alla società. E non
è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle  più
diverse interpretazioni.
        Se l'allegoria ha reso possibile  a  Dante  una  illimitata  libertà  di
forme, gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo
la  figura  rappresentare  il  figurato,  non  può  essere  persona   libera   e
indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno d'idea,
sicchè non contenga se non i tratti soli che hanno relazione  all'idea,  a  quel
modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello  solo  che  sia
immagine della cosa paragonata. L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco,  e
insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno  o  la
cifra di un concetto a sè estrinseco.  Hai  due  realtà  distinte,  l'una  fuori
dell'altra, l'una figura e adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute  e
astratte. La figura, dovendo significare non se stessa,  ma  un  altro,  non  ha
niente  d'organico  e  diviene  un  accozzamento  meccanico  mostruoso,  il  cui
significato è fuori di sè, com'è il grifone del Purgatorio, l'aquila  del
Paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette «P» incise sulla fronte. La
poesia non s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria.  Il  cristianesimo  in
nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche  alla  poesia,
tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità  era  filosofia  o
storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto  di
menzogne, e «poeta» e «mentitore», come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i
versi erano chiamati, come dice san Girolamo,  «cibo  del  diavolo».  La  poesia
perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una
specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini.  Erano  detti
«poeti solenni», a distinzione de' «popolari», i dotti che esprimevano in poesia
la dottrina sotto  figura,  o  in  forma  diretta.  Dante  definisce  la  poesia
«banditrice del vero», sotto «il velame della favola ascoso»,  di  modo  che  il
lettore «sotto alla dura corteccia,  sotto  favoloso  e  ornato  parlare,  trovi
salutari e dolcissimi ammaestramenti». La poesia è in sè una  «bella  menzogna»,
che non ha alcun valore, se non come figura del vero.
        Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto  l'influenza  ne'  nostri
lirici, Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti, e poi  ti
forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano  assuefatte  a  questo
processo, a correre al generale. Il campo ordinario della  filosofia  scolastica
era l'Ente con tutte le altre generalità,  e  la  pratica  del  sillogismo  avea
avvezzi  tutti,  anche  i  poeti,  a  cercare  in  ogni  cosa  la  maggiore,  la
proposizione generale. Ora quel mondo  di  concetti  è  la  maggiore  dell'altro
mondo.
        Quali sieno questi concetti, io dirò  quasi  con  le  stesse  parole  di
Dante.
        La patria dell'anima è il cielo, e come dice Dante, discende in  noi  da
altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.
        L'anima, uscendo dalle mani di Dio, è «semplicetta», «sa nulla»;  ma  ha
due facoltà innate, la ragione e l'appetito, «la virtù che consiglia», e l'esser
«mobile ad ogni cosa che piace», l'esser «presta ad amare».
        L'appetito (affetto,  amore)  la  tira  verso  il  bene.  Ma  nella  sua
ignoranza non sa discernere il bene, segue la sua falsa  immagine  e  s'inganna.
L'ignoranza genera l'errore, e l'errore genera il male. Il male o il  peccato  è
posto nella materia, nel piacere sensuale. Il bene è  posto  nello  spirito:  il
sommo Bene è Dio, puro spirito. L'uomo dunque, per esser felice, dee contrastare
alla carne e accostarsi al sommo Bene, a Dio. A questo fine gli è stata data  la
ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità  delle
sue azioni.
        La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e  del
male. Lo studio della filosofia  è  perciò  un  dovere,  è  via  al  bene,  alla
moralità. La moralità è la «bellezza della filosofia»: è l'etica, «regina  delle
scienze», «il primo cielo cristallino».
        A filosofare è necessario amore. L'Amore (appetito) può esser sementa di
bene e di male, secondo l'oggetto a cui si volge. Il falso amore è «appetito non
cavalcato dalla ragione». Il vero amore  è  studio  della  filosofia,  «unimento
spirituale dell'anima con la cosa amata».
        Filosofia è «amistanza a sapienza», amicizia dell'anima con la sapienza.
Nelle nature inferiori l'amore è «sensibile  dilettazione».  Solo  l'uomo,  come
«natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù» (alla  filosofia).  Ciò  è
vera felicità, che per contemplazione della verità si acquista.
        In questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi
pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita:
esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed  a'
piaceri,  vincer  se  stesso,  serbare  l'eguaglianza  dell'animo  nelle   umane
vicissitudini. Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.
        L'umanità per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del  male
o del peccato), e la ragione e l'amore non furono più sufficienti a salvarla. La
ragione andava a tentoni e menava all'errore; «i filosofi andavan e non  sapevan
dove»; l'amore rimaso senza «rettore» divenne appetito sensuale. Era  necessaria
una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l'umanità,  offrendosi
vittima espiatoria per lei.
        Mediante questo sacrificio, la ragione è stata  avvalorata  dalla  fede,
l'amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta  dalla  teologia,
la rivelazione.
        Redenta l'umanità, ciascun uomo ha acquistato la virtù di  salvarsi  con
l'aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla  fede,  fortificato  dall'amore  e
dalla grazia, può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al
sommo Bene.
        Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o  al  bene
comprende tutto il circolo della morale o  etica.  La  conoscenza  della  morale
(naturale e rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.
        La morale è il «Nosce te ipsum»,  la  conoscenza  di  se  stesso.
L'uomo si trova in questa vita in uno de' tre stati di  cui  tratta  la  morale,
stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.
        L'altro mondo è figura della morale. L'inferno è figura del male  o  del
vizio; il paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è il passaggio
dall'uno all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L'altro mondo  è
perciò figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.
        La rappresentazione dell'altro mondo è dunque  un'etica  applicata,  una
storia morale dell'uomo, com'egli la trova  nella  sua  coscienza.  Ciascuno  ha
dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.
        Il viaggio nell'altro mondo  è  figura  dell'anima  nel  suo  cammino  a
redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.
        Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di  errore,  la  selva
erronea del Convito), vede il dilettoso colle,  principio  e  cagione  di
tutta gioia (la beatitudine), illuminato dal sole che  mena  dritto  altrui  per
ogni calle (la scienza), ma tre fiere (la  carne,  gli  appetiti  sensuali)  gli
tengono il passo. L'uomo da sè non può salire  il  calle,  non  può  giungere  a
salute: viene dunque il  deus  ex  machina,  l'aiuto  soprannaturale.  Si
richiede non solo ragione, ma fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione
e amore) lo guida, insino a che, confesso e  pentito  e  purgato  d'ogni  macula
terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a  grazia).
Con questo aiuto esce dallo stato d'ignoranza e di errore (la selva),  e  prende
il cammino della scienza (l'altro mondo,  il  mondo  etico  e  morale).  Gli  si
affaccia prima l'inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male  nella
sua natura, nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora  in
purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la  memoria  e  l'istinto
del male, e conosciuto il suo stato, pentito  e  mondo,  diventa  libero  (dalla
carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto  allo  stato  d'innocenza,  nel
quale era l'uomo avanti il peccato d'origine, e vede  il  paradiso  terrestre  e
vede Beatrice (fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso  (l'anima  nello
stato di beatitudine), di grado in grado si leva sino alla  conoscenza  e  amore
(contemplazione  beatifica)  di  Dio,  del  sommo  Bene,  e  in  questa  mistica
congiunzione dell'umano e del divino si riposa (è beato).
         La  redenzione  della  società  ha  luogo   nello   stesso   modo   che
degl'individui. La società serva della  materia  è  anarchia,  discordia  sviata
dall'ignoranza e dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca  la
carne ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia, se
non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare
la legge (la ragione), guida e freno dell'appetito.
        Con questo fondo generale si  lega  tutto  lo  scibile  di  quel  tempo,
metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc
        Il centro intorno a cui gira questa vasta  enciclopedia  è  il  problema
dell'umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte  le
filosofie, il mistero dell'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte
le sue forme. Il problema è posto ed  è  sciolto  cristianamente.  L'umanità  ha
perduto ed  ha  racquistato  il  paradiso;  questa  storia  epica  di  Milton  è
l'antecedente del problema. L'umanità ha racquistato il paradiso,  cioè  ciascun
uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in  che  modo?  Qual  è  la  via  di
salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda, la soluzione  del
problema.
        Il cristianesimo ne' primi tempi  di  fervore  rispondea:  -  L'uomo  si
salva, imitando Cristo che ha salvato l'umanità, si salva con  l'amore.  Bisogna
volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare.  -
Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama  eccellentissima
e simile alla vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla
comunione tra l'anima e  Dio,  al  misticismo,  tanta  parte  della  letteratura
volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei  monasteri,  e
nutrivano l'anima del pensiero della morte, della meditazione dell'altra vita; i
santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente  all'altro  mondo;  anche
oggi le prediche, i libri ascetici,  i  libri  di  preghiera  non  sono  che  un
continuo  «Memento  mori»;  è  famoso  il  «Pensa,  anima   mia»,   frase
formidabile, a cui il  lettore  vede  già  in  aria  venir  dietro  il  giudizio
universale e le fiamme dell'inferno. Se le cose di quaggiù sono caduche e «nulla
promission rendono intera», se il significato  serio  della  vita  è  nell'altro
mondo, se là è il vero, è la realtà: l'Iliade, il poema della vita  è  la
Commedia, la storia dell'altro mondo.
        In quei primi tempi la  scienza  non  è  necessaria  a  salute,  anzi  i
cristiani menavano vanto della loro ignoranza: «Beati pauperes  spiritu».
Avendo per avversari gli uomini più dotti  del  paganesimo,  rispondevano  ex
abundantia cordis, con la sicurezza e l'eloquenza della fede, la loro lingua
di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava  l'orgoglio  di
una scienza vòta e arida, non bastò  più  appresso.  Aristotele  dominava  nelle
scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di
sottigliezze: lo stesso  misticismo  avea  preso  forme  scientifiche,  divenuto
ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino,  Bernardo  e  Bonaventura.
L'Amore dunque prende un contenuto, diviene  scienza,  e  la  loro  unità  è  la
filosofia, uso amoroso di sapienza.
        La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e  dimostra
lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è  posta  nella
contemplazione; l'oggetto della  contemplazione  è  Dio;  la  beatitudine  è  la
visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette  i  contemplanti,  non  gli
operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere,  bisogna  sapere,
ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del  pensiero  e  della  vita.
Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia anche amore, e  Beatrice  non
può esser fede, che non sia anche grazia; Dante stesso  conosce  e  vuole  a  un
tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L'intelletto è
in cima della scala: l'amore dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.
        Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza  il  problema
si ripresenta, ma i termini  sono  mutati.  Il  punto  di  partenza  non  è  più
l'ignoranza,  la  selva  oscura,  ma  la  sazietà  e  vacuità   della   scienza,
l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La  sapiente
Beatrice  si  trasforma  nell'ignorante  e  ingenua  Margherita;  e  Fausto  non
contempla ma opera; anzi il suo male  è  stato  appunto  la  contemplazione,  lo
studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche  onde
della vita. Ma al tempo di san Tommaso  la  ragione  entrava  appena  nella  sua
giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente,
quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le  si  domandava  tutto  e
prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale  del  mondo  morale,  la
felicità. Lo scopo della scienza non  era  speculativo  solamente,  ma  pratico.
Nell'ordine speculativo era già conseguito il suo scopo, divenuta per  Dante  un
libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma  la  scienza  dee  operare
anche sulla volontà, menare a virtù e felicità. E se  questo  miracolo  non  era
ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza, doveasene  recare
la cagione, secondo Dante e i  contemporanei,  all'ignoranza.  Bisognava  dunque
volgarizzare la scienza, darle  uno  scopo  morale,  drizzarla  all'opera.  Indi
l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica, la scienza de'  costumi  e  l'arte
della persuasione.

         I  tentativi  fatti,  compreso  il  Convito,  furono   infelici.
Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca lo spirito  e  l'ardore
scientifico, manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera,
predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea  uscire  una
letteratura filosofica, quella forma, propria degli uomini  meditativi,  che  ti
rivela non solo l'idea, ma come in te nasce, come la si  presenta,  con  esso  i
sentimenti che l'accompagnano, pregna di altre idee, le  quali  per  la  potenza
comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni,  mobili,  nasciture.
Qui sta la vita superiore della forma filosofica,  generata  immediatamente  dal
travaglio del pensiero, che mette in  moto  tutte  le  altre  facoltà,  compresa
l'immaginazione. In quei tentativi il contenuto  scientifico  ci  sta,  non  nel
punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato,  divenuto  nello
spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e  grezzo  dalla  scuola.  La
terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di  avere
i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli,  non  vive  della
vita de' campi, non li lavora, li conosce  sulla  carta.  Rimane  una  proprietà
astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me,
non è fatto parte dell'anima mia. Non ci è investigazione e non ci  è  passione,
dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il  filosofo
fora la superficie e si seppellisce  nel  mondo  sotterraneo,  dove,  come  dice
Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita
sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza
con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili le  parti
superiori della scienza, non riman libera che l'ultima e  più  bassa  operazione
dell'intelletto, distinguere e sottilizzare.
        Essendo la scienza base di tutto l'edificio,  ne  seguitò  quella  falsa
poetica di cui è detto. La letteratura solenne e  dotta  divenne  un  istrumento
della scienza, un modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l'esposizione  diretta
o l'allegorica. Nè altro  fu  l'intendimento  di  Dante  nella  rappresentazione
dell'altro mondo. Come que' filosofi che sotto nome di  utopia  costruiscono  un
mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo  allegorico
della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle  sue  parti
sostanziali.
        Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite  appresso  a  me
nell'altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia  morale,  la
scienza della  salvazione.  -  E  i  morti  parlano  ed  espongono  la  scienza,
soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti  in  vere  cattedre  o
pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole de' morti, ma anche nella costruzione
e rappresentazione dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura,  in  forma
allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi  fantasmi,  e  dice:  -
Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo  scopo
è l'insegnamento della scienza per la  salute  dell'anima;  non  ti  dimenticare
della scienza. -  E  la  poetica  gli  soggiunge:  -  Pensa  che  tutte  le  tue
invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più  nè  meno  che  sciocche
bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto  il  quale
si dee nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la stessa realtà a
produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro
l'ombra ci è il corpo; qui la scienza  è  il  corpo,  e  la  realtà  è  l'ombra,
«ombrifero prefazio del vero», anzi è meno che ombra,  perchè  nell'ombra  ci  è
pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto della scienza,  come  la  parola  è  del
pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma  di  oggetti,  ciascuno  segno
della tale e tale idea.
        Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto.
Perciò quel concetto fondamentale dell'età, il mistero dell'anima  o  dell'umana
destinazione, non era ancora  realizzato  come  arte;  perchè  l'arte  è  realtà
vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa, e qui la  scienza,
in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
        Il mistero  dell'anima  era  dunque  o  rozza  e  greggia  realtà  nella
letteratura popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.
        Dante s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come  arte.  Ma
ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme.  Prese  quella  rozza
realtà degli ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero,  l'allegoria
della scienza. Da questa intenzione non potea uscir l'arte.
        Neppure l'esposizione della scienza in forma diretta è  arte.  Il  poeta
che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema
assurdo, voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La  poesia
si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l'idea,  non  se
l'incorpora; l'idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in  questo
assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con
tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e  farle  forza;  ma  questo
connubio della poesia e della scienza,  ch'egli  chiama  nel  Convito  un
«eterno matrimonio», non è uno di due, è un eterno  due.  La  poesia  può  farle
preziosi  doni,  può  vestirla  sontuosamente,   ingemmarla,   girarle   attorno
carezzevole, può abbigliarla, non possederla. E la  possiede  allora  solamente,
quando non la vede più fuori di sè, perchè è divenuta la sua vita  e  anima,  la
realtà.
        L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte. È  già  la  realtà,
che però non ha valore in se stessa, ma come figura,  il  cui  senso  e  il  cui
interesse è fuori di sè, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poichè  nel
figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci  è  qualche
cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è  necessariamente
guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue,  ma  del  figurato
come il veltro che si ciba di sapienza e di  virtude,  o  esprime  di  lei  solo
alcune parti, e non perchè sue, ma perchè si riferiscono al  figurato,  come  il
grifone del Purgatorio. In tutti e due i  casi  la  realtà  non  ha  vita
propria, o per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel  figurato,
nel pensiero. Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o  è  dubbio,
di maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è
chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico. La selva
è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perchè figurato,  ti  si
porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e  immobile
come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne,  a
guardarsi il suo corpo penzolare innanzi  senza  che  mai  sen  rivesta;  e  non
propriamente suo, perchè quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a  due
padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un  corpo  a  due  anime,
rappresentato in guisa, che prima  paia  se  stesso,  la  selva,  e  considerato
attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura  fa  dimenticare
il figurato; talora il  figurato  strozza  la  figura.  Per  lo  più  nel  senso
letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e  lo  guastano,  e  per
volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
        Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La realtà ci  sta  o  come
immagine del pensiero astratto ed estrinseco,  o  come  figura  di  un  figurato
parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due  termini.  Il
pensiero non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella figura.  Hai
forme iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.
        Dante si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni.  Se
l'allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo
cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha d'altra parte
viziato nell'origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà  e  spontaneità
della vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a  priori,
intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
        E se la Commedia fosse assolutamente in questi  termini,  sarebbe
quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio  poi,  grottesca
figura d'idee astratte.
        Ma dirimpetto a quel  mondo  della  ragione  astratta  viveva  un  mondo
concreto e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella
sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri,  nei
cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea  avuta  già  tutta  una
letteratura. Era la letteratura degli uomini  semplici,  poveri  di  spirito.  A
costoro la via  a  salute  era  la  contemplazione  non  di  esseri  allegorici,
figurativi della scienza ma reali; Dio,  la  Vergine,  Cristo,  gli  angioli,  i
santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che  essi  chiamavano  l'altra
vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il
contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore della
parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il regno divino,  se
ne fa  non  solo  il  filosofo,  ma  il  profeta  e  l'apostolo,  rivelandolo  e
predicandolo agli uomini; diviene il missionario  dell'altro  mondo,  ed  è  san
Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:

Apri la bocca, e non asconder quel ch'io non ascondo.

Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per  lui  una  cosa
così seria, come per tutt'i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera.
Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la  scienza,  ma
la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava.  Supporre  che
esso fosse una  figura,  una  forma  trovata  per  adombrarvi  i  suoi  concetti
scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in
questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua  costruzione  e
il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura,
così l'altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà,  che  ha
in se stessa il suo valore e il suo significato.
        Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è nei
cantici, nelle prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa  cala
nella vita attiva  e  si  concreta  nella  vita  reale.  Essendo  la  perfezione
religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti, da  Francesco  d'Assisi  a
Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de'  chierici
e de' frati, la corruzione della  città  santa,  dove  Cristo  si  mercava  ogni
giorno, il papa divenuto sovrano  temporale  e  dominato  da  fini  e  interessi
terreni, in tresca adultera co' re. Su questo punto i santi  sono  così  severi,
come Dante; più avean fede,  e  maggiore  era  l'indignazione.  Venendo  più  al
particolare,  abbiam  visto  Bonifazio  legarsi  con  Filippo  il  Bello  contro
l'imperatore, ciò che Dante chiama un  adulterio,  inviare  Carlo  di  Valois  a
Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era  allora  la
Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse poco poi  in  Avignone,
divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di  tutte  le  discordie  civili.  Come
potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della  corruzione
del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle  nazioni,  e  massime
d'Italia, in quella unità civile o imperiale, che rendea immagine dell'unità del
regno di Dio. A  questo  mondo  guasto  contrapponevano  la  purezza  de'  tempi
evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che  vi
entrasse la corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa  dava  il  mal
esempio.
        Come si vede, il  mondo  politico  entrava  per  questa  via  nel  mondo
cristiano, e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una  scienza
con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e  della  rettorica.  E  come
vita reale  il  suo  modello  era  il  mondo  cristiano,  di  cui  si  ricordava
un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell,  oro  della  vita
cristiana.
        Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione
astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era  giudice  e  parte.
Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo  tra  speranze  e
timori, fra gli affetti più  contrari,  odio  e  amore,  vendetta  e  tenerezza,
indignazione e ammirazione, con l'occhio sempre volto alla patria che non  dovea
più vedere, in quella catastrofe  italiana  c'era  la  sua  catastrofe,  le  sue
opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi  i  suoi
sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue  fantasie  mandano
sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in  tutta  la  sua
personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel  mondo,  di  cui  era
insieme l'apostolo e la vittima.
        Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti
dell'età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come
entra in quel mondo, non vi trova più la  figura.  Simile  a  quel  pittore  che
s'inginocchia   innanzi    al    suo    san    Girolamo,    trasformatasi
nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli  cerca  la  figura  e
trova una realtà piena di vita, trova se stesso.
        Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano  afferma  che  «poeta»  vuol
dire «profeta», banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea  dov'era
la sua grandezza. Era poeta e si ribella all'allegoria. La favola,  ciò  ch'egli
chiama «bella menzogna», lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro  come
innamorato,  nè  sa  creare  a  metà,  arrestarsi  a  mezza   via.   Nel   caldo
dell'ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi  e  formar
figure  mozze,  che  vi  rispondano  appuntino,  particolare  con   particolare,
accessorio  con  accessorio,  come  riesce  a'  mediocri.  La  realtà  straripa,
oltrepassa l'allegoria, diviene  se  stessa;  il  figurato  scompare,  in  tanta
pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione  de'  comentatori:
egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
        Per metter d'accordo la sua poetica con la sua  poesia,  Dante  sostiene
nel  Convito   che   il   senso   letterale   dee   essere   indipendente
dall'allegorico, di modo  che  sia  intelligibile  per  se  stesso.  Con  questa
scappatoia si è salvato dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato  la  sua
libertà d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue  creature.  Sia  pure
l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo,  e
Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna cosa
ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e
guasta l'illusione.
        Sicchè nella Commedia, come in tutt'i  lavori  d'arte,  si  ha  a
distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo,  ciò  che  il  poeta  ha
voluto e ciò che ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il
poeta si mette all'opera con la poetica, le forme, le idee e  le  preoccupazioni
del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza.
Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una
mera figura. Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori  non
il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.

        Come l'argomento siasi affacciato a  Dante  non  è  chiaro.  Le  memorie
secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello  che
è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore. È difficile far  la
geologia di un lavoro d'arte, trovare nel definitivo le tracce del  provvisorio.
È probabile che la Commedia  sia  stata  vagamente  concepita  fin  dalla
giovinezza, ad imitazione di quelle «commedie  dell'anima»,  di  quelle  visioni
dell'altra vita, così in voga; e  che  dapprima  il  poeta  pensasse  solo  alla
glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura  e  semplice  dell'altro
mondo; e forse de' frammenti e anche de'  canti  furono  scritti  prima  che  un
disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è  il  tempo  oscuro
alla critica e altamente drammatico, il tempo de' tentennamenti, del  silenzioso
contendere con se stesso, degli abbozzi, del  va  e  vieni,  storia  intima  del
poeta. Il  quale,  quando  gli  si  mostra  l'argomento,  vede  per  prima  cosa
dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa
di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i  palazzi,  tutte  le
figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere
la realtà, non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di  virtù
attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con  desiderio,  con  oscuro
presentimento della nuova vita a  cui  sono  destinati.  La  creazione  comincia
veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro  intorno
a cui stringersi. Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e  prende
una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la
sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.
        La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento,  è
insito nell'altro mondo, è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro mondo
non ha ragion d'essere. La base dunque è vera, è nell'argomento;  e  se  difetto
c'è, il difetto è nella natura dell'argomento. Ma Dante meditandovi sopra, e non
come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento. Non è contento che la  ci  sia,
ma la mostra e la spiega. E non si  contenta  neppure  di  questo.  Quella  idea
diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non  è  più
la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è  nella
natura, ma è essa il contenuto, essa l'argomento, essa  lo  scopo.  Così  quella
vivace realtà si va ad evaporare in  una  generalità  filosofica,  e  il  lavoro
diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta
spontaneo e popolare si volta nel poeta  dotto  e  solenne.  Descrivere  l'altro
mondo così alla  semplice  e  nel  suo  senso  immediato  gli  pare  un  frivolo
passatempo, la maniera de' narratori volgari. La  lettera  ci  è,  ma  è  per  i
profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell'apparenza.  Ma  egli
scrive per gl'iniziati,  per  gl'intelletti  sani,  e  loro  raccomanda  di  non
fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a  guardare  di
là.
        Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e  apparente,  l'altro
occulto, la figura e il  figurato.  E  poichè  l'interesse  è  in  questo  senso
occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo.  L'hanno  cercato,  e
non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon
senso, esce Voltaire e dice: «Gl'italiani lo chiamano  divino  ma  è  una
divinità occulta; pochi intendono i  suoi  oracoli;  la  sua  fama  si  manterrà
sempre, perchè nessuno lo  legge».  E  Voltaire  vuol  dire:  -  Abbiamo  sudato
parecchi secoli per capirti; e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio  -.
E vuol dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane
nascosta -. Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le  ricerche,
nè il suo disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo  ardore  italiani  e
stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o  piuttosto  a  due
mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo
del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè  acutezza  d'ingegno,  nè  copia  di
dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente  delle  altre
sue opere hanno potuto trarci  fuori  delle  ipotesi  e  delle  congetture.  Gli
antichi interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni  è  più
profondo: hai interi sistemi che si confutano a  vicenda.  Oggi  ancora  non  si
pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove  spiegazioni;  non
puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un
pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e
soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è il vero Dante? -  Poichè
ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni  sue,
e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di  umanità,  di
nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante dove
non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia  che  il
Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a
conchiudere: «Dunque Dante non esiste»? Io ne conchiudo:  -  Poichè  non  è  là,
cerchiamolo altrove. - La grandezza del dio non è nel santuario, ma là  dove  si
mostra con tanta pompa al di fuori. A forza di cercar  maraviglie  in  un  mondo
ipotetico, non vediamo quelle che ci si  affacciano  innanzi.  Parlando  a  coro
della dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano, si è data una
importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se  non  fosse  per
altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse in  vita,  sentendo  a
dire che Beatrice è l'eresia o  la  sua  anima,  che  le  arpie  sono  i  monaci
domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo  settario,
e vedendo quanti sensi  occulti  gli  sono  affibbiati,  potrebbe  a  più  d'uno
tirargli le orecchie e dire: - Cotesto «arri» non  ci  misi  io  -.  Ma  gli  si
potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete
promessa un'allegoria: perchè non ci avete data un'allegoria? La  vostra  figura
non risponde appuntino al figurato: perchè l'avete fatta  sì  bella?  Perchè  le
avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o  come  trovare
l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e  una
per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si  trovi  di  che  provare  la
verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso!  Ma  ci  fate
sapere che, oltre all'allegorico, ci è  il  senso  morale  e  l'anagogico:  dove
trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che  il  corpo  è  un  velo  dello
spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne.  E  anche
voi gridate che i versi sono un velo  della  dottrina;  e,  come  il  peccatore,
piantate lì il figurato,  e  correte  appresso  alla  figura,  e  la  fate  così
impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non  si
vede nulla, e perciò si vede tutto,  quello  che  intendete  voi  e  quello  che
intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa tra
voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se  il  vostro  poema  è  divenuto  un
immenso  geroglifico,  un  mondo  ignoto,  alla  cui  scoperta  si   son   messi
infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca
logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.
        Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che  non  intendeva.
Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo  essere  un  altro.
Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture  per
farvi penetrare l'aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal  vezzo  de'
tempi, valica l'argomento e si trova in un mondo  di  puri  concetti,  e  fa  di
questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne  vuol  fare  la
figura de' suoi concetti. Ma, come attinge il reale, ivi sente  se  stesso,  ivi
genera, ivi l'ingegno trova  la  sua  materia;  quelle  figure  prendono  corpo,
acquistano una vita propria; e le diresti creature  libere  e  indipendenti,  se
quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa  attaccata  come  una  palla  di
piombo,  impacciando  a  volta  a  volta  i  loro  movimenti.  Così  quel  mondo
intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi  alla
luce del mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto  l'altro  è  l'astratto  di  quel
mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia, è il suo  di  là,  la
sua nebbia, che  pur  penetra  qua  e  là  e  lascia  delle  grandi  ombre,  che
gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta  ombra.  A  quel
modo che i geologi scoprono i vestigi di  forme  imperfette,  che  attestano  la
lenta e progressiva formazione della materia, qui si discernono i  frammenti  di
un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati,  sterili,  più  o
meno  tollerabili,  secondo  la  maggiore  o  minore  abilità  dell'esposizione,
inviluppati in una forma più  alta,  alla  quale  il  genio  sospinge  il  poeta
attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili  della
Commedia, morti già da gran tempo, vivi  solo  agli  eruditi,  i  geologi
della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente,
gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca e
tenace, che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel  contenuto
astratto vive in grazia  del  mondo  in  cui  si  trova  entrato:  spiccatenelo,
isolatelo, e non se ne parlerebbe più.
        Che cosa è dunque la Commedia? È il  medio  evo  realizzato  come
arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran  cosa  è
questa! Il medio  evo  non  era  un  mondo  artistico,  anzi  era  il  contrario
dell'arte.  La  religione  era  misticismo  la  filosofia  scolasticismo.  L'una
scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli  spiriti  a  staccarsi
dal reale. L'altra viveva di astrazioni e di formole e di  citazioni,  drizzando
l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi  e  alle  vacue  generalità  che  si
chiamavano «essenze». Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a
idealizzare che a realizzare: ciò che è  proprio  il  contrario  dell'arte.  Ne'
poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne'  misteri,  nelle
visioni, nelle  leggende.  Ne'  poeti  solenni  trovi  una  forma  o  crudamente
didascalica, o figurativa e allegorica. L'arte non era  nata  ancora.  C'era  la
figura; non c'era la realtà nella sua libertà e personalità.
        Dante raccoglie da' misteri  la  Commedia  dell'anima,  e  fa  di
questa storia il centro di  una  sua  visione  dell'altro  mondo.  Tutta  questa
rappresentazione  non  è  che  senso  letterale;  la  visione  è  allegorica,  i
personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel  suo  spirito,  lo
porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per
forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra  e  popola  il  suo
cervello di fantasmi e lo costringe a concretare, a  materializzare,  a  formare
anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo
ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che  non  abbia  ricevuta  la  sua
forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non  è  più  figura,  ma  è
realtà, è un mondo in sè compiuto  e  intelligibile,  perfettamente  realizzato.
Visione e  allegoria,  trattato  e  leggenda,  cronache,  storie,  laude,  inni,
misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran mistero dell'anima  o
dell'umanità, poema universale, dove si  riflettono  tutt'i  popoli  e  tutti  i
secoli che si chiamano il «medio evo».
        Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione
del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è  schietta  poesia.
La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità, e  vi
gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non  compiuto,  una
mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua crudità  scolastica,
ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha
troppo gran parte. Le sue figure  allegoriche  ricordano  talora  più  i  mostri
orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni  astratte,  anzi  che
persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente,  spesso
gli escono particolari estranei  alla  figura,  che  turbano  e  distraggono  il
lettore e gli rompono l'illusione. La presenza perenne di un  altro  senso,  che
aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando  a  quando,
ne turba la chiarezza e l'armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna  volta  in
rapporti lontani e sottili,  perde  la  sua  lucidità  e  riesce  intralciato  e
torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre,  dove
contrari elementi pugnano, non bene armonizzati.  Or  rozzo,  or  delicato.  Ora
poeta solenne, or popolare. Ora  perde  di  vista  il  vero  e  si  abbandona  a
sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità. Ora rozzo
cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze,  ora  di  mezzo  a
quelle fa germogliare la vita. Qui cade  in  puerilità,  là  spicca  il  volo  a
sopraumane  altezze.  Mentre  tien  dietro  a  un  sillogismo,  brilla  la  luce
dell'immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento. Talora  ti
trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro
tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia
ti fa stupire. Fu un  piccolo  mondo,  dove  si  rifletteva  tutta  l'esistenza,
com'era allora. I contrari elementi, che  fermentavano  in  una  società  ancora
nello stato di formazione, contendevano in lui. E senza che ne avesse coscienza.
Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo, pensa il regno  della
scienza e della virtù. Cristiano, contempla il regno di Dio.  Patriota,  sospira
al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta  luce  e
proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la
barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma il
poeta è inviluppato egli medesimo in quella  rozza  realtà  e  in  quelle  forme
discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la  serenità  dell'artista.  E  gli
esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte  realizzato,  ma  dove  pur
trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.
        Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e  interroghiamolo.
Perchè un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è
marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le  leggi  del  suo
sviluppo. La più grande qualità del genio è  d'intendere  il  suo  argomento,  e
diventare  esso,  risecando  da  sè  tutto  ciò  che  non  è   quello.   Bisogna
innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua  anima  o  la  sua  coscienza  E
parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con
lo stesso criterio la Commedia e l'Iliade e la  Gerusalemme
e il Furioso, dee studiare il  mondo  formato  dal  poeta,  interrogarlo,
indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica,  cioè  le
leggi organiche della sua formazione, il suo concetto,  la  sua  forma,  la  sua
genesi, il suo stile. Che cosa è l'altro mondo?
        È il problema dell'umana destinazione sciolto, è il  mistero  dell'anima
spiegato, è la fine della storia umana, il  mondo  perfetto  l'eterno  presente,
l'immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo non ci  è
più  libertà.  La  natura  è  predeterminata  e  fissata  secondo   una   logica
preconcetta, secondo l'idea morale. Reale e ideale diventano identici, apparenza
e sostanza è tutt'uno. L'uomo non ha  più  libero  arbitrio:  è  lì,  fissato  e
immobilizzato, come natura. Ogni azione è cessata; ogni  vincolo  che  lega  gli
uomini in terra, è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità,  costumi.  Non
c'è più successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto  e
manca il dramma. L'individuo scompare nel genere. Il carattere, la  personalità,
non ha modo di manifestarsi. Eterno  dolore,  eterna  gioia,  senza  eco,  senza
varietà, senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca  l'azione;
non ci è dramma, perchè manca la libertà; la lirica è  l'immutabile  e  monotona
espressione  di  una  sola  aria;  rimane   l'esistenza   nella   sua   immobile
estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.
        Che cosa è dunque  l'altro  mondo  per  rispetto  all'arte?  È  visione,
contemplazione, descrizione, una storia naturale.
        Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perchè ivi dentro
è rappresentata la commedia  o  redenzione  dell'anima  nel  suo  pellegrinaggio
dall'umano al divino, «di Fiorenza in  popol  giusto  e  sano».  Ci  hai  dunque
l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro  mondo,  i  cui  attori  sono
Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro,  san
Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è  la  Commedia
dell'anima. Dico apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce  non
dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla,  non  opera,  e  gli  altri
mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.
        Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e  delle  leggende,
divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti. Dante  lo  ha  realizzato,
gli ha dato l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo. E se il
suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in  lui,  ma  in  quel
mondo, dove l'uomo è natura  e  la  natura  è  scienza,  e  da  cui  è  sbandito
l'accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.
        Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe
chiuso entro e non sarebbe uscito da  quelle  forme  e  da  quell'allegoria.  Ma
Dante, entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni  de'  vivi,
si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un  simbolo  o  una  figura
allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella  quale
è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrattezze, con  le
sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua barbarie.
Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime  rinascono  per  un  istante,
risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in
seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel secolo.  Così
la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo  ed  eternità,  umano  e
divino; ed il poema soprannaturale diviene  umano  e  terreno,  con  la  propria
impronta  dell'uomo  e  del  tempo.  Riapparisce  la  natura   terrestre,   come
opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce l'accidente e il  tempo,  la
storia e la società nella sua vita esterna ed interiore;  spunta  la  tradizione
virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro  a
questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio  ottavo,
Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e  i  Donati,  la  nuova  e
l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua storia, le sue ire, i  suoi  odii,
le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.
        Così  la  vita  s'integra,  l'altro  mondo  esce  dalla  sua  astrazione
dottrinale e mistica, cielo e terra si  mescolano,  sintesi  vivente  di  questa
immensa comprensione Dante, spettatore,  attore  e  giudice.  La  vita  guardata
dall'altro mondo acquista nuove attitudini, sensazioni  e  impressioni.  L'altro
mondo guardato dalla terra veste le sue passioni  e  i  suoi  interessi.  E  n'è
uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo. Sono due
mondi onnipresenti, in reciprocanza d'azione, che si succedono, si  avvicendano,
s'incrociano, si compenetrano, si spiegano e s'illuminano a vicenda, in perpetuo
ritorno l'uno nell'altro. La  loro  unità  non  è  in  un  protagonista,  nè  in
un'azione, nè in un fine astratto ed estraneo alla materia, ma  è  nella  stessa
materia; unità interiore e impersonale, vivente indivisibile unità  organica,  i
cui momenti si succedono nello spirito del poeta, non come  meccanico  aggregato
di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi,  com'è
la vita. Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due  mondi,
materialmente distinti ma una cosa nell'unità della  coscienza.  Cielo  e  terra
sono termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro reale  ed  il  puro
ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo porta
seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti  gli
dei d'Olimpo: lo scettico può abolire l'inferno, non può  abolir  la  coscienza.
Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce,  in  seno  a
questa unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l'altro mondo
rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma  in  quelle
ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d'imprecazioni  terrene
fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini, con esso le loro passioni e vizi
e  virtù  rimangono  eterni,  come  statue,  in  quell'attitudine,   in   quella
espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti dall'artista;  ma
mentre l'altro mondo eterna la terra, trasportandola nel suo  seno  e  ponendole
dirimpetto l'immagine dell'infinito, ne scopre il vano e il  nulla:  gli  uomini
sono gli stessi in un diverso teatro, che è  la  loro  ironia.  Questa  unità  e
dualità uscente dall'imo stesso della situazione balena al di  fuori  nelle  più
varie forme, ora in un'apostrofe, ora in un discorso, ora in un  gesto,  ora  in
un'azione, ora nella natura, ora nell'uomo.  In  questa  unità  penetra  la  più
grande varietà, nè è facile trovare un lavoro artistico, in cui  il  limite  sia
così preciso e così largo. Niente è nell'argomento  che  costringa  il  poeta  a
preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale  azione:  tutta  la  storia,
tutti gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità, sono a sua  scelta;  e
può abbandonarsi a suo  talento  alle  sue  ire  e  alle  sue  opinioni,  e  può
intramettere nello  scopo  generale  fini  particolari,  senza  che  ne  scapiti
l'unità. Il che dà al suo universo compiuta realità  poetica,  veggendosi  nella
permanente unità tutto ciò che  sorge  e  dalla  libertà  dell'umana  persona  e
dall'accidente, e moversi con vario gioco  tutt'i  contrasti,  e  il  necessario
congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
        Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci  è
una situazione lirica, e non è lirica; ci  è  un  ordito  drammatico,  e  non  è
dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere  enciclopedie,
bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto, che  contiene  nel  suo
grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il  germe  di
ogni sviluppo ulteriore. Perciò  nessun  genere  di  poesia  vi  è  distinto  ed
esplicato: l'uno entra nell'altro, l'uno si compie nell'altro. Come i due  mondi
sono in modo immedesimati, che non puoi dire: - Qui è l'uno, e qui è l'altro  -;
così i diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno può  segnare  i  confini
che li dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e questo è drammatico.
-
        È il  contenuto  universale,  di  cui  tutte  le  poesie  non  sono  che
frammenti,  il  «poema  sacro»,  l'eterna  geometria  e  l'eterna  logica  della
creazione incarnata ne' tre mondi cristiani: la città di Dio, dove  si  riflette
la città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo  e  del  tal  tempo;  la
sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte
le passioni umane.
        L'idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è
il concetto di salvazione,  la  via  che  conduce  l'anima  dal  male  al  bene,
dall'errore al vero, dall'anarchia alla legge,  dal  molteplice  all'uno.  È  il
concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita alla pluralità pagana.
Questo concetto, se fosse solo un  di  fuori,  spiegato  nella  sua  astrattezza
dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato, non
basterebbe a generare un'opera d'arte. Ma qui è non solo il di fuori, ma  il  di
dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo opera di  filosofo  e
di critico, ma principio attivo, com'è nell'uomo e nella natura, che  costruisce
e forma quel mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo,
se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene,  o  la  virtù  o  la
legge, come realtà viva e operosa è lo spirito, che  ha  per  suo  contrario  la
materia o la carne, dove sta come in una prigione o in un «vasello», da  cui  si
sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo  spirito
e la carne, tra Dio e il demonio. E la sua  storia  è  la  progressiva  vittoria
dello spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il
suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio,  assoluto
spirito, la Verità, la Bontà, l'Unità, l'ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo
spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la  progressiva  dissoluzione
delle forme, un costante  salire  di  carne  a  spirito,  l'emancipazione  della
materia e del senso mediante l'espiazione e il  dolore,  la  collisione  tra  il
satanico e il divino, l'inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero  trasporta
gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell'altro  mondo
e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono
ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra
stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione;  il  reale,  il
presente è l'infinito spirito; tutto l'altro è «vanità che par persona».  Questo
assottigliamento  è  progressivo:  il  velo  si  fa  sempre   più   trasparente.
L'Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del  peccato;
il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica  i
caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell'altro mondo e
s'immobilizza in quelle anime  incapaci  di  pentimento:  peccato  eterno,  pena
eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce
dell'intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si
studia di cacciar via, e lo spirito  sciogliendosi  dal  corporeo  si  avvia  al
compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel  Paradiso  l'umana  persona
scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e
più questa gloriosa trasfigurazione s'idealizza, insino a  che  al  cospetto  di
Dio, dell'assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:

        ... ... tutta cessa
        mia visione e ancor mi distilla
        nel cor lo dolce che nacque da essa.
        Così la neve al sol si disigilla;
        così al vento nelle foglie lievi
        si perdea la sentenzia di Sibilla.

Questo concetto  comprende  tutto  lo  scibile  e  tutta  la  storia;  non  solo
costruisce e sviluppa il mondo  dantesco,  ma  lo  incontrate  sempre  vivo  nel
cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte le forme,  in  tutte  le
quistioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia,  in  politica,
in morale, e così si concreta e compie in  tutti  gl'indirizzi  della  vita.  In
religione è il cammino dalla lettera allo spirito,  dal  simbolo  all'idea,  dal
vecchio al nuovo Testamento; nella scienza  dall'ignoranza  e  dall'errore  alla
ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal male al bene,  dall'odio
all'amore,  mediante  l'espiazione;   in   politica   dall'anarchia   all'unità.
Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia: il  tale  uomo,
il tale popolo, il tale secolo. In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il
papato, che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre
al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della
verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni,  le  discordie,  le
colpe e i vizi della  barbara  età,  dalle  quali  vi  sentite  a  poco  a  poco
allontanare nel vostro cammino verso il  sommo  bene;  in  politica  è  l'Italia
anarchica e sanguinosa che il  poeta  aspira  a  comporre  a  pace  e  concordia
nell'unità dell'impero. Così un solo concetto penetra il tutto, come forma, come
pensiero e come storia. Mai più vasta e concorde comprensione non era uscita  da
mente di uomo. Alcuni  ci  vedono  dentro  l'altro  mondo,  e  il  resto  è  una
intrusione  e  quasi  una  profanazione;  Edgardo  Quinet  rimane  choqué
veggendo come le passioni del poeta lo inseguono  fino  in  paradiso;  altri  ci
veggono un mondo politico, di cui quello sia la rappresentazione  sotto  figura.
Chiamano questo poema o «religioso», o «politico», o «didascalico», o  «morale»,
lo riducono a querele  di  cattolici  e  protestanti,  a  dispute  di  guelfi  e
ghibellini. Guardano non dall'alto del monte, dalla pianura, e prendono  per  il
tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro  cammino.  Ciascuno  si
fabbrica un piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante. - E il mondo  di
Dante contiene tutti quei mondi in sè. È  il  mondo  universale  del  medio  evo
realizzato dall'arte.

        Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre
mondi, de' quali l'inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne
e spirito, odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio:  tre
mondi, de' quali la letteratura non offriva che povere e  rozze  indicazioni,  e
che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.
        L'inferno è il regno del male, la morte dell'anima e  il  dominio  della
carne, il caos: esteticamente è il brutto.
        Dicesi  che  il  brutto  non  sia  materia  d'arte,  e  che  l'arte  sia
rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò  che  vive,  e  niente  è  nella
natura che non possa esser nell'arte. Non  è  arte  quello  solo  che  ha  forma
difettiva o in sè contraddittoria, cioè l'informe o il deforme o il difforme:  e
perciò non è arte il confuso, l'incoerente,  il  dissonante,  il  manierato,  il
concettoso, l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare: tutto  questo
non è vivo, è abbozzo o aborto di artisti impotenti. L'altro, bello o brutto che
si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.
        In natura il brutto è la materia  abbandonata  a'  suoi  istinti,  senza
freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla  coscienza  morale  e  al
senso estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato  se
stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu sei brutto. - Più il
suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda,
più lo vede  vivo  e  vero  innanzi  alla  immaginazione.  Perciò  non  pensa  a
palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in evidenza e lo ritrae  co'
suoi propri colori.
        Il brutto è elemento  necessario  così  nella  natura,  come  nell'arte;
perchè la vita è generata appunto da questa contraddizione  tra  il  vero  e  il
falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la
vita si cristallizza. Verità  così  palpabile  che  le  immaginazioni  primitive
posero della vita due princìpi attivi, il bene e il male, l'amore e l'odio,  Dio
e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi  concezioni  poetiche.
Perciò il brutto, così nella natura, come nell'arte, ci sta con lo stesso dritto
che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione  che  scoppia
nell'anima del poeta. Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso  e  il
suo contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha  vita  più  ricca,
più feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque  maraviglia  che  il  brutto
riesca spesso nell'arte più  interessante  e  più  poetico.  Mefistofele  è  più
interessante di Fausto, e l'inferno è più poetico del paradiso.
        Dante concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima,  abbandonata
alle sue forze naturali, passioni,  voglie,  istinti,  desidèri,  non  governati
dalla ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di
uomo offeso nel suo senso morale:

        ... ... le genti dolorose,
        che hanno perduto il ben dell'intelletto...
        Che libito fe' licito in sua legge...
        Che la ragion sommettono al talento...

L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice  in  vita,
peccatrice ancor nell'inferno, salvo che qui il peccato è non in  fatto,  ma  in
desiderio. Onde nell'inferno la vita terrena è riprodotta tal quale, essendo  il
peccato ancor vivo e la terra ancora presente al dannato. Il che dà  all'inferno
una vita piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri  due  mondi
diviene povera e monotona. Gli è come un andare  dall'individuo  alla  specie  e
dalla specie al genere. Più ci avanziamo, e  più  l'individuo  si  scarna  e  si
generalizza. Questa è certo perfezione cristiana e morale, ma non  è  perfezione
artistica. L'arte  come  la  natura  è  generatrice,  e  le  sue  creature  sono
individui, non specie o generi, non  tipi  o  esemplari;  sono  res,  non
species rerum, Perciò l'inferno ha una vita più ricca e piena, ed  è  de'
tre mondi il più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta  dal
poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui  si  trova,  essendo  essa  la
rappresentazione epica della barbarie, nella quale il rigoglio della passione  e
la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stesso è un barbaro, un
eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo,  appassionatissimo,  libera  ed  energica
natura. Al contrario la vita negli  altri  due  mondi  non  ha  riscontro  nella
realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall'astratto del dovere e del concetto, e
ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.
        Essendo l'inferno il regno del male o  della  materia  in  se  stessa  e
ribelle allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo  è  un
successivo oscurarsi dello spirito, insino alla  sua  estinzione,  alla  materia
assoluta.
        Il suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva di  personalità
e di volontà, il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno. In  questo
ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perchè non  è  forza  operante:
qui non è ancora inferno,  ma  il  preinferno,  il  preludio  di  esso.  Ma  se,
moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala  de'
dannati e paiono a Dante «sciaurati»  più  che  peccatori,  il  concetto  morale
rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare  i  dannati.  Altri
sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell'inferno,
la poesia li pone più giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima più di  questi
mezzi uomini. E la poesia è d'accordo con la tempra energica del  gran  poeta  e
de' suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima  e  corpo  questi
esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più  alto  dispregio.  E  il
dispregio fa trovare a Dante  frasi  roventi.  Sono  uomini  che  vissero  senza
infamia e senza lode», anzi «non fur  mai  vivi».  La  loro  pena  è  di  essere
stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo  alcuno  nel  mondo.  La
pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza  morale,  sono  così  vinti  nel
«duolo», che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l'aria

come la rena quando il turbo spira.

A' loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba infinita, senza  nome:  appena
accenna ad un solo, e senza nominarlo,

colui che fece per viltate il gran rifiuto

Il loro supplizio è la coscienza della  loro  viltà,  il  sentirsi  dispregiati,
cacciati dal cielo e dall'inferno. Ritratto immortale e  popolarissimo,  di  cui
alcuni  tratti  sono  rimasti  proverbiali.  Esseri  poetici,   appunto   perchè
assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita:  onde  nasce  il
sublime negativo degli ultimi tre versi:

        Fama di loro il mondo esser non lassa:
        Misericordia e Giustizia gli sdegna.
        Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.

Se i negligenti non sono nell'inferno, perchè mancò loro la forza del bene e del
male, gl'innocenti e i virtuosi non battezzati  non  sono  in  paradiso,  perchè
mancò loro la fede, sono nel Limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta per
memoria, per semplice classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da
altri criteri. Il valore poetico dell'uomo non è nella sua moralità e nella  sua
fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza, il  personaggio
poetico. Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo,
la negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la  mancanza
di fede è un semplice accessorio, e l'interesse è tutto  nel  valore  intrinseco
dell'uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e  dà
ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma per la  fama  che
loro acquistò in terra la grandezza dell'ingegno e delle opere:

        ... ... L'onrata nominanza
        che di lor suona su nel vostro mondo,
        grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.

Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa  poeta  con  Dante  e  gli
fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini illustri. E chi vuol trovare  le
impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio della storia e della
coltura antica, e le impressioni che  ne  dovettero  ricevere  i  contemporanei,
ricordi le sue impressioni quando giovinetto su'  banchi  della  scuola  gli  si
affacciavano le maraviglie di  questo  mondo  greco-latino.  Aristotile,  Omero,
Virgilio, Cesare,  Bruto,  ciascuno  di  questi  nomi,  quante  memorie,  quante
fantasie  suscitava!  Nudo  è  qui  un  elenco  di  nomi   tra   alcuni   tratti
caratteristici che segnano i protagonisti, il «signore dell'altissimo  canto»  e
il «maestro di color che sanno». E colui, che a quella vista si sente «esaltare»
in se stesso e s'incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de'
tempi nuovi, «sesto tra cotanto senno», è non  il  Dante  dell'altro  mondo,  ma
Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo così interessante,  come  il  mondo
de' negligenti, due concezioni originalissime, uscite da un profondo  sentimento
della vita reale e rimaste freschissime ne' secoli.  Molti  tratti  sono  ancora
oggi in bocca del popolo.
        Come l'inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto  undecimo  il
poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è
partito in tre mondi, rispondenti alle tre  grandi  categorie  del  delitto:  la
incontinenza e violenza, la malizia, e la  fredda  premeditazione.  Ciascuna  di
queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi.  Il  concetto
etico di questa scala de' delitti è che dove è  più  ingiuria  è  più  colpa,  e
l'ingiuria non è tanto nel fatto, quanto nell'intenzione. Perciò la malizia e la
frode è più colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda  premeditazione
de' traditori  è  più  colpevole  della  malizia.  Indi  la  storica  evoluzione
dell'inferno, dove da' meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla  città  di
Dite, sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di  là  nel  pozzo  de'
traditori. Questo è l'inferno scientifico o etico. Ma  non  è  ancora  l'inferno
poetico.
        La poesia dee voltare questo  mondo  intellettuale  in  natura  vivente.
L'ordine scientifico presenta una serie di concetti  astratti,  il  poetico  una
serie di figure, di fatti e d'individui: il  primo  una  serie  di  delitti,  il
secondo una serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e  tali  individui.
Dividere in categorie significa considerare in un gruppo d'individui non  quello
che ciascuno ha di proprio, ma  quello  che  ha  di  comune  col  gruppo  a  cui
appartiene. Così una classificazione è possibile, una esatta riduzione a  generi
e specie. Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera  personalità,  e  lo
considera non come essere morale, ma come forza viva e operante. E più in lui  è
vita, più è poesia. Perciò, se l'inferno, come  mondo  etico,  è  il  successivo
incattivirsi dello spirito, sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale,
succede  la  malizia,  «male  proprio  dell'uomo»,  e  alla  malizia  la  fredda
premeditazione, questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che  alla
sola classificazione. Come natura vivente o come forma,  l'inferno  è  la  morte
progressiva della natura, la vita e il moto che manca a poco a  poco  sino  alla
compiuta immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la  vita  muore
la poesia. Indi la storia dell'inferno.
        Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la  vita
si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la  passione  raccoglie  tutte  le
forze interiori,  distratte  e  sparpagliate  nell'uso  quotidiano  della  vita,
intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della  sua
libertà infinita. Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal  fatto,  la  sua
forza è infinita e non può esser vinta neppure da  Dio,  non  potendo  Dio  fare
ch'esso non creda, non senta e non voglia quello che crede, sente e  vuole.  Non
vi è donnicciuola, così vile, che non si senta forza infinita, quando è  stretta
dalla passione. - Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io  ti
amerò, e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso. - Queste sono  le
eloquenti bestemmie che traboccano da  un  cuore  appassionato,  e  che  rendono
eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.
continua
www.tuttonet.com - hits exchange
Alert Me When This Page Changes:
Powered by changeAlarm
Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
copyright © 2004 www.astalalista.tk
This page is powered by Copyright Button(TM).
Click here to read how this page is protected by copyright laws.


All logos and trademarks in this site are property of their respective owner.

Manda qualunque
commento al

Webmaster


Free-Banners

KingsClick Sponsor - Click Here
KingsClick-Your Website Deserves to be King