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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana

        Ma quando la passione vuole realizzarsi, s'intoppa in un altro infinito,
nell'ordine generale delle cose, di cui si sente parte e  innanzi  a  cui  è  un
fragile individuo. E n'esce la tragica collisione tra la  passione  e  il  fato,
l'uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione, nè il fato sono nella  loro
purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato  talora  è  il
caso, o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani  in  cui
intoppa il protagonista. Ma nell'inferno l'anima è isolata dal fatto ed  è  pura
passione e puro carattere, perciò inviolabile e onnipotente, e il  fato  è  Dio,
come eterna giustizia e legge morale: onde  la  prima  parte  dell'inferno,  ove
incontinenti e violenti, esseri  tragici  e  appassionati,  mantengono  la  loro
passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie,  l'eterna  collisione
nelle sue epiche proporzioni.
        Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La  natura
infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la
rendono un sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le tenebre. L'eterno è
sublime, perchè ti mostra un di là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci
avvicini; la disperazione è sublime, perchè ti mostra un fine  non  possibile  a
raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento  della
forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la  morte,
il male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell'inferno.  Ne'  primi  tre
versi è l'eterno immobile che ripete se stesso, dolore, dolore  e  dolore,  quel
luogo, quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in  ultimo
l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:

        Lasciate ogni speranza voi che entrate.

La luce, il «dolce lome», rende sublimi le  tenebre,  morte  del  sole  e  delle
stelle e dell'occhio, come è «l'aer senza stelle», e il «loco d'ogni luce muto»,
e quel «ficcar lo  viso  al  fondo»  e  «non  discernere  alcuna  cosa».  Certo,
l'eternità,  le  tenebre  e  la  disperazione  sono  caratteri  comuni  a  tutto
l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando l'inferno si affaccia  per  la  prima
volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime  impressioni.
Appresso, diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.
        E Dante,  che  parte  da  princìpi  preconcetti  nelle  sue  costruzioni
scientifiche, quando è tutto nel realizzare e formare i suoi  mondi,  opera  con
piena spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è  il  primo
apparire dell'inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede  il
poeta esaltato, turbato dalla sua visione,  assediato  di  forme,  di  fantasmi,
impazienti di venire alla luce! In quel «diverse voci, orribili  favelle»  ecc.,
non ci è solo il grido de' negligenti: ci è lì tutto l'inferno, che manda il suo
primo grido. Quel  canto  del  sublime  è  una  sola  nota  musicale  variamente
graduata, è l'eterno, il tenebroso, il terribile, l'infinito  dell'inferno,  che
invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori della prima impressione, è
il vero canto del regno de' morti, della «morta gente», è l'albero  della  vita,
che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che  fa,  e  ne  toglie  la
speranza:

        Lasciate ogni speranza voi che entrate.

E ne toglie le stelle:

        risonavan per l'aer senza stelle.

E ne toglie il tempo:

        facevano un tumulto il qual s'aggira
        sempre in quell'aria senza tempo tinta.

E ne toglie il cielo:

        non isperate mai veder lo cielo.

E ne toglie Dio:

        ch'hanno perduto il ben dello intelletto.

Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza contorni,  cerchio,  loco,
null'altro: la diresti natura vuota, se  non  la  riempissero  l'eternità  e  le
tenebre e la morte e la disperazione. Nel regno de' violenti prende  una  forma.
Si esce dal sublime: si entra nel bello  negativo.  Incontri  tutto  ciò  che  è
figura, ordine, regolarità, proporzione in terra;  anzi  con  vocabolo  umano  è
chiamata città, la città di Dite.  Vedi  selve,  laghi,  sepolcri;  e  l'effetto
poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii
che la rendono bella in terra.

        Non frondi verdi, ma di color fosco:
        non rami schietti, ma nodosi e involti
        non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.

La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della  sua  luce,  delle  sue
speranze, è un sublime che ti gitta nell'animo il terrore; la  natura  spogliata
della sua bellezza è un bello negativo pieno di strazio e di  malinconia.  È  la
natura snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtù se n'è ita  la
bellezza, sua faccia.
        Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle  pene.  Perchè
il concetto nella natura sta immobile come nell'architettura e  nella  scultura;
dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le  pene  sono
la coscienza fatta materia, e qui  esprimono  la  violenza  della  passione.  In
quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio, «come fa mar per  tempesta»,  e
il rovescio della grandine, e il  cozzo  delle  moltitudini:  moti  disordinati,
violenti, come i moti dell'animo. Vedi tombe ardenti, laghi  di  sangue,  alberi
che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani
accozzamenti producono l'effetto  del  maraviglioso  e  del  fantastico,  ma  il
fantastico è presto vinto e ti piglia  il  raccapriccio  e  l'orrore.  Il  poeta
prende in troppa serietà il  suo  mondo  per  darsi  uno  spasso  di  artista  e
sorprenderti con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol  fare  effetto  sulla
tua immaginazione, vuol colpire la tua  coscienza.  Dove  il  fantastico  è  più
sviluppato, è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione, e
la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.
        Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima. Un
primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e  inferno  sono  stati  sempre
popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l'intervallo tra l'uomo
e Dio, tra l'uomo e Satana. È la storia del bene e  del  male  che  si  sviluppa
nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di
forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno per base i diversi gradi
del male, e per forma il gigantesco  e  il  mostruoso,  il  puro  terrestre,  il
bestiale giunto all'umano, e spesso  preponderante,  come  nella  sfinge,  nella
chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha  più  la  sua  storia,  come  in
terra, spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle  e  rivale  di  Dio.  Qui  è
immobilizzato come l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli  resta?  Soffrire  e
far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del
peccato  che  flagella  nell'uomo.  Il  Satana  di  Milton  e  Mefistofele,  che
combattono contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone poetiche. Altra  è
qui la situazione, e altro è il demonio. Esso è il vinto  di  Dio,  e  meno  che
uomo, perchè non è dell'uomo che una sua parte sola,  il  peccato.  È  piuttosto
tipo, specie, simbolo, che persona. È il più basso  gradino  nella  scala  degli
esseri spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale, in cui  l'intelletto  è
ancora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa,
ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non  intelligenza,
non volontà. Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è tragico  e  serio:  è
azione mimica e tutta esterna, passione tradotta  in  moti  e  gesti,  senza  la
parola, salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e colore: qui la figura
si muove e il colore si anima, è la figura in azione.  Il  poeta  ha  scossa  la
polvere dalle antiche forme  pagane,  e  le  ha  rifatte  e  rinnovate.  Come  a
costruire il suo inferno toglie alla terra le  sue  forme,  e  strappandole  dal
circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura; così
ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache,  Minos
Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e  le  trasporta  nel  suo
inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione,
e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la  sua  religione.
Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in cui vien fuori l'apparenza di un
carattere: impaziente rissoso, manesco, che grida e batte. Il  poeta  si  è  ben
guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte
rimane severa e grave, e  non  fa  dissonanza  con  la  solennità  della  natura
infernale, dove si trova collocata. Minos è il giudizio  rappresentato  in  modo
affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:

        dicono e odono e poi son giù vòlte.

Le altre figure sono schizzi, appena  disegnati;  ingegnoso  è  il  ritratto  di
Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave dell'Ariosto.
        Noi concepiamo  oramai  la  costruzione  de'  singoli  canti.  Il  poeta
comincia col porci innanzi la natura del luogo  e  la  qualità  della  pena;  il
demonio ora precede, ora vien subito dopo; poi vedi peccatori  presi  insieme  e
misti, non ancora l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di  mezzo  a'  quali
spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.
        I gruppi sono  l'espressione  generale  del  sentimento  che  riempie  i
peccatori nella società infernale; sono la parentela  del  delitto,  dove  trovi
nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino  e  Attila  e  gli  assassini  di
strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
        Come nella natura e nel demonio, così ne' gruppi  l'aspetto  è  dapprima
severo e tragico. Essi esprimono  il  sublime  dello  spirito  la  disperazione.
L'uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui  tenda;  al  pensiero
succede pensiero; il cuore  vive  quando  da  sentimento  germoglia  sentimento;
l'uomo vive quando è  in  un'onda  assidua  di  pensieri  e  di  sentimenti;  la
disperazione è l'annullamento della vita morale, la stagnazione del  pensiero  e
del sentimento, la morte, il nulla,  il  caos,  le  tenebre  dello  spirito,  un
sublime negativo. Come il sublime delle tenebre  è  nella  luce  che  muore,  il
sublime della disperazione è nella morte della speranza:

        nulla speranza gli conforta mai
        non che di posa, ma di minor pena.

L'espressione estetica della disperazione  è  la  bestemmia,  violenta  reazione
dell'anima, innanzi a cui tutto muore, e  che  nel  suo  annichilamento  involge
l'universo:

        Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
        l'umana specie e il luogo e il tempo e 'l seme
        di lor semenza e di lor nascimenti.

La passione trasforma la faccia dell'uomo, abitualmente tranquilla,  il  peccato
gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi:  momento  fuggevole  che  Dante
coglie e rende eterno ne' suoi  gruppi.  Gli  avari  stanno  col  pugno  chiuso,
gl'irosi si lacerano le membra: violenza di moti appassionati,  niente  che  sia
basso o vile: puoi abborrirli, non puoi disprezzarli.
        Immaginate  una  piramide.  Nella  larghissima  base  vedete  la  natura
infernale. Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana,  bestia  talora
in tutto, mai in tutto uomo. Alzate  ancora  l'occhio,  e  vedete  gruppi  nella
violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa  e  si  spiritualizza,
insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l'individuo
libero, l'idea nella sua individuale realtà, e più che l'idea, se  stesso  nella
sua libertà. È di mezzo a quella folla confusa, a  quei  gruppi,  che  escono  i
grandi uomini dell'inferno o piuttosto della terra; è da  questa  triplice  base
dell'eternità che esce fuori il tempo e la storia e l'Italia  e  più  che  altri
Dante come uomo e come cittadino.

        L'inferno degl'incontinenti e de'  violenti  è  il  regno  delle  grandi
figure poetiche. Qui trovi come in una galleria di personaggi eroici  Francesca,
Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne,  Brunetto  Latini,  Capaneo,  Dante,  il
Fato, Dio e la Fortuna. Sono in  presenza  forze  colossali,  la  energia  della
passione e la serenità del fato. Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo,
là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti
percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba; ora ti  stupisce
Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove. Su questo fondo
tragico s'innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta  la  ricchezza
delle sue facoltà. Qui usciamo  dalle  astrattezze  mistiche  e  scolastiche,  e
prendiamo possesso della realtà. La donna non è più Beatrice, il tipo realizzato
de' trovatori, fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui acquista carattere,
storia, passioni, una ricca e vivace personalità,  è  Francesca  da  Rimini,  la
prima donna del mondo moderno. L'uomo non è più il santo con le sue estasi e  le
sue visioni; qui ha la sua patria, il  suo  uffizio,  il  suo  partito,  la  sua
famiglia, le sue passioni e il  suo  carattere;  è  Farinata,  è  Cavalcanti,  è
Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri, alla cui fiera natura  Virgilio
applaude:

        ... ... Alma sdegnosa,
        benedetta colei che in te s'incinse!

L'inferno dà loro una realtà  più  energica,  creando  nuove  immagini  e  nuovi
colori. Pier delle Vigne giura «per  le  nuove  radici  del  suo  legno».
Farinata dice:

        ciò mi tormenta più che questo letto.

All'annunzio della morte del figlio, Cavalcanti

        supin ricadde e più non parve fuora.

Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel  quale  si  sente  vivere  ancora.
Capaneo può dire: «Qual i' fui vivo, tal son  morto».  E  Francesca  ricorda  il
tempo felice nella miseria. L'inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono
col petto e con la fronte, affermando la  loro  umanità.  Nascono  situazioni  e
forme novissime, che danno rilievo alle figure e a' sentimenti.
        Questo mondo tragico, dove l'impeto della passione  e  la  violenza  del
carattere mette in  gioco  tutte  le  forze  della  vita,  ha  la  sua  perfetta
espressione in questi grandi individui, rimasti così vivi e giovani e  popolari,
come Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia,  della  epopea  e  della
tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e  la
rena che s'infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che
fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo i tragici demòni  dell'antichità,  i
centauri e le arpie, e incontriamo diavoli con le corna e armati  di  frusta,  e
vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè le
terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo  che  vediamo  ha  gli
occhi bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante, così riverente e pietoso finora e
anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la  prima  volta  il
labbro ad un sorriso sardonico. Chiama «salse pungenti» quel letamaio,

che dagli uman privati parea mosso

. Un altro lo sgrida:

        ... ... «Perchè se' tu sì ingordo
        di riguardar più me che gli altri brutti?»

E Dante, che lo vede col capo lordo tanto che non parea «s'era laico o  cherco»,
gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra co' capelli asciutti. E quegli
esprime il suo dolore, «battendosi la zucca». Tutto è mutato: natura, demonio  e
uomo, immagini e stile. Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono  questi  uomini?  Sono
adulatori e meretrici dannati alla stessa pena:  gli  uni  vendono  l'anima,  le
altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro  mondo,  nel  mondo
de' fraudolenti.
         Esteticamente,  il  mondo  de'  fraudolenti  è  la  prosa  della  vita;
precipitata dal suo piedistallo ideale, e divenuta volgarità. È la passione  che
si muta in vizio, il carattere che  diviene  abitudine,  la  forza  che  diviene
malizia. La passione è poetica, perchè ha virtù  di  concitare  tutte  le  forze
dell'anima, sì ch'elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è  la  passione
fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare perchè  si  è  fatto;  è
l'artista divenuto  artefice,  l'arte  divenuta  mestiere.  L'uomo  appassionato
spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se stesso, ma nel vizioso l'anima è
sonnolenta, la sua azione è stupida materia, atto meccanico  a  cui  lo  spirito
rimane estraneo. La passione produce il carattere, la forte volontà,  che  è  la
stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e  bassezza
dell'anima, non essendo altro la bassezza che l'abdicazione e l'apostasia  della
propria anima. I grandi caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza,
impetuosi fino all'imprudenza, semplici fino alla credulità; gli  animi  fiacchi
hanno  a  loro  istrumento  la  malizia,  coscienza  della  loro  impotenza,  e,
pipistrelli notturni, assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.
        In questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato è il di dentro,  ove
non trovi più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza  e  malizia,  lo  spirito
oscurato  e  materializzato,  la  dissoluzione  della  vita.   A   quei   cerchi
indeterminati, a quella città rosseggiante  di  Dite,  nomi  e  figure  terrene,
succede un non so che, una cosa senza nome, che il  poeta  chiama  bizzarramente
«Malebolge», una natura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili
che fanno da ponticelli, e giù valloni paludosi, dove le acque finora  impetuose
e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che
stringendosi più e più vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in  rovina  e
in putrefazione. Al demonio mitologico iroso e appassionato succede  il  diavolo
cornuto, essere grottesco, o piuttosto i diavoli  che  vanno  in  frotte,  e  si
mescolano in ignobili parlari con la gente più  abbietta,  e  canzonano  e  sono
canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere e
delle grandini e delle fiamme  succede  la  materia  in  decomposizione,  quanti
strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante malattie ti offre
lo spedale. Tali la natura, il demonio, le pene.  Vedi  ora  l'uomo.  La  faccia
umana  è  rimasta  finora  inviolata:  innanzi  all'immaginazione  la   passione
invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima pare nella  faccia
dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana  sparisce:
hai caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca, capo in giù,
piedi in su; vólti travolti in su le spalle, sì che il pianto scende giù per  le
reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e incappucciati;  musi  umani  fuor  della
pegola a modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri  marciti  e
imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa  figura  umana  deturpata  e
contraffatta l'immagine più viva è Bertram  dal  Bormio,  il  cui  busto  si  fa
lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo mondo prosaico  e
plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero  la
parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: - Costoro sono
uomini o bestie? - Non sono ancora bestie, e l'uomo già muore in loro:

        che non è nero ancora e il bianco muore.

Sono figure miste in una  faccia  tra  bestiale  e  umana;  e  la  più  profonda
concezione di Malebolge è questa trasformazione  dell'uomo  in  bestia  e  della
bestia in uomo: hanno l'appetito e l'istinto della bestia,  hanno  la  coscienza
dell'uomo. Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena, nella coscienza umana
che loro è rimasta.
        La forma estetica di questo mondo è la  commedia,  rappresentazione  de'
difetti e de' vizi. Fra tanta  fiacchezza  della  personalità  il  grande  uomo,
l'individuo, è gittato nell'ombra, e  vien  su  il  descrittivo,  l'esteriorità.
Nell'inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l'interesse principale
è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto, visto  da  lontano.
Virgilio dice a Dante: - Vedi là Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. - Appena è  se
qualche epiteto ti segna in fronte alcuno de' più grandi personaggi, come si  fa
di Giasone:

        e per dolor non par lacrima spanda.

Prima dite: «Il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini»  ;  ora
dite: «Il canto de' ladri, de' falsari, de' truffatori»:  vi  sono  gruppi,  non
individui; vi è il descrittivo, manca il drammatico. Manca  la  grandezza  negli
attori, e manca la pietà negli spettatori. La figura umana così  torta,  che  il
pianto degli occhi bagnava le natiche, cava a Dante lacrime; l'«homo sum»
si sente colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:

        Ancor sei tu degli altri sciocchi?
        Qui vive la pietà, quand'è ben morta.

Abbonda il descrittivo; l'immaginazione di Dante è così robusta,  che  avendo  a
fare con oggetti così fuori della natura, non che sentirsi impacciata, pare  che
scherzi: con tanta  facilità  e  spontaneità  esprime  le  più  varie  e  strane
attitudini: la fiamma parla come lingua d'uomo, le zanche piangono e fremono. Il
più grande sforzo dell'immaginazione umana è  la  trasformazione  di  uomini  in
bestie, nel canto ventesimoquinto,  quantunque  la  soverchia  minutezza  generi
sazietà.
        Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa  con
più chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo  concetto
è lo spirito che varca il limite  assegnatogli.  Se  la  ragione  potesse  veder
tutto,

        mestier non era partorir Maria.

L'esperienza avea le sue colonne d'Ercole; la ragione avea pure le sue  colonne.
Questo concetto qui è serio, non è sublime, nè tragico; perchè l'uomo,  che  con
la temerità oraziana sforza la natura, è qui non dirimpetto a Dio come  Prometeo
e Capaneo,  ma  colpito  e  soggiogato,  senza  che  in  lui  paia  vestigio  di
ribellione, di orgoglio e di violenza:

        ... ... Dove rui,
        Anfiarao? perchè lasci la guerra?
        E non restò di rovinare a valle,
        fino a Minòs che ciascheduno afferra.

L'uomo di Orazio è sublime, perchè lo vedi nell'opera, senti in lui  la  voluttà
del frutto proibito, malgrado Dio e la natura. Anfiarao è un puro nome;  sublime
di terrore  è  quel  suo  precipitare  a  valle,  mostrandocelo  successivamente
inabissarsi, ma il grottesco vien subito dopo:

        Mira che ha fatto petto delle spalle:
        perchè volle veder troppo davante,
        di rietro guarda e fa ritroso calle.

Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di
Dio, «come a lui piacque». Pure un po' dell'audacia di Ulisse è ancora in Dante,
che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa  sentire  quell'ardente  curiosità
del sapere che invadeva i contemporanei. Ti  par  di  assistere  al  viaggio  di
Colombo. Il peccato diviene virtù. Se  la  logica  ghibellina  pone  in  inferno
l'autore dell'agguato contro Troia, radice dell'impero sacro romano,  la  poesia
alza una statua a questo precursore di Colombo, che  indica  col  braccio  nuovi
mari e nuovi mondi, e dice a' compagni:

        Considerate la vostra semenza:
        fatti non foste a viver come bruti,
        ma per seguir virtute e conoscenza.

Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge. È una piramide piantata in  mezzo
al fango. Il comico  penetra  da  tutt'i  lati,  traendosi  appresso  il  lordo,
l'osceno,  il  disgustoso:  lo  spirito,  divenuto  malizia,  è  qui   decaduto,
degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la  sua
malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle  fiamme.  Siamo  in  un  mondo
comico.
        La regina delle forme comiche è la caricatura,  il  difetto  colto  come
immagine e idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente
e brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto, a  quel  modo  che  si
vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici.  I  dannati
di Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli
nel canto ventesimosecondo, rissosi, abietti, vanitosi,  bassamente  feroci  ne'
loro atti. Così sono i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui il  vizio
è così connaturato, che non se ne accorge più. Tale è Nicolò terzo vano del  suo
papale ammanto, che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder lui.  Tali
sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano  nella  loro  naturalezza,  e
possono essere rappresentati  nella  forma  diretta  e  immediata,  isolando  il
difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello, l'immagine
opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente:  qui
è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo della più bassa
lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco,
l'infimo  grado  del  comico.  Quest'uomo,  così  possente  creatore  d'immagini
nell'inferno tragico, qui si sente arido,  freddo,  in  un  mondo  non  suo.  Le
situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non  è  artistico,
non ha la sua immagine che è la caricatura, nè la sua impressione che è il riso.
Due persone in  rissa  cadono  in  un  lago  d'acqua  bollente  che  li  divide.
Situazione comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:

        Lo caldo sghermidor subito fue.

Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo.  Non
ha saputo cogliere quel movimento, quella smorfia che fanno  quando  si  sentono
scottare e si sciolgono. La pancia di mastro Adamo, che sotto il pugno di Sinone
«sonò come fosse un tamburo», è una felice caricatura;  ma  è  una  freddura  il
dire:

        e mastro Adamo gli percosse 'l volto
        col pugno suo che non parve men duro.

Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi più comici non fanno  ridere.
Perchè a fare la caricatura bisogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico,
spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello. Dante non  ha  questo
sublime obblio comico, non ha indulgenza, nè amabilità. Teme  di  sporcarsi  tra
quella gente, e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci  sta,  se  ne
scusa:

        Ahi fera compagnia! Ma in chiesa
        coi santi e in taverna coi ghiottoni.

Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno;  e  spesso  nella
mano la sferza gli si muta in pugnale.
        Il riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo  vizio,
e non che sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il  suo  piedistallo.
Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è  lui  stesso  il  suo  proprio
artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona  e
se ne fa un'aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire:  -
Miratemi -; più acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela  il  suo
vizio e non  arrossisce;  il  rossore  è  proprio  della  faccia  umana.  L'uomo
consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra,  rinuncia  alla  faccia
umana e dicesi «sfacciato» o «sfrontato». Qui la caricatura uccide se stessa, il
comico giunto alla sua ultima punta si  scioglie;  e  n'esce  un  sentimento  di
supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria  abbiezione
predicata e portata in trionfo aggiunge al  disgusto  un  sentimento  che  tocca
quasi l'orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe  è  Vanni  Fucci.  Mastro
Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci  ha  avuto
la coscienza e l'ha soffocata; sono i due estremi nella scala del  vizio;  l'uno
non è mai salito fino all'uomo; l'altro è passato per l'uomo ed è ricaduto nella
bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie le  circostanze
più acconce a darvi risalto:

        Vita bestial mi piacque e non umana,
        siccome a mul ch'io fui. Son Vanni Fucci
        bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

Ecco l'uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo  di  Malebolge,  l'umano  divenuto
bestiale e idealizzato come tale.
        Ma l'umano non muore mai in tutto. L'uomo diviene bestia, ma  la  bestia
torna uomo. E con senso profondo Dante anche sulla  faccia  sfrontata  di  Vanni
Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:

        e di trista vergogna si dipinse.

L'uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna, in luogo di mostrarlo al
naturale (ciò che  produce  la  caricatura)  cerca  occultarlo  sotto  contraria
apparenza: il poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra l'essere e il parere:
la situazione divien comica, e la sua forma è l'ironia. Lo spettatore indulgente
e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo  e  di  secondarlo;  accetta
come seria l'apparenza che si dà, anzi la carica ancora di più; fa il bravo,  ed
egli lo chiama un «Orlando», ma accompagnando le parole di  un  cotale  ammiccar
d'occhi che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce  in  falsetto,
di un riso equivoco, che vuol dire: -  Io  ti  conosco.  -  Perciò  l'essenziale
dell'ironia non è nell'immagine, ma nel sottinteso: è il  riflesso  che  succede
allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma delicata, perchè  lo
spettatore, alla vista del difetto che altri  cerca  di  mascherare,  non  sente
collera, non gli strappa la maschera dal viso, anzi se la mette  egli  stesso  e
serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne' movimenti e ne' gesti. Forma
di tempi civili, assai rara nelle età barbare e nelle poesie  primitive.  Dante,
accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com'è ne' suoi ritratti, ha troppa bile e
collera, e non è buono nè alla caricatura, nè all'ironia. Ma dalla sua  fantasia
d'artista è uscita una di quelle creazioni, che sono le  grandi  scoperte  nella
storia dell'arte, un mondo  nuovo:  il  «nero  cherubino»,  che  strappa  a  san
Francesco l'anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele. Egli  crea
il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua  funzione.  Il  diavolo  è  l'ironia
incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non sia più  briccone  di
lui, e capite che non è disposto a guastarsi la bile per  le  bricconerie  degli
uomini. L'uomo può ingannare un altro uomo, ma  non  può  ficcarla  al  diavolo,
perchè il diavolo nel suo senso poetico è  lui  stesso,  la  sua  coscienza  che
risponde con un'alta risata a' suoi sofismi, e gli fa il controsillogismo, e gli
dice beffandolo:

        ... ... Forse
        tu non sapevi ch'io loico fossi!

Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è sublime quando  offende
il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione.  Scoppia  la
collera, l'indignazione, l'orrore: il comico è immediatamente soffocato.  Quando
veggo un difetto rivelarsi all'improvviso, uso la caricatura.  Quando  veggo  un
difetto che cerca mascherarsi, prendo la maschera anch'io  e  uso  l'ironia.  Ma
quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto  a  me
come contraddizione al mio intimo  senso,  la  mia  coscienza  così  audacemente
negata e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual
è, nella sua laida nudità. La caricatura e l'ironia si risolvono  in  una  forma
superiore, il sarcasmo, la porta per la quale volgiamo le  spalle  al  comico  e
rientriamo nella grande poesia.
        Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire: nasce  la
caricatura, ed è guastata; spunta la maschera, ed è strappata. E la morte  viene
da questo, che nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea  che  l'uccide,  il
suo contrario.  Nel  canto  de'  simoniaci  il  sarcasmo  fa  la  sua  splendida
apparizione. Il comico muore sotto l'ira di Dante. L'antitesi tra quello  che  è
di fuori e quello che è nella sua anima scoppia  in  ravvicinamenti  innaturali,
come «calcando i buoni e sollevando i pravi», «Dio d'oro e d'argento»; e  spesso
in parole a doppio contenuto, che è l'immagine del sarcasmo. Tale  è  la  parola
rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilità della  Chiesa.  Parimente
chiama «adulterio» la simonia e  «idolatria»  l'avarizia,  parole,  nelle  quali
entrano come elementi la santità del matrimonio e  il  vero  Dio:  in  una  sola
immagine c'è il brutto e ci è l'idea che lo condanna.
        Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso. Finchè  rimane  nel
particolare e nel personale, il linguaggio è  acre,  bilioso:  hai  Giovenale  e
Menzini. Il poeta, non che  rimanere  imprigionato  in  quello  spettacolo,  dee
spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l'orizzonte, essere eloquente,  voce
di verità, espressione impersonale della coscienza. Certo,  in  quel  canto  de'
simoniaci  vive  immortale  la  vendetta  dell'uomo  ingannato  che  anticipa  a
Bonifazio l'inferno, e del ghibellino  e  del  cristiano  che  vede  nel  papato
temporale una pietra d'inciampo e di scandalo. Ma i  sentimenti  e  le  passioni
personali, se hanno ispirato il poeta e  resa  terribilmente  ingegnosa  la  sua
fantasia, non penetrano nella rappresentazione. Bisogna  sapere  la  storia  per
indovinare i terribili incentivi dell'alta creazione. Ciò che  qui  senti  è  la
convinzione, la buona fede del poeta, la sincerità e l'impersonalità  della  sua
collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e di
concetti. Prima Dante è in collera con  Nicolò,  pinto  in  pochi  tratti  vano,
piccolo, col cervello e co' sensi nel piede. E comincia  col  «tu»,  e  l'assale
corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:

        e guarda ben la mal tolta moneta,
        ch'esser ti fece contra Carlo ardito.

Ma nel pendìo dell'ingiuria  si  contiene  d'un  tratto,  passaggio  meritamente
ammirato: la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il «voi», i  papi,
il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da  ultimo
la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è un  deplorare,
non è più un inveire:

        Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,
        non la tua conversion, ma quella dote
        che da te prese il primo ricco patre!

Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici,  concezione  delle  più
originali, dove il comico è posto ed è sciolto. Poco felice nel  maneggio  delle
forme comiche, il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa, mutato il riso  in
collera, come nella sua invettiva, nella  pena  di  Bertram  dal  Bormio,  nella
rappresentazione di Vanni Fucci. Rimane un fondo comico che  aspetta  ancora  il
suo artista. Pure in quella materia appena formata vive immortale  il  suo  nero
cherubino.
        Nel pozzo de' traditori la vita scende  di  un  grado  più  giù:  l'uomo
bestia diviene l'uomo ghiaccio, l'essere  petrificato,  il  fossile.  In  questo
regresso dell'inferno, in questo cammino a ritroso dell'umanità siamo  giunti  a
quei formidabili inizi del genere umano, regno della materia stupida,  vuota  di
spirito, il puro terrestre, rappresentato ne' giganti, figli della terra,  nella
loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza fisica,
ma armato del fulmine:

        ... ... con minaccia
        Giove dal cielo ancora, quando tuona

Con  questo  mito  concorda  la  storia  biblica  degli  angeli   ribelli.   Qui
all'ingresso trovi  i  giganti;  alla  fine  Lucifero:  mitologia  e  Bibbia  si
mescolano, espressioni della stessa idea. La lotta  è  finita:  i  giganti  sono
incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname, il gradino infimo nella  scala
de' demòni. Il gigantesco è la poesia della materia; ma qui, vuoto e  inerte,  è
prosa. Tra' giganti e Lucifero stanno i dannati fitti  nel  ghiaccio.  Le  acque
putride di Malebolge, ventate dalle enormi ali  di  Lucifero,  si  agghiacciano,
s'indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche
i traditori contro i congiunti nella  Caina,  contro  la  patria  nell'Antenora,
contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca. La pena è
una, ma graduata secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco,  la
vita si va petrificando, finchè cessa in tutto la lacrima, la parola e il  moto.
L'immagine  più  schietta  di  questo  mondo   cristallizzato   è   il   teschio
dell'arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
        L'Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti fantasie.  E  per
lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto,  dove  la  natura  e  il
demonio e l'uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto  morale,  il
tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l'organo  della  colpa:  il  grido
della coscienza sembra agghiacciato insieme  col  colpevole.  Questo  grido  può
uscire dal  petto  concitato  di  Dante  spettatore,  come  è  già  avvenuto  in
Malebolge, dove l'invettiva di Dante risolve il comico. Qui ci è di meglio.  Tra
questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gli  altri,
come traditore egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri, perchè insieme  egli
è il suo tradito e il suo carnefice. È la vittima che qui alza il  grido  contro
il traditore, e gli sta eternamente co' denti sul capo, saziando  in  quello  il
suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato l'Ugolino,  il
personaggio più ricco, più moderno, più popolare di Dante dove l'analisi  è  più
profonda e più sviluppata, nelle sue  straordinarie  proporzioni  così  umano  e
vero.
        Prendete ora una  carta  topografica  dell'inferno,  e  guardate  questa
piramide capovolta, a forma d'imbuto. Vedete l'immensa  base  alla  cima,  senza
figura altra che di cerchi, fra le tenebre eterne; e  poi  quei  cerchi  prendon
figura di città  rosseggiante  di  fiamme,  e  la  città  di  bolgia  putrida  e
puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata la natura; in cima
l'infinito, alla fine il tristo buco

        sopra 'l qual pontan tutte le altre rocce;

e voi avete così l'immagine visibile di questo  inferno  estetico.  Gli  è  come
nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo  tutto  è  grande;  poi  vien  fuori  il
sanguinario, il feroce, l'orribile, finchè da' più  bassi  fondi  della  società
sale su il laido, l'abietto e il plebeo. Questa  decomposizione  e  depravazione
successiva della vita è l'Inferno.
        L'Inferno è l'uomo compiutamente realizzato come individuo, nella
pienezza e libertà delle sue forze. E può misurare la grandezza dell'opera,  chi
vede gli abbozzi di Dino Compagni, o  lo  scarno  Ezzelino,  o  le  rozze
formazioni de' misteri e delle  leggende.  L'individuo  era  ancora  astratto  e
impigliato nelle formole, nelle allegorie  e  nell'ascetismo.  In  quelle  vuote
generalità ci è la donna e l'uomo, come  genere,  come  simbolo,  come  l'anima;
manca l'individuo. E manca tanto, che spesso non  ha  un  nome,  ed  è  la  «mia
donna», o «un giovine», «un santo uomo». Non un nome solo era rimasto  vivo  nel
mondo dell'arte, fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere  il  mistero
dell'anima; si cacciò tra allegorie e formole, ed ecco uscirgli  dalla  fantasia
l'individuo, volente e possente, nel rigoglio  e  nella  gioventù  della  forza,
spezzato il nocciolo dove lo avea chiuso il medio  evo.  I  pittori  disegnavano
santi e cupole, i filosofi fantasticavano sull'ente;  i  lirici  platonizzavano,
gli ascetici contemplavano e pregavano: Dante  pensava  l'inferno;  e  là,  tra'
furori della carne e l'infuriar delle passioni,  trovava  la  stoffa  di  Adamo,
l'uomo com'è impastato, con la sua  grandezza  e  con  la  sua  miseria,  e  non
descritto, ma rappresentato e in azione, e non solo ne' suoi atti, ma  ne'  suoi
motivi più intimi. Così apparvero sull'orizzonte  poetico  Francesca,  Farinata,
Cavalcanti, la Fortuna, Pier  delle  Vigne,  Brunetto,  Capaneo,  Ulisse,  Vanni
Fucci, il «nero cherubino», Nicolò terzo e Ugolino. Tutte  le  corde  del  cuore
umano vibrano. Vedi attorno a questa  schiera  d'immortali,  turba  infinita  di
popolo nella  maggior  varietà  di  attitudini,  di  forme,  di  sentimenti,  di
caratteri, che ti passano avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero  e  nome,
altri segnati in fronte di qualche frase indimenticabile, che  li  eterna,  come
Taide, Mosca, Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino,  Bonifazio,  Clemente,
Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bormio. Nel regno de' morti si  sente  per
la prima volta la vita nel mondo moderno. Come è bella la luce, il «dolce lome»,
a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva  de'  suicidi,  spogliata  del
verde! Come è commovente Brunetto, che raccomanda a Dante il suo  Tesoro,
e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come  ride  quel  giardino
del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento  della  dolce  vita,  della
bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre  che  cade
supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino  che  dannato  a  morire  di  fame
guarda nel viso a' figliuoli, e Anselmuccio che gli domanda:  -  Che  hai?  -  E
Gaddo che gli dice: - Perchè non mi aiuti? - Sono scene solitarie  della  poesia
italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I  sentimenti  spinti  alla
punta idealizzano e ingrandiscono gli oggetti. Tutto  è  colossale,  e  tutto  è
naturale E in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di  tutti,
pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo,  feroce,  col  suo
elevato sentimento morale col suo culto della grandezza e  della  scienza  anche
nella colpa, coi suo dispregio del vile e dell'ignobile, alto sopra tanta plebe,
così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive.
        Queste grandi figure, là sul loro  piedistallo  rigide  ed  epiche  come
statue, attendono l'artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto  della
vita e le  faccia  esseri  drammatici.  E  l'artista  non  fu  un  italiano:  fu
Shakespeare.

        Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si  metta  in  quella  età
della vita che le passioni si  scoloriscono,  e  l'esperienza  e  il  disinganno
tolgono le illusioni, e scemata la parte attiva e  personale,  l'uomo  si  sente
generalizzare, si sente più come genere che come individuo. Spettatore  più  che
attore, la vita si manifesta in lui non  come  azione,  ma  come  contemplazione
artistica, filosofica, religiosa. In quella calma delle passioni e de' sensi era
posto l'ideale antico del savio, l'ideale nuovo del santo, fuso insieme in  quel
Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la più  perfetta
immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico, pinto come i  filosofi,  con
quella sua lunga barba, in quella calma e gravità della sua decorosa vecchiezza:

        degno di tanta riverenza in vista,
        che più non dee a padre alcun figliuolo.

Ma è qualcosa di più; è  il  savio  battezzato  e  santificato,  con  la  fronte
radiante, illuminata dalla grazia, sì che pare un sole. Virgilio  non  comprende
questo savio cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando  la
sua virtù, la sua morte per la  libertà,  la  sua  Marzia.  E  il  nuovo  Catone
risponde: - Marzia, che piacque tanto agli occhi miei, non mi move  più;  ma  se
Donna del cielo ti guida, non ci è mestier lusinga:

        basta ben che per lei mi richegge.

Che cosa è il  Purgatorio?  È  il  mondo  dove  questo  doppio  ideale  è
realizzato: il mondo di Catone o della libertà,  dove  lo  spirito  si  sviluppa
dalla carne e cerca la sua libertà:

        Libertà va cercando ch'è sì cara,
        come sa chi per lei vita rifiuta.

Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro stile.  Non  è  più
l'Iliade, è l'Odissea, è un nuovo poema. Paragonare Inferno
e Purgatorio e maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colà,
gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e non inferno.  O,  se
pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa, maravigliamoci che  il  poeta  abbia
potuto così compiutamente dimenticare l'antico se stesso, le  sue  abitudini  di
concepire, di  disporre,  di  colorire,  e  seppellito  in  questo  nuovo  mondo
ricrearsi l'ingegno e la fantasia a quella immagine, e con tanta spontaneità che
pare non se ne accorga: obblio dell'anima nella cosa,  il  secreto  della  vita,
dell'amore e del genio.
        L'inferno e il regno della carne, che scende con costante regresso  sino
a Lucifero. Il purgatorio e il regno dello spirito, che sale di grado  in  grado
sino  al  paradiso.  È  là  che  si  sviluppa   il   mistero,   la   Commedia
dell'anima, la quale dall'estremo del male si riscote e si sente e  mediante
l'espiazione e il dolore si purifica e si salva.  Onde  con  senso  profondo  il
purgatorio  esce  dall'ultima  bolgia  infernale,  e  Lucifero,  principe  delle
tenebre, e quello stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le
stelle.
        Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua  ultima  apparizione.
Il suo potere non è più al di dentro: l'anima è  già  libera;  della  carne  non
resta che la mala abitudine. Gradazione  finissima  e  altamente  comica,  dalla
quale è uscito l'immortale ritratto di Belacqua,  caricatura  felicissima  nella
figura, ne' movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più  Belacqua  si
sforza di rimaner serio, usando un'ironia che si volge contro di lui.
        Questo avanti-purgatorio è quasi una  transizione  tra  l'inferno  e  il
purgatorio: il peccato vi è e  non  v'è;  e  ancora  nell'abitudine  non  è  più
nell'anima; il demonio ci sta sotto la forma del  serpente  d'Eva,  involto  tra
l'erbe e i fiori, cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali  di  color
verde,  simbolo  della  speranza.  Comparisce  per  scomparire,  quasi  per  far
testimonianza che se ne va dalla  scena  per  sempre.  Innanzi  alla  porta  del
purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne  gran  parte  di
poesia se ne va.
        L'anima non appartiene più alla carne,  ma  l'ha  avuta  una  volta  sua
padrona e se ne ricorda. La carne non è più una realtà,  come  nell'inferno,  ma
una ricordanza. Ne' sette gironi, rispondenti a' sette peccati mortali, le anime
ricordano le colpe per condannarle; ricordano le virtù per compiacersene.
        Quel ricordare le colpe non è  se  non  l'inferno  che  ricomparisce  in
purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è  se
non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e  vagheggiato:
l'inferno ci sta in rimembranza; il  paradiso  ci  sta  in  desiderio.  Carne  e
spirito non sono una realtà: la tirannia  della  carne  è  una  rimembranza;  la
libertà dello spirito è un desiderio.
        Poichè la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta
non come azione rappresentata e drammatica, ma come immagine  dello  spirito,  a
quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non  presenti,
e pingiamo al di fuori quello spettro della mente. Questa  realtà  dipinta  vien
fuori nelle pareti  e  ne'  bassirilievi  del  purgatorio.  Nell'inferno  e  nel
paradiso non sono pitture, perchè ivi la realtà è natura vivente, è l'originale,
di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma
in pittura, come il passato e l'avvenire delle anime, non presenti  agli  occhi,
ma all'immaginativa. Quelle pitture sono il loro «memento», lo spettacolo
di quello che furono, di quello che saranno, che le stimola, mette  in  attività
la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.
        Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi  alle  anime,
ma non sono più le loro passioni, sono fuori di esse, contemplate  in  sè  o  in
altri con l'occhio dell'uomo pentito.  Anche  le  virtù  sono  estrinseche  alle
anime, contemplate al di fuori come esempli  e  ammaestramenti.  Le  anime  sono
spettatrici, contemplanti, non attrici. Passioni buone o  cattive  non  sono  in
presenza e in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in  intagli  e
pitture.
        Questa concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura
e la scoltura, l'arte dello spazio, idealizzata nella  parola  e  fatta  poesia.
Perchè il poeta  non  dipinge,  ma  descrive  il  dipinto.  La  parola  non  può
riprodurre lo spazio che successivamente, e  perciò  è  inefficace  a  darti  la
figura, come fa il pennello e lo scarpello. Nè Dante  si  sforza  di  dipingere,
entrando in una gara assurda col pittore. Ma  compie  e  idealizza  il  dipinto,
mostrando  non  la  figura,  ma  la  sua  espressione  e  impressione:   dinanzi
all'immaginazione la figura diviene mobile, acquista  sentimento  e  parola.  Le
aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la  vedovella  è  atteggiata  di
lagrime e di  dolore;  nell'attitudine  di  Maria  si  legge:  «Ecce  ancilla
Dei»; l'angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:

        Giurato si saria ch'ei dicesse Ave.

Davide ballando sembra più e meno che  re;  e  gli  sta  di  contro  Micol,  che
ammirava,

        siccome donna dispettosa e trista.

Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei primi tentativi dell'arte.
Quest'alto ideale pittorico di Dante  fa  presentire  i  miracoli  del  pennello
italiano. Il poeta avea  innanzi  all'immaginazione  figure  animate,  parlanti,
dipinte da
Colui, che mai non vide cosa nuova, ben  più  vivaci  che  non  gliele  potevano
offrire i suoi contemporanei. Più in la il  dipinto  sparisce:  senza  aiuto  di
senso, per sua sola virtù, lo spirito intuisce il bene  e  il  male,  ricorda  i
buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se stesso. La realtà non  solo
non ha la sua esistenza, come  cosa  sensata,  il  sensibile;  ma  neppure  come
figurativa, in pittura; diviene una visione diretta dello spirito, che opera già
libero e  astratto  dal  senso.  Nasce  un'altra  forma  dell'arte,  la  visione
estatica. L'anima vede farsi dentro di  sè  una  luce  improvvisa,  nella  quale
pullulano immagini sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e sgonfiano, e
l'universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo  che  il
«suono di mille tube» non basterebbe a rompere la  contemplazione.  Dante  trova
forme nuove ed energiche ad esprimere questo  fenomeno.  Le  immagini  «piovono»
nell'alta fantasia; la mente è

... ... sì ristretta dentro di se', che di fuor non venia cosa che  fosse  allor
da lei ricetta.

L'immaginativa ne «ruba» di fuori, sì

che uom non s'accorge perchè d'intorno suonin mille tube.

L'anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell'immagine con ardente affetto:

        come dicesse a Dio: - D'altro non calme -.

Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano: un  quadro
a contrasto, dove tra la folla inferocita che grida: - Martira, martira -, è  la
figura del santo, la persona già aggravata dalla morte e china verso  terra,  ma
gli occhi  al  cielo  preganti  pace  e  perdono:  è  il  soprastare  dell'anima
nell'abbandono del corpo.
         Siamo  dunque  in  piena  vita   contemplativa.   Il   processo   della
santificazione si sviluppa. Nell'inferno i tumulti  e  le  tempeste  della  vita
reale appassionata dal furore de' sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti  e
di santi, in quel mondo de' misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo  di
Girolamo, di Francesco d'Assisi e di Bonaventura, dove la  pittura  attingea  le
sue ispirazioni.
         Nella  visione  estatica  lo  spirito  ha  già  un   primo   grado   di
santificazione, ha conquistato la sua libertà dal senso, ha già il suo paradiso;
ma è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non  sarà  realtà,  paradiso
reale, se non quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo  spirito  entro
di sè, sieno fuori di sè, sieno cose e non immagini. Il purgatorio  è  il  regno
delle immagini, uno spettro dell'inferno, un simulacro del paradiso.
        Nella visione estatica lo spirito  è  attivo  e  conscio;  nel  sogno  è
passivo e inconscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera  del
senso, ma senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da  Dio.  Perciò
il sogno

        anzi che 'l fatto sia, sa le novelle;

e l'anima

        alle sue vision quasi è divina.

Nel sogno  si  rivela  il  significato  delle  visioni  e  delle  apparenze  del
purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa  è  il
purgatorio? È il regno dell'intelletto e del vero, dove  il  senso  è  spogliato
delle sue belle e piacevoli apparenze, e mostrato qual'è, brutto  e  puzzolento.
L'apparenza è una sirena:

        Io son - cantava - io son dolce Sirena,
        che i marinari in mezzo al mar dismago,
        tanto son di piacere a sentir piena.

Ma una donna santa, la Verità, fende i drappi; e la mostra qual femmina balba  e
scialba, e mostra il ventre:

        quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.

Vinto il senso e l'apparenza, si presenta a  Dante  in  sogno  l'immagine  della
vita, non quale pare, ma qual è, la vera vita a cui sospira e che cerca nel  suo
pellegrinaggio. E vede la vita nella prima delle due sue forme, la vita  attiva,
lo affaticarsi nelle buone  opere  per  giungere  alla  beatitudine  della  vita
contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata: manca a Dante  il  senso  della
voluttà; senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle
sue più fresche creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo genere, come
la Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine, come  è  della  suora  che
vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto  perciò  è  più  interessante  e
poetica, più umana, più vicina a noi questa bella fanciulla, che va tutta  lieta
pel prato, e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio.  Tale  è
la prima immagine che il giovine incontra sovente ne' suoi sogni!
        L'ultima forma sotto la  quale  si  presenta  la  realtà  è  la  visione
simbolica, dove la forma non significa più  se  stessa,  ma  un'altra  cosa.  Il
purgatorio finisce tra' simboli: è il paradiso  che  si  offre  all'anima  sotto
figura. Cristo è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante  ha  una
serie di strane  visioni,  che  rappresentano  simbolicamente  la  storia  della
Chiesa.
        Così la realtà corpulenta e tempestosa dell'inferno si  va  diradando  e
sottilizzando per trasformarsi nella vera realtà,  lo  spirito  o  il  paradiso.
Questo processo di carne a spirito  è  il  purgatorio,  dove  la  forma  diviene
pittura, estasi, sogno, simbolo. Il  simbolo  già  non  è  più  forma,  ma  puro
spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci è  la  nuova  e  vera  realtà,
pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.
         L'uomo  del  purgatorio  ha  i  sentimenti  conformi  a  questo   stato
dell'anima. Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla  tranquilla
gioia dell'uomo virtuoso, che nella miseria terrena sulle ali della fede e della
speranza alza lo spirito al paradiso. Le ombre  sono  contente  nel  fuoco,  gli
affetti  hanno  dolci  e  temperati,  il   desiderio   puro   d'inquietudine   e
d'impazienza. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l'età dell'oro, dove tutto
è pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte, i
dolci sentimenti dell'amicizia. In questo mondo di pitture e scolture Dante si è
coronato di artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da  Lucca,
Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio, e ne ha cavato episodi commoventi, che  fanno
vibrare le fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò  il  suo  incontro  con
Casella, e il  ritratto  di  Sordello,  e  i  cari  ragionamenti  dell'arte  con
Guinicelli e Buonagiunta, e l'incontro di Stazio e Virgilio.  È  un  lato  della
vita nuovo, pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia,  dell'arte
e dell'amicizia era un rifugio e quasi un  asilo  fra  le  tempeste  della  vita
pubblica. Come tocca il core l'amicizia di Dante e di Forese, fratello di  Corso
Donati, il principale nemico di Dante, e quel domandar ch'egli fa di Piccarda! I
movimenti improvvisi dell'affetto  e  della  maraviglia  sono  colti  con  tanta
felicità, che rimangono anche oggi vivi nel popolo, come è l'«o»  lungo  e  roco
delle anime che veggon l'ombra di Dante, o il paragone  delle  pecorelle,  e  la
calma di Sordello,

        a guisa di leon quando si posa,

mutata subito in un sì vivace impeto di affetti, e Stazio che corre  incontro  a
Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere un'ombra, e il cerchio  dell'anime
intorno a Dante,

        quasi obliando d'ire a farsi belle,

e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:

        Oh ombre vane, fuor che nell'aspetto!
        tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
        e tante mi tornai con esse al petto.

Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato
alla famiglia, agli  amici,  all'arte,  alla  natura,  quasi  tempio  domestico,
impenetrabile a' profani, è il mondo  rappresentato  nel  Purgatorio.  Le
ricordanze de' casi anche più tristi sono pure  di  amarezza,  raddolcite  dalle
speranze dell'ultimo giorno. Manfredi non ha una ingiuria  per  i  suoi  nemici,
chiede perdono, ed ha già perdonato.

Io mi rendei piangendo a quei che volentier perdona.

Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più strazianti della sua  morte
con una calma e una serenità, che diresti indifferenza, se non te  ne  rivelasse
il secreto il sentimento espresso in questi versi:

        Qui vi perdei la vista
        nel nome di Maria finio, e quivi
        caddi, e rimase la mia carne sola.

Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del  cuore  il  suo  tempio  domestico.
Ciascuno vuol essere ricordato a' suoi diletti. Come è caro quel Forese con quel
«Nella mia»,

        la vedovella mia che tanto amai!

E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di  lui,
e Manfredi vuol essere ricordato a  Costanza,  e  Iacopo  a'  suoi  fanesi,  che
pregassero per lui: la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico, e
non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:

        ricordati di me, che son la Pia.

Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia:  sentimento  nuovo,  che
avrà tanta parte nella poesia moderna, e generato  qui,  nel  Purgatorio.
Questo sentimento ti prende a udir la Pia, così delicata  nella  solitudine  del
suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d'amore. La  tenerezza
e delicatezza de' sentimenti dispone l'animo alla malinconia: perchè  malinconia
non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede
perciò anime raccolte che vivano in fantasia, sieno «pensose», non distratte dal
mondo, chiuse nella loro intimità La malinconia è  il  frutto  più  delicato  di
questo mondo intimo. Come ti va al core quell'ora che incomincia i tristi lai la
rondinella, presso alla mattina, e quella squilla di lontano,

        che pare il giorno pianger che si more,

e quell'ora della sera che i naviganti partono e s'inteneriscono pensando

        lo dì c'han detto a' dolci amici: addio!

Qui Dante gitta via l'astronomia, che rende spesso così aride le sue albe  e  le
sue primavere, e rende tutte le dolcezze di una natura malinconica. Tra le scene
più intime, più  penetrate  di  malinconia,  è  il  suo  incontro  con  Casella.
Cominciano espansioni di affetto. Nel  primo  impeto  corrono  ad  abbracciarsi.
Casella dice:

Così com'io t'amai nel mortal corpo, così t'amo sciolta.

Dante risponde: - Casella mio! - e lo prega a  voler  cantare,  come  faceva  in
vita, che col canto gli acquietava l'anima, e ora l'anima sua è così  affannata.
E Casella canta una poesia di Dante,  e  Dante  e  Virgilio  e  le  anime  fanno
cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non
perdona, perdonano le muse. Quest'oblio del purgatorio,  questa  musica  che  ci
riconduce alle care memorie della vita, la terra che scende nell'altro  mondo  e
si impossessa delle anime, sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare
gli amici e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia.  Ci  si  sente  qua
dentro la malinconia dell'esilio, l'uomo che giovine ancora  desiderava  con  la
sua Bice e i suoi amici e  le  loro  donne  ritrarsi  in  un'isola  e  farne  il
santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.
        E c'è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati
occhi le grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi  della  vita,  quel
cadere di tutte le illusioni:

        Non è il mondan rumore altro ch'un fiato
        di vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,
        e muta nome perchè muta lato.

Una delle figure più interessanti è Adriano. All'ultimo della grandezza dice:

        Vidi che lì non si quetava il core,
        ne più salir poteasi in quella vita;
        per che di questa in me s'accese amore.

Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono  tutti  morti  per  lui,
eccetto la buona Alagia:

        E questa sola m'è di la rimasa.

Quest'ultimo verso è pregno di  malinconia.  Questa  calma  filosofica,  che  fa
guardare dall'alto del purgatorio la vita e  ne  scopre  il  vano  e  il  nulla,
restringe il circolo della personalità e della  realtà  terrena.  Gli  individui
appariscono e spariscono, appena disegnati;  hanno  la  bellezza,  ma  anche  la
monotonia e l'immobilità della calma. Sono uomini che discutono e conversano  in
una sala, più che uomini agitati e appassionati. I grandi individui storici,  le
grandi creature della fantasia scompariscono.
        Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita  qui  è
meno individuo che genere. La comune anima ha  la  sua  espressione  nel  canto.
Nell'inferno non ci son cori; perchè non  vi  è  l'unità  dell'amore.  L'odio  è
solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i  loro
effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti. Qui le  anime  sono
esseri musicali, che escono dalla loro coscienza  individuale,  assorte  in  uno
stesso spirito di carità:

        Una parola era in tutto e un modo,
        sì che parea tra esse ogni concordia.

Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi  e  inni,  espressione  varia  di
dolore, di speranza, di preghiera,  di  letizia,  di  lodi  al  Signore.  Quando
giungono al purgatorio, le odi cantare: «In  exitu  Israel  de  Aegypto».
Giungono nella valle, ed ecco intonare il Salve  Regina.  La  sera  odi  l'inno:
«Te  lucis  ante  terminum   Rerum  creator   poscimus».   Entrando   nel
purgatorio, risuona il Te Deum. Sono i  salmi  e  gl'inni  della  Chiesa,
cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime  parole.  Ti
par d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini  erano  allora
nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a
ricordarli.  Il  poeta  ha  creduto  bastar  questo  ad  accendere   ne'   petti
l'entusiasmo religioso. E forse bastava allora, quando  quei  versi  suscitavano
tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia  qui  non  è  nella
rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola  basta
in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei  tempi  se  ne  va  la  loro
poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema  dantesco,  aride  liste  di
nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi  son
morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta. Perchè Dante non  crea
dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne' canti latini, e si
contenta di dirne le prime parole. Pure, la situazione delle  anime  purganti  è
altamente lirica; la loro  personalità  non  è  individuale,  ma  collettiva,  e
l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro  è  l'onda  canora  de'
sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide  di
quello ch'era suo compito. Più che visioni e simboli  e  dipinti,  la  vita  del
purgatorio era questa effusione lirica di dolore,  di  speranza,  di  amore,  di
quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in  uno  stesso
spirito di carità. Ha saputo così  ben  dipingerle  queste  anime  ardenti,  che
s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!

        Li veggio d'ogni parte farsi presta
        ciascun'ombra, e baciarsi una con una,
        senza restar, contente a breve feste.
        Così per entro loro schiera bruna
        s'ammusa l'una con l'altra formica,
        forse a spiar lor via e lor fortuna.

E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro sentimenti, non solo il
vago e l'indeterminato, ma anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide
del suo purgatorio, lo mostra il suo «paternostro», rimaso canto solitario.
        Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del
paradiso nel luogo della speranza. In essi  non  e  alcuna  subbiettività:  sono
forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi, e
nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.

        Tal che parea beato per iscritto...

        Verdi come fogliette pur mo' nate
        erano in veste, che da verdi penne
        percosse traean dietro e ventilate...

        Ben discernea in lor la testa bionda,
        ma nelle facce l'occhio si smarria,
        come virtù ch'a troppo si confonda...

        A noi venìa la creatura bella,
        bianco vestita, e nella faccia quale
        par tremolando mattutina stella.

Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la parola, manca la personalità.
Ci è il corpo dell'angiolo; non ci è l'angiolo. Nelle  dolci  note,  tra  quelle
forme d'angioli, l'anima s'infutura, «gusta le primizie del piacere eterno».  Di
che prende qualità la natura del purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in
principio faticosa a salire:

        E quanto uom più va su, e men fa male.
        Però quando ella ti parrà soave
        tanto che il su andar ti sia leggiero,
        com'a seconda in giuso l'andar con nave,
        allor sarai al fin d'esto sentiero.

Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle  stelle,
che sono  il  paradiso  dantesco.  La  prima  impressione  della  luce,  uscendo
dall'inferno, cava a Dante questa bella immagine:

        Dolce color d'oriental zaffiro
        che s'accoglieva nel sereno aspetto
        dell'aer puro infino al primo giro,
        agli occhi miei ricomincio diletto.

La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e
anime sono un solo canto, un solo universo lirico. Scena stupenda  è  nel  canto
settimo, maravigliosa  consonanza  tra  le  ombre  sedute,  quete,  che  cantano
«Salve Regina», e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:

        Non avea pur natura ivi dipinto,
        ma di soavità di mille odori
        vi faceva un incognito indistinto.
        «Salve Regina» in sul verde e in su' fiori
        quindi seder, cantando, anime vidi.

Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto di apriche valli  e  di
campi odorati: il quale contrasto ha termine, quando l'anima si leva con  libera
volontà a miglior soglia, tolte le «schiume della coscienza», con pura  letizia.
Così come nell'inferno si scende sino  al  pozzo  ghiacciato  della  morte,  nel
purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine  terrena  del  paradiso,
dove l'anima è monda del peccato o della carne, e  rifatta  bella  e  innocente.
Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione:  riso  di  cielo,
canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di  acque,
descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà
luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.
        Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è qua
che  il  nodo  si  scioglie.  Dante,  più  che  spettatore  è   attore.   Uscito
dall'inferno, appena all'ingresso del  purgatorio  l'angiolo  incide  sulla  sua
fronte sette «P», che sono i sette peccati mortali, che  si  purgano  ne'  sette
gironi. Da un girone all'altro una «P» scomparisce dalla fronte, finchè van  via
tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa  da  uno  stato
nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza.  È
Lucia, «nemica di ciascun crudele», che lo piglia  dormente  e  sognante,  e  lo
conduce in purgatorio. Così la storia  intima  dell'anima,  i  suoi  errori,  le
passioni, i traviamenti, i pentimenti,  sono  storia  esterna  e  simbolica:  il
dramma è strozzato nella sua culla. La crisi del dramma, il punto in cui il nodo
si scioglie, e il pentimento, l'anima che si riconosce, e caccia via  da  sè  il
peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il  dramma
si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha  fatto
qui;  ma  una  storia  intima,  personale,  drammatica  dell'anima,   com'è   il
Faust, non era possibile in tempi  ancora  epici,  simbolici,  mistici  e
scolastici.
        Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano  a  fronte.  Di  qua  Dante,
Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli angeli;  in  mezzo  e  il  rio  che  li
divide, bipartito in due fiumi, Lete, l'obblio, ed  Eunoè,  la  forza.  Nell'uno
l'anima si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge virtù di  salire
alle stelle.

        L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
        se Lete si passasse, e tal vivanda
        fosse gustata senza alcuno scotto
        di pentimento che lagrime spanda.

Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa
all'altra riva, rifatte nell'antico stato d'innocenza. E lo specchio  dell'anima
rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in  sembianza  ancora  umana,
celeste creatura, con l'ingenua giocondità di fanciulla, con  la  leggerezza  di
una silfide, col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce.  Tale  era
Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio  del
paradiso terrestre.
        La scena dove questo mistero  dell'anima  si  scioglie  ha  le  sacre  e
venerabili  apparenze  di  un   mistero   liturgico,   una   di   quelle   sacre
rappresentazioni che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata
e ambulante in processione: sette candelabri,  che  a  distanza  parevano  sette
alberi d'oro, e dietro gente vestita di bianco che canta «Osanna»,  e  le
fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto  questo  cielo  di
luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell'antico
Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:

        Tutti cantavan: - Benedetta tue
        nelle figlie di Adamo, e benedette
        sieno in eterno le bellezze tue. -

Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote  (i  due  testamenti),
tra quattro animali (i quattro  vangeli),  tirato  da  un  grifone,  simbolo  di
Cristo; a destra Fede,  Speranza  e  Carità;  a  sinistra  Prudenza,  Giustizia,
Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi,  san  Luca  e  san
Paolo,  e  dietro  a  loro,  quattro  in  umile  paruta,  forse  gli   scrittori
dell'Epistole, e solo e dormente san Giovanni dall'Apocalisse:

        E diretro da tutti un veglio solo
        venir dormendo con la faccia arguta.

Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la rappresentazione. Virgilio
guarda attonito, non meno che Dante. Il senso di quella  processione  allegorica
gli sfugge. La missione del savio pagano  è  finita.  Hai  innanzi  la  dottrina
nuova, la Chiesa di Cristo co' suoi profeti e patriarchi, co' suoi evangelisti e
apostoli, co' suoi libri santi.
        Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono: «Veni sponsa,
de Libano», e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano
fiori.

        Tutti dicean: - Benedictus qui venis 
        e fior gittando di sopra e dintorno
        manibus o date lilia plenis. -

Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta d'oliva, sotto
verde manto,  vestita  di  colore  di  fiamma;  appare  come  la  Madonna  nelle
processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante non  la
vede, ma la sente: è Beatrice.
        Quest'apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua donna ancora
velata fra tanta gloria, scioglie l'immaginazione dalla rigidità de'  simboli  e
de' riti, e le dà le libere ali dell'arte. Il dramma si fa  umano;  spuntano  le
immagini e i sentimenti:

        Io vidi già nel cominciar del giorno
        le parte oriental tutta rosata,
        e l'altro ciel di bel sereno adorno
        e la faccia del sol nascere ombrata
        sì chè per temperanza di vapori
        l'occhio la sostenea lunga fiata.
        Così dentro una nuvola di fiori,
        che dalle mani angeliche saliva
        e ricadeva giù dentro e di fuori,
        sovra candido vel, cinta di oliva
        donna m'apparve sotto il verde manto
        vestita di color di fiamma viva.

L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui l'astrattezza del simbolo è
superata. Ti senti innanzi ad un'anima d'uomo. Quella donna è la  sua  Beatrice,
l'amore della sua prima  giovinezza;  e  Virgilio  e  il  dolcissimo  padre  che
sparisce, quando più ne aveva bisogno, quando era proprio come un  fantolino  in
paura che si volge alla mamma; e si volge, e non lo vede più, e  lo  chiama  tre
volte per nome nella mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma  in  un
dramma moderno:

        E lo spirito mio che già cotanto
        tempo era stato ch'alla sua presenza
        non era di stupor tremando affranto,
        senza dagli occhi aver più conoscenza,
        per occulta virtù che da lei mosse,
        d'antico amor sentì la gran potenza.
        Tosto che nella vista mi percosse
        l'alta virtù che già m'avea trafitto
        prima ch'io fuor di puerizia fosse,
        volsimi alla sinistra, col respitto
        col quale il fantolin corre alla mamma,
        quando ha paura o quando egli è afflitto,
        per dicer a Virgilio: - Men che dramma
        di sangue m'è rimaso, che non tremi;
        conosco i segni dell'antica fiamma -.
        Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
        di sè; Virgilio dolcissimo padre,
        Virgilio, a cui per mia salute dièmi.

Dal pianto di Dante esce un  felicissimo  passaggio  per  introdurre  in  iscena
Beatrice:

        Dante, perchè Virgilio se ne vada,
        non pianger anco, non piangere ancora,
        che pianger ti convien per altra spada.

Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama per nome:

        Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
        Come degnasti d'accedere al monte?
        Non sapei tu che qui l'uomo è felice?

E gli occhi cadono nella fontana, e non  sostenendo  la  propria  vista,  cadono
sull'erba:

        Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
        ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:
        tanta vergogna mi gravò la fronte.

        Qui è la prima volta e  sola  che  un'azione  è  rappresentata  nel  suo
cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un  ingegno
drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell'animo scappan  fuori;
i due attori, Dante e Beatrice, vi sono  perfettamente  disegnati;  gli  angioli
fanno coro e intervengono. La scena è rapida, calda, piena  di  movimenti  e  di
gradazioni fini e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri  giunge
a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta li più attonito che compunto,
ma quando gli angioli  nel  loro  canto  hanno  aria  di  compatirgli,  come  se
dicessero: «Donna, perchè sì lo stempre?» scoppia il pianto. Quello che non potè
il  rimprovero,  ottiene  il  compatimento.  Gradazione  vera   e   profonda   e
rappresentata con rara evidenza d'immagine. Instando Beatrice:  -  Di'  di',  se
questo è vero -, tra confusione e vergogna, esitando e  incalzato  gli  esce  un
tale «sì» dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:

        al quale intender fur mestier le viste.

I sentimenti  dell'animo  scoppiano  con  tanta  ingenuità  e  naturalezza,  che
rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: «Alza la barba», il nostro dottore
con linguaggio della scuola riflette:

        e quando per la «barba» il «viso» chiese,
        ben conobbi 'l velen dell'argomento.

Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lacrime
e i sospiri, e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.
        Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui  non  ci  è
dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci
è monotonia, ne declamazione: tutto esce da  una  situazione  vera  e  finamente
analizzata. «Regalmente proterva», la sua severità è raddolcita  poi  dal  canto
degli angioli. Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli, e narra  loro
la storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata, ma più elevata: mai
la poesia non s'era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano
trovava la sua musa:

        Quando di carne a spirto era salita
        e bellezza e virtù cresciuta m'era,
        fu' io a lui men cara e men gradita:
        e torse i passi suoi per via non vera,
        immagini di ben seguendo false,
        che nulla promission rendono intera.

Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale,  stringente,  implacabile
nella sua logica. E una sola idea sotto varie forme, ostinata,  insistente,  che
vuole da Dante una risposta. - Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire  a
me le cose fallaci della terra,

        o pargoletta,
        o altra vanità per sì breve uso?

 - E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:

        ... ... Le presenti cose
        col falso lor piacer volser miei passi,
        tosto che 'l vostro viso si nascose.

Come si vede, è l'antica lotta tra il senso e la  ragione  che  qui  ha  il  suo
termine; è la vita tragica dell'anima fra gli errori e le battaglie  del  senso,
che qui si scioglie in commedia, cioè in  lieto  fine,  con  la  vittoria  dello
spirito. L'idea è più  che  trasparente,  è  manifestata  direttamente  nel  suo
linguaggio teologico. Ma l'idea e calata nella realtà della vita e  produce  una
vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di  passione  e
di ragione, di concreto e di astratto, che vi  trovi  la  stoffa  da  cui  dovea
sorgere più tardi il dramma spagnuolo.
        Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a Beatrice dalle virtù,
sue ancelle:

        Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
        Pria che Beatrice discendesse al mondo,
        fummo ordinate a lei per sue ancelle.
        Menrenti agli occhi suoi...

E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa  rendere  quello  che
Dante vede, quello che sente:

        O isplendor di viva luce eterna,
        chi pallido si fece sotto l'ombra
        sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
        che non paresse aver la mente ingombra,
        tentando a render te, qual tu paresti,
        là, dove armonizzando il ciel ti adombra,
        quando nell'aere aperto ti solvesti?

Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione  sino  all'albero  della
vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di Cristo,  apparisce  in  visione
allegorica la Chiesa terrena,  trafitta  dall'impero,  travagliata  dall'eresia,
corrotta dal dono di Costantino, smembrata da Maometto, e  in  ultimo  meretrice
fra le braccia del re di Francia. Concetto stupendo, questo apparire della  vita
terrena nell'ultimo del purgatorio, germogliata dall'albero infausto del peccato
di Adamo. Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo
in realtà, ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del paradiso.
        Così finisce questa  processione  dantesca,  una  delle  concezioni  più
grandiose del poema, anzi in sè sola tutto un poema,  dove  ci  vediamo  sfilare
davanti tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine  anticipata  del
regno di Dio, un'apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il  più
alto mistero liturgico, la Commedia dell'anima.
        Questa processione dove  far  molta  impressione  in  quei  tempi  delle
processioni, de' misteri e delle allegorie, quando gli  angeli,  le  virtù  e  i
vizi, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto  questo  carattere
liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte  la  bellezza  della  poesia.
Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione  della  Chiesa  terrena,
dove l'aquila, la volpe, e il drago e il gigante e la meretrice  rimpiccoliscono
un concetto così magnifico, una storia così interessante.
        Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il  mantovano  Sordello,
sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:

        O mantovano, io son Sordello.
        della tua terra. - E l'un l'altro abbracciava.

E Dante pensa alla sua Firenze, dove

        ... ... l'un l'altro si rode
        di quei che un muro e una fossa serra.

Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto impetuoso, eloquente,
e n'esce una poesia tutta cose, dove  si  riflettono  i  più  diversi  movimenti
dell'animo, il dolore, lo sdegno, la pietà, l'ironia, una calma tristezza.

        Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita
si disabbella a' nostri sguardi, quando le volgiamo le  spalle  e  ci  chiudiamo
nella santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici,  nelle  opere
dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci  s'illumina  di  viva  luce  e
diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran  parte
di  noi.  Fu  il  libro  di  Lamennais,  di  Balbo,  di  Schlosser.   Viene   il
Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre forme.
        Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla
carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il  trasumanare,
il di la dall'umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare  in
terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una  cosa.  Amore
conduce lo spirito al supremo intelletto, e  il  supremo  intelletto  è  insieme
supremo atto. La triade è insieme unità. Quando l'uomo è alzato dall'amore  fino
a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del divino, il sommo bene, il  paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è una  forma  della  vita
umana. Ci è  nel  nostro  spirito  un  di  là,  ciò  che  dicesi  il  sentimento
dell'infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.
        L'arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e  la
filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a  questa  conclusione
pratica, che l'ideale della saggezza, e perciò della  felicità,  è  posto  nella
eguaglianza dell'animo, ciò che dicevasi «apatia», affrancamento dalle  passioni
e dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle  figure  quiete  e  serene  e
semplici dell'arte greca. Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del
limbo:

Sembianza avevan ne' trista ne' lieta... Parlavan rado, con passi soavi

Virgilio n'è il tipo più puro, le cui impressioni vanno di rado al di là  di  un
sospiro, o di un movimento tosto represso.  Questa  calma  è  la  fisonomia  del
purgatorio, il carattere più spiccato di quelle  anime,  dove  l'aspirazione  al
cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi quandochessia. Ma  già  in  quelle
anime penetra un elemento nuovo, l'estasi, il rapimento, la  contemplazione;  ci
sta Catone, ma irradiato di luce.
        Col cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di  là,
e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione  della
vita. E si sviluppò un'arte e una letteratura conforme. Chi vede gli  ammirabili
mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano,  o
le facce estatiche de' santi consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il
tipo di questo uomo nuovo. Quel di là, il celeste, il divino, appare  su  quelle
facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella  Dieta
salutis  di  san  Bonaventura.  A  questa  immagine  avea  composta  la  sua
Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.
        Questo di là, intravveduto nelle estasi, ne' sogni, nelle visioni  nelle
allegorie del purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il paradiso. Il quale
intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma  non  si  concepisce
come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello spirito,  possa  avere  una
rappresentazione. Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga.  non  la
descrizione di cosa che è al di  sopra  della  forma,  ma  la  vaga  aspirazione
dell'anima a «non so che divino», ed anche allora l'obietto del  desiderio,  pur
rimanendo «un incognito indistinto», riceve la sua bellezza da immagini terrene,
come nell'Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller,  e  in  questi
bei versi del Purgatorio, imitati dal Tasso:

        Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
        mostrandovi le sue bellezze eterne.

Per rendere artistico il  paradiso,  Dante  ha  immaginato  un  paradiso  umano,
accessibile al senso e all'immaginazione. In paradiso non c'è canto, e non  luce
e non riso; ma essendo Dante spettatore terreno  del  paradiso,  lo  vede  sotto
forme terrene:

        Per questo la Scrittura condescende
        a vostra facultade, e mani e piedi
        attribuisce a Dio ed altro intende.

Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte. Il  paradiso  teologico  è
spirito, fuori del senso e dell'immaginazione, e dell'intelletto; Dante  gli  dà
parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ridono,  cantano,
ragionano come uomini. Questo rende il paradiso accessibile all'arte.
        Siamo  all'ultima  dissoluzione  della  forma.  Corpulenta  e  materiale
nell'Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è  lirica
e musicale, immediata parvenza dello spirito,  assoluta  luce  senza  contenuto,
fascia e cerchio dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la  terra,
riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno immediatamente da  Dio,
sicchè le anime  purganti,  come  gli  uomini,  veggono  il  sole,  e  nel  sole
intravvedono Dio, offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di  luce;
ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:

        lume che a lui veder ne condiziona.

Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte
le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di
tutt'i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli  atti  non  altro  che
contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce;
gli spiriti si scaldano ai raggi d'amore;  la  beatitudine  o  letizia  sfavilla
negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta
nel cospetto eterno:

        Luce intellettual piena d'amore,
        amor di vero ben pien di letizia,
        letizia che trascende ogni dolzore.

Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce;  l'ira  di  san
Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
        Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l'inferno e
il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di  Dio  in  una
forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione ascendente
di Dio che risponde a' diversi ordini o  gradi  di  virtù.  Sali  di  stella  in
stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.
        Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce.  Perciò  non  hai
qui, come nell'inferno o nel purgatorio, differenze qualitative,  ma  unicamente
quantitative, un più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi la faccia
umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario.  Come  è
la luce,  così  è  il  riso  di  Beatrice,  un  «crescendo»  superiore  ad  ogni
determinazione;  la  fantasia,  formando,  non  può  seguire  l'intelletto,  che
distingue. Bene il poeta vi adopera l'estremo del  suo  ingegno,  conscio  della
grandezza e difficoltà dell'impresa:

        L'acqua ch'io prendo giammai non si corse.
        Minerva spira e conducemi Apollo,
        e nove Muse mi dimostran l'Orse.

Dapprima caldo di questo mondo,  sua  fattura,  allettato  dalla  novità  o  dal
maraviglioso de' fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono  vivaci,
peregrine; poi quasi stanco diviene arido e  dà  in  sottigliezze;  ma  lo  vedi
rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti
che la difficoltà lo alletti, la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
        Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che  tutto
move, centro dell'universo. Ivi sono gli spiriti, ma secondo i  gradi  de'  loro
meriti e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli  che  girano  intorno
alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle
fisse e il primo mobile. Ne' primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti sta
avanti tutta la vita terrena.  La  luna  è  una  specie  di  avanti-paradiso.  I
negligenti aprono l'inferno e il purgatorio, e aprono anche  il  paradiso.  E  i
negligenti del paradiso sono i  manchevoli  non  per  volontà  propria,  ma  per
violenza altrui. Il loro merito non è pieno, perchè mancò loro quella  forza  di
volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua  mano.  Perciò
in loro rimane ancora un vestigio della terra: la  faccia  umana.  In  Mercurio,
Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita  attiva,  i  legislatori,
gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti.  In  Saturno  hai  la  corona  e  la
perfezione della vita, i  contemplanti.  Percorsi  i  diversi  gradi  di  virtù,
comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine. Ed hai
nelle stelle fisse il trionfo di Cristo,  nel  primo  mobile  il  trionfo  degli
angioli, e nell'empireo la visione di Dio,  la  congiunzione  dell'umano  e  del
divino, dove s'acqueta il  desiderio.  Questa  storia  del  paradiso  secondo  i
diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.
        La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite  di  tutte  le
forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione  dell'occhio
mortale. Essa è la stessa  beatitudine,  la  letizia  delle  anime,  che  prende
quell'aspetto agli occhi di Dante:

        La mia letizia mi ti tien celato
        che mi raggia d'intorno e mi nasconde
        quasi animal di sua seta fasciato.

Queste  parvenze  dell'interna  letizia  si  atteggiano,  si   determinano,   si
configurano ne' più diversi modi, e non sono altro che i sentimenti o i pensieri
delle anime che paion fuori in quelle forme. E n'esce la  natura  del  paradiso,
luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila,  or  di
croci, or di cerchio, or di costellazione, ora  di  scala,  con  viste  nuove  e
maravigliose. Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime, che
esprimono i loro pensieri co' loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili
le parvenze di questo mondo di  luce,  il  poeta  si  tira  appresso  la  natura
terrestre e ne coglie i fenomeni  più  fuggevoli,  più  delicati,  e  ne  fa  lo
specchio della natura celeste. Così rientra  la  terra  in  paradiso,  non  come
sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la  terra  che
rende amabile questo paradiso  di  Dante;  è  il  sentimento  della  natura  che
diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e  simboliche.  La  terra  ha
pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che  inebbriano,  innalzano
l'animo e lo dispongono alla tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in terra
è di più etereo, di più sfumato, di più soave.  E  come  l'impressione  estetica
nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene  che
il lettore ricorda il paragone, senza quasi più sapere a che cosa si  riferisca.
Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:

        Come a raggio di sol che puro mèi
        per fratta nube, già prato di fiori
        vider coverti d'ombra gli occhi miei;
        vid'io così più turbe di splendori
        fulgorati di su da' raggi ardenti,
        senza veder principio di fulgori.

        Sì come 'l Sol che si cela egli stessi
        per troppa luce, quando il caldo ha rose
        le temperanze de' vapori spessi,
        per più letizia sì mi si nascose
        dentro al suo raggio la figura santa,
        e così chiusa chiusa mi rispose...

        Come l'augello, intra l'amate fronde,
        posato al nido de' suoi dolci nati,
        la notte che le cose ci nasconde,
        che per veder gli aspetti desiati
        e per trovar lo cibo onde gli pasca,
        in che i gravi labori gli sono grati,
        previene 'l tempo in su l'aperta frasca,
        e con ardente affetto il sole aspetta,
        fiso guardando pur se l'alba nasca...

        ... come orologio che ne chiami
        nell'ora che la sposa di Dio surge
        a mattinar lo sposo perchè l'ami;
        che l'una parte e l'altra tira ed urge,
        «tin tin» sonando con si dolce nota,
        che il ben disposto spirto d'amor turge...

        ... e cantando vanio
        come per acqua cupa cosa grave.

        Qual lodoletta che in aere si spazia,
        prima cantando e poi tace contenta
        dell'ultima dolcezza che la sazia...

        Pareva a me che nube ne coprisse
        lucida, spessa, solida e pulita,
        quasi adamante che lo sol ferisse.
        Per entro sè l'eterna margherita
        ne ricevette, com'acqua recepe
        raggio di luce, rimanendo unita.

        Siccome schiera d'api che s'infiora
        una fiata, ed una si ritorna
        là dove suo lavoro s'insapora...

        E vidi lume in forma di riviera,
        fulvido di fulgore, intra duo rive,
        dipinte di mirabil primavera.
        Di tal fiumana uscian faville vive,
        e d'ogni parte si mettean ne' fiori
        quasi rubin che oro circoscrive.
        Poi come inebriate dagli odori
        riprofondavan sè nel miro gurge;
        e s'una entrava, un'altra usciane fuori.

Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza.  Il  poeta
ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in  terra  è  più  ridente  e
smagliante. Siamo nell'empireo. La virtù visiva è stanca, ma  si  raccende  alle
parole di Beatrice, sì che gli appare la riviera di luce, e fortificata la vista
in quella riviera, in quei fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei  rubini,  in
quelle vive faville, Dante discerne ambo le corti del cielo  nel  santo  delirio
del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di queste
due rive dipinte di mirabil primavera.
        Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press'a poco,  un  quasi,
un come, «fioca e corta» al concetto. Questa impotenza della  forma  produce  un
sublime negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi  ha  vivo
il sentimento dell'infinito:

        ... appressando sè al suo desire
        nostro intelletto si profonda tanto
        che la memoria retro non può ire.
        ... ogni minor natura
        è corto recettacolo a quel bene,
        che non ha fine e sè con sè misura.

        ... nella giustizia sempiterna
        la vista che riceve il vostro mondo,
        com'occhio per lo mare, entro s'interna;
        chè, benchè dalla proda veggia il fondo,
        in pelago nol vede; e nondimeno
        egli è, ma 'l cela lui l'esser profondo.

La letizia che  move  le  anime  e  «trascende  ogni  dolzore»,  non  è  se  non
beatitudine. E rende beate le  anime  l'entusiasmo  dell'amore  e  la  chiarezza
intellettiva, o come dice Dante, «luce intellettual piena d'amore».  Esse  hanno
allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è  perenne  desiderio  e  perenne
appagamento. Nella mente la verità sta come «dipinta».
        La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la parvenza, ma  non
il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme, il canto e  la
visione intellettuale.
        Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è  amore,  ardore  di
desiderio placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito. Stato lirico
e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La  medesimezza
del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la comunione  delle  anime;  la
persona non è l'individuo, ma il gruppo, come è  delle  moltitudini  nei  grandi
giorni della vita pubblica. I gruppi qui  non  sono  cori,  che  accompagnino  e
compiano l'azione individuale, ma sono la stessa individualità diffusa in  tutte
le anime, o se vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili  e
muti, di Cristo, di Maria e d'Iddio. Ecco il coro di Maria:

        Per entro 'l cielo scese una facella,
        formata in cerchio a guisa di corona,
        e cinsela e girossi intorno ad ella.
        Qualunque melodia più dolce suona
        quaggiù e più a sè l'anima tira,
        parrebbe nube che squarciata tuona,
        comparata al suonar di quella lira,
        onde si coronava il bel zaffiro,
        del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
        - Io sono amore angelico che giro
        l'alta letizia che spira dal ventre
        che fu albergo del nostro desiro;
        e girerommi, Donna del ciel, mentre
        che seguirai tuo Figlio e farai dia
        più la spera superna, perchè lì entre -.
        Così la circulata melodia
        si sigillava, e tutti gli altri lumi
        facèn sonar lo nome di Maria...

        E come fantolin che inver' la mamma
        tende le braccia, poi che 'l latte prese,
        per l'animo che infin di fuor s'infiamma;
        ciascun di quei candori in su si stese
        con la sua cima sì che l'alto affetto
        ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.
        Indi rimaser lì nel mio cospetto,
        «Regina coeli» cantando sì dolce
        che mai da me non si partì il diletto.

Quella facella è l'angiolo Gabriele, e il coro è angelico. Angioli e beati  sono
penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune, se non che negli  angioli  la
virtù è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante  tra'  beati  e
Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un  andare  e  venire
nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e  folleggianti  con
una espansione che il poeta chiama «arte» e «gioco»:

        Qual è quell'angel che con tanto gioco
        guarda negli occhi la nostra Regina,
        innamorato sì che par di fuoco?

L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta «sodalizio».  I  loro  moti
sono danze, le loro voci sono canti; ma,  in  quell'accordo  di  voci,  in  quel
turbine di movimenti la personalità scompare: è una  musica  in  cui  i  diversi
suoni si confondono e si perdono in una sola melode.  Non  ci  è  differenza  di
aspetto, ma per dir così una faccia sola. Questa comunanza di vita  è  il  fondo
lirico del Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta,  contento
a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta  tanta  libertà  e
attività di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i
sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra
la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno alla Vergine, e  l'inno  a  san
Francesco d'Assisi e l'inno a san Domenico, nella loro semplicità anche  un  po'
rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.
        I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e
non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce,  che  ti  porta
seco:

        - Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -
        cominciò - gloria - tutto il paradiso,
        tal che m'inebbriava il dolce canto.
        Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso
        dell'universo, perochè mia ebbrezza
        entrava per l'udire e per lo viso.
        Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
        Oh vita intera d'amore e di pace!
        Oh senza brama sicura ricchezza!

È l'armonia universale, l'inno della creazione. La luce, vincendo  la  corporale
impenetrabilità e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori  questa
compenetrazione delle anime, l'individualità sparita nel  mare  dell'essere.  Il
poeta, signore anzi tiranno della lingua,  forma  ardite  parole  a  significare
questa medesimezza amorosa degli esseri  nell'essere:  «inciela»,  «imparadisa»,
«india», «intuassi», «immei», «inlei»,  «s'infutura»,  «s'illuia»,  delle  quali
voci alcune dopo lungo obblio  rivivono.  La  redenzione  dell'anima  è  la  sua
progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua individualità non
le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e  sospira  alla  idealità
nella vita universale. Questo è il carattere della vita in  paradiso.  Non  solo
sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli  uni
negli altri e tutti in Dio.
        Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il  paradiso
a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra  e  con
la terra altre forme ed altre passioni. La terra  penetra  come  contrapposto  a
questa vita d'amore e di pace. È vita d'odio e di vana  scienza,  e  provoca  le
collere e i sarcasmi de' celesti.
        Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel
sole gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanità delle
cure terrestri:

        O insensata cura de' mortali
        quanto son difettivi sillogismi
        quei che ti fanno in basso batter l'ali!
        Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
        sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
        e chi regnar per forza o per sofismi,
        e chi in rubare, e chi in civil negozio;
        chi nel diletto della carne involto
        s'affaticava e chi si dava all'ozio.

Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto delle  stelle  fisse
guarda alla terra:

        ... e vidi questo globo
        tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante.

La terra «che ci fa tanto feroci», veduta dal  cielo,  gli  pare  un'aiuola.  Il
concetto, abbellito e allargato dal Tasso, ha qui  una  severità  di  esecuzione
quasi ieratica. Il poeta si sente già cittadino del  cielo,  e  guarda  così  di
passata  e  con  appena  un  sorriso  a  tanta  viltà  di  sembiante  volgendone
immediatamente l'occhio e mirando in Beatrice:

        L'aiuola che ci fa tanto feroci,
        volgendomi io con gli eterni gemelli,
        tutta m'apparve da' colli alle foci:
        poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.

Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati  varietà  di  sentimenti  e  di
passioni, facendo vibrar nuove corde. Accanto all'inno spunta la satira in tutte
le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura, l'ironia, il sarcasmo. Qual frizzo,
che l'allusione di Carlo Martello, così pungente nella sua generalità:

        e fanno re di tal, che è da sermone!

Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta  nel  maneggio  della
caricatura e dell'ironia, frustando i predicatori plebei di quel tempo:
        Or si va con motti e con iscede
        a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia 'l cappuccio  e  più  non  si  richiede.  Giustiniano  conchiude  il  suo
nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell'antica Roma con fiere  minacce
ai guelfi, nemici dell'aquila imperiale. Papa e monaci sono i più assaliti.  San
Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto
i benedettini, e san Pietro il papa. Tutt'i re  di  quel  tempo  mandano  sangue
sotto il flagello di Dante. Non si può attendere  da'  santi  alcuna  indulgenza
alle umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione, e la  sua
forma ordinaria è l'invettiva. Le forme comiche sono uccise in sul nascere e  si
sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè un pensiero, nè  un  tratto  di
spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come  «cloaca»,
che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è colto non in una forma
generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel  tempo,  sotto  quelli
aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza  di  colorito.  Capilavori  di
questo genere sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.
        Questo contrapposto tra  il  cielo  e  la  terra  non  è  altro  se  non
l'antitesi che è  in  terra  tra  i  buoni  e  i  cattivi,  e  per  scendere  al
particolare, tra l'età dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del  poeta;
è il presente condannato dal passato, è il passato  messo  in  risalto  dal  suo
contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini, ma  ci  era  stato
san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino  e
Cleto e Sisto e Pio e Calisto e  Urbano.  Gli  uomini  di  quell'aurea  età  più
illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come in un pantheon; è  il
mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel
Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.
        Questa età dell'oro collocata nel passato e messa  a  confronto  con  la
tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed
è la pittura dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida,  uno  de'
suoi antenati. Ivi inno e satira  sono  fusi  insieme:  vedi  l'ideale  dell'età
dell'oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi,  con  tanta
modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di  Aguglione  e  le  sfacciate
donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende  proporzioni
epiche: Dante si fa egli medesimo  il  suo  piedistallo.  Nella  predizione  che
Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si
pare  la  profonda  tristezza  del  vecchio  e  stanco  poeta.  L'esilio  non  è
rappresentato  ne'  patimenti  materiali:  Dio  riserba  dolori  più  acuti   ai
magnanimi, lasciare  ogni  cosa  diletta  più  caramente  e  domandare  il  pane
all'insolente pietà degli estranei: questo strazio  di  tanti  miseri  vive  qui
immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande.  Ma  è
un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo  ingegno  e  della
sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.
        La letizia delle anime non è solo amore, ma  visione  intellettuale.  La
luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò
la luce e detta «intellettuale». Beatrice spiega così il suo riso a Dante:

        S'io ti fiameggio nel caldo d'amore
        di là dal modo che in terra si vede,
        sì che degli occhi tuoi vinco il valore,
        non ti maravigliar; chè ciò procede
        da perfetto veder, che, come apprende,
        così nel bene appreso move il piede.

La beatitudine e  la  contemplazione,  e  la  contemplazione  è  appunto  questa
perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e
non dimostrano, ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma come natura
vivente. In terra ci è l'apparenza del  vero,  e  perciò  diversità  di  sistemi
filosofici, come spiega Beatrice:

        Voi non andate giù per un sentiero
        filosofando: tanto vi trasporta
        l'amor dell'apparenza e 'l suo pensiero.

In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno; in Dio è  legato  con
amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna; vedere Dio è  vedere  la
verità. E non è visione solo di cose, ma di pensieri  e  di  desidèri.  I  beati
vedono il pensiero di Dante senza ch'egli lo esprima.
        La scienza com'era concepita a' tempi di Dante, sposata  alla  teologia,
avea una  forma  concreta  e  individuale,  materia  contemplabile  e  altamente
poetica. Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l'idea esemplare
dell'universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra  e  risplende  in  una
parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze; gli  astri,  dove  si
affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e governati da  intelligenze  da
cui spira il moto e le virtù de' loro giri; il cielo empireo, centro  di  tutt'i
cerchi  cosmici  e  soggiorno  della  pura  luce;  l'universo,  splendore  della
divinità, dove appare squadernato ciò  che  in  Dio  è  un  volume;  l'ordine  e
l'accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove  gerarchie
degli angioli; la caduta dell'uomo per il primo peccato e il  suo  riscatto  per
l'incarnazione  e  la  passione  del   Verbo;   la   verità   rivelata,   oscura
all'intelletto, visibile al  cuore,  avvalorata  dalla  fede,  confortata  dalla
speranza, infiammata dalla carità: in questa scienza della creazione il pensiero
è talmente concretato e incorporato, che il poeta  può  contemplarlo  come  cosa
vivente, come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che
una descrizione, come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto  vedere
de' beati è privilegio di  Dante;  nessuno  gli  sta  del  pari  nella  forza  e
chiarezza della visione. Spirito dommatico,  credente  e  poetico,  predica  dal
paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con
l'immaginazione, aguzzata dalla grandezza e  verità  dello  spettacolo.  Nascono
ardite metafore e maravigliose  comparazioni.  L'accordo  della  prescienza  col
libero arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una
concezione, è una visione, uno spettacolo: così potente è  questa  immaginazione
dantesca:

        La contingenza che fuor del quaderno
        della vostra materia non si stende,
        tutta è dipinta nel cospetto eterno.

        Necessità però quindi non prende,
        se non come dal viso in che si specchia
        nave che per corrente giù discende.

        Da indi, sì come viene ad orecchia
        dolce armonia da organo, mi viene
        a vista il tempo che ti si apparecchia.

Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall'alto del paradiso, da cui
dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa  e  dommatica,
anzi  che  discorsiva  e  dimostrativa,  e  propria  della  poesia,  presentando
all'immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:

        Guardando nel suo Figlio con l'Amore
        che l'uno e l'altro eternalmente spira
        lo primo e ineffabile valore
        quanto per mente e per occhio si gira
        con tant'ordine fe' ch'esser non puote
        senza gustar di lui chi ciò rimira.

Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata  nel
Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione. È un certo modo di  situare
l'oggetto e metterlo in vista, sì che l'occhio dell'immaginazione  lo  comprenda
tutto. Se ci è cosa che ripugna a  questa  forma,  è  lo  scolasticismo  con  la
barbarie delle sue formole  e  le  sue  astrazioni;  ma  l'immaginazione  vi  fa
penetrare l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle  due  grandi  potenze  della
mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù  formativa.  Veggasi  la  stupenda
descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco inferiore alla  storia
del processo creativo, il capolavoro di questo  genere.  Qui  la  scienza  della
creazione è abbracciata in un solo girar  d'occhio,  con  sì  stretta  e  rapida
concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola  idea  semplice.
Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l'unità della luce nella sua
diversità, e l'imperfezione della natura, che non ti dà mai realizzato l'ideale.
I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori  della  creazione,
la luce, il cielo, la natura, e non hai un ragionamento, hai una storia animata,
con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere
persone poetiche:

        Ciò che non muore e ciò che può morire
        non è se non splendor di quell'idea,
        che partorisce amando il nostro Sire.
        Chè quella viva luce che si mea
        dal suo Lucente, che non si disuna
        da lui, nè dall'amor che in lor s'intrea;
        per sua bontate il suo raggiare aduna
        quasi specchiato in nuove sussistenze,
        eternalmente rimanendosi una.

Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di  energia  in  dir  cosa
difficilissima.  Nè  minor  potenza  d'intuizione  trovi  nella  fine,   quando,
paragonando l'ideale alla cera del suggello, aggiunge:

        ma la natura la dà sempre scema,
        similemente operando all'artista,
        che ha l'abito dell'arte e man che trema.

Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze ci è  non  poca  scoria.
Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall'università di Parigi,
pieno il capo di tesi e di sillogismi. Molte  quistioni  sono  troppo  speciali,
altre  sono  infarcite  di  barbarie   scolastica:   definizioni,   distinzioni,
citazioni, argomentazioni. E questo è non per difetto di virtù poetica,  ma  per
falso giudizio. A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia,
e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno  sin  qui  seguito  in  piccola
barca. - Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli  quei  pochi
che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i  dottori  suoi
pari. Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato. Stanca  soprattutto
la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e
discente.
        La visione intellettuale è la beatitudine. L'esposizione  della  scienza
riesce in cantici e inni, le ultime parole del veggente si  confondono  con  gli
osanna del cielo:

        Finito questo, l'alta corte santa
        risuona per le spere un Dio lodiamo,
        nella melode che lassù si canta.

        Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
        risono per lo cielo, e la mia donna
        dicea con gli altri: «Santo, santo, santo !»

Così è sciolto questo mistero dell'anima. Adombrato ne' simboli e allegorie  del
Purgatorio,  qui  il  mistero  è  svelato,  è   la   Divina   Commedia
dell'anima, il suo indiarsi nell'eterna letizia. La forza che tira  Dante  a
Dio, si che sale come rivo,

        se di alto monte scende giuso ad imo,

è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste le piume Beatrice è in sè  il
compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne' suoi  mutamenti.
Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando «regalmente proterva»  rimprovera
l'amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera  di  pennello.  La
stessa parola  non  è  possente  di  descrivere  quel  riso  e  quella  bellezza
trasmutabile, se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti. Ecco uno  de'  più
bei luoghi:

        Quivi la donna mia vid'io sì lieta,
        come nel lume di quel ciel si mise,
        che più lucente se ne fe' il pianeta;
        e se la stella si cambiò e rise,
        qual mi fec'io, che pur di mia natura
        trasmutabile son per tutte guise!
        Come in peschiera che è tranquilla e pura
        traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
        per modo che lo stimin lor pastura;
        sì vid'io ben più di mille splendori
        trarsi ver' noi, ed in ciascun s'udia:
        Ecco chi crescerà li nostri amori. -

Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima. L'amore è  purificato:  nulla
resta più di sensuale. Dante che nel purgatorio  sentì  il  tremore  dell'antica
fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla  riverenza.  Quando
ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e
consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine,
siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra  si
dilegua nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio:

        Così orai, e quella si lontana,
        come parea, sorrise e riguardommi:
        poi si tornò alla eterna fontana.

Come Dante non potè entrare nel paradiso  terrestre  a  vedere  il  simbolo  del
trionfo di Cristo senza lo «scotto» del pentimento, così non può ne' «gemelli» o
stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che  non  dichiari  la  sua  fede.
Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol dire banditore  della  verità.
San Pietro gli dice:

        e non asconder quel ch'io non ascondo.

Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione. È  la  verità
bandita dal cielo, della quale Dante  si  fa  l'apostolo  e  il  profeta:  è  il
«poema sacro». Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe'
«sesto fra cotanto senno», qui si pone accanto a san Pietro e  se  ne  fa
l'interprete, congiungendo in sè le due corone, il savio e il santo, l'antica  e
la nuova civiltà, il filosofo e il teologo. Dichiarata la sua fede, consacrato e
incoronato, Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la divinità
nella  sua  umanità,   il   Dio-uomo.   Il   trionfo   di   Cristo,   la   festa
dell'Incarnazione, sembra reminiscenza  di  funzioni  ecclesiastiche,  co'  suoi
principali attori, Cristo, la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono  come
nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di  loro  e  intorno  a  loro.
Succede il trionfo degli angioli, e poi nell'empireo il trionfo di Dio.
        L'empireo è la città di Dio, il convento de' beati, il  proprio  e  vero
paradiso. Beatrice raggia sì, che il poeta si concede vinto più  che  tragedo  o
comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir

        più dietro a sua bellezza poetando,
        come all'ultimo suo ciascun artista.

Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile

        lo Creatore a quella creatura
        che solo in lui vedere ha la sua pace.

La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui  bianche  foglie
si distendono per l'infinito spazio, e sono gli scanni de' beati.  San  Bernardo
spiega e descrive il maraviglioso giardino. Il punto che più splende è  là  dove
sono

        gli occhi da Dio diletti e venerati,

dove è la Vergine e  gli  angioli.  Quel  punto  è  la  pacifica  orifiamma  del
paradiso, la bandiera  della  pace.  Il  giardino,  la  rosa,  l'orifiamma  sono
immagini graziose, ma  inadeguate.  Queste  metafore  non  valgono  la  stupenda
terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:

        Diffuso era per gli occhi e per le gene
        di benigna letizia, in atto pio,
        quale a tenero padre si conviene.

Il  paradiso,  appunto  perchè  paradiso,  non  puoi   determinarlo   troppo   e
descriverlo, senza impiccolirlo. La sua forma adeguata è il sentimento, l'eterno
tripudio: ciò che è ben colto in  quella  plenitudine  volante  di  angeli,  che
diffondono un po' di vita tra quella  calma.  Il  vero  significato  lirico  del
paradiso è nell'inno di Dante a  Beatrice  e  nell'inno  di  san  Bernardo  alla
Vergine, ne'  quali  è  il  paradiso  guardato  dalla  terra  con  sentimenti  e
impressioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti,  quando  tra  quella
luce vedi spuntare

visi a carità suadi, ed atti ornati di tutte onestadi

o quando «chiudon le mani» implorando la Vergine.
        Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l'universo, e poi la
Trinità, e poi l'Incarnazione, congiunzione dell'umano e del divino, in  cui  si
acqueta il desiderio, il «disiro» e il «velle»,

        sì come ruota ch'egualmente e mossa.

Dante vede, ma  è  visione,  di  cui  hai  le  parole  e  non  la  forma;  ci  è
l'intelletto, non ci è  più  l'immaginazione,  divenuta  un  semplice  lume,  un
barlume. La  forma  sparisce;  la  visione  cessa  quasi  tutta;  sopravvive  il
sentimento:

        ... quasi tutta cessa
        mia visione, ed ancor mi distilla
        nel cor lo dolce che nacque da essa.
        Così la neve al sol si disigilla;
        così al vento nelle foglie lievi
        si perdea la sentenzia di sibilla.

L'immaginazione morendo manda in questi bei  versi  l'ultimo  raggio.  All'«alta
fantasia» manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.
        Così finisce la storia dell'anima. Di forma in forma,  di  apparenza  in
apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e
puro atto. Ed è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio,  trova
la pace. Nell'Inferno signoreggia la  materia  anarchica:  le  sue  forme
ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate, distinte,  corpulente  e  personali.
Nel Purgatorio la materia non è  più  la  sostanza,  ma  un  momento:  lo
spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista la
sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui  si
sprigiona, aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le  sue  forme  sono
fantasmi e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali:  pitture,
sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso  lo  spirito  già
libero di grado in grado s'india; le  differenze  qualitative  si  risolvono,  e
tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella  incolorata  melodia
musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace  che  tutti  cercavano,  quel
regno di Dio, quel regno della filosofia, quel «di  là»,  tormento  e  amore  di
tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della nuova civiltà, di  cui  avevi
qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui  compreso  in  una  immensa  unità,  che
rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la  storia.  E
chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà dell'artista, del poeta  del
filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale  e  della  sua
potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all'opera,  la  patria,
la posterità, l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno,
acuti stimoli, ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili, l'amor  della
parte, la vendetta, le passioni dell'esule: ci è là dentro nella  sua  sincerità
tutto l'uomo, ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio. A poco  a  poco  quel  mondo
della fantasia diviene parte del suo essere, il suo compagno  fino  agli  ultimi
giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria, l'eco de' suoi  dolori,  delle
sue speranze e delle sue maledizioni. Nato a immagine  del  mondo  che  gli  era
intorno, simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora  e
s'impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto.  La  sua
mente sdegna la superficie,  guarda  nell'intimo  midollo,  e  la  sua  fantasia
ripugna all'astratto, a tutto dà forma. Onde nasce quella  intuizione  chiara  e
profonda che è il carattere del suo genio. E non solo l'oggetto gli si  presenta
con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti.  E  n'esce  una
forma, che è insieme immagine e sentimento, immagine calda e  viva,  sotto  alla
quale vedi il colore del sangue, il movere  della  passione.  E  con  l'immagine
tutto è detto, e non vi s'indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di  cosa
in cosa, e sdegna gli accessorii. A conseguire l'effetto spesso  gli  basta  una
sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e  di  sentimenti,  e
spesso, mentre la parola  dipinge,  non  fosse  altro,  con  la  sua  giacitura,
l'armonia del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo, tutto è cose,  cose
intere  nella  loro  vivente  unità,  non   decomposte   dalla   riflessione   e
dall'analisi. Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non  squadernato.  È
un mondo pensoso, ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte  annuvolata  da
pensiero in travaglio. In quelle profondità  scavano  i  secoli,  e  vi  trovano
sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto  ancora  e  nodoso  e
pregno  di  misteri  quel  mondo,  che  sottoposto  all'analisi,  umanizzato   e
realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.





VIII IL CANZONIERE

Dante morì nel 1321. La sua Commedia riempie di sè  tutto  il  secolo.  I
contemporanei la chiamarono «divina», quasi la parola sacra, il libro dell'altra
vita, o come diceano, il «libro dell'anima». Un tal Trombetta,  quattrocentista,
la mette fra le opere sacre e i libri dell'anima «da  studiarsi  in  quaresima»,
come le Vite de' santi Padri la Vita di san  Girolamo.  Il  popolo
cantava i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia.
I dotti ammiravano la scienza sotto il  velo  delle  favole,  quantunque  alcuni
austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo non ce l'avrebbero voluto. E Fazio degli
Uberti crede di far cosa più degna, rimovendo ogni  velo  ed  esponendoci  arida
scienza nel suo Dittamondo, «dicta mundi».
        L'impressione non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita,
ma tenevano il libro più che poesia. Vedevano là entro il  libro  della  vita  o
della verità, e ben presto fu  spiegato  e  comentato  come  la  Bibbia  e  come
Aristotile, accolto con la stessa serietà con la quale era stato concepito.
        Oscurissimo in  molti  particolari,  e  per  le  allusioni  politiche  e
storiche e pel senso allegorico, il libro  nel  suo  insieme  è  così  chiaro  e
semplice, che si abbraccia tutto di un solo sguardo. La  scienza  della  vita  o
della creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e rappresentata con  perfetta
chiarezza   e   coesione.   L'armonia   intellettuale    diviene    cosa    viva
nell'architettura, così  coerente  e  significativa  nelle  grandi  linee,  così
accurata ne' minini particolari. L'immaginazione anche più pigra  concepisce  di
un  tratto  inferno,  purgatorio  e  paradiso.  Il  pensiero  nuovo,  mistico  e
spiritualista,  lunga  elaborazione  dei  secoli,  compariva  qui  perfettamente
armonizzato e pieno di vita. In questo mondo intellettuale e dommatico, così ben
rispondente alla coscienza universale, si sviluppava  la  storia  o  il  mistero
dell'anima nella più grande varietà delle forme, sì che vi si  rifletteva  tutta
la vita morale nel suo senso più  serio  e  più  elevato.  Il  sentimento  della
famiglia, la viva impressione della natura, l'amor della patria, un certo  senso
d'ordine, di unità, di pace interiore che  fa  contrasto  al  disordine  e  alla
licenza di quei costumi pubblici  e  privati,  la  virtù  dell'indignazione,  il
disprezzo di ogni viltà e volgarità, la virilità e  la  fierezza  della  tempra,
l'aspirazione ad un ordine di cose ideale e superiore, il vivere in  ispirito  e
in contemplazione, come staccato dalla terra, il sentimento  della  giustizia  e
del dovere, la professione della verità, piaccia o  non  piaccia,  con  l'occhio
volto a' posteri, e quella fede congiunta  con  tanto  amore,  quell'accento  di
convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalità,  della  sua
grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di più  nobile
ed elevato e nella natura umana. Anche quel non so che scabro e  rozzo  e  quasi
selvaggio, ch'è nella superficie, rendeva l'immagine di quella  eroica  e  ancor
barbara giovinezza del mondo moderno.
        Ma l'impressione prodotta dalla  Commedia  rimaneva  circoscritta
nell'Italia centrale. La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora sentire la
sua azione nelle rimanenti parti d'Italia, dove la lingua dominante  era  sempre
il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado  l'esempio  di  Dante,  non  era
ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di cose d'amore.  E
in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di  quella  scuola
immortale, dalla quale era uscita la Commedia. Compariva sulla  scena  la
nuova generazione.
        Lo studio de' classici, la scoperta di  nuovi  capilavori,  una  maggior
pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo
de' guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici  di
questa nuova situazione.  La  superficie  si  fa  più  levigata,  il  gusto  più
corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma  per  se
stessa. Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee  in  quella  forma
più viva e rapida che si offrisse loro  innanzi;  ma  cercarono  la  bellezza  e
l'eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio, Cicerone, Virgilio  parve  loro
barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati  e  quelle  storie
che erano state l'ammirazione della forte generazione scomparsa, e non  poterono
tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia. Intenti più alla forma  che
al contenuto, poco loro importava la materia, pur che lo stile  ritraesse  della
classica eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in  Italia,  e  capi
furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
        Nel Petrarca si manifesta energicamente  questo  carattere  della  nuova
generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le
storie di Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e  due
sue orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità la prima  versione
di Omero e di parecchi scritti di Platone.  Scopritore  instancabile  di  codici
emendava,  postillava,  copiava:  copiò  tutto  Terenzio.   In   questa   intima
familiarità co' più grandi scrittori  dell'antichità  greco-latina,  tutto  quel
tempo di poi, che fu detto «il medio evo», gli apparve una  lunga  barbarie;  di
Dante  stesso  ebbe  assai  poca  stima;  gli  stranieri   chiamava   «barbari»;
gl'italiani  chiamava  «latin  sangue   gentile»;   voleva   una   ristaurazione
dell'antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de'
costumi. Era Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici  e  li
chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono  lui  e  lo  chiamarono  Cicerone.
Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano,  a
Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali  viveva  in  ispirito,  e
poco  innanzi  di  morire,  scrisse  una  lettera  alla  posterità,  alla  quale
raccomanda la sua memoria.
        Così appariva l'aurora del Rinnovamento. L'Italia volgeva le  spalle  al
medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava  popolo
romano e latino. Questo proclamava Cola da  Rienzo  dall'alto  del  Campidoglio.
Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il  campo  agli
eruditi e a' letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale
e divenne scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato  in  tutto  lo
scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leggende, i  miti,  i  misteri,
separati dal tronco in cui vivevano,  divennero  forme  puramente  letterarie  e
d'imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico  nel  concetto,  scolastico  e
allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in  grado  di
gustare Virgilio e Omero.
        Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana  e
latina e si pone nella sua personalità di rincontro  agli  altri  popoli,  tutti
stranieri e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci
è più il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino: c'è l'Italia che
si sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla  con  l'orgoglio
di una razza superiore, e ricorda Mario come se  fosse  vivuto  l'altro  ieri  e
quella storia fosse la sua storia; ci  è  la  viva  impressione  di  quel  mondo
classico sul giovine poeta, che ivi trova i  suoi  antenati  e  cerca  di  nuovo
quell'Italia potente e gloriosa,  l'Italia  di  Mario.  L'orgoglio  nazionale  e
l'odio de' barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro.
Vi compariscono già tutte le qualità di un grande artista.  La  chiarezza  e  lo
splendore dello stile, la  fusione  delle  tinte,  l'arte  de'  chiaroscuri,  la
perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietà nel  ragionamento,  la
misura ne' sentimenti, un dolce calore che  penetra  dappertutto  senza  turbare
l'equilibrio e la serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone uno
de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia ha avuto il suo poeta; ora ha  il  suo
artista.
        In questa risurrezione dell'antica  Italia  è  naturale  che  la  lingua
latina fosse stimata non solo lingua de' dotti, ma lingua nazionale,  e  che  la
storia di Roma dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia.  Da  queste
opinioni  uscì  l'Africa,  che  al   Petrarca   dove   parere   la   vera
Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima,
nella quale  Roma,  vincendo  Cartagine,  si  apriva  la  via  alla  dominazione
universale. Questo poema rispondeva  così  bene  alla  coscienza  pubblica,  che
Petrarca fu incoronato principe de' poeti, ed ebbe tal grido e  tali  onori  che
nessun uomo ha avuto mai.  Nuovo  Virgilio,  volle  emulare  anche  a  Cicerone,
accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare  pubbliche
orazioni. Scrisse egloghe,  trattati,  dialoghi,  epistole,  sempre  in  latino:
lavori  molto  apprezzati  da'  contemporanei,  ma  tosto  dimenticati,   quando
cresciuta la coltura e raffinato il gusto, parve il  suo  latino  così  barbaro,
come barbaro era parso a lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e  de'
Bonati tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
        Ma la lingua latina potea così poco rivivere come  l'Italia  latina.  Il
latino scolastico avea pure alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava la  lingua
e l'ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico non potea  produrre
che un puro lavoro d'imitazione. Lo scrittore pieno di  riverenza  verso  l'alto
modello  non  pensa  ad  appropriarselo  e  trasformarlo,  ma  ad  avvicinarvisi
possibilmente. Tutta la sua attività è volta alla frase classica,  che  gli  sta
innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le idee accessorie che  suscitava
ne' contemporanei, e dove è il più fino e il  più  intimo  dello  stile.  Perciò
schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le perifrasi e  le
circonlocuzioni, e arido nelle immagini, povero di colori, scarso  di  movimenti
interni, e dice non quanto o come gli sgorga dal  di  dentro,  ma  ciò  che  può
rendersi  in  quella  forma   e   secondo   quel   modello:   difetti   visibili
nell'Africa. Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo  studio
della forma in se stessa con tutti gli artifici e i  lenocini  della  rettorica:
ciò che fu detto «eleganza»,  «forma  scelta  e  nobile»;  maniera  di  scrivere
artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a  Cola  di
Rienzo, opera più di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto, finchè  in
Italia durò questa coscienza artificiale.
        In verità il Petrarca era tutt'altro  che  romano  o  latino,  come  pur
voleva parere: potè latinizzare il suo nome, ma non la sua anima.  Lo  scrittore
latino è tutto al di fuori, ne' fatti e  nelle  cose,  è  tutto  vita  attiva  e
virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi. Al Petrarca
sta male l'abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani
e ridevano. Non sentivano l'uomo in  tutto  quel  rimbombo  ciceroniano.  L'uomo
c'era, ma più simile all'anacoreta e al santo che a  Livio  e  a  Cicerone,  più
inclinato alle fantasie e alle estasi che  all'azione.  Natura  contemplativa  e
solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua  vera
vita fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu il  poeta  di  se
stesso. Dante alzo Beatrice nell'universo, del quale si fece la coscienza  e  la
voce; egli calò tutto l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il  suo  mondo.
Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
        Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo  è  più  piccolo,  è
appena un frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento divenuto una
compiuta e ricca totalità, un mondo  pieno,  concreto,  sviluppato,  analizzato,
ricerco ne'  più  intimi  recessi.  Beatrice  sviluppata  dal  simbolo  e  dalla
scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e  personalità  di  donna;  l'amore,
scioltosi dalle universe cose entro le quali  giaceva  inviluppato,  qui  non  è
concetto nè simbolo, ma sentimento; e l'amante, che occupa sempre la  scena,  ti
dà la storia della sua anima, instancabile esploratore di se stesso.  In  questo
lavoro analitico-psicologico la realtà pare sull'orizzonte  chiara  e  schietta,
sgombra di tutte le nebbie, tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine  da'
miti, da' simboli, dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in  piena
luce, nel tempio dell'umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di mezzo  tra
l'uomo e noi. La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.
        Gli è vero che la  teoria  rimane  la  stessa.  La  donna  è  «scala  al
Fattore», l'amore è il «principio  delle  universe  cose».  Ma  tutto  questo  è
accessorio, è il convenuto; la sostanza del  libro  è  la  vicenda  assidua  de'
fenomeni più delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra  le  tradizioni
provenzali e le corti d'amore, quando Francesco da Barberino avea già pubblicato
i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di  tutte
le leggi e costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e  spaccia  la
stessa  rettorica,  allegorie,  concetti,  sottigliezze,  spiritose  galanterie.
Soprattutto tiene molto a questo, che tutto il mondo sappia non essere, il  suo,
amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di  virtù.  Dante  chiama  infamia
l'accusa di avere espresso il suo amore troppo sensualmente, e a cessare  da  sè
l'infamia trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni  filosofiche.  Ma
le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè
e il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza, ma come corpo, che
gli scalda l'immaginazione. Laura è modesta,  casta,  gentile,  ornata  di  ogni
virtù; ma sono qualità astratte, non è qui la sua poesia. Ciò che move  l'amante
e ispira il poeta, è Laura da' capei biondi, dal collo di  latte,  dalle  guance
infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso, la quale egli situa  e  atteggia  in
mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un  bel
paesaggio, il verde del campo, la pioggia de' fiori, l'acqua che mormora,  fatta
la natura eco di Laura.
        Questo sentimento delle belle forme, della bella  donna  e  della  bella
natura, puro di ogni turbamento,  è  la  musa  di  Petrarca.  Diresti  Laura  un
modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo,  ma  come  pittore,
intento meno a possederlo che a rappresentarlo.  E  Laura  è  poco  più  che  un
modello, una bella forma serena, posta lì  per  essere  contemplata  e  dipinta,
creatura pittorica, non interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale
stato dell'animo, ma è la Donna, non velo o  simbolo  di  qualcos'altro,  ma  la
donna come bella. Non ci è  ancora  l'individuo:  ci  è  il  genere.  In  quella
quietudine dell'aspetto, in quella serenità della forma ci è l'ideale  femminile
ancora divino, sopra le passioni, fuori degli avvenimenti, non tocco da  miseria
terrena, che il poeta  crederebbe  profanare  calandolo  in  terra  e  facendolo
creatura umana. La chiama una dea, ed è una dea; non è ancor donna.  Sta  ancora
sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli uomini, non si  è  umanata.
Coloro i quali vogliono  leggere  nell'anima  di  questo  essere  muto  e  senza
espansione, e cercarvi il suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il
poeta, cercano la donna dov'egli vedeva la dea. Certo a' nostri occhi Laura  dee
parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma  chi  si  mette  in  quei
tempi mitici e allegorici, troverà in Laura la creatura più reale che  il  medio
evo poteva produrre.
        La vita di Laura diviene umana appunto allora che è  morta  ed  è  fatta
creatura celeste. Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è l'amore  di
una morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi. Non  vedi  più  i  «capei
d'oro» e le «rosee dita» e il «bel piede»,  dal  quale  l'«erbetta  verde»  e  i
«fiori di color mille» desiderano d'esser tocchi. Pure questa Laura non  dipinta
e più bella, e soprattutto più viva, perchè «meno altera», meno dea e più donna,
quando apparisce all'amante, e siede sulla sponda del suo letto, e  gli  asciuga
gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli  angioli  si
volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine  desidera  il
bel corpo e l'amante ed entra con lui in dolci  colloqui.  Così  il  mistero  di
Laura si scioglie  nell'altro  mondo,  com'è  nella  Commedia:  tutte  le
contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale, tolta di mezzo  la
carne,  divenuta  creatura  libera  dell'immaginazione,  Laura  par  fuori   con
chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa,  e  ci  è  soprattutto  la
donna. Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e Laura cominciano
a vivere, appunto quando muoiono.
        E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In  vita  di  Laura,  sorge
l'opposizione tra il senso e la ragione, tra  la  carne  e  lo  spirito.  Questo
concetto fondamentale del medio evo, se nel  Petrarca  è  purificato  della  sua
forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo «credo»  cristiano
e filosofico. L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia platonica  o
spirituale, legame d'anime, puro di ogni concupiscenza; dalla  quale  astrazione
non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza  sangue,  dove  non
trovi nè l'amante, nè l'amata, nè  l'amore.  Vi  sono  momenti  nella  vita  del
Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa  dare  a  questo
spasso. Allora riproduce la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in una
forma eletta e  vezzosa,  che  li  pallia.  E  vi  trovi  il  convenzionale,  il
manierato, le regole e  le  sottigliezze  del  codice  d'amore,  soprattutto  il
concettoso, dotato com'era di uno  spirito  acuto.  Non  coglie  se  stesso  nel
momento dell'impressione; l'impressione è passata, e se la mette  dinanzi  e  la
spiega, come critico o filosofo: hai un di  là  dell'impressione,  l'impressione
generalizzata e spiegata, come è nella più parte de' suoi  sonetti  in  vita  di
Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti  in  forma  pretensiosa  e
civettuola. Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con  Platone  e  col  codice
d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna,  sull'amore,
pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice  di  verso,  un  ingegno
colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e  non  l'artista.  Ma
nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e  agitazioni,  circuito
di fantasmi, par fuori la sua personalità: trovi il poeta  e  l'artista.  Quello
che sente è in opposizione con quello che crede. Crede che la carne  è  peccato;
che il suo amore è spirituale;  che  Laura  gli  mostra  la  via  «che  al  ciel
conduce»; che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo «credo»  trovasse
ogni  suo  appagamento,  avremmo  Dante  e  Beatrice.  Ma  non  vi  si   appaga:
l'educazione  classica  e  l'istinto  dell'artista  si  ribella  contro   queste
astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno  spirito  nuovo,
il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani. Non vi si  appaga
l'artista, e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto, non  ben  sicuro
di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso del senso  e  tutte  le
ansietà di un amore di donna. Scoppia fuori la contraddizione, o il mistero.  Il
suo amore non e così possente che lo metta in istato di ribellione verso le  sue
credenze, nè la sua fede è così possente che uccida la sensualità del suo amore.
Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed  un  no,  un
voglio e non voglio:

        Io medesmo non so quel che mi voglio.

Nasce il mistero dell'amore, che ti offre le più diverse apparenze, senza che il
poeta giunga ad averne chiara coscienza:

        Se amor non è, che dunque è quel che i' sento?
        a s'egli è amor, per Dio che cosa e quale?

Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione, e più vi  si
dimena, più vi s'impiglia. Il canzoniere in vita di Laura è la storia delle  sue
contraddizioni. Ora gli pare che contraddizione non ci sia,  e  unisce  in  pace
provvisoria cielo e terra, ragione e senso, gli occhi che mostrano  la  via  del
cielo e gli occhi alfin dolci tremanti,

        ultima speme de' cortesi amanti.

Sono i suoi momenti di sanità e  di  forza,  di  entusiasmo  più  artistico  che
amoroso, dal quale escono le vivaci descrizioni del bel corpo e le tre  «canzoni
sorelle». Ora si sente inquieto, e si  lascia  ir  dietro  alla  corrente  delle
impressioni e delle immagini, e vede il meglio e  al  peggior  s'appiglia,  come
conchiude nella canzone

        I' vo pensando e nel pensier m'assale,

dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il senso, la ragione  che
parla e il senso che morde. E ci sono pure momenti che la ragione piglia  il  di
sopra, e si volge a Dio, e si confessa, e fa proposito di svellere dal suo cuore
il «falso dolce fuggitivo»,

        che il mondo traditor può dare altrui.

Non c'è dunque nel Canzoniere una storia, un andar graduato da  un  punto
all'altro; ma è un vagar continuo tra le più contrarie impressioni,  secondo  le
occasioni e lo stato dell'animo in questo o quel momento della vita.  Non  ci  è
storia, perchè nell'anima non ci è una forte volontà, ne uno scopo  ben  chiaro;
perciò è tutta in balìa d'impressioni momentanee, tirata in  opposte  direzioni.
Di che nasce un difetto d'equilibrio, la discordia o la scissura  interiore.  Il
reale comparisce la prima volta nell'arte, condannato,  maledetto,  chiamato  il
«falso dolce fuggitivo»: pur desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo
in immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato.  Minore  è  la
speranza, più vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga  in
immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie,  di  quello  che
l'animo desidera, non con la speranza di conseguirlo, anzi con la  coscienza  di
non conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare,

        e più certezza averne fora il peggio.

Perchè  se  per  averne  più  certezza,  rompe  il   corso   dell'immaginazione,
sopraggiunge il disinganno.  Così  vive  in  fantasia,  fabbricandosi  godimenti
interrotti spesso dalla riflessione con un «ahi lasso!», in  un  flutto  perenne
d'illusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è  appunto  in  questo,  nella
immaginazione che costruisce e nella riflessione che distrugge:  malattia  dello
spirito, nata appunto dall'esagerazione dello spiritualismo. Lo  spirito  non  è
sano, perchè a forza di segregarsi dalla natura e dal senso si trova al fine  di
rincontro e ribelle l'immaginazione, e l'immaginazione non è sana, perchè ha  di
rincontro a sè e ribelle la riflessione, che in un  attimo  le  dissipa  i  suoi
castelli incantati. Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non
ha  forza   di   sottoporsi   la   volontà,   per   il   contrasto   che   trova
nell'immaginazione. L'immaginazione rimane pura immaginazione, e  non  ha  forza
sulla volontà, non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi  per  il  contrasto
che trova nella riflessione. Se una delle due forze potesse  soggiogar  l'altra,
nascerebbe l'equilibrio e la  salute;  ma  le  due  forze  lottano  senza  alcun
risultato, non si giunge mai a un virile «io voglio», ci è al di dentro il sì  e
il no in eterna tenzone: perciò  la  vita  non  esce  mai  al  di  fuori  in  un
risultato, in un'azione, rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta  al  di
dentro:

        ... ... In questi pensier,
        lasso, tienmi dì e notte il signor nostro, Amore.

Lo spirito consuma se stesso  in  un  fantasticare  inutile  e  in  una  inutile
riflessione. È punito là dove ha peccato. Ha voluto assorbir tutto in sé; e  ora
si trova solo, e si ciba di se stesso  ed  è  egli  medesimo  il  suo  avoltoio.
Stanco, svogliato, disgustato di una realtà a cui si sente estraneo,  il  poeta,
come un romito, volge le spalle  al  mondo  e  si  riduce  nella  solitudine  di
Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con  se  stesso  a  fantasticare,
«solo e pensoso», incalzato dal suo interno avoltoio:

        Solo e pensoso i più deserti campi
        vo misurando a passi tardi e lenti.

Da questa situazione sono uscite le due più  profonde  canzoni  del  medio  evo,
l'una poco nota, l'altra  assai  popolare,  amendue  poco  studiate,  l'una  che
incomincia:

        Di pensiero in pensier, di monte in monte;

l'altra che incomincia:

        Chiare, fresche e dolci acque.

Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara  coscienza  della  sua  malattia,  di
questa attività interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione  dello
spirito, impotente ad uscir da sè e attingere  il  reale,  avremmo  la  tragedia
dell'anima, come Dante ne concepì la commedia  (una  tragedia,  nella  quale  il
medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna)  tra'  dolori
della contraddizione  vedremmo  il  misticismo  morire,  spuntare  l'alba  della
realtà, il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato,  ripigliare  la
parte che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza  virilità.  Gli
manca la forza che abbondò a Dante  d'idealizzarsi  nell'universo;  e  rimanendo
chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza: sì  che
la tragedia si risolve in una flebile elegia. Il poeta si abbandona  facilmente,
e prorompe in lacrime e in lamenti. Acuto più che  profondo,  non  guarda  negli
abissi del suo male e si contenta descriverne i fenomeni condensati in  immagini
e in sentenze rimaste proverbiali.  Tenero  e  impressionabile,  capace  più  di
emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, che vien  presto
l'alleviamento, lo scoppio delle lagrime e de' lamenti. Artista più che poeta, e
disposto  a  consolarsi  facilmente,  quando  l'immaginazione  abbia  virtù   di
offrirgli un simulacro di quella realtà di cui sente la privazione:

        in tante parti e sì bella la veggio,
        che se l'error durasse, altro non chieggio.

        La famiglia, la patria, la natura, l'amore sono per  il  poeta,  com'era
Dante, cose reali, che riempiono la vita e le danno uno scopo. Per  il  Petrarca
sono principalmente materia di rappresentazione:  l'immagine  per  lui  vale  la
cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l'immagine e non  la  cosa,
la sua soddisfazione non è intera, ci è in fondo  un  sentimento  della  propria
impotenza, ci e questo: - Non  potendo  avere  la  realtà,  mi  appago  del  suo
simulacro. - Onde nasce un sentimento  elegiaco  «dolce-amaro»,  la  malinconia,
sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo  strazio  e
non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili  fantasmi  e  dolci
illusioni. Manca al suo strazio  l'elevata  coscienza  della  sua  natura  e  la
profondità del sentimento. Ci è  anzi  in  lui  la  tendenza  a  dissimularselo,
cercando scampo nella benefica immaginazione. La fisonomia di questo  stato  del
suo spirito è scolpita nella canzone:

        Chiare, fresche e dolci acque,

cielo fosco e funebre che a poco a  poco  si  rasserena  ne'  più  cari  diletti
dell'immaginazione, insino a che da ultimo divien luce di paradiso:

        Costei per fermo nacque in paradiso.

Il poeta è così attirato in questo mondo fabbricatogli  dall'immaginazione,  che
quando si riscuote, domanda:

        Qui come venn'io, o quando?

Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace, così simile alla realtà,  che
gli parea essere in cielo, non là dov'era. Questa dolce malinconia è  la  verità
della sua ispirazione, è il suo genio.  Quando  si  sforza  di  uscirne,  spunta
spesso il retore: le  sue  collere,  le  sue  ammirazioni  non  sono  senza  una
esagerazione e ricercatezza, che rivelano lo sforzo. Ma quando vi s'immerge e vi
si annega, la sua forma acquista il carattere  della  verità  congiunta  con  la
grandezza, è un modello di semplicità e naturalezza.
        Gli è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le grandi  passioni
e lo sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto  un  artista  finito.  L'immagine
appaga in lui non solo l'artista, ma tutto l'uomo. Senza patria, senza famiglia,
senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario, ritirato nella
solitudine dello studio e nell'intimo commercio degli antichi, la  verità  e  la
serietà della sua vita e tutta in queste espansioni estetiche, come la vita  del
santo e nelle sue estasi e contemplazioni. Dante è sbandito da  Firenze,  ma  la
sua anima è sempre colà. Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità:

        Non è questo 'l terren ch'io toccai pria?

A Dante non fa bisogno di  rettorica.  Si  sente  italiano  e  ne  ha  tutte  le
passioni, e ne senti il fremito e il  tumulto  nella  sua  poesia.  Ciò  che  al
contrario ti colpisce  nel  mondo  personale  e  solitario  del  Petrarca  è  la
privazione della realtà, e un desiderio di essa scemo di forza,  che  si  appaga
ne' docili sogni dell'immaginazione. Tutto  converge  nell'immaginazione;  tutto
gli si offre come un  sensibile:  il  pensiero  e  il  sentimento  sono  in  lui
contemplazione estetica, bella forma.  Ciò  che  l'interessa  non  è  entusiasmo
intellettuale, nè sentimento morale o patriottico, ma la contemplazione  per  se
stessa, in quanto è bella, un sentimento puramente estetico. Laura piange;  egli
dice: - Quanto son belle quelle lacrime! - Laura muore; egli dice:

        Morte bella parrea nel suo bel viso.

Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega sulla sua fossa,

        asciugandosi gli occhi col bel velo.

La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la  bella  faccia  della  sapienza:
dietro a quella ci sta la vita nella sua serietà, vita intellettuale  e  morale.
Qui la bellezza, emancipata dal simbolo si  pone  per  se  stessa,  sostanziale,
libera, indipendente, quale si sia il suo contenuto, sia  pure  indifferente,  o
frivolo o repugnante. Il  contenuto,  già  così  astratto  e  scientifico,  anzi
scolastico, qui pare per la prima volta essenzialmente come  bellezza  schietta,
realtà artistica. Al Petrarca non basta che l'immagine sia viva, come bastava  a
Dante; vuole che sia bella. Ciò che move il suo cervello a sviluppare e  formare
l'immagine, non è l'idea, come storia o filosofia  o  etica,  ma  è  il  piacere
estetico, che in lui s'ingenera della sua contemplazione.
        Questo sentimento della bella forma  è  così  in  lui  connaturato,  che
penetra ne' minimi particolari dell'elocuzione, della lingua e del verso.  Dante
anche nei più minuti particolari di esecuzione guarda il di  dentro,  e  non  lo
perde mai di vista, perchè è il di dentro che l'appassiona; il  Petrarca  rimane
volentieri al di  fuori,  e  non  resta  che  non  l'abbia  condotto  all'ultima
perfezion tecnica. Nelle immagini, ne' paragoni, nelle idee non cerca  novità  e
originalità, anzi attinge volentieri ne' classici e ne' trovatori, intento non a
cercare o trovare, ma a dir meglio ciò che è stato detto da altri.  L'obbiettivo
della sua poesia non è la cosa, ma l'immagine, il modo di rappresentarla. E reca
a tanta finezza l'espressione che la lingua, l'elocuzione, il  verso  finora  in
uno stato di continua e progressiva formazione, acquistano  una  forma  fissa  e
definitiva, divenuta il modello de' secoli posteriori. La lingua poetica è anche
oggi quale il Petrarca ce la lasciò, nè  alcuno  gli  è  entrato  innanzi  negli
artifici del verso e dell'elocuzione. Quel tipo di una lingua illustre che Dante
vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella poesia, dalla  quale
è sbandito il rozzo, il disarmonico, il  volgare,  il  grottesco  e  il  gotico,
elementi che pur compariscono nella Commedia. È una forma bella non  solo
per rispetto all'idea,  ma  per  se  stessa,  aulica,  aristocratica,  elegante,
melodiosa. La parola vale non solo come segno, ma come parola. Il  verso  non  è
solo armonia, o rispondenza con quel di dentro, ma melodia, elemento musicale in
se stesso.
        Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico o  meccanico,  una
vuota sonorità, anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e  innamorata,
che ha il suo riposo, il suo ultimo fine  in  se  stessa.  È  una  immaginazione
chiusa in sè, non trascendente, che di rado si alza a fantasia o  a  sentimento,
anzi rifugge dal fantasma, e  tende  spesso  a  produrre  immagini  finite,  ben
contornate, chiare e fisse. E se vi si appagasse, sarebbe  poesia  assolutamente
pagana e plastica. Ma il grande artista ne'  momenti  anche  più  geniali  della
produzione  sente  come  un  vuoto,  qualche  cosa  che  gli  manchi,  e  non  è
soddisfatto, ed è malinconico. Che gli manca?
        Gli manca, com'è detto, il possesso e il godimento e  la  serietà  e  la
forza della vita reale. Come artista si sente incompiuto; come immaginazione  si
sente isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente  che  là  non  è  la
vita, e vi trova sollievo, non appagamento.  Questo  sentimento  del  vuoto  che
penetra ne' più cari diletti dell'immaginazione, e li tronca bruscamente, questa
immaginazione che, appunto perchè si sente immaginazione e non  realtà,  produce
le sue creature con la lacrima  del  desiderio  negli  occhi,  questo  desiderio
inestinguibile che pullula dal seno stesso dell'arte  e  la  chiarisce  ombra  e
simulacro, e non cosa viva, sono il  fondo  originale  e  moderno  della  poesia
petrarchesca. L'immagine nasce trista, perchè nasce con la coscienza  di  essere
immagine e non cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perchè,  non
ci essendo la cosa, ci è l'immagine, e così bella,  così  attraente.  Situazione
piena di misteri, di contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non so che
«dolce amaro», detto malinconia, un sentirsi consumare e struggere dolcemente:

        che dolcemente mi consuma e strugge.

La malinconia è la musa cristiana, e il male di Dante e de' più  eletti  spiriti
di quel tempo. Ma la malinconia del Petrarca e della nuova generazione  che  gli
stava attorno e già di un'altra natura e accenna a tempi nuovi.
        La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo, che
poneva il fine della vita in un di là della vita, nella congiunzione  dell'umano
e del divino,  che  è  la  base  della  Divina  Commedia.  Le  anime  del
purgatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso ad un bene, di cui hanno
innanzi la sola immagine nelle pitture, ne' simboli,  nelle  visioni  estatiche.
Quei godimenti dell'immaginativa aguzzano  più  il  desiderio.  Non  basta  loro
l'immagine: vogliono la realtà; e questo volere, raddolcito  alla  presenza  del
simulacro, genera la loro malinconia. Sono prive del paradiso, ma lo veggono  in
immaginazione, e sperano di salirvi quando che sia:  perciò  sono  contente  nel
fuoco. La condizione delle anime purganti è molto simile a quella  degli  uomini
nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale è un  velo,
un simulacro di quel di  là  che  la  fede  e  la  scienza  offriva  chiarissimo
all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita corporale era in se stessa il
peccato o la carne, l'inferno, il vasello  o  la  prigione,  dove  l'anima  vive
malinconica: il giorno della morte è per l'anima il giorno della  vita  e  della
libertà. Non che profondarsi nel reale,  e  cercare  di  assimilarselo,  l'anima
tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immaginazione,  fabbricandosi  un
simulacro di quel di là a cui spera di giungere: indi la tendenza all'ascetismo,
alla solitudine, all'estasi  e  al  misticismo.  Questa  era  la  malinconia  di
Caterina, quando dicea: «Muoio e non posso morire».
        La stessa tendenza e la stessa  malinconia  è  nel  Petrarca.  Anch'egli
cerca fabbricarsi ombre e simulacri di Laura,  anch'egli  cerca  l'obblio  e  il
riposo ne' sogni dell'immaginazione. Quando la santa e il  poeta  s'incontrarono
in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di  spirito.  Il  poeta
aveva  la  stessa  inclinazione  alla  solitudine,   alla   contemplazione,   al
raccoglimento, all'estasi, alla malinconia. E se guardiamo all'apparenza,  c'era
in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni.  Quel  «muoio  e  non
posso morire» corrisponde bene a questo grido del poeta:

        aprasi la prigione ov'io son chiuso,
        e che 'l cammino a tal vista mi serra.

Ma qui fiutate la rettorica, e là avete l'espressione nuda  ed  energica  di  un
sentimento che investe tutta l'anima e consuma la santa a trentatrè anni. Questa
concentrazione ed unità delle forze intorno ad  un  punto  solo,  in  che  è  la
serietà della vita, mancò al Petrarca. Il suo mondo è pur quello di  Caterina  e
di Dante, mondato della sua scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma  più
chiara e artistica, ma pur quello. Se  non  che  questo  mondo  mistico  non  lo
possiede tutto e, sovrano e indiscusso nella mente non tira a sè tutte le  forze
della vita. È in lui visibile una dispersione e distrazione di  forze,  come  di
uomo tirato in qua e in là da contrarie correnti, che vorrebbe  pigliar  la  sua
via e non se ne sente  la  forza,  e  vaga  in  balìa  dei  flutti  scontento  e
riluttante.  La  bella  unità  di  Dante,  che  vedeva  la   vita   nell'armonia
dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore,  è  rotta.  Qui  ci  è  scompiglio
interiore ribellione, contraddizione:

        e veggio il meglio ed al peggior m'appiglio.

La malinconia di Caterina è l'impazienza del morire, di unirsi  con  Cristo;  la
malinconia di Dante è la dissonanza fra il mondo divino e la  selva  oscura,  la
vita terrena,  malinconia  piena  di  forza  e  di  speranza,  che  si  scioglie
nell'azione. La malinconia  del  Petrarca  è  la  coscienza  della  sua  interna
dissonanza e della sua impotenza a conciliarla, malinconia insanabile, perchè il
male non è nell'intelletto, è nella volontà  non  certo  ribelle,  ma  debole  e
contraddittoria. Per palliare la dissonanza, esce in mezzo  la  sofistica  e  la
rettorica, con  le  più  smaglianti  frasi,  con  le  più  sottili  distinzioni:
intervalli di tregua, che fanno risorgere più acuta la coscienza del male. Gli è
che il medio evo è già nel  suo  petto  in  fermentazione,  penetrato  di  altri
elementi, senza che egli abbia una distinta coscienza  di  questo  nuovo  stato:
accanto al cristiano ascetico  ci  è  l'erudito,  il  letterato,  l'artista,  il
pagano, l'uomo di mondo  con  tutti  gl'istinti  e  le  tendenze  naturali,  che
vogliono farsi valere. Si forma in lui un essere contraddittorio, come ne' tempi
di transizione, che non è ancora l'uomo nuovo, e non è più l'uomo antico.
        La malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio evo,
di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per
il suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un  mondo  nuovo  che,  oscuro
ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al medio evo e ci sta  a  disagio,  e
tende a sprigionarsene, e non ne  ha  la  forza  per  la  resistenza  che  trova
nell'intelletto. L'intelletto appartiene al medio  evo,  alle  cui  dottrine  ha
tolta la ruvida scorza, non la sostanza. Quel  mondo  nuovo,  plastico,  pagano,
reazione della natura contro il misticismo, è  ancora  così  debole,  così  poco
lineato, che l'intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo  con  una
sofistica apparenza di conciliazione, e se cacciato dalla vita reale riapparisce
nell'immaginazione, può penetrare anche colà e dirgli:  -  Tu  non  sei  che  un
fantasma.
        Se in vita di Laura  questo  sentimento  nuovo  che  sorge,  più  vicino
all'uomo e alla natura, e dissimulato co' più ingegnosi sofismi,  quasi  peccato
che si cerchi di palliare, dopo la morte di Laura purificato  e  trasformato  si
manifesta con più energia. Beatrice morta diviene per Dante la scienza, la  voce
di quel mondo di là, ov'era lo  scopo  della  vita.  La  storia  di  Beatrice  è
sviluppo di idee e di dottrine nella lirica e nella Commedia. Il suo riso
è luce intellettuale, raggio dell'intelletto. La storia di Laura è profondamente
umana e reale, eco de' più delicati sentimenti, delle più tenere emozioni, delle
più vivaci impressioni che colpiscono l'uomo in terra.
         La  poesia  in  vita  di  Laura  è  dominata  dall'intelletto,  da  una
riflessione sofistica e rettorica,  che  altera  la  purità  de'  sentimenti,  e
sottilizza le immagini, e  raffredda  le  impressioni,  e  con  vani  sforzi  di
conciliazione mette più in vista quel sì  e  quel  no  che  battagliavano  nella
debole volontà del poeta. In morte di Laura ogni battaglia cessa, e non ci è più
vestigio di sofismi e di rettorica, perchè la conciliazione cercata finora  così
ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura delle  cose.  Laura
morta diviene libera creatura dell'immaginazione, non  più  persona  autonoma  e
resistente, ma docile fantasma. Il poeta  ne  fa  la  sua  creatura,  può  darle
affetti e pensieri, quali gli piaccia: può  piangerla,  vederla,  parLare  seco,
vivere seco in ispirito. La situazione è semplice e umana.  È  la  donna  amata,
sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e  ti  asciuga  gli  occhi  e  ti
prende per mano  e  ti  parla:  consolazioni  malinconiche,  interrotte  da  una
lacrima, quando ti svegli. Dante si asciuga presto la lacrima, e si gitta fra le
onde agitate dell'esistenza, e si rifà un ideale e lo  chiama  Beatrice.  A  lui
manca il tempo di piangere, perchè tiene nel suo petto  due  secoli,  ed  ha  la
forza di comprenderli e realizzarli. Il Petrarca giunge qui, che è già stanco  e
disgustato dell'esistenza, vi giunge con l'anima di solitario e di romito, e non
ha altra forza che di piangere:

        Ed io son un di quei che il pianger giova.

Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell'esistenza, il perire di  tutte  le
cose:

        Veramente siam noi polvere ed ombra.

Così, dopo vane speranze e vani timori,  quest'anima  tenera  e  impressionabile
rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa da un mondo, dove invano  erasi
sforzata di penetrare, e si ritira nella solitudine della sua immaginazione  con
Laura, chiamando partecipi de' suoi lamenti l'usignolo, e il vago augelletto,  e
la valle e il bosco e l'aura e l'onda. La scissura interna dà luogo ad una calma
elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con l'intelletto. Il passato, cagione di
gioie e di affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida;  vivere  è  un
breve sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti;  quando  gli  occhi  si
chiudono,  allora  si  aprono  nell'eterno  lume;  il   mondo   cristiano,   non
contraddetto mai dal suo intelletto, ora penetra nel suo cuore, gli appare  come
un mondo nuovo, che dipinge con accenti di maraviglia:

        Come va il mondo! Or mi diletta e piace
        quel che più mi dispiacque; or veggio e sento
        che per aver salute ebbi tormento
        e breve guerra per eterna pace.

Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel suo inno alla Vergine:

        Da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
        cercando or questa, ora quell'altra parte,
        non è stata mia vita altro che affanno.
        Mortal bellezza, atti e parole m'hanno
        tutta ingombrata l'alma.
        Vergine sacra ed alma,
        non tardar: ch'i' son forse all'ultim'anno.
        I dì miei più correnti che saetta
        fra miserie e peccati
        sonsen andati; e sol Morte ne aspetta.

Quest'uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno, che chiama  la  sua
vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun
frutto, ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergine,  ma  e  troppo
tardi. - Omai son stanco! - Grida. E se ne' Trionfi cerca  ingrandire  il
suo orizzonte e uscire da sè e contemplare l'umanità, ciò che ne' suoi versi  ha
ancora qualche interesse è il suo passato, che i vecchi hanno il  privilegio  di
evocare, rifarne qualche frammento; e  soprattutto  il  sogno  di  Laura,  tanto
imitato da poi.
        Chi legge il Canzoniere, non può non ricevere questa impressione,
di un mondo astratto, rettorico, sofistico, quale  fu  foggiato  da'  trovatori,
dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e  rilevate,  o
se vogliamo guardare più  alto,  di  un  mondo  mistico-scolastico,  oltreumano,
ammesso  ancora   dall'intelletto,   ma   repulso   dal   cuore   e   condannato
dall'immaginazione. Se guardiamo alla  forma,  quel  mondo  ha  perduto  il  suo
aspetto simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della vita e  dell'arte,  e
si è umanizzato, è divenuto  immagine  e  sentimento;  il  tempio  gotico  si  è
trasformato in un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante,  con  luce
uguale, con perfetta simMetria, ispirato da Venere, dea della bellezza  e  della
grazia. Il grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le  ombre,  l'indefinito,
il dissonante, il prolisso, il superfluo,  il  volgare,  il  difforme,  tutto  è
cacciato via da questo tempio dell'armonia, maraviglia  d'arte,  che  chiude  un
secolo e ne annunzia un altro. L'artista gode; l'uomo è scontento. Perchè  sotto
a questa bella forma così levigata e pulita vive un povero core d'uomo,  nutrito
di desidèri e d'immagini, a cui lo tira  la  natura,  da  cui  lo  allontana  la
ragione, senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la ferma  volontà
di realizzarle. L'uomo è minore dell'artista. L'artista non posa, che non  abbia
data l'ultima finitezza al suo idolo; l'uomo non osa di guardarsi, e  abbozza  i
moti del proprio cuore, e salta nelle  più  opposte  direzioni,  quasi  tema  di
fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a risolversi. Perciò quella bella
superficie riman fredda; non ha  al  di  sotto  profondità  di  esplorazione,  o
energia di volontà e di convinzione. La situazione poteva esser tragica,  rimane
elegiaca; poesia di un'anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente in
dolci  lamenti,  assai  contenta,  quando  possa  vivere  in   immaginazione   e
fantasticare: l'uomo svanisce nell'artista.  Gli  è  che  a  quest'uomo  mancava
quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e
di Dante un poeta. Quel mondo  giace  nel  suo  cervello  già  decomposto  e  in
fermentazione, mescolato con altre divinità. Ciò che di più serio  si  move  nel
suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto  con  l'amore  dell'antichità  e
dell'erudizione. È in abbozzo l'immagine anticipata de' secoli seguenti, di  cui
fu l'idolo. L'arte si afferma come arte e prende possesso della vita.
        Così il medio evo, quando appena cominciava a  svilupparsi  negli  altri
popoli, presso di noi per una precoce cultura si  dissolveva  prima  che  avesse
potuto esplicarsi in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la forma drammatica.
Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne  fu  la  fine.
Quel mondo così perfetto al  di  fuori  è  al  di  dentro  scisso  e  fiacco:  è
contemplazione d'artista, non più fede e sentimento. Questa dissonanza  tra  una
forma così finita e armonica e un contenuto così debole e contraddittorio ha  la
sua espressione ne' sentimenti  che  prevalgono  a'  tempi  di  transizione,  la
malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare.  E
l'illustre malato, abbandonato a' flutti di questo doppio mondo, di un mondo che
se ne va e di un mondo che se ne viene,  e  che  con  tanta  dolcezza  e  grazia
rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e  la
forza, è Francesco Petrarca.

IX IL DECAMERONE

Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella, gli è  come  un
cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: «Qui come venn'io o  quando?».
Non è una evoluzione, ma è una catastrofe, o  una  rivoluzione,  che  da  un  dì
all'altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi il medio evo non  solo  negato,
ma canzonato.
        Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli,  con  questa
differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione
di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si spassa
con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a  spese
del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe. Perciò l'arma
del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra  caricatura.
Per giungere a queste forme  e  a  queste  intenzioni  bisogna  andare  fino  al
Voltaire. Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il  Voltaire  del  secolo
decimoquarto.
        Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo
spirito italiano. Egli medesimo in  vecchiezza  fu  preso  dal  rimorso  e  finì
chierico, condannando il suo libro. Ma quel libro non era  possibile,  se  nello
spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se «guasto» s'ha a  dire.  Ove
le cose, di cui ride  il  Boccaccio,  fossero  state  venerabili,  poniamo  pure
ch'egli  avesse  potuto  riderne,   i   contemporanei   ne   avrebbero   sentita
indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere a qualche  cosa  che
volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a  voce  alta  ciò  che
tutti dicevano nel loro segreto, e fu applauditissimo, con tanto successo che il
buon Passavanti se ne spaventò e vi  oppose  come  antidoto  lo  Specchio  di
penitenza. Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo, quale  era
già confusamente avvertito nella coscienza. C'era un segreto: egli lo  indovinò,
e tutti batterono le mani. Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita  di
essere studiato. Il carattere  del  medio  evo  è  la  trascendenza,  un  dì  là
oltreumano ed oltrenaturale, fuori della natura e  dell'uomo,  il  genere  e  la
specie fuori dell'individuo, la materia e  la  forma  fuori  della  loro  unità,
l'intelletto fuori dell'anima, la perfezione e la virtù  fuori  della  vita,  la
legge fuori della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e lo scopo  della  vita
fuori del mondo. La base di  questa  teologia  filosofica  è  l'esistenza  degli
universali. Il mondo fu popolato di esseri  o  intelligenze,  sulla  cui  natura
molto si disputò: sono esse idee divine? Sono generi e specie reali? Sono specie
intelligibili? Questo edificio gemeva già sotto i colpi dei nominalisti, cioè di
quelli che negavano l'esistenza de' generi e delle specie, e li chiamavano  puri
nomi, e dicevano esistere solo il singolo, l'individuo. Sulla loro bandiera  era
scritto un motto divenuto così popolare: «Non bisogna  moltiplicare  enti  senza
necessità».
        L'ascetismo era  il  frutto  naturale  di  un  mondo  teocratico  spinto
all'esagerazione. La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore. L'uomo
dimorava con lo spirito nell'altra vita. E la cima  della  perfezione  fu  posta
nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione. Così nacque la  letteratura
teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le visioni, le allegorie: così
nacque la Commedia, il poema  dell'altra  vita.  Il  pensiero  non  aveva
intimità, non calava nell'uomo e nella natura, ma  se  ne  teneva  fuori,  tutto
intorno alla natura e alle qualità degli enti, che erano le stesse forze umane e
naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sè stesse. Le astrazioni  dello
spirito divennero esseri viventi. E perchè le astrazioni, frutto dell'intelletto
inesauribile nelle sue  distinzioni  e  suddistinzioni,  sono  infinite,  questi
esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto  degli  scolastici.  Come  il  mondo
scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato  di
esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna, l'amore, le  virtù,  i  vizi.  Non
erano persone, come le pagane divinità: erano semplici personificazioni.
        Il sentimento,  come  frutto  di  inclinazioni  umane  e  naturali,  era
peccato. Le passioni erano scomunicate. La poesia  era  madre  di  menzogne.  Il
teatro cibo del diavolo. La novella e il romanzo generi di letteratura  profani.
Tutto questo si chiamava il senso, e il luogo comune di  questo  mondo  ascetico
era la lotta del senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco Petrarca.  Il
sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione, strappato dal cuore
umano, divenne anch'esso un universale, un fatto esteriore, ora  simbolico,  ora
scolastico, o, come si diceva, «platonico». Il padre  de'  sentimenti,  l'amore,
divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità dell'intelletto  e  dell'atto.
Così nacque la  lirica  platonica,  dal  Guinicelli  al  Petrarca.  Il  senso  e
l'immaginazione  si  ribellavano  contro  questo  platonismo.  Ed  è  in  questa
ribellione, ancorachè poco scrutata e poco accentuata, che è la grandezza  della
lirica petrarchesca. Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione  nella
loro naturalezza e intimità era vietato. E colui che più gustò di questo  frutto
proibito, fu il Petrarca.
        L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto,  destinata  a  creare
forme e simboli di concetti astratti. Lo sa il povero Dante.  Nessuno  ebbe  mai
l'immaginazione così torturata. E nacquero  forme  simboliche  e  intellettuali,
nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua personalità.  Erano  forme
tipiche, generi e specie, anzichè l'individuo. La regina delle forme, la  donna,
non potè sottrarsi a questa invasione degli universali, e rimase un  ideale  più
divino che umano, bella faccia, ma faccia della sapienza, più amata che  amante,
e amata meno come donna che come scala alle cose celesti. Così nacquero Beatrice
e Laura.
        Certo, a nessuno è lecito parlare con poca  riverenza  di  questo  mondo
dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello  spirito
umano, e  che  ha  pure  il  suo  fondamento  nella  vita.  L'illuminismo  o  il
misticismo, la visione estatica, è un portato naturale dello spirito  nella  sua
alienazione dal corpo, ciò che dicevasi a «vivere  in  astrazione»:  momento  di
concitazione e di entusiasmo, che l'uomo pare più che uomo e sembra in lui parli
un dio o un demonio. Perciò quell'entusiasmo fu detto «furore divino» o «estro»,
qualità de' profeti e de' poeti, che sono tutt'uno per Dante. Questa  elevazione
dell'anima in se stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita  reale,  è
il lato eroico dell'umanità, il privilegio della giovinezza,  la  condizione  di
tutte le società primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi  si  sveglia
lo spirito. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i  piaceri,
è degno di stima.
        Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non  può  aver  durata.
L'arte, la coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano  e  lo
trasformano.
        L'arte,  impossessandosi  di  questo  mondo,  lo  umanizza,  lo  accosta
all'uomo e alla natura, lo  mescola  di  altri  elementi,  vi  fa  penetrare  le
passioni e i furori del senso. Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai  qualche
cosa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma  già  di
rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice  hai  Francesca  da
Rimini, e di rincontro a  Dante,  simbolo  dell'umanità,  hai  Dante  Alighieri,
l'individuo in tutta la sua personalità. Nel  Canzoniere  quel  mondo  si
spoglia pure le sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e  prende
aspetto più umano e naturale.
        E se fosse durato ancora un pezzo nella  coscienza,  non  è  dubbio  che
l'arte vi si sarebbe compiutamente sviluppata, e come la visione e  la  leggenda
divenne la Commedia, come Selvaggia divenne Beatrice, e  Beatrice  Laura,
dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma, e  molti  generi  di  letteratura
ancora iniziali  e  abbozzati  già  nella  Commedia  sarebbero  venuti  a
maturità, come l'inno e la satira. Ma già quel mondo nel  Canzoniere  non
ha più il calore dell'entusiasmo e della fede, e in quelle forme  così  eleganti
lascia una parte della sua sostanza. Il sentimento religioso,  morale,  politico
vive fiaccamente nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è  occupato
dall'arte.
        Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma  fra
tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici  della
nuova generazione, che succede all'età  virile  e  credente  e  appassionata  di
Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non  cercano  il
vero sotto i «versi strani»; la «bella veste» li appaga. I loro studi non  hanno
più a guida l'investigazione della verità, ma l'erudizione: c'è il sapere per il
sapere,  come  l'arte  per  l'arte.  I  Fiori,   I   Giardini,   I
Conviti, I Tesori, dove la sapienza sacra e profana  era  usata  a
scopo morale, danno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite. Ci  sono
ancora gli scolastici, che chiamano  il  Petrarca  un  insipiente,  ma  le  loro
querele si sperdono nel plauso  universale,  che  pone  il  Petrarca  accanto  a
Virgilio. E codesto Virgilio non è più il mago, precursore del cristianesimo,  e
neppure il savio «che tutto seppe», ma è  il  dolce  ed  elegante  poeta.  Dante
s'incorona da  sè  in  paradiso  poeta,  profeta  e  apostolo:  i  contemporanei
incoronano nel Petrarca l'autore dell'Africa, della nuova  Eneide.
La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.
        Ma la coltura e l'arte non è il naturale fiorire di un mondo  interiore,
anzi è accompagnata con l'infiacchirsi della coscienza, e si  pone  già  per  se
stessa, come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un  tempo
mezzo e scopo. È una coltura e un'arte «formale», non riscaldata abbastanza  dal
contenuto. Ci è lì dentro lo stesso mondo di Dante, ma c'è come ragione in lotta
col sentimento e con l'immaginazione; lotta fiacca e inconcludente: scemato è il
vigore della fede e della volontà.
        Gli è che quel mondo mistico, fuori della natura  e  dell'uomo,  appunto
per la sua esagerazione, non poteva avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la
sua età dell'oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo andare dovea
rimanere pura teoria, ammessa per tradizione  e  per  abitudine  e  contraddetta
nella vita pratica. Più alto era il modello, più visibile era la  contraddizione
e più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti  e  le
invettive per la corruttela de' costumi, specialmente ne' papi e  ne'  chierici,
che con l'esempio contraddicevano alle loro dottrine. Queste invettive divennero
il luogo comune della letteratura, e ne odi l'eco un  po'  rettorica  ne'  versi
eleganti del Petrarca contro  l'avara  Babilonia.  Ma  lo  spettacolo,  divenuto
abituale e generale, non moveva più indignazione; e mentre Caterina  ammoniva  e
il Petrarca satireggiava, il mondo continuava  sua  via.  Allato  al  misticismo
vedevi il cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di Napoli.
        La corruttela de'  costumi  non  era  negazione  ardita  delle  dottrine
cristiane, anzi tutti si tenevano buoni cristiani, ed erano zelantissimi  contro
gli eretici, e molti facevano all'ultimo  penitenza.  Ma  era  qualche  cosa  di
peggio: era indifferenza, un oscurarsi  del  senso  morale.  Quel  mondo  viveva
ancora nell'intelletto, non creduto  e  non  combattuto,  ozioso,  senza  alcuna
efficacia su' sentimenti e sulle azioni.
        In questa condizione degli spiriti, la coltura dovea  avere  un  effetto
deleterio. La parte leggendaria, fantastica,  miracolosa  di  quel  mondo  dovea
parere a quegl'ingegni così svegliati cosa così poco seria, come le prediche de'
frati contraddette dalla vita. Sparisce quel candore  infantile  di  fede  anche
nelle cose più assurde, che tanto ci alletta  negli  scrittori  antecedenti.  Le
classi colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso  della  sua
credulità. Esser credente era prima un titolo di gloria de' più  forti  ingegni.
Essere incredulo diviene ora indizio di animo colto.
        D'altra parte la maggiore coltura,  generando  un  più  vivo  sentimento
della natura e dell'uomo, dovea affrettare la rovina di un mondo così astratto e
così  estrinseco  alla  vita.  Il  reale  disconosciuto  dovea  prender  la  sua
rivincita; la natura troppo  compressa  dovea  reagire  a  sua  volta.  Così  di
rincontro a quello spiritualismo esagerato sorgeva una reazione inevitabile,  il
naturalismo e il realismo nella vita pratica.
        Indi è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo e modificarlo  e
trasformarlo e riabilitarlo nella coscienza, come fu più tardi in  Germania,  si
collocò addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, impiegò la sua
attività ne' piaceri dell'erudizione e dell'arte.
         Così  quel  mondo  si  trovò  fuori  della   coscienza,   senza   lotta
intellettuale, anzi rimanendo ozioso padrone  dell'intelletto.  Ci  erano  anche
allora i liberi pensatori, soprattutto ne' conventi, ma  erano  sforzi  isolati,
scuciti. Una lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la  rotta  di
Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea posto fine  alla  discussione  e
all'esame. Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti, e  nelle
cose di fede lasciar dire il papa, e vivere a modo loro.
        Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Finirono le lotte e
le discussioni; successe l'indifferenza religiosa e politica, fra tanto  fiorire
di coltura, di erudizione, di arte, di commerci e d'industrie. Ci erano tutti  i
segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza dell'antichità, un gusto
più fine e un sentimento artistico più sviluppato, una  disposizione  meno  alla
fede che alla critica e all'investigazione, minor violenza di passioni, maggiore
eleganza di forme: l'idolo di questa società dovea essere il Petrarca, nel quale
riconosceva e incoronava se stessa. Ma sotto a quel progresso v'era il germe  di
una incurabile decadenza, l'infiacchimento della coscienza.
        Il Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza esser nè l'uno, nè
l'altro, così elegante al di fuori, così fiacco  e  discorde  al  di  dentro,  è
l'ultima voce letteraria, rettorica ed elegiaca, di un  mondo  che  si  oscurava
nella coscienza. I contemporanei applaudivano alla bella forma, e non  cercavano
e non si appassionavano pel contenuto, come avveniva con la Commedia.
        Quel mondo, divenuto letterario e artistico, anche un  po'  rettorico  e
convenzionale, non rispondeva più alle condizioni  reali  della  vita  italiana.
Quel misticismo, quell'estasi dello spirito, che si rivela un'ultima  volta  con
tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rottura con le tendenze
e le abitudini di una società colta, erudita, artistica, dedita a'  godimenti  e
alle cure materiali,  ancora  nell'intelletto  cristiana,  non  scettica  e  non
materialista ma nella vita già indifferente  e  incuriosa  degli  alti  problemi
dell'umanità. Il linguaggio era lo stesso, ma dietro alla parola non ci era  più
la cosa. Questo era il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito  e  non
definito, ma che pur si manifestava con tanta chiarezza nella  vita  pratica.  E
colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria, non usciva  già
dalle scuole: usciva dal  seno  stesso  di  una  società  che  dovea  così  bene
rappresentare.
        Tutti i  grandi  scrittori  erano  usciti  dall'università  di  Bologna,
Guinicelli, Cino, Cavalcanti, Dante, Petrarca.
        Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni  dopo  il  Petrarca  e  otto
prima della morte di Dante, «non pienamente avendo  imparato  grammatica»,  come
scrive Filippo Villani, «volendo  e  costringendolo  il  padre  per  cagione  di
guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e  per  la  medesima  cagione  a
peregrinare». Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il
figlio. Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella  università,  il
nostro Giovanni faceva,  come  si  direbbe  oggi,  il  commesso  viaggiatore  in
servigio del padre, e il suo libro era la pratica e  la  conoscenza  del  mondo.
Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli  letture  e  a'
passatempi  che  all'esercizio  della  mercatura,  e  più  uomo  di  spirito   e
d'immaginazione che uomo d'affari. Era chiamato «il poeta». Venuto in  Napoli  a
ventitrè  anni,  menava  vita  signorile,  bazzicava   in   corte,   usava   co'
gentiluomini, spendeva  largamente,  amoreggiava,  scribacchiava,  leggicchiava.
Dicesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase  pensoso  e  sentì  la  sua
vocazione poetica. Fatto è che il buon padre, visto che non se ne  potea  cavare
un mercante, pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare  i  canoni,  con
gran rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo messo  a  fare  il
mercante e ad imparare i canoni. Finalmente, libero di sè, si gittò  agli  studi
letterari, e come portava il tempo, si die' al latino e al greco, e si  empì  il
capo di mitologia e di storia greca e romana. Ei menava la vita, mezzo  tra  gli
studi e i  piaceri,  spesso  viaggiando,  non  più  a  mercatare,  ma  a  cercar
manoscritti. Narrasi che al 7 aprile del 1341 siAsi nella chiesa di San  Lorenzo
invaghito  di  Maria,  figlia  naturale  di  re  Roberto:  certo,  nella   corte
spensierata e licenziosa della regina Giovanna non potè prender lezione di  buon
costume, nè di amori platonici. E volse lo studio e l'ingegno a  rallegrare  col
suo spirito la corte e la sua non ingrata Maria, che  con  nome  poetico  chiamò
Fiammetta. Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto  era
pieno di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta.  Frutto  della
sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi  lavori  giovanili.  Ma
egli poteva ammirarlo, non comprenderlo, perchè lo spirito di Dante non  era  in
lui. Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni  seria  coltura  scolastica  e
ascetica, profano anzichè mistico ne' sentimenti e  nella  vita,  si  foggiò  un
Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti  del  nostro
giovane, legga  quel  libro  e  vi  troverà  già  la  stoffa,  da  cui  uscì  il
Decamerone.  Nessuna  originalità  e  profondità  di  pensiero,   nessuna
sottigliezza di argomentazione; tutto vi  è  dimostrato,  anche  le  più  comuni
verità, ma il fondamento della dimostrazione  non  è  nell'intelletto,  è  nella
memoria; non hai innanzi un pensatore, nè un disputatore, ma  un  erudito.  Vuol
mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, «il
cui petto uno umano tempio di divina sapienza  fu  reputato»,  e  la  Siria,  la
Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e  Pilos,
e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona,  e  Venosa,  e  Aquino.  «Tu  sola,  »
conchiude il poeta «quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi,  Catoni,
Fabi, Scipioni ... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico  cittadino
Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura, ma  l'hai  da
te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto,  del  tuo  soprannome».
Volendo parlar di Dante, comincia  ab  ovo,  dalla  prima  fondazione  di
Firenze. Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra  le  quali  è
notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui, il linguaggio poetico fu
trovato per porgere «sacrate lusinghe» alla divinità,  con  parole  lontane  «da
ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare» e «sotto legge  di  certi  numeri
composte,  per  li  quali  alcuna  dolcezza  si  sentisse   e   cacciassesi   il
rincrescimento e la noia». I poeti imitarono «dello Spirito santo le  vestigie»,
perchè come nella divina Scrittura, «la quale teologia appelliamo, quando
con figura di alcuna storia, quando col senso  di  alcuna  visione»,  si  mostra
l'«alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le  cose
occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa  ...  così  i  poeti,  ...
quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni di uomini  in  varie
forme, quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni  delle  cose  e
gli effetti delle virtù e de' vizi». Poi spiega ciò che lo Spirito  santo  volle
mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor,  nelle  lamentazioni
di Geremia; e ciò che i poeti  vollero  mostrare  in  Saturno,  Giove,  Giunone,
Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in  lupo,
e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite. E  ribattendo  quelli  che
chiamano i poeti antichi «uomini insensati», inventori di favole «a niuna verità
convenienti», conclude che «la teologia e la poesia quasi  una  cosa  si  posson
dire», anzi che la «teologia  niun'altra  cosa  è  che  una  poesia  d'Iddio»  e
«poetica finzione». L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola di
Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione perchè i poeti
avevano la corona d'alloro. Di quello che fu il mondo interiore  di  Dante,  qui
non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto,
fino al pettegolezzo. Ci si vede uno spirito curioso  e  profano  che  cerca  il
maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto a spiegarli  con
la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o «del secolo»,  come  si
diceva allora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno  attribuito
alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta  la  sua  erudizione.  Sotto  il  suo
sguardo profano Beatrice perde tutta  la  sua  idealità,  e  l'amore  di  Dante,
scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche,  acquista  una
tinta romanzesca. Il nostro Giovanni non si fa capace come  Dante  a  nove  anni
abbia potuto amare Beatrice. Il  caso  gli  pare  strano,  e  ne  cerca  diverse
spiegazioni. Forse fu «conformità di complessioni o  di  costumi»;  forse  anche
«influenza da cielo». Ma queste spiegazioni non  lo  appagano,  e  si  ferma  in
quest'altra, che cava dall'esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in  una
festa il primo di maggio,  quando  la  «dolcezza  del  cielo  riveste  dei  suoi
ornamenti la terra, e tutta per la varietà de'  fiori  mescolati  tra  le  verdi
fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de'
suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de'  vini,  gli
animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi  e  divenire
atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace». Dante  dunque
amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo;  i  cibi  e  i
vini delicati e l'allegrezza  generale,  ecco  ciò  che  dispose  il  suo  animo
all'amore. Beatrice era per Dante «angeletta bella e  nova»,  senza  contorni  e
senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e  le  virtù  che  le
piovono dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio, il  quale  vuol  pure
spiegarsi  come  la  potè  parere  un'angioletta,  e  si  foggia  nella  profana
immaginazione una bella immagine di fanciulla, e la descrive così:

        «Assai leggiadretta  secondo  la  sua  fanciullezza,  e  ne'  suoi  atti
gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste
che 'l suo picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva  le  fattezze
del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre  alla  bellezza,
di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.»

Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di  Dante  caduti  in
piena fisiologia e notomia. Dante amò, perchè tra vivande e sollazzi  l'animo  è
disposto ad amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta, perchè era fatta così e
così. Beatrice  muore  a  ventiquattro  anni.  Il  nostro  biografo  non  se  ne
maraviglia, perchè «un poco di soperchio di freddo o di caldo che  noi  abbiamo,
... ci conduce» alla morte. I parenti  e  gli  amici  per  consolare  Dante  gli
diedero moglie: «Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti!», esclama  il  nostro
scapolo e nemico dell'amore regolato. «Qual medico» egli aggiunge

«s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco, o  'l  freddo  delle  midolla
delle ossa col ghiaccio o colla neve? Certo niun altro se non  colui,  il  quale
con nuova moglie crederà le amorose tribolazioni mitigare».

E qui da uomo esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore
e dell'indole delle donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e  compiange
il povero Dante. Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente, perchè
qui è in casa  sua.  Udite  questo  periodo:  «Possiamo  pensare  quanti  dolori
nascondono le camere, li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui  perspicacia
trapassa le mura, sono riputati  diletti».  Ma  Dante,  secondo  ch'egli  narra,
dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore  delle  donne:  ciò  che
l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo,  ove  se  ne  fece  così  aspramente
rimproverare da Beatrice. Il quale amore non pare poi un così  gran  peccato  al
nostro scapolo: «Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io». Ed
ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini  illustri  vinti
dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode.  Ti  par  di
assistere a una parodia. Eppure niente è  più  serio.  Il  giovane  è  pieno  di
ammirazione verso Dante che chiama un «iddio fra gli uomini», e crede con questa
Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un monumento.
        La Vita di Dante è  una  rivelazione.  Qui  dentro  si  manifesta
l'autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che  si
andava formando in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e  profano,  Bibbia  e
mitologia, teologia e poesia: la teologia è una «poesia di Dio»,  una  «finzione
poetica». Questa strana mescolanza era già comune al  secolo;  Dante  stesso  ne
dava esempio. Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo  universo
e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto  l'universo  e
lo materializza. In teoria ammette la religione, e  parla  con  riverenza  della
teologia,  che  ci  fa  conoscere  «la  divina  essenza  e  le  altre   separate
intelligenze». Ma in pratica questo mondo  dello  spirito  rimane  perfettamente
estraneo alla  sua  intelligenza  e  al  suo  cuore.  Misticismo,  platonicismo,
scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso  per  lui.  Non  solo
questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento.  E
gli manca non solo il sentimento religioso,  ma  fino  quella  certa  elevatezza
morale che talora ne fa le veci. Spento è  in  lui  il  cristiano,  e  anche  il
cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la  patria  e  dare  a  lei
l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere
al proprio sostentamento. Dietro al  cittadino  comincia  a  comparire  il  buon
borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia  molto  fastidio,  e  lo
lasci attendere alla sua industria, e non  lo  tiri  per  forza  di  casa  o  di
bottega. De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto  che  il  Boccaccio
crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siesi potuto
mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità, ed  ha
quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta. -  Non  voglio  dire  con  questo  che  il
Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria.
Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con la
stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni gli furono commesse
da' suoi concittadini. Ma l'età eroica era passata;  la  nuova  generazione  non
comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il  carattere  era  caduto  in
quella mezzanità che non è ancora  volgarità,  e  non  è  più  grandezza;  della
religione, della libertà, dell'uomo  antico  c'erano  ancora  le  forme,  ma  lo
spirito era ito. Di vita pubblica qualche apparenza era ancora in Toscana,  sede
della coltura; nelle altre parti era vita di corte.  L'erudizione,  l'arte,  gli
affari, i piaceri costituivano il fondo  di  questa  nuova  società  borghese  e
mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale,  cortigiano,  erudito,
artista. Se la malinconia dell'estatico  Petrarca  ti  presentava  un  simulacro
dell'uomo antico, la spensierata  giovialità  del  Boccaccio  è  l'ingresso  nel
mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della  carne,  la  maledetta,  il
peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a
burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo, che, pure ammettendo l'esistenza  di
separate intelligenze, non ne tien conto, e fa di sè  il  suo  mezzo  e  il  suo
scopo.
        Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme  nel  seno  degli
uomini due mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito, ed un mondo
nuovo che si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in  se
stessa e vuota di elementi ideali. Erano in presenza il misticismo, con  le  sue
forme ricordevoli del  mondo  soprannaturale,  e  il  puro  naturalismo.  Ma  il
misticismo,  indebolito  già  nella   coscienza,   era   divenuto   abituale   e
tradizionale, applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un  mondo
artistico e letterario. Il naturalismo al  contrario  sorgeva  allora  in  piena
concordia con la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della
novità.  Questo  mutamento  nello  spirito  dovea  capovolgere  la  base   della
letteratura. Il romanzo e la novella,  rimasti  generi  di  scrivere  volgari  e
scomunicati, presero il sopravvento. Al mondo lirico, con le sue estasi, le  sue
visioni e le  sue  leggende,  il  suo  entusiasmo,  succede  il  mondo  epico  o
narrativo, con le sue avventure, le  sue  feste,  le  sue  descrizioni,  i  suoi
piaceri e le sue malizie. La vita contemplativa  si  fa  attiva;  l'altro  mondo
sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del mondo,  ma
vi si tuffa e sente la vita e  gode  la  vita.  Il  celeste  e  il  divino  sono
proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale. La base  della  vita
non è più quello che dee essere, ma quello che è:  Dante  chiude  un  mondo;  il
Boccaccio ne apre un altro.
        Mettiamo ora il piè in questo mondo  del  Boccaccio.  Che  vi  troviamo?
Opere latine di gran mole: una specie di dizionario storico, ove  hai  tutte  le
antiche  forme  mitologiche  usate  da'  poeti,  e  con  le   loro   spiegazioni
allegoriche, e i fatti degli  uomini  illustri  e  delle  celebri  donne,  libri
tradotti in francese, in tedesco, in inglese, in ispagnuolo, in italiano, di cui
si fecero moltissime edizioni, accolti con infinito  favore  da'  contemporanei,
come una nuova rivelazione dell'antichità. Prima ci erano le  enciclopedie  e  i
«fiori» e i «giardini», ove si raccoglieva ciò  che  gli  antichi  pensarono  in
filosofia, in etica, in rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi
immaginarono, quello che operarono. Al mondo del puro pensiero succede il  mondo
dell'immaginazione e dell'azione. Vediamolo ora all'opera.  Quest'uomo,  che  ha
pieno il capo di tanta erudizione greca e latina, che  ammira  Dante  perchè  ha
saputo molto bene imitare  Virgilio,  Ovidio,  Stazio  e  Lucano,  e  a  cui  di
fiorentino è rimasto l'amore del bello  idioma  e  il  sentimento  dell'arte,  è
insieme il trovatore e il giullare della corte, rallegrata dalle sue  facezie  e
dai suoi racconti, è l'erede della gaia scienza, sa a menadito romanzi francesi,
italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e per sollazzare.  Ci  erano  in
lui parecchi uomini  non  ben  fusi,  l'erudito,  l'artista,  il  trovatore,  il
letterato e l'uomo di mondo.
        Ecco uscirgli dall'immaginazione il Filocolo. Il titolo è  greco,
come più tardi è il Filostrato  e  come  sarà  il  Decamerone.  La
materia è  tratta  da  un  romanzo  spagnuolo,  ed  è  gli  amori  di  Florio  e
Biancofiore. Ma si tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma  pagana,  quando
già vi penetrava il cristianesimo. La materia è tale, che il giovane  autore  vi
può sviluppare tutte le sue tendenze.  Ai  giovani  innamorati  e  alle  amorose
donzelle consacra i «nuovi versi, i quali - egli dice loro - non vi porgeranno i
crudeli incendimenti dell'antica Troia, nè le sanguinose battaglie di Farsaglia,
ma udirete i pietosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua Biancofiore,
i quali vi fiano graziosi molto». Probabilmente  i  giovani  vaghi  e  le  donne
innamorate avrebbero desiderato una storia di amore più breve e meno  dotta.  Ma
come resistere alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia, e
ad ogni menoma occasione esce fuori  con  la  storia  greca  e  romana.  Giulia,
uccisole il marito, nell'ultima disperazione, parlando all'uccisore, cita  Ecuba
e Cornelia. Nè la mitologia ci sta a pigione, come semplice colorito,  ma  è  la
vera macchina del racconto, come in Omero e Virgilio. E se Giove, Pluto, Venere,
Pallade e Cupido fossero personaggi vivi, avremmo un grottesco non dispiacevole;
ma sono personificazioni ampollose e  rettoriche,  formate  dalla  memoria,  non
dall'immaginazione. Ancora, visto che teologia e poesia sono una stessa cosa, la
teologia è paganizzata, e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene  Pluto;  sì  che
pagani e cristiani, inimicandosi a morte, usano le stesse forme  e  adorano  gli
stessi iddii. Macchinismo  vuoto  che  s'intramette  dappertutto,  e  guasta  il
linguaggio naturale del sentimento, introducendo  ne'  fatti  e  nelle  passioni
un'espressione artificiale e metaforica.  Volendo  dire  giovani  innamorati  si
dice: «i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a' venti che
muovono dalle  dorate  penne  ventilanti  del  giovane  figliuolo  di  Citerea».
L'avvicinarsi della sera è espresso così: «I disiosi cavalli del sole caldi  per
lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque d'occidente». Altrove è detto:
«L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo avea già rasciutte le  brinose
erbe». Nasce uno stile pomposo e freddo, che invano  l'autore  cerca  incalorire
con le figure rettoriche, in cui è maestro. Spesseggiano le  interrogazioni,  le
esclamazioni, le personificazioni, le apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle
cose e si pone per se stesso in una forma  ampollosa  e  pretensiosa.  Il  prode
Lelio è ucciso sul campo di battaglia, e il poeta vi recita su questa  magnifica
tirata rettorica:

        «Oh misera Fortuna, quanto sono i tuoi movimenti vani  e  fallaci  nelle
mondane cose! Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati?  Ove
i molti amici? Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte
queste cose, e il suo corpo senza sepoltura  morto  giace  negli  strani  campi.
Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime, e le tremanti dita del vecchio
padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli
avesse potuto fare!»

Giulia sviene: «gli spiriti ... vagabondi pare che vadano per lo vicino aere»; e
il poeta fa una lunga apostrofe  a  Lelio,  che  al  suo  pericol  correndo  lei
semiviva abbandona, e dice di Amore:

        «Deh! Quanto Amore  si  portò  villanamente  tra  voi,  avendovi  tenuti
insieme con la sua virtù tanto tempo caramente  congiunti;  e  ora,  nell'ultimo
partimento, non consentì che voi vi avessi insieme baciati o almeno salutati.»

I  personaggi  fanno  spesso  lunghe  orazioni  con  tutti  gli  artifici  della
rettorica, com'è la parlata di Pluto a' ministri infernali, imitata  dal  Tasso.
Spesso la sensualità si scopre tra le lacrime. Giulia si straccia i capelli e si
squarcia le vesti; il giovane deplora quello  «sconcio  tirare»  che  traeva  «i
biondi capelli» «dell'usato modo e ordine», e aggiunge: «I vestimenti squarciati
mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere». Non mancano qua
e colà tratti affettuosi, e anche modi e forme di dire semplici ed efficaci;  ma
rimane il più spesso fuori dell'uomo e della natura, inviluppato  in  perifrasi,
circonlocuzioni, aggettivi, orazioni, descrizioni e citazioni: ci si  sente  una
viva tendenza al reale guastata dalla rettorica e dall'erudizione.  Accampandosi
nel mondo antico, e portandovi pretensioni erudite e rettoriche, la letteratura,
se da una parte si emancipava da quel  mondo  teologico-scolastico  che  sorgeva
come barriera tra l'arte e  la  natura,  s'intoppava  dall'altra  in  una  nuova
barriera, un mondo mitologico-rettorico.
        Il successo del Filocolo alzò l'animo  del  giovane  a  più  alto
volo. Pensò qualche cosa come l'Eneide, e scrisse la  Teseide.  Ma
niente era più alieno dalla sua natura che il genere eroico, niente più  lontano
dal secolo che il suono della tromba. Qui hai assedii,  battaglie,  congiure  di
dei e di uomini, pompose descrizioni, artificiosi discorsi, tutto lo scheletro e
l'apparenza di un poema eroico; ma nel suo  spirito  borghese  non  entra  alcun
sentimento di vera grandezza, e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito  ed  Emilia
non hanno di epico che il manto. Il suo spirito è disposto a veder le cose nella
loro minutezza, ma più scende ne' particolari, più l'oggetto gli si  sminuzza  e
scioglie, sì che ne perde il  sentimento  e  l'armonia.  Le  armi,  i  modi  del
combattere, i sacrifizii, le feste, tutta l'esteriorità è rappresentata  con  la
diligenza e la dottrina di un erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la  natura?  De'
suoi personaggi carichi di emblemi  e  di  medaglie  antiche  si  è  perduta  la
memoria. Ecco un campo di battaglia. Egli vede con molta  chiarezza  i  fenomeni
che ti presenta, ma è la  chiarezza  di  un  naturalista,  scompagnata  da  ogni
movimento d'immaginazione; ci è l'immagine, manca il fantasma, que' sottintesi e
que' chiaroscuri, che ti danno il sentimento e la musica delle cose:

        Dopo il crudele e dispietato assalto
        orribile per suoni e per fedite,
        li fatto prima sopra il rosso smalto,
        si dileguaron le polveri trite;
        non tutte, ma tal parte, che da alto
        ed ancora da basso eran sentite
        parimente e vedute di costoro
        le opere e 'l marziale aspro lavoro.

È  un'ottava  prosaica,  dove  un  fenomeno  comunissimo  è  sminuzzato  con  la
precisione e distinzione di un anatomico,  non  di  un  poeta.  Il  Tasso  tutto
condensa in un verso solo, che  ti  presenta  in  unica  immagine  il  campo  di
battaglia:

        la polve ingombra ciò ch'al sangue avanza.

La stessa prosaica maniera trovi nell'ottava seguente:

        Il sangue quivi de' corpi versato,
        e de' cavalli ancor similemente,
        aveva tutto quel campo innaffiato,
        onde attutata s'era veramente
        e la polvere e 'l fumo: imbragacciato
        di sangue era ciascun destrier corrente,
        o qualunque uomo vi fosse caduto,
        benchè a caval poi fosse rivenuto.

Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e  congiunto  con  particolari
così vuoti e insignificanti, che se ne perde l'impressione. Alla grande maniera,
sobria, rapida, densa, di Dante, del Petrarca, succede il prolisso, il diluito e
il volgare. Chi ricorda descrizioni simili nell'Ariosto e nel Tasso, vi  troverà
le stesse cose, ma vive e mobili, piene di  sentimento  e  di  significato.  Nel
canto duodecimo descrive la bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche, anzi
fino a' piedi, e non si contenta di passare a rassegna tutte le parti del corpo,
chè di ciascuna fa minuta descrizione, e non solo nel quale, ma nel  quanto,  sì
che pare un geometra misuratore. Delle ciglia dice:

        ... più che altra cosa
        nerissime e sottil, nelle qua' lata
        bianchezza si vedea lor dividendo,
        nè il debito passavan se' estendendo..

Ecco un'ottava similmente prosaica su' capelli:

        Dico che li suoi crini parean d'oro,
        non per treccia ristretti, ma soluti
        e pettinati sì che infra loro
        non n'era un torto, e cadean sostenuti
        sopra li candidi omeri, nè fòro
        prima nè poi sì be' giammai veduti:
        nè altro sopra quelli ella portava
        ch'una corona che assai si stimava.

Ottave e versi soffrono malattia di languore: così procede  il  suono  fiacco  e
sordo.
        La Teseide è indirizzata a  Fiammetta,  e  copertamente  e
sotto nomi greci espone una vera storia d'amore. Ma la gravità del  soggetto,  e
le intenzioni letterarie soperchiarono l'autore e lo tirarono in un mondo epico,
pel quale non era nato. Meglio riuscì nel Filostrato, dove  lo  scheletro
greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie è penetrato  di  una
vita tutta moderna. L'allusione non  è  in  questo  o  quel  fatto,  come  nella
Teseide, ma è nello spirito stesso del racconto. I  languori  di  Troilo,
gli artifici di Pandaro, che è il mezzano, le resistenze sempre  più  deboli  di
Griseida, le gradazioni voluttuose di un amore fortunato, le arti e le  lusinghe
di Diomede presso Griseida, la sua vittoria e le disperazioni di Troilo,  questo
non è epico e non è cavalleresco, se non solo ne' nomi  de'  personaggi:  è  una
pagina tolta alla storia secreta della corte napoletana,  è  il  ritratto  della
vita borghese, collocata di mezzo fra la rozza  ingenuità  popolana  e  l'ideale
vita feudale o cavalleresca. Qui per la prima volta l'amore, squarciato il  velo
platonico, si manifesta nella sua realtà ed autonomia, separato da' suoi antichi
compagni, l'onore e il sentimento religioso; e non  è  già  amore  popolano,  ma
borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze e di languori, educato dalla
coltura e dall'arte. Mancati tutti gli alti sentimenti  della  vita  pubblica  e
religiosa, non rimane altra poesia che della vita privata. La quale è vil prosa,
quando il fine del vivere non è che il guadagno,  ed  è  nobilitata  dall'amore.
Vivere tra' godimenti di amore, con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori e
di ricchezze, questo è l'ideale della vita privata, nella quale la parte seria e
prosaica è rappresentata dal mercante. È un ideale che il Boccaccio trova  nella
sua propria vita, quando volse le spalle alla mercatura e si  diè  a'  piacevoli
studi e all'amore. Descritti in  morbidissime  ottave  i  voluttuosi  ardori  di
Troilo e Griseida, il poeta, calda ancora l'immaginazione, così prorompe:

        Deh! Pensin qui gli dolorosi avari,
        che biasiman chi è innamorato,
        e chi, come fan essi, a far denari
        in alcun modo non si è tutto dato,
        e guardin se, tenendoli ben cari
        tanto piacer fu mai a lor prestato,
        quanto ne presta amore in un sol punto
        a cui egli è con ventura congiunto.

        Ei diranno di sì, ma mentiranno;
        e questo amor «dolorosa pazzia»
        con risa e con ischerni chiameranno;
        senza veder che sola un'ora fia
        quella che sè e' danari perderanno,
        senza aver gioia saputo che sia
        nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
        ed agli amanti doni i loro acquisti.

Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle bellissime  che  precedono;
il poeta sa meglio descrivere che ragionare: pure ci senti per entro un  po'  di
calore,  e  la  conclusione  è  felicissima:  è  un  moto  subito  e  vivace  di
immaginazione, come di rado gl'incontra.
        Sotto aspetto epico questo racconto è una  vera  novella  con  tutte  le
situazioni divenute il luogo  comune  delle  storie  d'amore,  i  primi  ardenti
desiri, l'intramessa di un amico pietoso e le ritrosie della donna, le raffinate
voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le promesse e i giuramenti e
gli svenimenti della donna, la sua fragilità e i lamenti e i furori del  tradito
amante. Sotto vernice antica  spunta  il  mondo  interiore  del  Boccaccio,  una
mollezza sensuale dell'immaginazione congiunta con una disposizione al comico  e
al satirico. L'infedeltà di Griseida lo  fa  uscire  in  questo  ritratto  della
donna:

        Giovine donna è mobile, e vogliosa
        è negli amanti molti, e sua bellezza
        estima più ch'allo specchio, e pomposa
        ha vanagloria di sua giovinezza;
        la qual quanto piacevole e vezzosa
        è più, cotanto più seco l'apprezza:
        virtù non sente, nè conoscimento,
        volubil sempre come foglia al vento.

A Beatrice e Laura succede Griseida; all'amore platonico  l'amore  sensuale;  al
volo dell'anima verso la sua patria, il cielo, succede il tripudio del corpo. La
reazione è compiuta. A Dante succede il Boccaccio.
        La contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell'Amorosa
visione. La Commedia è imitata nel suo disegno e nel suo  meccanismo.
Anche il Boccaccio ha la sua visione. Anch'egli incontra la bella donna, che dee
guidarlo all'altura, che è «principio e cagion di tutta gioia», via a  salute  e
pace. Ma dove nella Commedia si va di carne  a  spirito,  sino  al  sommo
Bene, in cui l'umano è compiutamente divinizzato o spiritualizzato,  dove  nella
Commedia il sommo Bene è scienza e contemplazione: qui il fine della vita
è l'umano e la scienza è il principio, e l'ultimo termine è l'amore, e  la  fine
del sogno è in questi versi:

        Tutto stordito mi riscossi allora,
        e strinsi a me le braccia, e mi credea
        infra esse madonna averci ancora.

Il paradiso del Boccaccio è un tempio  dell'umanità,  un  nobile  castello,  che
ricorda il Limbo dantesco, ricco di sale splendide  e  storiate,  come  sono  le
pareti del purgatorio. Ed è tutta la storia  umana,  che  ti  viene  innanzi  in
quelle pitture. Dante invoca  le  muse,  l'alto  ingegno;  il  Boccaccio  invoca
Venere:

        O somma e graziosa intelligenza
        che movi il terzo cielo, o santa dea,
        metti nel petto mio la tua potenza.

Una scala assai stretta mena  al  castello,  e  sulla  piccola  porta  è  questa
scritta:

        ... ... questa piccola porta mena a via di vita,
        posta che paia nel salir molesta:
        riposo eterno dà cotal salita.
        Dunque salite su senza esser lenti:
        l'animo vinca la carne impigrita.

Eccoci nella prima sala. E vi son pinte le sette scienze, e via via  schiere  di
filosofi e poi di poeti, a quel modo che fa Dante  nel  limbo.  Tutto  il  canto
quinto è consacrato a Virgilio e a Dante, del quale dice:

        Costui è Dante Alighieri fiorentino,
        il qual con eccellente stil vi scrisse
        il sommo ben, le pene e la gran morte:
        gloria fu delle muse mentre visse,
        ne qui rifiutan d'esser sue consorte.

Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria.  E  ti  sfilano  innanzi
moltitudine di uomini venuti in fama, quasi un quadro della storia del mondo. Da
Saturno e Giove scendi all'età de' giganti e degli eroi; poi giungi agli  uomini
e alle donne illustri di Grecia e di Roma, in ultimo  viene  la  cavalleria  ne'
suoi due circoli di Arturo e Carlomagno,  sino  all'ultimo  cavaliere,  Federico
secondo, e l'occhio si stende a Carlo di Puglia, Corradino, Ruggieri di Loria  e
Manfredi. Il poeta dà libero corso alla sua  vasta  erudizione,  intento  più  a
raccogliere esempli che a lumeggiarli: sicchè  nessuno  de'  suoi  personaggi  è
giunto a noi così vivo, come è l'Omero e  l'Aristotile  del  limbo  dantesco,  o
l'Omero del Petrarca.
        Siamo infine nella sala di Amore e Venere. E come innanzi la storia, qui
vien fuori la mitologia, e senti le prodezze amorose di Giove,  Marte,  Bacco  e
Pluto ed Ercole. Poi vengono  gli  amori  di  Giasone,  Teseo,  Orfeo,  Achille,
Paride, Enea, Lancillotto.
        Scienza, gloria, amore, ecco la  vita  quando  non  vi  s'intrometta  la
Fortuna e colpisca Cesare o Pompeo nel sommo della felicità. Percorsi i  circoli
della vita, comincia il tripudio, o la beatitudine; e  non  sono  già  le  danze
delle luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le voluttuose danze di
un paradiso maomettano, o le danze delle  ninfe  napolitane  a  Baia.  Il  poeta
s'innamora, e mentre in sogno si tuffa negli amorosi  diletti  e  tiene  fra  le
braccia la donna, si sveglia, e la sua guida gli dice:

        Ciò che porse
        il tuo dormire alla tua fantasia
        tutto averai.

E mentre la visione si dilegua, ella lo  raccomanda  al  «sir  di  tutta  pace»,
all'Amore.
        Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il Boccaccio riesce
a un concetto della vita affatto opposto, alla glorificazione della carne, nella
quale è il riposo e la pace. La «Divina Commedia» qui è cavata fuori  del
soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata l'umanità e se stesso  e  il  suo
tempo, ed è umanizzata, trasformata in un real castello, sede  della  coltura  e
dell'amore. Se non che il Boccaccio non vide che quelle  forme  contemplative  e
allegoriche, naturale involucro di un mondo mistico  e  soprannaturale,  mal  si
attagliavano a quella vita tutta attiva e terrena,  ed  erano  disformi  al  suo
genio, superficiale ed esterno, privo di ogni  profondità  ed  idealità:  perciò
riesce monotono, prolisso e volgare. Oggi, a tanta  distanza,  c'è  difficile  a
concepire come non abbia trovato subito il suo genere, che è la rappresentazione
della vita nel suo immediato, sciolta da ogni involucro  non  solo  teologico  e
scolastico,  ma  anche  mitologico  e  cavalleresco.  Ma  lento  è  il  processo
dell'umanità anche nell'individuo, che passa per  molte  prove  e  tentennamenti
prima di trovare se stesso. Il Boccaccio,  amico  delle  muse,  stima  co'  suoi
contemporanei che «le cose volgari non possono fare un uomo letterato» e che  si
richiedono «più alti studi». E gli alti studi sono il  latino  e  il  greco,  la
conoscenza  dell'antichità.  Il  suo  maggior  titolo  di  gloria  era   l'ampia
erudizione, che lo rendeva superiore a Dante  ed  anche  al  suo  «Silvano»,  il
Petrarca. Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate,  le  forme  epiche  di
Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante e di Silvano,  e  in  quelle  forme
vuol realizzare un mondo prosaico che gli  si  moveva  dentro.  Nei  suoi  primi
lavori salta fuori tutto il suo mondo greco-romano, mitologico  e  storico,  con
grande ammirazione de' contemporanei. Gli amori di Troilo e Griseida, d'Arcita e
Palemone passarono le Alpi e fecondarono l'immaginazione di  Chaucer;  i  quadri
storici e mitologici della sua Visione ispirarono  molti  Saggi  e
molti Tempi dell'umanità. Chi legge i Reali  di  Francia  e  tante
scarne traduzioni di romanzi francesi allora in voga,  può  concepire  che  gran
miracolo  dovè   parere   la   Teseide,   il   Filostrato   e   il
Filocolo. Anche nelle sue Rime si vede l'uomo nuovo alle prese con
forme vecchie. Vi trovi il solito  repertorio,  l'innamoramento,  i  sospiri,  i
desiri, i pentimenti, il volgersi a Dio e alla Madonna, ma la bella unità lirica
del mondo di Dante e del Petrarca è rotta, ed ogni idealità è scomparsa.  Dietro
alle stesse forme è un diverso contenuto che mal vi si adagia. La donna in  nome
è ancora un'angioletta, ma che angiolo! Ella sta non raccolta  e  modesta  nella
sua ingenuità infantile, come Bice; o nella sua casta dignità, come Laura; ma

        all'ombra di mille arbori fronzuti,
        in abito leggiadro e gentilesco

tende lacci

        con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.

Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune, ed un amante distratto, che
ora esala sospiri profani in forme platoniche e tradizionali, ora pianta  lì  la
sua angioletta, e si sfoga contro i suoi avversari,  e  ragiona  della  morte  e
della fortuna, o inveisce contro le donne:

        Elle donne non son, ma doglia altrui,
        senza pietà, senza fè, senz'amore,
        liete del mal di chi più lor credette.

Perchè meglio si comprenda  questa  disarmonia  tra  forme  convenzionali  e  un
contenuto nuovo, guardiamo questo sonetto:

        Sulla poppa sedea d'una barchetta,
        che 'l mar segando presta era tirata,
        la donna mia con altre accompagnata,
        cantando or una, or altra canzonetta.

        Or questo lito ed or quell'isoletta,
        ed ora questa ed or quella brigata
        di donne visitando, era mirata
        qual discesa dal ciel nuova angioletta.

        Io che seguendo lei vedeva farsi
        da tutte parti incontro a rimirarla
        gente, vedea come miracol novo:

        ogni spirito mio in me destarsi
        sentiva, e con Amor di commendarla
        vago non vedea mai il ben ch'io provo.

Il sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca, ancorachè per  la  parte
tecnica un po' trascurata. In quelle giovanette, che cantano a mare  e  vanno  a
visitare le amiche e sono ammirate dalla gente, vedi una scena tutta napolitana,
e ti corre innanzi Baia, sede di secrete delizie che destano le furie gelose del
poeta. Ma questa bella scena alla fine si guasta, col  solito  «spirito»  e  col
solito «Amore vago di commendare», e riesce in una freddura. Chi vuol vedere  un
sonetto  affatto  moderno,  dove  l'autore  si  è  sciolto  da  ogni   involucro
artificiale, e ti coglie in atto la vita di Baia con le sue  soavità  e  le  sue
licenze, senta questo:

        Intorno ad una fonte, in un pratello
        di verdi erbette pieno e di bei fiori,
        sedeano tre angiolette, i loro amori
        forse narrando; ed a ciascuna il bello

        viso adombrava un verde ramoscello
        che i capei d'or cingea, al qual di fuori
        e dentro insieme due vaghi colori
        avvolgeva un soave venticello.

        E dopo alquanto l'una alle due disse
        com'io udii: - Deh! Se per avventura
        di ciascuna l'amante or qui venisse,

        fuggiremo noi quinci per paura? -
         - A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
        poco savia saria con tal ventura. -

Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di  sensuale  e  malizioso.  Gli
scherzi del venticello sono abbozzati con l'anima di un satiro  che  divora  con
gli occhi la preda, e la  chiusa  cinica  così  inaspettata  ti  toglie  a  ogni
idealità e ti gitta nel comico. Qui il Boccaccio trova se  stesso.  Fu  chiamato
«Giovanni della tranquillità» per quella  sua  spensierata  giovialità,  che  lo
tenea lontano da ogni esagerazione delle passioni, e tiravalo  nel  godimento  e
nel gusto della vita reale. E  quantunque  si  doglia  dell'epiteto  come  d'una
ingiuria e lo rifiuti sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua  gloria,  e
non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione. Fu chiamato anche
«uomo di vetro», per una cotal sua mobilità d'impressioni e di  risoluzioni,  di
cui sono esempio  le  Rime,  dove  invano  cerchi  l'unità  organica  del
Canzoniere, e un disegno qualunque, avvolto il  poeta  dalle  onde  delle
impressioni e della vita reale e de' suoi studi e reminiscenze  classiche.  Pure
tra molte volgarità trovi un elevato sentimento dell'arte, o,  come  egli  dice,
«l'amor delle muse, che lo trae d'inferno», come chiama la terra  deserta  dalle
muse. «Vidi», egli canta,

        ... una ninfa uscire
        d 'un lieto bosco, e verso me venire
        co' crin ristretti da verde corona.
        A me venuta disse: - Io son colei,
        che fo di chi mi segue il nome eterno,
        e qui venuta sono ad amar presta;
        lieva su, vieni. - Ed io già di costei
        acceso, mi levai; ond'io d'inferno
        uscendo, entrai nell'amorosa festa.

Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il sonetto sopra Dante,  scritto
con una gravità e vigore di stile così insueto, che farebbe quasi  dubitare  sia
cosa sua:

        Dante Alighieri son, Minerva oscura
        d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
        l'eleganza materna aggiunse al segno,
        che si tien gran miracol di natura.

        L'alta mia fantasia pronta e sicura
        passò il tartareo e poi il celeste regno,
        e il nobil mio volume feci degno
        di temporale e spirital lettura.

        Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
        anzi matrigna a me pietoso figlio,
        colpa di lingue scellerate e ladre.

        Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
        ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
        presso cui invidia non vince consiglio.

La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo nella  Fiammetta
e nel Corbaccio o Laberinto d'amore. Sono due generi nuovi  e  pel
contenuto  affatto  moderni.  La  Fiammetta  e  un   romanzo   intimo   e
psicologico, dove una giovane amata e abbandonata narra  ella  medesima  la  sua
storia,  rivelando  con  la  più   fina   analisi   le   sue   impressioni.   Il
Corbaccio  è  la  satira  del  sesso  femminile  fatta  dal   vendicativo
scrittore, canzonato da una donna. La scelta di questi argomenti è  felicissima.
L'autore volge le spalle al medio evo e inizia la  letteratura  moderna.  Di  un
mondo mistico-teologico-scolastico non è più alcun  vestigio.  Oramai  tocchiamo
terra: siamo in cospetto dell'uomo e della natura. Abbiamo una pagina di  storia
intima  dell'anima  umana,  colta  in  una   forma   seria   e   diretta   nella
Fiammetta, in una forma negativa  e  satirica  nel  Corbaccio.  La
letteratura non è più trascendente, ma immanente, cioè a dire vede l'uomo  e  la
natura in se stessa, e non  in  forme  estrinseche  e  separate,  mitologiche  e
allegoriche. Ma il Boccaccio non  sa  trovare  le  forme  convenienti  a  questo
contenuto. Per rappresentarlo nella sua verità  non  aveva  che  a  mettersi  in
immediata comunione con quello ed esprimere le sue impressioni così  naturali  e
fresche come gli venivano. Ma s'accosta a questo mondo con  l'animo  preoccupato
dall'erudizione, dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e lo vede,  lo
dipinge a traverso di queste forme. L'impressione giungendo nel suo spirito vi è
immediatamente falsificata, nè si riconosce più dietro a quel  denso  involucro,
che se non  è  teologico-scolastico,  è  pur  qualche  cosa  di  più  strano,  è
mitologico-rettorico. Nasce una nuova trascendenza, la  cui  radice  non  è  nel
naturale sviluppo  del  pensiero  religioso  e  filosofico,  come  l'antica,  ma
nell'avviamento classico preso dalla coltura.  Fiammetta  abbandonata  da
Panfilo, prima di fare i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio  si  lamenta
Didone abbandonata, pensando che a lei non  è  lecito  di  lamentarsi  in  altra
guisa. E se vuol consolarsi, cercando compagni al suo dolore, ti fa un  trattato
di storia antica, narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii ed
eroi. E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni. Vuol dire che  sente
vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E  ti  definisce  la  vergogna  e
ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne. Vuol esprimere gioia, speranza,
timore, dolore, ira, gelosia? E analizza ciascuno di questi sentimenti,  facendo
tesoro di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile. Bisogna vedere con che
diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici e patetici, e le  imitazioni  e
le erudizioni della Fiammetta, a  guida  de'  maestri  e  degli  scolari.
Dante, Minerva oscura, potè spesso tra le nebbie delle sue  allegorie  attingere
il mondo reale, perchè era artista, e se è scolastico, non è mai  rettorico:  il
Boccaccio non può distrigarsi da quel mondo artificiale  e  coglier  la  natura,
perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel pensiero e nel sentimento, e
vi supplisce con le  esagerazioni  e  le  amplificazioni.  Che  dirò  delle  sue
descrizioni così minute, come le sue analisi,  e  tutte  di  seconda  mano,  non
ispirate dall'impressione immediata della natura? Veggasi il suo  inverno  e  la
primavera e l'autunno, e tutte  le  sue  descrizioni  della  bellezza  virile  e
femminile, fatte con la squadra e col compasso. Così gli  è  venuto  scritto  un
romanzo prolisso, noioso, in guisa che, a sentir  quegli  eterni  lamenti  della
Fiammetta che aspetta Panfilo, siamo tentati di dire:  -  Panfilo,  torna
presto! Che non la sentiamo più. -
        Più conforme al suo genio è il Corbaccio, satira delle donne.  Ma
come il burlato è lui, le risa sono a sue spese, specialmente quando si  lamenta
che una donna abbia potuto farla a lui, che pure è un letterato. Vi mostra  egli
così poco spirito come  nella  lettera  a  Nicolò  Acciaioli,  che  il  Petrarca
grecizzando chiamava Simonide, dove leva le alte strida  perchè,  invitato  alla
corte di Napoli, gli sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce  in
vitupèri, in minacce, in pettegolezzi, resi ancora più ridicoli da quella  forma
ciceroniana. Come qui minaccia e vitupera  e  inveisce  alla  latina,  così  nel
Corbaccio satireggia con la  storia,  co'  luoghi  comuni  degli  antichi
poeti, narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti.  L'ordito  è
semplicissimo. Il Boccaccio, beffato da una donna,  si  vuole  uccidere,  ma  il
timore dell'inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi,
non col ferro, ma, come i letterati fanno, con «concordare di rime» o «distender
di prose». Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel  «laberinto
d'amore», o valle incantata, una specie  di  selva  dantesca,  dove  gli  appare
un'ombra, ed è il marito  della  donna,  che  nel  purgatorio  espia  la  troppa
pazienza avuta con lei. Costui gli espone tutte le cattive qualità delle  donne,
a cominciare dalla sua. E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte
altissimo, onde  vede  il  laberinto  metter  capo  nell'inferno.  Questa  vista
guarisce il Boccaccio del mal concetto amore. Come si  vede,  la  satira  non  è
rappresentazione artistica, ma esposizione, in forma di un trattato  di  morale,
de' vizi femminili. Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e novellette graziose
e descrizioni vivaci dei costumi delle donne, con l'uso felicissimo del dialetto
fiorentino, com'è la donna in chiesa,  che  «incomincia  una  dolente  filza  di
paternostri, dall'una mano nell'altra e dall'altra nell'una trasmutandogli senza
mai dirne niuno», o la donna che con le sue gelosie non dà tregua al  marito,  e
«di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fina:  dàlle,  dàlle,  dàlle,
dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non  sa  restare».  Nelle  sue
gelose querele  si  rivela  il  vero  genio  del  Boccaccio,  una  forza  comica
accompagnata con rara felicità di  espressione,  attinta  in  un  dialetto  così
vivace e già maturo, pieno di scorciatoie,  di  frizzi,  di  motti,  di  grazie.
Citiamo alcuni brani:

        «Credi tu ch'i' sia abbagliata, e ch'i' non sappia a cui tu vai  dietro?
A cui tu vogli bene? E con cui tutto il dì favelli? Misera  me,  che  è  cotanto
tempo ch'io ci venni, e pur una volta ancora non mi dicesti - Amor mio, ben  sia
venuta. - Ma alla croce di Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me.  Or  son
io così sparuta? Non son io così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico?  Chi
due bocche bacia, l'una convien che gli puta. Fàtti costà, se Iddio m'aiuti,  tu
non mi toccherai: va' dietro a quelle di cui tu se' degno, chè certo tu non  eri
degno d'aver me, e fai bene ritratto di quello che tu sei, ma a fare a far sia.

        Questa è lingua già degna di Plauto, e il Corbaccio è  sparso  di
cotali scene, degne di colui che aveva già scritto  il  Decamerone.  Fra'
tanti peccati che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono alla  donna
c'è pur questo, che «le sue  orazioni  e  i  suoi  paternostri  sono  i  romanzi
franceschi»,  e  «tutta  si   stritola   quando   legge   Lancillotto   o
Tristano nelle camere segretamente». E  anche  «legge  la  canzone  dello
indovinello, e quella di Florio e di Biancefiore, e simili  altre  cose  assai».
Sono preziose rivelazioni sulla letteratura profana e proibita, allora in  voga.
Ma se peccato c'è, il maggior peccatore era il Boccaccio per l'appunto, che  per
piacere alle donne scrivea romanzi. Pure è lecito credere ch'elle leggevano  con
più gusto la nuda storia francesca di Florio  e  Biancefiore,  che  l'imitazione
letteraria  fatta  dal  Boccaccio,  detta  Filocolo,   dove   Biancefiore
(Blanchefleur) è chiamata all'italiana «Biancofiore». Alle donne caleva poco  di
mitologia e storia antica, e se tanta erudizione  e  artificio  rettorico  potea
parere cosa mirabile al suo maestro di greco, Pilato, e a' latinisti e  grecisti
che erano allora i letterati, le donne, che cercavano ne' libri il piacer  loro,
facevano de' suoi  scritti  poca  stima,  e,  «ciò  che  peggio  era,  per  lui,
Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini  creduti
suoi amici e domestici, come fango scalpitavano e schernivano».  In  verità,  le
donne col loro senso naturale erano migliori giudici in letteratura che  Leonzio
Pilato e tutti i dotti.
        Quelli che chiamarono «tranquillo»  il  nostro  Giovanni  espressero  un
concetto più profondo che non pensavano. La tranquillità è appunto il  carattere
del nuovo contenuto che egli cercava sotto  forme  pagane.  La  letteratura  del
medio evo è tutt'altro che tranquilla; anzi il suo genio  è  l'inquietudine,  un
cercare continuo, il di là senza speranza di attingerlo. Il suo uomo  è  sospeso
da terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio. L'uomo del Boccaccio è, al
contrario, assiso, in ozio idillico, con gli occhi volti alla madre terra,  alla
quale domanda e dalla quale ottiene l'appagamento. Ma  al  Boccaccio  non  piace
esser chiamato «tranquillo», inconsapevole che la sua forza è lì  dov'è  la  sua
natura. E si prova nel genere eroico e cavalleresco, e nelle  confessioni  della
Fiammetta tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo  che
non trova ancora la sua via. L'indefinito è negato a lui, che descrive la natura
con tanta minutezza di analisi. Il sospiro è negato a lui, che numera ad uno  ad
uno i fenomeni del sentimento. L'eroico  e  il  tragico  non  può  allignare  in
un'anima idillica e sensuale. E quando vi si prova, riesce  falso  e  rettorico.
Perciò non gli riesce ancora di produrre un mondo, cioè una  totalità  organica,
armonica e  concorde.  Nel  suo  mondo  epico-tragico-cavalleresco  penetra  uno
spirito  eterogeneo  e  dissolvente,  che  rende  impossibile  ogni   formazione
artistica, il naturalismo pagano: spirito invitto, perchè è il solo che vive  al
di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo mondo interiore. E quando gli
riesce di coglierlo nella sua semplicità e  verità,  come  gli  si  move  al  di
dentro, allora trova se stesso e diviene artista.  Questo  mondo,  gittato  come
frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici  e  tragici,  par  fuori  in
tutta la sua purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.
        Qui l'autore, volgendo le spalle alla cavalleria e a' tempi eroici, rifà
con l'immaginazione i tempi idillici delle antiche favole e  dell'età  dell'oro,
quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe, di pastori,
di fauni e di satiri. La mitologia non è qui elemento errante fuori di posto  in
mondo non suo, è lei tutto il mondo.
        Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla natura. Nel  Ninfale
fiesolano la ninfa sacra a Diana, vinta dalla natura, manca al suo voto ed è
trasmutata in fonte. L'anima del racconto è il dolce peccato, nel  quale  cadono
Africo  e  Mensola  non  per  corruzione  o  depravazione  di  cuore,   ma   per
l'irresistibile forza della natura nella piena  semplicità  ed  innocenza  della
vita; sì che, saputo il fatto, ne viene compassione alla stessa  Diana.  Indi  a
poco sopraggiunge Atalante, e con la guida  del  figlio  della  colpa,  nato  da
Mensola, distrugge gli asili sacri a Diana, e marita  le  ninfe  per  forza,  ed
edifica Fiesole, ed introduce la civiltà e la coltura. Così il mondo  mitologico
perisce con le sue selvatiche istituzioni, e comincia il viver  civile  conforme
alle leggi della natura e dell'amore.
        Il racconto è diviso in sette  parti  o  canti  ed  è  in  ottava  rima.
L'autore, non costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i  sentimenti,  si  fa
cullare dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e  descrive
paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una facilità che  spesso  è
negligenza, non è mai affettazione o esagerazione.  La  tromba  è  mutata  nella
zampogna, suono più umile, ma uguale  e  armonioso:  l'ottava  procede  piana  e
naturale, talora troppo rimessa; e non mancano di bei versi imitativi. Africo  e
Mensola debbono dividersi, chè l'ora è tarda; e il poeta dice:

        Partir non si sanno,
        ma or si partono, or tornano, or vanno.

Altrove dice:

        sempre mirandosi avanti ed intorno,
        se Mensola vedea, poneva mente.

Frequente è in lui l'uso dello sdrucciolo in mezzo al verso, e quell'entrare de'
versi l'uno nell'altro, che slega e intoppa le  sue  ottave  eroiche,  ma  dà  a
queste ottave idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia.  Il  suo  periodo
poetico, saltellante e  imbrogliato  nella  Teseide,  qui  è  corrente  e
spedito, assai prossimo al linguaggio naturale e familiare:

        Ella lo vide prima che lui lei,
        perchè' a fuggir del campo ella prendea:
        Africo la sentì gridare - Omei! -
        e poi guardando fuggir la vedea:
        e infra se disse: - Per certo costei
        è Mensola -, e poi dietro le correa;
        e sì la prega e per nome la chiama,
        dicendo: - Aspetta quel che tanto t'ama. -

Africo dorme; e il padre dice alla moglie, Alimena:

        O cara sposa,
        nostro figliuol mi pare addormentato,
        e molto ad agio in sul letto si posa,
        sì che a destarlo mi parria peccato,
        e forse gli saria cosa gravosa
        se io l'avessi del sonno svegliato.
         - E tu di' vero, - diceva Alimena -
        lascial posare e non gli dar più pena. -

Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale e nel volgare.
Più tardi verrà il grande artista, che calerà in questo  mondo  della  natura  e
dell'amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce, e  gli  darà  l'ultima  e
perfetta forma.
        Simile di disegno,  ma  in  più  larghe  proporzioni,  è  il  Ninfale
d'Ameto. È il trionfo della natura e dell'amore  sulla  barbarie  de'  tempi
primitivi. E il barbaro qui non è la ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di
natura rompe il voto, ma è il pastore, abitatore della foresta co'  fauni  e  le
driadi, che scendendo al piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile.  Il
luogo della scena comincia in Fiesole, negli antichissimi  tempi  detta  Corito,
quando vi abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via  e
introdurvi  costumi  umani.  Così  l'Ameto  si  collega  col   Ninfale
fiesolano. Il pastore Ameto erra e caccia su  pel  monte  e  per  la  selva,
quando un dì affaticato giunge co' suoi cani al  piano,  presso  il  Mugnone;  e
riposando e trastullandosi co' cani, gli giunge all'orecchio un dolce  canto,  e
guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla  bellissima  Lia.  Sono
ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere.  Lia  racconta  nella  sua  canzone  la
storia di Narciso, «bellissimo e crudo  cacciatore»,  che,  rifiutando  il  caro
amore delle donne e innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore. Ameto
parte pensoso, recando seco l'immagine di Lia. Venuta  la  primavera,  torna  al
piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:

        Tu se' lucente e chiara più che il vetro
        ed assai dolce più ch'uva matura;
        nel cuor ti sento, ov'io sempre t'impetro
        E siccome la palma in ver l'altura
        si stende, così tu, viepiù vezzosa
        che 'l giovanetto agnel ne la pastura;
        e sei più cara assai e grazïosa
        che le fredde acque a' corpi faticati,
        o che le fiamme a' freddi, e ch'altra cosa.
        E i tuoi capei più volte ho simigliati
        di Cerere a le paglie secche e bionde,
        dintorno crespi al tuo capo legati...
        Vieni, ch'io serbo a te giocondo dono,
        che io ho còlti fiori in abbondanza
        agli occhi bei, d'odor soave e buono.
        E siccome suol esser mia usanza,
        le ciriege ti serbo, e già per poco
        non si riscaldan per la tua distanza.
        Con queste, bianche e rosse come fuoco
        ti serbo gelse, mandorle e susine,
        fravole e bozzacchioni in questo loco.
        Belle peruzze e fichi senza fine,
        e di tortole ho presa una nidiata,
        le più belle del mondo, e piccoline...

Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni
e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra  bellissime  ninfe,  delle  quali
contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e  amoroso.  E  tutti
fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere e di  Amore.  Sopravvengono
altre ninfe, le quali «non umane pensava, ma dèe», e  contempla  rapito  celesti
bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo: «Io, usato di  seguire
bestie, amore poco avanti da me non saputo seguendo, non so come  mi  convertirò
in amante seguendo donne». Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli  scioglie
un inno a Giove e canta la sua conversione.  Questi  sono  gli  antecedenti  del
romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella  forma
minuta e stancante che è il vezzo dell'autore. Lia propone  che  ciascuna  ninfa
canti la sua storia e canti la deità reverita da lei, acciocchè «oziose, come le
misere fanno, non passino il chiaro giorno». Sedute in cerchio e posto in  mezzo
Ameto, come loro presidente o antistite, cominciano i loro racconti. Sono  sette
ninfe: Mopsa, Emilia, Adiona,  Acrimonia,  Agapes,  Fiammetta  e  Lia,  ciascuna
consacrata a una divinità, Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle  quali
si cantano le lodi. Ne' racconti delle ninfe vedi la vittoria dell'amore e della
natura sulla ferina salvatichezza degli uomini, e all'ozio bestiale tener dietro
le arti di Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona,  la  cultura  e
l'umanità.  Ti  vedi  innanzi  svilupparsi  tutto  il  mondo  della  cultura,  e
cominciare da Atene ed in ultimo posare in Etruria,  dove  l'autore  con  giusto
orgoglio pone il principio della nuova cultura. Da ultimo apparisce una luce una
e trina, entro la quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli
levò l'oscura caligine, sì che nella luce triforme ravvisa la  celeste  e  santa
Venere, madre di amore puro e intellettuale. Tuffato nella fonte da Lia, gittati
i panni selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente «di  bruto  fatto  uomo»,  e
«vede chi sieno le ninfe, le  quali  più  all'occhio  che  all'intelletto  erano
piaciute, e ora all'intelletto piacciono  più  che  all'occhio;  discerne  quali
sieno i templi, quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori,  e  non
poco in sè si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti». Le  ninfe,  le  quali
non sono altro che le scienze e le arti della vita civile, tornano alla  celeste
patria, e Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.
        Questo disegno evidentemente è uscito da  una  testa  giovanile,  ancora
sotto l'azione di tutti i diversi elementi di quella cultura. Palpabili sono  le
reminiscenze della Divina  Commedia.  Lia  e  Fiammetta  ricordano
Matilde e Beatrice. Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è l'emancipazione
dell'uomo, il quale, percorse le vie del senso e dell'amore  sensuale,  è  dalla
scienza innalzato all'amore di Dio. Anche la forma allegorica  è  dantesca,  non
essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di  quelle  separate
intelligenze che presiedono alle stelle e  regolano  i  moti  dell'animo.  Tutto
questo si trova inviluppato in un mondo mitologico,  che  è  la  sua  negazione,
animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e  Longo  contendono
con Dante nel cervello dello scrittore. Il romanzo, che nell'intenzione dovrebbe
essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un  vivo  sentimento  della  bella
natura e de' piaceri amorosi. Si vede il giovane, che sta con Dante in astratto,
ma ha pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e  franceschi,  di  avventure
licenziose, e fa di tutto una mescolanza.  Se  qualche  cosa  in  questa  noiosa
lettura ti alletta, è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura,  com'è  la
comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale intravvedi
già il povero dottore a cui Paganino rubò la moglie, e com'è qua  e  là  qualche
pittura e sentimento idillico. Pure, in un mondo così dissonante e  scordato  si
sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la coltura e l'umanità.  Ci  si
sente il secolo, che scuote da sè la rozza barbarie, e s'incammina fidente verso
un mondo più colto e polito. Ameto si spoglia il ruvido abito del medio  evo,  e
guidato dalle muse prende aspetto gentile e umano. Le ombre  del  misticismo  si
diradano nel tempio di Venere. Dante canta la redenzione  dell'anima  nell'altro
mondo. Il Boccaccio canta la fine della barbarie e il regno della coltura. È  lo
spirito nuovo, da cui più tardi uscirà Lorenzo de' Medici e Poliziano.
        Gittando ora un solo sguardo su questi lavori,  si  possono  raccogliere
con chiarezza i caratteri della nuova cultura. Le teorie in  astratto  rimangono
le stesse, e il Boccaccio pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona il
cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la  sua  inquietudine,  e
diviene  tranquillo,  calato  tutto  e  soddisfatto  nella  materia  della   sua
contemplazione. A un mondo lirico  di  aspirazioni  indefinite,  espresso  nella
visione e nell'estasi, succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali
il suo principio e il suo termine. Il poeta  in  luogo  d'idealizzare  realizza,
cioè a dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un
di là da esse, e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si
riposi. Non ci è più il «forse» e il «parere», non una forma  appena  abbozzata,
quasi velo di qualcos'altro, ma una forma terminata e chiusa in sè e corpulenta,
nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina
succede l'analitica ottava. Rimangono ancora le  terzine,  e  le  visioni  e  le
allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come  forme  prettamente  convenzionali  e
d'imitazione, sciolte dallo spirito che le ha generate:  il  passato  per  lungo
tempo si continua come morta forma in un mondo mutato. Succedono forme giovani e
nuove, più conformi a un contenuto epico. Sul mondo inquieto delle  allegorie  e
delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo  pagano,  con  le  sue  deità
umanizzate, con la sua natura animata, col suo vivo sentimento  della  bellezza,
con la sua disinteressata contemplazione artistica. Queste tendenze non  trovano
soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco, perchè la  serietà  di  una
vita eroica e cavalleresca è ita via insieme col medio evo, e non  è  più  nella
coscienza, e  non  può  essere  altro  che  imitazione  letteraria  e  artificio
rettorico. Più conveniente a quelle forme è la vita idillica, ne' cui tranquilli
ozi, nella cui semplicità e chiarezza l'anima, agitata dalle lotte  politiche  e
turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si raccoglie come in un porto e si
riposa. L'idillio è la  prima  forma  nella  quale  si  manifesta  questa  nuova
generazione, fiacca e stanca, pur  colta  ed  erudita,  che  chiama  barbara  la
generazione passata, e celebra i  nuovi  tempi  della  coltura  e  dell'umanità,
invocando Venere e Amore.
        Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle sue imitazioni,
nelle sue tendenze, è il Boccaccio. I suoi tentennamenti  e  le  sue  dissonanze
provengono dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi,  vivi  e
morti, mescolati. Un doppio involucro, mistico e mitologico, circonda  come  una
nebbia questo mondo della natura.
        Fra questi tentennamenti  si  andò  formando  il  Decamerone.  Il
Boccaccio lascia qui cavalleria, mitologia, allegoria,  e  tutto  il  suo  mondo
classico, tutte le sue reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società,  e
ci vive e ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè vive anche lui  di  quella
vita comune. Par così facile attingere la società  in  questa  forma  diretta  e
immediata: pur si vede quanto laboriosa gestazione  è  necessaria,  perchè  esca
alla luce il mondo del tuo spirito.
        Quel mondo esisteva prima del Decamerone. In  Italia  abbondavano
romanzi e novelle e «canzoni latine», canti licenziosi. Le  donne,  come  abbiam
visto, leggevano secretamente tra loro questi libri  profani,  e  i  novellatori
intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e  licenziosi.  Il  fondo
comune de' romanzi erano le avventure  de'  cavalieri  della  Tavola  rotonda
e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero
di questi eroi  ed  eroine,  Artù,  Lancillotto,  Galeotto,  Isotta  la  bionda,
Chedino, Palamides, Lionello, Tristano, Orlando,  Uliviero,  Rinaldo,  Guttifré,
Roberto Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo. Egli medesimo  scrisse
romanzi  per  far  piacere  alle  donne,  e  rifatto  il  romanzo  di  Florio  e
Biancofiore, cercò un teatro più conforme  a'  suoi  studi  classici  ne'  tempi
eroici e primitivi delle greche tradizioni. Pure, le  novelle  doveano  riuscire
più popolari e più gradite, perchè più conformi a' tempi e a' costumi. E  se  ne
raffazzonavano o inventavano di ogni sorta, serie e comiche,  morali  e  oscene,
variate e abbellite da' novellatori secondo i gusti  dell'uditorio.  La  novella
era   dunque   un   genere   vivente   di   letteratura,   lasciato   in   balia
dell'immaginazione, e come materia profana e frivola,  trascurata  dagli  uomini
colti. Rivale della novella era la leggenda co' suoi miracoli e le sue  visioni.
Gli uomini colti si tenevano alto in una regione loro propria, e  lasciavano  a'
frati i Fioretti di san Francesco e la Vita del beato Colombino, e
a' buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
        In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio, con non altro fine
che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea  data
commissione. E raccolse tutta  quella  materia  informe  e  rozza,  trattata  da
illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
        Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti  dalle  quali  il  Boccaccio  ha
attinte le sue novelle. E molti credono si tolga qualche cosa alla  sua  gloria,
quando sia  dimostrato  che  la  più  parte  de'  suoi  racconti  non  sono  sua
invenzione, quasi  che  il  merito  dell'artista  fosse  nell'inventare,  e  non
piuttosto  nel  formare  la  materia.  Fatto  è  che  la  materia,  così   nella
Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone, non uscì dal
cervello di un uomo, anzi fu il prodotto di una elaborazione collettiva, passata
per diverse forme, insino a che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
        Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto  diversi  nomi,  ma  non
c'era la novella, e tanto meno il novelliere, in cui i singoli racconti  fossero
composti ad unità e divenissero un mondo organico.  Questo  organismo  vi  spirò
dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi  e  di  tendenze
fece il mondo vivente del suo tempo, la società contemporanea, della quale  egli
aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.
        Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto
elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza.  È
un artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, e la dipinge con
quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili impressioni
della vita, senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle.  Qualità  che  lo
distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti raccolti ed estatici.
Il Boccaccio  è  tutto  nel  mondo  di  fuori  tra'  diletti  e  gli  ozi  e  le
vicissitudini della vita, e vi è occupato e soddisfatto, e non gli  avviene  mai
di piegarsi in sè, di chinare il capo pensoso. Le rughe del pensiero  non  hanno
mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è calata sulla sua coscienza. Non a
caso fu detto «Giovanni della  tranquillità».  Sparisce  con  lui  dalla  nostra
letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la inquieta  profondità  del
pensiero, quel vivere dello spirito in sè, nutrito di fantasmi e di misteri.  La
vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si  abbellisce.  Il  mondo  dello
spirito se ne va: viene il mondo della natura.
        Questo mondo superficiale, appunto  perchè  vuoto  di  forze  interne  e
spirituali, non ha serietà di mezzi e di scopo. Ciò che lo move non è Dio, nè la
scienza, non l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto,  la  grande  base  del
medio evo; ma è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera  e  violenta  reazione
contro il misticismo. Ti vedi innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i
mali e le noie della vita, passando le calde ore  della  giornata  in  piacevoli
racconti. Era il tempo della peste,  e  gli  uomini  con  la  morte  innanzi  si
sentivano sciolti da ogni freno e  si  abbandonavano  al  carnevale  della  loro
immaginazione. Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove
avea passati i suoi più bei  giorni,  attingendo  le  sue  ispirazioni  in  quel
letame, sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori. Un  congegno  simile
trovi già nell'Ameto, un decamerone pastorale: se non che ivi i  racconti
sono allegorici e preordinati ad un fine astratto:  non  c'è  lo  spirito  della
Divina Commedia, ma ce n'è l'ossatura. Qui al contrario  i  racconti  non
hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri  mezzani
di piacere e d'amore, il vero  Principe  Galeotto,  titolo  italiano  del
novelliere,  velato  pudicamente  da  un  titolo  greco.  I  personaggi  evocati
nell'immaginazione da diversi popoli e tempi  appartengono  allo  stesso  mondo,
vuoto al di dentro, corpulento al di fuori.  Personaggi,  attori,  spettatori  e
scrittore sono un mondo solo, il cui carattere è la vita tutta al di  fuori,  in
una tranquilla spensieratezza.
        Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero  arbitrio
e guidati ne' loro effetti dal caso. Dio o la provvidenza ci sta di nome,  quasi
per un  tacito  accordo,  nelle  parole  di  gente  caduta  nella  più  profonda
indifferenza religiosa, politica e morale. E non c'è neppure quella intima forza
delle cose, che crea la  logica  degli  avvenimenti  e  la  necessità  del  loro
cammino; anzi l'attrattivo del racconto è  proprio  nell'opposto,  mostrando  le
azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine  affatto  contrario  a
quello che ragionevolmente si potea  presupporre.  Nasce  una  nuova  specie  di
maraviglioso, generato non dall'intrusione nella  vita  di  forze  oltrenaturali
sotto forma di visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti
non possibili ad essere preveduti e regolati. L'ultima impressione è che signore
del mondo è il caso. Ed è appunto nel vario giuoco delle  inclinazioni  e  delle
passioni degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è  qui  il
deus ex machina, il dio di questo mondo.
        E poichè la macchina è il maraviglioso, l'imprevisto,  il  fortuito,  lo
straordinario, l'interesse del racconto non è  nella  moralità  degli  atti,  ma
nella loro straordinarietà di cause e di  effetti.  Non  già  che  il  Boccaccio
sconosca il mondo morale e religioso, ed alteri le  nozioni  comuni  intorno  al
bene od al male, ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona. Poco a
lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò  che  importa  è  che  possa
stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei  caratteri.
La virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e  di
misura, e diviene anch'essa un istrumento  del  maraviglioso,  condotta  ad  una
esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il  difetto  di
senso morale. Esempio notabile è la Griselda, il  personaggio  più  virtuoso  di
quel mondo. La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della
natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio. L'autore, volendo foggiare
una virtù straordinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade  in  quel
misticismo contro di cui si ribella e che mette in  gioco,  collocando  l'ideale
della virtù femminile  nell'abdicazione  della  personalità,  a  quel  modo  che
secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito  e  lo  spirito  è
assorbito da Dio. Si rinnova il sacrificio di Abramo, e  il  Dio  che  mette  la
natura a così crudel prova è qui il  marito.  Similmente  la  virtù  in  Tito  e
Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose, che non ti alletta
come un esempio, ma ti  stupisce  come  un  miracolo.  Ma  virtù  eccezionali  e
spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che  spesso  ti  occorre  è  la  virtù
tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza
di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche
in tempi borghesi. La qual virtù è in questo, che il principe usa la sua potenza
a protezione de' minori, e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi
e poco favoriti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso  i  quali
si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala. Così è molto
commendato il primo Carlo d'Angiò, il  quale,  potendo  rapire  e  sforzare  due
bellissime  fanciulle,  figliuole  di  un   ghibellino,   amò   meglio   dotarle
magnificamente e maritarle. La virtù in questi potenti signori  è  di  non  fare
malvagio uso della loro  forza,  anzi  di  mostrarsi  liberali  e  cortesi.  Già
cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di letterati, che viveva  alle
spese di questa virtù, celebrando con  giusto  cambio  una  magnificenza,  della
quale assaporavano gli avanzi. L'anima altera di Dante mal vi si piegava, nè gli
fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a frusto a frusto e scendere
e salire per le altrui scale. Ma i tempi non erano più all'eroica, e il Petrarca
si lasciava dotare e mantenere da' suoi  mecenati,  e  il  Boccaccio  vivea  de'
rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato,  quando  il  mantenimento
non era dicevole a un par  suo,  disposto  da'  buoni  o  da'  cattivi  cibi  al
panegirico o alla satira. Tale è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole
è chiamato la virtù, una liberalità e gentilezza  d'animo,  che  dalle  castella
penetra nelle città e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri,  della  quale  sono
esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e  il  negromante  di
Ansaldo. Questo, se non è propriamente senso morale, è pur senso di  gentilezza,
che raddolcisce i costumi e spoglia la  virtù  del  suo  carattere  teologico  e
mistico, posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà aspetto  piacevole,  più
conforme ad una società colta e allegra. Vero è che siccome il caso,  regolatore
di questo mondo, ne fa di ogni  maniera,  talora  l'allegria  che  vi  domina  è
funestata da tristi accidenti, che turbano  il  bel  sereno.  Ma  è  una  nuvola
improvvisa, la quale presto si scioglie e rende più cara la vista  del  sole,  o
come dice la Fiammetta, è una «fiera materia, data a  temperare  alquanto
la letizia». Volendo guardare più profondamente in questo  fenomeno,  osserviamo
che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa  monotona,  noiosa,  e  perciò  poco
gioiosa, come avviene spesso ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse
entro con le sue corde più varie e più ricche d'armonia, traendosi  appresso  un
corteggio  di  vivaci  passioni,  l'amore,  la  gelosia,  l'odio,   lo   sdegno,
l'indignazione. Il dolore ci sta qui non per sè, ma come istrumento della gioia,
stuzzicando l'anima, tenendola in sospensione e in agitazione, insino a che  per
benignità della fortuna o del caso comparisce d'improvviso il sereno.  E  quando
pure il fatto sorta trista fine, com'è in tutt'i racconti della giornata quarta,
l'emozione è superficiale ed esterna,  esaltata  e  raddolcita  in  descrizioni,
discorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo strazio,  com'è  nel  fiero
dolore di Dante. Sono fugaci apparizioni tragiche in questo mondo della natura e
dell'amore, provocate appunto dalla collisione della natura e dell'amore non con
un principio elevato di moralità,  ma  con  la  virtù  cavalleresca,  «il  punto
d'onore». Di che bellissimo esempio,  oltre  il  Gerbino,  è  il  Tancredi,  che
testimone della sua onta uccide l'amante della figliuola, e mandale il cuore  in
una coppa d'oro: la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella  si  bee  e
così muore. Il motivo della tragedia è il punto d'onore,  perchè  ciò  che  move
Tancredi è l'onta ricevuta, non solo per l'amore della figliuola, ma ancora  più
per l'amore collocato in  uomo  di  umile  nazione.  Ma  la  figliuola  dimostra
vittoriosamente al padre la legittimità  del  suo  amore  e  della  sua  scelta,
invocando le leggi della natura e il concetto della vera nobiltà, posta non  nel
sangue, ma nella virtù; e l'ultima impressione è la condanna del  padre  indarno
pentito e piangente sul morto corpo della figliuola, il quale apparisce non come
giusto vendicatore del suo onore offeso, ma  come  ribelle  verso  la  natura  e
l'amore. L'effetto estetico è la compassione verso  il  padre  e  la  figliuola,
l'una di alto animo, l'altro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non
per difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in mezzo a  cui  vivono.  La
conclusione ultima è la rivendicazione delle leggi  della  natura  e  dell'amore
verso gli ostacoli in cui s'intoppano. Sicchè la tragedia è qui il suggello e la
riprova del mondo boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa  la  sua  comparsa,
presentato nella sua forma più mite e tenera, vicina alla compassione, è come il
condimento della gioia, a lungo andare insipida, quando  sia  abbandonata  a  se
stessa.
        La base della tragedia è mutata. Non è più il  terrore  che  invade  gli
spettatori incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe,
come ne' greci, e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia  superiore,
come nell'inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali  e
cieche, nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di  diritto  superiore,
incontro a cui tutti hanno torto.  La  natura,  che  nel  mondo  dantesco  è  il
peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè non un mondo religioso e morale,  di
cui non è vestigio, ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la società come
si trova ordinata in quel complesso di leggi, di consuetudini  che  si  chiamano
l'«onore». Il conflitto è tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti  prodotti
dal diverso urto di queste forze e terminati dalla  benignità  o  malvagità  del
caso o della fortuna; e non sale a vera  opposizione  interna  che  sviluppi  le
passioni e i caratteri. Il poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno
un riformatore; prende il mondo com'è, e se le sue simpatie sono per le  vittime
dell'amore, non biasima per  ciò  coloro  che  dall'onore  sono  mossi  ad  atti
crudeli, anch'essi degni di stima, vittime anch'essi. Così esalta  Gerbino,  che
volle romper la fede  data  dal  re,  suo  zio,  anzi  che  mancare  alle  leggi
dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il  re  che  lo  fece  uccidere,
«volendo anzi senza nipote rimanere, ch'essere tenuto re senza fede».  Ne  nasce
in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori una calma  interna,  una  specie  di
equilibrio, dove l'emozione non penetra se non quanto è necessario a ravvivare e
variare l'esistenza. Perciò in questo mondo borghese e indifferente  e  naturale
la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata qui  come  un  frammento
galleggiante nella  vastità  delle  onde.  Il  movimento  non  ha  radice  nella
coscienza, nelle forti convinzioni e passioni stimolate  dal  contrasto,  ma  si
scioglie in un giuoco di immaginazione, in una contemplazione artistica de' vari
casi della vita, che sorprendano e attirino la tua attenzione. Per dirla con  un
solo vocabolo comprensivo, virtù e vizi qui non hanno altro significato  che  di
«avventure», ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio  del  caso.
Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il
tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la  stessa  virtù  e  lo  stesso
dolore.
        Un mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura,
non è solo spensierato e allegro, ma è anche comico. Già quel  non  prendere  in
nessuna serietà gli  avvenimenti  e  farne  un  giuoco  di  pura  immaginazione,
quell'intreccio capriccioso de' casi, quell'equilibrio interno che  si  mantiene
sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui germina
il comico. Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa insipida,  è
appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti.  Perchè  il  riso  abbia
malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e  un  significato,  dee  esser
comico. E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e la sua serietà.
        Questa società è essa medesima una materia comica, perchè niente  è  più
comico che una società spensierata e sensuale, da  cui  escono  i  tipi  di  don
Giovanni e di Sancio Panza. Ma è una società  che  rappresentava  a  quel  tempo
quanto di più intelligente e colto era nel mondo,  e  ne  aveva  coscienza.  Una
società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il  mondo
e di poter ridere essa di tutto il mondo. In effetti  due  cose  serie  sono  in
queste novelle, l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e
rispettare da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il
suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti.  Questi
sono i caratteri di quella classe a  cui  apparteneva  il  Boccaccio,  istruita,
intelligente, che teneva sè civile e tutto l'altro barbarie.  E  il  comico  qui
nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa delle cose e
degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale. La  società
colta aveva innanzi a sè i frati ed i preti, o come dice il Boccaccio,  le  cose
cattoliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni, mortificazioni della carne,
visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la  sua  sciocchezza  e  la  sua
credulità. Sopra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio  fa  sonare
la sferza.
        Materia  del  comico  è  dunque  l'efficacia  delle  orazioni,  come  il
«paternostro» di san Giuliano, il modo di  servire  Dio  nel  deserto,  la  vita
pratica de' frati, de' preti e delle  monache  in  contraddizione  con  le  loro
prediche, l'arte della santificazione insegnata a fra Puccio, i  miracoli  e  le
apparizioni de' santi, come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la semplicità
della plebe, trastullo dei furbi. Visibile soprattutto è la reazione della carne
contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e  la  lettura
de' romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi come la via  al  paradiso.  È  una
reazione che si annunzia naturalmente con la licenza  e  il  cinismo.  La  carne
scomunicata si vendica, e chiama «meccanici» i suoi maldicenti, cioè  gente  che
giudica grossamente secondo l'opinione volgare. Così il mondo dello  spirito  in
quelle sue forme eccessive è divenuto per  questa  gente  il  mondo  volgare.  È
immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi,  con
che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi e
le frasi più scomunicate, e talora volgendo a  senso  osceno  frasi  e  immagini
sacre. È il mondo profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno  e  fa  la
caricatura al padrone, cadutogli di sella. Su questo  fondo  comico  s'intreccia
una grande varietà di accidenti,  di  cui  sono  gli  eroi  i  due  protagonisti
immortali di tutte le commedie, chi burla e chi si  fa  burlare,  i  furbi  e  i
gonzi, e di questi i più martoriati e i più innocenti, i  mariti.  E  fra  tanti
accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de' quali alcuni
sono  rimasti  veri  tipi,  come  il  cattivello  di  Calandrino  e  lo  scolare
vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri seri sono piuttosto
singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed  eccezionalità  della
loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra
e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i caratteri comici  sono
la parte viva e intima e sentita di questo mondo, e riflettono in  sè  fisonomie
universali che incontrate nell'uso comune  della  vita,  come  compar  Pietro  e
maestro Simone e fra Puccio e il frate montone e il giudice squasimodeo e  monna
Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perchè «infinita  è
la turba degli stolti». Così questo mondo spensierato  e  gioviale  si  disegna,
prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la «commedia umana».
        Ecco, a così breve distanza, la commedia e l'anticommedia, la «Divina
Commedia» e la sua parodia, la «commedia umana»!  E  sullo  stesso  suolo  e
nello stesso tempo Passavanti,  Cavalca,  Caterina  da  Siena,  voci  dell'altro
mondo, soverchiate dall'alto e profano  riso  di  Giovanni  Boccaccio.  La  gaia
scienza esce dal suo sepolcro col  suo  riso  incontaminato;  i  trovatori  e  i
novellatori, spenti da' ferri sacerdotali, tornano a vita e ripigliano le  danze
e le gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo,  proscritti,
proscrivono alla lor volta  e  rimangono  padroni  assoluti  della  letteratura.
Certo, questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di  terra:  lo
spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si continua con  tradizione
non interrotta, come s'è visto, insino a che nella Divina Commedia prende
arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di  diritto  divino,  e
Dante, laico, assume tono di sacerdote e di apostolo. Ma Dante il fa  con  tanta
industria che tutto l'edificio stia in piedi e la base  rimanga  salda.  La  sua
«commedia» è una riforma; la «commedia» del Boccaccio è  una  rivoluzione,  dove
tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.
        La Divina Commedia uscì  dal  numero  de'  libri  viventi,  e  fu
interpretata come  un  libro  classico,  poco  letta,  poco  capita,  pochissimo
gustata, ammirata sempre. Fu divina, ma non fu più viva.  E  trasse  seco  nella
tomba tutti quei generi di letteratura, i  cui  germi  appaiono  così  vivaci  e
vigorosi ne' suoi schizzi immortali, la tragedia, il dramma, l'inno,  la  laude,
la leggenda, il mistero. Insieme perirono il sentimento della famiglia  e  della
natura e della patria, la  fede  in  un  mondo  superiore,  il  raccoglimento  e
l'estasi e l'intimità, le caste gioie dell'amicizia e dell'amore, l'ideale e  la
serietà della vita. In questo immenso mondo, crollato prima di venire a maturità
e produrre tutti i suoi frutti, ciò che rimase fecondo fu  Malebolge,  il  regno
della malizia, la sede della umana commedia. Quel Malebolge, che Dante gitta nel
loto, e dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione, eccolo qui
che mena sulla terra la sua ridda  infernale,  abbigliato  dalle  Grazie,  e  si
proclama esso il vero paradiso, come capì don Felice e non capì il povero  frate
Puccio. In effetti qui il mondo è preso a rovescio. «Commedia» per  Dante  è  la
beatitudine celeste. «Commedia» pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la quale
tra gli altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia spassandosi alle
spalle del cielo. La carne si trastulla, e chi ne fa le spese è lo spirito.
        Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e  lontanissimo  dalla
vita pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello  spirito,  il
movimento sarebbe stato più lento o più contrastato, come negli altri popoli, ma
insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe fortificata la fede  negli  uni  e  le
convinzioni negli altri, e  generata  una  letteratura  piena  di  vigore  e  di
sostanza,  alla  quale  non  sarebbe  mancata  nè  la  passione  di  Lutero,  nè
l'eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè le forme letterarie possibili
solo dove la vita interiore è forte e sana.  Così  il  movimento  sarebbe  stato
insieme negativo e positivo, il distruggere sarebbe stato  insieme  l'edificare.
Ma  le  audacie  del  pensiero  punite  inesorabilmente,  troncata  col   sangue
l'opposizione ghibellina, rimaso il papato  arbitro  e  vicino  e  sospettoso  e
vigile, quel mondo religioso così corrotto  ne'  costumi,  come  assoluto  nelle
dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così rapida e  con
lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli antichi scrittori, non  potè
esser preso sul serio dalla gente colta, che  pure  è  quella  che  ha  in  mano
l'indirizzo della vita nazionale. Nacque a questo modo la scissura tra la  gente
colta e tutto il rimanente della società, che  pure  era  la  gran  maggioranza,
rimasa passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno  Gianni,  a  frate
Rinaldo e a frate Cipolla. Sicchè per la gente istruita quel  mondo  divenne  il
mondo del volgo, o de' meccanici, e saperne ridere  era  segno  di  coltura:  ne
ridevano  anche  i  chierici  che  volevano  esser  tenuti  uomini  colti.  Così
coesistevano  l'una  accanto  all'altra  due  società  distinte,  senza   troppo
molestarsi. La libertà del pensiero era negata; vietato  mettere  in  dubbio  la
dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare, si viveva  e  si
lasciava vivere, trastullandosi tutti e sollazzandosi  nel  nome  di  Dio  e  di
Maria. Gli stessi predicatori  ne  davano  esempio,  cercando  di  divertire  il
pubblico con motti e ciance ed  iscede;  cosa  che  al  buon  Dante  muoveva  lo
stomaco, e che faceva ridere il Boccaccio, scrivendo nella conclusione  del  suo
Novelliere: «se le prediche de' frati per rimorder delle  lor  colpe  gli
uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggono, estimai che
quegli medesimi non stesser male nelle  mie  novelle,  scritte  per  cacciar  la
malinconia delle femmine.» L'indignazione di Dante era  caduta:  sopravvenne  il
riso, come di cose oramai comuni. Non si move la  bile  se  non  in  quelli  che
credono e veggono profanata la loro credenza ne' fatti: è la bile de' santi e di
tutti gli uomini di coscienza. Ma quella colta società, vuota di senso religioso
e morale, non era disposta a guastarsi la bile per i difetti  degli  uomini.  Le
«sfacciate  donne  fiorentine»  qui  allettano  e  lasciviano  e  fanno  «quadri
viventi», come si dice e si fa oggidì. Il traffico delle cose  sacre,  occasione
allo scisma della credente Germania, e che Dante nella  nobile  ira  sua  chiama
«adulterio», qui è materia di amabili frizzi, senza fiele e  senza  malizia.  La
confessione suggerisce l'idea di equivoci molto ridicoli, ne' quali sono i laici
e le laiche, che la fanno a' preti, uomini «tondi» e «grossi»,  come  si  mostra
nel confessore di ser Ciappelletto, e nel frate  Bestia,  carattere  comico  de'
meglio disegnati. Il foggiar miracoli, come quel di Masetto l'ortolan Alberto  o
di frate Cipolla, il fabbricar santi  e  renderli  miracolosi,  come  è  di  ser
Ciappelletto, è rappresentato con l'allegria comica di gente colta e  incredula.
Profanazioni simili fanno ridere, perchè le  cose  profanate  non  ispirano  più
riverenza.
        Questa società tal quale, sorpresa calda calda nell'atto della  vita,  è
trasportata nel Decamerone: quadro immenso della vita  in  tutte  le  sue
varietà di caratteri e di accidenti i più atti  a  destare  la  maraviglia,  sul
quale spicca Malebolge tirato dall'inferno  e  messo  sul  proscenio,  il  mondo
sensuale e licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si move  senza
mescolarvisi un mondo colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi
cavallereschi, vestito un po' alla  borghese,  spiritoso,  elegante,  ingegnoso,
gentile, di cui il più  bel  tipo  è  Federigo  degli  Alberighi.  Gli  abitanti
naturali di questo mondo sono preti e frati e  contadini  e  artigiani  e  umili
borghesi e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le alte risa
plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri,  le  armi  e
gli amori, le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito, della  coltura,
dell'ingegno e della eleganza, allegro anch'esso, ma di un'allegrezza  costumata
e misurata, magnifico negli atti, avvenente nelle forme, e  nel  parlare  e  ne'
modi decoroso. Questi due mondi, le cui varietà  si  perdono  nello  sfondo  del
quadro, vivono insieme, producendo un'impressione unica e armonica di  un  mondo
spensierato e superficiale, tutto al di fuori nel godimento della  vita,  menato
in qua e in là da' capricci della fortuna.
        Questo doppio mondo così armonizzato nelle sue  varietà  riceve  la  sua
intonazione dall'autore e dalla  lieta  brigata  che  lo  introduce  in  iscena.
L'autore e i suoi novellatori appartengono alla  classe  colta  e  intelligente.
Essi invocano spesso Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano tutte  le
forme religiose, fanno vacanza il venerdì,  perchè  in  quel  giorno  il  nostro
Signore per la «nostra vita morì», cantano canzoni platoniche e  allegoriche,  e
menano vita allegra, ma costumata e quale a  gentili  persone  si  richiede.  Lo
spirito, l'eleganza, la coltura, le muse rendono questa  società  amabile,  come
oggi si riscontra ne' circoli più eleganti. Specchio  suo  è  quel  mondo  della
cortesia, reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo spirito, alla cui
immagine si dipinge la colta e ricca borghesia. E come quel mondo feudale avea i
suoi buffoni e giullari, questa società ha anch'essa chi la rallegri. E  i  suoi
buffoni e giullari sono quell'infinito mondo che le si  schiera  innanzi  preti,
frati, contadini, artigiani, di cui prende  spasso,  traendo  piacere  così  dai
babbei come dai furbi. In questo comico non ci è punto una  intenzione  seria  e
alta,  come  correggere  i  pregiudizi,  assalire  le  istituzioni,   combattere
l'ignoranza, moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità  del  comico  di
Rabelais e di Montaigne, che è la  reazione  del  buon  senso  contro  un  mondo
artificiale e convenzionale. Lì il riso è  serio,  perchè  lascia  qualche  cosa
nella coscienza; qui il riso è per il riso, per passare malinconia, per cacciare
la noia. Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello,  senz'altra
intenzione che di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò che
può meglio trastullare la nobile brigata. Nell'immenso naufragio sopravviveva la
coscienza letteraria e il sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla
coltura; ed è da quella coscienza che sono  usciti  questi  capolavori,  modelli
idealizzati a uso e piacere di una società intelligente e sensuale  dal  geniale
artista, idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.
        L'ideale comico rimasto come  il  suggello  dell'immortalità  su  questi
modelli è nella rappresentazione diretta di questa società così com'è, nella sua
ignoranza e nella sua malizia messa al cospetto di una società intelligente, che
sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani. Il motivo comico non  esce
dal mondo morale, ma dal mondo intellettuale. Sono uomini colti che ridono  alle
spalle degli uomini incolti, che sono i più. Perciò il carattere  dominante  che
rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte, messa  in
risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce il fondo
del carattere sciocco. Con la sciocchezza è congiunta spesso  la  credulità,  la
vanità, la millanteria, la volgarità de' desidèri. La furberia dà il  rilievo  a
questo carattere, sì che lo metta in vista  nel  suo  aspetto  ridicolo.  Ma  la
furberia è anch'essa comica, non certo allo sciocco, ma agl'intelligenti uditori
che la comprendono. Così i due attori concorrono ciascuno per  la  parte  sua  a
produrre il riso. Qui è il fondamento della commedia boccaccevole.  Si  vede  la
coltura in quel suo primo fiorire mostrar coscienza di  sè,  volgendo  in  gioco
l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori. Il comico ha più sapore  quando
i beffati sono quelli che ordinariamente  beffano,  quando  cioè  i  furbi,  che
burlano i semplici, sono alla lor  volta  burlati  dagl'intelligenti,  com'è  il
confessore burlato dalla sua penitente.
        Il comico talora vien fuori per  un  improvviso  motto  o  facezia,  che
illumina  tutta  una  situazione  e   provoca   il   riso   di   un   tratto   e
irresistibilmente: ciò che oggi si direbbe un «tratto di  spirito».  Sono  brevi
novelle, il cui sapore, come nel sonetto, è tutto nella chiusa. Di questo genere
è la novella del giudeo, che  guardando  a  Roma  la  corruzione  cristiana,  si
converte al  cristianesimo.  La  chiusa  sopraggiunge  così  improvvisa  e  così
disforme alle premesse, che l'effetto è grande. E  ce  n'è  parecchie  altre  di
questo stampo, e non molto felici, perchè l'autore lavora  sopra  un  motto  già
trovato e noto.  Tali  sono  le  novelle  della  marchesana  di  Monferrato,  di
Guglielmo Borsiere e di maestro Alberto. Questi fuochi incrociati di motti e  di
frizzi, che brillano con tanto splendore  ne'  circoli  eleganti  e  bastano  ad
acquistarti riputazione di uomo di spirito, sono la parte più  appariscente,  ma
più elementare dello spirito. La fucina dove  si  fabbricavano  motti,  facezie,
proverbi, epigrammi, frizzi, era la scuola de' trovatori e della «gaia scienza».
Moltissimi di questi motti si erano già accasati nel dialetto fiorentino, e  con
molti altri usciti dall'immaginazione di un popolo così svegliato e  arguto.  Il
Decamerone ne è seminato. Ma questi motti, appunto perchè entrati già nel
corpo della lingua, non sono altro che parole e frasi, un  dizionario  morto,  e
raccoglierli e infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito.  Sono
i colori del comico, non sono il comico esso medesimo. Sono  il  patrimonio  già
acquistato dello spirito nazionale, e perciò mancanti di quella freschezza e  di
quell'imprevisto  che  è  la  qualità  essenziale  dello  spirito;  nè   possono
conseguire un effetto estetico se non associandosi a qualche  cosa  di  nuovo  e
d'inaspettato, trovato allora allora che ti vengono sotto la penna. Ciò  fa  che
il Burchiello è insipido, e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio  i
motti e i frizzi non sono scopo a sè stessi, ma un semplice mezzo di  stile,  il
colorito.
        Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che il sentimento è
nel serio, una facoltà artistica. E come il sentimento, così  lo  spirito  è  un
grande condensatore, dando una velocità di percezione che ti faccia cogliere  di
un tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile.  Dove  la  sagacia
giunge per via di riflessione, lo spirito giunge di un salto e intuitivamente. I
figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: «Tu ne vestisti  queste
misere carni e tu le spoglia». Qui il sentimento opera nel serio quello che  nel
comico lo spirito; congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e immagini
diverse. Ma per giungere a questa produzione geniale è necessario che lo spirito
sia anch'esso un sentimento, il sentimento del ridicolo, cioè a dire che  stando
in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni,  e  ci  viva  entro  e  ci  si
spassi, pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle  cose  più  serie
della vita. Pure l'emozione dee esser quella  di  uno  spettatore  intelligente,
anzi che di un attore mescolato in mezzo a' fatti, sì che tu guardi quella calma
e prontezza e presenza di animo, che ti tenga superiore allo  spettacolo:  ond'è
che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride, lui. È questa calma  superiore
che rende lo spirito padrone del suo mondo e glielo fa  foggiare  a  sua  guisa,
annodando le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le figure, distribuendo i
colori.
        Lo spirito del Boccaccio è meno nell'intelletto che  nell'immaginazione,
meno nel cercar rapporti lontani che nel produrre forme comiche. Lo studio che i
suoi antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare.  E  cerca
l'effetto non in questo o  quel  tratto,  ma  nell'insieme,  nella  massa  degli
accessorii tutti stretti come una falange. Gli antecessori fanno  schizzi:  egli
fa descrizioni. Quelli cercano l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude e
si trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto. Perciò spesso hai più il
corpo e meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione che
fantasia; più sensualità che voluttà. Mancano i profumi a' suoi fiori, mancano i
raggi alla sua luce. È una luce opaca, per troppa densità e  ripetizione  di  se
stessa.  Questa  maniera  nelle  cose   serie   è   insopportabile,   come   nel
Filocolo e nell'Ameto,  con  quelle  interminabili  descrizioni  e
orazioni, dove ti senti come arenato e che non vai innanzi, E ti  offende  anche
talora nel Decamerone, quando  per  esempio  si  fa  parlare  Tito  o  la
figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e della logica. Ma nel
comico questa maniera è una delle sue forme più naturali, e la prima a comparire
nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi.  Perchè  il
comico è il regno del finito e del  senso,  e  le  prime  sue  impressioni  sono
singolarizzate nelle minute pieghe  degli  oggetti;  dove  nel  serio  le  prime
impressioni  ti  danno  allegorie  e   personificazioni,   forme   generalizzate
nell'intelletto. Questa prima forma del comico è la caricatura.
        La quale è la rappresentazione diretta dell'oggetto, fatta in  modo  che
sia messo in vista il suo lato difettoso e ridicolo. Certo, basterebbe  metterti
sott'occhio il difetto e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto  di
spirito illumina tutto il corpo  e  te  lo  presenta  all'immaginazione.  Ma  il
Boccaccio non se ne contenta, e come fa il pittore, ti disegna tutto  il  corpo,
scegliendo e distribuendo in modo gli  accessorii  e  i  colori,  che  ne  venga
maggior luce sul lato difettoso. Di che nasce che il ridicolo non rimane isolato
su quel punto, ma si spande su tutta l'immagine, di cui ciascuna parte  concorre
all'effetto, apparecchiando, graduando e producendo una  specie  di  «crescendo»
nella scala del comico. Il riso, perchè vi sei ben preparato e disposto, di rado
ti viene improvviso e irresistibile, come in quei brevi tratti che ti presentano
rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso è una gioia uguale che  ti  tiene
in uno stato di pacata soddisfazione. Non ridi, ma  hai  la  faccia  spianata  e
contenta, e ti si vede il riso sotto le guance, non  tale  però  che  debba  per
forza scattar fuori in quella forma contratta e convulsa. Il quale effetto nasce
da  questo,  che  l'autore  non  ti  presenta  una  serie  di  rapporti   usciti
dall'intelletto, ma una serie di forme uscite dall'immaginazione. E  sono  forme
piene, carnose, togate, minutamente disegnate. L'autore, come obbliato in questo
mondo dell'immaginazione, ha aria di non aggiungervi niente del suo, egli che ne
è il mago. E tu ci stai dentro come incantato. L'autore non si distrae mai,  non
mette il capo fuori per fare una smorfia che provochi il riso, non tratta il suo
argomento come cosa frivola, e piglia e lascia e torna. Quella  è  la  sua  idea
fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso, e non gli dà fiato,  se  non
sia  uscita  tutta  fuori.  E  tu  non  ti  distrai,  ti  senti  come  dondolato
deliziosamente nella tua contemplazione, nè  il  riso,  che  talora  ti  coglie,
t'interrompe, chè subito ti ci rituffi entro, e corri e  corri,  e  il  corso  è
finito, e tu corri ancora dolcemente naufragato. Ma non è  il  mondo  orientale,
dove l'immaginazione, quasi fatta ebbra dall'oppio, salta fremente dalle braccia
dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa  provare  quel  sentimento  che
dicesi voluttà, e che è l'infinito nel senso, quel vago e indefinito e  musicale
che tra gli  abbracciamenti  ti  rivela  Dio.  Questo  è  un  mondo  prettamente
sensuale, chiuso e appagato in forme precise e rotonde, da cui niente è  che  ti
stacchi e ti rapisca in alte regioni. Appunto perchè questi  fiori  non  mandano
profumi e queste luci non gittano raggi, tu hai  sensazioni  e  non  sentimenti,
immaginazione e non fantasia, sensualità e non voluttà. Il rêve scompare.
L'estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi. Hai trovato già il  tuo  paradiso
in quella realtà piena e attraente. Diresti che la carne  in  questo  suo  primo
riapparire nel mondo ti si sveli nel  suo  tripudio  tutta  nuda,  ed  empia  di
lusinghe e di vezzi il tuo paradiso.  Perciò  la  forma  di  questo  paradiso  è
cinica, anche più dove un  senso  ironico  di  modestia  è  una  civetteria  che
riaccende il senso.
        Poichè la  forma  di  questo  mondo  è  la  caricatura,  uscita  da  una
immaginazione abbondante, minuta disegnatrice, hai innanzi non punte  e  rialzi,
ma l'oggetto intero nelle sue più fine gradazioni. Breve ne' preliminari e nella
dipintura astratta di personaggi, l'autore alza subito il sipario, e ti trovi in
piena azione che si movono e parlano. E già fin da' primi  lineamenti  ti  balza
innanzi il motivo comico,  che  ti  si  sviluppa  a  poco  a  poco  per  via  di
gradazioni, l'una entrata nelle altre con effetto  crescente.  Il  Boccaccio  vi
spiega quella qualità che i francesi, mirando alla forza nel suo calore e  nella
sua facilità, chiamano «verve», e  noi  chiamiamo  «brio»,  mirando  alla
forza nella sua allegra genialità. Di che maraviglioso esempio è la  novella  di
Alibech, e l'altra di ser Ciappelletto. A  render  più  piccante  la  caricatura
serve  l'ironia,  che  qui  è  forma  non  sostanziale,  ma  accessoria.  Ed   è
un'apparente bonomia, un'aria d'ingenuità, con  la  quale  il  narratore  fa  il
pudico e lo scrupoloso, e non vuol dire e pur dice, e non  vuol  credere  e  pur
crede, e si fa la croce con un sogghigno. Questa ironia è  come  una  specie  di
sale comico, che rende più saporito il riso a spese  del  «paternostro»  di  san
Giuliano e de' miracoli di ser Ciappelletto.
        Essendo base di questo mondo la descrizione, cioè l'oggetto non ne' suoi
raggi e ne' suoi profumi, cioè a dire nelle sue impressioni, ma  nel  suo  corpo
singolarizzato ed individuato, ha bisogno  di  forme  piene  e  ricche,  e  così
nascono le due forme della nuova letteratura, l'ottava rima nella  poesia  e  il
periodo nella prosa.
        Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi  con  magnificenza  orientale
nel poema l'Intelligenzia. L'ottava rima non è inventata  dal  Boccaccio,
come non è  sua  invenzione  il  periodo.  Ma  è  lui  che  le  dà  un  corpo  e
l'intonazione. Prima di lui l'ottava rima è un accozzamento slegato e  fortuito,
dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star
da sè. Stanno lì dentro oggetti nudi, non ci e  un  solo  oggetto  sviluppato  e
addobbato. L'ottava rima  è  un  meccanismo,  non  è  ancora  un  organismo.  Il
Boccaccio ha fatto dell'ottava una totalità organica,  ed  è  l'oggetto  che  si
sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni. Ben trovi  ne'  suoi  poemi  ottave
felici; ma in generale elle sono impigliate, mal costruite, e in sul  più  bello
ti cascano. Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico  ti
riesce volgare e abbandonato. Gli è che l'ottava, nell'ampiezza  e  magnificenza
delle sue costruzioni, è la maggiore idealità della  forma  poetica  e  richiede
un'attività geniale che manca al Boccaccio, errante in un  mondo  artificiale  e
convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro, nell'anima; ciò che  freddamente
è concepito, nasce debole e mal congegnato, e non ci vale artificio.
        Qui al contrario l'autore è a casa sua: pinge un mondo, in cui  vive,  a
cui partecipa con la più grande simpatia,  e  tutto  in  esso,  gitta  via  ogni
involucro artificiale. Ci è in lui qualche cosa  più  che  il  letterato,  ci  è
l'uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si  strofina  e  vi  lascivia.  E
n'esce una forma, che è quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella
carne e nell'immaginazione. Così è venuta fuori quella forma di  prosa,  che  si
chiama il «periodo boccaccevole».
        A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il  suo  centro  a
Firenze  si  era  di  poco  allargato  fuori  di   Toscana.   La   restaurazione
dell'antichità che presentava all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo  greco
che allora spuntava appena, involto in quel vago  chiaroscuro  che  accresce  le
illusioni, tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante  non  era  ancora  lingua
italiana: la chiamavano «idioma fiorentino». La lingua era sempre il latino,  nè
era mutata l'opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere  in
«latino volgare», come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio  dice  di  sè  che
scrive in «idioma  fiorentino»,  e  quelli  che  usavano  il  volgare  dice  che
scrivevano in «latino volgare». Il tipo di perfezione era sempre  il  latino,  e
l'ideale vagheggiato dalla classe erudita era  un  volgare  nobile  o  illustre,
secondo quel modello configurato, un volgare alzato a quella  stessa  perfezione
di forma. Questo tentò Dante nel Convito, con piena fede che  il  volgare
fosse acconcio  ad  esprimere  le  più  gravi  speculazioni  della  scienza  non
altrimenti che il latino, e quello scolastico latino volgare o «volgare latino»,
nudo e tutto ossa e nervi, parve per la  prima  volta  magnificamente  addobbato
nelle larghe pieghe della toga romana. Ma la  pece  scolastica  s'era  appiccata
anche a Dante, e quella barbarie delle scuole sta così in quelle ampie  forme  a
disagio, come un contadino vestito a festa  in  abito  cittadinesco.  Non  ci  è
fusione, ci è punte e contrasti.
        Il Boccaccio non era uscito dalle scuole,  e  quando  più  tardi  studiò
filosofia  e  un  po'  anche  teologia,  il  suo   spirito   era   già   formato
nell'esperienza della vita comune, nell'uso del suo volgare e nello  studio  de'
classici. Come il Petrarca, ha in  abbominio  gli  scolastici,  ne'  quali  vede
proprio il contrario di quella elegante coltura greca e romana, vede la barbarie
e la rozzezza. Regnano nel suo spirito, divinità, Virgilio e Ovidio  e  Livio  e
Cicerone, e non ci è Bibbia che tenga, e non  ci  è  san  Tommaso.  Quando  vuol
dipingere alcun lato  serio,  morale  o  scientifico,  del  suo  mondo,  la  sua
imitazione è un artificio esterno e meccanico, perchè ha più  immaginazione  che
sentimento e più intelletto che ragione. La sua forma è decorosa, nobile, spesso
disimpacciata, ma troppo uguale e placida,  e  talora  ti  fa  sonnecchiare.  Il
periodo è un rumor  d'onde  uniforme,  mosse  faticosamente  da  mare  stanco  e
sonnolento. Manca l'ispirazione, supplisce la rettorica  e  la  logica.  Il  che
avviene, perchè il Boccaccio separato dalle immagini  e  gittato  nel  vago  del
sentimento o nell'astratto del discorso, perde il piede e va giù. Tratta le idee
come fossero corpi, e analizza e minuteggia che è uno sfinimento. Le  idee  sono
luoghi  comuni  annacquati  in  un  viavai  di  piccoli  e  oziosi   accessorii,
distinzioni,    riserve,    condizioni,    «se»,    «ma»,     «avvegnachè»     e
«conciossiacosachè». Uno studio soverchio di esattezza, una  notomia  minuta  di
ogni pensieruzzo mette più in vista la volgarità  e  insipidezza  dell'idea.  La
forma si stacca visibilmente dalla  cosa,  e  appare  un  meccanismo  ingegnoso,
lavorato accuratamente e sempre quello. Cosa c'è sotto? Il luogo comune.  Questo
fu chiamato più tardi forma letteraria.  E  non  c'è  cosa  più  contraria  alla
scienza, che è parola e non frase, e mal  si  riconosce  nelle  circonlocuzioni,
nelle perifrasi e ne' pleonasmi. In questo artificio ci è  un  progresso:  ci  è
quell'arte de' nessi e delle gradazioni, che mancava alla prosa,  e  rivela  uno
spirito adulto, educato dai classici. Ma ci è il difetto opposto, un  volere  di
ogni idea fare una catena cominciata e terminata in sè, ciò che è un pantano,  e
non acqua corrente. Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo  periodo  non  è
che  sillogismo  mascherato,  una  frase  generica,  come  «umana  cosa  è  aver
compassione degli affiitti», che per molti andirivieni riesce in qualche volgare
moralità. Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il  fondo  è
lo stesso. Vedi lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda. Se  l'ampio  giro
del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde  la  sua
semplicità ed elasticità e la sua libertà  di  movimento,  non  è  meno  assurdo
nell'espressione del sentimento, la forza più libera  e  indisciplinabile  dello
spirito, che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con  rapidità.  I
bruschi  e  tragici  movimenti  dell'animo  qui  sono  come  cristallizzati  tra
congiunzioni, parentesi e ragionamenti. Manca ogni subbiettività: ti è difficile
guardare al di dentro  nella  coscienza;  i  casi  sono  straordinari,  i  fatti
interessanti, le situazioni drammatiche, e non ti viene la  lacrima,  e  non  ti
senti commosso, perchè l'anima non si manifesta che in frasi comuni e  rigirate.
Veggasi la novella di madama Beritola, e l'altra del conte d'Anguersa, ove  tra'
più pietosi accidenti e mutazioni della fortuna non si  muta  la  forma,  sempre
attillata e guantata. Pure, qua e là si sente una certa non dirò commozione,  ma
emozione di una immaginazione calda, e  n'escono  movimenti  sentimentali,  come
nelle ultime parole della  figliuola  di  Tancredi  e  in  alcuni  tratti  della
Griselda.
        Questa forma di periodo, che  si  affà  così  poco  alla  scienza  e  al
sentimento, dove appare un mero meccanismo foggiato alla latina, acquista  senso
e moto, quando il teatro della vita è nell'immaginazione,  cioè  a  dire  quando
l'autore si trova nel vivo dell'azione,  non  con  idee  e  sentimenti,  ma  con
oggetti innanzi ben determinati. Tale  è  la  descrizione  della  peste,  o  del
combattimento di Gerbino. Perchè il fatto non è come l'idea, uno e semplice,  ma
come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze e di accessorii.  Questo
insieme è il periodo, il quale nella sua evoluzione è  ciò  che  in  pittura  si
chiama «un quadro». Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle intorno
ad  un  centro,  ombreggiare,  lumeggiare,  è  arte  somma  nel  Boccaccio.   La
descrizione, quando sta per sè, in astratto e separata dall'azione, non riscalda
abbastanza l'immaginazione e riesce fronzuta, com'è spesso  nelle  introduzioni.
Ma quando ci è qualche cosa che si move e cammina, e rassomiglia  ad  un'azione,
l'immaginazione si mette in moto anche lei, e assiste  pacata  allo  spettacolo,
disegnando e facendo quadri in quelle larghe  forme  che  si  chiamano  periodi.
Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento naturale dell'azione,
che perde  l'impeto  e  l'attrito,  arrestata  ne'  suoi  movimenti  più  rapidi
dall'occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice. E perciò non è maniera
conveniente alla storia, e  non  è  prosa,  ma  è  arte  in  forma  prosaica,  e
narrazione poetica. Que' quadri e periodi ti danno non pur l'ordine e il  legame
e il significato de' fatti, ma le movenze, le attitudini,  le  gradazioni:  onde
nasce quell'effetto d'insieme che dicesi «fisonomia» o «espressione».
         Ma  dove  il  periodo  boccaccevole  diviene   una   creazione   sui
generis, un organismo vivente, è nel lato comico e sensuale del suo mondo. E
non è già che vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è  che  qui  ci  è  la
musa, vale a dire tutto un  mondo  interiore,  la  malizia,  la  sensualità,  la
mordacità, un vero sentimento comico e sensuale. Ed è questa sentimentalità,  la
sola che la natura abbia concessa al Boccaccio, che penetra  in  quei  flessuosi
giri della forma e ne fa le sue corde. Il suo periodo  è  una  linea  curva  che
serpeggia  e  guizza  ne'  più  libidinosi  avvolgimenti,  con   rientrature   e
spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi e grazie, o  civetterie  di
stile, che ti  pongono  innanzi  non  pur  lo  spettacolo  nella  sua  chiarezza
prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale. Quelle onde  sonore,  quelle
pieghe ampie della forma latina, piena di gravità e di decoro, dove si sente  la
maestà e la pompa della vita pubblica, trasportata dal foro nelle pareti di  una
vita privata oziosa e sensuale, diventano i lubrici volteggiamenti  del  piacere
stuzzicato dalla malizia.  In  bocca  a  Tito,  a  Gisippo  senti  la  rettorica
imitazione di un mondo fuori della coscienza: l'aria è pur quella, ma cantata da
un borghese che non ne ha il sentimento e  sbaglia  spesso  il  motivo.  Qui  al
contrario, in questo mondo erotico e malizioso, hai la stess'aria, penetrata  da
un altro motivo che la soggioga e se l'assimila; e  quelle  forme  magniloquenti
che arrotondivano la bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio  e  gli  danno
gli ultimi finimenti  e  allettamenti.  I  latini  nell'espressione  del  comico
gittavano via le armi pesanti e vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce
come Plauto, e scrive come Cicerone. Pure il suo concepire è così vivo  e  vero,
che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione  in  una  sirena  vezzosa  che
tutta in sè si spezza e si dimena. Ma spesso, tutto dentro nel  soggetto,  gitta
via i viluppi  e  i  contorcimenti,  e  salta  fuori  snello,  rapido,  diritto,
incisivo. Maestro di scorciatoie  e  di  volteggiamenti,  la  sua  immaginazione
covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne,  e
le fonde e ne fa il suo  mondo,  e  vi  lascia  sopra  il  suo  stampo.  Sarebbe
insopportabile questo mondo e profondamente disgustoso, se l'arte non vi  avesse
profuse tutte le sue veneri, inviluppando la sua nudità in  quelle  ampie  forme
latine, come in un velo agitato da venti lascivi. L'arte è la sola  serietà  del
Boccaccio, sola che lo renda meditativo fra le orgie  dell'immaginazione  e  gli
corrughi la fronte nella più sfrenata  licenza,  come  avveniva  a  Dante  e  al
Petrarca nelle loro più alte e pure ispirazioni. Di che è uscito uno stile  dove
si trovano fusi i vari uomini che vivevano  in  lui,  il  letterato,  l'erudito,
l'artista, il cortigiano, l'uomo di studio e di mondo, uno stile così personale,
così intimo alla sua natura e al suo secolo, che l'imitazione non è possibile, e
rimane monumento solitario e colossale fra tante contraffazioni. Che cosa  manca
a questo mondo?
        Mondo della natura e del senso, gli manca quel sentimento della natura e
quel profumo voluttuoso che gli darà il Poliziano.
        Mondo della commedia, gli manca quell'alto sentimento comico  nelle  sue
forme umoristiche e capricciose che gli darà l'Ariosto.
E che cosa è questo mondo? È il mondo cinico e malizioso  della  carne,  rimasto
nelle basse  sfere  della  sensualità  e  della  caricatura  spesso  buffonesca,
inviluppato leggiadramente nelle grazie e  ne'  vezzi  di  una  forma  piena  di
civetteria, un mondo plebeo  che  fa  le  fiche  allo  spirito,  grossolano  ne'
sentimenti, raggentilito e imbellettato dall'immaginazione, entro del  quale  si
move  elegantemente  il  mondo  borghese  dello  spirito  e  della  coltura  con
reminiscenze cavalleresche.
        È la nuova «Commedia», non la  «divina»,  ma  la  «terrestre  Commedia».
Dante si avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista. Il medio evo con  le  sue
visioni, le sue leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le sue
estasi, è cacciato dal tempio dell'arte. E vi entra rumorosamente il Boccaccio e
si tira appresso per lungo tempo tutta l'Italia.





X L'ULTIMO TRECENTISTA

L' ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l'uomo «discolo  e  grosso».
Di mezzana coltura, d'ingegno poco al di là del  comune,  ma  di  un  raro  buon
senso, di poca iniziativa e originalità, ma di molta se.nplicità e  naturalezza,
era nella sua mediocrità la vera eco del tempo. Gli facea cerchio la  turba  de'
rimatori, ripetizione stanca del passato, il lucchese Guinigi e  Matteo  da  San
Miniato, e Antonio da  Ferrara,  e  Filippo  Albizi,  e  Giovanni  d'Amerigo,  e
Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da  Faenza,  e  Astorre
pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e
Antonio Piovano, e Giovanni da Prato,  e  Francesco  Peruzzi,  e  Alberto  degli
Albizi, e Benzo de' Benedetti, che lo chiama «eroe gentile», e parecchi altri. E
il nostro eroe gentile riceveva e mandava  sonetti,  cambiando  lodi  con  lodi.
Ultime voci de' trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara annunziano  un
mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma
insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente  tutt'i  giorni.  Per
questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri  fanno,  pensa
così, perchè gli altri così pensano, piglia il mondo come lo trova, senza  darsi
la pena di esaminarlo. Questa è la sua parte morta. Ma  ci  è  una  parte  viva,
quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce  la
sua personalità. Ed è appunto quel mondo di  cui  il  Boccaccio  è  così  vivace
espressione.
        Franco è il  «vero  uomo  della  tranquillità».  Il  Boccaccio  sdegnava
l'epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare  azioni  e  passioni
eroiche. Franco non ha pretensioni, e si mostra com'è, ed è  contento  di  esser
così. È uomo stampato all'antica, in tempi corrotti, buon  cristiano  e  insieme
nemico degl'ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati, diritto  ed  intero
nella vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti,  talora  mordace,  ma  senza
fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo  di  mettersi  allato  a'  grandi
poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada,
il Petrarca e il Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo?  Menare
una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo, quando in
villa o in città potea darsi buon tempo fra le  allegre  brigate,  motteggiando,
novellando, sonetteggiando. Ci è in lui  dell'idillico  e  del  comico.  Ama  la
villa, perchè in città

        mal vi si dice, e di ben far vi è caro;

e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la  freschezza  dell'aura
campestre, come è quella così briosa delle «donne che givano cogliendo fiori per
un boschetto», e l'altra delle «montanine», di una grazia così ingenua. In città
è un burlone, pieno il capo di  motti,  di  facezie,  di  fatterelli,  e  te  li
snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto  e  con  un'aria  di
bonomia che ne accresce l'effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al  di
sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e  allegro,
dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l'uomo che ci
piglia gusto e vi si sollazza, e sta già con l'immaginazione nella lieta brigata
dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del «pruno»
e il madrigale del «falcone».
        Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo  boccaccevole
in un aspetto più borghese  e  domestico:  frizzi,  burle,  amorazzi,  ipocrisie
fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori, bassa  vita  popolana  in  forma
popolana. Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile semplice
e naturale e rapido, non privo  di  malizia  e  di  arguzia  fiorentina.  Ma  la
naturalezza del Sacchetti è quella dell'uomo a cui le muse sono avare  de'  loro
doni. Non è artista, e neppure d'intenzione. Gli manca ogni sorta  d'ispirazione
Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel  Decamerone  è  qui  un
materiale grezzo, appena  digrossato.  Perciò  delle  sue  trecento  novelle  si
ricorda appena qualche aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.
        Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore  ci  è  una  nota
malinconica, che all'ultimo manda più lugubre suono. Non piace al  brav'uomo  un
mondo, in cui chi ha più danari vale più, e grida che «vertù con pecunia non  si
acquista», e che «gentilezza e virtù  son  nella  mota».  Dipinge  al  vivo  gli
avvocati de' suoi tempi:

        Legge civile e ragion canonica
        apparan ben, ma nel mal spesso l'usano:
        difendono i ladroni, e gli altri accusano.
        Chi ha danari e chi più puote scusano:
        tristo a colui che con costor s'incronica,
        se non empie lor man sotto la tonica!

Ora se la piglia con le vecchie. Ora è tutto stizzoso  per  le  nuove  fogge  di
vestire portate a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de'  rimatori  e
de' cantori:

        Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
        tal compitar non sa che fa ballate,
        tosto volendo che sieno intonate.
        Così del canto avvien: senz'alcun'arte
        mille Marchetti veggio in ogni parte.

E quando muore il Boccaccio, «copioso fonte di eleganza», esclama:

        Ora è mancata ogni poesia,
        e vòte son le case di Parnaso...
        S'io piango o grido, che miracol fia,
        pensando che un sol c'era rimaso
        Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
        ... Quel duol che mi pugne
        è che niun riman, nè alcun viene,
        che dia segno di spene
        a confortar che io salute aspetti,
        perchè in virtù non è chi si diletti...
        Sarà virtù già mai più in altrui
        O starà quanto medicina ascosta,
        quando anni cinquecento perdè il corso? ...
        Chi fia in quella etate,
        forse vedrà rinascer tal semenza;
        ma io ho pur temenza,
        che prima non risuoni l'alta tromba, ...
        che si farà sentir per ogni tomba.
        Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
        dove moltiplicando s'apparecchia
        sempre tirare a sè con la man destra...
        E le meccaniche arti
        abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
        Ben veggio giovinetti assai salire
        non con virtù, perchè la curan poco,
        ma tutto adopran in corporea vesta: ...
        ... già mai non cercan loco
        dove si faccia delle muse festa.
        Come deggio sperar che surga Dante,
        che già chi il sappia legger non si trova?
        E Giovanni che è morto ne fe' scola.
        Tutte le profezie che disson sempre
        tra il Sessanta e l'Ottanta esser il mondo
        pieno di svari e fortunosi giorni,
        vidon che si dovean perder le tempre
        di ciascun valoroso e gire al fondo.
        E questo è quel che par che non soggiorni...
        E s'egli è alcun che guardi,
        gli studi in forni vede già conversi...

Questa canzone di cui  abbiamo  citati  alcuni  brani  è  l'elogio  funebre  del
Trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de' suoi  scrittori,  l'ultimo
trecentista. Sulla  fine  del  secolo  il  vecchio  burlone  gitta  uno  sguardo
malinconico  indietro,  e  gli  si  affaccia  la  grande  figura  di  Dante,   e
l'Africa col suo «alto poeta», e Giovan Boccacci non  col  suo  festevole
Decamerone, ma co' dotti e magni volumi latini, De' viri illustri,
Delle donne chiare, e «il terzo»:

        Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
        il quinto: Degl'iddii e lor costumi.

Oimè! Dante è morto. Morto è Boccacci. Petrarca muore. Chi  rimane?  E  l'ultimo
trecentista guarda  intorno  e  risponde:  -  Nessuno.  -  Ricorda  le  infauste
profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l'ottanta, e gli pare  venuto  il
finimondo. La forte  semenza  da  cui  uscirono  i  tre  grandi  e  tanti  altri
dottissimi, teologi, filosofi,  legisti,  astrologi,  è  perita  per  sempre?  O
risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? O non  verrà  prima  il
giudizio finale? Il mondo è dato all'abaco  e  alle  arti  meccaniche:  «nuda  è
l'adorna scuola» da tutte sue parti:

        non si trova fenestra
        che valor dentro chiuda.

La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sollazzi e al guadagno, e non
cura virtù, e spregia le muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli  studi
sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:

        Orfana, trista, sconsolata e cieca,
        senza conforto e fuor d'ogni speranza,
        se alcun giorno t'avanza,
        come tu puoi, ne va' peregrinando,
        e di' al cielo: - Io mi ti raccomando. -

Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il Dugento finisce con Cino
e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari, finisce come un'aurora  entro  cui  si
vede già brillare la vita nuova, una nuova èra.  Il  Trecento  finisce  come  un
tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco  pensa:  -  Chi  sa  se
tornerà il sole? -
        Antonio da Ferrara, sparsasi voce  della  morte  del  Petrarca,  intuona
anche lui un poetico Lamento. Piangono intorno al  grand'uomo  Gramatica,
Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso,

Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio, Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio e Gallo.

E Pallas Minerva, venuta dall'angelico regno, conserva la sua corona. In  ultimo
della mesta processione spunta l'autore col suo nome, cognome e soprannome:

        È Anton de' Beccar, quel da Ferrara,
        che poco sa, ma volentieri impara.

È anche un brav'uomo costui, vede anche lui tutto nero:

        Del mondo bandita è concordia e pace,
        per l'universo la discordia trona,
        sommerso è ogni bene,
        l'amor di Dio ha bando,
        e parmi che la fe' vada mancando.

Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri,  dove  non  trovi  alcuna
profondità di vista e non forza di mente o di sentimento. Pur vi trovi, ancorchè
in forma pedantesca, la fisonomia del  secolo  negli  ultimi  giorni  della  sua
esistenza.
        Quella nota malinconica è la stessa  forza  che  tirò  alla  Certosa  il
vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli  ardori  del  Petrarca,  e  rattristò  le
ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò  le  ginocchia  di  Giovanna  innanzi  a
Caterina da Siena. Perchè  quella  forza,  contraddetta  e  negata  nella  vita,
occupava ancora l'intelletto, e tra le  orgie  di  una  borghesia  arricchita  e
gaudente comparirà talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
        «La fede va mancando», grida il ferrarese. e gli studi «si convertono in
forni», nota il fiorentino. Non si  potea  meglio  dipingere  la  fisonomia  che
andava prendendo il secolo e che comunicava  alla  nuova  generazione.  Possiamo
disegnarla in brevi tratti.
        Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle altre
parti d'Italia la borghesia  si  costituisce,  si  ordina,  diviene  una  classe
importante per industrie, per commerci, per intelligenza e  per  coltura.  E  lo
stacco si fa profondo tra  la  plebe  e  la  classe  colta.  La  coltura  non  è
privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e fa del  popolo  italiano  il
più civile di Europa.
        La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale
indifferenza. Continuano le stesse forme, ma sciolte dallo spirito che le rendea
venerabili, quelle  persone,  quei  riti  e  quel  linguaggio  appariscono  cosa
ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
        La vita privata viene su. Ed  è  vita  socievole,  spensierata,  condita
dallo spirito. Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per  discutere,
ma per sollazzarsi, in città e in villa. E si sollazzano a  spese  delle  classi
inculte. Trovatori, cantori e novellatori  non  sono  più  il  privilegio  delle
castella e delle corti. L'allegria feudale si spande anche nelle case de' ricchi
borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro  piaceri,  e
in una forma spesso licenziosa e  cinica.  La  licenza  del  linguaggio  era  il
solletico dell'allegria.
        Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana e  pagana.
Le novelle e  i  romanzi  tennero  il  campo.  L'allegra  vita  della  città  si
specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti,  strambotti,  frottole,
ballate e madrigali. L'allegra vita de' campi avea pur le sue forme, le  «cacce»
e gl'idilli. L'anima di questa letteratura è lo spirito comico e  il  sentimento
idillico.
        La forma dello spirito comico è la  caricatura  penetrata  di  un'ironia
maliziosa, ma non maligna. La  forma  idillica  è  la  descrizione  della  bella
natura, penetrata di una molle sensualità. Traspare da tutta questa  letteratura
una  certa  quiete  e  tranquillità  interiore,  come  di  gente  spensierata  e
soddisfatta.
        Giovanni Boccaccio è il grande artista che  apre  questo  mondo  allegro
della natura. Il  misticismo  perisce,  ma  ben  vendicato,  traendosi  appresso
religione, moralità, patria,  famiglia,  ogni  semplicità  e  dignità  di  vita.
Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica  e  l'allegria  comica.  Sono  le  due
divinità della nuova letteratura.
        Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un  involucro
allegorico-scolastico, così la nuova non può trovare se stessa se non attraverso
l'involucro del mondo greco-latino.
        La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria  italiana,  come
si andrà sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti,  e  tutto
mitologia e storia greca e romana. Non è ancora un artista, è un erudito. La sua
immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta questo e quel genere, e non  trova
mai se stesso. Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli  oggetti
e gliene toglie la vista immediata. Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e
platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione  de'
contemporanei. E si scopre artista, quando, gittato via tutto  questo  bagaglio,
scrive per sollazzo,  abbandonato  alla  genialità  dell'umore.  Dove  cerca  il
piacere, trova la gloria.
        Questa vita ne' suoi tentennamenti,  nelle  sue  imitazioni,  nelle  sue
pedanterie, ne' suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.

XI «LE STANZE»

Siamo  al  secolo  decimoquinto.  Il  mondo  greco-latino   si   presenta   alle
immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare.
L'Italia ritrova i suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano,  l'impulso  dato
da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale corrente
elettrica che incerti momenti investe tutta  una  società  e  la  riempie  dello
stesso  spirito.  Quella  stessa  attività  che  gittava  l'Europa  crociata  in
Palestina, e più tardi spingendola verso le Indie  le  farà  trovare  l'America,
tira ora gl'italiani a disseppellire il mondo  civile  rimasto  per  così  lungo
tempo sotto le ceneri della barbarie. Quella lingua era la lingua loro,  e  quel
sapere era il loro sapere: agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e
il possesso di sè stessi, essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata
il «Rinascimento».Nè questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per  lunga
tradizione Roma era capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani
erano sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro  lingua  era  il
latino, e la lingua parlata era chiamata il «latino volgare»,  un  latino  usato
dal volgo. Questo sentimento, legato in Dante con le  sue  opinioni  ghibelline,
ispirava più tardi l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio.
Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta  al  secolo.  La  storia
ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi,  i  Bracciolini,  che
furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e
scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in oriente e in occidente,  vengono  le
letture, i comenti, le traduzioni. Il latino è già così diffuso, che i  classici
greci si volgono in latino, perchè  se  ne  abbia  notizia,  come  i  dugentisti
volgevano in volgare i latini.  Pullulano  latinisti  e  grecisti:  la  passione
invade anche le donne. Grande stimolo è  non  solo  la  fama,  ma  il  guadagno.
Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e
si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri letterari nelle grandi  città:
a Roma, a Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara intorno agli  Estensi.  E  quei
centri si organizzano e  diventano  accademie  Sorge  la  pontaniana  a  Napoli,
l'Accademia platonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di  Platina  a  Roma.
Illustri greci, caduta  Costantinopoli,  traggono  a  Firenze.  Gemistio  spiega
Platone a' mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino, il traduttore di Platone,  lo
predica dal pulpito, come la Bibbia. Pico della Mirandola, morto a trentun anno,
stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed oltrepassando il mondo greco, cerca in
Oriente la culla della civiltà. I caratteri di questa coltura sono palpabili.
        Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro  del  movimento
non è più solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il  mezzodì  dopo
lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita  fa  già
presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli  eruditi,
attirati dalla liberalità di Nicolò quinto. La coltura  acquista  una  fisonomia
nazionale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle  classi  colte  ed
atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali,  e  prende
aria italiana.
        Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle  corti.  Il
movimento è tutto sulla superficie, e non  viene  dal  popolo  e  non  cala  nel
popolo. O, per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche,  mancata
è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa
e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle  corti  e  de'
letterati, esalata in versi latini. A' letterati fama,  onori  e  quattrini;  a'
principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa  Nicolò,  Alfonso
il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi  Lorenzo  il  magnifico,  e
Leone decimo e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura:
servivano chi pagava meglio: il  nemico  dell'oggi  diventa  il  protettore  del
dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto.
        Questa  fiacchezza  e  servilità  di  carattere,  accompagnata  con  una
profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui  vediamo  gli  albori
fin da' tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto  che  è  costume  e  abito
sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare  cinismo.  Una  certa
ipocrisia c'è, quando si ha ad esprimere dottrine non  ricevute  universalmente;
ma quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità. È una
letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare.
        Ne nasce l'indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s'ha a
dire, ma come s'ha a dire. I più sono secretari di principi,  pronti  a  vestire
del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita, come  Dante  l'aveva
immaginata, la concordia  amorosa  dell'intelletto  e  dell'atto,  è  rotta.  Il
letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la
vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso  sia:  a
lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un  ricco  emporio  di  frasi,  di
sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e  di  armonie:  forme
vuote e staccate da  ogni  contenuto.  Così  nacque  il  letterato  e  la  forma
letteraria.
        Il movimento iniziato a Bologna  era  intellettuale:  si  cercava  negli
antichi la scienza. Il movimento ora è  puramente  letterario:  si  cerca  negli
antichi la forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e  di  rettoriche;
il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi  in  una  eguale
adorazione:  si  giudicano,  si  classificano,  pigliano  posto.  Questi  lavori
filologici ed eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa  coltura.
Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il titolo ti dà  già  la
fisonomia del secolo.
        Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co' suoi vari  centri
in tutta  Italia,  sono  una  certa  stanchezza  di  produzione,  l'inerzia  del
pensiero, l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti,  l'uomo  e  la
natura guardati a traverso di quelle forme. È una nuova trascendenza,  il  nuovo
involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perchè non
è l'immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di  Virgilio  vede  il
mondo non nella  sua  vista  immediata,  ma  come  si  trova  rappresentato  da'
classici, a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san
Tommaso.
        Ma non ci è guscio  che  tenga  incontro  all'arte.  Dante  potè  spesso
rompere quel guscio, perchè era artista. E se in questa cultura fossero elementi
seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio  che  vedremmo
venire il grande artista, destinato a farne sentire  il  suono  pur  tra  queste
forme latine. Ciò che ferve nell'intimo seno di una società, tosto o tardi  vien
su e spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino, che questo non sia  avvenuto.
E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le  sue  forme,  se  il
mondo interiore della coscienza s'è infiacchito, la colpa  è  de'  classici  che
paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di  questo  fatto
sono innocentissimi. Certo, il mondo di Omero e di Virgilio, di  Tucidide  e  di
Livio, non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne
che l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è  che
il vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha. Un cuore pieno  trova
il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti.
        Leggete questi latinisti. Cosa c'è lì dentro che  viva  e  si  mova?  Lo
spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in  quelle  prose:  la  quiete
idillica e il sale comico, in  una  forma  elegante  e  vezzosa.  Questo  studio
dell'eleganza nelle forme, accompagnato co'  tranquilli  ozi  della  villa  e  i
sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio tutta la vita del letterato.
        Così, quando il secolo era  travagliato  da  mistiche  astrazioni  e  da
disputazioni sottili, il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo idillico
e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico,  il  latino  è  idillico,
dico il latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta già nel
Petrarca la flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il
piacere è idillico. La vita è tutta al di  fuori,  è  un  riso  della  natura  e
dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi. Sulle rive  di
Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto
vezzeggiativi e languori,  ora  motteggevole  e  faceto.  Mergellina,  Posilipo,
Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline  escono  dalla  sua  immaginazione
pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua Lepidina. La  crassa
sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi  profumi
dell'eleganza. La sua musa, come la sua colomba,  «fugit  insulsos  et  parum
venustos» «odit sorditiem», nega  i  suoi  doni  a  quelli  che  sono
«illepidi atque inelegantes», e  «gaudet  nitore»,  e  rassomiglia
alla sua «puella», di cui nessuna  «vivit  mundior  elegant'orve».
Spirito ed eleganza, questo  è  il  mondo  poetico  di  una  borghesia  colta  e
contenta, che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra  Quintiliano,  Cicerone,
Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti l'eco  tra  le  delizie  di
Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea  la  Lepidina  tra'
susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le  aure
della sua villetta fiesolana. In tutte e  due  ispiratrice  è  la  bella  natura
campestre, con più immaginazione nel Pontano, con più sentimento nel  Poliziano.
Piace la «cerula» ninfa Posilipo e la «candida» Mergellina, e quel voler  essere
uccello per  cascarle  in  grembo  è  un  bel  tratto  galante,  una  sensualità
dell'immaginazione. Il Pontano è figurativo, tutto vezzi  e  tutto  spirito;  il
Poliziano è più semplice, più vicino alla natura, e te ne dà l'impressione:

     Hic resonat blando tibi pinus  amata  susurro;          hic  vaga
coniferis  insibilat  aura  cupressis:          hic  scatebris  salit  et
bullantibus incita venis       pura coloratos interstrepit unda lapillos.


Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con  tanta  grazia,  non
cade nel vuoto, come lingua morta, e questi canti non  sono  stimati  lavori  di
pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la «lingua nostra»;
nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a
fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto.  Dante
stesso era detto «poeta  da  calzolai  e  da  fornai».  Non  pareva  impossibile
continuare il latino, come i greci continuavano  il  greco,  parlare  la  lingua
universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti  gli
uomini istrutti.
        Ma queste tendenze trovavano naturale  resistenza  a  Firenze,  dove  il
volgare avea messo salde radici, illustrato da  tanta  gloria,  nè  potea  parer
vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca.  Ivi  una  classe  colta
nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo  minuto  erano  ancora  il
popolo, con  una  comune  fisonomia.  Grandissima  l'ammirazione  de'  classici;
frequentissimi gli Studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si  udiva  a
bocca aperta Gemistio e il Ficino e il  Pico;  si  disputava  di  Platone  e  di
Aristotile (discussioni  erudite,  senza  conclusione  e  serietà  pratica);  si
applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell'Albiera o gli
occhi di Lorenzo, «purus apollinei sideris nitor», come fossero gli occhi
di Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo
spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca,  e  Leonardo  Bruni  sosteneva
essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e Lorenzo  de'
Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava «unico» Dante,  celebrava
la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori
scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci  erano  gli  oppositori,  i
grammatici, i pedanti,  che  dicevano  Dante  uno  spropositato,  un  ignorante,
«rerum ommum ignarum» e che scrivea così male in latino.  Ma  in  Firenze
non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava  a  un  tempo
Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua
toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre
a regole di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo  del  latino  introduceva
nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono
gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara  mescolanza  per
la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le forme del  volgare,
così come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel  popolo.
Nè l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del
Boccaccio,  e  in  volgare  Feo  Belcari  scrivea  le  vite  de'  santi   e   le
rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole,  le
cacce, le ballate, tutt'i generi di  lirica  popolare  legati  con  le  feste  e
gl'intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le giostre,  le  serenate,
le rappresentazioni, i giuochi,  le  sfide.  Non  era  cosa  facile  guastare  o
sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita.
        La forza della lingua volgare era appunto in questo: che  rifletteva  la
vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile  della  società  nelle  sue
usanze e ne' suoi sentimenti.  Onde  se  gli  uomini  colti,  trasportati  dalla
corrente comune, scrivevano in latino  per  procacciarsi  fama,  nell'uso  vario
della vita adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior grado di grazia
e di finezza, parlato e scritto bene generalmente. Un gran  mutamento  era  però
avvenuto nella letteratura volgare.  Il  mondo  ascetico-mistico-scolastico  del
secolo passato non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più
del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita  come  un
mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario era
in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la «gaia scienza»,  e
dava i suoi colori anche alle  cose  sacre.  Le  laude  erano  intonate  come  i
rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle  e  romanzi
allora in voga. La Stella ricorda  in  molte  parti  le  avventure  della  bella
sventurata Zinevra, «sei anni andata tapinando per lo mondo». Spesso c'entra  il
comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza a sentir  le  ciane  che  si
accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda  tende  alla  novella.  La
leggenda è un racconto maraviglioso animato da uno spirito mistico  e  ascetico,
con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che
fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi, anzi sforza i  sensi  e  dà
loro le ali dell'immaginazione. Questo mondo  miracoloso  dello  spirito,  fatto
così palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio  che  lo
renda verisimile, anzi con  la  più  grande  ingenuità,  essendo  quelle  verità
incontrastate pel narratore e  pe'  lettori.  Questa  impressione  ti  fanno  le
leggende del Passavanti e le Vite del Cavalca.
        Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri
di questo secolo. Sono antiche  rappresentazioni,  messe  a  nuovo,  intonacate,
imbiancate, a uso di un pubblico  più  colto.  Santo  Abraam,  Alessio,  Abramo,
Eugenia e Maddalena, i santi e i  padri  e  i  romiti  del  Cavalca  ti  sfilano
innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l'unzione e  ogni
sentimento liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta come miracolo, cioè  a  dire
come una macchina del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna  nelle  novelle
del Boccaccio. Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe
grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi,  morale  o  materiale:
perciò non gradazioni, non ombre,  non  sfumature;  i  contorni  sono  chiari  e
decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma  solo  quando  una
mutazione  improvvisa  provoca  esplosioni  liriche  di  gioia,  di  dolore,  di
maraviglia. Ci è quella lirica superficiale  e  quella  chiarezza  epica  che  è
propria del Boccaccio. La lirica è sacra di  nome,  e  non  ha  quell'elevazione
dell'anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina: ci  è  la
preghiera, non ce n'è il sentimento. L'azione è  pedestre  e  borghese,  di  una
prosaica   chiarezza,   non   animata   dal    sentimento,    non    trasformata
dall'immaginazione. E il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti  di
dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idilli mancato  è  il  senso  del
terribile e del sublime, mancata  è  l'indignazione  e  l'invettiva:  se  alcuna
serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiate con
tanta pompa di scene e di  decorazioni,  è  reminiscenza  ed  eco  di  un  mondo
indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese
davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più  i  contemporanei
di  Dante,  e  non  gli  autori  e  non   gli   spettatori.   Si   andava   alle
rappresentazioni,  come  alle  feste  carnascialesche,  per  sollazzarsi.  E  si
sollazzavano, come si conviene a gente colta  e  artistica,  co'  piaceri  dello
spirito e dell'immaginazione. Il mistero era per  essi  un  piacevole  esercizio
dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con la coscienza vuota e  con
la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era così poco possibile come  la
tragedia o l'eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se  quelle
rappresentazioni fra  tanto  liscio  e  intonaco  rimasero  stazionarie,  e  non
poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico,  fu
perchè mancò all'Italia un ingegno  drammatico,  come  affermano  alcuni,  quasi
l'ingegno  fosse  un  frutto  miracoloso,  generato  senza  radici,   e   venuto
espressamente dal cielo? O fu, come affermano altri, perchè il latino  attirò  a
sè gli uomini colti, e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi  che
autori de' misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il  latino,
che non potè uccidere il volgare,  potesse  uccidere  l'anima  di  una  nazione,
quando un'anima ci fosse stata? La verità  è  che  il  povero  latino  non  potè
uccider nulla, perchè nulla ci  era,  niuna  serietà  di  sentimento  religioso,
politico, morale, pubblico e privato, da cui  potesse  uscire  il  dramma.  Quel
mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e  in
tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione artistica, non
potea produrre che un mondo simile a sè, un  mondo  di  pura  immaginazione.  Il
mistero è un aborto, è una materia sacra che non dice più nulla alla mente ed al
cuore, senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini colti in un  puro
giuoco d'immaginazione dove angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così poca
serietà come Apollo e Diana e Plutone. La serietà e solennità della materia  era
in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta  superficie,  e
con   quel   mondo   spensierato   e   allegro   della    pura    immaginazione,
idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l'Italia in
questa disposizione dello spirito, e ci fu l'ingegno, quale poteva essere allora
l'ingegno italiano. Quel mistero fu l'Orfeo, e quell'ingegno  fu  Angiolo
Poliziano.
        Il Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura  in  questo
secolo. Ci è già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni partecipazione
alla vita pubblica, vuoto di ogni  coscienza  religiosa  o  politica  o  morale,
cortigiano, amante del quieto vivere, e che alterna le ore tra  gli  studi  e  i
lieti ozi. Ebbe in Lorenzo un protettore, un amico, e divenne la sua  ombra,  il
suo compagno ne'  sollazzi  pubblici  e  secreti.  Cominciò  la  vita,  voltando
l'Iliade in latino, grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi  latini
con la facilità di un improvvisatore. Si  traeva  da  tutta  Europa  a  sentirlo
spiegare Omero e Virgilio. E non si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo di  gusto
e il poeta, che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e  i
suoi carmi. Il suo studio e la sua villetta di  Fiesole  sono  il  compendio  di
questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant'anni.
        Il Poliziano aveva uno  squisito  sentimento  della  forma  nella  piena
indifferenza di ogni contenuto. Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e  lo  empì
d'immagini e di armonie. Il mondo antico s'impossessò subito  di  un'anima  dove
ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti che è ancora medio
evo, e lo vedi alle prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il
vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca:  erano  tempi  di
transizione. Nel Poliziano tutto è concorde  e  deciso:  non  ci  è  più  lotta.
Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle  sue  forme  e  nel  suo
contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è
un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è  per  lui
la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova.  Il
sentimento della bella forma, già così grande nel Petrarca e nel  Boccaccio,  in
lui è tutto; e quel  mondo  della  bella  forma,  appresso  al  quale  correvano
faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi anni, è il mondo  suo,  e
ci vive come fosse nato là dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il  gusto.
Questo era la coltura, l'umanità,  il  risorgimento,  orgoglio  di  una  società
erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l'avea  abbozzata,  e
che ora si specchia nel Poliziano come nel suo  modello  ideale.  Perchè  questa
generazione, caduta così basso, fiacca di tempra e  vuota  di  coscienza,  aveva
pure la sua idealità, il  suo  divino,  ed  era  l'orgoglio  della  coltura,  il
sentimento della forma. Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le
feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle  arti
dello spirito e da' piaceri  dell'immaginazione.  E  se  il  cardinale  Gonzaga,
rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia  il  loro
ornamento  e  decoro,  il  giovane  Poliziano   gli   scrive   in   due   giorni
l'Orfeo. E che cosa è l'Orfeo? Come  gli  venne  in  mente  Orfeo?
Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell'Ameto canta  la  fine  della
barbarie e il regno della coltura o dell'umanità. Il rozzo Ameto, educato  dalle
arti e dalle muse, apre l'animo alla bellezza e all'amore, e di bruto  si  sente
fatto uomo. Atalante trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le ninfe,
e v'introduce costumi civili. Orfeo è il grande  protagonista  di  questo  regno
della coltura, venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di
Virgilio. Questo fondatore dell'umanità col suono della lira e con  la  dolcezza
del canto mansuefà le fiere e gli uomini  e  impietosisce  la  morte  e  incanta
l'inferno. È il trionfo dell'arte  e  della  coltura  su'  rozzi  istinti  della
natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato  in
balìa all'ebbro furore delle baccanti.  Dopo  lungo  obblio  nella  notte  della
seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il
regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo. Questo  è  il  mistero  del
secolo, è l'ideale del Risorgimento. Le sacre  rappresentazioni  cacciate  dalle
città menano vita oscura nei contadi, e  cadono  in  così  profondo  obblio  che
giacciono ancora polverose nelle biblioteche.
        L'Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I  misteri  avevano  la
loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre
reale per una gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi,
le  baccanti,   le   furie,   Plutone   e   il   suo   inferno   sono   creature
dell'immaginazione. A quel modo  che  nelle  giostre  i  borghesi  camuffati  da
cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare
una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e  abiti  le
ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini, vestito
da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, cantando in magnifici  versi
latini le  lodi  del  cardinale!  «Redeunt  saturnia  regna.»  Sembravano
ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano  con  immenso  grido  di  applauso
Orfeo, nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltà. Nel medio evo  si
dicea «vivere in ispirito», ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in  un
mondo superiore. Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira
il  sentimento  dell'arte,  la  sola  religione  sopravvissuta,  e  si  vive  in
immaginazione. I ricchi, a quel modo che decorano i palagi degli  avi,  decorano
con l'arte i loro piaceri.
        E che decorazione è quest'Orfeo! Dove sotto forme antiche vive  e
si move quella società, idealizzata nell'anima armoniosa del poeta. È  un  mondo
mobile e superficiale, a celeri  apparizioni,  e  mentre  fissi  lo  sguardo  il
fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel  canto;  il
pensiero è appena  iniziale,  incalzato  dalle  onde  musicali;  la  tragedia  è
un'elegia; l'inno è un idillio; e n'esce un mondo  idillico-elegiaco,  penetrato
di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino  a
che  questo  bel  mondo  dell'arte  ti  si  disfà  come  nebbia,  e  ti   svegli
violentemente tra il furore e l'ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro
delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le  tre  tappe  di  questo  mondo
incantato, la cui quiete  idillica  penetrata  di  flebile  e  molle  elegia  si
scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne un'adeguata  idea.
Bisogna aggiungervi gli attori e le  decorazioni  e  il  canto  e  la  musica  e
l'entusiasmo e l'ebbrezza di una società che ci vedea una così viva immagine  di
se stessa. Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve apparizione, ondeggiante tra'
più delicati profumi, a cui se troppo ti accosti, ti fuggirà come Euridice. È un
mondo che non ha altra serietà, se non quella che  gli  dà  l'immaginazione;  le
passioni sono emozioni, gli avvenimenti  sono  apparizioni,  i  personaggi  sono
ombre; la vita danza e canta, e non si ferma e  non  puoi  fissarla.  La  stessa
leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate,  e  come  tutta
un'orchestra di metri, entranti gli uni negli altri  in  una  sola  armonia.  Il
settenario rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le  ali  all'ottava;  le
rime si annodano ne' più voluttuosi  intrecci.  Ora  è  il  dialetto  nella  sua
grazia, ora è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida
corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio  che  pare
il poeta giuochi con i suoi strumenti.
        Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; così divenne il
nunzio del Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono;  penetrò  dalle  corti  nel
contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d'Orfeo; e
anche oggi nelle valli toscane ti giunge la  melodia  di  Orfeo  dalla  dolce
lira, una storia in ottava rima. Personaggio  indovinato,  comparso  proprio
alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
        L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze
nacquero le Stanze. Quel mondo borghese della cortesia, così ben  dipinto
nel Decamerone, riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi
e delle novelle, la cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba «le  gloriose
pompe e i fieri ludi»  di  questi  mercanti  improvvisati  cavalieri  e  vestiti
all'eroica: non ci era più la realtà; ce n'era l'immaginazione. Le giostre erano
in fondo  una  rappresentazione  teatrale,  e  i  giostranti  erano  attori  che
rappresentavano i personaggi  de'  romanzi,  spettacolo  continuato  oggi  nelle
corse, con questo progresso, che gli attori sono  i  cavalli.  Ridicoli  sono  i
poeti  che  narrano  le  alte  geste  de'  giostranti  come  fossero  Orlando  e
Carlomagno, con le frasi ampollose de' romanzi,  e  descrivono  minutamente  gli
abiti, le fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri  con  una  serietà  frivola.
Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra, e divenne l'eroe di quel poemetto
che i posteri hanno chiamato le Stanze.
        Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:

        sì che i gran nomi e ' fatti egregi e soli
        fortuna o morte o tempo non involi.

continua
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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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