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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana

Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati.  E  che  cosa  è  rimasto?  Le
Stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna  compiuta
in sè. Nella giovine mente del poeta  non  ci  è  il  romanzo:  ci  è  Stazio  e
Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è  Ovidio  con
le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua  Georgica,  ci  è  il
Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d'immagini  fluttuanti,  sciolte,
disseminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del pastore.  Questo  è
il mondo che vien fuori in un legame artificiale e  meccanico,  delle  cui  fila
interrotte nessuno si cura: perchè la giostra non è il motivo di questo mondo, è
la semplice occasione. La sua unità non è in  un'azione  frivola  e  incompiuta,
debole trama. La sua unità è in se stesso, nello spirito che lo move, ed è  quel
vivo sentimento della natura e della bellezza che dal  Boccaccio  in  qua  è  il
mondo della coltura.
        La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa  di  Venere,
il giardino d'Amore, gl'intagli, non sono già episodi, sono  questo  mondo  esso
medesimo nella sua sostanza, animato da  un  solo  soffio.  Sono  l'apoteosi  di
Venere e d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
        E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso e ti  tiene  in  una
dolce malinconia; non sei nel  regno  de'  misteri  e  delle  ombre,  nel  regno
musicale del sentimento: sei nel regno dell'immaginazione. Venere è nuda,  Iside
ha alzato il velo. Non hai più gli schizzi di Dante, hai i quadri del Boccaccio;
non hai più la faccia di Giotto, hai la figura del  Perugino;  non  hai  più  il
terzetto nel suo raccoglimento, hai l'ottava rima nella  sua  espansione.  Ci  è
quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui  senti  la
fragranza  nella  Lepidila  e  nel  Rusticus:  l'anima  sta   come
rilassata in dolce riposo, non  fantasticando  ma  figurando  parte  a  parte  e
disegnando, quasi voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri. E non  è  la
descrizione minuta, anatomica, spesso  ottusa,  del  Boccaccio;  chè  mentre  la
natura ti si offre distinta come un bel  paesaggio,  non  sai  onde  o  come  ti
giungono mormorii, concenti, note, come la voce di una divinità nascosta nel suo
grembo. La sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua
parte grossolana ed esce fuori purificata;  e  non  è  la  musa  civettuola  del
Boccaccio, è la casta musa del Parnaso, che copre la sua nudità e vi gitta sopra
il suo manto verginale. Nel Boccaccio è la carne  che  accende  l'immaginazione:
nel Poliziano l'immaginazione è come un crogiuolo,  dove  l'oro  si  affina.  La
sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea,  e
diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo  allegorico
dantesco e petrarchesco, a contorni precisi  e  finiti,  pur  divina  nella  sua
realtà:

        nell'atto regalmente è mansueta,
        e pur col ciglio le tempeste acqueta.

Tra il poeta e il suo mondo non ci è  comunione  diretta:  ci  stanno  di  mezzo
Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio, che gli prestano le loro immagini  e
i loro colori. Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento  della  forma  così
squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione. Ci
è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il  volgare  naturalismo  del  suo
tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo  il  più  bel  fiore.
L'insignificante, il rozzo, il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che
sta lì dentro è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l'abbia reso con
l'ultima finitezza e perfezione. Le sue  reminiscenze  mitologiche  e  classiche
sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere,  Diana,  e
la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo  spirito  va  al  di  là
della frase, attinge le cose  nella  loro  vita,  e  le  rende  con  evidenza  e
naturalezza. Perciò, raro connubio, l'eleganza in lui non è mai rettorica  e  si
accompagna con la naturalezza, perchè ha delle cose una  impressione  propria  e
schietta. La mammola, la rosa, l'ellera, la vite,  il  montone,  la  capra,  gli
uccelli, le aurette, l'erba e il fiore, tutto si anima e si configura  e  prende
le più vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione  idillica.  Ciò
che prova non è sensualità, è voluttà, sensazione alzata a sentimento, che fonde
il plastico e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti
con la massima semplicità de' mezzi, spesso col solo allogare gli  oggetti,  ora
aggruppando, ora distinguendo, e tutto animando, come persone vive.  Tale  è  la
mammoletta verginella con gli occhi  bassi  e  vergognosa,  e  l'ellera  che  va
carpone co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca,
cilestre, pallida e vermiglia. Il sentimento che n'esce non ha virtù di  tirarti
dalle  cose  e  lanciarti  in  infiniti  spazi;  anzi  ti   chiude   nella   tua
contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il mondo,  e  non
pensi di uscirne, e la guardi parte a parte  nella  grazia  della  sua  varietà.
Perchè il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente
e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e non come un bel  velo,  una
bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso,  quale  si  mostra  nel
periodo e nell'ottava, le due forme  analitiche  e  descrittive  del  Boccaccio,
divenute la base della  nuova  letteratura.  L'ottava  del  Boccaccio,  diffusa,
pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza  è
un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida  apparizione,  ma
ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze.  Non  è  un
periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga  tra  minori
figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad  una
di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è  interessante,
e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un
uomo che non ammette l'insignificante e l'indifferente, e tutto vuole sia oro  e
porpora. Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si spiega
innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti  dà
l'insieme, ma le parti; non ti dà la profondità, ma la superficie, quello che si
vede. Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione
così intelligente, che all'ultimo te ne  viene  l'insieme,  prodotto  non  dalla
descrizione, ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera e ti dà  una  serie
di fenomeni:

        Zefiro già di be' fioretti adorno
        avea ai monti tolta ogni pruina;
        avea fatto al suo nido già ritorno
        la stanca rondinella peregrina;
        risonava la selva intorno intorno
        soavemente all'òra mattutina;
        e la ingegnosa pecchia al primo albore
        giva predando or uno or altro fiore.

Questi fenomeni sono così bene scelti, legati con tanto accordo di  pause  e  di
tono, armonizzati con suoni così freschi e soavi, che sembrano  le  voci  di  un
solo motivo, e te ne viene non all'occhio ma  all'anima  l'insieme,  ed  è  quel
senso d'intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la voluttà  della  natura.
In Dante non ci è voluttà, ma ebbrezza: così è trascendente. Nel  Boccaccio  non
ci è voluttà, ma sensualità. La voluttà è la musa  della  nuova  letteratura,  è
l'ideale della carne o del senso, è il senso  trasportato  nell'immaginazione  e
raffinato, divenuto sentimento. Qui è una voluttà tutta idillica,  un  godimento
della natura senz'altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di  tutto
l'altro; senti le prime e fresche aure di questo mondo della  natura  assaporato
da un'anima, il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata  e  abbellita
da Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia  ispirazione,  un  intimo  godimento
della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e  della
bellezza, sviluppato ed educato da' classici, è uscito  il  nuovo  ideale  della
letteratura, l'ideale delle  Stanze,  una  tranquillità  e  soddisfazione
interiore piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza  ed  eleganza
della forma; ciò che possiamo chiamare in due  parole:  «voluttà  idillica».  Il
contenuto di questo ideale è l'età dell'oro e la vita campestre,  con  tutto  il
corteggio della mitologia,  ninfe,  pastori,  fauni,  satiri,  driadi,  divinità
celesti e campestri, in una scala che dal più puro e più  delicato  va  sino  al
lascivo e al licenzioso. La forma è il descrittivo  ammollito  e  liquefatto  in
dolci note musicali, quale apparisce nell'Orfeo e nelle Stanze,  i
due modelli di questa letteratura, che iniziata nel  Boccaccio,  andrà  fino  al
Metastasio.
        La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto,
ma è lo spirito stesso della società, come si andava  atteggiando,  còlto  nelle
costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è Lorenzo  de'  Medici,
col suo coro di dotti e di letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli  Pulci,  il
Poliziano, il Rucellai, il Benivieni, e tutti  gli  accademici.  La  letteratura
vien fuori tra danze e feste e conviti.
        Lorenzo non avea la coltura  e  l'idealità  del  Poliziano.  Avea  molto
spirito e molta immaginazione, le due qualità della  colta  borghesia  italiana.
Era il più fiorentino tra' fiorentini,  non  della  vecchia  stampa,  s'intende.
Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e indifferente,
sotto abito signorile popolano  e  mercante  da'  motti  arguti  e  dalle  salse
facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra' piaceri dello spirito  e  del  corpo,
usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando  orgie
notturne e disputazioni accademiche, corrotto  e  corruttore.  Era  classico  di
coltura, toscano di genio, invescato  in  tutte  le  vivezze  e  le  grazie  del
dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilità che  governava  il  popolo,
lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel  suo  carattere  e
nelle sue tendenze. Chi comprende l'uomo è padrone  dell'uomo.  Portò  a  grande
perfezione la nuova arte dello Stato, quale  si  richiedeva  a  quella  società,
divenute le feste e la  stessa  letteratura  mezzi  di  governo.  Alla  violenza
succedeva la malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise  un  principe,
non il principato; la corruzione medicea  uccise  il  popolo;  o  per  dire  più
giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato,  compreso  e  realizzato,
l'uno degno dell'altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione  era  ancora
più pericolosa, perchè si chiamava «civiltà», ed era vestita con tutte le grazie
e le veneri della coltura. Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il
Landino e il Ficino,  dantesco,  petrarchesco,  platonico,  con  reminiscenze  e
immagini classiche, entra nella folla de'  rimatori,  i  quali  continuavano  il
mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni. Ce n'erano a dozzina, e in tutte
le parti d'Italia: l'uomo colto esordiva col sonetto, uso giunto fino  a'  tempi
nostri. Molti canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se oggi si  ricordi
Giusto de' Conti e  il  Benivieni.  Continuare  il  Petrarca  dovea  significare
realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale, idillico, elegiaco,  che  giace
sotto il suo strato platonico e che è l'elemento nuovo. Ma  il  povero  Petrarca
era  malato,  e  i  sonettisti  esalano  sospiri  poetici  dall'anima  vuota   e
indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal
mondo in cui nacquero e campati in aria,  senza  base.  Non  c'è  più  un  mondo
organico,  ma  un  accozzamento  fortuito   e   monotono   di   forme   divenute
convenzionali. Manca l'immaginazione e la malinconia e l'estasi, i veri  fattori
del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e  le  acutezze  dello
spirito, congiunta l'insipidezza con le  vuote  sottigliezze,  come  nelle  rime
tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del Serafino, del Sasso, del  Cornazzano,
del Tebaldeo. Lorenzo comincia  lui  pure  con  qualche  cosa  come  la  Vita
nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le  spiegazioni  de'
suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur  disinvolta  e
franca. Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee  convenzionali;
anche vi domina lo spirito, di cui avea sì gran  dovizia.  Ma  c'è  lì  una  sua
impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d'immaginazione che  alcuna
volta ti rinfresca e ti fa andare avanti  con  pazienza.  Non  ci  è  sonetto  o
canzone che si possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e  qua  e  là
paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
        Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove
nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo.
Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava  rima  o  la  stanza.  Vi
apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata  del
Petrarca si scioglie e si  effonde  ne'  magnifici  giri  dell'ottava;  non  più
concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni.  Anche
dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che,  lasciato  il
primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato  in  lonza,
la forma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che  a  casta  donna.
Modello di questo genere è la Selva d'Amore di  Lorenzo,  composizione  a
stanze, d'un fare largo e abbondante,  alquanto  sazievole,  il  cui  difetto  è
appunto il soverchio naturalismo, una  realtà  minuta,  osservata  e  riprodotta
esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta dall'arte mobile  e  leggiera,
non idealizzata. Tra le sue più ammirate descrizioni è quella dell'età dell'oro,
dove è patente questo difetto. Vedi l'uomo in villa, che tutto osserva, e  anima
con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento.  Ci  è  l'osservatore,
manca l'artista.
        Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi
della  sua  donna  producono  sulla  natura.  La   soverchia   esattezza   nuoce
all'illusione e addormenta l'immaginazione. Veggasi questa ottava:

        Siccome il cacciator ch'i cari figli
        astutamente al fero tigre fura;
        e benchè innanzi assai campo gli pigli,
        la fera, più veloce di natura
        quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
        ma veggendo la sua propria figura
        nello specchio che trova in su la rena,
        crede sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.

Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di concitazione rimane  tranquillo
in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e lo rende  con  evidenza,
ma non ne riproduce il sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore e l'armonia.
Veggasi ora l'artista, il Poliziano:

        Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
        ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
        rabbiosa il segue per la selva ircana,
        che tosto crede insanguinar gli artigli;
        poi resta di uno specchio all'ombra vana,
        all'ombra ch'e suo' nati par somigli;
        e mentre di tal vista s'innamora
        la sciocca, el predator la via divora.

Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò che in
Lorenzo è naturalismo,  è  idealità  nel  Poliziano.  Nell'uno  è  il  di  fuori
abbellito dall'immaginazione, l'altro nel di fuori ti fa sentire il  di  dentro.
Lorenzo dice:

        Eranvi rose candide e vermiglie:
        alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
        stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
        altra più giovinetta si dislega
        appena dalla boccia; eravi ancora
        chi le sue chiuse foglie all'aer niega;
        altra cadendo a piè il terreno infiora.

Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con proprietà  rara  di
vocaboli. Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come  persone  vive:  ne
senti la fragranza, la grazia, la freschezza:

        questa di verdi gemme s'incappella;
        quella si mostra allo sportel vezzosa;
        l'altra che 'n dolce foco ardea pur ora,
        languida cade e il bel pratello infiora.

In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale
dava l'esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e  sottilizzare  intorno
alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui, e in  luogo  di
chiudersi nella natura  e  ne'  fenomeni  dell'amore  fino  alle  più  raffinate
acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli  avvenimenti  e  dalla
natura e condizioni dei personaggi che introduce  sulla  scena.  La  donna  cala
dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care queste ricordanze di donna
amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!

        Qui l'aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
        quinci sentii l'andar de' leggier piedi,
        e quivi la man timida li porsi;
        qui con tremante voce dissi: - Or siedi, -
        qui volle allato a me soletto porsi,
        e quivi interamente me li diedi...
        O sospirar che d'ambo i petti uscia!
        O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
        che tanto ben ve ne portaste via!
        Quivi lasciommi piena di disio,
        quando già presso al giorno disse: - Addio.

L'Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia  sono
poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed evidenza  di  rappresentazione
l'Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal  Boccaccio.  Ma  il
capolavoro è la Nencia, che pare una pagina  del  Decamerone.  Qui
Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici,  ed  entra  nel
vivo della società, rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini,
con un tono equivoco che non sai se dica da  senno  o  da  burla,  e  scopre  il
borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze  fu  piena  della
Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado.  L'idillio  vi
si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo  e  monna
Belcolore, e che è la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare i Beoni.
Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di
contadine. Nella Beca del Pulci senti il puzzo  del  contado:  la  caricatura  è
sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia  hai  l'idealità  comica:  una
caricatura fatta con brio e con grazia, con un'aria perfetta  di  bonomia  e  di
sincerità.  Nella  Brunettina  del  Poliziano  hai  il  ritratto  ideale   della
contadina,  rimossa  ogni  intenzione  comica.  È  la  Venere  del  contado  con
morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione
ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la  verità  del  colorito  e  la
perfetta realtà.
        Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per  le
vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra' suoi letterati.  Il  poeta  della
Nencia qui è nel suo vero terreno, divenuto la  voce  di  quella  società
licenziosa e burlevole.  La  trasformazione  è  compiuta:  giungiamo  sino  alla
parodia fatta con intenzione. I Beoni o il Simposio è una  parodia
della Divina Commedia e dei Trionfi non pur nel disegno, ma nelle  frasi:
le sacre immagini  dell'Alighieri  sono  torte  a  significare  le  sconcezze  e
turpitudini dell'ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia
col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e  con
grazia in stanze sveltissime, con tutt'i sali e le vivezze del dialetto. Così si
passava allegramente il tempo:

        E così passo, compar, lieto il tempo,
        con mille rime in zucchero ed a tempo.

Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di costumi.  Lo  stesso
spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi: una  sensualità  illuminata
dall'allegria e dall'umor comico. Il mondo convenzionale  de'  trovatori  è  ito
via, e insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a  un  popolo  festevole  e
motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà balìa.  Un'allegria  spensierata  e
licenziosa è il motivo di  questi  canti:  l'amore  non  è  un  affetto,  ma  un
divertimento, un modo di stare allegri. Il motto comune è la brevità della vita,
l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la rosa mentre è  fiorita,  quel
tale: «Edamus et  bibamus:  post  mortem  nulla  voluptas».  Aggiungi  la
caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre, com'è la confessione di
Lorenzo e la sua preghiera a  Dio  contro  i  mal  parlanti.  In  questo  mondo,
rappresentato  dal  vero  e  nell'atto  della  vita,  così  di  fuga  e  tra  le
impressioni, non hai concetti raffinati, ma  pittura  vivace  di  costumi  e  di
sentimenti, come l'ansia dell'aspettare nella canzone:

        Io non so qual maggior dispetto sia
        che aspettar quel che il cor brama e desia;

o il dispetto contro i gelosi:

        Non mi dolgo di te, nè di me stessi,
        chè so mi aiuteresti stu potessi;

o quel  volere  e  disvolere  della  donna  nella  canzonetta  sulla  pazzia,  e
nell'altra, tirata giù tutta di un fiato, così rapida e piena di cose:

        Ei convien ti dica il vero
        una volta, dama mia.

Questo   carnevale   perpetuo   si   manifesta   ne'    Canti    e    Trionfi
carnascialeschi in tutta la sua licenza.  Uscivano  di  carnovale,  come  si
costuma  anche  oggi,  carri  magnificamente  addobbati,  ora   rappresentazioni
mitologiche, com'è il Trionfo di Bàcco e Arianna co' suoi satiri e Sileno
e Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com'è il canto de'  «cialdonai»,  o
de' «calzolai», o delle «filatrici», o de' «bericuocolai», ora pitture  sociali,
come il canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de' «romiti», o  de'
«poveri». Il motivo generale è l'amor licenzioso, stuzzicato spesso da  equivoci
e allusioni che mettono in moto l'immaginazione.  È  il  cinismo  del  Boccaccio
giunto in piazza e portato in trionfo. La  rappresentazione  della  vita  e  de'
costumi e delle condizioni sociali e l'allegra caricatura, che sono  l'anima  di
questo genere di letteratura, com'è nel «carnevale» di Goethe,  si  perdono  ne'
bassi fondi della oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue  Laude,
se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
        In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le  dipartite,
le ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le  frottole,
le ballate, venute a mano de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del  Sacchetti
perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco  e
suoi pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.
        Il popolo era meno corrotto de'  suoi  letterati.  Ne'  suoi  canti  non
trovavi certo l'amore platonico e ascetico e i concetti  raffinati,  ma  neppure
gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.
        La più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo  Poliziano.
Rado capita negli equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanità e decenza,  come
ne' suoi consigli alle donne:

        Io vi vo', donne, insegnare
        come voi dobbiate fare;

e nel «ritratto della vecchia», e in quella ballata graziosissima:

        Donne mie, voi non sapete
        che io ho il mal che avea quel prete.

Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle  «montanine»  di  Franco
Sacchetti,  massime  quando  il   fondo   è   idillico,   come   nella   ballata
dell'«augelletto», e nell'altra:

        Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino
        di mezzo maggio, in un verde giardino.

Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non  trovi
novità d'idee o d'immagini o di situazioni, e neppure  un'impronta  personale  e
subbiettiva, come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo,  che  traduce
in forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari dall'un capo all'altro
d'Italia. Perciò non hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche:
spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva  di  fuga  e  per
occasione. Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti, com'è  il  fuggire
del tempo e il coglier la rosa fiorita. Il  dizionario  delle  idee  popolari  è
piccolo volume, e non s'ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche  idee  si
aggirano intorno a situazioni generiche e semplici, come sono  la  bellezza  del
damo  o  della  dama,  la  gelosia,  la  dipartita,  l'attendere,  lo   sperare,
l'incitare, la disperazione e  i  pensieri  di  morte,  le  dichiarazioni  e  le
disdette. Sono l'espressione di un  essere  collettivo,  non  del  tale  e  tale
individuo. E così sono nel Poliziano. I nomi mutano, secondo  l'argomento,  come
la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo, come  la  serenata  o  il
notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse. Sono per lo più  stanze  in
rime variamente alternate, come nelle ballate e ne'  rispetti,  fatte  svelte  e
leggiere nelle canzonette, ove domina il settenario o  l'ottonario.  Spesso  non
hai che un solo motivo variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse
un trillo o un gorgheggio:

        E crederrei, s'io fossi entro la fossa,
        risuscitare al suon di vostra gola;
        crederrei, quando io fussi nell'inferno,
        sentendo voi, volar nel regno eterno.

La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede il cervello in riposo,
fra onde musicali, e come viene l'idea, non corre a un'altra, ma ci si  ferma  e
la trattiene deliziosamente nell'orecchio, finchè non le abbia data tutta la sua
armonia. Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta già  come  idea,  ma  non
ancora compiuta come suono, è proprio  della  poesia  popolare,  povera  d'idee,
ricca d'immagini e di suoni. La parola è nel popolo più musica che idea. Ciò che
si diceva allora: «cantare a aria», qual si fosse il contenuto, o come  dice  un
poeta, «siccome ti frulla». Così cantavasi «Crocifisso a capo chino», una lauda,
con la stess'aria di una canzone oscena.
        Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio»,  il  saluto  della
primavera:

        Ben venga Maggio,
        e il gonfalon selvaggio,

cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche due  secoli  dopo,  come
afferma il Guadagnoli. Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che
tocca, congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle  classi
inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e  sensuale,  con
l'aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne  spasso;  il
Poliziano anche nelle sue più frivole apparenze le gitta  addosso  un  manto  di
porpora, elegante spesso, gentile e grazioso sempre. Alla idealità del Poliziano
si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
        Lorenzo e il Poliziano sono il centro  letterario  de'  canti  popolari,
sparsi in tutta Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci
sono rimasti i primi versi, come: «O crudel donna, che lasciato m'hai»; «Giù per
la villa lunga / la bella se ne va»; «Chi vuol l'anima salvare / faccia bene  a'
pellegrini», ecc. Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le
stesse intonazioni. Li portavano  ne'  più  piccoli  paesi  i  rapsodi  o  poeti
ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo,  che  vivevano  di
quel mestiere.  E  si  chiamavano  «cantastorie»,  quando  i  loro  canti  erano
romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di  buffonerie  e
motti licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a' tempi del  Boccaccio,
come s'è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte  ed  eleganti.
Erano alla moda «romanzi  franceschi»  con  le  loro  traduzioni,  imitazioni  e
raffazzonamenti in volgare. In questo secolo moltiplicarono co'  rispetti  e  le
ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva  l'immagine  sfarzosa  nelle
corti, e  alcuna  lontana  reminiscenza  ne  davano  le  compagnie  di  ventura.
Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia, l'ideale  eroico  celebrato
nelle giostre e riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in volgare.
Tra gli  altri  che  venner  fuori,  sono  degni  di  nota  l'Aspromonte,
l'Innamoramento   di   Carlo,    l'Innamoramento    di    Orlando,
Rinaldo,  la  Trebisonda,  i  Fioretti  de'  paladini,   il
Persiano, la Tavola rotonda,  il  Troiano,  la  Vita  di
Enea, la  Vita  di  Alessandro  di  Macedonia,  il  Teseo,  il
Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo. Il maggiore attrattivo era  la
libertà delle invenzioni: si empivano le carte di fole e di sogni, come dice  il
Petrarca; e chi le dicea più grosse, era stimato più. Questo elemento fantastico
penetrò anche ne' misteri, come nelle laude era penetrato il canto popolare.  Le
rappresentazioni presero una tinta  romanzesca:  l'effetto,  non  potendosi  più
trarre da un sentimento religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà e
nel maraviglioso degli accidenti,  com'è  il  San  Giovanni  e  Paolo  di
Lorenzo.
        Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati  della  società,  e
dalle corti scendeva fino ne' più umili villaggi e di là risaliva alle corti. La
plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i  suoi  novellatori.  E  non  si
contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi  dalle  cronache  e  dalle
tradizioni,  ma  vi  aggiungevano  del  loro  non  solo  nel  colorito  e  negli
accessorii, ma nella invenzione. Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte  e
tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo Florio,
il Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole  vestigio,  perchè  argomenti  poco
popolari e guasti dall'erudizione e dalla mitologia. Ma l'impulso da lui dato fu
grande; e la ballata, la novella,  il  romanzo,  ciò  che  chiamasi  letteratura
profana, divennero l'impronta del secolo, da  Franco  Sacchetti  a  Lorenzo  de'
Medici. La cavalleria propriamente detta avea per  suo  centro  gli  eroi  della
Tavola rotonda e i paladini  di  Carlomagno.  In  antico  la  Tavola  rotonda
avea molta popolarità, e Tristano e Isotta  tennero  per  qualche  tempo  il
primato. Il Boccaccio nell'Amorosa visione cita gli  eroi  principali  di
queste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari. Ma la Francia era  più
nota, e i «romanzi franceschi più diffusi», e Carlomagno avea  un  certo  legame
con l'Italia, come un eroe  religioso,  protettore  del  papa  e  vincitore  de'
saracini e precursore delle crociate. Era  già  comparso  l'Innamoramento  di
Orlando. E Matteo Boiardo ci die'  l'Orlando  innamorato,  una  vasta
tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.
        Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta  un
centro  letterario  importante  accanto  a  Napoli,  Roma  e  Firenze.  Ivi   la
letteratura nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il  Boiardo,
uomo coltissimo, dotto di greco e  di  latino,  studiosissimo  di  Dante  e  del
Petrarca,  era  rimasto  estraneo  al  movimento  impresso  dal  Boccaccio  alla
letteratura toscana. Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a  vedere  non
so che astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella  persona,
pure impacciato. È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia
si può chiamare un anacronismo. Gli  piace  recitare  i  suoi  canti  tra  liete
brigate, e averne le lodi; ma i  passatempi  e  gli  scherzi  non  sono  il  suo
elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco.  Racconta  con
la serietà d'Omero, e fu salutato allora l'«Omero italiano».  Certo,  non  crede
alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune  incredulità
scappa fuori alcuna volta in  qualche  tratto  ironico;  ma  questo  riso  della
coltura a spese della cavalleria non è il motivo, e un accessorio fuggevole  del
racconto. Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana?
Di vivo non era rimasto altro che le pompe e  le  cerimonie  e  le  feste  delle
corti. Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie chiesastiche,  scomparso
ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il
Boiardo di togliere alla plebe il romanzo  e  dargli  le  serie  proporzioni  di
un'epopea.
        Il mondo omerico è un  organismo  vivente,  dove  sentimenti,  pensieri,
costumi e avvenimenti sono perfettamente  realizzati  e  armonizzati:  il  mondo
cavalleresco, mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche  il
mondo plebeo dell'immaginazione,  un  maraviglioso  sciolto  dalle  leggi  dello
spazio e del tempo, senza serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati  e
colpi di spada. Come Elena nell'Iliade, qui è Angelica che move intorno a
sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso  nel
racconto, e Angelica è la vera motrice dell'immensa macchina, è il  maraviglioso
in permanenza, la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo  fanno  i
maghi e le maghe. E il miracolo non è la macchina o l'istrumento, ma è fine a se
stesso. Voglio dire che il miracolo non è un  mezzo  per  conseguire  uno  scopo
serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e  ne'  primitivi
poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo  altra
serietà che il miracolo stesso, il  fine  di  sorprendere  gli  uditori  con  la
straordinarietà degli avvenimenti. I motivi delle  azioni  non  sono  a  cercare
nella serietà di un mondo religioso, morale, eroico,  divenuto  convenzionale  e
tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel libero gioco delle passioni e  de'
caratteri sotto l'influsso di potenze occulte. Onde  nasce  un  mondo  pieno  di
vivacità e di mobilità, dove tutte le forze dell'individuo, non frenate da leggi
e da autorità superiori,  si  sviluppano  nel  pieno  rigoglio  della  natura  e
producono effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti. Orlando  e
Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica.  Un  mondo  così
essenzialmente fantastico e insieme così poco serio  per  il  poeta  e  per  gli
uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo  alla
borghesia e fatto moderno, e ritirato  dal  Boiardo  alle  sue  aure  natie.  Il
ferrarese ha creduto renderlo cosa seria,  dandogli  forma  nobile  e  decorosa,
purgata dalle  licenze  e  da'  disordini  de'  romanzi  plebei;  ma  è  appunto
quest'apparenza di serietà che toglie attrattivo al suo  racconto.  Ne'  romanzi
plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori;  ma
i colti «signori e cavalieri», alla cui presenza  recitava  il  Boiardo  i  suoi
canti, non potevano vedere in  quei  fantastici  racconti  che  un  puro  giuoco
d'immaginazione, disposti a spassarsi della plebe, che  faceva  gli  occhioni  e
apriva la  bocca.  Quel  mondo  dunque  non  poteva  divenire  borghese  se  non
trasportato nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno.  E  tutte  e  due
queste condizioni mancano nell'Orlando innamorato. Il  Boiardo  ha  molta
vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la  sua  penna.  Certo,
non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a  sè  un  immenso
materiale agglomerato da' secoli: ma  quella  materia  la  fa  sua,  scegliendo,
combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua  vanità,  è  di
sorprendere  gli  uditori  con  la  ricchezza  e  varietà  de'  suoi   intrecci,
menandoseli appresso tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le
grandi qualità dell'artista, e soprattutto quelle due che sono  essenziali  alla
rappresentazione di questo mondo, l'immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora
lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non  ha  brio,  non  facilità,  non
grazia. Gli manca  lo  spirito  e  gli  manca  ancora  quell'alta  immaginazione
artistica che si chiama fantasia. Vede chiaro, disegna preciso,  come  fosse  un
mondo storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico  rimane  pedestre  e
minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per forza
in una regione incantata. A questo grande inventore di magie la natura  negò  la
magia più desiderabile, la magia dello stile. Le più  originali  concezioni,  le
più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel  fantastico  e  ti
trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola e  Orlando  in
un babbeo. Il che avviene senza intenzione comica, unicamente per  la  soverchia
crudezza de' colori, a cui mancano le gradazioni e le  mezze  tinte.  Così  quel
mondo, che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico,  ti  riesce
spesso nella rappresentazione prosaico e volgare. Non una sola  situazione,  non
una figura è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse suonare a festa  le
campane del villaggio, quando gli venne trovato  il  nome  di  Rodamonte,  quasi
l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti. E non è Rodamonte che è rimasto vivo, è
Rodomonte.
        Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori  ferraresi,  Luigi  Pulci
rallegrava le feste  e  i  conviti  di  Lorenzo  recitando  le  stanze  del  suo
Morgante. Qui ritroviamo la fisonomia  letteraria  del  tempo  nelle  sue
gradazioni, dal Burchiello «sgangherato e senza remi», come lo  chiama  Battista
Alberti, sino a Lorenzo de' Medici. Il  Pulci  discende  in  diritta  linea  dal
Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con più energia che non  il
Poliziano e non Lorenzo.
        Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un miscuglio di santo  e  di
profano, di buffonesco e di serio. E non pensa a  dargli  un  carattere  eroico,
anzi niente più gli ripugna che la tromba. Ti dà un  mondo  rimpiccinito,  fatto
borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola,  e
ti camminano innanzi semplici mortali. Niente è più volgare che  Carlo  o  Gano.
Carlo è un rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni grandezza:  volgare
lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo è un ladrone  di  strada,  Ulivieri  è  un
cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo  che  una  femminella.  Di
caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e  mobilissimo,
e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi. Gano trama la rovina de' paladini,
Forisena si gitta  dalla  finestra,  Babilonia  rovina,  Carlo  è  scoronato  da
Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori  appena  abbozzati,  come
non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica,  rappresentati  con
la stessa indifferenza e leggerezza di colorito, con la quale Morgante si mangia
un elefante e sfracella il capo a una balena. È la cavalleria com'era  concepita
e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un giullare, o piuttosto un
buffone plebeo, che abbassa quel mondo al suo livello  e  de'  suoi  uditori,  e
invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi lazzi, e ti
fa sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio ne' racconti e nelle
commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del racconto.  La
parte più seria del romanzo è certo la morte  di  Orlando;  e  anche  lì  quanti
lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:

        Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
        ognun volea del nimico far torte:
        dunque vegnamo alla battaglia tosto,
        sì ch'io non tenga in disagio la morte,
        che colla falce minaccia ed accenna
        ch'io muova presto le lance e la penna.

Nell'inferno si fa gran festa, che attendono i pagani; Lucifero  «trangugiava  a
ciocche le anime che piovean de' seracini»; e san Pietro attende  le  anime  de'
cristiani:

        E perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
        credo che molto quel giorno s'affanna;
        e converrà ch'egli abbi buon orecchio,
        tanto gridavan quelle anime: - Osanna! -
        ch'eran portate dagli angeli in cielo:
        sicchè la barba gli sudava e 'l pelo.

I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da' macellai  e  da'
cucinieri; i colpi di spada sono in modo così grossolano esagerati che la  morte
stessa diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati che perdono
ogni serietà, come è Orlando morto, trasformato in colomba, che  si  posa  sulla
spalla di Turpino e gli entra in bocca con tutte le penne.
        Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo
il grottesco, com'è ne' romanzi primitivi. Ma qui il buffone è  un  uomo  colto,
che parla a  un  colto  uditorio,  e  non  è  il  buffone,  ma  fa  il  buffone,
contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede. Sicchè  ci  troviamo  in
quella stessa  disposizione  di  animo  che  ispirò  la  Belcolore  e  la
Nencia: è il borghese che si spassa alle spalle  della  plebe.  E  te  ne
accorgi alla finta serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama
in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce  e  t'esce  fuori
con una smorfia e si burla del suo argomento e de' suoi personaggi. La parodia è
ancora più comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e  posta
il più sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno  artificio  di  forma,
come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte
che scoppia dalle risa e muore. E riderà in eterno,  nota  l'angiolo  Gabriello,
trasformato l'individuo in tipo. La  rappresentazione  è  anch'essa  conforme  a
questa parodia plebea. La plebe non analizza e non  descrive;  ma  ha  l'intuito
sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che  vede  alla  naturale  e  così  in
grosso, e non ci si ferma e passa oltre.  La  forma  qui  è  tutta  esteriore  e
rapida; si movono insieme «le lance e la penna»; l'autore, mentre move la penna,
vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal  fondo,
e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d'occhio. L'ottava
non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di  versi  senza  posa,
frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il  quadro
è  un  verso  solo.  Al  che  aiuta  il  dialetto,  maneggiato  maestrevolmente,
soprattutto per la proprietà de' vocaboli. Tutto è plebeo:  azioni,  passioni  e
linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco  di  Sarragozza,  col
supplizio di Gano e  di  Marsilio.  -  «E  io  voglio  fare  il  boia»  -,  dice
l'arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano tutta  una  situazione.
La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano  all'ultima  ora,  è
quale potrebbe suonare in bocca di un becero.
        Il romanzo è una commedia, che contro l'intenzione dell'autore si  volge
in tragedia. Ma la tragedia è da burla, e non ce n'è il sentimento.  Lo  spirito
del racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che  imputridisce
nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia. Maggiore
spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non  sono
plebe e la guardano alcun poco dall'alto. Ma il Pulci, ancorchè uomo colto,  per
i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare la parte  del
buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Perciò gli mancano  tutte  le
alte qualità di  un  artista  comico:  la  grazia,  la  finezza,  la  profondità
dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano,  superficiale,  inculto  e  negletto
anche nella  forma.  Ha  non  solo  la  grossolanità,  ma  anche  l'angustia  di
un'immaginazione plebea, non essendoci ne' suoi personaggi  molta  ricchezza  di
carattere, quella varietà di movenze, di sentimenti e d'istinti che fa dell'uomo
un piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto, Ricciardetto,
i paladini sono tutti a uno stampo, e non ci è  differenza  in  loro  che  della
forza. Malagigi  è  insignificante.  Gano,  Falserone,  Bianciardino,  Marsilio,
Caradoro,  Manfredonio,  Falcone,  Salincorno,   tutt'i   pagani   sono   esseri
superficiali, e spesso puri nomi. I  più  accarezzati  dall'autore  sono  i  due
personaggi del suo cuore,  Morgante  e  Margutte.  Morgante  è  lo  scudiere  di
Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto. Non è il cavaliere,
è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto
e si continua anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta  il  lato  eroico  e
cavalleresco della plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia,  ma
buono, fedele e coraggioso. Il suo battaglio è l'emulo di Durindana. Margutte  è
la plebe nella  sua  degenerazione  e  corruzione,  ignobile,  beffardo,  ladro,
fraudolento, assai vicino all'animale. Questi due esseri accoppiati  insieme  si
compiono e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari  e
i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia, come è  di
Sancio Panza e  don  Chisciotte.  Ma  lo  spirito  plebeo  penetra  ancora  fra'
cavalieri, e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il tutto, l'alto modello
a cui più  o  meno  è  informata  la  storia,  intitolata  a  buona  ragione  Il
Morgante.
        Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di  Dante,  che
già riceve una prima trasformazione nel suo nero cherubino, il bravo  loico  che
ha tutta l'aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è un  buon
compagnone. Come il nero cherubino arieggia  agli  scolastici,  Astarotte  è  il
nuovo spirito del secolo, motteggiatore, ironico e libero pensatore, che  fa  il
teologo e l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini  Dionisio
e Gregorio; chè

ognuno erra
        a voler giudicare il ciel di terra

Astarotte, che è stato un serafino e de' principali,  sa  molte  cose,  che  non
sanno «i poeti, i filosofi e i morali», e dice la verità,  e  non  fa  come  gli
spiriti folletti che si aggirano per l'aria e  ingannano  gli  uomini,  «facendo
parere quel che non è»:

        chi si diletta ir gli uomini gabbando,
        chi si diletta di filosofia,
        chi venire i tesori rivelando,
        chi del futuro dir qualche bugia.

Vedesi la filosofia messa a fascio con l'astrologia e le altre arti  di  gabbare
gli uomini.
        Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la  promessa,  come  un
diavolo d'onore:

        Chè gentilezza è bene anche in inferno.

E sa la verità non per ragione, ma per esperienza,  come  di  cose  che  vede  e
tocca, confermandole anche con l'autorità della Scrittura. Dove ci vuol ragione,
come nella quistione della prescienza, la quale «l'umana gente avvolge di  tanti
errori», dice: - «Nol so: però non ti rispondo» -. Ma quanto a'  fatti,  afferma
ardito e sicuro. E afferma che, salvo i giudei e i  saracini,  piacciono  a  Dio
quelli che osservano la loro religione, come  fecero  gli  antichi  romani,  su'
quali piovve tanta grazia celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro
emisperio, abitato come questo, e ben vi si può ire; che quella  gente  è  parte
della famiglia  di  Adamo,  anch'essa  redenta,  altrimenti  Dio  sarebbe  stato
partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di Luciana non  sono  tutti,  e
compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti. Rinaldo,  avido
d'imparare, si propone di lanciarsi pe' mari ignoti e scoprire  il  nuovo  mondo
rivelato da Astarotte: la poesia indovina Cristoforo  Colombo,  o  piuttosto  la
scienza, perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli,  amico  e
suggeritore del Pulci.
        Questa concezione è una delle più serie della nostra letteratura e delle
meglio disegnate e sviluppate del Morgante. Ci è lì il secolo  nelle  sue
intime  tendenze  non  ancora  ben  chiare,  che  volge  le  spalle  alle  forme
scolastiche  e  alle  contemplazioni  ascetiche,  e  diffida  de'   ragionamenti
astratti, e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell'uomo. Il mondo
gli si allarga innanzi, e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno
Atene e Roma, gli altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e  fatture  e
altre «opinioni sciocche», mostre ingannevoli degli spiriti folletti, percorrono
la terra in tutt'i versi e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano. Il
secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale,  la  fisica,
la nautica, la  geografia  prendono  il  posto  delle  quistioni  sugli  enti  e
sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano le  menti  più
che i ragionamenti sottili. Aggiungi l'ironia, quel prender le  cose  così  alla
leggiera e  sdrucciolandovi  appena,  quell'aria  già  scettica  e  miscredente,
ancorachè non ci sia ancora negazione e  scetticismo,  e  avrai  l'immagine  del
secolo, il ritratto di Astarotte. Ma l'autore sembra quasi non accorgersi  della
stupenda  concezione,  e  abborraccia  dappertutto,  anche  qui.  Gli  manca  la
coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il secolo; gli
manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli lampeggiano
innanzi nuovi  orizzonti.  L'Ulisse  di  Dante  è  sublime;  il  suo  Rinaldo  è
insignificante. E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo ancora
inconsapevole di sè.
        Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo,  il  Pontano  e  tutti  gli
eruditi e i rimatori di  quell'età  non  sono  che  frammenti  di  questo  mondo
letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.
        Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe  volesse  abbracciarlo
tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo
e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto
a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino,  al  Landino,
al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco  signore  di  Mantova,  a  Lionello
d'Este, a Federigo  di  Montefeltro;  celebrato  da'  contemporanei  come  «uomo
dottissimo  e  di  miracoloso  ingegno»,  «vir  ingenii  elegantis,  acerrimi
iudicii, exquisitissimaeque doctrinae», dice il Poliziano. Destrissimo nelle
arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle  leggi,
datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di
Santa Maria Novella, la cappella di  San  Pancrazio,  il  palazzo  Rucellai,  la
chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco  primon  Rimini.  Sono  suoi
trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento per misurare la
profondità del  mare,  detto  «bolide  albertiana».  Nelle  sue  Piacevolezze
matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e  nei  suoi  libri
Dell'architettura, che gli procacciarono il nome di  «Vitruvio  moderno»,
hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudimenti
e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua  contengono  preziosi
insegnamenti tecnici di queste arti.
        Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico  scritto  a  venti
anni e intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un
antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo  Marsuppini,  professore  di
rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe  del
volgare, in prosa e in verso, addestratosi  anche  nel  maneggio  del  dialetto,
quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze.  Ne'
suoi   Intercenali   o   «intrattenimenti   della   cena»,    ne'    suoi
Apologhi, nel suo Momo scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se
stesso, piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e  canzoni:  e  chi
non ne scrivea allora? O chi non  ne  scrisse  poi?  Meglio  riuscirono  le  sue
Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli,  come  era  la  voga  dal
Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone, e platonizzò.  Ma  al  suo  ingegno
così pratico, così lontano dalle astrazioni, non  potea  piacere  il  misticismo
platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e  lo  seguì  come
artista  ne'  suoi  dialoghi  della  Tranquillità  dell'animo   e   della
Famiglia, il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al  Pandolfini,  e
del  Teogenio  o  della  vita  civile  e  rusticana.   Tali   sono   pure
l'Ecatomfilea,  la  Deifira,  la  Cena  di   famiglia,   la
Sofrona, la Deiciarchia. Il dialogo è la sua  maniera  prediletta,
un certo discorrere alla familiare e alla buona, così  alieno  dalle  pedanterie
scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo come nelle sue Efebie,
nella sua  epistola  sull'Amore,  nella  sua  Amiria.  Chi  misura
l'ingegno dalla quantità delle opere  e  dalla  varietà  delle  cognizioni,  dee
tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a  quel  tempo.  Certo,  egli  fu
l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine più compiuta del  secolo  nelle  sue
tendenze.
        Battista ha già tutta la  fisonomia  dell'uomo  nuovo,  come  si  andava
elaborando in Italia. La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in  lui
amabile e familiare. Lascia le discussioni  teologiche  e  ontologiche.  Materia
delle sue investigazioni è la morale e la fisica con  tutte  le  sue  attinenze,
cioè l'uomo e la natura così com'è, secondo l'esperienza, il nuovo  regno  della
scienza. È un artista,  perchè  non  solo  studia  e  comprende,  ma  contempla,
vagheggia, ama l'uomo e la natura. Anima idillica  e  tranquilla,  alieno  dalle
agitazioni  politiche,  ritirato  nella  pace  e  nell'affetto  della  famiglia,
abitante in ispirito più in villa che in città, non curante di  ricchezze  e  di
onori, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme,  di
cui è base l'«aurea mediocritas», una moderazione ed eguaglianza d'animo,
che ti tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della natura  campestre  non
ha nulla di sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto
è disegnato partitamente con la sagacia di un  osservatore  intelligente  e  con
l'impressione fresca di uomo che  se  ne  senta  ricreare  l'occhio  e  riposare
l'anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' «quadretti  di
genere» del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo  appena
abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza  e
tranquillità, dov'è posto l'ideale della felicità. Il vero protagonista è perciò
l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della  vita  pubblica,
che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra'  campi,  tutto  alle  sue
faccende e a' suoi onesti diletti. Ma è insieme l'uomo colto e civile  e  umano,
che disputa e ragiona nel  cerchio  degli  amici  e  con  la  famiglia  attorno,
porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La quale arte si  può
ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le passioni e  le
turbazioni dello spirito e serbar  regola  e  modo  in  tutte  le  cose.  Questo
equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che  Dante  cercava  nell'altro
mondo, e che Battista ti  offre  in  questo  mondo,  il  nuovo  principio  etico
generato dagli antichi moralisti e  che  Lorenzo  Valla  chiama  argutamente  la
«voluttà». Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera  felicità  in
terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e  non  afferma  il  cielo  e  si
occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non
cessa di essere un buon cristiano e riverente alla  religione;  e  non  sospetta
egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze  traeva
quello indirizzo. Non è il filosofo: è l'artista e il pittore della  vita,  come
gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma  dalle
sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto  dalla
sua esperienza della vita. Il suo uomo non è un'astrazione, un'idea  formata  da
concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co' suoi  costumi
e le sue inclinazioni. Pinge e  descrive  più  che  non  ragiona;  e  non  è  un
descrivere letterario o rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha
innanzi agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato. Onde riesce pittore
di costumi e di scene di famiglia, o campestri o civili, impareggiabile.  E  non
hai già la vuota esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma  dentro  è  il  nuovo
ideale dell'uomo savio e felice, che par fuori nella calma decorosa  e  composta
de' lineamenti, a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata  dell'uomo
sregolato e turbato. È  l'onesto  borghese  idealizzato,  che  succede  al  tipo
ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli
l'aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine  parlante  è  lo  stesso
Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi  e
de'  mali  più  stringenti  della  vita:   «protervorum   impetum   patientia
frangebat», dice di sè: ottimo rimedio a non  guastarsi  il  sangue.  Questa
pazienza o uguaglianza  dell'animo  è  la  genialità  della  nuova  letteratura,
impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del  Poliziano  e
del nostro Battista e che gl'innamora delle  forme  terse  e  riposate,  il  cui
interno equilibrio si manifesta nella bellezza  e  nella  grazia.  Questo  amore
della bella forma, non solo in sè tecnicamente, ma come espressione dell'interna
tranquillità, è la musa di Battista. Scrivendo di sè, dice:

     «Praecipuam et  singularem  voluptatem  capiebat  spectandis  rebus,  in
quibus aliquod  esset  specimen  formae  ac  decus.  Senes  praeditos  dignitate
aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque
naturae sese venerari praedicabat... Quicquid ingenio esset hominum  cum  quadam
effectum elegantia, id «prope divinum»  dicebat...  Gemmis  floribus,  ac  locis
praesertim amoenis visendis, nonnumquam  ab  aegritudine  in  bonam  valetudinem
rediit.»
        Quest'uomo, che alla vista della bella natura si sente tornar sano,  che
sta lì a contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza  sana  e  intera,  che
chiama divina l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà  a  contemplare  le
belle forme, aggiunge a questa squisita idealità  un  senso  così  profondo  del
reale, che gli rende familiari gli arcani della natura  e  anche  della  storia,
come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove  predice  con  molta  sagacia
parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici, e i moti delle
città. Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito
e grande espressione: è una realtà finita ed  evidente,  che  mostra  nelle  sue
forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel  Governo  della  famiglia  la
pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella  maravigliosa
scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata,
dice: «Tristo a me! E ove t'imbrattasti  così  il  viso?  Forse  t'abbattesti  a
qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti dileggino.  -  Ella
m'intese e lagrimò. Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio».
Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di  famiglia  e
nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta  e
felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:

        «Truovomi ancora per la età riverito, pregiato,  riputato;  consigliansi
meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in  suoi  ragionamenti;  approvano,
seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al  porto  ove  io
riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse,  qual  certo  ella
non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi  dispiaccia,  e  questo  mi
conosco oggidì  più  felice  che  mai,  poi  che  in  cosa  niuna  a  me  stesso
dispiaccio... Godo testè qui ragionando  con  voi;  godo  solo  leggendo  questi
libri; godo pensando e commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono,  e
ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando  fra  me  cose  sottili  e
rare, sono felice. E parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e  ritruovo
il sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma  certo  felicità  viversi
senza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della  fortuna,  con  l'animo
libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo  strepito  e  fastidio  della
plebe in solitudine, parlarsi con la natura maestra di  tante  maraviglie,  seco
disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime  e  ottime
opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.»

        Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza  e  dell'amicizia,  e
delle lettere e dell'uomo felice: senti in questo  Teogenio  quella  superiorità
dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie  e
la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato  nello  studio,  nella
famiglia, ne' campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la
fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della
Tranquillità dell'animo, ove Battista pinge maravigliosamente se  stesso.
Nell'Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancora  maggior  freschezza  ed
evidenza, com'è la pittura  degli  amanti  troppo  giovani  o  troppo  vecchi  e
dell'amore degli uomini «che fioriscono in età ferma e matura»: pittura  che  ha
ispirato le belle ottave dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo dice:

        «Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per  disagio
di faccende fanno l'amore suo quasi esercizio e arte,  e  con  sue  parrucchine,
frastagli,  ricamuzzi  e  livree,  segni  della  loro   leggerezza,   vagosi   e
frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole  mie,  fuggiteli;  però
che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi,  ma
fuggendo tedio.»

        La storia dell'amore  e  della  gelosia  di  Ecatomfila  sembra  un  bel
frammento di  un  romanzo  fisiologico  perduto,  e  per  finezza  e  verità  di
osservazione è  molto  innanzi  alla  Fiammetta  del  Boccaccio,  la  cui
imitazione è visibile nella Ecatomfilea, e  più  nella  Deifira  e
nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove  il
buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dà nella  rettorica.
Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o  descrive,
come nell'epistola  sopra  l'amore,  reminiscenza  del  Corbaccio,  e  la
pittura  delle  donne  e  l'altra  dell'amante,  pari   alle   più   belle   del
Corbaccio. E, per finirla, vedi nella Tranquillità  dell'animo  la
descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità  nella  massima  precisione
degli accessorii:

        «... questo tempio ha in sè grazia e maestà,  e  ...  mi  diletta  ch'io
veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una  sodezza  robusta  e
piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra
parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti
in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano  misteri,
una soavità maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni  della  Chiesa
quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra
perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la  chiami  lentezza
d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì bravo si trova che  non
mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi  discendere  quelle
intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai
sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ... alle nostre
miserie umane, che io non lacrimi.»

Come son vere  queste  impressioni!  E  con  quanta  felicità  rese!  «Gracilità
vezzosa», «lentezza d'animo», sono forme nuove, pregne d'idealità. Il sentimento
religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma  in  sentimento  artistico,  e
move l'animo come architettura e come musica.
        Pittore egregio, Battista non è  del  pari  felice,  quando  ragiona,  o
quando narra. I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi, e  sembrano
uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de'
Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana  assai  dal  suo
modello, il Boccaccio.
        Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il  Poliziano
poi raggiunse nella poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il  dialetto,  ma
abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma  un  aspetto
signorile ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò  una  poesia  illustre,  così
Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente  è  su  di
lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne' suoi
trattati  e  dialoghi  trovi  prette  voci  latine,  come   «bene   est»,
«etiam», «idest», «praesertim»; e parole  e  costruzioni  e
giri latini, come «proibire» e «vietare», e participii presenti e  infiniti  con
costruzione latina, e «affirmare», «asseguire», «conditore di leggi», «duttore»,
«valitudine», e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel  collocamento  delle
parole e nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non  è  un  barbaro,  che  ti
faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed  elegante,  che  ha  nella
mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di  gentiluomo,  se  non
con latina maestà, certo con gravità elegante ed urbana. E come  è  un  toscano,
anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia  paesana.  Se
guardiamo a' trecentisti, il congegno  del  periodo,  l'arte  de'  nessi  e  de'
passaggi,  una  più  stretta  concatenazione  d'idee,   una   più   intelligente
distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra qui  una  prosa
più virile e uno spirito più coltivato, fatto maturo dalla educazione  classica.
Pure, se per queste qualità  Battista  avanza  i  trecentisti,  è  inferiore  al
Boccaccio, e rimane molto al di qua  dalla  perfezione.  La  prosa  non  è  nata
ancora: ci è una prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento  alla  forma  che
alle cose, e mira principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità. Come
arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa  ti  dà  di  più  compìto  in
questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli  ultimi  tocchi,  e
nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.
        Cosa  dunque  rimane  vivo  di  Battista?  Niuna  cosa  intera  come  il
Decamerone, fra le trentacinque sue opere. Rimangono  di  bei  frammenti,
quadri staccati. Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello
che lo riassume e lo comprende ne'  suoi  tratti  sostanziali  Se  hassi  a  dir
«secolo» un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni, come  un
individuo, il primo secolo comprende il Dugento e  il  Trecento,  il  cui  libro
fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed
ha il suo compimento,  la  sua  sintesi,  nel  Cinquecento.  Il  Petrarca  è  la
transizione dall'uno all'altro.
        Il Quattrocento  è  un  secolo  di  gestazione  ed  elaborazione.  È  il
passaggio dall'età eroica all'età  borghese,  dalla  società  cavalleresca  alla
società civile, dalla fede e dall'autorità al  libero  esame,  dall'ascetismo  e
simbolismo  allo  studio  diretto  della  natura  e  dell'uomo,  dalla  barbarie
scolastica alla coltura classica. Hai un mutamento profondo nelle idee  e  nelle
forme, di cui il secolo non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio
di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l'analisi,  manca  la
sintesi. Il secolo ha tendenze varie e spiccate; ma  non  ne  ha  la  coscienza.
Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è  ne'
classici,  e  che  a  quel  modello  bisogna   conformarsi:   onde   lo   studio
dell'eleganza, della bella forma in qualsivoglia  contenuto.  Perciò  il  grande
uomo del secolo per confessione de'  contemporanei  fu  Angiolo  Poliziano,  che
nelle Stanze si accostò più a quell'ideale classico.
        Ma questo grande movimento, che più tardi si manifestò  in  Europa  come
lotta religiosa, fu in Italia  generalmente  indifferenza  religiosa,  morale  e
politica, con l'apoteosi della coltura e dell'arte. Il suo dio è Orfeo, e il suo
ideale è l'idillio, sono le Stanze. L'eleganza e il decoro delle forme  è
accompagnato con la licenza de' costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati,
i preti e la plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si andava formando:
era una borghesia che già aveva avuta la  sua  storia,  e  fra  tanto  fiore  di
coltura e d'arte si dissolveva  sotto  le  apparenze  di  una  vita  prospera  e
allegra. A turbare i baccanali sorse sullo scorcio  del  secolo  frate  Geronimo
Savonarola, e parve l'ombra scura  e  vindice  del  medio  evo  che  riapparisse
improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel  rogo  Petrarca,  Boccaccio,
Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco  e
Arianna, e ritta sul carro della Morte tende  la  mano  minacciosa  e  con  voce
nunzia di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto
de' morti:

        Dolor, pianto e penitenza
        ci tormentan tutta via:
        questa morta compagnia
        va gridando: - Penitenza. -
        Fummo già come voi siete:
        voi sarete come noi:
        morti siam, come vedete;
        così morti vedrem voi.
        E di là non giova poi
        dopo il mal far penitenza.

La borghesia gaudente e scettica chiamò quella  gente  i  «piagnoni»,  e  quella
gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto
fare, si volse contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra
una borghesia colta e incredula, e  una  plebe  ignorante  e  superstiziosa.  Su
questi elementi non poteva edificar nulla il frate. Voleva  egli  restaurare  la
fede e i buoni costumi facendo guerra a' libri, a' dipinti e alle feste, come se
questo fosse la causa e non l'effetto del male. Il male era nella  coscienza,  e
nella coscienza non ci si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli, prima
che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia, non  si  disfà  in  un
giorno. Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata
questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse
nell'impresa del frate. Nella storia c'è l'impossibile, come nella natura. E  il
frate, che voleva  rimbarbarire  l'Italia  per  guarirla,  era  alle  prese  con
l'impossibile.
        Savonarola fu una breve apparizione. L'Italia ripigliò il  suo  cammino,
piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltà. Quaranta anni
di pace, la lega medicea  tra  Napoli,  Firenze  e  Milano,  l'invenzione  della
stampa, la digestione già fatta del mondo latino, l'apparizione e lo studio  del
mondo greco, la  vista  in  lontananza  del  mondo  orientale,  l'audacia  delle
navigazioni e l'ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza di corti a
Napoli, a Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e  agiatezza
e allegria della vita, tanta  diffusione  ed  eleganza  della  coltura  e  amore
dell'arte avevano ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metà del
secolo, e creato un movimento così efficace di  civiltà,  che  non  potè  essere
impedito o trattenuto  dalle  più  grandi  catastrofi.  Spuntava  già  la  nuova
generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano. E  i  giovani
si chiamavano Nicolò  Machiavelli,  Francesco  Guicciardini,  Ludovico  Ariosto,
Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello,  Bembo,  Berni,  tutta  una  falange
predestinata a compiere l'opera de'  padri.  L'un  secolo  s'intreccia  talmente
nell'altro, che non si può dire dove finisca l'uno, dove l'altro  cominci.  Sono
una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.





XII IL CINQUECENTO

Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora
che segni, indizi, frammenti. Il suo lato positivo è una  sensualità  nobilitata
dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario
dell'arte  nell'anima  tranquilla  e  idillica:  di  che   trovi   l'espressione
filosofica  nell'Accademia  platonica,  massime  nel  Ficino  e  nel   Pico,   e
l'espressione letteraria nell'Alberti e nel Poliziano, a cui con pari  tendenza,
ma  con  minore  abilità  tecnica  e  artistica,  si  avvicina  il  Boiardo.  Il
protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto
sono le Stanze. Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta  Battista
Alberti, pittore dell'uomo. Attorno  a  questi  due  spuntano  egloghe,  elegie,
poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia  in
quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle sorti di  Cefalo  e  agli
amori di Ergasto e di Corimbo. Le accademie, le feste, le  colte  brigate  erano
un'Arcadia letteraria, alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti  il  pubblico
prendeva una viva partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara  si  vivea  tra
novelle, romanzi ed egloghe. Gli uomini, già cospiratori,  oratori,  partigiani,
patrioti, ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra  ninfe  e  pastori.  E  mi
spiego l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del  Sannazzaro,  la  quale
parve a' contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale  idillico.
Ma di questo Virgilio  napolitano  non  è  rimasta  viva  che  qualche  sentenza
felicemente espressa, come:

        L'invidia, figliuol mio, se stessa macera...
        Peggiora il mondo e peggiorando invetera.

Nè della sua Arcadia è  oggi  la  lettura  cosa  tollerabile,  e  per  la
rigidità e artificio della prosa monotona nella sua eleganza,  e  per  un  cotal
vuoto e rilassatezza di  azione  e  di  sentimento,  che  esprime  a  maraviglia
quell'ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella  placidità  e
tranquillità della vita, dove ponevano l'ideale della felicità.
        Il lato  negativo  di  questo  ideale  era  il  comico,  una  sensualità
licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della terra metteva  in  caricatura
il cielo, e rappresentava  col  piglio  ironico  di  una  coltura  superiore  le
superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i  costumi  e  il  linguaggio  delle
classi  meno  colte.  Da  questa  coltura  sensuale,  cinica  e  spiritosa  uscì
quell'epiteto, i «piagnoni», che fu a Savonarola  più  mortale  della  scomunica
papale. I canti carnascialeschi sono il tipo del  genere:  il  suo  poeta  è  il
Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è  il  Pulci,  il  suo
centro è Firenze. A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi, che  spezza
ogni legame tra cielo e terra, negando l'immortalità  dell'anima.  Era  il  vero
motto,  il  segreto  del  secolo,  la  coscienza  filosofica  di   una   società
indifferente e materialista, che si battezzava  platonica,  predicava  contro  i
turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che  così  bene
la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad  alta  voce  i
suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: -  Cosa
sono? E dove vado?
        Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi  fu  un  bel
giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine  del
secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi  latini  e  il  Sannazzaro  sonava  la
sampogna, e la monarchia disparve, come per intrinseca  rovina,  al  primo  urto
dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un
popolo  che  chiamava  lui  un  barbaro,  nel  pieno  vigore  delle  sue   forze
intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l'anima  e  fiacca  la  tempra.
Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino  a
che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in  mano  dello  straniero.  La
lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta  che  l'Italia
sviluppò tutte le sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le  aveva
lasciato in eredità.
        All'ingresso  del  secolo  incontriamo  Machiavelli  e  l'Ariosto,  come
all'ingresso del Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva già trentun anno,  e
ventisei ne aveva l'Ariosto. E sono  i  due  grandi  ne'  quali  quel  movimento
letterario si concentra e si riassume, attingendo l'ultima perfezione.
        Gittando un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della  coltura
in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto
che non iscriva corretto ed anche elegante in  lingua  volgare,  che  oramai  si
comincia a dire senz'altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana  il  tipo  della
lingua si discosta dagli elementi locali e nativi,  e  si  avvicina  al  latino,
producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante  chiamava  aulica  e
illustre. I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando  un  tipo  comune,  e
riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio  già  dato
dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina.  E  non
pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro,  all'eleganza,  con
grave scapito della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della lingua e
dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in
Toscana, come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o  il  Nardi,  e  anche  ne'
sommi, come nel Guicciardini e fino  talora  nel  Machiavelli.  La  quale  forma
latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e  al  brio
del dialetto, così nuda e  astratta  ha  la  sua  espressione  pedantesca  negli
Asolani del Bembo, e giunge a tutto quel grado di  perfezione  di  cui  è
capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del  Castiglione.  Ma
in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima  viva
resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so  quale
atticità, che nasce dall'uso vivo, e che ti fa non solo  parlare  ma  sentire  e
concepire a quella maniera, come si vede nelle  Novelle  del  Lasca,  ne'
Capricci del  bottaio  e  nella  Circe  del  Gelli,  nell'Asino
d'oro e ne' Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche  in
questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana  e  boccaccevole,
come non mancano  fra  gli  altri  italiani  uomini  d'ingegno  vivace,  che  si
avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro
negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta
durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella  forma  comune  e  illustre,  che
battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o  viva  ed  una
forma convenzionale e letteraria. Anche in  Toscana  gli  uomini  colti  non  si
contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca  e
Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma
nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo  stacco  si  fece
sempre più profondo tra essa e il popolo.
        Fioccavano i rimatori. Da ogni  angolo  d'Italia  spuntavano  sonetti  e
canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della  poesia
popolare, andarono a poco a poco in disuso.  Il  petrarchismo  invase  uomini  e
donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti,  e  appena  è  se  fra  tanti
rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il  Costanzo,  Vittoria
Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da  Pietro
Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe  della  prosa  e  del
verso.
        Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona  fattura,  e
l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato  che  parecchi
pregiati scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti  scrivevano  bene  e  tutti
sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo  ben  sonante,  moltiplicarono  gli
scrittori, e furono tentati tutt'i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi,
satire, orazioni, storie, epistole, tutto a  modo  degli  antichi.  Il  Trissino
scrivea l'Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il
Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A'  misteri  successero
commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non  solo  le  forme  del
dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e  si  giurò  per
gl'«iddii immortali», e Apollo, le muse, Elicona, il  Parnaso,  Diana,  Nettuno,
Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi  comuni  in  prosa  ed  in
verso. Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come  oggi  il
francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo  o  per  maggiore
efficacia.  Ci  erano  gl'improvvisatori,  che  nelle  corti  lì  su  due  piedi
fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e  ne  avevano  in
merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino,  che  Leone  decimo  dava
annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il  distico
mal riusciva. E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino e
lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il  Vida,
i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in  quella  lingua
ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
        Latinisti e rimatori erano le due  più  grosse  schiere  de'  letterati.
Nelle loro opere l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che
riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non  meno  colti
ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio  o
del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il  capolavoro
dell'ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri  furono  potuti  tenere  in
così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor  Guidiccioni  e
Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la  frase,  in  tanta  insipidezza  del
fondo, non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia così
svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il suo ozio co'  piaceri
dello  spirito.  Salse  piccanti   si   richiedevano,   fatti   maravigliosi   e
straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva
l'attenzione. L'intrigo diviene  la  base  delle  novelle,  de'  romanzi,  delle
commedie e delle tragedie, un intrigo così avviluppato che  è  assai  vicino  al
garbuglio.  Si  cerca  ne'  fatti  il  nuovo  e   lo   strano,   che   stuzzichi
l'immaginazione, il  buffonesco  e  l'osceno  nella  commedia,  il  mostruoso  e
l'orribile nella tragedia.  Dall'una  parte  ci  è  la  frase,  vacua  sonorità,
dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase  oltrepassa
l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e  civettuola,  come  nel
Firenzuola o nel Caro, così il  fatto,  per  voler  troppo  stuzzicare,  diviene
osceno o mostruoso, e sempre  assurdo.  Il  realismo  abbozzato  dal  Boccaccio,
sviluppato  nel  Quattrocento,  corre  ora  a  passo  accelerato   alle   ultime
conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione  del  gusto.  Ci  è  nella
società italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione  la  mantiene
viva, ed è nel pubblico l'amore e la stima della  coltura,  e  negli  artisti  e
letterati il culto della bella forma, il sentimento dell'arte. In  quella  forma
letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della  lingua  viva,
il parlare  quotidiano  idealizzato,  secondo  quel  modello  dove  ponevano  la
perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di quattrini e di onori a  questi
artefici della  forma.  I  centri  letterari  moltiplicarono;  comparvero  nuove
accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati, i più  oscuri
principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le  loro  lettere,  e
letterati e artisti che li divertissero. Il centro principale fu a  Roma,  nella
corte  di   Leone   decimo,   dove   convenivano   d'ogni   parte   novellatori,
improvvisatori,  buffoni,  latinisti,  artisti  e  letterati,  come  già  presso
Federico secondo. Anche i cardinali avevano  segretari  e  parassiti  di  questa
risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia,  il  Chigi,  i
Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Venezia si
aggruppavano  Bernardo  Tasso,  Trifon  Gabriele,  il  Trissino,  il  Bembo,  il
Navagero, Speron Speroni; a Vittoria  Colonna  facevano  cerchio  in  Napoli  il
vecchio Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti s'indovini
la caterva de' minori. Pensioni, donativi impieghi, abbazie, canonicati, era  la
manna che piovea sul loro capo. E c'era anche la gloria:  onorati,  festeggiati,
divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati
«divini», con Michelangelo e l'Ariosto, Pietro Aretino e il  Bembo,  e  Bernardo
Accolti, detto anche l'«unico». Costui, fatto duca, usciva con un  corteggio  di
prelati  e  guardie  svizzere;  dove  giungeva,  s'illuminavano  le  città,   si
chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori
non furono fatti al Petrarca. I  letterati  acquistarono  coscienza  della  loro
importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti, e si posero in vendita, e
la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: «Io servo a
chi mi paga». Come si facevano statue, quadri, tempi per  commissioni,  così  si
facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso l'ingiuria era
via a vendere a più caro prezzo la lode. In quest'aria viziata gli uomini  anche
meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce. Non ci  è
immagine più straziante che vedere  l'ingegno  appiè  della  ricchezza,  e  udir
Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l'Ariosto  gridare  al
suo signore che non aveva di che rappezzarsi il  manto,  e  veder  Michelangelo,
quando,

        ... da' rei tempi costretto,
        eroi dipinse a cui fu campo il letto:

sdegnose  parole  di  Alfieri.  Soverchiavano  i  mediocri  con  l'audacia,   la
ciarlataneria, l'intrigo e la bassezza,  ora  addentandosi,  ora  strofinandosi,
temuti e corteggiati. Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così
a' tempi di Federico o di Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara,
e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e  il  sapere  era
diffuso, e lo scrivere in prosa e in verso  era  divenuto  un  vero  meccanismo,
facile a  imparare,  che  teneva  luogo  d'ispirazione,  e  per  la  somiglianza
esteriore confondeva nella stessa lode sommi e  mediocri.  Di  grandi  uomini  è
pieno quel secolo, se si dee  stare  a'  giudizi  de'  contemporanei.  Francesco
Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dà la lista di cento  poeti
latini nella sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra  nomi  oggi
dimenticati. Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Giovio,  lo  Scaligero,
il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco  e  altri  infiniti  furono  tenuti  cime
d'uomini, che oggi nessuno più legge. Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era
viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale  era  il
Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo  Tasso,  ma  quando  prendevano  la
penna, c'era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava,  ed  era  lo  studio
della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.
        Quest'era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta. La corruzione  e
la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava
nella natura stessa del movimento, ond'era uscito, che ora si rivelava con tanta
precisione, generato non da lotte intellettuali e novità di credenze, come fu in
altri popoli, ma da  una  profonda  indifferenza  religiosa,  politica,  morale,
accompagnata  con  la  diffusione  della  coltura,  il  progresso  delle   forze
intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe della vita e  qui
è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.
        Questo movimento è già  come  in  miniatura  tutto  raccolto  presso  il
Boccaccio, il  quale,  se  riproduce  con  vivacità  le  apparenze,  non  ne  ha
coscienza, e non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le  sue  ciniche
caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci,
che ne fissano il lato negativo e comico, mentre il suo ideale  trasparisce  già
nell'Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano. La violenta  reazione  del  Savonarola
non fa che accrescere forza e celerità al movimento e dargli coscienza di sè. Il
secolo decimosesto nella sua prima metà non  è  che  questo  medesimo  movimento
scrutato profondamente, rappresentato nel suo insieme, e condotto per  le  varie
sue forme sino al  suo  esaurimento.  È  la  sintesi  che  succede  all'analisi.
Qual è il lato positivo di questo movimento? È l'ideale  della  forma,  amata  e
studiata come forma, indifferente il contenuto.
        E qual è il suo lato negativo? È appunto l'indifferenza  del  contenuto,
una specie di eccletismo negli uni,  come  Raffaello,  Vinci,  Michelangelo,  il
Ficino,  il  Pico,  che  abbracciano  ogni  contenuto,  perchè  ogni   contenuto
appartiene alla coltura, all'arte e al pensiero; eccletismo  accompagnato  negli
altri da una satira allegra e senza fiele di quei princìpi e forme e costumi del
passato ancora in credito presso le classi inculte.
        Ciò che è divino in questo movimento  è  l'ideale  della  forma,  o  per
trovare una frase più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e  deificata.
Il lato comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.
        Il «limbo» di Dante e l'Amorosa visione del Boccaccio  fanno  già
presentire quest'orgoglio di un'età nuova, che comprendeva e  glorificava  tutta
la coltura. Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha  la  sua
apoteosi nella  Scuola  di  Atene,  ispirazione  dantesca  di  Raffaello,
rimasta così popolare, perch'ivi è l'anima del secolo, la sua sintesi e  la  sua
divinità.  Questa  Scuola  d'Atene,  con  i  tre  quadri   compagni   che
comprendono nel loro sviluppo storico teologia, poesia e  giurisprudenza,  è  il
poema della coltura, di così larghe  proporzioni  come  il  paradiso  di  Dante,
aggiuntovi  il  limbo.  Il  quadro  diviene  una  vera  composizione,  come   lo
vagheggiava Dante ne' suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo
Davide hanno un riscontro  nel  Cenacolo,  nella  Sacra  famiglia,
nella Trasfigurazione, nel Giudizio, poemi  sparsi  qua  e  là  di
presentimenti drammatici. Il pittore vagheggia  la  bellezza  nella  forma  come
l'Alberti o il Poliziano, e studia  possibilmente  a  non  alterare  con  troppo
vivaci commozioni la serenità e il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure
epiche anzi che drammatiche. Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che senti
nelle stanze del Poliziano, e  ti  avvicina  più  al  riposo  della  natura  che
all'agitazione della faccia umana, quella «pace tranquilla senz'alcuno  affanno»
è l'impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è  già  «simile  a
quella che nel cielo india», un ideale musicale, come Beatrice e Laura, ma  vien
fuori da uno studio del reale ne' suoi più  minuti  particolari.  Senti  che  il
pittore ha innanzi un modello accuratamente studiato e  contemplato  con  amore,
che nella sua immaginazione si compie, e  prende  quella  purezza  e  riposo  di
forma, che Raffaello chiamava «una certa idea». In questa certa  idea  ci  entra
pure alcun poco il classico,  il  convenzionale  e  la  scuola;  difetti  appena
visibili ne' lavori geniali, usciti da una sincera ispirazione, dove  domina  il
sentimento della bellezza e lo studio del reale. Così nacquero  le  Madonne  del
secolo, nella cui fisonomia non è l'inquietudine, l'astrazione e l'estasi  della
santa, ma la ingenua e idillica tranquillità della verginità  e  dell'innocenza.
Queste facce si vanno sempre più realizzando, insino a che  nella  immaginazione
veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.
        La stessa  larghezza  di  concezione  nella  purezza  e  semplicità  de'
lineamenti trovi nell'architettura: il gotico è debellato dal  Brunelleschi;  si
collega insieme l'ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in
che guisa l'Alberti rappresenta il  duomo  di  Firenze,  può  concepire  il  San
Pietro, la vasta mole, che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne'
suoi motivi, la vera e profonda sintesi di tutto quel  gran  movimento,  che  ti
offriva nell'apparenza lo stesso mondo del passato,  quelle  forme,  quei  nomi,
quei costumi, que' concetti e quella materia, pure  sostanzialmente  trasformato
ne' suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto  un  puro  ideale  artistico,
l'ideale della forma. Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella
sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti  gli  elementi  della  nuova
civiltà, ti dà anche la letteratura nell'Orlando furioso. La Scuola di
Atene, il San Pietro, l'Orlando furioso sono le  tre  grandi  sintesi
del secolo.      L'Orlando furioso ti dà la nuova  letteratura  sotto  il
suo duplice aspetto, positivo e negativo. È un mondo vuoto di motivi  religiosi,
patriottici e morali, un mondo puro dell'arte, il cui  obbiettivo  è  realizzare
nel campo dell'immaginazione l'ideale della forma. L'autore vi si travaglia  con
la più grande serietà, non ad altro inteso che a dare alla sua materia  l'ultima
perfezione, così nell'insieme come ne' più piccoli particolari. Il poeta non  ci
è più, ma ci è l'artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e
chiude il ciclo dell'arte nella poesia. Ma poichè  in  fine  questo  mondo  così
bello, edificato con tanta industria, non è che un  giuoco  d'immaginazione,  vi
penetra un'ironia superiore, che se ne burla  e  vi  si  spassa  sopra  col  più
allegro umore. La parte plebea, che nel Decamerone occupa  il  proscenio,
qui giace ne' bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buffoneria,  e  sorge  a
galla il mondo della cortesia  e  del  valore,  ne'  suoi  più  bei  colori,  ma
accompagnato da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa valere  e
disfà il castello incantato. È la  visione  severa  di  un'anima  ricca  che  si
effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica  nelle  sue
gioie, con non altro fine e non altra serietà che la produzione artistica. Nelle
arti figurative, la produzione è accompagnata con un perfetto obblio  dell'anima
nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non  guarda  mai
fuori, e realizza la sua idea con quella serietà con la quale  Dante  costruisce
l'altro mondo. L'ideale della forma, che si  esprime  con  tanta  serietà  nelle
arti,  non  ha  ancora  la  coscienza  che  esso  è  mera  forma,  mero   giuoco
d'immaginazione. Ma qui l'arte si manifesta e si sente pura arte, e  sa  che  il
mondo reale non è quello, e accompagna con un  sorriso  la  sua  produzione.  In
questo sorriso, in questa presenza e coscienza del  reale  tra  le  più  geniali
creazioni è il lato negativo dell'arte, il  germe  della  dissoluzione  e  della
morte.
        Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi  e  novelle.
Lascio stare il Girone e l'Avarchide  dell'Alamanni,  prette  imitazioni,
senza alcuna serietà. Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il  Trissino
e Bernardo Tasso. A tutti e  due  spiacque  il  sorriso  ariostesco.  Orlando  e
Rinaldo parvero al Trissino, non  altrimenti  che  al  cardinale  d'Este,  delle
«corbellerie», fole e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia le  sue
ispirazioni e  in  Omero  il  suo  modello,  scrisse  l'Italia  liberata  dà'
Goti. Nella sua intenzione  dovea  essere  un  poema  eroico  e  serio  come
l'Iliade, che chiamasse l'Italia  ad  alti  e  virili  propositi.  Ma  il
Trissino non era che  un  erudito,  non  poeta  e  non  patriota,  e  non  potea
trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima, e  nemmeno  nella
sua arida immaginazione. Di eroico non c'è nel  suo  poema  che  le  armi  e  le
divise: manca l'uomo. La sua punizione fu il silenzio e la  dimenticanza,  e  il
poveruomo, non volendo recarne la colpa a difetto d'ingegno, se  la  piglia  con
l'argomento, e prorompe:

        Sia maledetta l'ora e il giorno, quando
        presi la penna e non cantai d'Orlando.

Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal  naufragio  Bernardo  Tasso,
che nel suo Floridante e nel suo Amadigi, più noto, vagheggiò  una
rappresentazione epica più conforme a'  precetti  dell'arte  e  lontana  da  ciò
ch'egli diceva licenza ariostesca. Non piacque al pubblico, ma piacque a  Speron
Speroni, come il Girone era  piaciuto  al  Varchi.  E  il  pubblico  avea
ragione; chè non s'intendeva di Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sui
serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è tutto
fiori e tutto mèle, così artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e
arido, tutti e due noiosi. Piacque invece  l'Orlando  innamorato  rifatto
dal Berni, dove la soverchia e uniforme serietà del testo è temperata  da  forme
ed episodi comici appiccativi dal Berni. Ma il comico non passa la buccia e  non
penetra nell'intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma, e il  Berni  mi  fa
l'effetto di quel buffone nelle commedie, posto lì per far  ridere  il  pubblico
co' suoi lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica.
        Scrivere romanzi diviene un mestiere: l'epopea ariostesca è smembrata, e
i suoi episodi diventano romanzi. Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra' quali Le
prime  imprese  di  Orlando.  Il  Brusantini  ferrarese  canta   Angelica
innamorata, il Bernia canta Rodomonte, il Pescatore  Ruggiero,
e Francesco de' Lodovici Carlo Magno.  Romanzi  con  la  stessa  facilità
composti, applauditi e dimenticati. Accanto agl'imitatori  del  Petrarca  e  del
Boccaccio sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.
        Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega  con  l'idillio,  e
nel suo lato negativo con la satira e la novella.
        Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l'idillio è la vera musa della
poesia italiana, la materia nella quale lo spirito realizza l'ideale della  pura
forma, l'arte come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia  lascia
le città e trova il suo ideale ne' campi,  tra  ninfe  e  pastori,  fuori  della
società, o piuttosto in una società primitiva e spontanea.
        Là trovi quell'equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura,
quella perfetta armonia de'  sentimenti  e  delle  impressioni,  che  chiamavano
l'«ideale della bellezza»  o  della  «bella  forma».  Questo  spiega  la  grande
popolarità delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande
perfezione. Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e  il  Tirsi  del
Castiglione. Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice  in  fuga
con alle spalle l'innamorato Aristeo è così dipinta:

        La sottil gonna in preda ai venti resta,
        e col crine ondeggiando indietro torna.
        Ella più ch'aura o più che strale presta
        per l'odorata selva non soggiorna,
        tanto che il lito prende snella e mesta,
        fatta per la paura assai più adorna.
        Esce Aristeo la vaga selva anch'egli,
        e la man par avergli entro i capegli.
        Tre volte innanzi la man destra spinse
        per pigliar de le chiome il largo invito;
        tre volte il vento solamente strinse,
        e restò lasso senza fin schernito.

Maniera corretta, e nulla più. Manca in queste stanze il movimento, il brio,  il
sentimento, o piuttosto la voluttà idillica del Poliziano. La stessa parca  lode
è  a  fare  de'  due  poemi  idillici,  le  Api   del   Rucellai   e   la
Coltivazione dell'Alamanni. Ci è la naturalezza, manca il sangue.
        L'idillio fu la moda dell'Italia ne' suoi anni di pace e di  prosperità.
Era  il  riposo  voluttuoso  di  una  borghesia  stanca  di  lotte  e   ritirata
deliziosamente nella vita privata, fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore
delle armi, fra tante avventure e agitazioni della  vita  sottentra  il  romanzo
cavalleresco. L'idillio cessa di essere un genere vivo, e va  a  raggiungere  il
platonismo e il petrarchismo. Gli angeli e  il  paradiso,  Giove  e  Apollo,  le
piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno
lega insieme, e n'esce un vasto repertorio  di  luoghi  comuni,  dove  attingono
poeti e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
        Il Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il carnevale: ozio di villa e
ozio di città. La quiete idillica era il solo ideale superstite, nella morte  di
tutti gli altri, presso una società sensuale  e  cinica,  la  cui  vita  era  un
carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale  di
Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro d'Italia. La buffoneria,  l'equivoco
osceno, lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura
in prosa e in verso, l'impronta dello spirito italiano.  Le  accademie  sono  il
semenzaio  di  lavori  simili.  Esse  rassomigliano  quelle  liete  brigate   di
buontemponi e fannulloni,  che  ispirarono  il  Decamerone,  modello  del
genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale,  che  fanno  per
sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati  per
la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme,  quanto  la  materia  è  più
volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come  lo
Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc. E  recitano  le  loro
dicerie,  o  come  dicevano,  «cicalate»  sull'insalata,  sulla   torta   ,sulla
ipocondria, inezie  laboriose.  Simili  cicalate  fatte  in  verso  erano  dette
«capitoli»: il Casa canta la gelosia, il Varchi le ova sode, il Molza  i  fichi,
il Mauro la bugia, il Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e  anco
più turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene,  al  modo  di  Lorenzo,  il
maestro del genere. Il carnevale dalla  piazza  si  ritira  nelle  accademie,  e
diviene più attillato, ma anche più insipido. Tra queste  accademie  era  quella
dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il Berni tra
prelati e monsignori. Il Berni piacque  fra  tutti,  e  si  disputavano  i  suoi
capitoli, e se li passavano di mano in mano.
        Francesco Berni,  «maestro  e  padre  del  burlesco  stile»,  detto  poi
«bernesco», è l'eroe di questa generazione, erede di  Giovanni  Boccaccio  e  di
Lorenzo, nella sua sensualità  ornata  dalla  coltura  e  dall'arte.  Nella  sua
ammirazione per questo «primo e vero trovatore» dello stile burlesco,  il  Lasca
dice:

        Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
        che saria proprio come comparare
        Caron dimonio all'agnol Gabriello.

Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far  niente,  la  sua  divinità  è
l'ozio più che il piacere:

        Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
giochi, nessuna sorte di piaceri troppo il movea...
        Onde il suo sommo bene era in iacere
        nudo, lungo, disteso; e 'l suo diletto
        era il non far mai nulla e starsi in letto.

Ma il poveruomo è costretto  a  lavorare  per  guadagnarsi  la  vita,  e  fa  il
segretario, come tutti quasi i letterati di quel tempo, a' servigi di  questo  e
quel cardinale:

        aveva sempre in seno e sotto il braccio
        dietro e innanzi di lettere un fastello,
        e scriveva e stillavasi il cervello.

Dietro a' capricci del suo padrone, una volta non ne può più, chè  ha  sonno,  e
dee stare lì a guardarlo giocare la primiera:

        Può far la nostra donna ch'ogni sera
        io abbia a stare a mio marcio dispetto
        infino alle undici ore andarne a letto
        a petizion di chi gioca a primiera?
        Direbbon poi costoro: - Ei si dispera,
        e a' maggiori di sè non ha rispetto. -
        Corpo di... , io l'ho pur detto:
        hassi a vegliar la notte intera intera?

La morte di papa Leone gitta il terrore tra' letterati, che  vedono  mancare  la
mangiatoia, e più quando il successore è Adriano sesto spagnuolo,  oltramontano,
avaro,  contadino,  e  non  so  quanti  altri  epiteti  gli  appicca  nella  sua
indignazione il Berni:

        Pur quando io sento dire oltramontano
        vi fo sopra una chiosa col verzino,
        «idest nemico del sangue italiano».

Era in fondo un brav'uomo, senza fiele, un buon compagnone, col quale si passava
piacevolmente un  quarto  d'ora,  anima  tranquilla  e  da  canonico,  vuota  di
ambizioni e di cupidigie e di passioni, e anche d'idee. Sapea di greco, e più di
latino,  e  fece  anche  lui  i  suoi  bravi  versi  latini  e  i  suoi  sonetti
petrarcheschi, come portava il tempo. Scrivea il più  spesso  a  «sfogamento  di
cervello, il maggior  suo  passatempo».  Non  cercava  l'eleganza,  per  fuggire
fatica, e gli veniva «il sudor della morte», quando si dovea «metter la giornea»
e rispondere «per le consonanze o per le rime» a lettere eleganti.  Lo  scrivere
stesso gli era fatica. «A vivere avemo sino alla morte, -  dice  al  Bini,  -  a
dispetto di chi non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a
far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti  che  si  fanno  per  Roma,  e
scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec est victoria quae vincit
mundum». Si qualifica «asciutto di parole, poco cerimonioso e  intrigato  in
servitù»: ottime scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo  tormentano
e si dolgono che non risponda, e non li  ami  e  li  dimentichi,  gli  viene  la
stizza:

        Perchè m'ammazzi con le tue querele,
        Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
        che sai che t'amo più che l'orso il miele?
        Sai che nel mezzo del petto ti porto
        serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
        più che non son le radici nell'orto:
        se ti lamenti perchè non ti ho scritto...

E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia,  e  la  lettera  finisce  con  un
eccetera. Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene  alla  bocca»  e
gli fa scriver lettere che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di  brevi
motti latini per vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte  in  quel  tempo
de' segretari, che se ne scrissero tante  e  così  sudate!  E  non  bastava  che
dovesse scriver lettere per forza, chè volevano da lui  anche  i  capitoli  e  i
sonetti con la coda. - Fateci un capitolo sulla primiera!

        «Compare, - scrive il poveruomo, - io non ho  potuto  tanto  schermirmi,
che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto  capitolo  e  commento  della
primiera, e siate certo che l'ho fatto, non perchè  mi  consumassi  d'andare  in
istampa, nè per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per  fuggire  la  fatica
mia e la malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi  volevano
mal di morte. Avendogliel' a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere;  e
l'uno e l'altro non mi piaceva troppo, per non m'affaticare e non m'obbligare.»

Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi a stamparlo; eccolo  immortale
a suo dispetto. E scrisse sulle anguille, i  cardi,  la  peste,  le  pesche,  la
gelatina, e sopra Aristotile, il quale

        ti fa con tanta grazia un argomento,
        che te lo senti andar per la persona
        fino al cervello e rimanervi drento.

Così venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i
ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno. Il successo fu grande. Dicono,  perchè
era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir poco.  Il  vero  è
che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose, che  rende  vive  e
fresche con facilità e con brio. Tra lui e la cosa non  ci  è  nessun  mezzo,  o
imitazione, o artificio di stile,  o  repertorio;  egli  l'attinge  direttamente
secondo l'immagine che gli si presenta nel cervello.  E  l'immagine  è  la  cosa
stessa in caricatura, guardata cioè da un punto che  la  scopra  tutta  nel  suo
aspetto  comico.  Il  quale  aspetto  balza  improvviso  innanzi   alla   nostra
immaginazione, perchè non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione,  ma
ti sta tutto avanti per virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale  è
la pittura di maestro Guazzaletto, e la mula di Florimonte, e la bellezza  della
sua donna,  contraffazione  della  Laura  petrarchesca.  In  questi  ritratti  a
rapporti non hai niente che stagni o langua; hai una produzione continua, che ti
tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a  che  il  poeta  trionfalmente  ti
accomiata:

        Ora eccovi dipinta
        una figura arabica, un'arpia,
        un uom fuggito dalla notomia.

Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e  frati;
e anche il Berni ci  si  prova  nella  Catrina  e  nel  Mogliazzo,
imitazioni caricate  di  parlari  e  costumi  plebei,  inferiori  per  grazia  e
spontaneità  alla  Nencia.  Ma  la  materia  ordinaria  del  Berni  è  la
caricatura della borghesia, in mezzo a cui viveva. Non è più la coltura che ride
dell'ignoranza e della rozzezza,  è  la  coltura  che  ride  di  se  stessa:  la
borghesia fa la sua propria caricatura. Il protagonista non è più il  cattivello
di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore, stizzoso, sensuale  e
letterato, la cui immagine è lo  stesso  Berni,  che  mena  in  trionfo  la  sua
poltroneria e sensualità. L'attrattivo è appunto nella perfetta buona  fede  del
poeta, che ride de' difetti propri e degli altrui, come di fragilità perdonabili
e comuni, delle quali è da uomo di poco spirito  pigliarsi  collera.  Il  guasto
nella borghesia era già così profondo e tanto era oscurato il senso morale,  che
non si sentiva il bisogno dell'ipocrisia, e si  mostravano  servili  e  sensuali
uomini per altre parti commendevoli; com'erano moltissimi letterati e il  nostro
Berni, «il dabbene e gentile» Berni, dice il Lasca, che si dipinge a  quel  modo
con piena tranquillità di coscienza, e non pensa punto che gliene  possa  venire
dispregio. Quando certi vizi diventano comuni a tutta una società, non  generano
più disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con  tutte
le qualità di  un  perfetto  galantuomo.  Il  Berni  è  poltrone  e  sensuale  e
cortigiano, e non lo dissimula, ciò che farebbe ridere  a  sue  spese,  anzi  lo
mette in evidenza, cogliendone l'aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che
non crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza  o  perfetta
buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica,  sì  ch'egli
contempla e vagheggia il suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e con
perfetta libertà di artista. È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è
alcuna profondità o serietà di motivi; appena  la  scorza  è  incisa:  ci  è  la
borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto ancora tempo di  guardarsi  in
seno, ed è tutto al di fuori, nella superficie delle cose. Questa superficialità
e spensieratezza è anch'essa comica, è parte inevitabile del ritratto. Perciò la
forma comica sale di rado sino all'ironia,  e  rimane  semplice  caricatura,  un
movimento e calore d'immaginazione, com'è generalmente ne'  comici  italiani,  a
cominciare dal Boccaccio. Dove non è immaginazione artistica, il comico  non  si
sviluppa, ed il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come  è  in  tutti
gli scrittori di proposito osceni. Ne' ritratti del Berni entra anche  l'osceno,
ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lì che attinge la sua ispirazione,
non vi si piace e non vi si  avvoltola.  Ciò  che  l'ispira  non  è  il  piacere
dell'osceno, o la seduzione del vizio, ma è un piacere tutto  d'immaginazione  e
da artista, che senti nel brio e nella facilità dello stile, e che  mettendo  in
moto il cervello  gli  fa  trovare  tanta  novità  di  forme,  d'immagini  e  di
ravvicinamenti, come è il ritratto della  sua  cameriera,  e  l'altro,  un  vero
capolavoro, della sua famiglia. Ecco perchè il Berni è tanto superiore  a'  suoi
imitatori ed emuli, freddamente osceni e  buffoni.  Pure  la  buffoneria  oscena
diviene l'ingrediente de' banchetti, delle accademie e  delle  conversazioni,  e
invade la letteratura, quasi condimento e salsa  dello  spirito:  la  statua  di
Pasquino diviene l'emblema della coltura. Ci erano capitoli e  sonetti:  sorgono
poemi interi berneschi, com'è la Vita di Mecenate del  Caporali,  di  una
naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al Parnaso, e  la
Gigantea dell'Arrighi, e  la  Nanea  del  Grazzini,  o  i  Nani
vincitori de' giganti. Di tanti poeti berneschi si  nomina  oggi  appena  il
Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo.  Gli
stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e  si  fanno  leggere  piacevoleggiando;
perchè i loro sospiri d'amore escono da un repertorio già vecchio di concetti  e
di frasi, e non corrispondono allo stato reale della società e della loro anima;
dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci  è  loro,  e  non  ci  è  ancora
modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur venire dal loro cervello.
        I canti carnascialeschi, come i rispetti e le  ballate  e  le  serenate,
erano legati con la vita pubblica; ora il circolo della vita  si  restringe:  la
vita letteraria è nelle accademie e tra' convegni  privati.  Per  le  piazze  si
aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura  se  ne
allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni, centri di
allegria spensierata e licenziosa; però da gente colta, che sa  di  greco  e  di
latino, che ammira le belle forme e cerca ne' suoi  divertimenti  l'eleganza,  o
come dicevasi, il «bello stile».  Vi  si  recitavano  capitoli,  sonetti,  poemi
burleschi, poemi di cavalleria e novelle. Come però l'arte è una merce rara e la
produzione era infinita,  il  pubblico  diveniva  meno  severo,  e  pur  d'esser
divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In  sostanza  questa  borghesia
spensierata e oziosa era sotto forme così linde vera plebe, mossa  dagli  stessi
istinti grossolani e superficiali, la curiosità, la buffoneria, la sensualità, e
quando quest'istinti erano accarezzati,  accettava  tutto,  anche  il  mediocre,
anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza.
        Questa letteratura comica o negativa si  sviluppa  in  modo  prodigioso.
Accanto a' capitoli e a' romanzi moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene
l'eroe  della  borghesia.  E  tutti  hanno  innanzi  lo   stesso   vangelo,   il
Decamerone. Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in  questo
secolo è un così strano anacronismo come l'imitazione di Virgilio o di Cicerone.
Ma il Decamerone portava già ne' suoi fianchi tutta  questa  letteratura,
era il germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l'Ariosto e
tutti gli altri.
        Quasi ogni centro d'Italia ha il suo Decamerone. Masuccio  recita
le sue novelle a Salerno, il Molza scrive a Roma il suo decamerone, e  il  Lasca
le sue Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti  o  cento
favole, e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate,  e  Sabadino  a
Bologna le sue  Porretane,  e  quattordici  novelle  scrive  il  milanese
Ortensio Lando, e Francesco Straparola  scrive  in  Venezia  le  sue  Tredici
piacevoli notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le  sue  diciassette
novelle il Parabosco. A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi  e  di
monsignor Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle di  Ascanio  de'
Mori, mantovano, e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano
Erizzo,  gentiluomo  veneziano,  e  le  dugento  novelle  di  Celio   Malespini,
gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze  pubblicano  i  Trattenimenti  di
Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vicentino,
e l'Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
        Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio  sino  al  Bargagli
che tocca il Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se
ne appropria lo spirito, e chi le invenzioni anche  e  la  maniera.  I  toscani,
presso i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà, e ci hanno  una
grazia e gentilezza  di  dire  loro  propria,  che  copre  la  grossolanità  de'
sentimenti e de' concetti: tale è  il  Lasca,  e  il  Firenzuola  nelle  novelle
inserite ne' suoi Discorsi degli animali e nel  suo  Asino  d'oro.
Gli altri procedono più timidi, e riescono pesanti, come il Giraldi e il  Brevio
e il Bargagli, o scorretti e trascurati, come il Parabosco o lo Straparola o  il
Cadamosto. Il linguaggio è quell'italiano comune che già si usava  dalla  classe
colta nello  scrivere  e  talora  anche  nel  parlare,  tradotto  in  una  forma
artificiosa e alla latina che dicevasi  letteraria,  e  solcato  di  neologismi,
barbarismi, latinismi e parole e frasi locali, salvo ne' più colti,  come  è  il
Molza, per speditezza e festività vicino a' toscani.
        Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone  tiene  sì  gran
parte, rifuggitosi ne' poemi cavallereschi, scompare dalla novella. E neppure ci
è quello  stacco  tra  borghesia  e  plebe,  quella  coscienza  di  una  coltura
superiore, che si  manifesta  nella  caricatura  della  plebe,  quell'allegrezza
comica a spese delle superstizioni e de'  pregiudizi  frateschi  e  plebei,  che
tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e  fino  nella  Nencia.  Questo
mondo interiore scompare anch'esso. La novella attinge tutta la società ne' suoi
vizi, nelle sue tendenze,  ne'  suoi  accidenti,  con  nessun  altro  scopo  che
d'intrattenere le brigate con racconti interessanti. L'interesse è  posto  nella
novità e straordinarietà degli accidenti, come sono i  mutamenti  improvvisi  di
fortuna,  o  burle  ingegnose  per  far  danari  o  possedere  l'amata,  o  casi
maravigliosi di vizi o di virtù. Re,  principi,  cavalieri,  dottori,  mercanti,
malandrini, scrocconi, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri,
comici e seri, e tutte le situazioni, dalla pura  storia  sino  al  più  assurdo
fantastico. Sono migliaia di novelle, arsenale ricchissimo, dove  hanno  attinto
Shakespeare, Molière e altri stranieri.
        La più parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri in forma
affettata insieme e scorretta.  L'interessante  è  stimolare  la  curiosità  del
pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari. Perciò  hai  da  una  parte  il
comico e dall'altra il fantastico.
        Nel comico, salvo i toscani, ne' quali supplisce la grazia del dialetto,
i novellieri mostrano pochissimo spirito. Una delle novelle meglio condotte è la
«scimia» del Bandello, la quale si abbiglia co' panni di una  vecchia  morta,  e
par dessa, e spaventa quelli di casa. Il fatto è in sè comico, ma  l'esposizione
è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci  sono  appena
abbozzate. C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa d'invenzione,
dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie, e
la sciocca imitazione fattane dal fratello, novella che suggerì  al  Molière  la
Scuola de' mariti. Ma di spiritoso non c'è che l'invenzione, forse neppur
sua: così triviale e abborracciata è l'esposizione. Un villano che fa la  scuola
ad un astrologo è anche un bel concetto  del  Lando,  ma  scarso  di  trovati  e
situazioni  comiche.  Pure  il  Lando  è  scrittor  vivace  e  rapido,  e  nelle
descrizioni efficace e pittoresco. Il villano predice la pioggia; ma l'astrologo
vede il cielo sereno.

        «Alzato il viso, guatava d'ogni  intorno,  e  diligentemente  ogni  cosa
contemplando, s'avvide essere il cielo tutto bello, il sole temperato, il  monte
netto da nuvoli, e appresso s'accorse che l'austro nel soffiare era  dolcissimo,
e cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse  il  sole  e  in  qual
grado, che cosa stesse nel mezzo del cielo, e qual  segno  stessegli  in  dritta
linea opposto. Nè potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal  cielo
cadere, al villano rivolto, disse con ira e con  isdegno:  -  Dio  e  la  Natura
potrebbono far piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare.»

Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive le sue  rovine  e  i  suoi
effetti in questo modo:

         «Rovinarono  torri,  sbarbicaronsi  molte  querce,  caddero  bellissimi
palagi, tremò tutta la riviera dell'Adige, parve che  il  cielo  cadesse  e  che
tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.»

Tutta la novella è scritta in  questa  prosa  spedita  e  animata,  e  si  legge
volentieri, ma il sentimento comico vi fa difetto, nè vi  supplisce  una  lingua
poetica e senza colore locale.
        Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito o di  coltura  o
di arte, ma di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi  e
di motti e di modi comici, un istrumento già formato e recato a  perfezione  dal
Boccaccio al Berni. Materia ordinaria del Lasca è  la  semplicità  degli  uomini
«tondi e grossi», fatta giuoco de' tristi e degli scrocconi. È  la  novella  ne'
termini che l'aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandrino  è  Gian  Simone  o
Guasparri, rigirati  e  beffati  da  scrocconi  che  si  prevalgono  della  loro
credulità. Il Boccaccio mette in iscena  preti  e  frati,  il  Lasca  astrologi,
guardando  meno  alle  superstizioni  religiose  che  alle   credenze   popolari
nell'«orco, tregenda e versiera», negli spiriti e ne' diavoli.  Oggi  abbiamo  i
magnetisti e gli spiritisti; allora c'erano i maghi  o  gli  astrologi,  con  la
stessa pretensione di conoscere l'avvenire e di guarire gl'infermi, e  conoscere
i fatti altrui, e  farti  comparire  i  morti  o  le  persone  lontane:  materia
inesausta di ridicolo, non altrimenti che i miracoli de' frati. Se il  Boccaccio
mette in gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca  si  beffa  del
mondo soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora  qua  e  colà  in
Italia; ma a Firenze era morto sotto l'ironia del Boccaccio, del  Sacchetti,  di
Lorenzo e del Pulci, nè i piagnoni poterono risuscitarlo. Il nostro Lasca non ha
lo spirito e la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano  nelle  sue
caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena, evidente, e trova nel dialetto
immagini e forme comiche belle e pronte, senza che si dia la pena  di  cercarle.
Ecco la magnifica pittura dell'astrologo Zoroastro:

        «... era uomo di trentasei in quarant'anni, di grande  e  di  ben  fatta
persona, di colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera guardatura,  con  barba
nera, arruffata e lunga infino al petto, ghiribizzoso molto e fantastico;  aveva
dato  opera  all'alchimia,  era  ito  dietro  e  andava   tuttavia   alla   baia
degl'incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli, campane, bocce  e
fornelli di varie sorte da stillare erba, terra, metalli, pietre e legni;  aveva
ancora carta non nata, occhi di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di
pesce colombo, ossa di morti, capestri d'impiccati, pugnali e spade che  avevano
ammazzato uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, e erba e semi colti a
vari tempi della luna e sotto  varie  costellazioni,  e  mille  altre  favole  e
chiacchiere  da  far  paura  agli  sciocchi;  attendeva   all'astrologia,   alla
fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto nelle  streghe,
ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai  potuto
vedere ne  fare  cosa  che  trapassasse  l'ordine  della  natura,  benchè  mille
scerpelloni  e  novellacce  intorno  a  ciò  raccontasse  e  di  farle   credere
s'ingegnasse alle persone; e non avendo nè padre, nè madre, e  assai  benestante
sendo, gli conveniva stare il più del tempo solo in casa, non  trovando  per  la
paura nè serva, nè famiglio  che  volesse  star  seco,  e  di  questo  infra  sè
maravigliosamente godea;  e  praticando  poco,  andando  a  casa  con  la  barba
avviluppata senza mai pettinarsi, sudicio sempre  e  sporco,  era  tenuto  dalla
plebe per un gran filosofo e negromante.»

È un periodo interminabile, tirato giù felicemente, dove, come in un quadro,  ti
sta dinanzi tutta la persona, in una ricchezza di accessorii, espressi  con  una
proprietà di vocaboli, che si può trovar  solo  in  un  fiorentino.  «Struggersi
d'amore» è un sentimento serio che il Lasca traduce in comico, aggiungendovi  le
immagini del dialetto: «la farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro
dio, e si consumi e strugga de' fatti vostri, come il sale nell'acqua, e ...  vi
verrà dietro, più che i pecorini al pane insalato». Parlando del  banchetto  che
tenne l'astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia, il Pilucca e il
Monaco, alle spese del candido Gian  Simone,  dice:  «E  fecero  uno  scotto  da
prelati, con quel vino che smagliava». Se il Lasca dee  molto  al  dialetto,  ha
pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni, una  intuizione  chiara  e
viva delle cose, che te le dà scolpite in rilievo. Tale è il  viaggio  per  aria
del Monaco, come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:

        «[Zoroastro] si stese in  terra  boccone,  e  disse  non  so  che
parole, e rittosi in piede e fatto due tomboli, s'arreco da un canto del cerchio
inginocchioni, e guardando fisso nel vaso,... disse: - Il Monaco nostro  ha  già
riavuto il resto, e vassene con l'insalata verso  Pellicceria  per  andarsene  a
casa; ma in questo istante io l'ho fatto invisibilmente  alzare  ai  diavoli  da
terra: oh eccolo che egli e già sopra il Vescovado: oh che gli vien bene, egli è
già sopra la piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia  di  Santa  Maria
Novella: testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza la strada! Oh  egli  è  già
presso a meno di cinquanta braccia: oh eccolo, eccolo già rasente alla finestra!
Or ora sarà nel cerchio in pianelle, in mantello, in cappuccio, e con l'insalata
e con le radici in mano.» Il nostro  speziale,  chè  colui  che  chiamavano  «il
Lasca» nell'accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria  Grazzini,
dipinge  con  tanto  rilievo   gli   oggetti,   perchè   li   vede   chiarissimi
nell'immaginazione, e non si ha a travagliare intorno alla forma,  e  non  v'usa
alcuno artificio, scrive parlando. Nè è meno evidente e  parlante  nel  dialogo.
Simone, passata la paura e uscitogli tutto l'amore di corpo, non vuol  più  dare
all'astrologo i venticinque fiorini promessigli. E dice allo Scheggia:

        «- Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito  ...  tutto  l'amor  di
corpo, e della vedova non mi curo più niente... Oh che vecchia paura ebb'io  per
un tratto! e' mi si arricciano i capelli quando vi  ci  penso,  sicchè  pertanto
licenzia e ringrazia Zoroastro. - Lo Scheggia, udite le di colui parole, diventò
piccino piccino..., e parendogli rimanere scornato, disse: - Oimè, Gian  Simone,
che è quello che voi mi dite? Guardate che il  negromante  non  si  crucci.  Che
diavol di pensiero e il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito
fortemente, come Zoroastro intenda questo di voi, ch'egli non si adiri tenendosi
uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco. Bella cosa e  da  uomini
dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian Simone, egli non è da correrla così  a
furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio, voi  avrete  fatto  poi  una
bella faccenda. - Colui era già per la paura diventato nel viso un panno lavato,
e rispondendo allo Scheggia, disse: - Per lo sangue di  tutt'i  diavoli  che  fo
giuro d'assassino, che domattina, la prima cosa, io me  ne  voglio  andare  agli
Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e sodare, non so chi mi tiene che non
vada ora. - Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto, diventò nel viso  di
sei colori, e fra sè disse: - Qui non è tempo da battere  in  camicia,  facciamo
che il diavolo non andasse a processione -; e a colui rivolto, dolcemente  prese
a favellare e disse: - Voi ora, Gian Simone, entrate bene nell'infinito,  e  non
vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio vostro, che Zoroastro  sapesse  quel
che voi avete detto. Ora non sapete che l'ufficio degli Otto ha potere sopra gli
uomini, e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi, quando voglia  gliene
venisse, capitar male, che non si saperrebbe mai.»

Cosa manca al Lasca? La mano che trema. Scioperato, spensierato, balzano,  vispo
e svelto, ci è in lui la stoffa di un grande scrittor comico; ma  gli  manca  il
culto e la serietà dell'arte, e abborraccia e tira giù come viene,  e  lascia  a
mezzo le cose, e si arresta alla superficie, naturale e  vivace  sempre,  spesso
insipido, grossolano e trascurato, massime nell'ordito e nel disegno.
        Questo basso comico, plebeo e buffonesco,  ne'  confini  della  semplice
caricatura, perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una  borghesia  colta,
piena di spirito e d'immaginazione, e insieme spensierata e  tranquilla,  ha  la
sua sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e  poi  i  capitoli  e  i
sonetti del Berni: è il bernesco nell'arte, buffoneria ingentilita dalla  grazia
e alzata a caricatura, maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca,
infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana. Nelle altre parti d'Italia la
buffoneria è senza grazia, spesso caricata troppo, e lontana da quel brio  tutto
spontaneità e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca. Tra' più sgraziati è
il Parabosco.
        Col comico va congiunto  il  fantastico.  Il  novelliere,  in  luogo  di
guardare nella vita reale e studiarvi i  caratteri,  i  costumi,  i  sentimenti,
cerca combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiosità.  Per  questa
via dal nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale
e all'assurdo. Così una borghesia scettica, che ride de' miracoli, che si  beffa
del soprannaturale religioso e non vuol  sentire  a  parlare  di  misteri  e  di
leggende, come forme barbare, sente poi a bocca  aperta  racconti  di  fate,  di
maghi, di animali parlanti, che tengano desta la  sua  curiosità.  Il  Mariconda
narra con serietà rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e  altre  favole
mitologiche. E con la stessa serietà Francesco Straparola  raccoglie  nelle  sue
Notti  le  più  sbardellate  invenzioni  di  quel  tempo,  saccheggiando  tutt'i
novellatori, Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Morlino, autore
di ottanta novelle in latino. Ivi trovi il fantastico spinto  all'ultimo  limite
dell'assurdo. Vedi un anello trasformato in un bel giovane, pesci  e  cavalli  e
falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini salvatici
o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e  leoni  in  conversazione,  e
fate e negromanti e astrologi. Queste ch'egli chiama «favole»,  si  accompagnano
con altri racconti osceni o faceti, o com'egli dice,  «ridicolosi»,  e  sono  le
solite burle fatte alla gente semplice e grossa, o com'egli  dice,  «materiale».
Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza, un «fabula  docet»,
ma in fondo l'autore mira a render piacevoli le sue Notti,  eccitando  il
riso o movendo la curiosità. Non  mostra  alcuna  intenzione  letteraria,  salvo
nelle descrizioni, una goffa  imitazione  del  Boccaccio  chiama  egli  medesimo
«basso» e «dimesso» il suo stile, e dice che le invenzioni non son sue, ma suo è
il modo di raccontarle. Non hai qui dunque  contorcimenti,  lenocini,  artifici,
eleganze: è un narrare alla buona e a corsa, in quella lingua  comune  italiana,
di forma più latina che toscana, mescolata di parole venete, bergamasche e anche
francesi, come «follare»  (fouler)  per  calpestare.  Non  si  ferma  sul
descrivere o particolareggiare, non bada  a'  colori  salta  le  gradazioni,  va
diritto e spedito, cercando l'effetto nelle cose, più che nel modo di  dirle.  E
le cose, non importa se di lui o di  altri,  contengono  spesso  concetti  molto
originali, come Nerino, lo studente portoghese, che fa le sue confidenze amorose
al suo maestro Brunello, ch'egli non sa essere il marito della  sua  bella  onde
Molière trasse il pensiero della sua Ecole des femmes; o l'asino che  co'
suoi vanti la fa al leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la  fanno  a'
dottori fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio
che va in cerca della morte; o le nozze del diavolo. Il successo fu  grande:  si
fecero in poco tempo del libro più di  venti  edizioni;  e  di  molte  favole  è
rimasta anche oggi memoria. L'osceno, il ridicolo, il fantastico era il cibo del
tempo: poi quella forma  scorretta,  imperfetta,  ma  senza  frasche  e  spedita
soprattutto nel vivo del racconto, dovea rendere il libro di più facile  lettura
alla moltitudine  che  non  gli  Ecatommiti  del  Giraldi  e  le  novelle
dell'Erizzo e del Bargagli, di una forma artificiata e noiosa.  Ma  il  successo
durò  poco.  Anche  la   Filenia   del   Franco   fu   tenuta   pari   al
Decamerone, e dimenticata subito. Manca allo Straparola il  calore  della
produzione, e ti  riesce  prosaico  e  materiale  anche  nel  più  vivo  di  una
situazione comica, o nel maggiore allettamento dell'oscenità,  o  ne'  movimenti
più curiosi del fantastico, come di uomini  uccisi  e  rifatti  vivi.  Narra  il
miracolo con quella indifferenza,  che  i  casi  quotidiani  della  vita;  e  mi
rassomiglia un uomo divenuto per la lunga consuetudine frigido e ottuso, che non
ha più passioni, ma vizi. Chi vuol vederlo, paragoni le sue «Nozze del  diavolo»
col Belfegor  del  Machiavelli,  argomento  simile,  e  il  suo  studente
vendicativo col famoso studente del Boccaccio. E vedrà che a lui manca non  meno
il talento comico che la virtù informativa. Ma  che  importa?  Non  mira  che  a
stuzzicare la sensualità e la curiosità, e chi si contenta gode.  E  per  meglio
avere l'uno e l'altro intento, aggiunge al racconto un enigma o  indovinello  in
verso, osceno di apparenza, e spiegato poi altrimenti che suona a  prima  udita.
Così oggi i cervelli oziosi per fuggir la noia  fanno  o  sciolgono  sciarade  e
rebus. Il fantastico era il  cibo  de'  cervelli  oziosi,  non  meno  che
l'enigma, o i tanti poemi cavallereschi. L'arte era divenuta mestiere; e pur  di
sentire fatti nuovi e strani, non si cercava altro. Ristorare il  fantastico  in
mezzo a una borghesia scettica  e  sensuale  era  vana  impresa.  Nelle  antiche
leggende senti il miracolo, e senti  il  maraviglioso  ne'  romanzi  antichi  di
cavalleria: ora manca l'ingenuità e la semplicità, e l'arte non  può  riprodurre
il fantastico che con un ghigno ironico, volgendolo in  gioco.  Perciò  la  sola
novella fantastica che si possa chiamare lavoro d'arte è il Belfegor,  il
diavolo accompagnato dal sorriso machiavellico.  Cosa  ha  di  vivo  il  diavolo
borghese e volgare dello Straparola o la sua Teodosia, che è la  leggenda  messa
in taverna?
        Se una ristorazione del fantastico non era possibile, come poteva aversi
una ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con la  stessa
intonazione del Decamerone, anzi della Fiammetta.  E  sono  quello
che potevano essere, fior di rettorica. D'immaginazione ce n'era  molta,  ma  di
sentimento non ce n'era favilla. Cosa di eroico o  di  affettuoso  o  di  nobile
poteva essere tra quelle corti e  quelle  accademie,  ciascuno  sel  pensi.  Chi
desideri esempli di questa rettorica, vegga  la  Giulietta  di  Luigi  da
Porto, o nel Bandello i monologhi di Adelasia e Aleramo, o nell'Erizzo i lamenti
di re Alfonso sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i  romani  ci  voleva  la
vista del sangue, a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al
più atroce e al più volgare. La figliuola di re Tancredi  nel  Boccaccio  è  una
nobile creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del  Bandello  o  l'Orbecche
del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono  e  non  ti
agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti  elegantissimo  è
il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche dove è in  fondo  cosa  da
ridere, come è  la  sua  Lavinella,  situazione  comica  in  forma  seria,  anzi
oratoria.
        Ciò che rimane di vivo in questa letteratura non e il fantastico  e  non
il tragico, ma un comico, spesso osceno e di bassa lega e superficiale, che  non
va al di là della caricatura e talora è più nella  qualità  del  fatto  che  ne'
colori. Alcuna volta ci è pur sentore  di  un  mondo  più  gentile,  soprattutto
nell'Erizzo e nel Bandello, come è la novella di costui della reina Anna; ma  in
generale, come nelle corti anche più civili sotto forme decorose e amabili giace
un fondo licenzioso e grossolano, la novella è  oscena  e  plebea  in  contrasto
grottesco con uno stile nobile e maestoso, puro artificio meccanico. È un comico
che a forza di ripetizione si esaurisce  e  diviene  sfacciato  e  prosaico.  Il
capitolo muore col Berni e la novella col Lasca.
        È il Decamerone in putrefazione. Il difetto  del  capitolo  è  di
cercare i suoi mezzi comici più nelle combinazioni astratte  dello  spirito  che
nella rappresentazione viva della realtà. È lo stesso difetto del  petrarchismo:
il Petrarca del capitolo è  Francesco  Berni,  e  i  petrarchisti  sono  i  suoi
imitatori, che a forza di cercar rapporti e combinazioni escono  in  freddure  e
sottigliezze. Il difetto della novella  è  la  sensualità  prosaica  e  la  vana
curiosità: senza ideali e senza colori, e  in  una  forma  spesso  pedantesca  e
sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un difetto comune,  la  superficialità,
quel lambire appena la esteriorità dell'esistenza e non  cercare  più  addentro,
come se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e non
ci fosse natura. Essendo tutto un giuoco d'immaginazione, a cui rimane  estraneo
il cuore e la mente, la forma comica nella quale si  dissolve  è  la  caricatura
degradata sino alla pura buffoneria. Lo  spirito  volge  in  giuoco  anche  quel
giuoco d'immaginazione, intorno a cui si  travagliarono  con  tanta  serietà  il
Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Poliziano,  il  Pulci,  il  Berni,  il
Lasca, divenuto nel Furioso  il  mondo  organico  dell'arte  italiana,  e
traduce l'ironia ariostesca in aperta buffoneria, avvolgendo  in  una  clamorosa
risata tutti gl'idoli dell'immaginazione, antichi e nuovi. La nuova arte, uscita
dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del  medio  evo  e  rimasta  nel
vuoto, innamorata di solo se stessa, come Narciso, va a morire per  mano  di  un
frate sfratato, di Teofilo Folengo: muore ridendo di tutto e di  se  stessa.  La
Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo negativo  e  comico  dell'arte
italiana. Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni specie  di  contenuto  è
messa in giuoco, e l'arte cacciata anche dal regno dell'immaginazione si  scopre
vuota forma, un nuovo contenuto si va  elaborando  dall'intelletto  italiano,  e
penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo interiore,  ricrea  una  fede
non più religiosa, ma scientifica, cercando  la  base  non  in  un  mondo  sopra
naturale e sopra umano, ma  al  di  dentro  stesso  dell'uomo  e  della  natura.
Pomponazzi,  negando  l'esistenza  degli  universali,  rigettando  i   miracoli,
proclamando mortale l'anima, e spezzando ogni legame tra il cielo  e  la  terra,
pose obbiettivo della scienza l'uomo e la natura. Platonici e  aristotelici  per
diverse vie proclamavano l'autonomia della scienza, la  sua  indipendenza  dalla
teologia e dal dogma.  La  Chiesa  lasciava  libero  il  passo  a  tutta  quella
letteratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa, della  quale  era
esempio la corte  di  Leone,  ma  non  potea  veder  senza  inquietudine  questo
risvegliarsi  dell'intelligenza   nelle   scuole.   Il   materialismo   pratico,
l'indifferenza  religiosa  era  spettacolo  vecchio;  ma  la   spaventava   quel
materialismo alzato a dottrina, e l'indifferenza divenuta aperta negazione,  con
quella ipocrita distinzione di cose vere secondo la  fede  e  false  secondo  la
scienza. Il concilio lateranense testimonia la sua  inquietudine.  Leone  decimo
proclama eresia quella distinzione, proibisce l'insegnamento  di  Aristotile,  e
sottopone i libri alla censura ecclesiastica. A che pro? Il materialismo era  il
motto del secolo. Leone decimo stesso era un materialista, come fu  Lorenzo  con
tutto il suo platonismo. Nè altro erano il Pulci, il Berni, il Lasca e gli altri
letterati,  ancorachè  si  guardassero  di  dirlo.  Alcuni   manifestavano   con
franchezza la loro opinione, come Lazzaro  Bonamico,  Giulio  Cesare  Scaligero,
Simone Porzio, Andrea Cesalpino, Speron Speroni, e quel professore Cremonino  da
Cento che fe' porre sulla sua tomba: «Hic iacet Cremoninus totus». Quando
gli studenti avevano innanzi un professore nuovo, e lo vedevano  nicchiare,  gli
dicevano subito: - Cosa pensate dell'anima?
        Quando il materialismo apparve, la società era  già  materializzata.  Il
materialismo non fu il principio, fu il risultato. Fino a quel  punto  il  dogma
era stato sempre la base della filosofia e il suo passaporto. Era un  sottinteso
che la ragione  non  poteva  contraddire  alla  fede,  e  quando  contraddizione
appariva, si cercava il compromesso, la conciliazione. Così poterono  lungamente
vivere insieme Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta  la  coltura  era  unificata
nell'arte e nel pensiero, e non si cercava con quanta logica e  coesione  e  con
quanta buona fede. In nome della coltura si paganizzavano  le  forme  cattoliche
anche da' più pii, come ne' loro poemi sacri facevano il Sannazzaro e  il  Vida;
si paganizzò anche san Pietro, e paganizzava anche Leone  decimo.  Tutto  questo
era  arte,  era  civiltà,  e  non  solo  non  era  impedito,  anzi  promosso   e
incoraggiato; farvi contro non si poteva senza aver taccia di barbaro e incolto.
E si tollerava pure Pasquino, voglio dire quella buffoneria universale,  le  cui
maggiori spese le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
        In quella corruzione così vasta, soprattutto nel clero, era il  caso  di
dire: «petimusque  damusque  vicissim»;  e  tutti  ridevano,  e  primi  i
beffati. Di cose di religione non si parlava, e quando era il caso, le si faceva
di berretto, se ne osservavano le forme e il linguaggio per l'antica  abitudine,
senza darvi alcuna importanza.  Sotto  il  manto  dell'indifferenza  ci  era  la
negazione. In quel vuoto immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come
coltura e l'arte come arte. Ed era appunto la negazione che  appariva  nell'arte
sotto forma comica, e formava il suo contenuto. Che cosa era quell'arte? Era  il
ritratto dello spirito italiano. Era la contemplazione  di  una  forma  perfetta
nella indifferenza o negazione del contenuto. La società  vagheggiava  nell'arte
se stessa.
        Ma era una società spensierata e  accademica,  che  non  si  era  ancora
guardata al di dentro, non si avea fatto il suo esame di coscienza. E quando per
la prima volta gitta l'occhio entro di sè e domanda: -  Che  sono  dunque?  Onde
vengo? Ove vado? - La risposta non poteva essere altra che questa: - Sono corpo:
vengo dalla terra e torno alla terra,  l'«alma  parens»,  la  gran  madre
antica. - Questa risposta dapprima fa rabbrividire: sembra una scoperta, ed è un
risultato. E invade le università e si attira i  fulmini  del  concilio.  Zitto!
Grida la borghesia gaudente e spensierata, che non volea esser turbata  nel  suo
alto sonno. E la cosa rimase lì. «Intus ut libet, foris ut moris», diceva
Cremonino. Credete come volete, ma parlate come parlano. E le audacie del  Valla
e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de' baccanali. Ci era la cosa, ma  non
si voleva la parola. Materialismo era in tutto, nella vita, nelle lettere, nelle
sue applicazioni alla morale, alla politica, all'uomo e alla natura. Ma  non  si
chiamava materialismo. Si chiamava coltura, arte, erudizione, civiltà, bellezza,
eleganza: ipocrisia in alcuni, in altri corta intelligenza. Così si viveva tutti
in buon accordo e allegramente, e quando veniva la bile  ci  era  lo  sfogatoio:
permesso di dir male de' preti e anche del papa,  e  di  abbandonarsi  a  tutt'i
piaceri corporali, andando a messa, facendosi il segno della  croce  e  gridando
contro gli eretici, e specialmente contro i signori luterani  che  con  le  loro
malinconie teologiche minacciavano il mondo di una nuova barbarie. Pigliare  sul
serio la teologia! Questo per i nostri letterati era un tornare indietro di  due
secoli.
        Fu appunto in quel tempo che Lutero,  spaventato  come  Savonarola  alla
vista di così vasta corruttela italiana, proclamò la Riforma e regalò  al  mondo
una teologia purgata ed emendata. Se innanzi  al  papato  fu  un  eretico,  alla
borghesia italiana apparve un barbaro, come  Savonarola.  E  in  verità  la  sua
teologia era in una vera contraddizione con la civiltà italiana, avendo per base
la reintegrazione dello spirito  e  l'indifferenza  delle  forme,  cioè  a  dire
negando quella sola divinità che era rimasta viva nella coscienza  italiana,  il
culto della forma e dell'arte. Una riforma religiosa non era più possibile in un
paese coltissimo, avvezzo da lungo tempo a  ridere  di  quella  corruttela,  che
moveva indignazione in Germania e che avea già cancellato nel  suo  pensiero  il
cielo dal libro dell'esistenza. L'Italia avea già valica l'età teologica  e  non
credeva più che alla scienza, e dovea stimare i Lutero  e  i  Calvino  come  de'
nuovi scolastici. Perciò la  Riforma  non  potè  attecchire  fra  noi  e  rimase
estranea  alla  nostra  coltura,  che  si  sviluppava  con  mezzi  suoi  propri.
Affrancata già dalla teologia, e abbracciando  in  un  solo  amplesso  tutte  le
religioni e tutta la coltura, l'Italia del Pico e del Pomponazzi,  assisa  sulle
rovine del medio evo, non  potea  chiedere  la  base  del  nuovo  edificio  alla
teologia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.
        Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la  società  che
guarda in sè e s'interroga e si conosce; è la negazione più profonda  del  medio
evo, e insieme l'affermazione più chiara de'  nuovi  tempi;  è  il  materialismo
dissimulato come dottrina, e ammesso nel  fatto  e  presente  in  tutte  le  sue
applicazioni alla vita.
        Non bisogna dimenticare che la nuova civiltà  italiana  è  una  reazione
contro il  misticismo  e  l'esagerato  spiritualismo  religioso,  e,  per  usare
vocaboli propri, contro l'ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo:  ciò  che
dicevasi il medio evo. La reazione si presentò da una parte come dissoluzione  o
negazione: di che venne l'elemento comico o negativo, che dal  Decamerone
va sino alla Maccaronea. Ma insieme ci era un lato positivo, ed  era  una
tendenza a considerare l'uomo e la natura in sè  stessi,  risecando  dalla  vita
tutti  gli  elementi  sopraumani  e  soprannaturali:  un   naturalismo   aiutato
potentemente dal culto de' classici e dal progresso  dell'intelligenza  e  della
coltura. Onde venne quella tranquillità ideale della  fisonomia,  quello  studio
del reale e  del  plastico,  quella  finitezza  dei  contorni,  quel  sentimento
idillico della natura e dell'uomo, che diè nuova vita alle arti dello  spazio  e
che senti ne' ritratti dell'Alberti, nelle Stanze, nel  Furioso  e
fino negli scherzi del Berni. Questo  era  il  lato  positivo  del  materialismo
italiano, un andar più dappresso al reale ed alla esperienza, dato bando a tutte
le nebbie teologiche e scolastiche, che parvero astrazioni.  Il  pensiero  o  la
coscienza di questo mondo nuovo e in quello che negava e in quello che affermava
è il Machiavelli. Il concetto del Machiavelli è questo, che bisogna  considerare
le cose nella loro verità «effettuale», cioè come son porte  dall'esperienza  ed
osservate dall'intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo e la  base
dottrinale del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti  rivoluzionario  che
non è quel ritorno al puro spirito della Riforma e  che  sarà  la  leva  da  cui
uscirà la scienza moderna.
        Questo  concetto  applicato  all'uomo  ti  dà  il  Principe  e  i
Discorsi,  e  la  Storia  di  Firenze  e   i   Dialoghi   sulla
milizia. E il Machiavelli non ha bisogno  di  dimostrarlo:  te  lo  dà  come
evidente. Era la parola del secolo ch'egli trovava e che tutti riconoscevano.
        Così nasce la scienza dell'uomo, non quale può o dee essere, ma quale è;
dell'uomo non solo come individuo, ma come essere  collettivo,  classe,  popolo,
società, umanità. L'obbiettivo della scienza diviene la conoscenza dell'uomo, il
«nosce te ipsum», questo primo motto della scienza quando si emancipa dal
soprannaturale e pone la sua indipendenza. Tutti gli universali  del  medio  evo
scompariscono. La «divina commedia» diviene la «commedia umana» e si rappresenta
in terra: si chiama storia, politica, filosofia della storia, la scienza  nuova.
La scienza della natura si sviluppa più tardi. Non si crede più al miracolo,  ma
si crede ancora all'astrologia. Attendete ancora un  poco,  e  il  concetto  del
Machiavelli applicato alla natura  vi  darà  Galileo  e  l'illustre  coorte  dei
naturalisti.
        Non è il caso di disputare sulla verità o falsità delle dottrine. Non fo
una storia e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere. Ed è
mio obbligo notare ciò che si move nel pensiero italiano; perchè quello  solo  è
vivo nella letteratura che è vivo nella coscienza.
        Da quel concetto esce non solo la scienza moderna, ma  anche  la  prosa.
Come nella scienza ci aveva ancora molta  parte  l'immaginazione,  la  fede,  il
sentimento; così nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici, poetici,
chiusi  in  quella  forma  convenzionale  boccaccevole,   che   dicevasi   forma
letteraria, ed era già divenuta maniera, un vero meccanismo. Ma  il  Machiavelli
spezza questo involucro, e crea il modello ideale  della  prosa,  tutta  cose  e
intelletto,  sottratta  possibilmente  all'influsso  dell'immaginazione  o   del
sentimento, di una struttura solida sotto un'apparente sprezzatura.
        E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio  della  vita,  e
perciò dell'arte. L'uomo e la natura hanno nel medio evo la loro base  fuori  di
sè, nell'altra vita; le loro forze motrici  sono  personificate  sotto  nome  di
universali ed hanno un'esistenza separata. Questo concetto della vita genera  la
Divina Commedia. La macchina della storia è fuori della storia ed è detta
«la provvidenza». Questa macchina è nel mondo boccaccesco il caso o la  fortuna.
Non ci è più la provvidenza, e non ci è ancora la scienza. Il maraviglioso non è
più detto miracolo, anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto intrigo,  nodo,
accidente straordinario. Le passioni, i caratteri, le idee non  sono  forze  che
regolano il mondo, sopraffatte da questo nuovo fato, la volubile  e  capricciosa
fortuna. Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e contro la  provvidenza,  e
cerca nell'uomo stesso le forze e le leggi che lo conducono. Il suo  concetto  è
che il mondo è quale lo facciamo noi, e che  ciascuno  è  a  se  stesso  la  sua
provvidenza e la sua fortuna. Questo  concetto  dovea  profondamente  trasformar
l'arte.
        La poesia  italiana  usciva  dal  medio  evo  libera  da  ogni  ingombro
allegorico e scolastico, ma insieme vuota di ogni contenuto, forma pura. Il  suo
vero contenuto  è  negativo,  cioè  a  dire  è  il  ridere  del  suo  contenuto,
considerarlo come un giuoco d'immaginazione, un esercizio dello spirito.  Questo
doppio elemento dell'arte è detto dal Cecchi  il  «ridicolo»  e  il  «grupposo»,
intendendo per grupposo il nodo, l'intreccio, la varietà e novità de'  casi.  Di
questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti  dà  il  Machiavelli  splendido
esempio nel suo Belfegor. La novella, il romanzo,  la  commedia  sono  il
teatro naturale di questa poesia, la Divina Commedia dell'arte nuova.  Ma
nel concetto del Machiavelli la vita non è una farsa della provvidenza, e non  è
il giuoco capriccioso della fortuna, ma è regolata da forze o da leggi  umane  e
naturali. Perciò la  base  dell'arte  non  è  l'avventura  o  l'intrigo,  ma  il
«carattere»; e se volete vedere quello che sarà, guardate quali sono gli  attori
e quali le forze che mettono in giuoco. L'arte  non  può  starsi  contenta  alla
semplice esteriorità, e presentare gli avvenimenti come un accozzo  fortuito  di
casi straordinari, ma dee forare la superficie e cercare al di dentro  dell'uomo
quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali. Così l'arte non è un vano  e
ozioso gioco d'immaginazione, ma è rappresentazione seria della vita  nella  sua
realtà non solo esteriore, ma interiore. E quest'arte, che  cerca  la  sua  base
nella  scienza  dell'uomo,  ti  dà  la  Mandragola  e  la  Storia   di
Firenze, e più tardi la Storia d'Italia del  Guicciardini  e  i  suoi
Ricordi.
        A questo modo si realizza questa grand'epoca, detta  il  «Risorgimento»,
che dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del  secolo  decimosesto.  Da
una parte, mancati tutti gl'ideali, religioso, politico, morale, e  non  rimasta
nella coscienza altra cosa salda che  l'amore  della  coltura  e  dell'arte,  il
contenuto non ha alcun valore in se  stesso  e  diviene  una  materia  qualunque
trattata a libito dall'immaginazione, che ne fa la sua creatura e  spesso  anche
il suo gioco, un gioco che ha la sua idealità nell'ironia ariostesca, e trova la
sua dissoluzione nella caricatura della Maccaronea. Mentre l'arte produce
i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura arte, un nuovo
contenuto si forma e penetra nella  coscienza,  uno  studio  dell'uomo  e  della
natura  in  sè  stessi,  che  cerca  la  sua   base   nell'esperienza,   e   non
nell'immaginazione e non nelle vane cogitazioni. Questo senso profondo del reale
ti crea la scienza e la prosa, e  ti  segna  nella  Mandragola  un  nuovo
indirizzo dell'arte.
        Se dunque vogliamo studiar  bene  questo  secolo,  dobbiamo  cercarne  i
segreti ne' due grandi, che ne  sono  la  sintesi,  Ludovico  Ariosto  e  Nicolò
Machiavelli.





XIII L' ORLANDO FURIOSO

Ludovico nacque nello stesso  anno  che  Michelangiolo,  il  1474.  Machiavelli,
Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di  questa
età letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di  anni:
il  Machiavelli  nel  sessantanove,  il  Bembo  nel  settanta,  il  Guicciardini
nell'ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.
        Nel novantotto, proprio l'anno che il Machiavelli era eletto  segretario
del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa  le  sue  due  prime  commedie.
L'uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne' suoi viaggi in  Italia  e
in Europa attingeva quella scienza dell'uomo e quella  pratica  del  mondo,  che
dovea fare di lui la coscienza e il  pensiero  del  secolo;  l'altro  faceva  il
letterato in corte, e scrivea  sonetti,  canzoni,  elegie,  capitoli,  commedie,
tutto nel mondo della sua immaginazione.
        Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi;
finchè, avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e
tutto pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò  a
far versi  latini  e  italiani,  come  tutti  facevano,  elegie,  canzoni,  odi,
epigrammi, madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.
        Nel '94, quando Carlo ottavo scendeva in  Italia,  il  giovane  Ludovico
scrive un'ode oraziana a Filiroe, nome  ch'egli  appicca  ad  una  contadinella.
Carlo minaccia

      ...  ...  asperi          furore  militis  tremendo,     
turribus ausoniis ruinam. 

E il giovane sdraiato sull'erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:

     Rursus quid hostis prospiciat sibi,       me nulla  tangat  cura,
sub arbuto       iacentem aquae ad murmur cadentis...

Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita: e che importa?  sol  che
possa andar pe' campi, seguire Lida, Licori, Filli, Glaura,  e  cantare  i  suoi
amori:

     Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris        Lyda  modo
meus est, est modo Phyllis amor...

     Antra mihi placeant potius  montesque  supini,          vividaque
irriguis gramina semper aquis ...      Dum vaga mens aliud poscat, procul
este Catones ...

E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una  sua  amata  di
Reggio, De Iulia,  una  cantante,  De  Glycere  et  Lycori,  De
Megilla, e fino De catella puellae,  imitazione  felice  di  Catullo.
Luigi decimo-secondo conquista il ducato di  Milano,  chiamatovi  da  Alessandro
sesto e che importa,

... ... si furor, Alpibus          saevo  flaminis  irmpetu    
... ... iam spretis, quatiat celticus ausones?

Che importa servire a re gallo o latino,

si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?       Barbaricone esse
est peius sub nomine, quam sub  moribus?

Tutti barbari e tutti  tristi.  E  il  giovane,  esclamando:  «Improba  secli
conditio!» e lamentando «clades et Latii interitum»,

     nuper ab occiduis illatum gentibus,  olim          pressa  quibus
nostro colla fuere iugo, 

svolge l'occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio  e  Catullo.  L'anno
appresso alla calata di Carlo  ottavo  l'Ariosto  recita  l'orazione  inaugurale
degli studi nel duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca
in esametri. Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio  del
Petrarca. Nel movantatre a diciannove anni, scrive un'elegia  per  la  morte  di
Leonora d'Aragona, moglie del  duca  di  Ferrara.  Nell'introduzione  si  scopre
ancora lo studente e il dilettante:

        Rime disposte a lamentarvi sempre,
        accompagnate il miserabil core
        in altro stil che in amorose tempre:
        che or giustamente da mostrar dolore
        abbiamo causa, ed è sì grave il danno
        che appena so s'esser potria maggiore.

I suoi amori in italiano sono  platonici,  alla  petrarchesca;  in  latino  sono
sensuali, all'oraziana. In latino tiene  Megilla  tra  le  braccia,  e  non  può
credere a' suoi occhi, e dice:

An haec vera Megilla       cuius detineor  sinu?          Haec,
haec vera mea est; nil modo fallimur,        mi  anceps  anime:  en  sume
cupita iam       mellita oscula, sume        expectata  diu  bona.


Ma in italiano Megilla è «l'alta beltade», che «col suo beato  lume  illustra  e
imbianca l'occaso», e l'amante e «nel dir lento e restio» e non descrive, perchè
«chi descriver puote a pieno il sole?».

        Non è valore uman che tanto ascenda.

Se avesse  potuto  apprendere  il  greco,  Anacreonte  o  Teocrito  gli  avrebbe
instillata nell'immaginazione un'altra fraseologia: perchè  tutto  questo  è  un
gioco di frasi. Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:

        Che 'l saper nella lingua degli Achei
        non mi reputo onor, s'io non intendo
        prima il parlar de li latini miei.
        Mentre l'uno acquistando, e differendo
        vo l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,
        poi che mi porge il crine ed io nol prendo.

Morì il padre, ch'egli aveva soli  ventott'anni,  e  lo  lasciò  tra  sorelle  e
piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare Omero nel libro de' conti:

        Mi more il padre, e da Maria il pensiero
        dietro a Marta bisogna ch'io rivolga;
        ch'io muti in squarci ed in vacchette Omero.

Nè potè avere più agio e modo d'intendere «nella propria lingua dell'autore  ciò
che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse  Euripide,
Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e  sì  faconde»;
perchè venuto in corte fu mandato qua e là, oppresso  dal  giogo  del  cardinale
d'Este:

        E di poeta cavallar mi feo:
        vedi se per le balze e per le fosse
        io potevo imparar greco o caldeo.

Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una  commedia  in  prosa,
scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un  miracolo  a
Ferrara, appunto perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in
latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le
regole dell'arte poetica e con le  forme  di  Plauto  e  Terenzio.  E  non  solo
s'imitava quel meccanismo, ma si  riproducea  lo  stesso  mondo  comico,  servi,
parasiti, cortigiane, padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel
modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel  mondo
di Plauto, e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la società  in  mezzo  a
cui si trova. La sua commedia è  una  ricostruzione,  non  è  una  creazione,  e
intento al meccanismo, si lascia fuggire le più  belle  situazioni  e  contrasti
comici.  Nel  Bibbiena  e  nel  Lasca  ci  è  una  certa  vita  che  viene   dal
Decamerone, non so che licenzioso e  buffonesco,  conforme  allo  spirito
comico, quale s'era sviluppato a Firenze, e si sentiva nel Lasca  e  nel  Berni,
segretario del Bibbiena. Ma l'Ariosto vive fuori di questo  ambiente,  e  in  un
mondo tutto di erudizione, e quando vuol essere faceto,  ti  riesce  grossolano.
Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta  a
disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed
è ne' viluppi, negl'intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia,
in un imbroglio drammatico, che spesso stanca  l'attenzione.  Ma  l'intrigo  non
basta a sostenere l'interesse, quando i caratteri non sieno  bene  sviluppati  e
l'intrigo non si trasformi in  situazione  comica.  Trappola,  Volpino,  Nebbia,
Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall'intreccio esce alcuna scena
fondamentale, dove si raccolga l'interesse. Più tardi  scrisse  altre  commedie,
intestatosi a  farle  in  versi  sdruccioli,  per  rendere  l'imitazione  latina
perfetta, parendogli che quel metro rispondesse  a  capello  al  giambo.  Nè  in
questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce  meglio
la commedia, ancorchè il  soggetto  alcuna  volta  potesse  convenire  a  quella
società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza più. Un
negromante o astrologo che fa mestiere  di  sua  arte,  e  con  sue  bugie  cava
quattrini da' gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora  da  tutt'i
novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete
di Varlungo o frate Cipolla: allora la  parte  di  scroccone  e  giuntatore  era
rappresentata dall'astrologo. Il nome  era  mutato:  il  motivo  comico  era  lo
stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci
si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l'ambiente di Firenze, dove
lo speziale arguto continua  il  Sacchetti,  il  Pulci,  il  Magnifico.  Ma  nel
Negromante ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto
del padrone, rappresentata da chi non vi sta in  mezzo  e  non  l'intende  e  la
studia su' libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie  più  che  uomini,  preda
facile de' birboni che ci vivono intorno. Sono essi non  il  principale,  ma  il
fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si  esercita  la  malizia  de'
servi e degli avventurieri. Concetto profondo, se l'Ariosto l'avesse trovato lui
e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione  e  senza  alcun  senso,
come se fosse cosa naturalissima questo  mondo  colto  al  rovescio,  sì  che  i
servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i  loro  tutori  e  salvatori,
come Fazio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante.  Costui,
che è il protagonista, non è proprio un astrologo, com'è nel Lasca,  e  come  il
prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone  matricolato,  che  fa  l'astrologo
senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall'astrologia messa
in burla: qui l'astrologia ci sta per  comparsa,  nè  da  essa  escono  i  mezzi
d'azione. Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che
mentre vuol farla a' padroni è burlato da' servitori, il concetto  sarebbe  così
spiritoso, com'è nell'astrologo del Lando, di cui  si  mostra  più  sapiente  un
contadino, anzi l'asina del contadino. Ma qui l'astrologo  è  un  ignorantaccio,
che, come dice il Nibbio suo servo e confidente,  mal  sapendo  leggere  e  male
scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di
mago:

        e sa di queste e dell'altre scienzie
        che sa l'asino e il bue di sonar gli organi.

Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino  e  Nibbio
da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i servi, dall'altra.  Non  mancano  bei
tratti, che rivelano nell'autore un ingegno e uno  spirito  comico  non  comune.
Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si  beffa  del
negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che  l'accocca  a  tutti.  Cinzio
l'assicura gravemente che sa trasformare uomini e  donne  in  animali.  Risponde
Temolo:

        Si vede far tutto il dì, nè miracolo
        è cotesto . .
        Non vedete voi che subito
        un divien potestade, commissario,
        provveditore, gabelliere, giudice,
        notaio, pagator degli stipendii,
        che li costumi umani lascia, e prendeli
        o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?

 - Capisco - dice Cinzio. La poca esperienza che hai del  mondo  ti  fa  parlare
così. Ma non credi tu dunque che e' possa scongiurare gli spiriti?  -  E  Temolo
risponde:

        Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo
        nè meno crederei; ma li grandi uomini,
        e principi e prelati, che vi credono,
        fanno col loro esempio ch'io, vilissimo
        fante, vi credo ancora.

Questo tratto è stupendo d'ironia; è il popolano ignorante che col suo  naturale
buon senso si prende spasso de' grandi uomini.  Bella  situazione  drammatica  è
dove Nibbio, viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il  più  ricco,
domanda al negromante:

        Delle tre starne che in piè avete, ditemi,
qual mangerete? ASTROLOGO Vedraimi ir beccandole
        ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo
alla più  grassa,  e  tutta  divorarmela.  NIBBIO  Eccoven'una,  e  la  miglior:
mettetevi,
se avete fame, a piacer vostro a tavola. ASTROLOGO Chi è?  Camillo?  NIBBIO  Si.
ASTROLOGO Si ben; mangiarmelo
        voglio, che l'ossa non credo ci restino.

E questo Nibbio, quando vede  scoperte  le  magagne  dell'astrologo,  egli,  suo
servo, confidente e mezzano, gli dà il calcio dell'asino, e lo ruba e lo  pianta
lì. Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale  e  superficiale,  e  poco
studiato, e abborracciato nei  momenti  più  interessanti.  L'autore  vi  mostra
un'attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare.  Che
uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto in  un  monologo  di  Nibbio;  ma
quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto  al
di sotto dell'aspettazione.
        Ludovico era di coltura al di sotto de' tanti dotti di  quel  tempo,  ed
anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i  poeti,
gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre  un  utile  dal
nostro poeta, ne fece un «cavallaro», mandandolo  qua  e  là  in  suo  servigio.
Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto
con la sua famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno  di  speranza,  e
non ne cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze  per  commissione  della
corte ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in
una elegia scritta in quell'occasione:

        A veder pien di tante ville i colli
        par che 'l terren ve le germogli,
        come vermène germogliar suole e rampolli.
        Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
        fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
        non ti sarian da pareggiar due Rome.

Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè il cardinale  lo  abbia
tolto a' dolci  studi  e  a'  cari  amici  e  spintolo  in  quel  «rincrescevole
laberinto». Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il
nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare
il cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel  suo  corteggio,  questo
no:

        Io stando qui, farò con chiara tromba
        il suo nome sonar forse tanto alto,
        che tanto mai non si levò colomba.

E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in latino:

Quis patre invicto gerit Hercule fortius  arma?          Mystica  quis
casto castius Hyppolito? 

Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non poeta:

        Non vuol che laude sua da me composta
        per opra degna di mercè si pona:
        di mercè degno è l'ir correndo in posta...
        S'io l'ho con laude ne' miei versi messo,
        dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ozio:
        più grato fòra essergli stato appresso.

Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere de'  più  comici,  e
se, rappresentando un  mondo  convenzionale,  è  riuscito  nelle  commedie  poco
felice, è stato felicissimo dipingendo se  stesso  alla  buona  e  al  naturale.
Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre,  e  per
loro si acconcia a servitù, rodendo il freno. Il suo ideale  è  la  tranquillità
della vita, starsene a casa fantasticando e  facendo  versi,  vivere  e  lasciar
vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era  un  personaggio
idillico, non aveva ambizioni, non  curava  grandezze,  nè  onori;  «gli  sapeva
meglio una rapa» in casa sua che t«ordo o starna o porco  selvaggio  »all'altrui
mensa:

        E così sotto una vil coltre,
        come di seta o d 'oro ben mi corco.
        E più mi piace di posar le poltre
        membra, che di vantarle che agli sciti
        sien state, agl'indi, agli etiopi, e oltre.
        Degli uomini son vari gli appetiti;
        a chi piace la chierca, a chi la spada,
        a chi la patria, a chi li strani liti.
        Chi vuole andare attorno, attorno vada;
        vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:
        a me piace abitar la mia contrada.
        Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
        quel monte che divide e quel che serra
        l'Italia, e un mare e l'altro che la bagna.
        Questo mi basta: il resto della terra,
        senza mai pagar l'oste, andrò cercando
        con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.

Ma non è lasciato vivere, e ha tra' piedi il cardinale, e ne  sente  una  stizza
che sfoga con questo e con quello. Qualche  rara  volta  la  stizza  si  alza  a
indignazione e gli strappa nobili accenti:

        Apollo, tua merce, tua mercè, santo
        collegio delle muse, io non possiedo
        tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.
        ... ...
        Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro
        cardinal comperato avermi stima
        con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
        renderli, e tôr la libertà mia prima.
        ... ...
        Se avermi dato onde ogni quattro mesi
        ho venticinque scudi, nè sì fermi
        che molte volte non mi sien contesi,
        mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
        obbligarmi ch'io sudi e tremi, senza
        rispetto alcun ch'io muoia o ch'io m'infermi;
        non gli lasciate aver questa credenza:
        ditegli che più tosto ch'esser servo,
        torrò la povertade in pazienza.

Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d'animo o cupido d'onori, che imiti i
cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non  è
così altero, che rompa la catena una buona volta, e  lo  mandi  con  Dio.  Serve
borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia  nella  scala
de' Sancio Panza e de' don  Abbondio.  E  ne  nascono  situazioni  stupendamente
comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell'amico Leone. Come
lo accoglie bene! Ma sono parole, e  la  sera  gli  tocca  andare  a  cena  sino
all'insegna del Montone:

        Piegossi a me dalla beata sede:
        la mano e poi le gote ambe mi prese,
        e il santo bacio in amendue mi diede.
        Indi, col seno e con la falda piena
        di speme, ma di pioggia molle e brutto,
        la notte andai sin al Montone a cena.

Ora lo prende la  stizza,  e  si  sfoga  descrivendo  la  cupidità  ingorda  de'
cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: - E  quando  anche  avessi  le
ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? -

        Sia ver che d'oro m'empia la scarsella
        e le maniche e il grembo, e se non basta,
        m'empia la gola e il ventre e le budella;
        in che util mi risulta essermi stanco
        in salir tanti gradi? Meglio fora
        starmi in riposo, o affaticarmi manco.

Ora ha aria di scusare il papa. - Poerino! Parenti, cardinali  che  gli  diedero
«il più bel di tutt'i manti,» amici che lo aiutarono a tornare  a  Firenze,  dee
dar bere a tanti!

        Se fin che tutti beano, aspetto a trarme
        la volontà di bere, o me di sete,
        o secco il pozzo d 'acqua veder parme,
        meglio è star nella solita quiete.

        Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di  motivi  e  di
gradazioni, con una perfetta varietà di caratteri, e  con  un'ironia  tanto  più
pungente, quanto appare più ingenua e più  bonaria.  Lo  stesso  ho  a  dire  di
Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto stizzoso de' suoi amministrati, e
deplora il tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di  andare  in
Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua  vita  e
le sue contrarietà, i suoi studi. Ci si vede tra  la  stizza  quella  specie  di
rassegnazione delle anime fiacche,  che  significa:  -  Ma  che  ci  è  a  fare?
Pazienza! - E anche una specie di bonomia, che gli  fa  sciorinare  tutt'i  suoi
difetti, come fossero perle. Anche il Berni è così, e  si  fa  bello  della  sua
poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove  Ludovico
si dipinge tutto al naturale a semplice  sfogo  del  mal  umore,  e  meno  cerca
l'effetto e più l'ottiene. Si ride a spese degli altri e  anche  un  po'  a  sue
spese, e senza ch'egli se  ne  accorga  o  se  ne  guardi.  In  un  secolo  così
artificiato, dove per soverchio  studio  d'imitazione  o  per  conseguire  certi
effetti artistici si perdeva di  vista  la  realtà  della  vita,  Ludovico,  che
scrivendo commedie o canzoni  e  sonetti  petrarcheschi  si  pone  in  un  mondo
convenzionale, qui in presenza di se stesso, come  Benvenuto  Cellini,  crea  un
carattere comico de' più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma del
borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto  men  reo.  Ha  visto
Roma, ha visto Firenze, è  stato  in  Lombardia,  ma  il  suo  mondo  non  si  è
ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure  domestiche,  i  suoi
umori con la corte, i suoi piccoli fastidi,  i  suoi  amori,  le  sue  relazioni
letterarie, i suoi interessi privati sono tutta  la  sua  preoccupazione  allora
appunto che l'Italia era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua  agonia.  Il
borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le
allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo  «fuge  rumores».
Ci è in questo ritratto un po' di  Orazio,  ma  l'imitazione  è  qui  natura,  è
somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro  di  amarezza  e  di  disprezzo,
perchè senti che l'uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo,  inoffensivo,
ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il  capitolo  e
non la satira, perchè quell'uomo non si propone di berteggiare nè di  censurare,
ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l'amico. E  perciò  la  sua
narrazione è mescolata di  osservazioni,  facezie,  motti,  proverbi,  movimenti
stizzosi d'immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di  apologhi
graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico
del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e de'  Trionfi,
in  questa  profonda  trasformazione  letteraria  diviene  il  linguaggio  della
commedia, il metro  del  capitolo,  della  satira  e  della  epistola,  con  una
sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie  in  queste  epistole
dell'Ariosto, dove  la  terzina  è  profondamente  modificata,  e  prende  forma
pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
        La terzina, come il sonetto e la canzone, era  il  genere  letterario  e
tradizionale. L'ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne' rispetti e ne'
canti popolari,  era  il  linguaggio  de'  romanzi,  delle  narrazioni  e  delle
descrizioni, recata a perfezione dal Poliziano. Era  il  linguaggio  di  moda  e
popolare.  E  la  terzina  sarebbe  rimasta,  come  il  sonetto  e  la  canzone,
stazionaria e convenzionale, se il Berni e l'Ariosto non le avessero data  nuova
vita, traendola dal cielo, e dandole abito  conforme  al  tempo.  L'ottava  rima
cantava; la terzina discorreva, berteggiava,  satirizzava,  esprimeva  la  parte
prosaica e reale della vita.
        Fra tanti  fastidi  e  piccole  miserie  della  vita  Ludovico  scriveva
l'Orlando furioso, con molta noia  del  cardinale  Ippolito,  che  vedeva
sciupato in quelle «corbellerie»  il  tempo  destinato  al  suo  «servizio».  Il
Boiardo interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le
Alpi Carlo ottavo per andar «non so in che loco». Morì qualche anno dopo, quando
Ludovico  traduceva  Plauto  e  Terenzio  e  scriveva  commedie,   rappresentate
magnificamente nel teatro  di  corte.  La  gloria  dell'Omero  ferrarese  spronò
l'Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in  terza  rima  una  storia
epica de' fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro  alla  sua  larga
vena. E si risolse senz'altro di continuar la storia di  Orlando,  ripigliandola
là dove l'avea lasciata il Boiardo. Se ne  consigliò  col  Bembo,  il  quale  lo
esortò a scrivere il poema in latino. L'Orlando in latino! Il Bembo  non  capiva
cosa fosse l'Orlando innamorato. Ma lo capiva l'Ariosto,  che  di  quella
lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso  metro  e  le
stesse forme. Così cansò l'imitazione classica, e ricuperò la  libertà  del  suo
ingegno. Pose mano al lavoro nel  1505,  al  suo  trentunesimo  anno,  e  vi  si
seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a  emendarlo.  Si
racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che  a  metà
della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa  c'era  dunque
nella sua testa? C'era l'Orlando furioso. Niuna  opera  fu  concepita  nè
lavorata con maggior serietà.
        E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o
patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell'arte, ma il puro  sentimento
dell'arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi.  Ci  è  ne'  suoi  fini  il
desiderio un po' di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde  che
gli erano gradite, un po' di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa
d'Este. Ma sono fini che rimangono accessorii  naufragati  e  dimenticati  nella
vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per
lui fede, moralità e tutto, ed  è  il  culto  della  bella  forma,  la  schietta
ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia  dato  alle
sue creazioni l'ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e  genialità  di
lavoro uscì l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla  sola  divinità
riverita ancora in Italia, l'Arte.
        Ludovico e Dante furono i due vessilliferi  di  opposte  civiltà.  Posti
l'uno e l'altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono le  sintesi,
in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce  il  medio  evo;  in
Ludovico finisce il Rinascimento.
        Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu  più  poeta  che  artista:
all'artista nocquero  la  scolastica,  l'allegoria,  l'ascetismo,  e  la  stessa
grandezza ed energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo
vivo  e  appassionato  e  resistente,  perchè  l'arte  potesse   dissolverlo   e
trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme così dense e  fisse,  che
il suo sguardo  profondo  non  potè  sempre  penetrarvi  e  attingerlo  nel  suo
immediato.
        Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà  e
nelle sue forme. È sciolto  per  un  lavoro  anteriore  al  quale  egli  non  ha
partecipato. Già nel Petrarca spunta l'artista, che si foggia il mondo  del  suo
cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona  e
ne sente i tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di
quella realtà e di quelle forme. Già su  quel  mondo  è  passato  il  ghigno  di
Lorenzo, e il riso beffardo del Pulci, e già, vòto  il  tempio,  è  surta  sugli
altari la  nuova  divinità  annunziata  da  Orfeo,  tra'  profumi  eleganti  del
Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare, e niente  da  negare.  Trova  il
terreno già sgombro, e senza opera sua. Non è credente,  e  non  è  scettico;  è
indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte  nobile
e gentile, senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che  un
interesse molto mediocre. Buona pasta d'uomo,  con  istinti  gentili  e  liberi,
servo non fremente e ribelle, ma paziente e  stizzoso,  adempie  nella  vita  la
parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà,  con  intelligenza,  ma  senza
entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita
era per lui una distrazione, un accessorio, e la  sua  occupazione  era  l'arte.
Andate a vedere quest'uomo mezzano e borghese come  quasi  tutt'i  letterati  di
quel tempo, nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso,  e  che  non  sa
conquistare la libertà e non sa  patire  la  servitù,  e  tutto  rimpiccinito  e
ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le
sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e
compone. Il suo sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio.
Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l'artista.
        Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era
stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E  quando
ogni idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell'ideale di bontà e di  virtù
che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio  evo
il  poema  cavalleresco  e  l'idillio,  i  due  mondi  poetici  o   ideali   del
Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c'era,  ma  lontana  e
confusa per le date, per i luoghi e per i fatti; sicchè  veniva  alla  coscienza
non da tradizioni nazionali, ma dalla lettura di  romanzi  tradotti  o  imitati.
Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva  quel  non
so che signorile e gentile e umano che fu detto «cortesia»,  e  dove  spesso  si
davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e  que'  costumi.  Ci
era dunque nella coscienza italiana un  mondo  della  cortesia  contrapposto  al
mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la  gentilezza  de'  sentimenti;  un
mondo le cui leggi non erano derivate  dal  Vangelo,  nè  da  alcun  codice,  ma
dall'essere cavaliere o gentiluomo; e  anche  oggi  sentiamo  dire:  «in  fè  di
gentiluomo». Ci era il codice  dell'onore  e  dell'amore,  che  comprendeva  gli
obblighi del prode e leale cavaliere.  La  costanza  e  fedeltà  nell'amore,  la
devozione al suo signore, l'osservanza della parola, la difesa  de'  deboli,  la
riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel codice,  il  cui
complesso costituiva il così detto punto d'onore.  Questo  è  quel  mondo  della
cortesia  che  nel  Decamerone  apparisce  come  il  mondo   poetico   in
contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia
di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore
per finezza e fierezza di tempra.  Ma  nelle  corti  italiane,  come  quelle  di
Urbino, di Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un  barlume,  e
più nell'apparenza  che  nella  sostanza,  anzi  non  rado  avveniva  di  vedere
accoppiata con l'eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia,
come in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell'onore non  era  dunque
parte intima del carattere nazionale, e se allora  potevano  esserci  uomini  di
onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l'onore  fosse  regola
della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano  inclinati  a  dar  dello
sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle  leggi:  non
era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui  punta
è appena dissimulata nell'esclamazione del poeta:

        O gran bontà de' cavalieri antichi!

Non ci era dunque in  Italia  un  serio  sentimento  cavalleresco,  che  potesse
ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni  sentimento  religioso,
morale e politico, l'onore rimaneva senza base, e non avea  serbate  che  alcune
delle sue qualità superficiali, e più brillanti che solide, di cui  si  vede  il
codice nel Cortigiano del Castiglione.  Perciò  la  cavalleria,  come  la
mitologia e come il mondo religioso, non era fra noi altro che pura  leggenda  o
romanzo, un mondo d'immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per
la novità, la  varietà  e  la  straordinarietà  degli  accidenti.  Meno  il  suo
significato era serio, e più il  suo  contenuto  era  fantastico  e  licenzioso,
cancellati tutt'i  limiti  di  spazio  e  di  tempo  e  di  verisimiglianza.  Il
cantastorie non si proponeva altro  scopo  che  di  stuzzicare  la  curiosità  e
appagare l'immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco
le favole più assurde, e intrigandole fra  loro  in  modo  da  tener  sospesa  e
curiosa l'attenzione. Indi quelle  forme  di  narrare  bizzarre,  interrompendo,
intramettendo, ripigliando co' passaggi più  bruschi,  e  portando  l'incoerenza
fino nell'esterna orditura del racconto.
        Già  cominciava  a  spuntare  una  scienza  dell'uomo  e  della  natura.
L'invenzione della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di  Colombo  e  di
Amerigo Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli,
la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna,  la  Francia,
l'Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del mondo. Ma  le
conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il mondo  dell'uomo
e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un  sole
inviluppato di vapori, che non danno via a' suoi raggi.  E  i  vapori  erano  il
mondo popolare dell'immaginazione, che  suppliva  alla  scienza,  riempiendo  la
terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata  e  ammessa,  il
miracolo de' cristiani, il prodigio de' pagani, gl'incanti  de'  maghi  e  delle
fate, le imposture degli astrologi. L'uomo  stesso  in  mezzo  a  questa  natura
fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora  primitivo,
credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni  e  passioni,  determinato
all'azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione,  e  che  non  si
ripiega mai in sè, non si studia, non si  conosce,  è  tutto  superficie,  tutto
fuori nel tumulto e nel calore della vita.  Perciò  è  piuttosto  anch'esso  una
forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata e avvolta  nel  vario
gioco degli avvenimenti, povera di «carattere» e di «autonomia».
        Nondimeno l'Italia era il paese, dove l'uomo, come intelligenza, era più
adulto, più formato dall'educazione e dalla coltura, e  dove  il  soprannaturale
sotto tutte le sue forme non era ammesso che come  macchina  poetica,  un  gioco
d'immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra
il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la
cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.
        Ludovico era tutt'altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico.  E
quando prese a voler continuare la storia del Boiardo, era come un  pittore  che
dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa  o  una  fata,  pur  di
dipingerla bene. Molti chiedono: - Quale fu lo scopo dell'Ariosto? -  Non  altro
che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l'ira  di
Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la  redenzione  dell'anima;  l'Ariosto
non canta l'impresa di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non  gli
amori di Ruggiero e Bradamante: l'impresa di Agramante è per lui come  un  punto
fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo  scopo,  ma  il
tempo e il luogo nel quale si mostra  quel  mondo.  Egli  canta  le  donne  e  i
cavalieri, le cortesie e le  audaci  imprese  che  furono  «a  quel  tempo»  che
Agramante venne in Francia. Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non
episodi, appunto perchè non ci è un'azione unica e centrale, ma parti importanti
di quell'immensa totalità che dicesi mondo cavalleresco. L'unità  è  dunque  non
questa o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è  tutto  esso  mondo
nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo.  Se  l'impresa
di Agramante  fosse  non  il  semplice  materiale  dove  si  sviluppa  il  mondo
cavalleresco, ma una vera e seria azione, lo scopo del poema,  e  se  Orlando  e
Ruggiero fossero episodi in quest'azione, il  romanzo  sarebbe  così  difettoso,
come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a  volerla  giudicare  con  lo
stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l'azione  e  la  soperchiano!
Bella quest'azione che ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema  nella
storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il  quale
se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in
un centro, e volentieri e per lungo  tempo  se  ne  dimentica,  e  finita  essa,
continua  senza  di  essa!  Unità  d'azione  ed  episodi  sono   un   linguaggio
convenzionale venutoci da Aristotile e da  Orazio,  e  sarebbe  cosa  assurda  a
volerlo applicare al mondo  cavalleresco.  Perchè  l'essenza  di  quel  mondo  è
appunto la libera iniziativa dell'individuo, la mancanza di serietà, di  ordine,
e di persistenza in un'azione unica e principale, sì che le azioni  si  chiamano
avventure, e i  cavalieri  si  dicono  erranti.  Staccarsi  dal  centro,  andare
vagando, e cercare avventure, è lo spirito di un mondo  che  ripugna  così  alla
unità come alla disciplina. Volere organizzare  questo  mondo  co'  precetti  di
Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e la
varietà è unità. Come l'unità del mondo nella sua infinita  varietà  è  nel  suo
spirito o nelle sue leggi, così l'unità di questa vasta rappresentazione è nello
spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.
        La forza centripeta è assai fiacca  in  questo  mondo  della  libertà  e
dell'iniziativa individuale; e ci vuole  l'angiolo  Michele  o  il  demonio  per
tirare i cavalieri erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si  trovano  che
un par di volte, e appena una giornata; chè il  dì  appresso  corrono  di  nuovo
dietro a' fantasmi delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria,
e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante
non è un  fatto  religioso  o  politico,  ma  anch'essa  una  grande  avventura,
cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno  a
offesa e difesa con gli eserciti  Carlo  e  Agramante;  ma  i  loro  paladini  e
cavalieri, la più parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo,  e  Parigi
non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta  e  si
riposa, e di cui si vale il poeta per comporre  e  annodare  le  fila  in  certi
grandi intervalli. Perchè al di sopra di quest'anarchia cavalleresca  ci  è  uno
spirito sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente,
e sa stuzzicare la curiosità e non affaticare  l'attenzione,  cansare  in  tanta
varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l'imbroglio,  ricondurti  innanzi
improvviso personaggi e avvenimenti che credevi  da  lui  dimenticati,  e  nella
maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila,  egli  solo  tranquillo  e
sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal
nodo dell'ordito, è come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina  tutto
intorno. La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane  hanno
avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno è  maggiore,  Rinaldo,
Orlando, Brandimarte vanno via. Rinaldo corre dietro a  Baiardo,  Orlando  corre
dietro ad Angelica, e Brandimarte corre dietro ad Orlando.  Vi  trovate  già  in
pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi  corrono,
Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra  solo  e  vi  sparge  il
terrore. Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa  spenge  l'incendio,  e
Rinaldo guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a tempo e  disfà  i  pagani.
Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri  pagani  sono  anche  erranti.
Ferraù cerca Orlando, a  cui  ha  giurato  di  toglier  l'elmo;  Gradasso  cerca
Rinaldo, a cui  vuol  togliere  Baiardo;  Sacripante  cerca  Angelica;  Marfisa,
Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo  contendono  e  pugnano  tra  loro.  Riesce  al
demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che  li  tira  seco  a
Parigi. Giungono e disfanno i cristiani.  Ma  il  dì  appresso  si  raccende  la
discordia e vengono alle mani. Mandricardo  è  ucciso  da  Ruggiero;  Marfisa  e
Rodomonte lasciano per ira il campo;  e  chi  rimane?  Rinaldo  tra'  cristiani,
Ruggiero tra' pagani. Un duello tra Rinaldo  e  Ruggiero  dee  porre  fine  alla
guerra. Ma Agramante rompe i patti, è disfatto, la sua  flotta  è  dispersa  da'
nemici e da' venti, e vede di lungi la sua patria arsa da' cristiani.  Il  poema
cominciato a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte  di
Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l'anima  o  il
motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la  soddisfazione  degli
appetiti, l'amore, o il punto d'onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso il
cavaliere, quando  non  sia  sviato  e  impedito  da  forze  soprannaturali.  Il
soprannaturale è qui come semplice macchina o forza, senza personalità; e  forze
sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È un
soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio, e tali sono pure  le  spade  e
gli scudi incantati, e gli  anelli  fatati,  e  gl'ippogrifi,  e  la  lancia  di
Argalìa, e il corno di Astolfo, e simili  storie  viete  e  note,  che  lasciano
fredda l'immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale, che
ci si sta dentro come in un  mondo  ordinario;  quel  fantastico  in  permanenza
uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non  è
in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come  sono
gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo  mondo  soprannaturale  vive
una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie  sue  gradazioni,
dal mostro e dal gigante e dal  pagano  sino  al  cavaliere  cristiano,  il  cui
modello è nel codice di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso nella
comune barbarie.
        I motivi spirituali di questo mondo, l'amore, l'onore e il  maraviglioso
o lo spirito di avventura, sono dal  poeta  portati  a  quell'ultimo  punto  che
confina col ridicolo: l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia  Rodomonte;
il punto d'onore degenera in puntiglio e produce i più strani  effetti,  la  cui
immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico è  Rodomonte  nelle  sue
imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla  soglia  dell'inferno  e
nel paradiso terrestre e nel regno della Luna. Il mondo  cavalleresco  ne'  suoi
motivi interni è spinto all'ultima punta. Se l'elemento soprannaturale è fiacco,
e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace
persona poetica,  vivacissima  è  al  contrario  la  pittura  degli  avvenimenti
determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto  il  circolo  della
vita  nelle  sue  varie  e  contrarie  apparenze.  Vi  si  sviluppano   profonde
combinazioni estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce  moglie  di
un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella  Luna,
la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta,  e  Gradasso
fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana,  quando
le ha ottenute e si crede  felice,  è  ammazzato  da  Orlando.  Reminiscenza  di
Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di
Alcina, e riuscito il più perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi
combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito  e  il  contorno  a
questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come è la  morte  di  Zerbino  e  il
lamento d'Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie  di  Brandimarte,
le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le  scene  comiche  di  Martano,  di
Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto  abbia  un  aspetto  fuori
dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e dal sentire del suo tempo, pure
Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente  impressa  l'immaginazione,
che te lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una vita presente e reale. E  qui
è  il  maraviglioso  del  genio  ariostesco,   rappresentare   un   mondo   così
straordinario con semplicità e naturalezza.  Le  condizioni  di  esistenza  sono
veramente fantastiche sino all'assurdo; ma una volta  ammesse  quelle  basi,  il
movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si vegga con che  fine
gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a  perdere  il  senno,  con  che
scala intelligente è rappresentato il dolore di  Olimpia,  o  la  discordia  de'
pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi  ti  stanno  innanzi
vivi, e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi  son  divenuti  caratteri  comici
proverbiali,  come  Rodomonte,  Gradasso,  Sacripante,  Marfisa.  Il  poeta  non
s'intromette niente nella sua storia, e più che attore, è  spettatore  che  gode
alla vista di quel mondo, quasi non fosse il  mondo  suo,  il  parto  della  sua
immaginazione.  Indi  quella  perfetta  obbiettività  e  perspicuità  del  mondo
ariostesco, che è stata detta  chiarezza  omerica.  L'arte  italiana  in  questa
semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per  queste  due
qualità che l'Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico «artisti» e non
«poeti».  Non  dà  valore  alle  cose,  slegate  dalla  realtà  e   puro   gioco
d'immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno  vi  si
travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo  particolare,  che  non
tiri la sua attenzione, e non abbia le  sue  ultime  finitezze.  Appunto  perchè
l'interesse è  non  nella  cosa,  ma  nella  sua  forma,  la  maniera  sobria  e
comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai  quadri  finiti.  Ciò
che nel Decamerone ti dà il periodo,  qui  te  lo  dà  l'ottava,  di  una
ossatura perfetta, e congegnata a modo di un quadro col suo protagonista, i suoi
accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dà  una  serie,  di  cui  lascia  il
legame all'immaginazione: l'Ariosto ti dà un vero periodo,  così  distribuito  e
proporzionato che pare una persona. E l'effetto è non solo  in  quella  ossatura
materiale così solida e bene ordinata, ma  in  quell'onda  musicale,  in  quella
superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere all'anima insieme coi fatti i
loro  motivi  e  i  loro  affetti.  Nel  secolo  de'  grandi   pittori,   quando
l'immaginazione italiana mirava a dare  all'immagine  tutta  la  sua  finitezza,
l'Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia l'oggetto  finchè  non  ne  abbia
fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari, o
lusso di colori  e  di  accessorii:  non  ci  è  ombra  di  affettazione,  o  di
pretensione; ci è l'oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il  poeta
fissa l'esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata così  o  così
per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette, non  la  scruta,
non l'interroga, non cerca al di dentro, non  la  palpa,  non  la  maneggia  per
volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a  turbare  l'obbiettività
del suo quadro; nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci è  la  cosa
che vive, e si move, e non vedi chi la move,  e  pare  si  mova  da  sè!  Questa
sublime semplicità nella piena chiarezza della visione  è  ciò  che  il  Galilei
chiamava a ragione la «divinità» dell'Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle
grandi masse. La sua  vista  rimane  tranquilla  e  chiara  ne'  più  bruschi  e
complicati movimenti d'insieme. Indi è che dipinge duelli,  battaglie,  giostre,
feste, spettacoli, paesaggi,  castella,  con  quella  purezza  e  semplicità  di
disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non
ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata,  lisciata
e si vede l'intenzione dell'eleganza. Qui  la  superficie  è  così  naturalmente
piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere  altrimenti.  Pigliamo
ad esempio la rosa:

        Questa di verdi gemme s'incappella;
        quella si mostra allo sportel vezzosa;
        l'altra, che in dolce foco ardea pur ora,
        languida cade e il bel pratello infiora.

Qui la rosa  m'ha  aria  di  una  fanciulla  civettuola,  che  prende  questa  o
quell'attitudine  per  parer   vezzosa.   L'«incappellarsi»,   lo   «sportello»,
quell'«ardere in dolce foco», sono immagini appiccatele da immaginazione  umana.
È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all'uomo. Ci si vede
il lavoro dello spirito, che l'orna e la vezzeggia, la rosa  passata  attraverso
lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell'Ariosto, la rosa,

        che in bel giardin su la nativa spina
        mentre sola e sicura si riposa,
        nè gregge nè pastor se le avvicina;
        l'aura soave e l'alba rugiadosa,
        l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:
        gioveni vaghi e donne innamorate
        amano averne e seni e tempie ornate.
        Ma non sì tosto dal materno stelo
        rimossa viene e dal suo ceppo verde,
        che quanto avea dagli uomini e dal cielo
        favor, grazia e bellezza, tutto perde.


        Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il  poeta  ha  aria  non  di
descrivere, ma di raccontare, e  ti  pone  innanzi  la  cosa  nella  sua  verità
naturale, sì che niente paia oltrepassato,  esagerato,  o  trasformato.  L'«alba
rugiadosa», il «ceppo verde», la «nativa spina», i «gioveni  vaghi»,  le  «donne
innamorate», i «seni e le tempie», il «gregge e il pastore» sono tutte  immagini
naturali,  distinte,  plastiche,  obbiettive,  prodotte  da  una   immaginazione
impersonale, assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell'ottava,  con
tanta semplicità che l'ultimo verso par ti caschi per terra, come vil  prosa,  a
quel modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è  che  qui
eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello  spirito,  ma
sono la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro  veste,  ma  la
loro chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con  la
stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e  paesaggi
non trovi mai ripetizioni  o  reminiscenze,  perchè  ciascuna  cosa  è  come  un
individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande  che
sia, prende la sua movenza e il suo colore  dalla  cosa  rappresentata,  e  però
ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto  e  disegnato  negli  ultimi
particolari. Lo spirito ne' suoi preconcetti è limitato, e produce la «maniera»,
che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla,  la  visione:  e
perciò facilmente imitabili sono i  poeti  subbiettivi,  ne'  quali  prevale  la
maniera, come  il  Petrarca,  il  Tasso,  il  Marino,  e  simili.  Al  contrario
inimitabile è l'Ariosto che non ha maniera, perchè è  tutto  obbliato  e  calato
nelle cose, e non ha un guardare suo proprio  e  personale.  Anzi  egli  ha  una
perfetta bonomia, un'aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose
gli si presentano, senza mettervi niente di  suo.  Ha  un  ingegno  poroso,  che
riceve e rende le cose nella evidenza  e  distinzione  della  loro  personalità,
senza che esse trovino ivi intoppo  o  alterazione.  Perciò  il  suo  ingegno  è
trasmutabile in tutte guise, non secondo il  suo  umore,  ma  secondo  la  varia
natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien  fuori  l'eroico,  il
tragico, il comico, l'idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle cose,
anzi che del suo spirito. Di che viene l'evidenza  miracolosa  di  questo  mondo
nella sua infinita varietà e libertà, e la sua serietà artistica nel suo insieme
e nelle minime parti. L'evidenza è in quel coglier gli  oggetti  vivi,  cioè  in
azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch'essi in azione,
cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che Dante fa indovinare,  e
che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava. E perchè gli oggetti sono
còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono  rare  e  sobrie,  e  appena
accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l'uomo e la natura nel  loro  stato
d'immobilità, e abbozzate le intramesse  e  le  commettiture  e  le  circostanze
facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati  brevemente,  e  l'azione
colta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele gonfie  e  con
prospero vento. Mai non ti accade d'impaludare o  di  deviare:  come  in  questo
mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo,  così  nello  stile  non
trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente.  Tutto  è  succo  e
pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale,
e concorre all'effetto, ora serio ora comico. L'effetto è quale te lo  può  dare
un  mondo  di  sola  immaginazione,  al  quale  il  poeta   non   prende   altra
partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione con le sue passioni  e
i suoi sentimenti. L'effetto è una viva curiosità sempre nutrita e  accompagnata
spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli  piace,  e
tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella  contemplazione.  Il  sogno  gli
piace, pure non dice nulla al suo cuore e  alla  sua  mente:  è  un  dolce  ozio
dell'immaginazione. È un flutto d'immagini così vive e limpide, così naturali  e
così espressive, che ti tengono a sè e non ti concedono alcuna distrazione; e ti
giungono portate da onde sonore, tra colori e tra  mormorii,  che  dilettano  la
vista e suonano deliziosamente nell'orecchio. Quel mondo è il tuo rêve, o
per dirla con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo
sogno dorato. L'impressione non è così profonda che oltrepassi l'immaginazione e
colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o  il  sentimento.
La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione, nuvoletta  nel  suo
formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere, appena
disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti subitanei  che  provocano  una
risata o una lacrima, immediatamente  repressi  e  trasformati.  Eccone  qualche
esempio:

        - Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi... -
        ma dir non puote «ligi», e qui finìo...
        Stese la mano in quella chioma d'oro,
        e strascinollo a se' con violenza;
        ma come gli occhi in quel bel volto mise,
        gli ne venne pietade e non l'uccise.

Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni,  quando  ti  balzano  innanzi
certe immagini tenere. Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move,
e che non puoi chiamare  ancora  «sentimento»,  quando  una  nuova  immagine  ti
avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità della  tua  visione.  Una  delle
creature più simpatiche dell'Ariosto è Zerbino, e quando gli giunge  addosso  la
spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai
palpiti della sua Isabella; ma il poeta  con  una  galanteria  piena  di  grazia
paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela
d'argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel  movimento.  La
morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è
rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta  la
guarda, e la trova pallidetta come rosa:

        rosa non còlta in sua stagion, sì ch'ella
        impallidisca in su la siepe ombrosa.

Zerbino, morendo, nella sua  disperazione  manda  un  ultimo  sguardo  pieno  di
passione all'amata:

        per queste bocca e per questi occhi giuro,
        per queste chiome onde allacciato fui...

Talora è una sola circostanza ben  collocata,  che  dal  sentimentale  ti  gitta
nell'immagine:

        e straccia a torto l'auree crespe chiome.

A  quest'ufficio  adempiono  specialmente  i  paragoni,   che   nel   più   vivo
dell'emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel
suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo  pare
una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:

        ad ogni sterpo che passando tocca,
        esser si crede all'empia fera in bocca.

L'«impasto leone»,  l'«uscito  di  tenebre  serpente»,  l'«orsa  assalita  nella
petrosa tana», il «vase a bocca stretta e a lungo collo,  onde  l'acqua  esce  a
goccia a goccia», e simili spettacoli, non nuovi e non  originali,  come  presso
Dante, ma di apparenze  e  movenze  vivacissime,  sono  gagliarde  diversioni  e
distrazioni che riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della
passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante,  che  è
una vera canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell'occhio vagante, che
cerca se stesso nella natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel  tono
generale del sentimento più vicino all'elegiaco e all'idillico che all'eroico  e
al tragico; ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del
poeta, ma alla stessa tendenza dell'arte, dal Petrarca in qua. Anche  la  natura
rimane tutta al di fuori e non ti cerca l'anima, com'è il giardino di  Alcina  e
il paradiso terrestre. Ci è l'immagine, non ci è il sentimento:

        Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
        e diamanti e crisoliti e iacinti
        potriano i fiori assimigliar che per le
        liete piagge v'avea l'aura dipinti...

        Cantan fra i rami gli augelletti vaghi
        azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,
        murmuranti ruscelli e cheti laghi
        di limpidezza vincono i cristalli.

Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni?  Quali  ispirazioni?
Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si  move  il  core  che  di
maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma

        più che carbonchio lucida e vermiglia.
        O stupenda opra! O dedalo architetto!

Non hai dunque il sentimento della natura, come  non  hai  il  sentimento  della
patria, della famiglia, dell'umanità, e neppure dell'amore, dell'onore. In luogo
del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua  astrazione,  il  sentimento
naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:

il miser suole dar facile credenza a quel che vuole.

Ecco magnifiche sentenze intorno all'amore:

        Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibile,
        e l'invisibil fa vedere Amore.

        Che non può far di un cor che abbia suggetto
        questo crudele e traditore Amore?...

        Che lietamente in sul principio applaude,
        e tesse di nascosto inganno e fraude.

        ... ... Amor che sempre
        d'ogni promessa sua fu disleale,
        e sempre guarda come involva e stempre
        ogni nostro disegno razionale...

        Io dico e dissi e dirò finch'io viva
        che chi si trova in degno laccio preso
        pur che altamente abbia locato il core
        pianger non dee, se ben languisce e muore.

        Chi mette il piè sull'amorosa pania,
        cerchi ritrarlo e non v'inveschi l'ale:
        chè non è in somma amor se non insania,
        a giudizio de' savi universale.

        Oh gran contrasto in giovenil pensiero
        desir di lauda ed impeto d'amore!
        Né, chi più vaglia, ancor si trova il vero,
        chè resta or questo, or guel superiore.

        Amor sempre rio non si ritrova:
        se spesso nuoce, anche talvolta giova.

        La lunga absenzia, il veder vari luoghi,
        praticare altre femmine di fuore,
        par che sovente disacerbi e sfogli
        dell'amorose passïoni il core.
        Amor dee far gentile un cor villano,
        e non far d'un gentil contrario effetto.

Queste sentenze non sono osservazioni profonde e  originali,  ma  luoghi  comuni
assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio di  sè.  Il  sentimento,
ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine,  appena  nato,  si
dissolve. Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta  di  Dardinello  a
Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o  di
Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno come  inviluppati  in  quel  mare
fantastico, e naufragati sotto a quei flutti d'immagini. Sono voci d'angoscia  e
di passione, che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde
e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio  ce  lo  dà  Orlando,  che
piangendo e chiamando Angelica la paragona  ad  un'agnella  smarrita,  e  ci  fa
intorno de' ricami.
        In una società così poco sentimentale, così  superficiale  e  mobile,  e
così ricca d'immaginazione, come povera di coscienza,  si  può  concepire  quale
viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova  letteratura
iniziata in quei  giri  musicali  del  Decamerone  si  contemplava  e  si
ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella  sua  rapida  vicenda  è
così palpabile e così limpida «Procul este, profani.» Nessuna  ombra  del
reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce profonda  del  cuore  o  della
mente venga a turbare questa danza serena. Siamo  nel  regno  della  pura  arte:
assistiamo a' miracoli dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle  all'Italia,
al secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante  in  un  altro  mondo,  e
quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d'una corona, di  poeti  e  di
artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell'arte, a  cui
egli presentava l'Orlando. Ma Dante si traeva appresso  nell'altro  mondo
tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co'  suoi  fantasmi.  Ludovico
naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia e
dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa  battere
il cuore, è questo solo pensiero: «Quello che mi sta nella testa, quello che  io
vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?». E  tocca  e  ritocca,  sino
alla morte, scontento, inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche cosa  a
realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è  questo  o  quel
contenuto nella sua realtà e serietà. Il mondo  cavalleresco  è  per  lui  fuori
della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha  a  realizzare
in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e  di
quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte  le  qualità  da  ciò.  Ha
sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni;  ha
vista  chiara  più  che  profonda;  ha  l'anima  tranquilla,  sgombra  di   ogni
preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata  al
di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che vive al  di
fuori e si espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo  riflette  puro  con
brio giovanile. Così è venuto fuori quasi di un  getto,  quasi  per  generazione
spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie,  di  una  freschezza
eterna, tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio  evo,  e  illuminato
sotto il cielo italiano di una luce allegra  e  soave.  Niente  è  uscito  dalla
fantasia moderna  che  sia  comparabile  a  questo  limpido  mondo  omerico.  Il
Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato  il  suo
mondo.
        E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo  o  quel
contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all'arte. E l'Ariosto  le  dava
questo mondo dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.
        Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità.  Se  ci  mettiamo
sopra la mano, la ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare  non  ci
sia nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci  della
natura, che trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano  le  tue  voci,  le  voci
della tua anima. Gli è che ivi la forma è  esso  medesimo  il  contenuto,  e  il
contenuto sei tu, è vita della tua  vita,  è  sangue  del  tuo  sangue.  Qui  il
contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci  profondi  e  non  ti  ci
appassioni, appunto perchè hai il sentimento che è un  giuoco.  Talora  sta  per
spuntarti la lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
        Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non  ci
è nulla. Al di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
        L'elemento dell'arte negativo e dissolvente avea già percorso  tutto  il
suo ciclo a  Firenze,  giunto  sino  alla  pura  buffoneria.  Il  Boccaccio,  il
Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il  proposito  espresso  della
caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui  mettono  in  rilievo  il  lato
comico. L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece
il Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e
anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza  che  s'incontrano
episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il  suo  riso  non  è  intenzionale,  non  è
neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando,  come
fece poi il Berni nel suo  Orlando.  Il  suo  riso  è  più  serio  e  più
profondo.
        È il riso dello spirito moderno,  diffuso  sul  soprannaturale  di  ogni
qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da  un  sentimento
già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.
        Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo  mondo  cavalleresco  egli
non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il  suo
mondo, più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma  è  un  amore,  un
interesse semplicemente di artista. La sua  immaginazione  se  lo  assimila,  ne
acquista una piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone,  con  assoluta
padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi,  e  che  atteggia  e
configura a suo genio. La materia, in Dante così resistente e scabra, qui  perde
i suoi angoli e le  sue  punte,  e  come  cera,  riceve  tutte  le  impressioni.
L'immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni  intenzione,
e vi si cala e vi si obblia, e pare non sia altro  che  la  stessa  materia.  Il
creatore è scomparso nella creatura. L'obbiettività è perfetta. Ma guarda  bene,
e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco  riverente  di  colui
che l'ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua  emozione  e  ti
squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a  ogni
modo ci mette una  grazia,  che  gli  daresti  un  bacio.  La  burla  ti  coglie
improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione. Una  barzelletta,  un
motto ti disfà in un istante le creazioni più interessanti, e  ti  avviene  così
spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco  a
quell'ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando  l'autore  sembra
interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un
bel momento metterà fuori il capo e ti farà  una  smorfia.  Di  sotto  a  quella
obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto  forma  d'ironia  l'elemento
subbiettivo e negativo.
        Cosa è dunque questo mondo? È la  sintesi  del  Risorgimento  nelle  sue
varie tendenze. È il medio evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato, rifatto
dall'immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci  è  lì  dentro  quel  sentimento
dell'arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività  di  una
immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza  la  nuova
letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell'architettura, e  che  lì
giunge alla sua perfezione, congiunta  con  lo  splendore  e  con  l'armonia  la
massima semplicità e naturalezza di disegno. E c'è  insieme  quell'intimo  senso
dell'uomo e della natura, o del reale, che ti atteggia il labbro  ad  un  ghigno
involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori
dell'uomo, generato dalla  tua  immaginazione.  Tu  ammassi  le  nuvole;  tu  le
configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che quel
mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella  che  gli
dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo  e  uomo.  Come  fanciullo,
senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e  castelli  e
ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l'uomo, che ti fa  un  ghigno,  e
quel ghigno vuol dire: - Sono soldati e castelli di carta. - La  cultura  è  nel
suo fiore, l'immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i
più grandi miracoli dell'arte; ma  lo  spirito  è  già  adulto,  materialista  e
realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese  della  sua  immaginazione.
Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come  realtà,
ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d'immaginazione o arte  pura,  lo
perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il  suo
organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto  del  Berni,  ed
avrai accentuati gli estremi, tra' quali erra questa unità superiore, dove  sono
fusi e contemperati ciò che  è  troppo  ideale  nell'uno  e  ciò  che  è  troppo
grossolano nell'altro. La quale fusione è fatta con gradazioni così intelligenti
e con passaggi così naturali, e il lettore fin  dal  principio  vi  è  così  ben
preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti urta, perchè il poeta
opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo naturalmente, ed  è
lui medesimo l'unità che comunica al suo mondo.
        Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando
matto e furioso. Questo  tipo  della  cavalleria  così  trasformato  è  già  una
concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il  momento
della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è
perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana  nelle  sue  più
fine gradazioni. È un «crescendo» di particolari e di  colori,  che  ti  rendono
naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te
lo abbandona alle risate del pubblico.  Ad  una  scena  tenera  succede  la  più
schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche  il
modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso  comico.  Secondo  le
tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo. È
la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo
rende comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in terra, si
ritrova nell'altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo nell'altro
mondo, che è una  vera  parodia  del  viaggio  dantesco.  Il  fumo  e  il  puzzo
gl'impedisce di entrare nell'inferno; ma all'ingresso trova le prime peccatrici,
punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti.  È  il  concetto
della Francesca da Rimini preso a rovescio,  e  divenuto  comico.  Poi  sale  al
paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista,
Enoch ed Elia, che gli danno alloggio in una stanza e provvedono di buona  biada
il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,

        che a suo giudicio sanza
        scusa non sono i due primi parenti
        se per quei fur sì poco ubbidienti.

Astolfo vi trova buon cibo,  buon  riposo  e  «tutt'i  comodi».  È  il  paradiso
terrestre materializzato. Di là, «uscito del letto», con  san  Giovanni  ascende
sulla Luna. Qui la  parodia  prende  forma  satirica,  senza  fiele  e  in  aria
scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:

        Le lacrime e i sospiri degli amanti,
        l'inutil tempo che si perde a giuoco,
        e l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
        vani disegni che non han mai loco,
        i vani desidèri sono tanti,
        che la più parte ingombran di quel loco:
        ciò che in somma qua giù perdesti mai,
        là su salendo ritrovar potrai.

        Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un
castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno
che vive nelle astrattezze si dice che «sta nel regno della luna». Là  si  trova
in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il  senno  che  si  perde  in
terra.

        Di sofisti e di astrologhi raccolto
        e di poeti ancor ve n'era molto.

Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi  e  i  poeti.
Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede  vacuità  e  astrazione.  La
fine è di una schietta allegria:

        e vi son tutte l'occorrenze nostre;
        sol la pazzia non v'è poca, nè assai,
        chè sta qua giù, nè se ne parte mai.

L'ironia colpisce anche Angelica, la  figliuola  del  maggior  re  del  Levante,
l'amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie  di
un «povero fante». La scena comincia nel Boiardo con le  più  eroiche  apparenze
della cavalleria, giostre, tornei, duelli, con Carlomagno  circondato  de'  suoi
paladini, tra il  fiore  de'  cavalieri  di  Francia,  di  Spagna,  di  Lamagna,
d'Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e
va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo
ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di  Albracca,
passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una concezione ironica.
        Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unità  esteriore  e  meccanica
del poema, la cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato  eroico  della
cavalleria è l'individualità, quella forza d'iniziativa che fa di ogni cavaliere
l'uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè  a  dire  nelle  leggi
dell'amore e dell'onore, a cui ubbidisce volontariamente.  Togli  il  limite,  e
l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l'eroico divien  comico.
Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi istinti e passioni;  si  sviluppa  in
lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto comico.
Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia,  capitata  da
san Michele in un convento di frati, «tra santi ufficii e messe»:

        avea dietro e dinanzi e d'ambi i lati
        notai, procuratori ed avvocati.

Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia,
è ammiratissima per originalità di concezione e fusione di colori:

        Dovunque drizza Michelangel le ale,
        fuggon le nubi e torna il ciel sereno,
        gli gira intorno un aureo cerchio, quale
        veggiam di notte lampeggiar baleno.

Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin nel  satirico  con  naturali
mutamenti di tono. Ed è un  satirico  ancora  più  efficace,  perchè  non  ci  è
apparenza d'intenzione satirica, anzi ci si rivela una  bonomia,  un'aria  senza
malizia, dov'è la  finezza  dell'ironia  ariostesca.  La  Discordia  fa  il  suo
mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante rimasta  proverbiale
dov'è il vero scioglimento dell'azione, il motivo interno della  dissoluzione  e
della sconfitta dell'esercito pagano. I movimenti comici in  questa  scena  sono
più nelle cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo  e  impreveduto  delle
impressioni e  degl'istinti  che  toglie  luogo  alla  riflessione  e  spinge  i
cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il  più  spiccato  carattere  di
questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e  di  coraggio  e  di
bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità e  sciocchezza
nel fatto d'Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua scurrilità e
grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che mettono  in  evidenza
il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia gigantesca vuota di  senno,
grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero, «di virtù fonte»,  nel  quale
il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere,  leale,
gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci entra un po' l'Achille  omerico,  un
po' Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio, collisioni tra l'onore  e  l'amore,  tra
l'amore e l'amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato
un po' Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che l'uomo è  al  di  sotto
del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono le grandi figure  eroiche,  ne
ci è nel suo tempo. Manca al  suo  eroe  prediletto  semplicità  e  naturalezza:
l'eroico va digradando nel fantastico e nell'idillico. Perciò  il  suo  Ruggiero
non ha potuto togliere il posto  a  Orlando  e  Rinaldo,  gli  eroi  dell'antica
cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d'Este, l'interesse
è assai più per Orlando e Rodomonte, creazioni geniali e originali.
        L'ironia è non solo nella concezione fondamentale del  poema,  ma  negli
accessorii  cavallereschi.  L'amore  di   Orlando   verso   Angelica   è   stato
perfettamente cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non le
ha tolto l'onore, «almeno» secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale
dal canto suo non vuole essere «così  sciocco».  Doralice  piange  la  morte  di
Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe «forse» a stringer  la  mano  a
Ruggiero:

        Io dico «forse», non ch'io ve l'accerti,
        ma potrebbe esser stato di leggiero...
        Per lei buono era vivo Mandricardo;
        ma che ne volea far dopo la morte?

Un riso scettico aleggia sulle  virtù  cavalleresche  e  sui  grandi  colpi  de'
cavalieri, quei gran colpi «ch'essi soli sanno fare». Una frase, un motto scopre
l'ironia sotto le più serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena
percettibile nella serietà della fisonomia.
        Questo risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non  si
propaga sulla faccia, e non degenera che  assai  di  rado  in  aperta  e  sonora
risata, questa magnifica esposizione artistica che ti  dà  tutta  l'apparenza  e
l'illusione della realtà nelle cose più strane e  assurde,  tutto  questo,  fuso
insieme senz'aria d'intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà, ti  mostra
la concezione come un corpo in movimento e cangiante, che  non  puoi  fissare  e
definire, più simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla;
pur ti piace, perchè, mentre la tua immaginazione è  soddisfatta,  il  tuo  buon
senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli
infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.
        Questo  mondo,  dove  non  è  alcuna  serietà  di  vita  interiore,  non
religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non  onore
e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride
della sua opera e si trastulla a  proprie  spese,  è  in  fondo  una  concezione
umoristica profondata e seppellita  sotto  la  serietà  di  un'alta  ispirazione
artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio  serio  della  vita
nello  scopo  e  ne'  mezzi,  ma  come  una  docile  materia  abbandonata   alle
combinazioni e a' trastulli della sua immaginazione. Ci è in  lui  la  coscienza
che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro di  Omero,
di Virgilio  o  di  Dante,  e  ci  è  insieme  la  coscienza  che  è  un  lavoro
semplicemente artistico, e perciò dal punto di vista del reale  uno  scherzo,  o
come dicea il  cardinale  Ippolito,  una  «corbelleria».  E  sarebbe  stato  una
corbelleria, se l'autore avesse voluto dargli più serietà  che  non  portava,  e
fondarvi sopra una  vera  epopea.  Ma  la  corbelleria  diviene  una  concezione
profonda di verità, perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela,  ed  ha
l'aria di beffarsi lui de' suoi uditori. Questo stare al di sopra del  mondo,  e
tenerne in mano le  fila,  e  fare  e  disfare  a  talento,  considerandolo  non
altrimenti che un arsenale d'immaginazione,  è  ciò  che  dicesi  «capriccio»  e
«umore». Se non che il poeta è zimbello spesso della  sua  immaginazione,  e  si
obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza. Di che nasce che  l'umore
piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca  e
mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto
è superficie, passioni, caratteri, mezzi e  fini,  superficie  maravigliosa  per
chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all'ultimo dispare  come
un fantasma, cacciato via da una  frase  ironica,  dispare,  ma  dopo  di  avere
destata la tua ammirazione e suscitate in te molte  emozioni.  In  questo  mondo
fanciullesco  dell'immaginazione,  dove  si  rivela  un  così  alto   sentimento
dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il
medio evo e si genera il mondo moderno. E perchè questo è fatto  senza  espressa
intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella
guisa, i due mondi non sono  tra  loro  in  antitesi,  come  nel  Cervantes,  ma
convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la rappresentazione artistica  dell'un
mondo con sópravi l'impronta dell'altro.  In  questa  fusione  più  sentita  che
pensata, e che fa dell'autore e della  sua  creazione  un  solo  mondo  armonico
perfettamente compenetrato, sta la verità e la  perpetua  giovinezza  del  mondo
ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro  più  finito
dell'immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia  una
colonna luminosa nella storia dello spirito umano.

XIV LA MACCARONEA

Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara, Girolamo  Folengo  vi
facea i primi studi sotto la guida di un tal Cocaio. Era  di  Cipada,  villaggio
mantovano, di  famiglia  nobile  e  agiata.  Strinse  conoscenza  con  Ludovico.
Comparivano  allora  in  istampa   la   Spagna,   il   Buovo,   la
Trebisonda, l'Ancroia, il Morgante, il Mambriano del
Cieco di Ferrara, l'Orlando innamorato. Avea il capo pieno di romanzi più
che di grammatica, e pensò rifare l'Orlando  innamorato,  ma  saputo  del
Berni, smise  per  allora.  Andato  in  istudio  a  Bologna,  fu  discepolo  del
Pomponazzi, che dava bando al soprasensibile e al sopranaturale, e predicava  il
più aperto naturalismo. Gli studenti erano ordinati a modo di casta, con le loro
leggi e privilegi, capi i più  arrischiati  e  baldanzosi,  tra'  quali  era  un
giovane mantovano, chiamato con lo stesso nome di Francesco Gonzaga, marchese di
Mantova, che  lo  tenne  a  battesimo.  Vive  erano  tra  loro  le  reminiscenze
cavalleresche, rinfrescate dalla lettura; e duelli,  sfide,  avventure,  imprese
amorose erano una parte  della  loro  vita,  più  interessante  che  le  lezioni
accademiche. Fra tanti capi ameni ci era Girolamo, che per le  sue  eccentricità
si fe' mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in casa il padre,  sicchè
finì frate in Brescia, ribattezzatosi Teofilo. Ma ne  fuggì  con  una  donna,  e
ricomparso nel secolo, per campare la vita si die' a scriver romanzi,  sotto  il
nome di quel tal Cocaio, postogli a' fianchi, Cassandra inascoltata, dal  padre,
e di Merlino, il celebre mago de' romanzi di cavalleria. Ebbe fama, ma quattrini
pochi, e Merlino il «pitocco», come si chiama nel suo  Orlandino,  stanco
della vita errante, si rifece frate, scrisse poesie  sacre,  e  morì  pentito  e
confesso e da buon cristiano, come il Boccaccio.
        Merlino, o piuttosto Teofilo, o piuttosto Girolamo,  era,  come  vedete,
uno di quegli uomini che si chiamano «scapestrati», e fin dal principio  perdono
l'orizzonte, e fanno una vita  «sbagliata».  Messosi  fuori  di  ogni  regola  e
convenienza sociale, in una vita equivoca, non laico e non frate, tra miseria  e
dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e volgare.  Trattò  la  società
come nemica, e le sputò sul viso, prorompendo in  una  risata  pregna  di  bile.
Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche  era  moda;  egli  ci  mise
intenzione e passione. Ciò che negli altri era colorito, in lui fu l'obbiettivo,
lo scopo. E  a  questa  intenzione  furono  armi  una  fantasia  originale,  una
immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il  satirico.  La  sua
prima concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l'Orlandino  o  le
geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli. Lo chiama la
prima deca «autentica» di Turpino, stimando apocrife tutte le  storie  in  voga,
eccetto quelle del Boiardo, del Pulci, dell'Ariosto e del Cieco da Ferrara:

        Apocrife son tutte e le riprovo,
        come nemiche d'ogni veritate;
        Boiardo, l'Ariosto, Pulci, e il Cieco
        autenticati sono ed io con seco.

Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e quando comincia appena a vivere, finisce
il poema. Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi. La forma
è orrida, irta di barbarismi e solecismi, e confessa egli medesimo che i lettori
vi trovavano

        oscuri sensi ed affettate rime.

 - Ma che colpa ci ho io? - Soggiunge Merlino:

        Non tutti Sannazzari ed Ariosti,
        non tutti son Boiardi ed altri eletti,
        li cui sonori accenti fur composti
        dell'alma Clio negli ederati tetti,
        tetti si larghi a lor, a noi sì angosti,
        e rari son pur troppo gli entro accetti!

Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa coltura, e  lo  chiamavano
per istrazio il «grammatico»,

        che tanto è a dire quanto un puro asino;

e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i  toscani,  che  accusavano
lui di lombardismi e latinismi:

        Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo
        e più sboccato assai di un bergamasco;
        grosso nel profferir, nel scriver tardo,
        però dal Tosco facilmente io casco.

Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane
senza gusto e armonia, uno stile stecchito, asciutto, lordo e  plebeo,  spiegano
la fredda accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il  concetto  è  la
difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose, con  pitture
satiriche de'  chierici,  «qui  praedicant  ieiunium  ventre  pleno».  Vi
penetrano alcune idee della Riforma, come  nella  preghiera  di  Berta,  non  a'
santi, dic'ella, ma a Dio, e mescolate con invettive e buffonerie  a  spese  de'
frati o «incappucciati», con bile e stizza di frate sfratato. Il che non procede
da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato, ma  da  scioltezza
di costumi e di coscienza. Veggasi  ad  esempio  il  ritratto  di  Griffarrosto,
allusione al priore del suo convento, ritratto osceno e bilioso, tra il  ringhio
del cane e gli attucci senza vergogna  della  scimmia.  La  sua  caricatura  de'
tornei  cavallereschi,  concepita  con  brio,  eseguita  in  forma  stentata   e
grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano gl'istrumenti.
        Riuscitogli male l'italiano, tentò un poema in latino, e  smise  subito.
In ultimo trovò  il  suo  istrumento,  una  lingua  senza  grammatiche  e  senza
dizionari, e di cui nessuno aveva a chiedergli  conto,  una  lingua  tutta  sua,
trasformabile a sua posta secondo il  bisogno  del  suo  orecchio  e  della  sua
immaginazione, dico la lingua maccaronica.
        Il  latino  era  allora  lingua  viva  nelle  classi  colte  e  diffusa.
Sannazzaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi sonori  più  che  il  Berni  o
l'Ariosto o il Boiardo. Se in Firenze l'italiano  avea  vinta  la  prova,  nelle
altre  parti  d'Italia  il  latino  aveva  ancora  la  preminenza.   In   quella
dissoluzione generale di credenze, d'idee, di forme, la buffoneria penetrò anche
nelle due lingue, e ne uscì una terza lingua, innesto delle due, possibile  solo
in Italia, dove esse erano lingue note e affini. Avemmo adunque  il  pedantesco,
un latino italianizzato, e il maccaronico,  un  italiano  latinizzato,  con  mal
definiti confini, sì che  talora  il  pedantesco  entra  nel  maccaronico  e  il
maccaronico nel pedantesco. Tentativi infelici e dimenticati, quando  nel  1521,
cinque anni dopo l'Orlando furioso, uscì in luce la Maccaronea  di
Merlin Cocaio, e fece tale impressione, che in quattro anni  se  ne  fecero  sei
edizioni.
        La Maccaronea nel principio è l'Orlandino, mutati i  nomi.
A quel modo che Milone rapisce Berta e poi la lascia,  e  Berta  gli  partorisce
Orlando; Guido, discendente di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno,
e fugge con lei in Italia, accolti  ospitalmente  da  un  contadino  di  Cipada,
patria appunto del nostro Merlino. Guido lascia Baldovina,  cercando  avventure,
ed ella muore, dopo di aver partorito Baldo. Fin  qui  l'Orlandino  e  la
Maccaronea vanno insieme; ma qui l'Orlandino finisce subito, e  la
trama  è  ripigliata  e  continuata   nella   Maccaronea.   Baldo,   come
Orlandino, ha molta forza e coraggio, e si gitta a  imprese  arrischiate.
Ha parecchi  compagni,  tra'  quali  Fracasso,  che  ricorda  Morgante,  da  cui
discende, e Cingar, che ricorda Margutte. Dicono che sotto questi nomi si celino
gl'irrequieti studenti di Bologna, capitanati da quel Francesco  mantovano,  che
sarebbe Baldo. Fatto è che, date e  ricevute  molte  busse,  Baldo  è  messo  in
prigione. Cingar, vestito da frate, lo libera. Eccoli tutti per terra e per mare
cavalieri erranti e compiono audaci imprese. Baldo distrugge corsari,  estermina
le fate, ritrova Guido suo padre fatto romito, che gli predice  grandi  destini;
va in Africa, scopre le foci del Nilo, scende nell'inferno. Giunto co'  suoi  in
quella parte dell'inferno, dove ha sede la menzogna e la  ciarlataneria  e  dove
stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova colà il suo posto  e
pianta i suoi personaggi e finisce il racconto.
        Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure  è
a prima vista lo scopo di Merlino, come di tutt'i romanzieri di quel tempo. Anzi
di avventure ce n'è troppe; e fra tanti intrighi l'autore pare talora  intricato
e stanco. Ti senti sbalzato altrove prima che abbi potuto ben digerire  il  cibo
messoti innanzi. Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche, ma
rifatte e trasformate in modo originale; e  il  tutt'insieme  è  originalissimo.
Cominciamo con Carlomagno e i paladini, ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo
in Cipada, con l'immaginazione errante fra  Mantova,  Venezia,  Bologna,  e  con
innanzi l'Italia con la sua scorza da medio evo penetrata da uno spirito  cinico
e dissolvente. Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopre l'ironia.
La caricatura non è un semplice sfogo d'immaginazione comica e buffonesca,  come
le avventure non sono un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione  che
penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta, ci è la parodia.
        Baldo è l'ultimo di quella serie di cavalieri erranti, che comincia  con
Aiace, Achille, Teseo, continua con Bruto, Pompeo e gli altri eroi celebrati  da
Livio e Sallustio, e va a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende Baldo. La
sua missione è di purgare la terra da' mostri, dagli assassini e dalle  streghe.
La cavalleria è l'istrumento divino contro  Lucifero.  Baldo  vince  i  corsari,
atterra i mostri,  uccide  le  streghe  e  debella  l'inferno.  Tutto  questo  è
raccontato con un suono di tromba così  romoroso,  con  un  accento  epico  così
caricato, che si ride di buona voglia a spese di Baldo, di Fracasso, di  Cingar,
e degli altri cavalieri.
        Ma in quest'allegra parodia penetra un'intenzione ancora  più  profonda,
la satira delle opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de' costumi,  delle
forme religiose e sociali. Il medio evo ne' suoi  diversi  aspetti  è  in  fuga,
frustato a sangue dal terribile frate, rifatto laico. Perchè infine i mostri, le
streghe e l'inferno non sono altro che forme religiose e  sociali,  i  vizi,  le
lascivie e i pregiudizi popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce  da
nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione  di  coscienza  e  di
fede, la  cavalleria,  che  in  nome  della  giustizia  e  della  virtù  debella
l'inferno, è essa medesima una parodia e l'impressione ultima è una risata sopra
tutti e sopra tutto. Qualche sforzo di un'aspirazione più seria ci  è;  Leonardo
che muore, per  mantenere  intatta  la  sua  verginità,  è  una  bella  immagine
allegorica perduta fra tante caricature.  Hai  una  dissoluzione  universale  di
tutte le idee e di tutte le credenze, nella sua forma più cinica. Lì dentro ci è
la società italiana còlta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e  arte
assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.
        La lingua stessa è una  parodia  del  latino  e  dell'italiano,  che  si
beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio  e  di
butirro, così la  lingua  maccaronica  vuol  essere  ben  mescolata.  Spesso  vi
apparisce  per  terzo  anche  il  dialetto  locale,  e  si   fa   un   intingolo
saporitissimo. La lingua è in se stessa comica, perchè quel grave latino  epico,
che intoppa tutt'a un tratto in una parola italiana stranamente  latinizzata,  e
talora tolta dal vernacolo, produce il riso. La parodia che è nelle cose  scende
nella lingua, la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella, un Virgilio
carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano  già  dato  esempio  di
questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa  tutt'i  segreti  e  la
maneggia con un'audacia da padrone, con un tale sentimento di armonia,  che  par
l'abbia già bella e formata nell'orecchio. Come saggio, cito alcuni brani  della
sua invocazione alla musa maccaronica:

     Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,       o  macaroneam
Musae quae funditis artem...

     Non mihi Melpomene, mihi non menchiona  Thalia,      Non  Phoebus
grattans chitarrinum carmina dictent...

     Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,        Gosa,  Comina,
Striax,  Mafelinaque,  Togna,  Pedrala,          imboccare  suum  veniant
macarone poëtam.

Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:

     Credite quod giuro, neque solam dire  bosiam          possem  per
quantos abscondit terra tesoros:         illic  ad  bassum  currunt  cava
flumina brodae,       quae lacum suppae  generant,  pelagumque  guacetti.
      Hic de materia tortarum mille  videntur          ire  redire
rates...       Sunt ibi  costerae  freschi  tenerique  botiri,    
in quibus ad  nubesfumant  caldaria  centum,          plena  casoncellis,
macaronibus atque foiadis.       Ipsae habitant nymphae super alti montis
aguzzum,      formaiumque tridant grataloribus usque foratis. 

E non è meno originale il suo stile. Della nuova letteratura i grandi «stilisti»
sono il Boccaccio, il Poliziano, l'Ariosto. Costoro narrando fanno  quadri,  ciò
che costituisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte, sono coloristi:  Merlino
dipinge le cose con altre cose, i suoi colori non sono concetti o immagini, sono
fatti. Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci  è  nulla  di
mezzo. La sua immaginazione non rimane nella  vaga  generalità  delle  cose,  ma
scende nel più minuto della realtà e ne cava novità di paragoni e di  colori.  I
fatti più assurdi e fantastici sono narrati  co'  più  precisi  particolari,  ed
hanno l'evidenza della storia, e ti rivelano un  raro  talento  di  osservazione
dell'uomo e della natura, non nelle loro  linee  generali  solamente,  ma  nelle
singole e locali forme  della  loro  esistenza.  Veggasi  la  descrizione  della
caverna di Eolo e della tempesta, e le disperazioni di Cingar:

     Solus ibi Cingar cantone tremebat in  uno,          atque  morire
timens, cagarellam sentit abassum...          Undique  mors  urget,  mors
undique cruda menazzat.       Infinita facit cunctis  vota  ille  beatis,
        iurat,  quod  cancar  veniat  sibi,  velle  per  omnem    
pergere descalzus mundum,  saccove  dobatus.          Vult  in  Agrignano
sanctum retrovare Danesum,       qui nunc vivit adhuc vastae sub  fornice
rupis,       fertque oculi cilios distesos  usque  genocchios.    
Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat:       quos in Taprobana  gens
portugalla catavit.      Hisque decem faciet per fratres  dicere  messas,
      his quoque candelam tam grandem, tamque pesentam        vult
offerre simul, quam grandis quamque  pesentus          est  arbor  navis,
prigolo si scampet ab isto.         Se  stessum  accusat  multas  robasse
botegas,       sgardinasse casas et sgallinasse polaros:        at
si de tanto travaio  vadat  adessum          liber  speditus,  vult  esse
Macharius alter,       alter heremita Paulus, spondetque  Sepulchri  
     post visitamentum, vitam menare tapinam.       Talia  dum  Cingar
trepido sub pectore pensat,         en  ruptae  sublimis  aquae  montagna
ruinat,       quae superans altam gabiam strepitosa trapassat,    
nec pocas secum portavit in aequora gentes. 

La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de'  venti,  e  nelle
vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello stile di Merlino, un  realismo
animato da una immaginazione impressionabile e da  un  umorismo  inestinguibile.
Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di molta ciarpa, la  facilità  è  talora
negligenza; desideri l'ultima mano, desideri la serietà artistica  dell'Ariosto.
Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori,  fa  di  Merlino  lo
scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti  fa  degli
schizzi, ed egli disegna  e  compie  tutto  il  fatto.  Il  suo  continuatore  e
imitatore è fuori d'Italia, è Rabelais, che ha  la  stessa  maniera.  In  Italia
prevalse la rettorica, la cui prima regola è l'orrore del particolare e la  vaga
generalità. Merlino al contrario aborre le perifrasi, i concetti, le  astrazioni
e quel colorire a vuoto per via di figure e d'immagini, e non  pare  che  lavori
con la riflessione o con l'immaginazione, ma che stia lì tutto attirato in mezzo
a un mondo che si  muove,  guardato  e  parodiato  ne'  suoi  minimi  movimenti.
Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berto, e cucinano  essi  medesimi
il pasto. Al poeta non fugge nulla, i cibi, il modo di apparecchiarli, il desco,
l'affaccendarsi di Berto, la fisonomia e gli atti de'  due  suoi  ospiti:  e  ne
nasce una scena di famiglia piena di allegria comica, il cui effetto è tutto ne'
particolari. Il piccolo Baldo va a scuola, e in luogo del Donato studia romanzi.
Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla moda, i costumi de' maestri  e
degli scolari, ciascun particolare con la sua fisonomia:

     Beldovina tamen cartam comprarat et illam       letrarurm  tolam,
supra quam disceret «a, b».      Unde scholam Baldus nisi non  spontaneus
ibat,      nam quis erat  tanti,  seu  mater,  sive  pedantus,    
qui tam terribilem posset sforzare putinum?        Ipse  tribus  sic  sic
profectum fecerat annis,       ut quoscumque  libros  legeret,  nostrique
Maronis       terribiles guerras  fertur  recitasse  magistro.    
At mox Orlandi nasare volumina coepit,       non deponentum  vacat  ultra
ediscere normas;       non speties, numeros,  non  casus  atque  figuras;
      non Doctrinalis versamina tradere menti;       non hinc, non
illinc, non hoc, non illoc  et  altras          mille  pedantorum  baias,
totidemque fusaras.       Fecit de cuius Donati deque  Perotto    
scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit.       Orlandi tantum  gradant,
et gesta Rinaldi;       namque animum  guerris  faciebat  talibus  altum.
        Legerat   Ancroiam,   Tribisondam,   facta   Danesi,      
Antonnaeque  Bovum,  Antiforra,  Realia  Franzae,          innamoramentum
Carlonis, et Aspera-montem,       Spagnam,  Altobellum,  Morgantis  bella
gigantis,       Meschinique provas, et qui «Cavalerius  Orsae»    
dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram.        Vidit  ut  Angelicam
sapiens Orlandus amavit,       utque caminavit nudo cum  corpore  mattus,
      utque retro mortam tirabat  ubique  cavallam,          utque
asinum legnis caricatum calce ferivit,       illeque  per  coelum  veluti
cornacchia volavit.       Baldus in his factis nimium stigatur  ad  arma,
      sed tantum quod sit piccolettus corpore tristat. 

È una scena di quel tempo, ispirata a Merlino  dalla  sua  vita  studentesca  di
Ferrara e Bologna, quando Cocaio, il suo pedagogo, gli metteva in mano Donato  e
il Porretto, ed egli ne faceva «scartozzos», e leggeva romanzi,  e  sopra
tutti l'Orlando furioso. Non c'è una sola generalità:  tutto  è  cose,  e
ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la sua fisonomia e  il  suo  movimento,
determinato da forze interiori. Non solo vedi quello che fa Baldo, ma quello che
pensa e sente; perchè la parola, se nel suo senso letterale  esprime  un'azione,
con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua  armonia  te  ne  dà  il
sentimento, come è  quel  «nasarat»,  e  quel  «volavit»,  e  quel
«piccolettus», e quell'«hinc, illinc,  hoc,  illoc,  et  altras  mille
pedantorum baias».
        La parte seria del racconto dovrebb'esser la cavalleria, perchè  essa  è
che fa guerra all'inferno, cioè alla malvagità e  al  vizio.  Ma  la  serietà  è
apparente, e il fondo è una parodia scoperta, il cui eroe  più  simpatico  è  il
gigante Fracasso, parodia di  quella  forza  oltreumana  che  si  attribuiva  a'
cavalieri erranti.  Dico  «parodia  scoperta»,  se  guardiamo  alla  conclusione
ingegnosissima;  perchè,  giunti  i  cavalieri  nella  regione  infernale  delle
menzogne poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella sua  patria.
Questa patria de' poeti, de' cantanti, degli astrologi, de' negromanti, di tutti
quelli

     qui fingunt, cantant, dovinant  somnia  genti,          compluere
libros follis vanisque novellis, 

è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca  e  vuota,  «mangiabilis,
quando tenerina fuit», dove tremila barbieri strappano i denti a' condannati.  E
Merlino esclama:

     Zucca mihi patria est, opus est hic perdere  dentes,          tot
quot in immenso posui mendacia libro. 

E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:

        Balde, vale, studio alterius te denique lasso. 

Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte, e di se stesso, che  ha
composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte  le  regole,  perduti  i  remi,
mescolati l'austro co' fiori e i cignali col mare:

     Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,       tange,  quod
amisi longinqua per aequora remos:       he heu, quid volui, misero mihi,
perditus Austrum       floribus, et liquidis immisi fontibus apros. 

È il comico portato all'estremo dell'umore.  La  caricatura  del  Boccaccio,  la
buffoneria del Pulci, l'ironia dell'Ariosto è qui l'allegro e capriccioso  umore
di una negazione universale e scoperta, nella forma più cinica.
        In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e  attinge
la società, come il medio  evo  l'aveva  costituita,  in  tutte  le  sue  forme,
religiose, politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa alla berlina:
san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari accanto agli astrologi e  a'
negromanti. Megera fa un terribile ritratto di tutt'i disordini della  Chiesa  e
de' papi, e Aletto fulmina ugualmente  guelfi  e  ghibellini,  i  seguaci  della
Francia e i seguaci dell'Impero. I monaci sono il principale bersaglio di questi
strali poetici. Una delle pitture  più  comiche  è  quel  biricchino  di  Cingar
vestito da francescano per liberare Baldo dal carcere:

     Iam non is  Cingar,  quia  sanctus  portat  amictus...        sub
tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi! 

Notabile è la satira de' frati nell'ottavo libro:

     Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt,       postquam pane
caret cophinum, vinoque berillus       in fratres  properant,  datur  his
extemplo capuzzus. 

La moltiplicità de' conventi gli fa temere  che  un  bel  dì  rimanga  la  gente
cristiana senza soldati e senza contadini. Scherza su' motti del Vangelo. Fa una
parodia della confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta dell'inferno,
dov'e parodiata la celebre scritta di Dante:

Regia Luciferi dicor, bandita tenetur       chors hic, intrando patet,
ast uscendo seratur.

Ma non possono domare l'inferno, se prima non si confessano, e il  confessore  è
Merlino stesso, il poeta:

Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus,         est  mihi  cognomen
Cocaius maccaronensis.

Quale confessione i cavalieri possano fare a  Merlino,  soprattutto  Cingar,  il
lettore s'immagini. È una farsa.  Tutta  l'opera  è  penetrata  da  uno  spirito
capriccioso e beffardo, che fa di quel mondo in mezzo a  cui  si  trova  il  suo
aperto trastullo, e gli dà forme carnascialesche.
        Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un travestimento
carnevalesco della cavalleria in uno stile più  corretto  e  uguale.  La  guerra
finisce con la sconfitta compiuta delle mosche, descritta  co'  tratti,  da  lui
caricati, dell'Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone alcuni brani verso
la fine:

     Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:       nil nisi  per
terram membra taiata micant.        Grandes  mortorum  vadunt  ad  sydera
montes,          sydera,  quae  multo  rossa  cruore  colant.     
Pulmones, milzae, lardi, ventralia, membri          Saturni  ad  sphaeram
foeda per astra volant.       Una corada Iovis mostazzum colsit,  et  uno
      Sol ibi ventrazzo spinctus ab axe fuit.          Dumque  dei
coenant, puero Ganimede ministro,       multa super  mensas  ossa  taiata
cadunt.      Nunc brazzus Ragni, nunc gamba cruenta  Pedocchi,    
nunc cor Moschini, nunc pulicina manus...       ...  trucidatis  ducibus,
Moschaea ruinat       tota, nec una quidem vivere Moschaea  potest.  
     Formicae, Pulices, Ragni - Victoria! - clamant,        trombettae
tararan iam frisolando sonant. 

Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone, sul quale da una torre gittano un sasso
enorme,

qui super elmettum schiazzavit Siccaboronem,       vitaque cum  gemitu
sub Phlegetonta fugit.

La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo poemetto bucolico
in caricatura, dove si fa strazio delle immagini e de' sentimenti  petrarcheschi
e idillici. Il Petrarca narra che Amore colpì lui  improvviso  e  disarmato.  Il
medesimo avviene a Tonello:

     Solus solettus stabam colegatus in umbra,       pascebamque  meas
virda per arva capras.       Nulla  travaiabant  vodam  pensiria  mentem,
       nullaaue  cogebat  cura  gratare  caput,          cum  mihi
bolzoniger cor, oyme, Cupido, forasti,       nec tuns  in  fallum  dardus
alhora dedit...      More valenthominis schenam  de-retro  feristi:  
     o bellas provas quas, traditore, facis! 

Guardando un po' addentro in questa caricatura universale del mondo,  si  vedono
qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo. Ci  si  sente  lo
spirito della Riforma, il dolore di un'Italia scissa tra Impero e Francia,  essa
che unita aveva  imperato  sull'universo,  l'indignazione  di  tanta  licenza  e
corruzione de' costumi nel secolo degl'ipocriti e delle cortigiane, un disprezzo
delle fantasticherie teologiche, scolastiche e astrologiche, un  sentimento  del
reale e dell'umano. Ma sono  velleità,  immagini  confuse  e  volubili,  che  si
affacciano appena e non hanno presa  sul  suo  spirito  vagabondo  e  sulla  sua
capricciosa immaginazione.




XV MACHIAVELLI

Dicesi che Machiavelli fosse in Roma, quando il 1515 uscì in  luce  l'Orlando
furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere  dimenticato
dall'Ariosto  nella  lunga  lista  ch'egli  stese  nell'ultimo  canto  di  poeti
italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il  secolo  nella
sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti,  sembrano  ignoti  l'uno
all'altro.
         Niccolò  Machiavelli,  ne'  suoi  tratti  apparenti,  è  una  fisonomia
essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un
piacevolone, che si spassava ben volentieri tra  le  confraternite  e  le  liete
brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e  beffardo  che
vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e  nel  Berni.  Poco
agiato de' beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose  sarebbe  riuscito
un letterato fra' tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso  stampo.
Ma caduti i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario,  ebbe  parte
principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in  Italia  e
fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose,  e  si  affezionò  alla
repubblica, per la quale non gli parve assai di sostenere la  tortura,  poi  che
tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua tempra
e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo  ozio  di  San
Casciano meditò su' fati  dell'antica  Roma  e  sulle  sorti  di  Firenze,  anzi
d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mantenere la sua
indipendenza, se non fosse unita tutta o gran parte sotto un  solo  principe.  E
sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse  pigliare  l'impresa.
Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo di ozio e di  miseria.
All'ultimo, poco  e  male  adoperato  da'  Medici,  finì  la  vita  tristamente,
lasciando non altra eredità a'  figliuoli  che  il  nome.  Di  lui  fu  scritto:
«Tanto nomini nullum par elogium».
        I suoi Decennali, arida cronaca delle «fatiche d'Italia di  dieci
anni», scritta in quindici dì, i suoi  otto  capitoli  dell'Asino  d'oro,
sotto nome di bestie satira de' degeneri fiorentini,  gli  altri  suoi  capitoli
dell'Occasione,    della    Fortuna,    dell'Ingratitudine,
dell'Ambizione, i  suoi  canti  carnascialeschi,  alcune  sue  stanze,  o
serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari su' quali  è  impressa  la
fisonomia di  quel  tempo,  alcuni  tra  il  licenzioso  e  il  beffardo,  altri
allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta la prosa; il colorito è
sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le  immagini.  Ma  in  questo  fondo
comune e sgraziato appariscono i vestigi di  un  nuovo  essere,  una  profondità
insolita di giudizio e di osservazione.  Manca  l'immaginativa:  soprabbonda  lo
spirito. Ci è il critico, non ci è il poeta. Non ci  è  l'uomo  nello  stato  di
spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. Ci è l'uomo che
si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle  sorti  sue  e  dell'universo  con
tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere:

        Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
        io piango, e 'l pianger ciba il lasso core;
        io rido, e il rider mio non passa drento;
        io ardo, e l'arsion non par di fuore;
        io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento,
        ogni cosa mi dà nuovo dolore;
        così sperando piango, rido e ardo,
        e paura ho di ciò che io odo o guardo.

Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane  nel  capitolo
della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso  ingegnoso,
come ne' Decennali:

        la voce d'un Cappon tra cento Galli,

e qualche sentenza o concetto profondo, come  nel  canto  De  diavoli  o  de'
romiti. Il suo capolavoro è il capitolo  dell'Occasione,  massime  la
chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso.  Nel  poeta  si  sente  lo
scrittore del Principe e de' Discorsi.
        Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le  idee
che correvano in quella età. Talora si mette la  giornea  e  boccacceggia,  come
nelle sue prediche alle confraternite, nella  descrizione  della  peste,  e  ne'
discorsi che mette in bocca a' suoi personaggi storici. Vedi ad esempio  il  suo
incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini
della rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.
        Ma nel Principe, ne' Discorsi, nelle Lettere, nelle
Relazioni,  ne'  Dialoghi  sulla  milizia,  nelle   Storie,
Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria  di  chi
reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e a' periodi. Dove
non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa
italiana.
        È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito  incredulo  e  beffardo  di
Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel  tempo.  E  avea
pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese
Lorenzo eminente fra' principi,  e  che  troviamo  generalmente  negli  statisti
italiani a Venezia, a  Firenze,  a  Roma,  a  Milano,  a  Napoli,  quando  vivea
Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il  Moro,  e  gli  ambasciatori
veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti,  presso  le  quali
dimoravano.  Ci  era  l'arte,  mancava  la  scienza.  Lorenzo   era   l'artista.
Machiavelli doveva essere il critico.
        Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì ci erano ancora i lineamenti di
un popolo, ci era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora  morire.
L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma ci era invece l'idea repubblicana alla
romana, effetto della coltura classica, che fortificata dall'amore  tradizionale
del viver libero e dalle memorie gloriose  del  passato,  resisteva  a'  Medici.
L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo,
e  rendevano  possibile  Savonarola,  Capponi,   Michelangiolo,   Ferruccio,   e
l'immortale resistenza agli  eserciti  papali  imperiali.  L'indipendenza  e  la
gloria della patria e l'amore  della  libertà  erano  forze  morali  fra  quella
corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto.
        Machiavelli per la sua coltura letteraria, per la vita  licenziosa,  per
lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a
tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò  le  accetta
tutte, e magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella  pratica  della
vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte
politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari.  E  la  sua  coscienza  non  è
vuota. Ci è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il  suo  ingegno
superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti  del
possibile. E quando vide perduta la libertà,  pensò  all'indipendenza,  e  cercò
negli stessi  Medici  l'istrumento  della  salvezza.  Certo,  anche  questa  era
un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla  quale  si  afferra  il  misero
nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia, che rivelava la forza e la  giovinezza
della sua anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più
giusto e con più esatto sentimento delle  condizioni  d'Italia,  è  che  la  sua
coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli  è  giunta  a'
posteri simpatica e circondata di un'aureola poetica per la forte tempra,  e  la
sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella  sua  aria
di virilità e di dignità  fra  tanta  folla  di  letterati  venderecci.  La  sua
influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di  penna  e  di  tavolino,
come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la  sua  povertà,  la
vita  scorretta,  le  abitudini  plebee  e  «fuori  della  regola»,   come   gli
rimproverava il correttissimo Guicciardini,  non  gli  aumentavano  riputazione.
Consapevole di sua grandezza, spregiava quella esteriorità delle  forme  e  que'
mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì  facili  a'
mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama
si è ita sempre ingrandendo fra gli odii degli uni  e  le  glorificazioni  degli
altri. Il suo nome è rimasto la bandiera, intorno alla quale  hanno  battagliato
le nuove generazioni  nel  loro  contraddittorio  movimento  ora  indietro,  ora
innanzi.
        Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte  le  lingue  il
Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è  stato
giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel  suo  valore
logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro
è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i
mezzi, e il successo  loda  l'opera.  E  hanno  chiamato  machiavellismo  questa
dottrina.  Molte  difese  sonosi   fatte   di   questo   libro   ingegnosissime,
attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o  meno  lodevole.  Così
n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.
        Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre
la grandezza di quell'uomo nella  sua  utopia  italica,  oggi  cosa  reale.  Noi
vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua
grandezza.
        Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto
quel movimento, che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende
sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè
a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è  in  mezzo  a  quel
movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze.  Ma,  passato  il
momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di
Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: - Cosa  sei?
Dove vai? -
        L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava  l'Europa
con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni  oltre
le Alpi. Il suo modello era  il  mondo  greco  e  romano,  che  si  studiava  di
assimilarsi. Soprastava per coltura, per industrie,  per  ricchezze,  per  opere
d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato  intellettivo  in  Europa.
Grave fu lo sgomento negl'italiani, quando ebbero gli stranieri in casa;  ma  vi
si ausarono, e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti  con  la
superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere tra lanzi,
svizzeri,  tedeschi  e  francesi  e  spagnuoli  l'alto  e  spensierato  riso  di
letterati,  artisti,  latinisti,  novellieri  e  buffoni  nelle  eleganti  corti
italiane. Fino ne' campi i  sonettisti  assediavano  i  principi:  Giovanni  de'
Medici cadeva tra' lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le
maraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli  dell'ingegno;  e  i
loro principi  regalavano  e  corteggiavano  i  letterati,  che  con  la  stessa
indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era  inchinata
e studiata da' suoi devastatori, come la Grecia fu da' romani.
        Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di  grandezza
mise lo sguardo acuto Niccolò  Machiavelli,  e  vide  la  malattia,  dove  altri
vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo  decadenza  egli  disse
«corruttela», e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto, la corruttela
della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
        La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de'  costumi
e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di  Dante  e
di Caterina, ed ora messa in mostra ne' dipinti e negli  scritti,  penetrata  in
tutte le classi della società e in tutte le forme  della  letteratura,  divenuta
come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza  accompagnata  con
l'empietà  e  l'incredulità  avea  a  suo  principal  centro  la  corte  romana,
protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di  quella  corte  che
infiammò le ire di Savonarola  e  stimolò  alla  separazione  Lutero  e  i  suoi
concittadini.
        Nondimeno il clero per abito tradizionale  tuonava  dal  pergamo  contro
quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non  contrastato,  salvo  a
non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola  e
la parola non era più l'azione,  non  ci  era  armonia  nella  vita.  In  questa
disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori
di commedie, di novelle e di capitoli.
        Nessun italiano, parlando in astratto,  poteva  trovar  lodevole  quella
licenza, a' cui allettamenti pur non sapeva  resistere.  Altra  era  la  teoria,
altra la pratica. E nessuno poteva non desiderare una riforma de'  costumi,  una
restaurazione della coscienza. Sentimenti e desidèri vani, affogati  nel  rumore
di quei baccanali. Non ci era il tempo di piegarsi in sè, di considerare la vita
seriamente. Pure erano sentimenti e desidèri  che  più  tardi  fruttificarono  e
agevolarono l'opera del Concilio di Trento e la reazione cattolica.
        Rifare il medio evo, e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze
con una ristaurazione religiosa e morale era stato già il concetto  di  Geronimo
Savonarola, ripreso poi e purgato nel Concilio di Trento. Era  il  concetto  più
accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi.  I  volghi  cercano  la
medicina a' loro mali nel passato.
        Machiavelli, pensoso e inquieto in  mezzo  a  quel  carnevale  italiano,
giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa  era  non  altro
che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo  ancora
nelle forme e nelle istituzioni.  E  perciò,  non  che  pensasse  di  ricondurre
indietro l'Italia e di ristaurare il medio evo, concorse alla sua demolizione.
        L'altro mondo, la cavalleria, l'amore  platonico  sono  i  tre  concetti
fondamentali, intorno a' quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali
la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia del
Machiavelli  sorprendi  un  movimento  ironico,  quando  parla  del  medio  evo,
soprattutto allora che affetta maggior serietà. La misura del  linguaggio  rende
più terribili i suoi colpi.  Nella  sua  opera  demolitiva  è  visibile  la  sua
parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è  della  stessa
razza, dalla quale era uscito Astarotte.
        Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto  comico,  uscito
da coscienza vuota. In quella negazione ci è  un'affermazione,  un  altro  mondo
sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.
        Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali  e  comunali,
tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite,  perchè
nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.
        Le idee che generarono quelle istituzioni  sono  morte,  non  hanno  più
efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è  la
radice della corruttela italiana. Questo popolo non si  può  rinnovare,  se  non
rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l'una mano
distrugge, con l'altra  edifica.  Da  lui  comincia,  in  mezzo  alla  negazione
universale e vuota, la ricostruzione.
        Non è possibile seguire la  sua  dottrina  nel  particolare.  Basti  qui
accennare la idea fondamentale.
        Il medio evo riposa sopra questa base: che il  peccato  è  attaccarsi  a
questa vita, come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena  e
contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra
e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello  che  dee  essere,  e
perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo. L'inferno.  Il  Purgatorio.
Il Paradiso, il mondo conforme alla verità e alla  giustizia.  Da  questo
concetto della vita teologico-etico uscì la Divina Commedia  e  tutta  la
letteratura del Dugento e del Trecento.
        Il simbolismo e lo  scolasticismo  sono  le  forme  naturali  di  questo
concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un  simbolo:  l'amore  è  un
simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro  radice  negli
enti  o  negli  universali,  forze  estramondane,  che  sono  la  maggiore   del
sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.
        Tutto questo, forma e concetto, era già dal  Boccaccio  in  qua  negato,
caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura  negazione  nella
sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne  o
del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme
teologi  e  astrologi  e  poeti,  tutti  visionari:  conclusione  geniale  della
Maccaronea, ispirata al Folengo  dal  mondo  della  Luna  ariostesco.  In
teoria ci era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza.
        Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella
vita, e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria:
molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e  di  erudizione.  Di
speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche  e
teologiche. E a ogni modo non se ne cura. Il suo  spirito  è  tutto  nella  vita
pratica.
        Nelle scienze naturali non sembra sia molto innanzi, quando vediamo  che
in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista  Alberti  avea  certo
una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è  filosofo  della  natura,  è
filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
        L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non  ha  la  faccia  estatica  e
contemplativa del  medio  evo,  e  non  la  faccia  tranquilla  e  idillica  del
Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno  ad  uno
scopo.
        Ciascun uomo ha  la  sua  missione  su  questa  terra,  secondo  le  sue
attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione, e non è contemplazione  Non
è teologia, e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo  scopo
e i suoi mezzi.  Riabilitare  la  vita  terrena,  darle  uno  scopo,  rifare  la
coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella  sua  serietà  e
nella sua attività: questo è lo spirito  che  aleggia  in  tutte  le  opere  del
Machiavelli.
        È negazione del medio evo, e  insieme  negazione  del  Risorgimento.  La
contemplazione divina lo soddisfa così poco, come la  contemplazione  artistica.
La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano  e  possano
costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione,  come  il  nemico  più
pericoloso, e quel veder le cose in  immaginazione  e  non  in  realtà  gli  par
proprio esser la malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto che  bisogna
giudicar le cose come sono, e non come debbono essere.
        Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e  la  forma
nel Risorgimento, dee far luogo  all'«essere»,  o  com'egli  dice,  alla  verità
«effettuale».
        Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte,  al
mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione, questa  è  la
base del Machiavelli.
         Risecati  tutti  gli  elementi  sopraumani  e  soprannaturali,  pone  a
fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra,  il  suo
primo dovere è il patriottismo,  la  gloria,  la  grandezza,  la  libertà  della
patria.
        Nel medio evo non ci era il concetto di patria: ci era  il  concetto  di
fedeltà e  di  sudditanza.  Gli  uomini  nascevano  tutti  sudditi  del  papa  e
dell'imperatore, rappresentanti di Dio; l'uno era lo spirito, l'altro  il  corpo
della società. Intorno a  questi  due  «Soli»  stavano  gli  astri  minori,  re,
principi, duchi, baroni, a cui stavano  di  contro  in  antagonismo  naturale  i
comuni liberi. Ma la libertà era privilegio  papale  e  imperiale,  e  i  comuni
esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o  dell'imperatore,
e spesso imploravano legati apostolici o imperiali  a  tutela  e  pacificazione.
Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben  inteso  lasciando  a  sè  il
dritto di rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto che illumina tutte le idee
di quel tempo.
        Ci era ancora il papa e ci era l'imperatore; ma l'opinione, sulla  quale
si fondava la loro potenza, non ci era più nelle classi colte d'Italia. Il  papa
stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio, il papa, ingrandito di
territorio, diminuito di autorità, l'imperatore debole e impacciato a casa.
        Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si  parlava  in  Italia
che per riderne,  a  quel  modo  che  della  cavalleria  e  di  tutte  le  altre
istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi in Italia il papa, i gentiluomini e
gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non  solo
un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Democratico, combatte  il  concetto  di  un  governo  stretto,  e  tratta  assai
aspramente  i  gentiluomini,  reminiscenze  feudali.  E  vede  ne'  mercenari  o
avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo  straniero,
e propone e svolge largamente il concetto di una milizia  nazionale  Nel  papato
temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi  del
medio evo.
        La «patria» del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero  per
sua virtù e non  per  grazia  del  papa  e  dell'imperatore,  governo  di  tutti
nell'interesse di tutti.  Ma,  osservatore  sagace,  non  gli  può  sfuggire  il
fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati  in  Europa,  e  come  il
comune era destinato anch'esso a sparire con  tutte  le  altre  istituzioni  del
medio evo. Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non  possibile  a  durare
dirimpetto a quelle potenti  agglomerazioni  delle  stirpi,  che  si  chiamavano
«Stati» o «Nazioni». Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato  una
grande lega italica, che assicurasse l'«equilibrio» tra' vari Stati e  la  mutua
difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo  ottavo.  Niccolò
propone addirittura la  costituzione  di  un  grande  Stato  italiano,  che  sia
baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di  patria  gli  si  allarga.
Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia
dantesca è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la «patria»,
nazione autonoma e indipendente.
        La «patria»  del  Machiavelli  è  una  divinità,  superiore  anche  alla
moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli  ascetici  assorbiva  in  sè
l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori  bruciavano  gli  eretici;  per  la
patria tutto era lecito, e le azioni,  che  nella  vita  privata  sono  delitti,
diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica»
erano le formole volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto  della  patria,
superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si  chiamava
la «patria», ed era non meno terribile. La sua volontà e il  suo  interesse  era
«suprema lex». Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E
quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella  volontà  di  un
solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era  la  partecipazione  più  o  meno
larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano  ancora
nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo,  e  di  fine  a  se
stesso: era l'istrumento della patria, o ciò che è peggio, dello  Stato:  parola
generica, sotto la quale  si  comprendeva  ogni  specie  di  governo,  anche  il
dispotico, fondato sull'arbitrio di un solo. Patria era dove tutti  concorrevano
più o meno al governo,  e  se  tutti  ubbidivano,  tutti  comandavano:  ciò  che
dicevasi «repubblica». E dicevasi  «principato»,  dove  uno  comandava  e  tutti
ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era  sempre
l'individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi,  l'onnipotenza  dello
Stato.
        Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da  lui  trovate  e
analizzate, ma come già  per  lunga  tradizione  ammesse,  e  fortificate  dalla
coltura classica. Ci è lì dentro lo spirito dell'antica Roma,  che  con  la  sua
immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni,  e  si  porgeva
alle menti modello non solo nell'arte  e  nella  letteratura,  ma  ancora  nello
Stato.
        La patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non può vivere  senza
religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè  a
difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma  ancora
perchè co' suoi  costumi  disordinati  e  licenziosi  ha  diminuita  nel  popolo
l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di  Stato,  che  sia  in
mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il  senso,
ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli  statisti.  Anche  la
moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della  fede,
la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le
incontra sulla sua via non istrumenti, ma ostacoli,  gli  spezza.  Leggi  spesso
lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni  principi;  ma  ci
odori un po' di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua  prosa.
Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e
morale schietto e semplice.
        Noi che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato
laico, che si emancipa dalla teocrazia, e diviene  a  sua  volta  invadente.  Ma
allora la lotta era ancor viva, e l'una esagerazione portava l'altra.  Togliendo
le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è  l'autonomia  e  l'indipendenza  del
potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni  vincolo  di
vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun vestigio
di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche  è  «vox  populi»,  il
consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la  forza,  o  la  conquista
legittimata e assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di  papa  ci
entra  pure,  ma  come  forze  atte  a  mantenere  i  popoli  nell'ubbidienza  e
nell'osservanza delle leggi.
        Stabilito il centro della vita  in  terra  e  attorno  alla  patria,  al
Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della  pazienza,
che hanno «disarmato il cielo e effeminato il mondo» e che  rendono  l'uomo  più
atto a «sopportare le ingiurie che  a  vendicarle».  «Agere  et  pati  fortia
romanum est». Il cattolicismo male interpretato  rende  l'uomo  più  atto  a
patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a  questa  educazione  ascetica  e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti
a cacciar via gli stranieri e  a  fondare  la  libertà  e  l'indipendenza  della
patria. La virtù è  da  lui  intesa  nel  senso  romano,  e  significa  «forza»,
«energia», che renda gli uomini atti a' grandi sacrifici e alle grandi  imprese.
Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne'  singolari  incontri  riescono
spesso vittoriosi: manca l'educazione o la disciplina  o,  come  egli  dice,  «i
buoni ordini e le buone armi», che fanno gagliardi e liberi i popoli.
        Alla virtù premio è la gloria. «Patria», «virtù», «gloria», sono le  tre
parole sacre, la triplice base di questo mondo.
        Come gl'individui hanno  la  loro  missione  in  terra,  così  anche  le
nazioni. Gl'individui  senza  patria,  senza  virtù,  senza  gloria  sono  atomi
perduti, «numerus fruges consumere nati». E  parimente  ci  sono  nazioni
oziose e vuote, che non  lasciano  alcun  vestigio  di  sè  nel  mondo.  Nazioni
storiche sono quelle che  hanno  adempiuto  un  ufficio  nell'umanità,  o,  come
dicevasi allora, nel genere umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò  che
rende grandi le nazioni è la virtù  o  la  tempra,  gagliardia  intellettuale  e
corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma come gl'individui,  così
le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le  idee  che  le  hanno  costituite
s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo  del  mondo
fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.
        Il mondo non è regolato da forze  soprannaturali  o  casuali,  ma  dallo
spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e  perciò  fatali.  Il
fato storico non è la provvidenza, e non la fortuna, ma la «forza  delle  cose»,
determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo  spirito  è  immutabile
nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.
        Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o  provvidenziali,
ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,  il  risultato  delle  forze
messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.
        La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo  etico,
determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si  trova
nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e  regolare  le  forze  che
muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa  calcolare  e  maneggiare  queste
forze e volgerle a' suoi fini.
        La grandezza e la caduta delle  nazioni  non  sono  dunque  accidenti  o
miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle
forze che le movono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.
        E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne intendono.
Ci vuole anche la volpe, o la prudenza, cioè l'intelligenza,  il  calcolo  e  il
maneggio delle forze che muovono gli Stati.
        Come gl'individui, così le nazioni  hanno  legami  tra  loro,  dritti  e
doveri. E come ci è un dritto privato, così ci è un dritto  pubblico,  o  dritto
delle genti, o, come dicesi oggi, dritto internazionale. Anche la guerra  ha  le
sue leggi.
        Le nazioni muoiono. Ma lo  spirito  umano  non  muore  mai.  Eternamente
giovane, passa di una nazione in un'altra,  e  continua  secondo  le  sue  leggi
organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa  o
quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale e  logica,  determinata
nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia  del  genere  umano
non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce  ciò  che  poi  fu
detto «filosofia della storia».
        Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel
Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza  segnato  con
chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e  la
storia.
        Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come  i  poetici,
suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali
di quel grande movimento,  sotto  forme  classiche  realista,  ch'era  in  fondo
l'emancipazione dell'uomo dagli  elementi  soprannaturali  e  fantastici,  e  la
conoscenza e il possesso di se stesso. E a' contemporanei non parvero nuovi,  nè
audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
        L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio  evo,  anche  in
Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale,  la
Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente  giudicato.
Dante chiama le gloriose imprese della repubblica «miracoli della  provvidenza»,
come preparazione all'impero: dove pel Machiavelli non ci  sono  miracoli,  o  i
miracoli sono i buoni  ordini;  e  se  alcuna  parte  dà  alla  fortuna,  la  dà
principalissima alla virtù. Di lui è questo  motto  profondo:  «I  buoni  ordini
fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna  nacquero  i  felici  successi  delle
imprese». Il classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due
età inviluppavano le loro tendenze. Sotto  al  classicismo  di  Dante  ci  è  il
misticismo e il ghibellinismo; la corteccia è classica, il nocciolo è medievale.
E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi  cerca  e
trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi  suoi,  dove  «non  è  cosa
alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non  vi
è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma  sono  maculati  di
ogni ragione bruttura». Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter
rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e  in  molte  proposte  e  in
molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche
la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale.  Talora  ti  pare  un
romano avvolto nel pallio, in  quella  sua  gravità;  ma  guardalo  bene,  e  ci
troverai  il  borghese  del  Risorgimento,  con  quel  suo  risolino   equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco;
Machiavelli in quella sua veste  romana  è  vero  borghese  moderno,  sceso  dal
piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla  naturale.  È  in
lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi  de'  tempi
moderni.
        Il medio evo qui  crolla  in  tutte  le  sue  basi,  religiosa,  morale,
politica, intellettuale. E non è solo negazione  vuota.  È  affermazione,  è  il
verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del
mondo, è il suo rinnovamento. Dirimpetto  alla  teocrazia  sorge  l'autonomia  e
l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il  feudo,  le  due  unità
politiche del medio evo,  sorge  un  nuovo  ente,  la  Nazione,  alla  quale  il
Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia,
i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una  specie  di  governo
medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a  un
tempo la libertà e la stabilità, governo  che  è  un  presentimento  de'  nostri
ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i  primi  lineamenti  nel  suo
progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo mondo
politico che appare. Si vegga, fra l'altro,  dove  il  Machiavelli  tocca  della
formazione de' grandi Stati, e soprattutto della Francia.
        Anche la base religiosa è mutata.  Il  Machiavelli  vuole  recisa  dalla
religione ogni temporalità, e,  come  Dante,  combatte  la  confusione  de'  due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile  per  la
profondità dell'ironia. La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è  da
lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,  come  istrumento  di
grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo
Stato, e accomodata a' fini e agl'interessi della nazione.
        Altra è pure  la  base  morale.  Il  fine  etico  del  medio  evo  è  la
santificazione dell'anima, e il  mezzo  è  la  mortificazione  della  carne.  Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è  meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia, non è la
vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la  virtù  è  per  lui  la  vita
attiva, vita di azione, e in servigio della patria. I suoi santi sono più simili
agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario  romano.  O  per  dir
meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.
        E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora,  il
Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se  ne
occupa, e quando vi s'incontra, ne  parla  con  un'aria  equivoca  di  rispetto.
Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale,  vi  mette  a
base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano,  fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. È il  famoso  «cogito»,
nel  quale  s'inizia  la  scienza  moderna.  È  l'uomo  emancipato   dal   mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e  la
sua indipendenza, e prende possesso del mondo.
        E si rinnova  il  metodo.  Il  Machiavelli  non  riconosce  verità  a
priori e princìpi astratti,  e  non  riconosce  autorità  di  nessuno,  come
criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale,  mondi
d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale, e perciò il
modo di cercarla è  l'esperienza  accompagnata  con  l'osservazione,  lo  studio
intelligente de' fatti. Tutto il formolario scolastico  va  giù.  A  quel  vuoto
meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella
pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma  ordinaria  del  parlare
diritta e naturale. Le proposizioni generali, le «maggiori» del sillogismo, sono
capovolte e compariscono in ultimo come risultati di una  esperienza  illuminata
dalla riflessione.  In  luogo  del  sillogismo  hai  la  «serie»,  cioè  a  dire
concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed  effetto,  come  si  vede  in
questo esempio:

«Avendo la città di Firenze ... perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a
fare guerra a coloro che lo occupavano, e perchè chi l'occupava era potente,  ne
seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun  frutto:  dallo  spendere
assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e
perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci  cittadini,  ...
l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fosse  cagione  e
della guerra e delle spese di essa.»

        Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano  e  si  spiegano  a
vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata,  che  ti  dà  le  cause  vere,
visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima che ti  dà  la  causa
apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad  opere  inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente  ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano  nella
natura e nell'uomo, non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi  sono
legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che  ciascuno  ha  il  suo
posto, ha il suo valore di causa o di effetto, ha il suo  ufficio  in  tutta  la
catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma  è  ragione,  considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto  in  poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla
sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti intellettuali, e
perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla
storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione,  e  presentati  con
semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti  intellettuali  sono  rimasti
anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel «ritirare le cose  a'  loro
princìpi», o quell'ironia de' «profeti disarmati», o «gli uomini si stuccano del
bene, e del male si affliggono», o «gli uomini bisogna carezzarli o  spegnerli».
Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono  un  intero  arsenale,
dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue  spoglie.  Come  esempio  di
questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina,  ricordo  la
famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la  forma
letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma
sillogistica dissimulata, una proposizione  corteggiata  dalla  sua  maggiore  e
dalle sue idee  medie,  ciò  che  dicevasi  dimostrazione,  se  la  materia  era
intellettuale, o descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà
semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio; non descrive  e  non  dimostra,
narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la  forma
letteraria, ma uccide la forma stessa come forma, e fa questo nel  secolo  della
forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un
nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla.  O,  per  dire
più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè
nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è  che
la cosa sia ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il  mondo  è  così  e
così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa  o  debba  essere
altrimenti. La base  della  vita,  e  perciò  del  sapere,  è  il  «Nosce  te
ipsum», la conoscenza del  mondo  nella  sua  realtà.  Il  fantasticare,  il
dimostrare, il descrivere, il moralizzare  sono  frutto  d'intelletti  collocati
fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la
sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno
sguardo superiore, il suo motto è: «Nil admirari». Non  si  maraviglia  e
non si appassiona, perchè comprende, come non dimostra e  non  descrive,  perchè
vede  e  tocca.  Investe  la  cosa  direttamente,  e  fugge  le  perifrasi,   le
circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le  figure,  i
periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più
breve, e perciò la diritta: non si distrae  e  non  distrae.  Ti  dà  una  serie
stretta e rapida di proposizioni e di fatti,  soppresse  tutte  le  idee  medie,
tutti gli accidenti, e tutti gli episodi. Ha l'aria  del  pretore,  che  «non
curat de minimis», di un uomo occupato in cose gravi, che non ha  tempo,  nè
voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non  è  un
artificio, come talora è in Tacito e sempre  è  nel  Davanzati,  ma  è  naturale
chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui  gli
spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed
è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità  di  riempiere  gli
spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli  oziosi.
La sua semplicità talora è  negligenza;  la  sua  sobrietà  talora  è  magrezza:
difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e
gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in  quella  divina  prosa  trovino
latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.
        La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura,  non
interna  coesione:  vi  abbonda  l'affetto  e  l'immaginativa,   vi   scarseggia
l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza,  anzi  l'affettazione
dell'ossatura, la cui  espressione  è  il  periodo.  Ma  l'ossatura  non  è  che
esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula  il
vuoto e la dissoluzione interna.  Il  vuoto  non  è  nell'intelletto,  ma  nella
coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al  di
fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati  con  la  stessa
serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie
di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è  apparente,  è  tutta  formale  e
perciò rettorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor  della
Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo
sul forno, salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della
sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano  sono  le
due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed
elegante, tutta al di  fuori,  in  mezzo  alla  quale  vivevano  il  Casa  e  il
Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e  ne'
modi. Anche l'intelletto, in quella sua virilità ozioso,  poneva  la  principale
importanza della  composizione  ne'  costumi  e  ne'  modi,  ovvero  nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in  breve  convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I
filosofi  non  avevano  ancora  smesse  le  loro  forme  scolastiche,  i   poeti
petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e  rettorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una,  la  passività  o
indifferenza dell'intelletto, del cuore,  dell'immaginazione,  cioè  a  dire  di
tutta l'anima. Ci era lo scrittore,  non  ci  era  l'uomo.  E  fin  d'allora  fu
considerato lo scrivere come un  mestiere,  consistente  in  un  meccanismo  che
dicevasi «forma  letteraria»,  nella  piena  indifferenza  dell'animo:  divorzio
compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di  prose  rettoriche  e
poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della  prosa  moderna.
Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è  solo  in  quanto  uomo.  Il
Machiavelli sembra quasi ignori che  ci  sia  un'arte  dello  scrivere,  ammessa
generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci  si  prova,  e  ci  riesce
maestro; ed è, quando vuol fare il letterato anche lui. L'uomo è in  lui  tutto.
Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo  caldo
dal di dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perchè  è  un
uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e  riflette,  con  lo  spirito
sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure  la  cosa  vien
fuori insieme con le impressioni fatte nel  suo  cervello,  perciò  naturalmente
colorita, traversata d'ironia, di malinconia,  d'indignazione,  di  dignità,  ma
principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara  e  piena
come un marmo, ma un marmo qua e là venato. È la grande  maniera  di  Dante  che
vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti al medio evo  ne'  nomi  delle
cose e degli uomini, finisce così: «e i Cesari  e  i  Pompei  Pietri,  Mattei  e
Giovanni diventarono». Qui non ci è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene
in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine  nel  suo
cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei, il disprezzo per quei Pietri e
Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla  scelta  caratteristica  de'
nomi, al loro collocamento  in  contrasto  come  nemici,  e  a  quell'ultimo  ed
energico «diventarono», che accenna a mutamenti non solo di nomi, ma  di  animi.
Questa prosa asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose,  annunzia
l'intelletto già adulto emancipato da  elementi  mistici,  etici  e  poetici,  e
divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza  delle  cose,  il
fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli
lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello  che  è,  un
attrito di forze umane e naturali, dotate  di  leggi  proprie.  Ciò  che  dicesi
«fato», non è altro che la logica, il  risultato  necessario  di  queste  forze,
appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate  da
una forza superiore, lo spirito umano, il  pensiero,  l'intelletto.  Il  Dio  di
Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e  dell'atto:  il  risultato  era
sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle
forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare -, dice Dante. -  Bisogna
intendere -, dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è  il  cuore:  l'anima
del mondo machiavellico e il cervello. Quel mondo è  essenzialmente  mistico  ed
etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato.
Non è  sentimento  morale,  ma  è  semplicemente  forza  o  energia,  la  tempra
dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso, perchè avea la forza di operare  secondo
logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva accettato lo scopo.  Se  l'anima
del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.
        Ora possiamo comprendere  il  Machiavelli  nelle  sue  applicazioni.  La
storia di Firenze sotto forma narrativa è una  logica  degli  avvenimenti.  Dino
scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita:  tutto  gli  par  nuovo,
tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante,
nel Mussato, in tutt'i trecentisti. Ma ciò che interessa  il  Machiavelli  è  la
spiegazione de' fatti  nelle  forze  motrici  degli  uomini,  e  narra  calmo  e
meditativo, a modo di  filosofo  che  ti  dia  l'interpretazione  del  mondo.  I
personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione:  non
è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena, nè dietro la  scena;  ma  è
nella sua camera, e mentre i  fatti  gli  sfilano  avanti,  cerca  afferrarne  i
motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare  e
tutto raccolto in questo  lavoro  intellettivo,  non  distratto  da  emozioni  e
impressioni. È l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda  con  compassione  a'
moti convulsi e nervosi delle passioni.
        Ne' Discorsi ci è maggior  vita  intellettuale.  L'intelletto  si
stacca da' fatti, e vi torna, per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il
punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello  che  tutti
sanno, ed ha fretta di uscirne. Ma,  appena  finito  il  racconto,  comincia  il
discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella  fonte,  se  ne  spicca  tutto
pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il  piacere
di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir  cose  che
a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben  serrata,
dove non penetra niente dal di fuori, a  turbarvi  l'ordine.  Non  è  una  mente
agitata nel calore  della  produzione  tra  quel  flutto  d'immaginazioni  e  di
emozioni che ti annunzia la fermentazione  come  avviene  talora  anche  a'  più
grandi pensatori. È l'intelletto pieno di gioventù e di  freschezza,  tranquillo
nella sua forza, e in  sospetto  di  tutto  ciò  che  non  è  lui.  Digressioni,
immagini, effetti paragoni, giri viziosi,  perplessità  di  posizioni,  tutto  è
sbandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute  fuori
da un vigor d'analisi insolito e legate da  una  logica  inflessibile.  Tutto  è
profondo, ed è così chiaro e semplice, che ti par superficiale.
        Il fondamento de' Discorsi è questo, che gli  uomini  «non  sanno
essere nè in tutto buoni, nè in tutto tristi», e perciò non hanno tempra logica,
non hanno virtù.  Hanno  velleità,  non  hanno  volontà.  Immaginazioni,  paure,
speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro  la  risolutezza.  Perciò
«stanno» volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e  «seguono
le apparenze». Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito  insaziabile  che
lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli  uomini
non sono  tranquilli,  e  salgono  di  un'ambizione  in  un'altra,  e  prima  si
difendono, e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli  scopi  gli
uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti.
        Quello che degl'individui, si può dire anche dell'uomo collettivo,  come
famiglia, o classe. Nelle società non ci è in fondo che due sole  classi,  degli
«abbienti» e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia non  è  se
non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici  sono  mezzi  di
equilibrio tra le classi. E sono liberi, quando hanno a fondamento l'«equalità».
Perciò libertà non può essere, dove sono «gentiluomini» o classi previlegiate.
        È chiaro che una scienza o arte politica non  è  possibile,  quando  non
abbia per base la conoscenza della materia su  che  si  ha  a  esercitare,  cioè
dell'uomo come individuo  e  come  classe.  Perciò  una  gran  parte  di  questi
Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini  o  delle  plebi,  degli
ottimati o  gentiluomini,  de'  principi,  de'  francesi,  de'  tedeschi,  degli
spagnuoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per  originalità  di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien  fuori  il  «carattere»,
cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad operare così o così.
Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata; e  perciò
freschissime e vive anche oggi.
        Poichè il carattere umano ha  questa  base  comune,  che  i  desidèri  o
appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la  virtù  del  conseguirli,  hai
disproporzione tra lo scopo  e  i  mezzi;  onde  nascono  le  oscillazioni  e  i
disordini della storia. Perciò la  scienza  politica  o  l'arte  di  condurre  e
governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi;
e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli  uomini
e le nazioni. La logica governa il mondo.
        Questo punto di  vista  logico,  preponderante  nella  storia,  comunica
all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza,  come  di
uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno  sa,
e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo
allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione  e
dalle sue passioni: com'è proprio del volgo.
        Un'applicazione di  questa  implacabile  logica  è  il  Principe.
Machiavelli biasima i principi che per fraude o per forza tolgono la libertà  a'
popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano  mantenerlo.  Lo
scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non
che il principe provvede  a  se  stesso,  provvedendo  allo  Stato.  L'interesse
pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone  leggi  che
assicurino  l'onore,  la  vita,  la  sostanza  de'  cittadini.  Dee   mirare   a
procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e
gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non  ammazzandoli,  ma  studiandoli  e
comprendendoli, «non ingannato da loro, ma ingannando loro».  Come  stanno  alle
apparenze, il principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo essere,
parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e  degl'ingegni.
Nè tema d'essere scoperto;  perchè  gli  uomini  sono  naturalmente  semplici  e
creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri  a
farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.
        Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna  vi
troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita  reale.  Chi
legge questo Principe  del  Machiavelli,  vi  troverà  un  crudele  mondo
logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi  è  come  natura,
sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri  morali,  ma
secondo criteri logici. Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli fa
sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra' mezzi
e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come
intelligenza. L'Italia non ti potea dare più un mondo divino ed etico: ti dà  un
mondo logico. Ciò  che  era  in  lei  ancora  intatto  era  l'intelletto;  e  il
Machiavelli ti dà il mondo  dell'intelletto,  purgato  dalle  passioni  e  dalle
immaginazioni.
        Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò  a  cui
mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo e  la  virtù  di
andarvi diritto senza guardare a destra  e  a  manca  e  lasciarsi  indugiare  o
traviare da riguardi accessorii o estranei.  La  chiarezza  dell'intelletto  non
intorbidato da elementi soprannaturali o fantastici  o  sentimentali  è  il  suo
ideale. E il suo eroe  è  il  domatore  dell'uomo  e  della  natura,  colui  che
comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo  scopo
può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui  il  primo  ad
alzare la voce e protestare in  nome  del  genere  umano.  Veggasi  il  capitolo
decimo, una delle proteste più eloquenti che sieno uscite da un gran cuore.  Ma,
posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per  colui  che  ha  voluto  e
saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo,  non  è  ne'  mezzi.
Quanto ai  mezzi,  la  responsabilità  è  nel  non  sapere  o  nel  non  volere,
nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso  o
lo spregevole. L'odioso è il male fatto  per  libidine  o  per  passione  o  per
fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa
andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.
        Quando Machiavelli scrivea queste  cose,  l'Italia  si  trastullava  ne'
romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno  serio  del
mondo e meno disciplinato. La  tempra  era  rotta.  Tutti  volevano  cacciar  lo
straniero, a tutti «puzzava  il  barbaro  dominio»;  ma  erano  velleità.  E  si
comprende  come  il  Machiavelli  miri  principalmente  a  ristorare  la  tempra
attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà,
virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro.
E Machiavelli glorifica la tempra anche nel male.  Innanzi  a  lui  è  più  uomo
Cesare Borgia, intelletto chiaro e  animo  fermo,  ancorachè  destituito  d'ogni
senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma «anima sciocca»,
che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.
        Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era  integro.  Se
da una parte Machiavelli poneva a base della  vita  l'essere  «uomo»,  iniziando
l'età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico
dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca  era  appunto  la  forza
incoerente, cioè a dire indisciplinata e  senza  scopo.  Il  tipo  cavalleresco,
com'era concepito  in  Italia,  era  ridicolo  per  questo,  che  si  presentava
all'immaginazione come un esercizio incomposto di  una  forza  gigantesca  senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza ne' fini  più
seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
        Ci erano certo i fini cavallereschi, come  la  tutela  delle  donne,  la
difesa degli oppressi, ma che parevano a quel pubblico intelligente  e  scettico
comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può
dire di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che Doralice dicea
a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello
avea fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse,  «fu  naturale
ferita di core» - Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura
il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gittava  la  base
di una nuova età su questo  principio  virile,  che  la  forza  è  intelligenza,
serietà di scopo e di mezzi. Ciò  che  l'Italia  distruggeva,  ciò  che  creava,
rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.
        Ma in Italia c'era l'intelligenza e non ci era la forza.  E  si  credeva
con la superiorità intellettuale  di  potere  cacciar  gli  stranieri.  Era  una
intelligenza adulta, svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena
indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte.
Nella coscienza non ci era più uno scopo, nè un contenuto. E quando la coscienza
è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche nella  maggiore  virilità
dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente  negativo  e
comico. Agl'italiani era  più  facile  ridere  delle  forze  indisciplinate  che
disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via.  Il  frizzo
era l'attestato della loro superiorità  intellettuale  e  della  loro  decadenza
morale. Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la  conseguenza,
ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno  ad  una  idea,  e  risoluti  a
vivere e a morire per quella.
        Machiavelli ebbe una  coscienza  chiarissima  di  questa  decadenza,  o,
com'egli diceva, «corruttela»:

        «Qui, - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne'
capi. Specchiatevi ne' duelli e ne'  congressi  de'  pochi,  quanto  gl'italiani
siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno.»

        Pure l'Italia era corrotta, perchè difettiva di forze morali,  e  perciò
di un degno scopo, che riempisse di sè la coscienza nazionale Di  lui  è  questo
grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari, nè le fortezze, nè
i soldati,  ma  le  forze  morali,  o,  com'egli  dice,  il  patriottismo  e  la
disciplina.  Di  quella  corruzione  italiana  la   principal   causa   era   il
pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui  Lutero
era il comento:

        «La ... religione, se ne' princìpi della repubblica cristiana  si  fosse
mantenuta secondo che dal fondatore di essa fu ordinato, sarebbero gli  Stati  e
le repubbliche più felici e più unite ch'elle non sono. Nè  si  può  fare  altra
maggiore coniettura della declinazione  d'essa,  quanto  è  vedere  come  quelli
popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della  religione  nostra,
hanno meno religione.  Chi  considerasse  i  fondamenti  suoi  e  vedesse  l'uso
presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo o la rovina o
il flagello.»

        Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese,  ma  è
un dovere, di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:

        «Chi nasce in  Italia  e  in  Grecia,  e  non  sia  divenuto  in  Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.»

Per lui è questo una sacra missione, un atto di  patriottismo.  Il  suo  sguardo
abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media,  in
Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' Franchi, il regno  de'
Turchi, quello del soldano, e le geste della «setta saracina», e le  virtù  «de'
popoli della Magna» al tempo suo. Lo  spirito  umano,  immutabile  e  immortale,
passa di gente in gente e vi mostra  la  sua  virtù.  E  quando  gitta  l'occhio
sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono  dove
narra la decadenza di Genova, di Venezia,  di  altre  città  italiane  in  tanto
fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli
sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere  la
malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio d'uomo dabbene.  Questo  sentimento
del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale:

        «Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più
chiari del sole, andrei nel parlare  più  rattenuto.  Ma,  essendo  la  cosa  sì
manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente  quello  che
intenderò di quelli e di questi tempi,  acciocchè  gli  animi  de'  giovani  che
questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e  prepararsi  ad  imitar
quelli... Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene, che  per  la  malignità
dei tempi e della fortuna non ha potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè,
sendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.»

Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
        Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini  e  cose.
Del papato tutti sanno quello che ha  scritto.  Nè  è  più  indulgente  verso  i
principi:

        «Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro,
per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro;  perchè,  non
avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, ... quando poi  vennero
i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi.»

Degli avventurieri scrive:

        «Il fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa  da  Carlo,
predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ...  tanto  che
essi han condotto Italia schiava e vituperata.»

Nè è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in
questa maravigliosa pittura:

        «Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono de' proventi  delle
loro possessioni abbondantemente, senz'avere alcuna cura o  di  coltivare  o  di
alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali  sono  perniciosi  in  ogni
provincia: ma più  perniciosi  sono  quelli  che  oltre  alle  predette  fortune
comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono  a  loro.  Di  queste  due
sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la
Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è stato  mai  alcuno  vivere
politico, perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà.»

Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro,  e
che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che  ha  gittato  giù  i
conventi,  ed  ha  rovinato  dalla  radice  non  solo  il  sistema  ascetico   o
contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che  l'ozio
de' pochi vivea del lavoro de' molti. Un uomo, che con  una  sagacia  pari  alla
franchezza nota tutte  le  cause  della  decadenza  italiana,  potea  ben  dire,
accennando a Savonarola:

        «Ond'è che a Carlo, re di Francia,  fu  lecito  a  pigliare  Italia  col
gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva  il
vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati.»

Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna. Anche allora de'  mali
d'Italia accagionavano la mala sorte. Machiavelli scrive:

        «La fortuna dimostra la  sua  potenza,  dove  non  è  ordinata  virtù  a
resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la  sa  che  non  sono  fatti  gli
argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia che è  la  sede  di
queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna
senza argini e senza alcun riparo.»

        Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un  redentore,
un principe italiano, che come Teseo o  Ciro  o  Mosè  o  Romolo,  la  riordini,
persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di un solo, a governarlo
l'opera di  tutti.  Ne'  grandi  pericoli  i  romani  nominavano  un  dittatore:
nell'estremo della corruzione  Machiavelli  non  vede  altro  scampo  che  nella
dittatura:

        «Cercando un principe  la  gloria  del  mondo,  dovrebbe  desiderare  di
possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come  Cesare,  ma  per
riordinarla, come Romolo.»

Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:

        «Nè sia è alcuno che s'inganni  per  la  gloria  di  Cesare,  sentendolo
massime celebrare dagli scrittori; perchè questi che  lo  lodano  sono  corrotti
dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale,  reggendosi
sotto quel nome, non permetteva che gli  scrittori  pèarlassero  liberamente  di
lui. Ma chi vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne  direbbero,  vegga
quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da
biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga pure
con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per la sua
potenza, e' celebrano il nimico  suo...  E  conoscerà  allora  benissimo  quanti
obblighi Roma, Italia, il mondo abbia con Cesare.»

        Machiavelli promette, a chi prende lo  Stato  con  la  forza,  non  solo
l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:

        «Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come  sono  loro
proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri,  e  dopo  la  morte  gli  rende
gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di
se una sempiterna infamia.»

        Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani  l'Italia  dalle
sue ferite, «e ponga fine ... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e  taglie
del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per  lungo  tempo
infistolite». È l'idea tradizionale del Redentore  o  del  Messia.  Anche  Dante
invocava un messia politico, il  veltro.  Se  non  che  il  salvatore  di  Dante
ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè  la  sua  Italia  era  il  giardino
dell'impero;  dove  il  salvatore  di  Machiavelli  doveva  essere  un  principe
italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che  era  fuori
di lei era straniero, barbaro, «oltramontano».  Chi  vuol  vedere  il  progresso
dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e  scolastica
Monarchia dell'uno  col  Principe  dell'altro,  così  moderno  ne'
concetti e nella forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia,  non  meno  che
l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le  cagioni.  «Patria»,  «libertà»,
«Italia», «buoni ordini», «buone armi», erano parole per  le  moltitudini,  dove
non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.  Le  classi  colte,
ritiratesi da lungo tempo nella vita privata,  tra  ozi  idillici  e  letterari,
erano cosmopolite, animate dagl'interessi generali dell'arte  e  della  scienza,
che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva
la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima
la spaventarono con la ferocia degli atti e de' modi;  poi  la  vinsero  con  le
moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani,
perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca de' loro poeti
signori del mondo, e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli  stranieri  ce
ne era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma ci era così poca fibra, che di
una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso  Machiavelli
fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua
attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico  e
poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di  un  nobile
cuore che la calma persuasione di un uomo  politico.  Furono  illusioni.  Vedeva
l'Italia un po' a traverso de' suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, e di
avere avuto queste illusioni. E la  sua  gloria,  come  pensatore,  è  di  avere
stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società  moderna  e
della nazione italiana, destinati a  svilupparsi  in  un  avvenire  più  o  meno
lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni  del  presente  erano  la
verità del futuro.
        Non è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo,  con
tanta sagacia d'osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua  natura  ci
entrava molto del poetico.  Vedilo  nell'osteria  giocare  con  l'oste,  con  un
mugnaio, con due fornaciari a «picca» e a «tric trac»:

        «E ... nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose, e il
più delle volte si combatte per un quattrino,  e  siamo  sentiti  non  di  manco
gridare da San Casciano.»

Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi:

        «Rinvolto in quella viltà, traggo il  cervello  di  muffa,  e  sfogo  la
malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti  per  quella  via,
per vedere se la se ne vergognasse.»

         Vedilo  tutto  solo  pel  bosco  con  un  Petrarca  o  con   un   Dante
«libertineggiare»  con  lo  spirito,   fantasticare,   abbandonato   alle   onde
dell'immaginazione.

«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio  mi
spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali
e curiali, e vestito  decentemente  entro  nelle  antiche  corti  degli  antichi
uomini; da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che  solum  è
mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli  delle  loro  azioni,  ed
essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte,
tutto mi trasferisco in loro.»

        Quel «trasferirsi in loro», quel «libertineggiare» sono frasi  energiche
di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. Ci  è  una  parentela  tra
Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici,  nutrito  dello
spirito del Boccaccio, che si beffa della «divina Commedia», e cerca la commedia
in questo mondo. Nella sua utopia è  visibile  una  esaltazione  dello  spirito,
poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la  bandiera,  grida:  -  Fuori  i
barbari! - A modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo  spettacolo  della  sua
immaginazione:

         «Quali  porte  se  gli  serrerebbero?  quali  popoli  gli  negherebbero
l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe?  quale  italiano  gli  negherebbe
l'ossequio?»

E finisce co' versi del Petrarca:

        Virtù contra al furore
        prenderà l'armi, e fia il combatter corto:
        chè l'antico valore
        negl'italici cor non è ancor morto.

Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di  un  mondo
morale e civile, e di un popolo virtuoso e  disciplinato,  ispirata  dall'antica
Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo
poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano  da  quel
tipo, troppo simile per molte parti a' suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera
musa non è l'entusiasmo, è l'ironia. La  sua  aria  beffarda  congiunta  con  la
sagacia dell'osservazione lo chiariscono  uomo  del  Risorgimento  De'  principi
ecclesiastici scrive:

        «Costoro soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e  non  gli
governano, e gli Stati per essere indifesi non sono lor tolti, ed i sudditi  per
non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da  loro.
... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale  la  mente  umana  non
aggiunge, lascerò il parlarne; perchè, essendo  esaltati  e  mantenuti  da  Dio,
sarebbe ufficio d'uomo temerario e presuntuoso il discorrerne.»

        In tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di
chi scrive quel piglio ironico che trovi ne' contemporanei. Famosi sono  i  suoi
ritratti  per  l'originalità  e  vivacità  dell'osservazione.  De'  francesi   e
spagnuoli scrive:

        «Il francese ruberia con l'alito, per mangiarselo e mandarlo a  male,  e
goderselo con colui a chi ha rubato: natura contraria dello  spagnuolo,  che  di
quello che ti ruba, mai ne vedi nulla.»

        Da questo profondo ed  originale  talento  di  osservazione,  da  questo
spirito ironico uscì la Mandragola, l'alto riso nel quale finirono le sue
illusioni e i suoi disinganni.
        Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa  nelle  forme
di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale
di Bibbiena scrivea per le corti di Urbino e  di  Roma.  Vi  si  rappresentavano
anche con molta magnificenza traduzioni dal  latino.  Talora  gli  attori  erano
fanciulli.

        «Fu pur troppo nuova cosa, - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini
lunghi un palmo servare quella gravità,  quelli  gesti  così  severi,  [simular]
parasiti e ciò che fece mai Menandro.»

Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano  le
«moresche», balli mimici.  Le  decorazioni  magnifiche.  Nella  rappresentazione
della Calandria in Urbino vedevi

«un tempio, ... tanto ben  finito,  -  dice  il  Castiglione  -  che  non  saria
possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato  di  stucco,
con istorie bellissime: finte le finestre di alabastro, tutti gli  architravi  e
le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino, ... figure intorno tonde  finte  di
marmo, colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era  finta
di marmo, ma era pittura, la storia  delli  tre  Orazi,  bellissima...  In  cima
dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un  bello
atto, che ferìa con un'asta un nudo, che gli era a' piedi.»

L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa  delle  sue  arti,  architettura,
scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una «moresca di Iasón» o Giasone, un carro di Venere,  un  carro  di
Nettuno, un  carro  di  Giunone.  La  prima  intromessa  è  così  descritta  dal
Castiglione:

        «La prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella scena  da  un
capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada  e  una  targa  bellissima
dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al  vero,  che  alcuni
pensàrno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca. A questi  si  accostò
il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro, e  poi  seminò  i
denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati  all'antica,
tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una  fiera  moresca,
per ammazzare Iasón; e poi quando furono all'entrare, si ammazzavano ad  uno  ad
uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn,  e  subito  uscì
col vello d'oro alle spalle, ballando  eccellentissimamente,  e  questo  era  il
Moro, e questa fu la prima intromessa.»

Finita la commedia nacque sul palco all'improvviso un Amorino, che dichiarò  con
alcune stanze il significato delle intromesse. Poi

«si udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci  con  le  viole,
che cantarono una stanza con un bello aere di  musica,  quasi  una  orazione  ad
Amore: e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere  di  chi  la
vide.»

dice sempre il Castiglione, l'autore del  Cortigiano,  che  ci  ebbe  non
piccola parte ad ordinarla.

        Cosa era questa Calandria, nella cui  rappresentazione  Urbino  e
poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il  protagonista  è  Calandro,  un
facsimile  di  Calandrino,  il  marito   sciocco,   motivo   comico   del
Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e  novelle.  Non  vi
manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio  nasce
da un fratello e una sorella similissimi di figura, che vestiti or da  uomo,  or
da donna generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco ci è anche il furbo, e
il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano  al  padrone,
il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo
e Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la  baia.  Come  si
vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela  è  antica,
lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle  più  ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è  vivo
e fresco: ci senti la scuola fiorentina  del  Berni  e  del  Lasca,  l'alito  di
Lorenzo de' Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gittato  sul  mondo.  I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli  accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo,  più  simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni.  Pare  che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire,  e  che  tutta  la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi  è  stata  tutta
nelle gole de' cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le  commedie
dette «d'intreccio», sullo stesso stampo delle novelle.
        A prima vista ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola.  Anche
ivi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e  più  strani.  Ma
niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia, come ha concepito
la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna  di  qualità
proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato.  L'interesse  è
perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo.  Il  protagonista  è  il  solito
marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto  e
che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di lui,
ma più pratica del mondo. Ci è già qui un concetto assai più profondo che non  è
in Calandro: si sente il gran pensatore. L'obbiettivo dell'azione  comica  è  la
moglie, virtuosissima e prudentissima donna,  vera  Lucrezia.  E  si  tratta  di
vincerla non con la forza, ma con  l'astuzia.  Gli  antecedenti  sono  simili  a
quelli della Lucrezia  romana.  Callimaco,  come  Sesto,  sente  vantar  la  sua
bellezza, e lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla sua.
La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è  mutato  e
rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto  esercitare
il suo ingegno a scriver commedie?

        Scusatelo con questo, che s'ingegna
        con questi van pensieri
        fare il suo tristo tempo più soave;
        perchè altrove non ave
        dove voltare il viso;
        chè gli è stato interciso
        mostrar con altre imprese altre virtue,
        non sendo premio alle fatiche sue.

Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia.  Mentre  Carlo
ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo  d'Aragona  si  scrivevano  i
loro intrighi d'amore, il cardinale da Bibbiena, «assassinato di  amore»,  e  il
Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani  e
l'altro la  Calandria,  e  Machiavelli  parlava  al  deserto,  ammonendo,
consigliando, e non udito e non curato, fece come gli altri,  scrisse  commedie,
ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.
        Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio,  un
parasito che usava in casa Nicia. Lo  sciocco  è  Nicia,  il  furbo  è  Ligurio,
l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene  le  fila  in  mano,  e  fa
movere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere,  ciò  che
li move.
        Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e  che  per  un  buon
boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Iago,  perchè  Nicia  non  è
Otello. E un volgare mariuolo, che con un po' più  di  spirito  farebbe  ridere.
Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d'uomo che abbia nel Principe
concepito Machiavelli. Fessenio è  più  allegro  e  più  spiritoso,  perciò  più
tollerabile. Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la  pancia:  finisce
le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato,  e  questa
figura ti riesce volgare e fredda.
        Un altro associato di Callimaco è il suo  servo  Siro.  Costui  ha  poca
parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto,  capisce  tutto,  ed  ha
aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in  mezzo  a'  suoni.  Ma
questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo. Ciò che  non
guasta nulla, essendo una parte secondaria.
        Colui che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini  è  Ligurio.  E
sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere  sè,  e  mettere  in
vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri  nella  sua
opera, e perdi lui di vista.
        Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe  monete  false.
La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie  e  i  delirii.
Non è amore petrarchesco, e non è cinica volgarità: è  vero  amor  naturale  coi
colori suoi, rappresentato con una esagerazione  e  una  bonomia  che  lo  rende
comico.

        «... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto  poco  su;  perchè  d'ogni  parte
m'assalta tanto desio d'essere una volta con costei, ch'io mi sento dalle piante
de' piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si  commuovono,  il
cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta,
gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.»

        Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al  dottor
Nicia, il marito  sciocco,  sì  sciocco  che  diviene  istrumento  inconsapevole
dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio
intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui
e lo situa ne' modi più  acconci  a  metterlo  in  lume.  La  sua  semplicità  è
accompagnata con  tanta  prosunzione  di  saviezza  e  con  tanta  sicurezza  di
condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo  gabba,  ma
ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben  vedere  agli
spettatori. Nelle ultime scene ci è una forza e originalità comica che ha  pochi
riscontri nel teatro antico e moderno.
        Il difficile non era gabbare Nicia, ma  persuadere  Lucrezia.  L'azione,
così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e  ti  rivela
inesplorate profondità.  Gl'istrumenti  adoperati  a  vincer  Lucrezia  sono  il
confessore  e  la  madre,  la  venalità  dell'uno,   l'ignoranza   superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente  ignudo,
scopre senza pietà quel putridume Sostrata, la  madre,  in  poche  pennellate  è
ammirabilmente dipinta. È una brava donna, ma di  poco  criterio,  e  avvezza  a
pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola  risponde:
- Io non ti so dire tante cose, figliuola mia.  Tu  parlerai  al  frate,  vedrai
quello che ti dirà, e farai quello che tu di poi sarai consigliata  da  lui,  da
noi e da chi ti vuol bene -. E non si parte mai di là, è la sua idea  fissa,  la
sua sola idea: - T'ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia
carico di coscienza, che tu  lo  faccia  senza  pensarvi  -.  Il  confessore  sa
perfettamente che madre è questa. «... È ... una bestia, - dice - e  sarammi  un
grande aiuto a condurre Lucrezia alle mie voglie». -
        Il carattere più interessante è fra Timoteo, il precursore  di  Tartufo,
meno artificiato, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa,  della  Madonna,
del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega rende poco. E lui
aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la riputazione
dell'immagine miracolosa della Madonna:

        «Io dissi mattutino, lessi una Vita de'  santi  padri,  andai  in
chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo a una Madonna che  fa
miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano  pulita?  E  si
maravigliano poi che la divozione manca. Oh quanto poco cervello e in questi mia
frati!»

Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: còlto sul fatto in  un
dialogo con una sua penitente, pittura di costumi profonda nella sua semplicità.
Sta spesso in chiesa, perchè «in  chiesa  vale  più  la  sua  mercanzia».  È  di
mediocre levatura, buono a uccellar donne:

        «... Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà,
e tutte le donne hanno poco cervello, e come n'e una che sappia dire due parole,
e' se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.»

Conosce bene i suoi polli:

        «Le più caritative persone che sieno son le donne, e le più  fastidiose.
Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha  l'utile  e  i
fastidi insieme. Ed è vero che non è il mele senza le mosche.»

Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del  mestiere  con
la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio che,  promettendo
larga limosina, lo richiede che procuri un aborto, risponde: - Sia col  nome  di
Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta  ogni  cosa.  ...
Datemi ... cotesti danari, da poter cominciare  a  far  qualche  bene  -.  Parla
spesso solo, e si fa il suo esame, e si dà l'assoluzione,  sempre  che  glie  ne
venga utile:

        «Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti
sono per trarre assai. La cosa conviene che stia segreta, perché l'importa  così
a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento.»

Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia:

        «Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella,
diceva il mio ufficio, intratteneva i  miei  divoti.  Capitommi  innanzi  questo
diavolo di Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io  vi  ho
messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dov'io m'abbia a  capitare.
Pure mi conforto che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.»

continua
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