Online Utenti Main site mappa sito pagina gratis e-mail gratis guadagna blog (?)
 goto english version
translate
Home
Aggiorna pagina
Aggiungi ai preferiti
Cerca nel sito
Aggiungi link a
questa pagina
Pagina iniziale
Guestbook
Stampa pagina
contatta AOL - ICQ
Compra da
Astalalista
Inserisci annuncio
Aggiungi Link
Dì ad un amico
di questo sito
Aiuta la battaglia contro lo Spam!
powered by astalalista
Random Link!
Hosted By
HostedScripts.com
preleva - bambini - incontri - meta - altre

Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana

Questo è l'uomo, a cui la madre conduce la figliuola. Il frate spiega  tutta  la
sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel  poco  che
sa del Vangelo e della storia sacra.

«Io son contenta, - conchiude Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina».

E il frate risponde:

«Non dubitare, figliuola mia,  io  pregherò  Dio  per  te,  io  dirò  l'orazione
dell'angiolo Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora,  e  preparatevi  a
questo misterio, che si fa sera. - Rimanete in pace, padre -»

dice la madre, e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira:

«Dio m'aiuti e la nostra Donna che non càpiti male».

Quel fatto il frate lo chiama un «misterio», e il mezzano è l'angiol Raffaello!

        Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la  Riforma.
In Italia facevano ridere. E il primo a ridere  era  il  papa.  Quando  un  male
diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è  cancrena,  e
non ha rimedio.
        Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso
di Machiavelli ci  è  alcun  che  di  tristo  e  di  serio,  che  oltrepassa  la
caricatura, e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza  con
Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa,  se  ne  sta  lontano,
quasi  abbia   ribrezzo.   Timoteo   è   anima   secca,   volgare   e   stupida,
senz'immaginazione e senza spirito, non  è  abbastanza  idealizzato,  ha  colori
troppo crudi e cinici. Lo stile nudo e naturale ha aria più di discorso  che  di
dialogo.  Senti  meno  il  poeta  che  il  critico,  il  grande  osservatore   e
ritrattista.
        Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto  il  suo
tempo. È troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale  e
particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che  la  ispirarono,  non  li
trovi oggi più. La depravazione del prete e la  sua  terribile  influenza  sulla
donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue:  non  possiamo
farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella  pittura  di
Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assimiglia piuttosto un
anatomico, che  nuda  le  carni  e  mostra  i  nervi  e  i  tendini.  Nella  sua
immaginazione non ci è il riso e non ci è l'indignazione al cospetto di Timoteo:
c'è  quella  spaventevole  freddezza  con  la  quale  ritrae  il   principe,   o
l'avventuriere  o  il  gentiluomo.  Sono  come  animali  strani,  che,   curioso
osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno  studio,  estraneo  alle
emozioni e alle impressioni.
        La Mandragola è la base di tutta  una  nuova  letteratura.  È  un
mondo mobile e vivace, che ha  varietà,  sveltezza,  curiosità,  come  un  mondo
governato dal caso. Ma sotto queste  apparenze  frivole  si  nascondono  le  più
profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze
spirituali,  inevitabili  come  il  fato.  Basta  conoscere  i  personaggi,  per
indovinare la fine. Il mondo  è  rappresentato  come  una  conseguenza,  le  cui
premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo  movono.  E  chi
meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il maraviglioso,  il  caso
sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e
nella politica, è ancora nell'arte.
        Si distinsero due specie di commedie, «d'intreccio»  e  «di  carattere».
«Commedia  d'intreccio»  fu  detta,  dove  l'interesse  nasce   dagli   sviluppi
dell'azione, come erano tutte le commedie  e  novelle  di  quel  tempo  e  anche
tragedie. Si cercava l'effetto  nella  stranezza  e  nella  complicazione  degli
accidenti. Commedia di carattere fu detta, dove l'azione è mezzo  a  mettere  in
mostra un carattere. E sono definizioni  viziose.  Hai  da  una  parte  commedie
sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per  troppa
povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La  sua  commedia  è  una
vera e propria azione, vivacissima di movimenti  e  di  situazioni,  animata  da
forze interiori, che ci stanno come forze  o  istrumenti,  e  non  come  fini  o
risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come  forza  operante,  non  come
qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero  esce  fuori  sotto  le
forme più allegre e più corpulente fino della più volgare e  cinica  buffoneria,
come è il «Don Cuccù», e la «palla di aloè». Ci è lì tutto  Machiavelli,  l'uomo
che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.
        Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una  parte  è
morta, quella per la quale e venuto a trista  celebrità.  È  la  sua  parte  più
grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale,
così vitale che è  stata  detta  il  «machiavellismo»  Anche  oggi,  quando  uno
straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di  Dante  e  di
Savonarola e tace di Machiavelli. Noi stessi  non  osiamo  chiamarci  «figli  di
Machiavelli». Tra il grande uomo e noi ci è il machiavellismo. È una parola,  ma
una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa  come
fosse l'orco.
        Del Machiavelli è avvenuto  quello  che  del  Petrarca.  Si  è  chiamato
«petrarchismo» quello che in  lui  è  un  incidente  ed  è  il  tutto  ne'  suoi
imitatori. E si è chiamato «machiavellismo» quello  che  nella  sua  dottrina  è
accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che  vi  è  di  assoluto  e  di
permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo  e
dal meno interessante. È tempo di rintegrare l'immagine. Ci  è  nel  Machiavelli
una logica formale e c'è un contenuto.
        La sua logica ha per base la serietà dello  scopo,  ciò  ch'egli  chiama
«virtù». Proporti uno scopo, quando non  puoi  o  non  vuoi  conseguirlo,  è  da
femmina. Essere uomo significa «marciare allo scopo». Ma nella loro  marcia  gli
uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto  e  la  volontà  intorbidata  da
fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi
e deboli quelli che stimano le cose, come le paiono e non come le sono:  a  quel
modo che fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze, e andare  allo
scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver
la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono
o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò a che
guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a che mira è  rifare  le  radici
alla pianta «uomo» in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere
o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione.
        Si comprende che in questa generalità ci è lezioni per tutti, pe'  buoni
e pe' birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de'  tiranni,  e
agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara  è  di  essere  un
uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia,  come  la  natura,
non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili,  fondate  sulla
concordanza dello scopo e de' mezzi; e che  l'uomo,  come  essere  collettivo  o
individuo, non  è  degno  di  questo  nome,  se  non  sia  anch'esso  una  forza
intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del
mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni,
con uno scopo chiaro e serio, e con mezzi precisi.
        Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma  non
è principio astratto e ozioso: ci è un contenuto, che abbiamo già delineato  ne'
tratti essenziali.
        La serietà della vita terrestre, col suo istrumento, il lavoro; col  suo
obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la  libertà;  col  suo
vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito  o  il  pensiero  umano,
immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato, autonomo  e  indipendente,
con la disciplina delle forze, con l'equilibrio degl'interessi, ecco ciò che  vi
è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è  di  corona  la
gloria, cioè l'approvazione del genere umano,  ed  è  di  base  la  virtù  o  il
carattere, «agere et pati fortia». Il fondamento  scientifico  di  questo
mondo è la cosa effettuale, come te  la  porge  l'esperienza  e  l'osservazione.
L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza,
come nella vita. Muore la scolastica, nasce la scienza.
        Questo è il  vero  machiavellismo,  vivo,  anzi  giovane  ancora.  È  il
programma  del  mondo  moderno,  sviluppato,  corretto,  ampliato,  più  o  meno
realizzato. E sono grandi le nazioni che più  vi  si  avvicinano.  Siamo  dunque
alteri del  nostro  Machiavelli.  Gloria  a  lui,  quando  crolla  alcuna  parte
dell'antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo.
In questo momento che  scrivo,  le  campane  suonano  a  distesa,  e  annunziano
l'entrata degl'Italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il «viva»
all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli.
        Scrittore, non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni
politiche discerni sempre le sue vere  inclinazioni.  Antipapale,  antimperiale,
antifeudale, civile, moderno e democratico. E quando,  stretto  dal  suo  scopo,
propone certi mezzi, non di  rado  s'interrompe,  protesta,  ha  quasi  aria  di
chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se  i  mezzi
son questi, e il mondo è fatto così, la colpa non è mia. -
        Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la sua esagerazione.
La sua «patria» mi  rassomiglia  troppo  l'antica  divinità,  e  assorbe  in  sè
religione, moralità, individualità. Il suo «Stato»  non  è  contento  di  essere
autonomo esso, ma toglie l'autonomia a tutto il  rimanente.  Ci  sono  i  dritti
dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La  «ragione  di  Stato»  ebbe  le  sue
forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la  «salute  pubblica»  le  sue
mannaie. Fu stato di guerra e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe
la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla  forza  uscì  la  giustizia.  Da
quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del  potere  civile  e
più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei  mezzi,
vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e  si
trasformano, sono la parte che  muore:  i  fini  rimangono  eterni.  Gloria  del
Machiavelli è il suo programma, e non è sua colpa  che  l'intelletto  gli  abbia
indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi  alla  logica
del mondo. Fu più facile il biasimarli, che sceglierne altri. Dura lex, sed  ita
lex.
        Certo, oggi il mondo è migliorato in questo  aspetto.  Certi  mezzi  non
sarebbero più tollerati, e produrrebbero un effetto opposto a quello che  se  ne
attendeva Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio  politico,  il
tradimento, la frode, le sette, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire.
Presentiamo già tempi più umani e  civili,  dove  non  sieno  più  possibili  la
guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e  la  salute
pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate,  e  non  ci  sarà
altra gara che d'industrie, di commerci e di studi.
        È un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò  che
lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso  e
nell'avvenire.
        Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da' nostri tempi. E non  è
co' criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire  che  possiamo
giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele
è la logica della storia; ma quella è. -
        Nel machiavellismo ci è  una  parte  variabile  nella  qualità  e  nella
quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni
morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e  muterà
in tutto, quando la società sia radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è
assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura  umana.
Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo, che i mezzi debbono
avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che movono gli uomini.  È
chiaro che in queste forze  c'è  l'assoluto  e  il  relativo,  e  il  torto  del
Machiavelli, comunissimo a tutt'i grandi pensatori, è di avere espresso in  modo
assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
        Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è  l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso,  che  ha  nella  sua
natura i suoi fini e i  suoi  mezzi,  le  leggi  del  suo  sviluppo,  della  sua
grandezza e della sua decadenza, come  uomo  e  come  società.  Su  questa  base
sorgono la storia, la politica, e  tutte  le  scienze  sociali.  Gl'inizi  della
scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura  classica
unisca esperienza  grande,  e  un  intelletto  chiaro  e  libero.  Questo  è  il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua
base e il suo linguaggio. Come contenuto,  il  machiavellismo  su'  rottami  del
medio evo abbozza un  mondo  intenzionale,  visibile  tra  le  transazioni  e  i
vacillamenti  dell'uomo  politico,  un  mondo  fondato   sulla   patria,   sulla
nazionalità, sulla libertà,  sull'uguaglianza,  sul  lavoro,  sulla  virilità  e
serietà dell'uomo.

        In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e  la
politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e  condotte  in
forma razionale; è il pensiero volto  agli  studi  positivi  dell'uomo  e  della
natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio
purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico,  e  ridotto  nella
forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. È  l'ultimo  e  più
maturo frutto del genio toscano.  Su  questa  via  incontriamo  prima  Francesco
Guicciardini con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e  veneta,
poi Galileo Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.
         Francesco  Guicciardini,  ancorche  di  pochi  anni  più   giovane   di
Machiavelli e di Michelangiolo, già non sembra della stessa  generazione.  Senti
in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta,  della  quale
egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del
Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole  anche
la libertà, concepita a  modo  suo,  con  una  immagine  di  governo  stretto  e
temperato, che si avvicina a' presenti ordini costituzionali o  misti.  Ma  sono
semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.

        «Tre cose, - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito,
ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere  di  repubblica  bene
ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutt'i barbari,  e  liberato  il
mondo della tirannide di questi scelerati preti.»

        Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia  delle  nazioni,
l'affrancamento del laicato, ecco il  programma  del  Machiavelli,  divenuto  il
testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta  la  parte
liberale e civile europea.
        Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle  classi  colte.
Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita.  Il  ritratto
di quella società è il Guicciardini, che scrive: «Conoscere  non  è  mettere  in
atto». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa  come
vuoi, ma fa come ti torna. La regola della vita è «l'interesse proprio», «il tuo
particolare».
        Il Guicciardini biasima  «l'ambizione,  l'avarizia  e  la  mollizie  de'
preti» e il dominio temporale ecclesiastico; ama  Martino  Lutero,  «per  vedere
ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a  restare  o  senza
vizi o senza autorità»; ma «per il suo  particolare»  è  necessitato  «amare  la
grandezza de' pontefici» e servire  a'  preti  e  al  dominio  temporale.  Vuole
emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui,  «non  combatte
con la religione, nè con le cose, che pare che dependono da Dio;  perchè  questo
obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi». Ama la gloria  e  desidera
di fare «cose grandi ed eccelse», ma a patto  che  non  sia  «con  suo  danno  o
incomodità». Ama la patria, e, se perisce, glie ne duole, non  per  lei,  perchè
«così ha a essere», ma per sè, «nato in tempi di tanta  infelicità».  È  zelante
del ben pubblico, ma «non s'ingolfa tanto nello  Stato»  da  mettere  in  quello
tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma quando la sia  perduta,  non  è  bene
fare mutazioni, perchè «mutano i visi delle persone, non le  cose,  e  non  puoi
fare fondamento sul populo», e quando la vada male, ti tocca «la vita  spregiata
del fuoruscita». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che  «governano
non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra'  malcontenti».  Quelli  che
altrimenti fanno, sono uomini «leggieri». Molti, è vero, gridano libertà, ma «in
quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo». Essendo il  mondo  fatto
così, hai a pigliare il mondo com'è, e condurti di guisa che  non  te  ne  venga
danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini «savi».
        La corruttela italiana era appunto  in  questo,  che  la  coscienza  era
vuota, e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in  fondo  al
cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non ci è più  il
cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi
fini,  come  cose  belle  e  buone  e  desiderabili,  ma   li   ammette   sub
conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo «particulare», come dice,
cioè col tuo interesse personale. Non crede  alla  virtù,  alla  generosità,  al
patriottismo, al sacrificio, al disinteresse.  Ne'  più  prepondera  l'interesse
proprio, e mette se francamente tra questi più, che sono i savi:  gli  altri  li
chiama «pazzi», come furono i  fiorentini,  che  «vollero  contro  ogni  ragione
opporsi», quando «i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta»,  e  intende
dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei  pazzi,  tra'
quali  erano  Michelangelo  e  Ferruccio.  Machiavelli  combatte  la  corruttela
italiana, e non dispera del suo paese. Ha  le  illusioni  di  un  nobile  cuore.
Appartiene a quella generazione di patrioti  fiorentini,  che  in  tanta  rovina
cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con  la  loro
caduta. Nel Guicciardini comparisce  una  generazione  già  rassegnata.  Non  ha
illusioni. E perchè non vede rimedio a quella corruttela,  vi  si  avvolge  egli
pure, e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi  Ricordi  sono  la
corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita.
        Il dio del Guicciardini è il suo particolare.  Ed  è  un  dio  non  meno
assorbente che il  Dio  degli  ascetici,  o  lo  Stato  del  Machiavelli.  Tutti
gl'ideali scompariscono. Ogni vincolo religioso,  morale,  politico,  che  tiene
insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo.
Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più  corruzione,  contro  la
quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e  inculcata,  è  l'arte  della
vita.
        Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perchè non ha le sue
illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in
questo motto sanguinoso:

        «Quanto s'ingannano  coloro  che  ad  ogni  parola  allegano  i  romani!
Bisognerebbe avere una città condizionata com'era  la  loro,  e  poi  governarsi
secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità  disproporzionate  è  tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse  il  corso  di  un
cavallo.»

        In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede,  che
non sente rimorso, e non mostra la menoma esitazione, e guarda  con  un'aria  di
superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che  avviene,  a  suo
avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma «per debolezza di cervello»,  avendo
offuscato  lo  spirito  dalle   apparenze,   dalle   impressioni,   dalle   vane
immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a  cui  giunge  lo
spirito italiano, già adulto e progredito,  che  caccia  via  l'immaginazione  e
l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello, o, come dice  il  Guicciardini,
«ingegno positivo».
        Perchè l'ingegno sia positivo si richiede  la  «prudenza  naturale»,  la
«dottrina» che dà le regole, l'«esperienza» che dà gli esempli, e  il  «naturale
buono», tale cioè che stia al reale, e non abbia  illusioni.  E  non  basta.  Si
richiede anche la «discrezione» o il  discernimento,  perchè  è  «grande  errore
parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e per dire così per
regola, perchè quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e
eccezioni non si trovano  scritte  in  su'  libri,  ma  bisogna  lo  insegni  la
discrezione». Il vero libro della vita è dunque «il libro della discrezione»,  a
leggere il quale si richiede da natura «buono e perspicace occhio». La  dottrina
sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni
cosa «volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a  mettere
in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo,  in
modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti».
        L'uomo positivo vede il mondo altro da quello che «a' volgari» pare. Non
crede agli astrologi, ai teologi, a' filosofi e a tutti quelli che  scrivono  le
cose sopra natura, o che non si veggono,  «e  dicono  mille  pazzie:  perchè  in
effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione  ha  servito  e
serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare la verità».
         Questa  base  intellettuale  è   quella   medesima   del   Machiavelli,
l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Nè altro
è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli  nega,  e  in
forma anche più recisa, e ammette quello che il Machiavelli ammette.  Ma  è  più
logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un'illusione  a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando  esso  le  ha  di
asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne  fa  la  sua  regola  e  il  suo
istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente  e  nella
tua coscienza non può essere di regola alla tua  vita.  Vivere  è  conoscere  il
mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè «gli  uomini  si
riscontrano». Stai con chi vince, perchè  «te  ne  viene  parte  di  lode  e  di
premio». «Abbi appetito della roba», perchè la ti dà riputazione, e la povertà è
spregiata. Sii schietto, perchè, «quando sia il caso di simulare, più facilmente
acquisti fede». Sii stretto nello spendere, perchè «più onore ti fa  uno  ducato
che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi». Studia di  «parere  buono»,
perchè «il buon nome vale più  che  molte  ricchezze».  Non  meritarti  nome  di
sospettoso, ma, perchè più sono i cattivi che i  buoni,  «credi  poco  e  fidati
poco», Questo è il succo dell'arte della vita  seguita  da'  più,  ancorchè  con
qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice,
fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza, e sull'interesse individuale.  È
il codice di quella borghesia italiana,  tranquilla,  scettica,  intelligente  e
positiva, succeduta a' codici d'amore e alle regole della cavalleria.
        Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò un altro più savio di
lui, e volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu  lui  istrumento  di
Cosimo.  Così  finì  la  vita,  come  il   Machiavelli,   nella   solitudine   e
nell'abbandono. Ebbe anche lui le  sue  illusioni  e  i  suoi  disinganni,  meno
nobili, meno degni della posterità, perchè si  riferivano  al  suo  particolare.
Ritirato nella sua  villa  d'Arcetri,  usò  gli  ozi  a  scrivere  la  Storia
d'Italia.  Se  guardiamo  alla  potenza  intellettuale,  è  il  lavoro   più
importante che sia uscito da mente italiana. Ciò  che  lo  interessa  non  è  la
scena, la parte teatrale o  poetica,  sulla  quale  facevano  i  loro  esercizii
rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti  più
maravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come
di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove più di nulla.
Non ha simpatie e antipatie, non ha  tenerezze  e  indignazioni,  e  neppure  ha
programmi e preconcetti intorno a' risultati generali dei fatti e alle sorti del
suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi  entra
nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. È l'intelletto positivo,  con  quelle
qualità che abbiamo notate, e che in lui sono egregie, la prudenza naturale,  la
dottrina, l'esperienza, il naturale  buono  e  la  discrezione.  Maravigliosa  è
soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere princìpi, nè regole assolute,
e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel
complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un  altro:
dov'è la vera  distinzione  tra  il  pedante  e  l'uomo  d'ingegno.  Con  queste
disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena,  dove
penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha  comune  col  Machiavelli  il
disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere, e lo  studio
dell'essere, di ciò che è al di sotto, e che non si vede.  Hai  innanzi  non  la
sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro  preparazione,  li  vedi
nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono  rivelati  con  la
stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa  non  è  il
carattere etico o morale di quelli, ma la  loro  azione  su'  fatti.  Il  motivo
determinante  è  l'interesse,  ed  è  sagacissimo  nell'indagazione   non   meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re
e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si  nascondono  sotto  il
manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la  libertà,  l'indipendenza,
fini che escono in mezzo, quando si vuol cattivare i popoli o gli  eserciti.  Di
che  nasce,  massime  nelle  concioni,  una  specie  di  rettorica,  ad  usum
delphini, voglio dire ad uso de' volgari, che non guardano nel fondo,  e  si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli  eserciti  vi  stanno  come
istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li movono con la
violenza e con l'astuzia, e li usano a' fini loro.
        Lo storico  avea  intenzioni  letterarie.  La  sua  prosa,  massime  ne'
Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e
semplicità e perfetta evidenza, che l'avvicina agli  esempli  più  finiti  della
prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due
scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione  che  non  è
stato più avanzato. Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano  nell'andamento
de' fatti umani, avea de' preconcetti in  letteratura,  opinioni  ammesse  senza
esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati
di quel tempo, la traduzione del parlare e del discorso  naturale  in  un  certo
meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi  facesse  allora  per  la
prima  volta  le  sue  prove.  Molti  uomini  mediocri,  quali  il  Casa,  o  il
Castiglione, o il Salviati, o lo Speroni, vi  riescono  con  minore  difficoltà,
come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la
sua rapida percezione è in  visibile  contrasto  con  quei  giri  avviluppati  e
affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare
in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta  la
sua franchezza spinta sino al  cinismo.  Sono  artifici  puramente  letterari  e
rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni,  le  sue
orazioni,  le  sue  sentenze  morali,  un  certo  calore  d'immaginazione  e  di
sentimento, una certa solennità di  tuono.  Al  di  sotto  di  questi  splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di  un  perfetto  organismo,
freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se
non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi  recessi  da  un
intelletto superiore.
        La Storia d'Italia è in venti  libri  e  si  stende  dal  1494  al  1532
Comincia con la calata di Carlo  ottavo,  finisce  con  la  caduta  di  Firenze.
Apparisce in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il
papa della Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo storico si  può
chiamare la «tragedia italiana», perchè in questo spazio di tempo l'Italia  dopo
un vano dibattersi cesse in potestà dello straniero. Ma lo storico  non  ha  pur
sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi  calamità
che colpiscono gl'individui, le arsioni, le prede, gli stupri, tutt'i mali della
guerra. Avvolto fra tanti «atrocissimi accidenti», sagacissimo a indagarne i più
riposti motivi nel carattere degli attori e  nelle  loro  forze,  l'insieme  gli
fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra  Carlo  quinto  e  Francesco
primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata
di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta, questi fatti
generali preoccupano meno lo storico che  l'assedio  di  Pisa  e  i  più  oscuri
pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe,
piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che
li fa essere così o così. L'uomo vi apparisce come un essere naturale, che operi
così fatalmente come un animale, determinato all'azione da  passioni,  opinioni,
interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è
determinato da'  suoi  istinti  e  qualunque  essere  vivente  dalle  sue  leggi
costitutive. Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma
dell'intelletto,  quell'apatia  e  indifferenza  che  ha   un   filosofo   nella
spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano  lo  stesso
interesse; anzi Malatesta è più  interessante,  perchè  la  sua  azione  è  meno
spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo
concetto della storia, che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero,  è
determinato da motivi interni, o dal suo carattere, e si  può  calcolare  quello
che farà e come riuscirà quasi con quella  sicurezza  che  si  ha  nella  storia
naturale. Perciò chi perde, ha sempre torto, dovendo recarne  la  cagione  a  se
stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di
fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci  appaiono  qui  come  una
specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose  alla  plebe,  a  noi  poco
interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo  l'ingegno  da  cui  escono
quei  miracoli,  e  tutto  il  nostro  interesse  è  concentrato  nello   studio
dell'ingegno.
        Il Machiavelli va più  in  là.  Egli  intravede  una  specie  di  fisica
sociale, come si direbbe oggi, un complesso  di  leggi  che  regolano  non  solo
gl'individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà,  nazione,
umanità, classi sociali  sono  per  lui  fatti  non  meno  interessanti  che  le
passioni, gl'interessi, le opinioni, le forze  che  movono  gl'individui.  E  se
vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto  abbiamo  ad
imparare nelle sue opere. Indi è  che,  come  carattere  morale,  il  segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti  elevati,  che
sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine,  e  come  forza
intellettuale,  unisce  alla  profonda  analisi  del  Guicciardini   una   virtù
sintetica, una larghezza di vista, che manca in  quello.  Lui,  è  un  punto  di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi; l'altro è un bel quadro,  finito
e chiuso in sè.
XVI PIETRO ARETINO

Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l'estremo della sua  contraddizione
in questo mondo positivo del Guicciardini, un mondo puramente umano e  naturale,
chiuso nell'egoismo individuale, superiore a tutt'i vincoli morali  che  tengono
insieme gli uomini. Il ritratto vivente di questo  mondo  nella  sua  forma  più
cinica e più depravata è  Pietro  Aretino.  L'immagine  del  secolo  ha  in  lui
l'ultima pennellata.
        Pietro nacque nel 1492 in uno  spedale  di  Arezzo  da  Tita,  la  bella
cortigiana, la modella scolpita e dipinta da parecchi artisti. Senza nome, senza
famiglia, senza amici e protettori, senza istruzione. «Andai alla scuola, quanto
intesi la santa croce, componendo ladramente merito  scusa,  e  non  quegli  che
lambiccano l'arte de' greci e de' latini.» A tredici anni rubò la madre e  fuggì
a Perugia, e si allogò presso un legatore di libri. A diciannove  anni  attirato
dalla fama della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse  che
non aveva un quattrino, e fu ricevuto  domestico  presso  un  ricco  negoziante,
Agostino Chigi, e poco poi presso il cardinale di San  Giovanni.  Cercò  fortuna
presso papa Giulio,  e  non  riuscitogli,  vagando  e  libertineggiando  per  la
Lombardia, da ultimo si fe' cappuccino in Ravenna. Salito al  pontificato  Leone
decimo, e concorrendo a quella corte letterati, buffoni, istrioni, cantori, ogni
specie di avventurieri, gli parve lì il suo posto, smise l'abito e corse a Roma,
e vestì la livrea del papa, divenne suo valletto. Spiritoso, allegro, libertino,
sfacciato,  mezzano,  in  quella  scuola  compì  la  sua  educazione  e  la  sua
istruzione. Imparò a chiudere in quattordici versi le  sue  libidini  e  le  sue
adulazioni e le sue buffonerie, e ne fe' traffico e ne cavò di bei quattrini. Ma
era  sempre  un  valletto,  e  poco  gli  era  a  sperare  in  una  corte,  dove
s'improvvisava in latino. Armato di lettere di raccomandazione, va a  Milano,  a
Pisa, a Bologna, a Ferrara, a Mantova, e si presenta  a  principi  e  monsignori
sfacciatamente, con aria e prosunzione  di  letterato.  Studia  come  una  donna
l'arte di piacere, e aiuta la ciarlataneria con la compiacenza. «A Bologna mi fu
cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe' fare una casacca  di  raso
nero ricamata in oro, che non fu mai la più superba; presso il  signor  Marchese
di Mantova sono in tanta grazia, che il dormir e il mangiar lascia per  ragionar
meco, e dice non avere altro piacere, ed ha scritto al cardinale cose di me  che
veramente onorevolmente mi gioveranno, e son  io  regalato  di  trecento  scudi.
Tutta la corte mi adora, e par beato chi può avere uno de' miei versi, e  quanti
mai feci, il signore li ha fatti copiare, e ho fatto qualcuno in sua lode. E sto
qui, e tutto il giorno mi dona, e gran cose, che  le  vedrete  ad  Arezzo.»  Gli
dànno del messere e del signore; il valletto è un gentiluomo,  e  torna  a  Roma
«tra paggi di taverna, e vestito come un duca», compagno e mezzano  de'  piaceri
signorili, e con a lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno  familiarmente  la
mano sulla  spalla.  Continua  il  mestiere  così  bene  incominciato.  Una  sua
«laude» di Clemente settimo gli frutta la prima pensione; sono versacci:

        Or queste sì che saran lodi, queste
        lodi chiare saranno, e sole e vere,
        appunto come il vero e come il sole.

Il suo spirito, il suo umore gioviale, l'estro libidinoso gli acquistarono tanta
riputazione, che fuggito di Roma per i  suoi  sedici  sonetti  illustrativi  de'
disegni osceni di Giulio Romano, fu cercato come un buon compagnone da  Giovanni
de' Medici, capo delle Bande Nere, detto il gran diavolo.  Aveva  poco  più  che
trent'anni. Giovanni e Francesco primo se lo  disputano.  Giovanni  voleva  fare
signore di Arezzo il suo compagno di orgie  e  di  libidini,  quando  una  palla
tedesca gli troncò il disegno e la vita. Pietro avea coscienza oramai della  sua
forza. E lasciando le corti, riparò in Venezia come in una rocca sicura, e di lì
padroneggiò l'Italia con la penna. Udiamo lui stesso, come si dipinge nelle  sue
lettere: «Dopo ch'io mi rifugiai sotto l'egida della grandezza e  delle  libertà
veneziane, non ho più nulla da invidiare. Nè il soffio dell'invidia, nè  l'ombra
della malizia non potranno offuscare la mia fama, nè togliere la possanza  della
mia casa. - Io sono un uomo libero per la grazia di Dio. - Non mi rendo  schiavo
de' pedanti. - Non mi si vede  percorrere  le  tracce  nè  del  Petrarca  nè  di
Boccaccio. Bastami il genio mio indipendente.  Ad  altri  lascio  folleggiar  la
purezza dello  stile,  la  profondità  del  pensiero;  ad  altri  la  pazzia  di
torturarsi, di trasformarsi, mutando sè stessi. Senza maestro, senz'arte,  senza
modello, senza guida, senza luce, io avanzo, e il sudore de' miei inchiostri  mi
fruttano la felicità e la rinomanza. Che avrei di più a desiderare?  -  Con  una
penna e qualche foglio di carta me ne burlo dell'universo. Mi dicono  ch'io  sia
figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re. Io
vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice. - Le mie medaglie sono
composte d'ogni metallo e di ogni composizione. La mia effigie è posta in fronte
a' palagi. Si scolpisce la mia testa sopra  i  pettini,  sopra  i  tondi,  sulle
cornici degli specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione. Alcuni
vetri di cristallo si chiamano vasi aretini.  Una  razza  di  cavalli  ha  preso
questo nome, perchè papa Clemente me ne ha  donato  uno  di  quella  specie.  Il
ruscello che bagna una parte della mia casa è denominato l'Aretino. Le mie donne
vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I pedanti possono
morir di rabbia prima di giungere a tanto onore.» E non erano ciarle.  L'Ariosto
dice di lui: «il flagello de' principi, il divin Pietro  Aretino».  Un  pedante,
parlando delle lettere dell'Aretino e del Bembo, diceva  al  Bembo:  «Chiameremo
voi il nostro Cicerone, e lui il nostro Plinio.» «Purchè Pietro se ne contenti»,
rispose il Bembo. E non se ne contentava. A Bernardo Tasso, che vantava  le  sue
lettere, scrive: «Stimando di troppo le proprie vostre opere, e  non  abbastanza
le altrui, voi avete messo  in  compromesso  il  vostro  giudizio.  Nello  stile
epistolare voi siete l'imitator mio, e voi camminate dietro di me  a  piè  nudi.
Voi non potete imitare nè la facilità delle mie frasi, nè lo splendore delle mie
metafore. Son cose che si veggono languire nelle vostre  carte,  e  che  nascono
vigorose nelle mie. Convengo che voi avete qualche merito, una certa  grazia  di
stile angelico e di armonia celeste, che risuona gradevolmente negl'inni,  nelle
odi e negli epitalami. Ma tutte queste dolcitudini non convengono alle Epistole,
che hanno d'uopo di espressione e di rilievo, non di miniatura e di artifizio. È
colpa del vostro gusto che preferisce il profumo de' fiori al sapore de' frutti.
Ma non sapete chi son io? Non sapete quante lettere ho  pubblicate,  che  sonosi
trovate maravigliose? Io non mi starò  qui  a  fare  il  mio  elogio,  il  quale
finalmente non sarebbe che  verità.  Non  vi  dirò  che  gli  uomini  di  merito
dovrebbero riguardare siccome un giorno memorabile il dì della mia  nascita:  io
che, senza seguire e senza servir le corti, ho costretto tutto quanto vi  ha  di
grande sulla terra, duchi, principi e monarchi, a diventar  tributarii  del  mio
ingegno! Per quanto è lungo e largo il mondo, la fama non si occupa che  di  me.
Nella Persia e nell'India trovasi il mio ritratto e vi è stimato  il  mio  nome.
Finalmente io vi saluto, e statevi ben certo, che se molte persone biasimano  il
vostro modo di scrivere, ciò non è per invidia - e se qualche altre  lo  lodano,
egli e per compassione.» Tale si teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un
grand'uomo  sulla  sua  fede.  Non  mirava  alla  gloria;  dell'avvenire  se  ne
infischiava; voleva il presente. E l'ebbe, più  che  nessun  mortale.  Medaglie,
corone, titoli, pensioni, gratificazioni, stoffe d'oro  e  d'argento,  catene  e
anella d'oro, statue e dipinti,  vasi  e  gemme  preziose,  tutto  ebbe  che  la
cupidità di un uomo potesse ottenere. Giulio III  lo  nominò  cavaliere  di  San
Pietro. E per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni  ottocentoventi
scudi. Di gratificazioni ebbe in  diciotto  anni  venticinquemila  scudi.  Spese
durante la sua vita più di un milione di franchi. Gli vennero  regali  fino  dal
corsaro Barbarossa e dal sultano Solimano. La sua casa principesca  è  affollata
di artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti, paggi, e molti gli portano i
loro presenti, chi un vaso d'oro, chi un quadro, chi una borsa piena di  ducati,
e chi abiti e stoffe. Sull'ingresso vedi un busto di marmo  bianco  coronato  di
alloro: è Pietro Aretino. Aretino a dritta,  Aretino  a  manca;  guardate  nelle
medaglie d'ogni grandezza e d'ogni metallo sospese alla tappezzeria  di  velluto
rosso: sempre l'immagine di Pietro Aretino. Morì a sessantacinque anni, il 1557,
e di tanto nome non rimase nulla. Le sue opere poco poi furono  dimenticate,  la
sua memoria è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe il suo nome innanzi
a una donna.
        Chi fu dunque questo  Pietro,  corteggiato  dalle  donne,  temuto  dagli
emuli, esaltato  dagli  scrittori,  così  popolare,  baciato  dal  papa,  e  che
cavalcava a fianco di Carlo quinto? Fu la coscienza e l'immagine del suo secolo.
E il suo secolo lo fece grande.
        Machiavelli e Guicciardini dicono che l'appetito è la  leva  del  mondo.
Quello che essi pensarono, Pietro fu.
        Ebbe da natura grandi  appetiti  e  forze  proporzionate.  Vedi  il  suo
ritratto, fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la  preda.  L'incisore  gli
formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo assai  simile  di
struttura sta sopra alla testa dell'uomo.  Occhi  scintillanti,  narici  aperte,
denti in evidenza per  il  labbro  inferiore  abbassato,  grossissima  la  parte
posteriore del capo, sede degli appetiti sensuali, verso la quale  pare  che  si
gitti la testa, calva nella parte anteriore. «Figlio  di  cortigiana,  anima  di
re», dice lui. Legatore di libri, valletto del papa,  miserie!  I  suoi  bisogni
sono infiniti. Non gli basta mangiare; vuole gustare; non gli basta il  piacere;
vuole la voluttà; non gli basta il vestire;  vuole  lo  sfarzo;  non  gli  basta
arricchire; vuole arricchire gli altri, spendere e  spandere.  E  a  chi  se  ne
maraviglia risponde: «Ebbene, che farci a questo? Se  io  son  nato  per  vivere
così, chi m'impedirà di vivere così?» I suoi sogni dorati  sono  vini  squisiti,
cibi  delicati,  ricchi  palagi,  belle  fanciulle,  belli  abiti.  Di  ciò  che
appetisce, ha il gusto. E nessuno è giudice più competente  in  fatto  di  buoni
bocconi e di godimenti leciti e illeciti.  È  in  lui  non  solo  il  senso  del
piacere, ma il senso dell'arte.  Cerca  ne'  suoi  godimenti  il  magnifico,  lo
sfarzoso, il bello, il buon gusto, l'eleganza.
        Ed ha forze proporzionate a' suoi  appetiti,  un  corpo  di  ferro,  una
energia di volontà,  la  conoscenza  e  il  disprezzo  degli  uomini,  e  quella
maravigliosa facoltà che il Guicciardini chiama discrezione,  il  fiuto,  il  da
fare caso per caso. Sa quello che vuole. La sua  vita  non  è  scissa  in  varie
direzioni: uno è lo scopo, la soddisfazione de' suoi appetiti, o, come  dice  il
Guicciardini, il suo particolare. Tutti i mezzi sono eccellenti,  e  li  adopera
secondo i casi. Ora è ipocrita, ora  è  sfacciato.  Ora  è  strisciante,  ora  è
insolente. Ora adula, ora calunnia.  La  credulità,  la  paura,  la  vanità,  la
generosità dell'uomo sono in mano sua un  ariete  per  batterlo  in  breccia  ed
espugnarlo. Ha tutte le chiavi per tutte le porte. Oggi un uomo  simile  sarebbe
detto un camorrista, e molte sue lettere sarebbero chiamate ricatti. Il  maestro
del genere è lui. Specula soprattutto sulla paura. Il linguaggio  del  secolo  è
officioso, adulatorio; il  suo  tono  è  sprezzante  e  sfrontato.  Le  calunnie
stampate erano peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir  cosa  vera;  e  lui
mette a prezzo la calunnia, il silenzio e l'elogio. Non gli spiacea aver nome di
mala lingua, anzi era parte della sua forza. Francesco primo gl'inviò una catena
d'oro composta di lingue incatenate e con le punte vermiglie, come  intinte  nel
veleno, con sopravi questo  esergo:  «Lingua  eius  loquetur  mendacium».
Aretino gli fa mille ringraziamenti. Quando non  gli  conviene  dir  male  delle
persone, dice male delle cose, tanto per conservarsi la reputazione,  come  sono
le sue intemerate contro gli ecclesiastici, i nobili, i  principi.  Così  l'uomo
abbietto fu tenuto un apostolo, e fu detto flagello de' principi.  Talora  trovò
chi non aveva paura. Achille della Volta gli die' una pugnalata. Nicolò  Franco,
suo segretario, gli scrisse carte di vitupèri. Pietro  Strozzi  lo  minaccia  di
ucciderlo, se si attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato, sputacchiato. È
lui allora che ha paura, perchè era vile e poltrone. Sir Howel  lo  bastona,  ed
egli loda il Signore che gli  accorda  la  facoltà  di  perdonare  le  ingiurie.
Giovanni, il gran diavolo, morendo gli disse: «Ciò che  più  mi  fa  soffrire  è
vedere un poltrone.» Ma in generale amavano meglio  trattarlo  come  Cerbero,  e
chiudergli i latrati, gittandogli un'offa. Le sue  lettere  sono  capilavori  di
malizia e di sfrontatezza. Prende tutte le forme e tutti gli abiti, dal  buffone
e dal millantatore sino al sant'uomo calunniato e  disconosciuto.  Come  saggio,
ecco una sua lettera alla piissima e petrarchesca marchesa di  Pescara,  che  lo
aveva esortato a cangiar vita e a scrivere opere pie:

        «Confesso che non sono meno utile al mondo  e  meno  gradevole  a  Gesù,
spendendo le mie veglie per cose futili, che se le impiegassi in opere di pietà.
Ma quale ne è la causa? La sensualità altrui e la mia  povertà.  Se  i  principi
fossero così divoti, come io sono bisognoso, la mia penna  non  traccerebbe  che
miserere.  Illustrissima  madonna,   tutti   al   mondo   non   possedono
l'ispirazione della grazia  divina.  Il  fuoco  della  concupiscenza  divora  la
maggior parte; ma Voi, voi non ardete che di fiamma angelica. Per noi musiche  e
commedie sono quel che è per voi la preghiera e la predica. Voi non rivolgereste
gli occhi per vedere Ercole nelle fiamme o Marsia  scorticato;  noi  altrettanto
per non riguardare san Lorenzo sulla graticola o san  Bartolomeo  spoglio  della
sua pelle. Vedete un po': io ho un amico, per nome Brucioli, il quale dedicò  la
sua Bibbia al Re Cristianissimo. Dopo cinque anni non ne ebbe tampoco  risposta.
La mia commedia, invece, la Cortigiana, acquistossi dal medesimo  re  una
ricca collana. Di guisa che la mia cortigiana si sentirebbe tentata  a  beffarsi
del Vecchio Testamento, se non fosse cosa troppo indecorosa.  Accordatemi  mille
scuse, Signora, per le baie che vi ho scritte, non per malizia, ma  per  vivere.
Che Gesù v'ispiri di farmi tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della  somma,
sulla quale ho già ricevuto trenta scudi,  e  di  cui  vi  sono  anticipatamente
debitore.»

        All'ultimo una stoccata, come si direbbe oggi. È una lettera tirata  giù
di un fiato da un genio infernale. Con che bonomia si  beffa  della  pia  donna,
avendo aria di farne l'elogio! Con che  cinismo  proclama  le  sue  speculazioni
sulla libidine e sulla oscenità umana, come fossero  la  cosa  più  naturale  di
questo mondo! Specula pure sulla divozione, e con pari indifferenza scrive libri
osceni e vite di santi, il Ragionamento della Nanna e la Vita di santa
Caterina da Siena, la Cortigiana errante e la Vita di  Cristo.
E perchè no? Posto che traeva guadagno di qua e di là. Scrisse di ogni  materia,
e in ogni forma, dialoghi, romanzi, epopee,  capitoli,  commedie,  e  anche  una
tragedia, l'Orazia. Immagina quali eroi possono essere gli Orazii,  quale
eroina l'Orazia, e che specie di popolo romano può uscire dall'immaginazione  di
Pietro. Pure è il solo lavoro che abbia intenzioni artistiche, fatto ch'era  già
vecchio e sazio e cupido più di gloria che di danari. Gli riuscì  una  freddura,
un mondo astratto e pedestre, di cui non comprese la semplicità e la  grandezza.
Negli altri suoi lavori senti lui  nella  verità  della  sua  natura,  dedito  a
piacere al suo pubblico, a interessarlo, a guadagnarselo, a fare effetto.  Ci  è
innanzi a lui una specie  di  mercato  morale:  conosce  qual  è  la  merce  più
richiesta, più facile a spacciare e a più caro prezzo. Si  fa  una  coscienza  e
un'arte posticcia, variabile secondo i  gusti  del  suo  padrone,  il  pubblico.
Perciò fu lo scrittore più alla moda, più popolare e meglio ricompensato. I suoi
libri osceni sono il modello di un genere di  letteratura,  che  sotto  nome  di
racconti galanti invase l'Europa. L'oscenità era una salsa  molto  ricercata  in
Italia dal Boccaccio in poi; qui è essa l'intingolo. Le vite di santi sono  veri
romanzi, dove ne sballa di ogni  sorta,  solleticando  la  natura  fantastica  e
sentimentale delle pinzochere. Fabbro di versi assai grossolano, senti ne'  suoi
sonetti e capitoli la bile e la malignità  congiunta  con  la  servilità.  Così,
alludendo alla munificenza di Francesco primo, dice a Pier Luigi Farnese:

        Impara tu, Pier Luigi ammorbato,
        impara, ducarel da tre quattrini,
        il costume da un Re tanto onorato.
        Ogni signor di trenta contadini
        e d'una bicoccazza usurpar vuole
        le cerimonie de' culti divini.

Pietro non è un malvagio per natura. È  malvagio  per  calcolo  e  per  bisogno.
Educato fra tristi esempi, senza religione, senza patria, senza famiglia,  privo
di  ogni  senso  morale,  con  i  più  sfrenati  appetiti  e  con  molti   mezzi
intellettuali per soddisfarli, il centro dell'universo  è  lui,  il  mondo  pare
fatto a suo servizio. Su questa base, la sua logica e uguale alla sua tempra. Ha
una chiara percezione de' mezzi, e nessuna esitazione o scrupolo a  metterli  in
atto. E non lo dissimula, anzi se ne fa gloria, è lì la sua forza, e  vuole  che
tutti ne sieno persuasi. Il mondo era un po' a sua  immagine,  molti  erano  che
avrebbero voluto imitarlo, ma non avevano il suo ingegno, la sua  operosità,  la
sua penetrazione, la sua versatilità, il suo spirito. Perciò  l'ammiravano.  Fra
tanti avventurieri e condottieri, di cui l'Italia era ammorbata, gente vagabonda
senza princìpi, senza professione e in cerca di una fortuna a  qualunque  costo,
il principe, il  modello  era  lui.  Tiziano  lo  chiama  il  condottiero  della
letteratura. E lui non se ne  offende,  se  ne  pavoneggia.  Lasciato  alla  sua
spontaneità, quando non lo preme il bisogno, e non  opera  per  calcolo,  scopre
buone qualità. È allegro, conversevole, liberale, anzi magnifico, amico a  tutta
prova, riconoscente, ammiratore de' grandi artisti, come di Michelangiolo  e  di
Tiziano. Aveva la logica del male e la vanità del bene.
        Pietro come uomo è un personaggio importante, il cui studio ci tira bene
addentro ne' misteri della società italiana, della quale era immagine in  quella
sua mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale  e  di  sentimento
artistico. Ma non è meno importante come scrittore.
        La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si discuteva più se
si aveva a scrivere in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato  oramai
il suo dritto di cittadinanza. Ma  si  discuteva  se  il  volgare  si  avesse  a
chiamare toscano o italiano. E non era contesa di parole,  ma  di  cose.  Perchè
molti scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall'un capo  all'altro
d'Italia, e non erano disposti di andare a prender lezione in  Firenze.  Amavano
meglio latinizzare che toscaneggiare Riconoscevano come modelli il  Boccaccio  e
il Petrarca, ma non davano alcuna autorità alla lingua viva. Lingua viva era per
loro il linguaggio comune, che atteggiavano alla  latina  e  alla  boccaccevole.
Questo meccanismo era accettato generalmente; se non che  in  Firenze  il  fondo
della lingua non era il linguaggio comune, mescolato di elementi locali, siculi,
lombardi, veneti, ma l'idioma  toscano,  così  com'era  stato  maneggiato  dagli
scrittori. E Firenze, esaurita la produzione intellettuale, alzò le  colonne  di
Ercole nel suo vocabolario della Crusca, e disse: non si va più oltre. Il  Bembo
e più tardi il Salviati fissarono le  forme  grammaticali.  E  le  regole  dello
scrivere  in  tutt'i  generi  furono  fissate  nelle  rettoriche,  traduzioni  o
raffazzonamenti di Aristotile, Cicerone e Quintiliano. Si giunse a  questo,  che
Giulio Camillo pretendea d'insegnare tutto il sapere mediante un suo meccanismo.
Tendenza al meccanizzare: che è  fenomeno  costante  in  tutte  le  età  che  la
produzione si esaurisce, e la coltura si arresta, e si raccoglie nelle sue forme
e si cristallizza.
        Pietro, di mediocrissima coltura, considera  tutte  queste  regole  come
pedanteria. La sua vita interiore così spontanea e piena di forza produttiva mal
vi si può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo. E
chiama pedantismo quel veder le cose non in sè stesse e per visione diretta,  ma
a traverso di preconcetti, di libri e di regole. Quegl'inviluppi di parole e  di
forme gli sono così odiosi, come l'ipocrisia,  quel  «covrirsi  della  larva  di
un'affettata modestia, invilupparsi nella pelle della volpe e predicar  l'umiltà
e la decenza senza valer meglio degli  altri.»  Non  ascoltate  quest'ipocriti,»
scrive al cardinale di Ravenna «pedanti comentatori di Seneca, i quali, dopo  di
aver passata la lor vita nell'assassinare i morti,  non  sono  contenti  se  non
quando crocifiggono i vivi.  Sì,  monsignore,  egli  è  il  pedantismo,  che  ha
avvelenato i Medici; è il pedantismo che ha ucciso  il  duca  Alessandro;  è  il
pedantismo che ha prodotto tutt'i mali di questo mondo; è desso che per la bocca
del pedante Lutero ha provocata l'eresia e l'ha armata contro  la  nostra  santa
fede. Lorenzino si fe' assassino per pedanteria, e per pedanteria si fe' eretico
Lutero, cioè a dire operarono per preconcetti, secondo i libri, e senza  nessuna
intelligenza de' tempi  loro.»  Non  è  meno  implacabile  verso  il  pedantismo
letterario. Al Dolce scrive: «Andate pur per le vie che al vostro studio  mostra
la natura. Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da  chi  esprime  i  concetti
suoi con la dolcezza e con la leggiadria con  cui  dolcemente  e  leggiadramente
essi andarono esprimendo i loro, e non  da  chi  gli  saccheggia,  non  pur  de'
«quinci», de' «quindi», de' «soventi» e degli «snelli», ma de' versi interi.  Il
pedante che voglia imitare, «rimoreggia» dell'imitazione, e mentre ne schiamazza
negli scartabelli, la trasfigura in locuzione, ricamandola con parole tisiche in
regola. O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo della
natura nelle sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone,  il
cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un  campanile  senza  campane,
per la qual cosa chi vuol comporre e non trae cotal grazia dalle fasce è un zugo
infreddato. Imparate ciò ch'io favello da quel  savio  pittore,  il  quale,  nel
mostrare a colui che il dimandò, chi egli  imitava,  una  brigata  d'uomini  col
dito, volle inferire che dal vivo e dal vero toglieva gli esempi, come gli tolgo
io parlando e scrivendo. La natura di cui son  secretario  mi  detta  ciò  ch'io
compongo. È certo ch'io imito me stesso,  perchè  la  natura  è  una  compagnona
badiale, e l'arte una piattola che bisogna che si appicchi; sicchè  attendete  a
esser scultore di sensi e non miniator di vocaboli.» Parecchi scrivevano  allora
così alla naturale, e basta citare fra tutti il  Cellini,  tutto  vita  e  tutto
cose. Ma il Cellini si teneva un ignorante, e voleva che il Varchi riducesse  la
sua Vita nella forma de' dotti, dove  l'Aretino  si  teneva  superiore  a
tutti gli altri, e dava facilmente del pedante  a  quelli  che  lambiccavano  le
parole. Ci è in lui una coscienza critica così diritta e  decisa,  che  in  quel
tempo ci dee parere straordinaria. La stessa libertà e altezza di giudizio portò
nelle arti, di cui aveva il sentimento. A Michelangiolo scrive: «Ho sospirato di
sentirmi sì piccolo e di saper voi così grande». Il suo favorito è il suo  amico
e compare Tiziano, il cui realismo così pieno e quasi sensuale si affà alla  sua
natura. Preso di febbre, si appoggia alla finestra, e guarda  le  gondole  e  il
Canal grande di Venezia, e rimane pensoso e contemplativo, lui, Pietro  Aretino!
La vista della bella natura lo purifica, lo  trasforma.  E  scrive  al  Tiziano:
«Quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi della mente,  non  che
de' pensieri, rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da che Dio lo creò,  non  fu
mai abbellito da così vaga pittura di ombre e di lumi,  onde  l'aria  era  tale,
quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non esser voi. I
casamenti, benchè sien pietre vere, parevano di materia artificiata.  E  di  poi
scorgete l'aria, ch'io compresi in alcun luogo  pura  e  viva,  in  altra  parte
torbida e smorta. Considerate anche la maraviglia ch'io ebbi de' nuvoli, i quali
nella principal veduta mezzi si stavano vicini a' tetti degli edificii, e  mezzi
nella penultima, perocchè la diritta era tutta di uno sfumato pendente in  bigio
nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più  vicini
ardevano con le fiamme del foco solare,  e  i  più  lontani  rosseggiavano  d'un
ardore di minio non così bene acceso. O con che belle tratteggiature i  pennelli
naturali spingevano l'aria in là, discostandola da' palazzi con il modo  che  la
discosta il Vecellio nel far de' paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro,
e in alcuni altri un azzurro veramente composto  dalle  bizzarrie  della  natura
maestra de' maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava  e  rilevava  in
maniera, che io, che so come il vostro pennello è spirito dei  suoi  spiriti,  e
tre e quattro volte esclamai: - O Tiziano, dove sete mo? - Per mia fe'  che,  se
voi aveste ritratto ciò ch'io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore  che
confuse me.» È notabile che questo sentimento della  natura  vivente,  de'  suoi
colori e de' suoi chiaroscuri, non produce nella sua anima alcuna impressione  o
elevatezza morale, ma solo una ammirazione  o  stupore  artistico,  come  in  un
italiano di quel tempo. Vede la natura a traverso il pennello di Tiziano  e  del
paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con un sentimento dell'arte che
cerchi invano nel Vasari. Fra tante opere  pedantesche  di  quel  tempo  intorno
all'arte e allo scrivere, le sue lettere artistiche e letterarie segnano i primi
splendori di una critica indipendente, che oltrepassa i libri e le tradizioni, e
trova la sua base nella natura.
        Quale il critico, tale lo scrittore. Delle parole non si dà un  pensiero
al mondo. Le accoglie tutte, onde che vengano e quali che sieno, toscane, locali
e forestiere, nobili e plebee, poetiche o prosaiche,  aspre  e  dolci,  umili  e
sonore.  E  n'esce  uno  scrivere,  che  è  il  linguaggio  parlato  anche  oggi
comunemente in Italia  dalle  classi  colte.  Abolisce  il  periodo,  spezza  le
giunture, dissolve le perifrasi, disfà ripieni ed ellissi, rompe ogni  artificio
di quel meccanismo che dicevasi forma letteraria, s'accosta al parlar  naturale.
Nel Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel Machiavelli ci è la stessa  naturalezza,
ma ci senti l'impronta toscana, tutta grazia. Questi  è  un  toscano  ineducato,
figlio della natura, vivuto fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue fra
le quali  esercita  le  sue  speculazioni.  Fugge  il  toscaneggiare,  come  una
pedanteria; non cerca la grazia, cerca l'espressione e il rilievo. La  parola  è
buona, quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo  cervello,  e  non  la
cerca, gli viene innanzi cosa e parola, tanta e la sua facilità. Non  sempre  la
parola è propria, e non sempre adatta, perchè spesso scarabocchia, e non scrive,
abusando della sua facilità. Il suo motto è:  «Come  viene,  viene»,  e  nascono
grandi ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio non si dà  fastidio,  anzi  fa
proprio l'opposto, cercando non magnificenza e larghezza di forme,  nelle  quali
si dondola un cervello indolente, ma la forma più rapida e più conveniente  alla
velocità delle sue percezioni. E neppure affetta  brevità,  come  il  Davanzati,
cervello ozioso, tutto alle prese con le  parole  e  gl'incisi,  perchè  la  sua
attenzione non è al di fuori, è tutta al di  dentro.  Abbandona  i  procedimenti
meccanici, non cura le finezze e le lascivie  della  forma.  Ha  tanta  forza  e
facilità di produzione, e tanta ricchezza di concetti e  d'immagini,  che  tutto
esce fuori con impeto e per la via più diritta. Non  ci  è  intoppo,  non  ci  è
digressione o distrazione: pronto e deciso nello stile, come nella vita. Mai non
fu così vero il detto, che lo stile è l'uomo. Come il suo io è il  centro
dell'universo, è il centro del suo stile. Il mondo che  rappresenta  non  esiste
per sè, ma per lui, e lo tratta e lo maneggia come cosa sua, con quel  capriccio
e con quella libertà che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione.  Se
non che nel Folengo si sviluppa l'umore, perchè il suo mondo è immaginario, e lo
tratta senz'alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo  di  Pietro  è  cosa
reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo tratta per sfruttarlo, per  cavarne
il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento, non si cala e non si  obblia
in esso; ma ne fa il suo istrumento, i suoi mezzi, anche a costo  di  profanarlo
indegnamente. Tratta Gesù Cristo come un cavaliere errante, e «che importa» dice
«la menzogna che io mescolo a queste opere? Dacchè io parlo de' Santi, che  sono
il nostro rifugio celeste, le mie parole  diventano  parole  di  evangelio».  Di
santa Caterina scrive che «Io non avrei fatto sei pagine  di  tutto,  se  avessi
voluto attenermi alla tradizione e alla storia.  Le  mie  spalle  hanno  assunto
tutto il peso dell'invenzione; perchè infine queste cose tornano alla  più  gran
gloria di Dio». Talora si  secca  per  via,  il  cervello  è  vuoto,  e  ammassa
aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che  rivela  il  ciarlatano:  «Come
lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il nobile, l'ardente, il fedele, il
veridico, il soave, il buono, il salutare, il santo e il sacro linguaggio  della
giovane Caterina, vergine, sacra, santa,  salutare,  nobile,  graziosa,  chiara,
religiosa e facile?» Sembra una campana che ti assorda, e ti turi  le  orecchie.
Questo dicevasi stile fiorito, e l'Aretino  te  ne  regala,  quando  non  ha  di
meglio. Talora vuol pur dire, ma non ha vena, e non sentimento,  ed  esce  nelle
più sbardellate metafore e nelle sottigliezze  più  assurde,  massime  ne'  suoi
elogi, che gli erano così ben pagati. «Essendo i meriti vostri» scrive  al  duca
d'Urbino  «le  stelle  del  Ciel  della  Gloria,  una  di  loro,  quasi  pianeta
dell'ingegno mio, lo inclina a ritràrvi con lo  stil  delle  parole  la  imagine
dell'anima, acciocchè la vera faccia delle  sue  virtù,  desiderata  dal  mondo,
possa vedersi in  ogni  parte;  ma  il  poter  suo,  avanzato  dall'altezza  del
subbietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non  può  esprimere  in
qual modo la bontà, la clemenza e la  fortezza  di  pari  concordia  vi  abbiano
concesso, per fatal decreto, il vero  nome  di  Principe.»  È  un  periodo  alla
boccaccevole, stiracchiato ne' concetti e nella forma. Qui non  ci  è  il  «come
viene, viene»; ma ci è il non voler venire e il farlo venire per forza.  I  suoi
panegirici  sono  tutti  rettorici,  metaforici,  miniati,  falsamente  pomposi,
gonfiati sino all'assurdo, e sembrano quasi caricature ironiche sotto  forma  di
omaggi. Il dir bene non era per lui cosa tanto facile, quanto il dir male,  dove
spiega tutto il vigore della sua natura cinica e  sarcastica.  Assume  un  tuono
enfatico, e cerca peregrinità di concetti e di  modi,  un  linguaggio  prezioso,
composto tutto di perle, ma di perle false: preziosità passata  in  Francia  con
Voiture e Balzac e castigata da Molière, e  che  in  Italia  dovea  divenire  la
fisonomia della nostra letteratura. Ecco alcune di queste perle false, messe  in
circolazione dall'Aretino: «Io pesco nel lago della mia memoria  con  l'amo  del
pensiero. - Il mio merito risplende della vernice  della  vostra  grazia.  -  Il
chiodo della riconoscenza conficca il nome de' miei amici nel mio cuore.  -  Non
seppellite le mie speranze nella tomba delle vostre false promesse. - La  vostra
grandezza ascende le scale del cielo  con  istupor  delle  genti.  -  La  vostra
eloquenza si move dal natural dell'intelletto con tanta facondia, che  si  riman
confusa nella maraviglia la lingua che le proferisce i concetti e l'orecchie che
l'ascoltano.  -  Tòrre  a  Solimano,  in  servigio  della  Cristianità,  l'animo
dall'anima, l'anima dal corpo, e il corpo dalle armi. - Raccogliete  l'affezione
mia in un lembo della vostra pietà. - Mi dono a voi, padri  de'  vostri  popoli,
fratelli de' vostri servi, erarii della caritade e subbietti della  clemenza.  -
La faccia della liberalità ha per ispecchio il cuore di coloro a cui si porge. -
La vostra Eccellenza ricerca da me qualche ciancia per farne ventaglio del caldo
grande che arde questi dì.» Questo stile  fiorito  o  prezioso  è  traversato  a
quando a quando da lampi  di  genio:  paragoni  originali,  immagini  splendide,
concetti nuovi e arditi, pennellate incisive, e trovi pure, quando è abbandonato
a sè e non cerca l'effetto, verità di sentimento e di colorito, come  in  questa
lettera così commovente  nella  sua  semplicità:  «Le  scarpe  azzurro-turchine,
ricamate in oro, che ho ricevute insieme con  la  vostra  lettera,  m'han  fatto
tanto piangere, quanto m'hanno arrecato di piacere.  La  giovinetta  che  doveva
adornarsene, questa mattina  ha  ricevuto  gli  olii  santi,  ed  io  non  posso
scrivervene di  più,  tanto  sono  commosso.»  La  dissoluzione  del  meccanismo
letterario è una forma di  scrivere  più  vicina  al  parlare,  libera  da  ogni
preconcetto e immediata espressione di quel di dentro, uno  stile  ora  fiorito,
ora prezioso, che sono  le  due  forme  della  declinazione  dell'arte  e  delle
lettere, ecco ciò che significa Pietro Aretino, come scrittore. La sua influenza
non fu piccola. Aveva attorno secretari, allievi e imitatori della sua  maniera,
come il Franco, il Dolce, il Landi, il Doni, e altri mestieranti. «Io vivo di
Kirieleison» scrive il Doni. «I miei  libri  sono  scritti  prima  di  esser
composti, e letti prima di esser stampati».  La  sua  Libreria  si  legge
ancora oggi per un certo brio e per curiose notizie.
        Ma Pietro ha ancora una certa importanza,  come  scrittor  di  commedie.
C'era un mondo comico convenzionale, la cui base  era  Plauto  e  Terenzio,  con
accessorii cavati dalla vita plebea e volgare  di  quel  tempo.  La  base  erano
equivoci, riconoscimenti, viluppi di accidenti, che tenessero viva la curiosità.
Intorno vi si schieravano caratteri divenuti  convenzionali,  il  parassito,  il
servo ghiottone, la cortigiana, la serva furba e mezzana, il figliuolo  prodigo,
il padre avaro e burlato, il poltrone che fa il bravo, il sensale, l'usuraio. Lo
studio de' nostri comici è interessante, chi voglia  conoscer  bene  addentro  i
misteri di quella corruttela italiana. Vedrà i legami  di  famiglia  sciolti,  e
figli  scioperati  accoccarla  a'  padri,  zimbello  essi  medesimi  di  usurai,
cortigiani e mezzani, tra le risa del rispettabile pubblico. Codesto  mondo  era
la commedia, con sue forme fisse alla latina, sparsa di lazzi e di lubricità. Il
più fecondo scrittor comico fu il Cecchi, morto il 1587, che in  meno  di  dieci
giorni improvvisava commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre. Ha il brio
e la grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito  e  movimento,  anzi
talora ti par di stare in una morta gora. Il suo mondo e i suoi  caratteri  sono
come un repertorio già noto e fissato, e  la  furia  gl'impedisce  di  darvi  il
colore e la carne. Ti riesce non di rado scarno e paludoso. Pietro dà dentro  in
tutto questo meccanismo, e lo disfà. Non riconosce regole e non tradizioni e non
usi teatrali. «Non vi maravigliate», dice nel  prologo  della  Cortigiana
«se lo stil comico non si osserva con l'ordine che si richiede, perchè  si  vive
d'un'altra maniera a Roma, che non si vivea  in  Atene».  Fra  le  regole  c'era
questa, che i personaggi non potevano comparire più di cinque volte  in  iscena.
Pietro se ne burla con molto spirito: «Se voi vedessi uscire i personaggi più di
cinque volte in iscena, non ve ne ridete, perchè le catene, che tengono i molini
sul  fiume,  non  terrebbono  i  pazzi  di  oggidì».  Mira  all'effetto;  tronca
gl'indugi,  sgombra  gl'intoppi;  evita  le  preparazioni,   gli   episodi,   le
descrizioni, le concioni, i soliloqui spessi;  cerca  in  tutto  l'azione  e  il
movimento, e ti gitta fin  dal  principio  nel  bel  mezzo  di  quel  suo  mondo
furfantesco vivamente particolareggiato. Non  ha  la  sintesi  del  Machiavelli,
quell'abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme, e  legarlo  e  svilupparlo
con fatalità logica, come fosse un'argomentazione. Non è ingegno speculativo,  è
uomo d'azione, e lui stesso personaggio da commedia. Perciò non ti dà  un'azione
bene studiata e ordita come è la  Mandragola;  gli  fugge  l'insieme,  il
mondo gli si presenta a pezzi e a bocconi. Ma come il Machiavelli, egli  ha  una
profonda esperienza del cuore umano e grande conoscenza de' caratteri,  i  quali
si sviluppano ben rilevati  e  sporgenti  tra  la  varietà  degli  accidenti,  e
dominano la scena, e generano invenzioni e situazioni  piccanti.  Come  ci  gode
questo furfante fra tante bricconate che mette in  iscena!  Perchè  infine  quel
mondo comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante prove di  malizia  e  di
ciarlataneria. Il concetto fondamentale è che il mondo è di chi se lo piglia,  e
perciò è de' furbi e degli sfacciati, e guai agli sciocchi!  Tocca  ad  essi  il
danno e le beffe, perchè sono loro abbandonati alle risa del pubblico, sono loro
la materia comica. L'Ipocrita è l'apoteosi di un furfante,  che  a  furia
d'intrighi e di malizia diviene ricco, proprio come l'Aretino. La Talanta
è una cortigiana che l'accocca a tutt'i suoi amanti, e finisce ricca, stimata  e
maritata a un suo antico e fedele amante, alla barba degli altri.  Il  Filosofo,
mentre studia Platone e Aristotile, se la fa fare dalla moglie, e  poi  il  buon
uomo si riconcilia con essa.  Nella  Cortigiana  messer  Maco,  che  vuol
divenire cardinale, e Parabolano che in grazia  delle  sue  ricchezze  crede  di
avere a' suoi piedi tutte le donne, sono  per  tutta  la  commedia  zimbello  di
cortigiane, di mezzani e di furfanti. Il Marescalco  o  grande  scudiere,
per non far dispiacere al duca di Mantova, suo signore, consente a sposarsi  con
una donna, che non ha mai visto, lui nemico delle donne  e  del  matrimonio.  Nè
questo è un mondo immaginario e subbiettivo, anzi è proprio quella  società  lì,
co' suoi costumi egregiamente rappresentati nel  più  fino  e  nel  più  minuto.
Pietro vi gavazza  entro,  come  nel  suo  elemento,  lanciando  satire,  elogi,
epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e  un  ardore  di  movenze,  come
fossero fuochi artificiali. Alcuni caratteri sono rimasti celebri, e  tutti  son
vivi e veri. Il suo Marescalco ha ispirato Rabelais  e  Shakespeare,  ed  è  uno
scherzo originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l'appellativo  degli  uomini
fatui e vani. Messer Maco è il tipo, da  cui  usciva  il  Pourceaugnac.  Il  suo
ipocrita è un Tartufo innocuo e messo in buona luce. Il suo filosofo,  che  egli
chiama Plataristotile, è una caricatura de' Platonici di quel tempo. A  sentirlo
sentenziare è savissimo, ma non ha pratica del mondo, e il servo la sa più lunga
di lui, e più lunga del servo la sa Tessa, la moglie. Questo filosofo, a cui  la
moglie gliela fa sul naso, pronunzia sentenze bellissime sulle donne, mentre  il
servo, che sa tutto, gli fa la boccaccia:

«Plataristotile  -  La  femmina  è  guida  del  male  e   maestra   della
scelleratezza. Servo - Chi lo sa, nol dica.  Plataristotile  -  Il
petto della femmina è corroborato d'inganni. Servo - Tristo per  chi  non
la intende. Plataristotile -  Solo  quella  è  casta  che  da  nessuno  è
pregata. Servo - Questo sì ch'io stracredo. Plataristotile  -  Chi
sopporta la perfidia della moglie, impara a perdonare le ingiurie.  Servo
- Bella ricetta per chi è polmone.»

E il servo conchiude: «Vostra Saviezza pigli quello che vi potria intervenire in
buona parte, e non si lasci tanto andar dietro agli  speculamenti  dottrineschi,
che il diavolo non vi lasciasse poi andare per i canneti».
        «Tu parli da eloquente, » risponde il  filosofo;  «ma  non  ci  son  per
considerar sopra, per lo appetito della gloria che conseguisco filosofando».
        Il suo Boccaccio è uno di  quei  merli  capitati  nelle  unghie  di  una
cortigiana e scorticati vivi. La sua serva tende l'imboscata:

«Boccaccio - Che cosa move la tua madonna a voler parlare a me,  che  son
forestiere? Lisa - Forse la grazia ch'è in voi; maffe sì ch'ella c'è,  or
via. Boccaccio - Tu ti diletti da ben dire. Lisa  -  Mi  venga  la
morte, se non ispasima di favellarvi.  Boccaccio  -  Chi  è  gentile,  il
dimostra. Lisa -  Nel  vederla  manderete  a  monte  le  bellezze  d'ogni
altra... State saldo, fermatevi, e mirate il sole, la luna e le stelle,  che  si
levano  là  su  quell'uscio.  Boccaccio  -   Che   brava   appariscenzia!
Lisa - Il vostro giudizio ha garbo. Boccaccio - Purch'io sia l'uom
ch'ella cerca. I nomi alle volte si strantendono. Lisa - Il vostro  è  sì
dolce che si appicca alle labbra. Eccola corrervi incontro a braccia aperte.»

        Le cortigiane sono il suo tema favorito. La sua Angelica è  il  tipo  di
tutte le altre. E la sua Nanna è la maestra del genere.
        Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo, l'ultimo atto  del
Decamerone,  un  mondo  sfacciato  e  cinico,  i  cui  protagonisti  sono
cortigiani e cortigiane, e il cui centro è la corte di Roma, segno  a'  flagelli
dell'uomo, che nella sua rocca di Venezia erasi assicurata l'impunità.
         Secondo  una  tradizione  popolare  molto  espressiva  Pietro  morì  di
soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l'Italia.





XVII TORQUATO TASSO

L' Ariosto, il Machiavelli, l'Aretino sono le tre forme dello spirito italiano a
quel tempo un'immaginazione serena e artistica, che si sente pura  immaginazione
e  beffa  se  stessa;  un  intelletto  adulto,  che  dà  bando  alle   illusioni
dell'immaginazione e del sentimento, e t'introduce nel santuario della  scienza,
nel mondo dell'uomo e della natura;  una  dissoluzione  morale,  senza  rimorso,
perchè senza coscienza,  perciò  sfacciata  e  cinica.  Intorno  all'Ariosto  si
schierano gl'innumerabili novellieri, romanzieri e comici, pasto avido di popolo
colto e ozioso, che vive di castelli incantati, perchè non prende più sul  serio
la vita reale. Intorno al Machiavelli si stringono tutta una schiera  d'illustri
statisti e storici, come il Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni,  il
Nardi, e tutt'i grandi pensatori,  che  cercano  la  redenzione  nella  scienza.
Attorno all'Aretino si move tutto  il  mondo  plebeo  de'  letterati,  istrioni,
buffoni, cortigiani, speculatori e mestieranti. L'Ariosto spinge l'immaginazione
fino al punto che provoca l'ironia. Il Machiavelli spinge la  sua  realtà  e  la
logica a tal segno che produce  il  raccapriccio.  E  l'Aretino  spinge  il  suo
cinismo a tal grado che produce il disgusto. Queste tre forme dello  spirito  si
riflettono in loro ingrandite e condensate.
        Quello era il tempo che  i  grandi  Stati  d'Europa  prendevano  stabile
assetto, e fondavano ciascuno la «patria»  di  Machiavelli,  cioè  una  totalità
politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali. E quello
era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma  perdeva
affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo  primato  nella  storia  del
mondo.
        Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale, anzi ci era una
certa soddisfazione. Dopo tante calamità venivano tempi di pace e di  riposo,  e
il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di lotte, avvezzi
a mutare padroni, e pazienti di servitù, che non toccava le leggi, i costumi, le
tradizioni, le superstizioni, e assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto  di
plebe ci fu, come a Napoli per l'Inquisizione  e  per  la  gabella  de'  frutti,
cagionato da poca abilità ne' governanti, anzi che da elevatezza  di  sentimenti
ne' sudditi. Quanto alle  classi  colte,  ritirate  da  gran  tempo  nella  vita
privata, negli ozi letterari e ne' piaceri della città  e  della  villa,  niente
parve loro mutato in Italia, perchè niente era mutato nella lor  vita.  Contenti
anche i letterati, a' quali non mancava il  pane  delle  corti  e  l'ozio  delle
accademie. Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto più decente.  A
forza di gridare che il male era nella licenza  de'  costumi,  massime  fra  gli
ecclesiastici, il Concilio di Trento si diede a  curare  il  male  riformando  i
costumi e la disciplina. «Si non caste, tamen caute.» Al cinismo successe
l'ipocrisia. Il vizio si nascose; si tolse lo scandalo. E non fu  più  tollerata
tutta quella letteratura oscena e satirica; Niccolò Franco, l'allievo e  poi  il
rivale  di  Pietro  Aretino,  predicatosi  da  sè  «flagello  del  flagello  de'
principi», finì impiccato per un suo epigramma latino.  Il  riso  del  Boccaccio
morì sulle labbra di Pietro Aretino. La censura preventiva,  stabilita  già  dal
Concilio lateranense, fu applicata con severità; fu costituita la  Congregazione
dell'Indice. Sorsero nuovi  ordini  religiosi  per  la  riforma  de'  costumi  e
l'educazione della gioventù,  i  teatini,  i  somaschi,  i  barnabiti,  i  padri
dell'oratorio, i gesuiti. Si composero poesie  sacre,  che  si  cantavano  nelle
chiese e nelle processioni. San Filippo Neri introdusse gli «oratorii», drammi e
commedie sacre. L'istruzione cadde in mano a' preti e a' frati. Spirava un odore
di santità!
        Questa fu la riforma fatta dal Concilio di Trento, e che il Sarpi chiama
«difformazione». Il tema prediletto de' poeti italiani e de'  protestanti  erano
gli scandali della corte romana. Roma, la «meretrice» di Dante,  la  «Babilonia»
del Petrarca, era stata assalita da' protestanti nel suo lato più debole, e  più
efficace sulle grossolane moltitudini,  nella  sua  scostumatezza.  Il  Concilio
spezzò quest'arma antica  di  guerra  in  mano  agli  avversari,  riformando  la
disciplina e dando in questo ragione al vecchio Savonarola. Rimosso lo scandalo,
il Concilio credea di aver tolta alla  Riforma  protestante  la  sua  ragion  di
essere, e stimò possibile una conciliazione. Ma la licenza de'  costumi  era  il
pretesto, e non la  cagion  vera  e  intima  della  Riforma  germanica  e  della
incredulità italiana, che era l'intelletto già adulto e libero, che  non  voleva
riconoscere autorità di sorta e reclamava la libertà di esame. Ora  il  Concilio
non dava a questo alcuna soddisfazione,  come  sarebbe  stato  un  accostare  la
gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione in  certe
quistioni; anzi fece proprio l'opposto, rafforzò l'autorità papale a  spese  de'
vescovi, atteggiando la gerarchia  a  monarchia  assoluta,  e  definì  tutte  le
quistioni di domma e di fede,  negando  la  competenza  della  ragione  e  della
coscienza  individuale.  Così  la  scissione  divenne  definitiva,  e   l'Europa
cristiana fu divisa in  due  campi:  dall'un  lato  la  Riforma,  dall'altro  il
romanismo e il papismo. La Riforma avea per bandiera la libertà di  coscienza  e
la competenza della ragione nell'interpretazione della Bibbia e nelle  quistioni
teologiche; il romanismo avea per contrario a fondamento l'autorità  infallibile
della  Chiesa,  anzi  del  papa,  e  l'ubbidienza  passiva,  il  «credo  quia
absurdum». Questa lotta tra la fede e la scienza, l'autorità e la libertà, è
antica, coeva  alle  origini  stesse  della  religione,  ma  si  manifestava  in
quistioni parziali intorno a questo o a quel dogma, e solo allora se ne acquistò
coscienza, e la differenza fu elevata  a  principio.  In  questa  coscienza  più
chiara sta l'importanza della Riforma e  del  Concilio  di  Trento.  Innanzi  di
questo tempo, ci era in Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e
teologia andavano insieme, senza troppo saper come, a quel modo che  classicismo
e  cristianesimo,  e  le  idee  più  ardite  si  facevano  largo,  quando  erano
accompagnate con la clausola: «salva la fede». Era  una  specie  di  compromesso
tacito, per il quale il mondo, bene o male, andava innanzi, senza  troppi  urti.
Ora non sono più possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie oratorie: le due
parti sanno quello che vogliono, e stanno a fronte nemiche. La Chiesa,  anzi  il
papa si proclama solo e infallibile interprete della verità, e dichiara  eretica
non questa o quella proposizione solamente, ma  la  libertà  e  la  ragione,  il
dritto di esame e di discussione. Da questa lotta esce il concetto moderno della
libertà. Presso gli  antichi  «libertà»  era  partecipazione  de'  cittadini  al
governo, nel qual senso è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni accanto
a questa libertà politica è la libertà  intellettuale,  o,  come  fu  detto,  la
«libertà di coscienza», cioè a dire la  libertà  di  pensare,  di  scrivere,  di
parlare, di riunirsi, di  discutere,  di  avere  una  opinione  e  divulgarla  e
insegnarla: libertà sostanziale dell'individuo,  dritto  naturale  dell'uomo,  e
indipendente dallo Stato e dalla Chiesa. Di qui viene  questa  conseguenza,  che
interpretare e bandire la verità è dritto naturale dell'uomo, e  non  privilegio
di prete: sicchè proprio della Riforma fu  il  secolarizzare  la  religione.  Il
concetto opposto fondato sull'onnipotenza della Chiesa o dello Stato è il dritto
divino, la teocrazia,  il  cesarismo,  assorbimento  dell'individuo  nell'essere
collettivo, come si chiami, o Chiesa, o Stato, o papa, o imperatore.
        Il Concilio  di  Trento  portava  conseguenze  non  solo  religiose,  ma
politiche. Da esso usciva la consacrazione della monarchia assoluta sulle rovine
de' privilegi feudali e delle franchigie comunali. Papa e re si diedero la mano.
Il re prestava al papa  il  braccio  secolare,  e  il  papa  lo  consacrava,  lo
legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori.  La  monarchia  fu
ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica, e fondata sullo stesso  principio
dell'autorità e della  ubbidienza  passiva.  Trono  e  altare  furono  del  pari
inviolabili, e indiscutibili. E fu atto di  ribellione  pensare  liberamente  di
papa o di re, anzi venne su il motto: «De Deo parum, de rege nihil». Così
la religione divenne un istrumento politico, il dispotismo religioso divenne  il
sussidio naturale del dispotismo politico.
        Ma l'autorità e la fede sono di quelle cose che non si possono  imporre.
E in Italia era così difficile restaurare la fede, come la moralità. Ciò che  si
potè conseguire  fu  l'ipocrisia,  cioè  a  dire  l'osservanza  delle  forme  in
disaccordo con la coscienza. Divenne regola di saviezza la dissimulazione  e  la
falsità nel linguaggio, ne' costumi, nella vita pubblica e  privata:  immoralità
profonda, che toglieva ogni autorità alla coscienza, ed ogni dignità alla  vita.
Le classi colte incredule e scettiche si rassegnarono a questa vita in  maschera
con la stessa facilità che si acconciarono alla servitù e al dominio  straniero.
Quanto alle plebi, vegetavano, e fu cura e interesse de' superiori lasciarle  in
quella beata stupidità.
         Non  mancarono  resistenze  individuali.  Molti  uomini  pii,  e  anche
ecclesiastici, amarono meglio ardere  su'  roghi  o  esulare  che  mentire  alla
coscienza. Intere famiglie abbandonarono l'Italia, e portarono altrove  le  loro
industrie. Uomini egregi  di  virtù  e  di  scienza  onorarono  il  paese  natio
scrivendo,   predicando   nella   Svizzera,   nell'Inghilterra,   in   Germania.
Operosissimo fra tutti il Socino, da Siena, da cui presero nome i sociniani.  Il
suo merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai  più  chiara,  che
non Lutero e non Calvino, facendo fede quanto l'intelletto italiano era  innanzi
in queste speculazioni. Perchè  il  Socino,  uscendo  dalle  quistioni  parziali
intorno a questo o a  quel  pronunziato  teologico,  sulle  quali  battagliavano
Lutero, Melantone e Calvino, proclama la ragione sola competente,  negando  ogni
elemento soprannaturale,  e  fa  centro  dell'universo  l'uomo  nel  suo  libero
arbitrio, negando l'onniscienza divina e la predestinazione. Ci si  vede  subito
l'italiano, il concittadino di Machiavelli.
        A questi esempi e  a  questi  martìri  l'Italia  rimaneva  indifferente.
Quistioni che insanguinavano mezza Europa, non la toccavano. Ed erano quistioni,
dalle quali sciolte nell'uno  o  nell'altro  modo,  dipendeva  l'avvenire  della
civiltà e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la gente  latina,  Spagna,
Francia, Italia. Ma in Francia e nella Spagna  non  fu,  se  non  dopo  accanite
persecuzioni, che resero indimenticabile il Tribunale della  inquisizione  e  la
giornata di san Bartolomeo. In quelle lotte lo spirito nazionale si ritemprò,  e
si svegliarono gl'intelletti; e il sentimento religioso esaltato  dagl'interessi
politici e dal fanatismo delle plebi fu fattore di civiltà,  accentrò  le  forze
intorno  alla  monarchia  assoluta,  costituì  fortemente  l'unità  nazionale  e
impresse alla vita intellettuale un moto più celere. La Spagna di Carlo quinto e
di Filippo secondo ebbe il suo Cervantes, il suo Lopez e il suo Calderon,  e  la
Francia ebbe il suo secolo d'oro, co'  suoi  poeti,  filosofi  e  oratori,  ebbe
Cartesio, Malebranche e Pascal, ebbe Bossuet e  Fènelon,  Corneille,  Racine,  e
Molière Le due nazioni uscirono dalla  lotta  potenti,  prospere,  e  saldamente
unificate.
        In Italia non ci fu lotta, perchè  non  ci  fu  coscienza,  voglio  dire
convinzioni e passioni religiose, morali e politiche. Le altre nazioni entravano
pure allora in via; essa giungeva al termine del suo cammino, stanca e scettica.
Rimase papale con una coltura tutta pagana ed antipapale. Il suo  romanismo  non
fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti, come  tentò  di  fare  frate
Savonarola, fu inerzia e passività; mancava la  forza  e  di  combatterlo  e  di
accettarlo Piacque  quella  maggiore  castigatezza  e  correzione  nelle  forme,
stucchi della licenza, nè dispiaceva quel nuovo  splendore  del  papato,  e  non
avendo patria, si fabbricavano volentieri una patria universale o cattolica, col
suo centro a Roma. Venne in voga predicare contro gli eretici,  e  celebrare  le
vittorie cattoliche sopra i turchi, come quella di Lepanto, e più  tardi  quella
di Vienna. Papa e Spagna imperavano, nessuno riluttante. Ma se Filippo secondo o
Luigi decimoquarto potevano dire: - Lo  Stato  son  io  -;  Spagna  e  papa  non
potevano dire: - L'Italia siamo noi. - Mancavano loro  que'  gagliardi  consensi
che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale.  Lo  spirito  italiano
ubbidiva inerte e non scontento, ma rimaneva al di fuori, non s'immedesimava  in
loro. Le idee vecchie non erano credute più  con  sincerità,  e  mancavano  idee
nuove, che formassero  la  coscienza  e  rinvigorissero  la  tempra:  indi  quel
consenso superficiale ed esteriore, quello stato di acquiescenza  passiva  e  di
sonnolenza morale. L'intelletto in quella sua virilità non apparteneva  a  loro,
era contro di loro. E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia, che  si
vada lentamente elaborando, dobbiamo cercarli nell'opposizione fatta a Spagna  e
papa. La storia di questa opposizione è la storia della vita nuova.
        Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu  il  meccanismo,  una
stagnazione nelle idee, uno studio di  fissare  e  immobilizzare  le  forme.  Si
arrestò ogni movimento filosofico e speculativo.  Il  Concilio  di  Trento  avea
poste le colonne d'Ercole, avea pensato esso per tutti. La scienza fu  presa  in
sospetto. Permesso appena il platonizzare. I grandi problemi della  destinazione
umana, etici, politici, metafisici, furono messi da parte, ed  al  pensiero  non
rimase altro campo che lo studio della natura ne' limiti  della  Bibbia.  Crebbe
invece lo studio delle forme.
        Fu allora che si formò l'Accademia della Crusca, e  fu  il  Concilio  di
Trento della nostra lingua. Anch'essa scomunicò scrittori e  pose  dommi.  E  ne
venne un arruffio concepibile solo in quell'ozio delle menti.
        La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in tutta Italia. Il
toscano era «il fiore della lingua italiana», così dice Speron Speroni.  Ci  era
dunque una lingua italiana, vale a dire un fondo  comune  di  vocaboli  con  una
comune forma grammaticale, atteggiato variamente e  colorito  secondo  le  varie
parti d'Italia. Allora, come ora, si sentiva nello scrittore l'italiano e  anche
il toscano, il lombardo, o il veneziano, o  il  napolitano.  Questa  varietà  di
atteggiamento e di colorito, questo elemento locale  era  la  parte  viva  della
lingua, che lo scrittore attingeva dall'ambiente in cui era.  Se  Firenze  fosse
stata un centro effettivo d'Italia, come Parigi, la  lingua  fiorentina  sarebbe
rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto  la
loro naturale attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani  un  museo,  da
studiarsi nei suoi monumenti, voglio dire ne' suoi scrittori. L'Accademia  della
Crusca considero la lingua come il latino, vale a dire come una lingua  compiuta
e chiusa in sè, di modo che non rimanesse a fare  altro,  se  non  l'inventario.
Chiamò puri tutt'i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da questo o  da
quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri. Fece una scelta degli  scrittori,
e di sua autorità creò gli eletti  ed  i  reprobi.  Così  la  lingua,  segregata
dall'uso  vivente,  divenne  un  cadavere,  notomizzato,  studiato,   riprodotto
artificialmente, e gl'italiani si avvezzarono a  imparare  e  scrivere  la  loro
lingua, come si fa il latino o il greco. Il Petrarca e il Boccaccio  diventarono
modelli così inviolabili come la Bibbia, e il «non si può» venne in  moda  anche
per le parole, tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A  mostrare  in
qual modo studiassero i nostri letterati, cito ad esempio un uomo  coltissimo  e
d'ingegno non ordinario, Speron Speroni:

        «Io veramente fin da' primi anni, desiderando oltramodo di parlare e  di
scrivere volgarmente i concetti del mio  intelletto,  e  questo  non  tanto  per
dovere essere inteso, il che è cosa degna da ogni volgare, quanto a fine che  il
nome mio con qualche laude tra' famosi si numerasse, ogni altra  cura  posposta,
alla lezion del Petrarca e  delle  Cento  novelle  con  sommo  studio  mi
rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non  pochi  mesi  per  me  medesimo
esercitatomi, ultimamente da  Dio  ispirato  ricorsi  al  nostro  messer  Trifon
Gabriele; dal quale benignamente aiutato, vidi e intesi perfettamente  quei  due
autori, li quali, non sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso più volte.»

Questo è un solo periodo! E che affanno! E domando se vi par lingua  viva.  Ecco
ora in iscena Trifone, uno de' grammatici e critici più riputati e  chiamato  il
Socrate di quella età:

        «Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti i vocaboli, poi  mi
die' regole da conoscere  le  declinazioni  e  coniugazioni  de'  nomi  e  verbi
toscani, finalmente gli articoli, i pronomi, i participi, gli adverbi e le altre
parti dell'orazione distintamente mi dichiarò: tanto che accolte in uno le  cose
imparate, io ne composi una mia grammatica,  con  la  quale,  scrivendo,  io  mi
reggeva... Poichè a me parve d'esser fatto un solenne gramatico, ... io mi diedi
al  far  versi:  allora  pieno  tutto  di  numeri,  di  sentenzie  e  di  parole
petrarchesche o boccacciane, per certi anni fei cose a' miei amici meravigliose;
poscia parendomi che la mia vena si cominciasse  a  seccare  (perciocchè  alcune
volte mi mancava i vocaboli, e non avendo  che  dire  in  diversi  sonetti,  uno
istesso concetto m'era venuto ritratto),  a  quello  ricorsi  che  fa  il  mondo
oggidì, e con grandissima diligenzia feci un rimario o vocabolario volgare,  nel
quale per alfabeto ogni  parola,  che  già  usarono  questi  due,  distintamente
riposi: oltre di ciò in un altro libro  i  modi  loro  del  descriver  le  cose,
giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza,  bellezza  siffattamente
raccolsi, che nè parole, nè concetto usciva di me, che le novelle  e  i  sonetti
loro non ne fossero esempio... Era d'opinione che  la  nostra  arte  oratoria  e
poetica altro non fosse che imitar loro  ambidue,  prosa  e  versi  a  lor  modo
scrivendo.»

Adunque la lingua, la  «testura  delle  parole»,  i  loro  «numeri»  e  la  loro
«concinnità», frasi del tempo, si studiavano nel Boccaccio e nel Petrarca, e  se
ne cavarono grammatiche, dizionari e repertorii di frasi  e  di  concetti.  Così
insegnava Trifone Gabriele, detto Socrate,  e  così  praticava  Speron  Speroni,
riuscito con questa scuola a scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale,
che si e visto. Così la  lingua,  fatta  classica  e  pura,  rimase  immobile  e
cristallizzata, come lingua morta, e il suo studio  divenne  difficilissimo.  Si
voleva non solo che la parola fosse pura, ma che fosse numerosa ed elegante.  Si
formo una scienza de' numeri non pure in verso, ma in prosa. Il periodo  divenne
un artificio complicatissimo. Eccone un saggio nello Speroni:

        «... come la composizione della  prosa  è  ordinanza  delle  voci  delle
parole, così i numeri sono ordini delle sillabe loro; con li quali dilettando le
orecchie, la buona  arte  oratoria  comincia,  continua  e  finisce  l'orazione;
perciocchè ogni clausola, come ha principio, così ha mezzo e fine: nel principio
si va movendo, e ascende; nel mezzo quasi stanca della fatica stando in  pie  si
posa alquanto; poi discende e vola al fine per  acquetarsi...  La  prosa  alcuna
volta ben compone le parole non belle, e  altra  volta  le  belle  malamente  va
componendo; e può occorrere che, siccome nella musica bene  e  spesso  le  buone
voci discordano, e le non buone o per usanza o per arte sono tra loro  concordi;
così i pari, i simili e i contrari, cose tutte per  lor  natura  ben  risonanti,
qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta scioccamente  e  a  bocca
aperta, va esplicando la orazione. Finalmente molte  fiate  intravviene  che  la
prosa perfettamente composta, quasi fiume del proprio corso appagandosi, non  si
cura non che di giungere al fine, ma di posarsi per lo cammino, e va  sempre,  e
se 'l fiato non le mancasse, continuamente tutta sua vita camminerebbe: però  a'
numeri ricorriamo, li quali, attraversando la strada piacevolmente con  lusinghe
e con vezzi, a rinfrescarsi e albergare con loro la invitino, e non  volendo  la
cortesia, vogliono usare le forze e per ben suo, mal suo  grado,  con  violenzia
l'arrestino.»

        Con questi criteri non è maraviglia che a lungo andare si sia  giunto  a
tale, che un predicatore componeva i  suoi  periodi  a  suon  di  musica.  E  si
comprende anche che lo Speroni fabbricasse a  questo  modo  i  suoi  periodi,  e
quanta ammirazione dovessero destare i periodi con  tanto  artificio  congegnati
del Bembo, del Casa o del Castiglione. La parola ebbe una  sua  personalità,  fu
isolata dalla cosa; e ci furono parole pure e impure, belle e  brutte,  aspre  e
dolci, nobili e plebee.  Nella  scelta  delle  parole  stava  il  segreto  della
eleganza. Si cercava non la parola propria, ma la parola ornata, o la perifrasi;
la ripetizione era peccato mortale, e se la cosa era la stessa,  dovea  cercarsi
una diversa parola, tacere  i  nomi  propri  e  «ogni  cosa  delle  altrui  voci
adornare», come lo Speroni nota del Petrarca, il quale  chiamò  «la  testa  'oro
fino' e 'tetto d'oro'; gli occhi 'soli', 'stelle', 'zaffiri', 'nido' e  'albergo
d'amore'; le guance or 'neve e rose', or 'latte  e  foco';  'rubini'  i  labbri;
'perle' i denti; la gola e il petto ora 'avorio', ora 'alabastro'».  Una  lingua
viva è sempre propria, perchè la parola ti esce insieme con la cosa; una  lingua
morta è necessariamente  impropria,  perchè  la  trovi  ne'  dizionari  e  negli
scrittori bella e fatta, mutilata di tutti quegli accessorii che  il  popolo  vi
aggiungeva, e che determinavano il suo significato e  il  suo  colore.  Così  la
nostra lingua, giunta a un alto grado  di  perfezione,  che  pure  allora  nella
Eneide del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la  sua  potenza,  si
arresto nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e  disputavano  come
si avesse a chiamare, o «toscana» o «fiorentina» o «italiana,»  quando  era  già
bella e imbalsamata, ben rinchiusa e coperchiata nel dizionario della Crusca.
        Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio non nella  natura
e nel significato  delle  cose,  e  non  nella  logica  necessità,  ma  nell'uso
variabilissimo  degli  scrittori.  Indi  regole  arbitrarie  e  più   arbitrarie
eccezioni, e quella folla di significati attribuiti a una sola parola,  e  tante
inutilità decorate col nome di «ripieno», e  sottigliezze  infinite  su  di  una
lettera o una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte parti campata in aria
e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un guazzabuglio di particelle,
pronomi, generi, casi, alterazioni e costruzioni, una grammatica che anche  oggi
è una delle meno precise e semplici. Avemmo una lingua  senza  proprietà  e  una
grammatica senza precisione; perchè lingua e grammatica furono  considerate  non
in rispetto alle cose, ma per se stesse, come forme vacue e arbitrarie.
        L'attenzione era tutta al di fuori, sulla superficie. La letteratura  fu
un artificio tecnico, un meccanismo. E si cercò  il  suo  fondamento  non  nelle
ragioni intrinseche di ciascuna  forma  messa  in  relazione  con  le  cose,  ma
nell'esempio degli scrittori. Come del periodo,  così  immaginarono  uno  schema
artificiale e immobile di composizione, la  cui  base  fu  posta  in  una  certa
concordanza del tutto e delle parti, come in un orologio,  e  questo  chiamavano
scrivere classico. Smarrito il sentimento dell'arte e della poesia,  non  rimase
che un concetto prosaico di perfezione meccanica, la regolarità e la correzione.
Davano   una   importanza   straordinaria   alla   lingua,   alla    grammatica,
all'elocuzione, al periodo, alla composizione: e qui erano le colonne di Ercole,
qui finiva la critica. Gli scrittori giudicati secondo questi criteri erano  più
o meno lodati secondo che più o meno si avvicinavano al modello. Si vantavano le
commedie e le tragedie di quel tempo per la loro conformità alle regole. E  come
un  effetto  bisognava  ottenere   sugli   spettatori,   e   quella   regolarità
ammiratissima era pur la più noiosa cosa di questo  mondo,  cercavano  l'effetto
ne' mezzi più grossolani  e  caricati,  a  cui  sogliono  ricorrere  gli  uomini
mediocri. Le commedie erano buffonerie, le tragedie erano orrori, e tra  le  più
insopportabili era appunto la Canace dello Speroni. Una sola cosa mancava
all'Italia, il genere eroico, e lo Speroni è tutto sconsolato  di  non  trovarne
l'esempio nel Petrarca: «Quasi  nuovo  alchimista,  lungamente  mi  faticai  per
trovare l'eroico, il qual nome niuna guisa di rima dal Petrarca  tessuta  non  è
degna di appropriarsi.» Il Trissino era mal riuscito.  L'Orlando  furioso
era fuori regola, e gli si perdonava, perchè  era  «romanzo»  e  non  poema.  Il
problema era di «trovare l'eroico», come diceva lo Speroni. Ciascun vede  quanto
Pietro Aretino entrasse innanzi per ingegno critico a tutti costoro.
        Conforme a quei criteri era  la  pratica.  Comenti  al  Boccaccio  e  al
Petrarca infiniti. Molte traduzioni di classici, tra le  quali  il  Livio
del Nardi, la Rettorica e l'Eneide del Caro, le Metamorfosi
dell'Anguillara, il Tacito del Davanzati. Grammatiche e rettoriche  tutte
ad uno stampo dal Bembo al Buommattei, detto  «messer  Ripieno»,  anzi  sino  al
Corticelli. Imitazioni, anzi contraffazioni classiche in uno stile  artificiato,
che tirava a sè anche i  più  robusti  ingegni,  anche  il  Guicciardini.  E  le
accademie che moltiplicavano sotto i nomi più strani, dove, finiti i  baccanali,
regnavano  vuote  cicalate  e  dispute  grammaticali.  Come  contrapposto,   non
mancavano gli eccentrici, che cercavano fama per via opposta, come il Lando, che
chiamava «imbecille» il Boccaccio  e  «animalaccio»  Aristotile,  e  solleticava
l'attenzione pubblica co' suoi Paradossi.
        Nella prima metà del secolo la libertà, anzi la licenza  dello  scrivere
gittava in mezzo a quell'aspetto uniforme  e  pedantesco  della  letteratura  la
vivezza, la grazia, la mordacità, la lubricità, la personalità dello  scrittore.
Dirimpetto al classico ci era l'avventuriere.
        Ultimo di questi avventurieri fu  Benvenuto  Cellini,  morto  nel  1570,
Natura ricchissima, geniale e incolta, compendia in sè l'italiano di quel tempo,
non modificato dalla coltura. Ci è  in  lui  del  Michelangiolo  e  dell'Aretino
insieme fusi, o piuttosto egli è l'elemento greggio, primitivo, popolano, da cui
usciva ugualmente l'Aretino e Michelangiolo.
        Artista geniale e coscienzioso, l'arte è il suo dio, la sua moralità, la
sua legge, il suo dritto. L'artista, secondo lui, è superiore alla legge, e «gli
uomini, come Benvenuto, unici  nella  loro  professione,  non  hanno  ad  essere
obbligati alle leggi». Cerca la sua ventura di corte in corte, armato di spada e
di schioppetto, e si fa ragione con le  sue  armi  e  con  la  lingua  non  meno
mortale, che «fora e taglia». Se incontra il suo nemico, gli tira una  stoccata,
e se lo ammazza, suo danno; perchè «li colpi  non  si  dànno  a  patti».  Se  lo
mettono prigione, gli pare uno scandalo e gli fanno uno  «scellerato  torto».  È
divoto, come  una  pinzochera,  e  superstizioso  come  un  brigante.  Crede  a'
miracoli, a' diavoli, agl'incantesimi, e, quando ne ha bisogno,  si  ricorda  di
Dio e de' santi, e canta salmi e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha  ombra
di senso morale, non discernimento del bene e del male, e  spesso  si  vanta  di
delitti  che  non  ha  commessi.  Bugiardo,  millantatore,  audace,   sfacciato,
pettegolo, dissoluto, soverchiatore, e sotto aria d'indipendenza,  servitore  di
chi lo paga. È contentissimo di sè e non si tiene al di sotto di nessuno,  salvo
il «divinissimo» Michelangiolo. Potentissimo  di  forza  e  di  vita  interiore,
questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua  vita,  e  si  ritrasse  con
tutte queste belle qualità, sicurissimo di alzare a sè un monumento  di  gloria.
Queste qualità vengon fuori con la spontaneità della natura  ed  il  brio  della
forza in uno stile evidente e deciso, come il suo cesello.
        Nella  seconda  metà  del  secolo  questa  vita  ricca  e  licenziosa  è
compressa, e la personalità scompare sotto  il  compasso  dell'accademia  e  del
Concilio di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie,  calunnie,  furori
grammaticali, la parte più grossolana e pedantesca di quella vita. In quel tempo
l'Inghilterra  avea  il  suo  Shakespeare;  Rabelais  e  Montaigne,   pieni   di
reminiscenze italiane, preludevano al gran  secolo;  Cervantes  scrivea  il  suo
Don Chisciotte, e Camoens le  sue  Lusiadi.  E  i  nostri  critici
scrivevano gli  Avvertimenti  grammaticali  e  i  Dialoghi  sull'Amore
platonico, Sulla Rettorica, Sulla  Storia,  sulla  Vita  attiva  e
contemplativa, e cercavano e non trovavano il genere eroico.
        Tra queste preoccupazioni e miserie  venne  in  luce  la  Gerusalemme
Liberata.  L'Italia  avea  il  suo  poema  eroico,  non  so   che   «simile»
all'Iliade e all'Eneide, e i critici dovevano essere  soddisfatti.
Il  giovane  Pellegrini  annunziò  la  buona  novella  a  suon  di  tromba,  con
l'entusiasmo dell'età.
        La Gerusalemme intoppava in un mondo non più poetico, ma critico.
Il sentimento dell'arte era esausto, l'ispirazione e la spontaneità nel comporre
e nel giudicare era guasta  da  ragionamenti  fondati  sopra  concetti  critici,
generalmente ammessi e tenuti come vangelo. L'Ariosto si pose  a  scrivere  come
gli era dettato dentro, e non guardava altro. Il suo argomento  divenne  innanzi
al suo genio un vero mondo, con la sua propria maniera di essere e  con  le  sue
regole. Il Tasso, come Dante, era già critico prima di esser  poeta,  aveva  già
innanzi a sè tutta una scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui  non  è  il  suo
argomento, ma certi  fini,  certe  preoccupazioni  certi  modelli,  e  Orazio  e
Aristotile, e Omero e Virgilio. A diciotto anni è già una maraviglia di dotto, e
conosce Platone e Aristotile e sviluppa  a  maraviglia  tesi  di  filosofia,  di
rettorica e di etica. Scrive  il  Rinaldo,  e,  come  aveva  imparato  il
«simplex et unum», studia all'unità dell'azione e alla  semplicità  della
composizione, e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico, avvezzo alle larghe
e magnifiche proporzioni dell'Orlando  e  dell'Amadigi,  trova  il
pasto un po' magro e ne  torce  la  bocca.  Lasciò  allora  da  parte  il  poema
cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e  pensò  di  dare  all'Italia  quel
poema eroico, che tutti  cercavano.  Esitò  sulla  scelta  dell'argomento,  avea
pronti quattro o cinque temi, e rimise l'elezione, dicesi, al duca Alfonso,  suo
mecenate.  In  somma  cominciò  la  Gerusalemme.  Volle  fare  un   poema
«regolare», come dicevano, secondo le regole. L'argomento  rispondeva  a'  tempi
pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi poteva senza sforzo introdurre
un eroe estense, e, come l'Ariosto, far la sua corte al duca. Si die'  una  cura
infinita delle proporzioni  e  delle  distanze,  per  conservare  l'unità  e  la
semplicità della composizione. Guardò al verisimile, per dare al  suo  mondo  un
aspetto di naturale e di credibile. Introdusse un'azione seria,  intorno  a  cui
tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un protagonista  effettivo,  un  vero
capo e re a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti, e cavò  l'intreccio  non
dallo spirito di avventura, ma dall'azione celeste e infernale, come  in  Omero.
Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi allegorico, e come una
semplice esteriorità  degl'istinti  e  delle  passioni.  Nobilitò  i  caratteri,
sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico, e sonò  la  tromba  dal  primo
all'ultimo verso. Tolse molta parte al caso e alla forza  brutale,  e  molta  ne
die' all'ingegno, alla forza morale,  alle  scienze,  come  ne'  suoi  duelli  e
battaglie. Mirò a dare al suo racconto un'apparenza di storia e  di  realtà.  Si
consigliava spesso con i critici, e dava loro  a  leggere  il  poema  canto  per
canto, e mutava e correggeva, docilissimo. Tra  questi  critici  consultati  era
Speron Speroni.
        Il Tasso voleva fare un poema  seriamente  eroico,  animato  da  spirito
religioso, possibilmente  storico  e  prossimo  al  vero  o  verisimile,  di  un
maraviglioso naturalmente spiegabile, e di un congegno così coerente e semplice,
che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il  suo  ideale  classico,
che cercò di realizzare, e che spiegò ne' suoi scritti sul poema eroico e  sulla
poesia, ne' quali mostrò che ne sapeva più de' suoi avversari.
        Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto.  Letto  prima  a
bocconi; quando uscì tutto intero, scorretto  e  senza  saputa  dell'autore,  si
destò un vespaio. I critici lo combatterono con le sue armi. - Se volevate  fare
un poema religioso, - diceva l'Antoniano - dovevate darci un poema  che  potesse
andar nelle mani anche delle monache. - Gli uomini pii,  che  allora  davano  il
tuono, mostravano scandalo di quegli  amori  rappresentati  con  tanta  voluttà,
malgrado che il povero Tasso ne chiedesse perdono alla Musa «coronata di  stelle
fra'  beati  cori».  E  per  farli  tacere,  costruì  un'allegoria   postuma   e
particolareggiata, che fosse di passaporto a quei diletti profani. Come arte, il
poema fu esaminato nella composizione, nella elocuzione,  nella  lingua  e  fino
nella grammatica: che era  la  materia  critica  di  quel  tempo.  Trovavano  la
composizione  difettosa,  soprattutto  per  l'episodio  di  Olindo  e  Sofronia,
lasciati lì e dimenticati nel rimanente dell'azione. Parea loro che  la  vera  e
seria azione comprendesse pochi canti, e il resto fosse un tessuto di episodi  e
avventure  legate  non  necessariamente  con  quella.  L'elocuzione  giudicavano
artificiata e pretensiosa, la  lingua  impura  e  impropria,  e  non  abbastanza
osservata la grammatica. Facevano continui confronti con l'Eneide  e  con
l'Iliade, e disputavano sottilmente e  futilmente  sul  genere  eroico  e
sulle sue regole.  Sorsero  confronti  stranissimi  tra  l'Orlando  e  la
Gerusalemme, e chi facea primo l'Ariosto  e  chi  il  Tasso.  La  contesa
occupò per qualche tempo l'oziosa Italia, e oscurò ancora più il senso  poetico,
e non fe' dare un passo alla critica. Si rimase come in un  pantano.  Fra  tanti
opuscoli merita attenzione quello di un  giovane,  chiamato  a  grandi  destini,
Galileo Galilei, che ne scrisse con un gran buon senso, con molto gusto e con un
retto sentimento dell'arte.
        L'Accademia della Crusca ebbe  molta  parte  in  questa  contesa.  E  si
comprende. Mancava alla lingua del Tasso il sapore  toscano,  quel  non  so  che
schietto e natio, con una vivezza e una grazia che è un amore.  Ma  il  Salviati
rese pedantesca l'accusa, facendo il pedagogo e notando i punti  e  le  virgole.
L'esagerazione dell'accusa suscitò l'entusiasmo della difesa, e il libro fu  più
noto e desiderato. Oggi, in tanto silenzio e indifferenza pubblica, un autore si
terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione. Ma il Tasso  ne  venne  malato
del dispiacere, e, quasi fossero assalti personali, trattò i suoi  critici  come
nemici. In verità, il principal suo nemico era lui stesso. Si difendeva, ma  con
cattiva coscienza, perchè, professando i medesimi princìpi critici,  sentiva  in
fondo di aver torto. E venne nell'infelice idea di rifare il suo poema,  e  dare
soddisfazione alla critica. Così uscì la Gerusalemme  Conquistata.  Purgò
la lingua, ubbidì alla grammatica. Le «armi» cessarono di essere «pietose» e non
divennero «pie»; il «capitano» divenne il «cavalier sovrano»; il «gran sepolcro»
sparve del tutto, e il sublime  «io  ti  perdón»  fu  trasformato  nel  prosaico
«perdón io». Le correzioni sono quasi tutte infelici, di seconda mano,  fatte  a
freddo. Non ci è più il poeta, ci è il  grammatico  e  il  linguista,  co'  suoi
terribili critici dirimpetto. Corresse anche l'elocuzione, rifiutò  i  lenocini,
cercò una forma più grave e solenne, che ti riesce fredda  e  insipida.  Peggior
guasto nella composizione. Soppresse  Olindo  e  Sofronia,  e  vi  sostituì  una
fastidiosa  rassegna   militare.   Cacciò   via   Rinaldo,   come   reminiscenza
cavalleresca, e vi ficcò un Riccardo, nome storico delle crociate,  divenuto  un
Achille, a cui die' un Patroclo in Ruperto.  Trasformò  Argante  in  un  Ettore,
figliuolo del re, di Aladino divenuto Ducalto. Fe' di Solimano un Mezenzio, e lo
regalò di un figliuolo per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana.  Troncò
le storie finali di Armida e di Erminia mutata  in  Nicea.  Anticipò  la  venuta
degli egizi, e moltiplicò le azioni militari, per  occupare  il  posto  lasciato
vuoto dagli episodi abbreviati o soppressi. E gli parve così di aver  rafforzata
l'unità e la semplicità dell'azione, resa più coerente e logica la composizione,
e dato al poema un colorito più storico e reale. Ma non parve al  pubblico,  che
non potè risolversi a dimenticare Armida, Rinaldo, Erminia, Sofronia, le sue più
care  creazioni  e  più  popolari.  E  dimenticò  piuttosto  la   Gerusalemme
conquistata, che oggi nessuno più legge.
        La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme  a  quella  di
Dante. Lo scopo della poesia è per lui il «vero condito in  molli  versi»,  come
era per Dante il «vero sotto favoloso e  ornato  parlare  ascoso».  Il  concetto
religioso è anche il medesimo, la lotta della passione con la ragione.  Passione
e ragione sono in Dante inferno e paradiso, e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro
istrumenti in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo.  L'intreccio  è
tutto fondato  su  questo  antagonismo,  divenuto  il  luogo  comune  de'  poeti
italiani. L'Armida del Tasso è l'Angelica del Boiardo e dell'Ariosto, salvo  che
il Boiardo affoga il concetto nella immensità della sua tela, e l'Ariosto se  ne
ride saporitamente, dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto. Questo,  che
i critici chiamavano un «episodio», era il concetto sostanziale del poema. Omero
canta l'ira di Achille, cioè canta non la ragione, ma la passione,  nella  quale
si manifesta la vita energicamente. Le sue divinità  sono  esseri  appassionati,
Giove stesso non è la ragione, ma la necessità delle  cose,  il  fato.  Virgilio
s'accosta al concetto cristiano, togliendo il pio Enea  agli  abbracciamenti  di
Didone. Pure, poeticamente ciò che desta il maggiore  interesse  non  è  il  pio
Enea, ma l'abbandonata Didone. Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il
peccato di Adamo sono argomenti epici, ne' quali erompe la vita  nella  violenza
de' suoi istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di Cristo l'interesse
poetico giunge al suo più alto effetto  tragico,  perchè  è  il  martirio  della
verità. In Dante questo concetto  preso  nella  sua  logica  perfezione  produce
l'astrazione del paradiso e l'intrusione dell'allegoria; come nel Tasso  produce
l'astrazione  del  Goffredo.  Si  confondeva  il  vero  poetico,  che  è   nella
rappresentazione  della  vita,  col  vero  teologico   o   filosofico,   che   è
un'astrazione  mentale  o  intellettuale  della  vita.  L'Ariosto  se  la   cava
benissimo, perchè canta la follia di Orlando, e  quando  viene  la  volta  della
ragione, volge il fatto a una soluzione comica e piccante,  mandando  Astolfo  a
pescarla nel regno della Luna. Il Tasso vuol restaurare il  concetto  nella  sua
serietà, e mirando a quella perfezione mentale, gli esce l'infelice  costruzione
del Goffredo e la fredda allegoria della «donna celeste».
        Non è meno errato il suo concetto della vita epica. Ciò che lo preoccupa
è la verità storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa dignità uguale
e sostenuta. E non vede  che  questo  è  l'esterno  tessuto  della  vita,  o  il
meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura  e  il  suo  ordine
logico. Il suo occhio critico non va  al  di  là,  e  quando  il  poeta  morì  e
sopravvisse il critico, esagerando  questi  concetti  astratti  e  superficiali,
guastò  miserabilmente  il  suo  lavoro,  e   ci   die'   nella   Gerusalemme
conquistata di quella ricca vita il solo scheletro, il quale, perchè  meglio
congegnato e meccanizzato, gli parve cosa più perfetta.
        Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva una vera ispirazione. E  la
spontaneità del poeta supplì in gran parte agli artifici del critico.
        Torquato Tasso, educato in Napoli da' gesuiti, vivuto  nella  sua  prima
gioventù a Roma, dove spiravano già le aure  del  Concilio  di  Trento,  era  un
sincero  credente,  ed  era  insieme  fantastico,  cavalleresco,   sentimentale,
penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura italiana. Pugnavano in
lui due uomini: il pagano e il cattolico, l'Ariosto e  il  Concilio  di  Trento.
Mortagli la madre che era ancor giovinetto,  lontano  il  padre,  insidiato  da'
parenti, confiscati i beni, tra' più acuti bisogni della vita, non dimentica mai
di essere un gentiluomo. Serve in corte e si sente libero; vive tra' vizi  e  le
bassezze, e rimane onesto; domanda pietà con la testa alta  e  con  aria  d'uomo
superiore e in nome de' princìpi più elevati della dignità umana.
        Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e due furono i poeti  della
transizione, gl'illustri malati, che sentivano nel loro petto lo strazio di  due
mondi, che non poterono conciliare. La musa della transizione è  la  malinconia.
Ma la malinconia del Petrarca era superficiale:  rimaneva  nella  immaginazione,
non penetrò nella vita. Era  una  malinconia  non  priva  di  dolcezza,  che  si
effondeva e si calmava negli studi, e lo tenne contemplativo e  tranquillo  fino
alla più tarda età. La malinconia del Tasso è più profonda,  lo  strazio  non  è
solo nella sua immaginazione, ma nel suo cuore, e  penetra  in  tutta  la  vita.
Sensitivo, impressionabile, tenero, lacrimoso. Prende sul  serio  tutte  le  sue
idee, religiose, filosofiche, morali, poetiche, e vi  conforma  il  suo  essere.
Entusiasta sino all'allucinazione, perde la misura del reale e spazia nel  mondo
della sua intelligenza, dove lo tiene alto sull'umanità l'elevatezza e  l'onestà
dell'animo. Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico  della  vita,
che abbonda a' mediocri. La sua immaginazione è in  continuo  travaglio,  e  gli
corona e trasforma la vita non solo come poeta,  ma  come  uomo.  Immaginatevelo
nell'Italia del Cinquecento  e  in  una  di  quelle  corti,  e  presentirete  la
tragedia. All'abbandono, alla confidenza, all'espansione della prima  giovinezza
succede tutto il corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento,  la
malinconia, l'umor nero e l'allucinazione: stato fluttuante tra la sanità  e  la
pazzia, e che potè far credere, non che ad altri, ma a lui stesso di  non  avere
intero il senno. In luogo di medici e di medicine  gli  era  bisogno  un  ritiro
tranquillo, co' suoi libri, e vicina una madre, o  una  sorella,  o  amici  resi
intelligenti dall'affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile compassione degli
uomini, lui supplicante invano a tutt'i principi  d'Italia.  Libero,  trovò  una
sorella  ed  un  amico,  che  se  valsero  a  raddolcire,  non  poterono  sanare
un'immaginazione da tanto tempo disordinata. E quando ebbe un primo  riso  della
fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua morte.
        Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e  due  hanno  la  faccia
assorta e distratta, gli occhi gittati nello  spazio  e  senza  sguardo,  perchè
mirano al di dentro. Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che
ha già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha la faccia elegiaca
e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell'uno  e  nell'altro  non  vedi  i
lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.
        Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con la sua calma  olimpica  e
con la sua risoluta volontà. È un carattere lirico, non è un carattere eroico. E
come il Petrarca, è natura subbiettiva, che crea di se stesso il suo universo.
        Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un  santo.  Nato  fra  quello
scetticismo ipocrita e quella  coltura  contraddittoria,  vive  tra  scrupoli  e
dubbi, e non sa diffinire egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico,  più
crudele inquisitore di sè che il  tribunale  dell'Inquisizione.  Cominciò  molto
vicino all'Ariosto col suo Rinaldo. E gli  parve  che  non  se  ne  fosse
discostato abbastanza con la sua Gerusalemme Liberata. Scrupoli critici e
religiosi lo condussero alla Gerusalemme conquistata, ch'egli chiamava la
«vera Gerusalemme»,  la  «Gerusalemme  celeste».  E  non  parsogli
ancora abbastanza, scrisse le Sette giornate della creazione.
        Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso,
la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo,  animato  da
quello stesso spirito che senti  nella  Messiade  o  nel  Paradiso
perduto.  Ma  il  movimento  era  superficiale  e  formale,  prodotto  da
interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni. E tale si rivela
nella Gerusalemme Liberata.
        Il Tasso non era un pensatore originale, nè gittò mai uno sguardo libero
su' formidabili problemi della vita. Fu un dotto e un  erudito,  come  pochi  ce
n'erano allora, non un pensatore. Il suo mondo religioso ha de' lineamenti fissi
e già trovati, non prodotti dal suo cervello. La sua critica e la sua  filosofia
è cosa imparata, ben  capita,  ben  esposta,  discorsa  con  argomenti  e  forme
proprie, ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue  basi,  dove  logori
una parte del suo cervello. Ignora Copernico, e sembra  estraneo  a  tutto  quel
gran movimento d'idee che allora rinnovava la faccia di Europa, e  allettava  in
pericolose meditazioni i più nobili intelletti d'Italia. Innanzi al suo  spirito
ci stanno certe colonne d'Ercole, che  gli  vietano  andare  innanzi;  e  quando
involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito  e  si  confessa  al
padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito. La sua  religione  è
un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e non  da
esaminare, e un complesso di forme da  osservare.  Nel  suo  spirito  ci  è  una
coltura letteraria  e  filosofica  indipendente  da  ogni  influenza  religiosa,
Aristotile e Platone, Omero e Virgilio, il Petrarca e  l'Ariosto,  e  più  tardi
anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtà e alterezza  di  gentiluomo,  che
ricorda tipi cavallereschi anzi che evangelici. Nella sua vita ci è  una  poesia
martire della realtà; vita ideale nell'amore, nella  religione,  nella  scienza,
nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce.  Fu  una
delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia  alta  di  poesia,
che attende chi la sciolga dal marmo, dove Goethe l'ha  incastrata,  e  rifaccia
uomo la statua.
        Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione
alla italiana, dommatica, storica e formale: ci  è  la  lettera,  non  ci  è  lo
spirito. I suoi cristiani credono, si confessano,  pregano,  fanno  processioni:
questa è la vernice; quale è il fondo?  È  un  mondo  cavalleresco,  fantastico,
romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la  croce.  La  religione  è
l'accessorio di questa vita, non ne è lo spirito, come in Milton o in  Klopstok.
La vita è nella sua base, quale si era andata formando dai Boccaccio in qua, col
suo ideale tra il  fantastico  e  l'idillico,  aggiuntavi  ora  un'apparenza  di
serietà, di realtà e di religione.
        Il tipo dell'eroe cristiano  è  Goffredo,  carattere  astratto,  rigido,
esterno e tutto di un pezzo. Ciò che è in lui di più intimo è il suo sogno,  che
è pure imitazione pagana,  reminiscenza  del  sogno  di  Scipione.  Il  concetto
religioso è manifestato in Armida, la concupiscenza o il  senso,  e  in  Ubaldo,
voce della «donna celeste» o della ragione. Ma «la ragione  parla,  e  il  senso
morde», come dice il Petrarca, e l'interesse poetico è tutto intorno ad  Armida.
La ragione usa una rettorica più pagana che cristiana, e mostra aver pratica più
con Seneca e con Virgilio che con la Bibbia: il fonte della sua morale non è  il
paradiso, ma la gloria. La ragione parla, e Armida opera, circondata di artifici
e di allettamenti. E l'autore qui  si  trova  nel  campo  suo,  e  s'immerge  in
fantasie ariostesche,  profane,  idilliche,  che  crede  trasformate  in  poesia
religiosa, perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di Ubaldo, e  la
sua rettorica. Rinaldo, il convertito, non ha  una  chiara  personalità,  perchè
quello che è e quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza, e non par
quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche, le  quali  se  lo
contendono.  Il  dramma  è  tutto  esterno,  e  rimane  d'assai  inferiore  alla
confessione di Dante, penetrata  da  spirito  religioso.  Quanto  al  rimanente,
Rinaldo è una reminiscenza del  Rinaldo  o  Orlando  ariostesco  in  proporzioni
ridotte, come Argante è una reminiscenza di Rodomonte con faccia più seria.  Più
tardi Rinaldo, trasformato in Riccardo, divenne  una  reminiscenza  di  Achille;
Sveno, mutato in Ruperto,  fu  reminiscenza  di  Patroclo,  e  Solimano  divenne
Mezenzio, e Argante Ettore. Reminiscenze cavalleresche, reminiscenze  classiche,
più vivaci e fresche le prime, come più vicine e ancora  sonanti  nello  spirito
italiano.
        Il Tasso sentiva confusamente che il  poema  non  gli  era  venuto  così
conforme al suo tipo religioso, com'egli aveva in mente. E nella  Gerusalemme
conquistata cercò supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria, diluì
il sogno di Goffredo,  appiccò  al  bel  viaggio  al  di  là  dell'Oceano,  sola
ispirazione moderna e degna di Camoens, un viaggio sotterraneo assai stentato di
concetto e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore delle crociate,  dipinta
nella tenda di Goffredo. Rese il poema più pesante, ma non più religioso, perchè
la religione non è nel dogma, non nella storia  e  non  nelle  forme,  ma  nello
spirito. E lo spirito religioso, come qualunque fenomeno della  vita  interiore,
non è cosa che si possa mettere per forza di volontà.
        Volea fare anche un  poema  serio.  Ma  la  sua  serietà  è  negativa  e
meccanica, perchè da una parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca  ogni
elemento plebeo e comico, e dall'altra in un ordito più logico e  più  semplice,
secondo il modello classico. E sente pure  di  non  esservi  riuscito,  e  nella
Gerusalemme rifatta usa colori ancora più oscuri, e cerca  un  meccanismo
più perfetto. Gitta tutt'i personaggi nello stesso stampo, e, per far  seria  la
vita, la fa monotona e  povera.  Cerca  una  serietà  della  vita  in  tempi  di
transizione, oscillanti  fra  tendenze  contraddittorie,  senza  scopo  e  senza
dignità. Cerca l'eroico, quando mancavano le due prime condizioni di  ogni  vera
grandezza, la semplicità e  la  spontaneità.  La  sua  serietà  è  come  la  sua
religione, superficiale e letteraria.
        E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di  credibilità  e  di
realtà. Sceglie i suoi elementi dalla storia;  cerca  esattezza  di  nomi  e  di
luoghi; guarda ad una connessione verisimile d'intreccio; e, come uno  scultore,
ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni, che  sembrano
tolti dal vero. Chiude in limiti ragionevoli i miracoli della forza  fisica;  nè
la forza e il coraggio sono i soli fattori del suo mondo, ma anche l'esperienza,
la saggezza, l'abilità e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme, accentuò
ancora questa sua intenzione, cercando maggiore esattezza storica e  geografica.
Nelle sue tendenze critiche e artistiche si vede già un'anticipazione di  quella
scuola  storica  e  realista  che  si  sviluppò  più  tardi.  Ma  sono  tendenze
intellettuali, cioè puramente critiche, in contraddizione con  lo  stato  ancora
fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca e  subbiettiva.
Gli manca la forza  di  trasferirsi  fuori  di  sè,  non  ha  il  divino  obblio
dell'Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito e nella sua vita  interiore,
attinge appena il suo aspetto materiale e superficiale. Ciò che vive al di sotto
è lui stesso: cerca l'epico, e trova il lirico, cerca il  vero  o  il  reale,  e
genera il fantastico, cerca la storia, e s'incontra con la sua anima.
        La Gerusalemme conquistata, di  aspetto  più  regolare  e  di  un
meccanismo più severo, è un ultimo sforzo per effettuare un mondo  poetico,  dal
quale egli sentiva esser rimasto molto lontano nella  prima  Gerusalemme.
La base di questo mondo dovea essere la serietà di  una  vita  presa  dal  vero,
colta nella sua realtà storica e animata da spirito religioso. Rimase in lui  un
mondo  puramente  intenzionale,  un  presentimento  di  una  nuova  poesia,  uno
scheletro che rimpolpato e colorito e animato da vita interiore si  chiamerà  un
giorno I Promessi Sposi.
        Come in Dante, così nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in  un
fondo estraneo vi rimane appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca un mondo  non
riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si trasformano,  gli  altri
ancora in formazione. Il di fuori è assai ben congegnato e concorde;  ma  è  una
concordia  meccanica  e  intellettuale,  condotta  a  perfezione  nella  seconda
Gerusalemme. Sotto a quel meccanismo senti il disorganismo, un  principio
di vita molto attivo  nelle  parti,  che  non  giunge  a  formare  una  totalità
armonica. Il fenomeno è stato avvertito  da'  critici,  a'  quali  è  parso  che
l'interesse sia maggiore negli  episodi  che  nell'insieme;  e  questi  episodi,
Olindo e Sofronia, Rinaldo e Armida, Clorinda ed Erminia  sono  i  soli  rimasti
vivi nel  popolo,  giudice  inappellabile  di  poesia.  Ma  ciò  che  si  chiama
«episodio» è al contrario il fondo stesso del racconto, la sua sostanza poetica;
perchè il poema, sotto una vernice religiosa e storica, è nella sua  essenza  un
mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura dello scrittore e del tempo.
        Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un popolo, che  non  ha
l'intelligenza e la pratica della vita terrestre e non la prende sul  serio.  La
vita di quelle plebi superstiziose e di quelle borghesie oziose e  gaudenti  era
il  romanzo,  il  maraviglioso  delle   avventure   prodotte   da   combinazioni
straordinarie di casi o da forze soprannaturali.  Il  Tasso  stesso  era  di  un
carattere romanzesco, insciente e aborrente delle necessità della vita  pratica.
Il suo viaggio per gli Abruzzi in veste da contadino, e il suo presentarsi  alla
sorella non conosciuto, e la scena tenera che ne fu effetto, è tutto un romanzo.
Aggiungi le impressioni letterarie che gli venivano dalla lettura dell'Ariosto e
dell'Amadigi, e la gran voga de' romanzi e il favore del pubblico,  e  ci
spiegheremo come la prima cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo, e
come questo mondo romanzesco si conserva  invitto  attraverso  le  sue  velleità
religiose, storiche e classiche.
        L'intreccio fondamentale del  poema  è  un  romanzo  fantastico  a  modo
ariostesco, un'Angelica che fa perdere il senno a Orlando, e un Astolfo  che  fa
un viaggio fantastico per ricuperarglielo. Hai Armida che  innamora  Rinaldo,  e
Ubaldo che attraversa l'Oceano per  guarirlo  con  lo  specchio  della  ragione.
Angelica e Armida sono maghe tutt'e due, e istrumenti di potenze  infernali,  ma
sono donne innanzi tutto, e la loro più pericolosa  magia  sono  i  vezzi  e  le
lusinghe. Come Angelica, così Armida si tira appresso i guerrieri cristiani e li
tien lontani dal campo; nè vi manca l'altro mezzo ariostesco, la discordia,  che
produce la morte di Gernando, l'esilio volontario di Rinaldo e la  cattività  di
Argillano. Da queste cause, le quali non sono altro che le passioni  sciolte  da
ogni freno di  ragione  e  svegliate  da  vane  apparenze,  escono  le  infinite
avventure dell'Ariosto e le poche del Tasso annodate  intorno  alla  principale,
Armida e Rinaldo. La selva incantata, che ricorda la selva dantesca, è la  selva
degli errori e delle passioni, o delle vane apparenze, nè  i  cristiani  possono
entrare in Gerusalemme, se non disfacciano quegl'incanti, cioè a dire, se
non si purghino delle passioni.  Questo  è  il  concetto  allegorico  di  Dante,
divenuto tradizionale nella nostra  poesia,  smarrito  alquanto  nel  pelago  di
avventure del Boiardo e dell'Ariosto, e ripescato dal Tasso con un'apparenza  di
serietà, che non giunge a cancellare l'impronta ariostesca, cioè quel  carattere
romanzesco, che gli avevano dato il Boiardo e l'Ariosto. Intorno a questo centro
fantastico moltiplicano duelli e battaglie: materia tanto più  popolare,  quanto
meno in un popolo è sviluppato un serio senso militare. Il popolo  italiano  era
il meno battagliero di Europa, e si pasceva di battaglie immaginarie.  Vanamente
cerchiamo in questo mondo fantastico un senso  storico  e  reale,  ancorachè  il
poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti più cari  della  vita.  Non  ci  è  la
donna, non la famiglia,  non  l'amico,  non  la  patria,  non  il  raccoglimento
religioso, nessuna immagine di una vita seria e  semplice.  Gildippe  e  Odoardo
riesce una freddura. La «pietà» di Goffredo e la  «saviezza»  di  Raimondo  sono
epiteti. L'amicizia di Sveno e Rinaldo e nelle parole. Unica corda è l'amore,  e
spesso riesce artificiato e rettorico,  com'è  ne'  lamenti  di  Tancredi  e  di
Armida, ed anche in Erminia con quelle sue  battaglie  tra  l'onore  e  l'amore.
Nessuna cosa vale tanto  a  mostrare  il  fondo  frivolo  e  scarso  della  vita
italiana, quanto questi sforzi impotenti del Tasso  a  raggiungere  una  serietà
alla quale pur mirava. Volere o non volere, rimane ariostesco, e di  gran  lunga
inferiore a quell'esempio. Gli manca la naturalezza, la semplicità, la vena,  la
facilità e il brio dell'Ariosto: tutte le grandi  qualità  della  forza.  Quella
vita romanzesca, così ricca  di  situazioni  e  di  gradazioni,  così  piena  di
movimenti e di armonie, con una obbiettività e una chiarezza che sforza  il  tuo
buon senso e ti tira seco come sotto l'influsso di una malia, se ne  è  ita  per
sempre.
        Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo mondo poetico, e  qui
è la sua creazione, qui sviluppa le sue  grandi  qualità.  È  un  mondo  lirico,
subiettivo e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca, e,  per  dirlo  in
una parola, è un mondo sentimentale.
        È un sentimento idillico ed elegiaco che trova nella natura e  nell'uomo
le note più soavi e più delicate. Già questo sentimento  si  era  sviluppato  al
primo apparire del Risorgimento nel Poliziano e nel Pontano, deviato e  sperduto
fra tanto incalzare di novelle, di commedie  e  di  romanzi.  L'idillio  era  il
riposo di una società stanca, la quale, mancata ogni serietà di vita pubblica  e
privata, si rifuggiva ne' campi, come l'uomo stanco cercava pace  ne'  conventi.
Sopravvennero le agitazioni e i disordini  dell'invasione  straniera;  e  quando
fine della lotta fu un'Italia  papale  e  spagnuola,  perduta  ogni  libertà  di
pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita, l'idillio ricomparve
con più forza, e divenne l'espressione più accentuata della decadenza  italiana.
Solo esso è forma vivente fra tante forme puramente letterarie.
        L'idillio italiano non è imitazione,  ma  è  creazione  originale  dello
spirito. Già si annunzia nel Petrarca, quale si  afferma  nel  Tasso,  un  dolce
fantasticare tra' mille suoni della natura. L'anima ritirata in sè è malinconica
e disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza e  il  suo  accento  in  quel
fantasticare. La natura diviene musicale, acquista una sensibilità, manda  fuori
con le sue immagini  mormorii  e  suoni,  voci  della  vita  interiore.  Prevale
nell'uomo la parte femminile, la grazia, la dolcezza, la pietà, la tenerezza, la
sensibilità, la voluttà e la lacrima; tutto quel complesso  di  amabili  qualità
che dicesi il «sentimentale». I popoli, come gl'individui, nel pendio della loro
decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. Non  è  un  sentimento  che
venga dalle cose, ciò che è proprio della sanità, ma è un sentimento  che  viene
dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere
la realtà in se stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere  o  dolci
illusioni, nelle quali l'anima effonde  la  sua  sensibilità.  Il  sentimento  è
perciò essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro è tutto al di dentro,
ci si sente l'opera dello spirito, non so che manifatturato, la cosa  non  colta
nella naturalezza e semplicità della sua esistenza, ma divenuta un fantasma e un
concetto dello spirito.
        Il Tasso cerca l'eroico, il serio, il reale, lo storico,  il  religioso,
il classico, e si logora  in  questi  tentativi  fino  all'ultima  età.  Sarebbe
riuscito un Trissino; ma la natura lo aveva fatto un poeta, il  poeta  inconscio
d'un  mondo  lirico  e  sentimentale,  che  succedeva  al  mondo  ariostesco.  A
quest'ufficio ha tutte le qualità di poeta  e  di  uomo.  L'uomo  è  fantastico,
appassionato, malinconico, di una perfetta sincerità e buona fede.  Il  poeta  è
tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale. La sua  immaginazione
non è chiusa in sè, come in un ultimo termine, a quel  modo  che  dal  Boccaccio
all'Ariosto si rivela nella poesia, ma è penetrata di languori, di  lamenti,  di
concetti e di sospiri, e va diritto al cuore. L'Ariosto dice:

        in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
        che parea ad ascoltar fermare i venti.

Il sentimento appena annunziato si scioglie in una immagine fantastica. Il Tasso
dice:

        In queste voci languide risuona
        un non so che di flebile e soave,
        ch'al cor gli serpe ed ogni sdegno ammorza,
        e gli occhi a lacrimar gl'invoglia e sforza.

Nella  forma  ariostesca  ci  è  una  virtù  espansiva,  che  rimane   superiore
all'emozione e cerca il suo riposo non nel particolare, ma nell'insieme: qualità
della  forza.  Nella  forma  del  Tasso  ci  è  l'impressionabilità,  che  turba
l'equilibrio e la  serenità  della  mente,  e  la  trattiene  intorno  alla  sua
emozione:  l'immagine  si  liquefà  e  diviene  un  «non   so   che»,   annunzio
dell'immagine che cessa e dell'emozione che soverchia:

        e un non so che confuso instilla al core
        di pietà, di spavento e di dolore.

Anche tra' furori delle battaglie la nota prevalente è  l'elegiaca,  come  nella
ottava:

        Giace il cavallo al suo signore appresso.

Ne' casi di morte gli  riesce  meglio  l'elegiaco  che  l'eroico.  Aladino,  che
cadendo morde la terra ove regnò, è grottesco. Solimano, che

        ... ... gemito non spande,
        nè atto fa se non altero e grande,

ti offre un'immagine indistinta. Argante muore  come  Capaneo,  ma  la  forma  è
concettosa e insieme vaga, e quelle voci  e  que'  moti  «superbi,  formidabili,
feroci» non ti dànno niente di percettibile avanti all'immaginazione. L'idea  in
queste forme rimane intellettuale, non diviene arte. Al contrario precise,  anzi
pittoresche, sono le immagini di Dudone, di Lesbino, de'  figli  di  Latino,  di
Gildippe ed Odoardo, dove le note caratteristiche sono la grazia e la  dolcezza.
Così è pure nella  morte  di  Clorinda;  ispirazione  petrarchesca  con  qualche
reminiscenza di Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: -  Io  sono
in pace -; ma è una Beatrice spogliata de' terrori e degli splendori  della  sua
divinità. Il sole non si oscura, la terra non trema, e gli angioli non  scendono
come pioggia di manna. La religione del Tasso è timida, ci è innanzi  a  lui  il
ghigno del secolo, mal dissimulato sotto l'occhio  dell'inquisitore.  L'elemento
religioso era ammesso come macchina poetica, a quel modo che la mitologia:  tale
è l'angiolo di Tortosa, e Plutone, messi insieme. È  una  macchina  insipida  in
tutt'i nostri epici, perchè convenzionale, e non meditata nelle sue  profondità.
Gli angioli del Tasso sono luoghi comuni, e il suo  Plutone,  se  guadagna  come
scultura,  è  superficialissimo  come  spirito,  e  parla  come  un  maestro  di
rettorica. La parte attiva e interessante è affidata alla magia, ancora in  voga
a quel tempo, dalla quale il Tasso trae tutto il suo maraviglioso. La  morte  di
Clorinda non è una trasfigurazione, come quella di Beatrice,  e  si  accosta  al
carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura, nel cui  bel  volto  «morte
bella parea». Qui tutto è  preciso  e  percettibile,  il  plastico  è  fuso  col
sentimentale, il riposo idillico col patetico, e l'effetto  è  un  raccoglimento
muto e solenne di una pietà senz'accento, come suona in questa immagine nel  suo
fantastico  così  umana  e  vera  e  semplice,  perchè  rispondente  alle  reali
impressioni e parvenze di un'anima addolorata:

        ... ... in lei converso
        sembra per la pietate il cielo e il sole.

La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole di Sofronia:

        Mira il ciel com'è bello, e mira il sole
        che a sè par che ne inviti e ne console.

Movimento  lirico,  che  ricorda  immagini  simili  di  Dante  e  del  Petrarca,
accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco,  quando  vuol  darvi  uno
sviluppo puramente dottrinale e religioso, come nelle prime parole di  Sofronia,
che hanno aria di  una  riprensione  amorevole  fatta  da  un  confessore  a  un
condannato a morte, o nelle parole di  Piero  a  Tancredi,  che  hanno  aria  di
predica. La sua anima candida  e  nobile  la  senti  più  nelle  sue  imitazioni
petrarchesche e  platoniche,  che  in  ciò  che  tira  dal  fondo  dottrinale  e
tradizionale religioso. Sofronia, che fa una lezione a Olindo, ricorda  Beatrice
che ne fa una simile e più aspra a Dante; ma Beatrice è  nel  suo  carattere,  è
tutta l'epopea di quel secolo, ci è in lei la  santa,  la  donna,  ed  anche  il
dottore  di  teologia;  Sofronia  è  rigida,  tutta  di  un  pezzo,  costruzione
artificiale e solitaria in un mondo dissonante, perciò appunto  esagerata  nelle
sue tinte religiose, a cominciare da quella «vergine di  già  matura  verginità»
per finire in quel bruttissimo:

        ... ... ella non schiva,
        poi che seco non muor, che seco viva.

In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa con le sue  estasi  e  i
suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il femminile  con  la  sua  grazia  e
amabilità. È uscita dal cervello concetto cristiano con  reminiscenze  pagane  e
platoniche. Colui che l'ha concepita, pensava a Eurialo e Niso, a Beatrice  e  a
Laura. La creatura è rimasta nel suo intelletto, e non  ha  avuto  la  forza  di
penetrare nella sua coscienza e nella sua immaginazione così  com'era,  nel  suo
immediato. Il che  avviene  quando  la  coscienza  e  l'immaginazione  sono  già
preoccupate,   e   non   conservano   nella   loro   verginità   le   concezioni
dell'intelletto. Se è  vero  che,  concependo  Sofronia,  il  Tasso  pensasse  a
Eleonora, è una ragione di più, che ci spiega l'artificio e la durezza di questa
costruzione. Perciò Sofronia è la meno viva e la meno interessante fra le  donne
del Tasso, e non è stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata  da  Olindo,  il
femminile, in un episodio dove l'uomo è Sofronia: Olindo diviene eroe per amore,
come altri diviene eroe per paura. Il suo carattere  non  è  la  forza,  qualità
estranea al tempo ed al Tasso, e che senti così bene in quel sublime: «Me me,
adsum qui  feci,  in  me  convertite  ferrum»,  imitato  qui  a  rovescio  e
rettoricamente. Il carattere di questo timido amante, «o mal visto, o mal  noto,
o mal gradito», presentato a' lettori in una  forma  artificiosa  e  sottile,  è
l'eco del Tasso, un'anticipazione del Tancredi, la stampa di  quel  tempo  e  di
quel poeta, un elegiaco spinto sino al gemebondo, un  idillico  spinto  sino  al
voluttuoso. Il vero eroe del poema è Tancredi, che è il  Tasso  stesso  miniato:
personaggio lirico e subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi  più  moderni,
come in Amleto. Tancredi è gentiluomo, cioè cavalleresco nel senso più  delicato
e nobile, gagliardo e destro più che gigantesco di corpo, malinconico,  assorto,
flebile, amabile, consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda è una Camilla
battezzata, tradizione virgiliana che al momento della morte si rivela  dantesca
e petrarchesca. Carattere muto, diviene intelligibile e  umano  in  morte,  come
Beatrice e Laura. La sua apparizione a Tancredi ricorda quella di  Laura,  ed  è
una delle più felici imitazioni. La formazione poetica della  donna  non  fa  in
Clorinda alcun passo:  rimane  reminiscenza  petrarchesca.  E  se  vuoi  trovare
l'ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso  di
amabili qualità, dèi cercarlo non nella donna, ma nell'uomo, nel Petrarca e  nel
Tasso, caratteri femminili nel senso  più  elevato,  e  in  questa  simpatica  e
immortale creatura del Tasso, il Tancredi. Si  è  detto  che  l'uomo  nella  sua
decadenza tenda al femminile, diventi nervoso, impressionabile, malinconico.  Il
simile è de' popoli. E lo spirito italiano fa la sua ultima apparizione  poetica
tra' languori e i lamenti  dell'idillio  e  dell'elegia,  divenuto  sensitivo  e
delicato e musicale. Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa  rompere  la
superficie ariostesca, e gli fa cavare di là dentro i  primi  suoni  dell'anima.
L'uomo non è più al di fuori, si ripiega, si  raccoglie.  Lo  stesso  Argante  è
colpito   da   questo   sublime   raccoglimento   innanzi   alla    caduta    di
Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine  di  Cartagine,  o  quando
nell'immensità dell'oceano concepisce e comprende Colombo. Qui è l'originalità e
la creazione del gran poeta, che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi
nella sua vanagloria. Vita intima, della quale dopo Dante e il Petrarca  si  era
perduta la memoria.
        Con l'elegiaco si accompagna  l'idillico.  L'immagine  sua  più  pura  e
ideale è l'innamorata Erminia, che acqueta le cure e le smanie nel riposo  della
vita campestre. Quella scena è tra le più interessanti  della  poesia  italiana.
Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico, e fredda e accademica  nelle  sue
discussioni tra l'onore e l'amore; ma quando si abbandona all'amore, si rivelano
in lei di bei movimenti lirici, come:

        Oh belle agli occhi miei tende latine!

Nella sua anima ci è l'impronta malinconica  e  pensosa  del  Tasso,  una  certa
dolcezza e delicatezza di fibra, che la tien lontana dalla  disperazione,  e  la
dispone alla pace e alla solitudine campestre, della quale un pastore gli fa  un
quadro tra' più finiti della nostra poesia. Erminia errante pe' campi con le sue
pecorelle, tutta sola in  compagnia  del  suo  amore,  pensosa  e  fantastica  e
lacrimosa, espande le sue pene con una dolcezza musicale, il cui segreto è  meno
nelle immagini che nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi  comuni
in una musica nuova, piena di misteri o di «non so che» nella  sua  melodia.  Un
traduttore può rendere il senso, ma non la musica di quelle ottave. L'anima  del
poeta non è nelle cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata alcuna  volta  la
proprietà, la precisione, la sobrietà, tutte le alte qualità  dello  stile,  che
rendono ammirabile il Petrarca, suo ispiratore: pur non te ne  avvedi  sotto  la
malia di quell'onda musicale, che non è un artifizio esteriore e meccanico, ma è
il non so che del sentimento, che viene dall'anima e va all'anima.
        L'idillico non è in questa o quella scena, ma è la sostanza  del  poema,
il suo significato. La base ideale del  poema  è  il  trionfo  della  virtù  sul
piacere, o  della  ragione  sulle  passioni.  Un  lato  di  questa  base  rimane
intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente  in  esortazioni  paterne,
come:

        Signor, non sotto l'ombra o in piaggia molle,
        tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
        ma in cima all'erto e faticoso colle
        della virtù riposto è il nostro bene.

Contrapposto alla virtù è il piacere, e  qui  si  sviluppano  tutte  le  facoltà
idilliche del poeta. In Erminia l'idea idillica è la pace della vita  campestre,
farmaco del dolore vòlto in dolce melanconia. Qui l'idea idillica è  il  piacere
della bella natura spinto sino alla voluttà e alla mollezza, come ozio di  anima
e contrapposto alla virtù e alla gloria: ciò che  il  poeta  chiude  nel  motto:
«quel che piace, ei lice», traduzione del dantesco: «libito fe' licito».  Questa
idea è sviluppata nel canto della ninfa e nel canto dell'uccello, che  sono  due
veri inni al Piacere:

        Solo chi segue ciò che piace è saggio.

Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per naturalezza  e  semplicità,
che soggioga anche il severo Galilei, e gli fa dire che qui il Tasso si  accosta
alla  divinità  dell'Ariosto.  L'altro  canto  è  fondato  su  questo   concetto
maneggiato così spesso da Lorenzo e  dal  Poliziano:  «Amiamo,  chè  la  vita  è
breve». L'immagine è anche imitata dal Poliziano: è la descrizione  della  rosa,
fatta pure dall'Ariosto; ma, dove nel Poliziano ci è il  puro  sentimento  della
bellezza, qui si sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco: l'impressione non
è la bellezza della rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un  canto  immortale,
penetrato di piacere e di dolore, il  cui  complesso  è  una  voluttà  resa  più
intensa da immagini tenere, fatti la morte e il dolore istrumenti del piacere  e
dell'amore. Il protagonista di questo mondo idillico è Armida, anzi questo mondo
è il suo prodotto, perchè essa è la maga del piacere che gli dà vita.  Armida  e
Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero, e il concetto stesso del  guerriero  tenuto
negli ozi  lontano  dalla  guerra  risale  ad  Achille  in  Sciro,  come  l'idea
dell'amore sensuale che trasforma gli uomini in bestie è già tutta intera  nella
maga Circe. Di questa lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi poetici
in tutte le nazioni. Il Tasso con un senso di poesia profondo ha fatto di Armida
una vittima della sua magia. La donna vince  la  maga,  e  come  Cupido  finisce
innamorato di Psiche, cioè a dire di divino si fa umano,  Armida  finisce  donna
che obblia Idraotte e l'inferno e la sua  missione,  e  pone  la  sua  magia  a'
servigi del suo amore. Questo rende Armida assai più interessante di  Alcina,  e
le dà  un  nuovo  significato.  È  l'ultima  apparizione  magica  della  poesia,
apparizione  entro  la  quale  penetra  e  vince  l'uomo  e  la  natura.  È   il
soprannaturale domato e sciolto dalle leggi più forti della natura. È  la  donna
uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie,  che  si  rivela  co'
suoi istinti nella pienezza della vita terrena. Già  in  Angelica  apparisce  la
donna; ma la storia  di  Angelica  finisce  appunto  allora,  e  allora  appunto
comincia la storia di Armida. Angelica, terminando le sue avventure nella  prosa
idillica del suo matrimonio con un «povero fante», è salutata e accomiatata  dal
poeta con quel suo risolino ironico. Il concetto, ripigliato dal Tasso,  diviene
una interessante storia di donna,  a  cui  l'arte  magica  dà  il  teatro  e  lo
scenario. Così la maga Armida è l'ultima maga della poesia e la più interessante
nella chiarezza e verità della sua vita femminile. Vive anche  oggi  nel  popolo
più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perchè unisce  tutti  gli  splendori
della  magia  con  tutta  la  realtà  di  un  povero  core  di  donna.  La   sua
riabilitazione è in quell'ultimo motto tolto alla Madonna: - Ecco l'ancilla  tua
-; conclusione piena di senso: molto le è perdonato, perchè ha molto amato. Ed è
l'amore che uccide in lei la maga  e  la  fa  donna.  Trasformazione  assai  più
poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste: ond'è che Rinaldo nella
sua conversione t'interessa assai meno che Armida in questa sua trasfigurazione,
perchè quella conversione nasce da cause  esterne  e  soprannaturali,  e  questa
trasfigurazione è il logico effetto di movimenti interni e naturali.
        In Erminia e in Armida si compie la donna, non quale uscì dalla mente di
Dante e del Petrarca, di cui si trovano le orme in Sofronia e in  Clorinda,  non
il tipo divino, eroico e tragico della donna, ma un tipo più umano, idillico  ed
elegiaco. La forza di Erminia è  nella  sua  debolezza.  Senza  patria  e  senza
famiglia, sola sulla terra, vive perchè ama, e, perchè ama,  opera,  ma  le  sue
vere azioni sono discorsi  interiori,  visioni,  estasi,  illusioni,  lamenti  e
lacrime, tutto un mondo lirico, che si effonde con una dolcezza melanconica  tra
onde musicali. Erminia pastorella è la madre di tutte le Filli  e  Amarilli  che
vennero poi,  lontanissime  dal  modello.  Nè  tra  le  creature  idilliche  del
Boccaccio, del Poliziano, del Molza,  del  Sannazzaro  c'è  nessuna  che  le  si
avvicini. In Armida si sviluppa tutto il romanzo di un amore  femminile  con  le
sue voluttà, con i suoi ardori sensuali, con le sue furie e le sue gelosie  e  i
suoi odii. Nessuno  aveva  ancora  colta  la  donna  con  un'analisi  così  fina
nell'ardenza e nella fragilità de' suoi propositi, nelle sue contraddizioni.  La
lingua dice: - Odio -, e il cuore risponde: - Amo; - la mano saetta, e il  cuore
maledice la mano:

        e mentre ella saetta, Amor lei piaga.

Si dirà che tutto questo non è eroico, e non tragico; e appunto per questo  elle
sono creature viventi, figlie non dell'intelletto,  ma  di  tutta  l'anima,  con
l'impronta sulla fisonomia del poeta e del secolo.
        Il mondo idillico, figlio della  mente  d'Armida,  è  il  palazzo  e  il
giardino incantato, cioè la bella natura campestre resa  artistica,  trasformata
dall'arte in istrumento di voluttà, sì che pare che  «imiti  l'imitatrice  sua».
Nell'Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze,  ne'  giardini
ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre o  idillica,  e  il  suo
ideale umano è la vita pastorale: l'età dell'oro attinge  anche  di  là  le  sue
immagini. Il quadro abituale della poesia classica e italiana  è  il  verde  de'
campi, i fiori, gli alberi, il riso  della  primavera,  le  fresche  ombre,  gli
antri, le onde, gli uccelli, le placide aurette, quadro decorato  dall'arte  con
le sue statue e i suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi  al
secolo di Colombo e  di  Copernico,  e  ne  senti  l'impressione  nell'immensità
dell'oceano, dove il Tasso trova alcune belle  ispirazioni.  Ma  alla  fine  del
viaggio, toccando le isole Fortunate, soggiorno di Armida,  ricasca  nel  solito
quadro, e vi pone l'ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto tutto
ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l'immaginazione poetica da  Omero
all'Ariosto; ma è nell'ultima sua forma, raffinata  o  artificiosa.  Come  Dante
crea una natura oltremondana, il Tasso crea una natura oltrenaturale, una natura
incantata, il paradiso della voluttà. Non è la natura còlta nell'immediato della
sua esistenza, ma natura artefatta, lavorata e trasformata da un artista, che ha
fini e mezzi suoi, e l'artista è Armida, maestra di vezzi  e  di  artifici,  che
crea intorno a sè una natura meretricia e voluttuosa. Questa forma testamentaria
della natura classica è portata a un alto grado di perfezione da un poeta che  a
un  sentimento  musicale  sviluppatissimo  aggiungeva  tutte  le  finezze  dello
spirito.
         Abbiamo  anche  una  selva  incantata,  cioè  una  selva  artefatta,  e
accomodata ad uno scopo a lei estraneo. L'incanto ne'  romanzi  cavallereschi  è
così arbitrario come la natura, e non è altro che combinazione straordinaria  di
apparenze, che déstino curiosità e maraviglia. Qui, come è concepito dal  Tasso,
l'incanto è ragionevole,  e  perciò  intelligibile,  è  la  natura  rimaneggiata
dall'arte e indirizzata ad uno scopo. Come il giardino e il  palazzo  incantato,
così la selva incantata è opera di artista che l'atteggia a suo modo e secondo i
suoi fini. Il concetto non è nuovo: è la nota selva delle  false  apparenze,  la
selva degli errori e delle passioni; ma  l'esecuzione  è  originalissima,  e  ti
offre il microcosmo del Tasso,  il  suo  mondo  elegiaco-idillico  condensato  e
accentuato. Ci è lì fuso insieme Erminia e Armida,  Tancredi  e  Rinaldo,  tutta
l'anima poetica del Tasso, ciò che di più tenero ha l'elegia e ciò  che  di  più
molle ha l'idillio, ne' loro accenti più musicali.
        Questo è il  vero  mondo  poetico  della  Gerusalemme,  un  mondo
musicale, figlio del sentimento, che dalla più intima malinconia  va  digradando
fino al più molle e voluttuoso di una natura  meridionale.  Ingegno  napolitano,
manca al Tasso la grazia e la  vivezza  toscana,  e  la  decisione  e  chiarezza
lombarda così ammirabile nell'Ariosto, ma gli abbonda quel senso della musica  e
del canto, quel dolce fantasticare dell'anima tra le molli onde di  una  melodia
malinconica insieme e  voluttuosa,  che  trovi  nelle  popolazioni  meridionali,
sensibili e contemplative.
        Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei «concetti».  Come  il
Petrarca, così il Tasso è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio che ad
abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è piena di reminiscenze,
e non coglie il mondo nel suo immediato, ma a traverso i libri. Lavora sopra  il
lavoro, raffina, aguzza immagini e concetti: la qual forma nella sua esteriorità
meccanica egli la chiama il «parlare disgiunto», ed è  un  «lavoro  di  tarsie»,
come diceva il Galilei. Cercando l'effetto non nell'insieme, ma nelle  parti,  e
facendo di ogni membretto un mondo a sè, raffinato e accentuato, le giunture  si
scompongono, l'organismo del periodo si scioglie, e vien  fuori  una  specie  di
parallelismo, concetti e immagini a due a due, posti di fronte in guisa  che  si
dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo parallelismo è l'antitesi, presa  in
un senso molto largo, cioè una certa armonia  che  nasce  da  oggetti  simili  o
dissimili posti dirimpetto, come:

        Molto egli oprò col senno e colla mano,
        molto soffrì nel glorioso acquisto:
        e invan l'inferno a lui s'oppose, e invano
        si armò d'Asia e di Libia il popol misto.

Quel «molto» e quell'«invano» sono il ritornello di una cantilena chiusa  in  se
stessa  ed  esaurita  nell'espressione  di  un   rapporto   tra   due   oggetti.
Naturalmente, cercando l'effetto in quel rapporto, l'intelletto vi prende  parte
più che non si convenga a poeta, e riesce nel raffinato e nel concettoso, come:

        Oh di par con la man luci spietate!
        Essa le piaghe fe', voi le mirate.

Questo parallelismo, fondato  sopra  ritornelli  di  parole,  ravvicinamenti  di
oggetti, e straordinarietà di rapporti, non è un accidente  è  il  carattere  di
questa forma con gradazioni più o meno spiccate. E non attinge solo i  pensieri,
ma anche le immagini, come:

        ... ... e par che porte
        lo spavento negli occhi e in man la morte.

L'immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre a' fianchi un  pedagogo,  che
analizza e distingue con logica precisione, come:

        Sparsa è d'armi la terra, e l'armi sparte
        di sangue, e il sangue col sudor si mesce.

Cerca troppo il poeta  lo  stacco  e  il  rilievo,  dare  un  significato  anche
all'insignificante, e cerca il significato ne' rapporti intellettuali anche  tra
la maggiore evidenza della  rappresentazione  e  la  concitazione  più  violenta
dell'affetto, come:

        O sasso amato ed onorato tanto,
        che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto!

Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna Tancredi e  infuria  Armida,
la quale anche nella disperazione del suicidio fa un discorsetto alle  sue  armi
assai ingegnoso, e finisce:

        sani piaga di stral piaga d'amore,
        e sia la morte medicina al core.

È ciò che fu detto «orpello del Tasso» o maniera, propria de' poeti  subiettivi,
una forma artificiosa di rappresentazione, dove l'interessante non è la cosa, ma
il modo di guardarla. In questo caso la forma non è la cosa, ma lo spirito,  con
le sue attitudini facilmente classificabili  ne'  loro  caratteri  esteriori,  e
divenute maniera o abitudine nella rappresentazione, com'è il petrarchismo o  il
marinismo. Essendo il proprio di questa maniera una cantilena  breve  e  chiusa,
che ha il suo valore non solo nel rimanente della clausola, ma in se stessa,  vi
si sviluppa l'elemento cantabile e musicale, una  enfasi  sonora,  un  suono  di
tromba perpetuo e monotono,  con  certe  pause,  con  certi  trilli,  con  certe
ripigliate, con un certo sopratuono come di chi  gridi  e  non  parli,  che  non
comporta la semplice recitazione, come si può  in  molti  passi  di  Dante,  del
Petrarca e dell'Ariosto, ma ti costringe alla declamazione.  Ci  è  un  «arma
virumque cano» dal principio all'ultimo, un accento sollevato e  teso,  come
di chi si trovi in uno stato cronico di  esaltazione.  Indi,  scelta  di  parole
sonanti,  riempiture  di  epiteti  e  di  avverbi,  nobiltà   convenzionale   di
espressione, povertà di parole, di frasi, di costruzioni e  di  gradazioni.  Con
questa forma declamatoria si accompagna naturalmente la rettorica,  che  è  quel
tenersi su' generali, e ravvivare luoghi comuni o concettosi con un calore tutto
d'immaginazione,  tra  uno  scoppiettio  di  apostrofi,  epifonemi,   ipotiposi,
interrogazioni ed esclamazioni: il che gli  avviene  massime  quando  mira  alla
forza di concitate passioni, come sono i lamenti  di  Tancredi  e  i  furori  di
Armida. Questa è la «maniera» del Tasso, per entro alla quale penetra il potente
soffio d'un sentimento vero, che spesso gli strappa accenti nella  loro  energia
pieni di semplicità. Nelle ultime parole di Clorinda ci è  un  sì  e  un  no  in
battaglia, «al corpo no, all'anima sì»; ma, salvo questo, che affetto  e  quanta
semplicità in quell'affetto ! Togliete quel fiato al Petrarca e al  Tasso,  cosa
rimane? La maniera, il petrarchismo e il marinismo, il cadavere de' due poeti.
        La Gerusalemme non è un  mondo  esteriore,  sviluppato  ne'  suoi
elementi organici e tradizionali, come è il mondo di Dante o dell'Ariosto. Sotto
le pretensiose apparenze di poema eroico è  un  mondo  interiore,  o  lirico,  o
subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico,  eco  de'  languori,
delle estasi e de' lamenti di un'anima  nobile,  contemplativa  e  musicale.  Il
mondo esteriore ci era allora, ed  era  il  mondo  della  natura,  il  mondo  di
Copernico e di Colombo, la scienza  e  la  realtà.  Anche  il  Tasso  ne  ha  un
bagliore, e visibili sono qui le sue intenzioni storiche, reali e  scientifiche,
rimaste come presentimenti di un mondo letterario futuro. L'Italia non era degna
di avere un mondo esteriore, e non l'aveva. Perduto  il  suo  posto  nel  mondo,
mancato ogni scopo nazionale della sua attività, e  costretta  alla  ripetizione
prosaica di una vita, di cui non aveva più l'intelligenza e la coscienza, la sua
letteratura diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla  vita,  un
gioco dello spirito senza serietà, perciò  essenzialmente  frivolo  e  rettorico
anche sotto le apparenze più eroiche e più serie. Di  questa  tragedia  Torquato
Tasso è il martire inconscio, il poeta appunto di questa transizione; mezzo  tra
reminiscenze  e  presentimenti,  fra  mondo  cavalleresco   e   mondo   storico;
romanzesco, fantastico, tra le regole della sua poetica, la severità  della  sua
logica, le sue intenzioni realiste e i suoi modelli classici; agitantesi  in  un
mondo contraddittorio senza trovare  un  centro  armonico  e  conciliante;  così
scisso e inquieto e pieno di pentimenti nel suo mondo poetico, come  nella  vita
pratica. Miserabile trastullo del suo cuore e della sua immaginazione, fu là  il
suo martirio e la sua gloria.  Cercando  un  mondo  esteriore  ed  epico  in  un
repertorio già esaurito, vi gittò dentro se stesso,  la  sua  idealità,  la  sua
sincerità, il suo  spirito  malinconico  e  cavalleresco,  e  là  trovò  la  sua
immortalità. Ivi si sente la tragedia  di  questa  decadenza  italiana.  Ivi  la
poesia prima di morire cantava  il  suo  lamento  funebre,  e  creava  Tancredi,
presentimento di una nuova poesia, quando l'Italia sarà degna di averla.

XVIII MARINO

Questo mondo lirico, che nella Gerusalemme si trova mescolato  con  altri
elementi,  apparisce  in   tutta   la   sua   purezza   idillica   ed   elegiaca
nell'Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero mondo del  suo  spirito  e  lo
conduce a grande perfezione.
        L'Aminta non è un dramma pastorale e  neppure  un  dramma.  Sotto
nomi pastorali e  sotto  forma  drammatica  è  un  poemetto  lirico,  narrazione
drammatizzata, anzi che  vera  rappresentazione,  com'erano  le  tragedie  e  le
commedie e i così detti drammi pastorali in Italia.  Citerò  la  Virginia
dell'Accolti, resa celebre dall'imitazione di Shakespeare. Essa è in  fondo  una
novella  allargata  a  commedia,  di  quel  carattere  romanzesco  che  dominava
nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la
cui volgarità fa contrasto con la  natura  cavalleresca  de'  due  protagonisti,
Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con
magica rapidità, appena abbozzati, e quasi  semplice  occasione  a  monologhi  e
capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione. Di
tal genere erano anche le egloghe o commedie pastorali, iniziate fin  da'  tempi
del Boiardo nella corte di Ferrara, e  giunte  allora  a  una  certa  perfezione
d'intreccio e di meccanismo nel Sacrificio del  Beccari,  nell'Aretusa
del Lollio e nello Sfortunato dell'Argenti. Queste ecloghe, che dalla
semplicità omerica e virgiliana erano state condotte fino ad  un  serio  viluppo
drammatico, furono dette  senza  più  «favole  boscherecce».  E  anche  commedie
pastorali.
        L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o  da
partecipi con le impressioni e le passioni  in  loro  suscitate.  L'interesse  è
tutto nella narrazione sviluppata liricamente  e  intramessa  di  cori,  il  cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: «s'ei piace, ei  lice».
Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e  di
avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci,  soliloqui,  comparazioni,  sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza  musicale,  piena  di  grazia  e
delicatezza,  che  rende  voluttuosa  anche  la  lacrima.  Semplicità  molta   è
nell'ordito, e anche nello stile, che  senza  perder  di  eleganza  guadagna  di
naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è  artificio  finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza  pastorale
a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È  un  mondo  raffinato,  e  la  stessa
semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di  perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.
        Tentò il Tasso anche la tragedia classica, e ad imitazione  di  Edipo
re scrisse il suo Torrismondo. Ma l'Italia non avea più la  forza  di
produrre nè l'eroico, nè il tragico, e lì non ci è di vivo se non quello solo di
vivo che era nel poeta e nel tempo, l'elemento elegiaco,  massime  ne'  cori.  I
contemporanei credettero di avere il poema eroico  nella  Gerusalemme,  e
non molto soddisfatti del  Torrismondo  aspettavano  ancora  la  tragedia
classica.
        Delle sue rime sopravvive qualche sonetto e qualche  canzone,  effusione
di anima tenera e idillica. Invano vi cerco i vestigi di qualche seria passione.
Repertorio vecchio di concetti e di forme con  i  soliti  raffinamenti.  Dipinge
bella donna così:

        Chè del latte la strada
        ha nel candido seno,
        e l'oro delle stelle ha nel bel crine,
        ne' lumi ha la rugiada.

Il suo dolore esprime a questo modo:

        Fonti profonde son d'amare vene
        quelle ond'io porto sparso il seno e 'l volto;
        è 'nfinito il dolor, che dentro accolto
        si sparge in caldo pianto e si mantene:
        nè scema una giammai di tante pene,
        perch'il mio core in dolorose stille
        le versi a mille a mille.

I sentimenti umani sono petrificati nell'astrazione di  mille  personificazioni,
come l'amore, la pietà, la fama, il tempo, la gelosia, e nel  gelo  di  dottrine
platoniche e di forme petrarchesche.
        Quel che sieno le sue prose, si  può  immaginare.  Dottissime,  irte  di
esempi e di citazioni, in istil grave, in andamento sostenuto, ma non inceppato,
sfolgoranti di nobili sentimenti. Quando esprime direttamente  i  moti  del  suo
animo, mostra un affetto rilevato da una  forma  cavalleresca  e  di  gentiluomo
anche nell'abiezione della sua  sorte,  com'è  in  alcune  sue  lettere.  Quando
specula, come ne' Dialoghi,  senti  ch'è  fuori  della  vita,  e  sta  in
quistioni astratte, o formali. Ci è un libro che volontariamente ha chiuso, ed è
il  libro  della  libera  investigazione.  Nella  sua  giovinezza  l'autore  del
Rinaldo, dedito a furtivi e disordinati amori, era  anche  infetto  dalla
peste filosofica. La gran quistione era qual  fosse  superiore,  la  fede  o  la
religione, la volontà o l'intelletto. I filosofi moderni rivendicano, egli dice,
la sovranità dell'intelletto, e sostengono che l'uomo non può credere  a  quello
che ripugna all'intelletto. Tratto dalla corrente, il giovine  Tasso  non  crede
all'incarnazione, nè all'immortalità dell'anima, e di quei  suoi  costumi  e  di
queste opinioni i suoi avversari gli fecero carico presso la  corte,  quand'egli
era già pentito e confesso e animato da zelo religioso. La sua religione è messa
d'accordo con la sua filosofia su questo bel ragionamento, che l'intelletto  non
può spiegare tante cose che pure esistono, e che perciò esistono anche le verità
della fede, ancorchè l'intelletto non sia giunto a  spiegarle.  Indi  è  che  ti
riesce più erudito e dotto che  filosofo,  e  rimane  segregato  da  tutto  quel
movimento intellettuale intorno alla natura e all'uomo che allora ferveva  anche
in Italia, abbandonandosi al suo naturale  discorso  timidamente,  e  non  senza
aggiungere che se cosa gli vien detta non pia  e  non  cattolica,  sia  per  non
detta. Odia a morte i luterani, ha in sospetto i filosofi «moderni», e cerca  un
rifugio  negli  antichi,  massime  in  Platone,  più  affine  alla  sua   natura
contemplativa e religiosa. De' suoi dubbi, delle sue  ansietà,  della  sua  vita
intellettuale interiore non è rimasto un  pensiero,  non  un  grido.  Ci  è  qui
l'anima  di  Pascal  o  di  sant'Agostino,  cristallizzata  in   quell'atmosfera
inquisitoriale nelle forme classiche e negli studi platonici. Uno de'  suoi  più
interessanti dialoghi è quello  che  prende  il  nome  del  Minturno,  scrittore
napolitano, che  fra  l'altro  die'  fuori  una  Poetica.  Ivi  il  poeta
investiga la natura del  bello,  confutando  tutte  le  definizioni  volgari,  e
conchiude che il bello è la  natura  angelica,  ovvero  l'anima  «in  quanto  si
purga», che è appunto il concetto della sua  Gerusalemme.  Evidentemente,
confonde il bello col vero e colla perfezione morale, intravede l'ideale, e  non
lo coglie, e si discosta dalla poesia quanto più si  accosta  a  quel  concetto,
come nella Conquistata  e  nelle  Sette  giornate.  Il  dialogo  è
platonico nel  concetto  e  nell'andamento,  ma  vi  desideri  la  grazia  e  la
freschezza di quel divino.
        Il secolo comincia con l'Arcadia del Sannazzaro,  e  finisce  con
l'Arcadia del Guarini, detta il Pastor fido. L'idillio, attraversato  nel
suo cammino dalla moda cavalleresca, ripiglia forza e resta padrone  del  campo,
sviluppandosi a forma drammatica.
        L'idillico e il comico erano generi viventi insieme  col  romanzesco,  e
rappresentavano quella parte di vita poetica rimasta all'Italia.  Il  tragico  e
l'eroico erano pura imitazione. Perciò il comico e l'idillico si sprigionano  in
parte dalle forme classiche e prendono un aspetto più franco.
        Il comico sviluppato  in  una  moltitudine  di  novelle  e  di  commedie
lasciava quel fondo convenzionale di Plauto e Terenzio,  e  produceva  caratteri
freschi e vivi, e per piacere si accostava alle  forme  della  vita  popolare  e
anche a  quel  linguaggio,  ora  mescolando  con  l'italiano  il  dialetto,  ora
scrivendo tutto in dialetto.  Le  farse  napolitane  accennavano  già  a  questo
genere.  Ne  scrisse  anche  di  simili  Beolco,  o  il   Ruzzante,   detto   il
«famosissimo». Gli attori cominciarono  a  contentarsi  del  canavaccio,  o  del
semplice ordito, come si fa ne' balli teatrali, e improvvisavano il  linguaggio,
a quel modo che  facevano  gli  antichi  novellieri.  Compagnie  di  rapsodi,  o
improvvisatori, si sparsero in Italia, e anche più tardi a Parigi  e  a  Londra,
traendosi appresso un repertorio, dove attinsero molti  soggetti  e  pensieri  e
situazioni drammatiche Shakespeare e  Molière.  Come  ci  era  un  fondo  comune
d'invenzione, così ci erano caratteri fissi e determinati,  che  comparivano  in
maschera,  e  alcuni  anche  senza,  come  Pantalone,   Brighella,   Arlecchino,
Pulcinella, il Dottore bolognese, il capitan Spavento, o il capitano  Matamoros,
il servo sciocco, come Trappola, e simili. Rappresentazioni, che ricordavano  le
atellane dell'antica Roma, e si chiamavano «commedie a soggetto»,  dove  non  ci
era altro di espresso che il soggetto. Gli attori erano anche autori,  e  spesso
rappresentavano prima una commedia «erudita», e poi per far piacere al  pubblico
improvvisavano  una  commedia  a  soggetto,  o  «dell'arte».  Intrighi  amorosi,
combinazioni straordinarie della vita e certe parti episodiche convenute,  certi
caratteri tradizionali, come lo sciocco, il buffo, il discolo,  il  pedante,  la
mezzana, l'usuraio, sono il fondo di questi repertorii  popolari,  a'  quali  si
avvicinano molto le commedie dell'Aretino. Ivi si trovano i secreti della vita e
del carattere italiano, assai più che in  tutte  le  imitazioni  classiche.  Una
storia della commedia e della novella in tutte le sue forme  sarebbe  un  lavoro
assai istruttivo, e se ne caverebbero elementi  preziosi  per  la  storia  della
società italiana. Un ricco repertorio di soggetti  sceneggiati  ci  ha  lasciato
nelle sue Cinquanta giornate Flaminio Scala, autore e attore così  famoso
come il «famosissimo» Ruzzante,  e  Andrea  Calmo,  «stupore  e  miracolo  delle
scene». Flaminio rappresentava la parte dell'innamorato, e fu il capo di  quella
compagnia comica che aprì il primo teatro italiano  a  Parigi  nel  1577,  sotto
Enrico terzo. Celebre attrice fu sua moglie Orsola, e più celebre fu Isabella di
Padova, sposata a Francesco Andreini, che rappresentava  la  parte  del  capitan
Spavento. Isabella, celebrata dal Tasso,  dal  Castelvetro,  dal  Campeggi,  dal
Chiabrera, morì a Lione, e nella scritta posta al suo sepolcro è detta «Musis
amica et artis scaenicae caput». Pari a lei di fama e di genio e di virtù fu
Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e  attrice,  che  ne'  drammi  pastorali
rappresentava la parte di Clori. La  parte  del  Dottore  fu  resa  celebre  dal
Graziano, e Arlecchino ebbe il suo grande interprete  in  Giovanni  Ganassa,  da
Bergamo, che nel 1570  introdusse  nella  Spagna  la  commedia  dell'arte,  come
Flaminio aveva fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato,  di
Ferrara,  celebrato  dal  Tasso  e  dal  Guarini,  che  intitolò  dal  suo  nome
un'apologia del suo dramma. La commedia dell'arte non era altro se non la stessa
commedia erudita  tolta  di  mano  agli  accademici  e  rinfrescata  nella  vita
popolare, maneggiata da scrittori meno dotti, ma più pratici del  teatro  e  più
intelligenti del gusto pubblico: perciò più svelta e vivace nel suo andamento, e
rallegrata da quello spirito che viene dall'improvviso e dall'uso del  dialetto,
non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria, ne' lazzi sconci
degli Arlecchini. Di essa non sono rimasti che gli scheletri: tutto ciò  che  vi
aggiungeva  l'immaginazione  improvvisatrice  vive  solo  nell'ammirazione   de'
contemporanei.
        Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava il sentimento  idillico,
con tanto più forza quanto la società era più artificiata e raffinata. L'idillio
si presentava come contrasto tra l'onore e l'amore, tra la città e la villa, tra
le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è l'amore o la natura che
vince. La felicità, posta nell'età dell'oro, cioè a dire fuori  de'  travagli  e
delle agitazioni della vita reale, nel riposo o tranquillità dell'anima; la vita
rustica con quelle bellezze della natura, con quella vita di godimenti semplici,
con quella spontaneità e ingenuità di sentimenti, era quel naturale contrapposto
di un mondo convenzionale, che  senti  nell'Aminta  e  nel  «pastore»  di
Erminia. L'ideale poetico posto  fuori  della  società  in  un  mondo  pastorale
rivelava una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità. La poesia  incalzata
da tanta prosa si rifuggiva, come in un ultimo asilo, ne' campi, e là gli uomini
di qualche valore attingevano le loro ispirazioni, di là uscirono  i  versi  del
Poliziano, del Pontano e del Tasso. Come la commedia a soggetto era  il  pascolo
della plebe, il dramma pastorale era il grato trattenimento delle corti, che  ci
trovavano un linguaggio più castigato e  predicatore  di  virtù  fuori  di  ogni
applicazione alla vita pratica. Perciò, come  la  commedia  divenne  sempre  più
licenziosa e plebea, il dramma pastorale prese aria  cortigiana,  e  quel  mondo
semplice della natura si manifestò  con  una  raffinatezza  degna  delle  nobili
principesse  spettatrici.  Questo  carattere  già  visibile   nell'Aminta
diviene spiccatissimo nel Pastor fido. Giambattista Guarini fu  poeta  di
occasione e cortigiano di natura, dove il Tasso fu tutto  l'opposto:  cortigiano
per bisogno e per istinto poeta. Il Guarini era nobile e ricco, e non lo strinse
alla vita di corte che la sua natura irrequieta  e  ambiziosa.  Passò  il  tempo
errando di corte in corte, e dopo i disinganni correva dietro a  nuovi  inganni.
Aveva molto ingegno, non comune  coltura,  assai  pratica  della  vita  e  degli
uomini, mente chiarissima, grande attività. Compagno negli  studi  col  Tasso  a
Padova, fu a Ferrara suo emulo, e quando il Tasso capitò in prigione,  prese  il
suo posto e fu battezzato poeta di corte. Disgustato a sua volta degli  Estensi,
si ritirò in una sua bellissima villa, e vi concepì e vi  scrisse  il  Pastor
fido, acclamato da tutta Italia. Anche lui ebbe le sue intenzioni  critiche.
Volle fare una tragicommedia, mescolanza di elementi  tragici  e  comici  in  un
ordito largo e ricco, dove fossero innestate più azioni. Questo parve eresia  a'
critici, tenaci al «simplex et unum», e che non concepivano l'arte se non
come un ideale  tragico  o  comico.  Si  ravvivarono  adunque  quelle  polemiche
letterarie, che dal Castelvetro e dal  Caro  in  qua  mettevano  in  moto  tante
accademie. Il Guarini  si  difese  assai  bene  nell'Apologia,  e  mostrò
coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo  non  fu  senza
influenza sulla sua critica, ma, come tutto  si  diffiniva  con  l'autorità  de'
classici, difese quell'innesto di azioni e quella mescolanza  di  caratteri  con
Aristotile alla mano e con l'Andria di Terenzio. Oggi gli si fa gloria di
quello che allora si reputava peccato. Si  dice  ch'egli  abbia  intraveduto  il
dramma moderno, e non solo lo intravide, ma lo concepì  con  l'esattezza  di  un
critico odierno. La poesia dee rappresentare la vita  così  com'è,  con  le  sue
mescolanze e i suoi sviluppi: questo è il concetto ch'esce chiaramente  dal  suo
discorso. Ma quello che in Shakespeare e  in  Calderon  è  sentimento  dell'arte
sviluppato naturalmente in una vita nazionale, ricca e piena, in lui  è  visione
intellettuale e solitaria, è concetto di critico,  non  sentimento  di  artista;
concepiva il dramma quando del dramma mancavano tutte le condizioni  in  Italia,
principalmente  una  vita  seria  e  sostanziale.  La  sua  critica   fa   onore
all'intelletto italiano, allora nel fiore del suo sviluppo, e rivela insieme  la
decadenza della facoltà poetica.
        Il Pastor fido, come meccanismo ed esecuzione tecnica, è ciò  che
di più perfetto offriva  la  poesia.  Due  azioni  entranti  naturalmente  l'una
nell'altra e magnificamente innestate, caratteri ben trovati e ben  disegnati  e
perfettamente fusi nella loro mescolanza, una superficie levigata  con  l'ultima
eleganza, una versificazione facile, chiara e musicale fanno di questo poemetto,
per ciò che si attiene a costruttura e ad abilità tecnica,  un  gioiello.  Tutto
ciò che chiarezza d'intelletto e industria di stile e di verso può dare,  è  qui
dentro. Il concetto, come nell'Aminta, è il trionfo della natura, con  la
quale il destino, in lotta apparente,  si  riconcilia  da  ultimo,  mediante  le
solite agnizioni. Il  poema  è  un'apoteosi  della  vita  pastorale  e  dell'età
dell'oro, contrapposta alla corruzione e alle agitazioni della città, e invocata
spesso da' personaggi con senso d'invidia nella  stretta  delle  loro  passioni.
Abbondano invocazioni, preghiere, sentenze morali e religiose;  ma  il  fondo  è
sostanzialmente pagano e profano, è il  naturalismo,  la  natura  scomunicata  e
condannata come peccato, che qui, dopo lunga lotta, si scopre non  essere  altro
che la stessa legge del destino. La conclusione è: «Omnia  vincit  amor»,
riconciliato col destino e divenuto virtù, con tanto più sapore, con quanto  più
dolore:

        Quello è vero gioire,
        che nasce da virtù dopo il soffrire.

Ma la virtù è  nome,  e  la  cosa  è  il  godimento  amoroso  sotto  forme  così
voluttuose, che il Bellarmino ebbe a dire aver fatto più male con quel suo libro
il Guarini che non i luterani. Dal concetto nasce tutto l'intrigo. Corisca e  il
satiro sono l'elemento comico e plebeo: l'una è la donna corrotta  della  città,
tornata a' campi e divenuta il mal genio di questa favola, l'altro è l'ignoranza
e la grossolanità della vita naturale ne' suoi cattivi istinti, e  tutti  e  due
sono la macchina poetica, l'istrumento che annoda gli avvenimenti e  produce  la
catastrofe. I  protagonisti  sono  Mirtillo  e  Amarilli,  che  si  amano  senza
speranza, essendo  Amarilli  fidanzata  a  Silvio,  il  quale,  come  la  Silvia
dell'Aminta, è dedito alla caccia, ed ha il core chiuso all'amore, invano
amato da Dorinda, invano fidanzato ad Amarilli. Mirtillo ed Amarilli per inganno
di Corisca e per la bestialità del satiro sono dannati a  morte,  mentre  Silvio
per errore ferisce Dorinda, travestita e scambiata per lupo. All'ultimo,  Silvio
s'intenerisce e sposa Dorinda, e Mirtillo, scopertosi esser egli il vero Silvio,
figlio di Montano, che dovea essere fidanzato ad Amarilli,  la  sposa.  Così  la
natura, posta d'accordo co' responsi dell'oracolo trionfa; e tutti contenti,  la
natura e il destino, gli dei e gli uomini. Certo, qui ci sono tutti gli elementi
di un dramma, e «dramma» lo chiamano i critici per l'innesto delle  azioni,  per
la mescolanza de' caratteri, e per la parte data al destino secondo la  tragedia
greca: cose non lodevoli e non biasimevoli, che possono essere e non  essere  in
un dramma. Il valore di una poesia bisogna cercarlo  non  in  queste  condizioni
esterne del suo contenuto, ma nella sua forma, cioè nella sua  vita  intima.  Il
Pastor fido è così poco un  dramma,  come  l'Aminta,  ancorchè  ne
abbia maggiore apparenza nel suo meccanismo. Ma la sua vita  organica  è  quella
medesima dell'Aminta, suo specchio e sua reminiscenza, e tutti e due sono
poemi lirici, narrazioni, descrizioni, canti, non rapprese ella scena, e non  te
ne giunge sul teatro che l'eco lirica. Vedi sfilare i personaggi l'uno  appresso
l'altro, e non è ragione che venga l'uno prima, e l'altro poi, e  ci  narrano  i
loro guai: parlano, non operano.  Indi  monologhi  e  narrazioni  interminabili.
Hanno operato o vogliono operare, e ci raccontano quello che hanno fatto  o  son
disposti a fare, aggiungendovi le loro riflessioni  e  impressioni.  L'azione  è
un'occasione all'effusione lirica. Abbondano i cori, ma ciascun  personaggio  fa
esso medesimo ufficio di coro, perchè non opera, ma discorre, riflette,  effonde
i suoi dolori e le sue gioie. Non manca al Guarini un ingegno drammatico,  e  lo
mostra nella scena tra il satiro e Corisca, o  tra  Silvio  e  Dorinda,  o  dove
Dorinda ferita s'incontra con Silvio. Ciò che gli manca è la serietà di un mondo
drammatico, non essendo questo suo mondo che un prodotto artificiale e meccanico
di combinazioni intellettuali. Manca a lui e manca all'Italia un mondo  epico  e
drammatico, e perciò non ci  è  epica,  e  non  ci  è  dramma.  Quel  suo  mondo
dell'Arcadia era per lui cosa così poco seria, come il  mondo  cavalleresco  era
all'Ariosto, salvo che l'Ariosto se ne ride, e lui lo prende sul serio,  a  quel
modo che il Tasso. Cosa n'esce? Sotto  pretensioni  drammatiche  esce  un  mondo
lirico, come di sotto alle pretensioni eroiche del Tasso usciva un poema lirico.
Il secolo era vuoto di passione e  di  azione,  e  vuoto  di  coscienza,  nè  il
Concilio trentino potè dargliene altro che l'apparenza ipocrita.  «Questo  è  un
secolo di apparenza, - scrive il Guarini, - e si va in maschera  tutto  l'anno».
Ma egli pure andava in maschera, e fu col secolo, non fuori e non sopra di esso.
Rimaneva l'idolatria della letteratura, considerata come un bel  discorso  nella
eleganza delle sue forme, condimento di una vita molle tra le feste e le pompe e
gli ozi idillici delle corti. E questa è la vita  che  ti  dà  il  Guarini,  bei
discorsi lirici e musicali, per entro ai quali spira un'aria molle e voluttuosa.
Questa è la vita intima del Pastor fido, come  dell'Aminta,  e  se
vogliamo gustarlo, lasciamo lì il dramma co' suoi innesti, le sue  mescolanze  e
il suo destino, e mettiamoci a questo punto di vista.
         Manca  al  Guarini  l'ispirazione,  la  malinconia,  la  concentrazione
fantastica, il profondo sentimento del Tasso, e come poeta gli è di  gran  lunga
inferiore. Parla sempre di  amore,  ma  non  lo  sente.  E  non  sente  la  vita
pastorale, quella inclinazione alla solitudine e alla  pace  idillica,  lui  che
ambizione e cupidigia tenea distratto tra le  più  prosaiche  occupazioni  della
vita. La virtù, la religione, il destino, tutto  ciò  che  la  vita  ha  di  più
elevato, è nella sua mente, non è  nella  sua  coscienza.  O,  per  dir  meglio,
coscienza non ha: quel focolare interno, dove convivono e si raffinano tutte  le
potenze dell'anima, condizionandosi a vicenda; dove si genera  il  filosofo,  il
poeta, l'uomo di Stato, il gran cittadino, centro di vita, da cui solo  esce  la
vita. E perchè questo centro di vita gli manca, il Guarini  ha  immaginazione  e
non ha fantasia, ha spirito e non ha sentimento, ha orecchio musicale e  non  ha
l'armonia che nell'anima si sente. Lo diresti un gran poeta in  potenza,  a  cui
sia fallita la formazione per la distrazione delle forze interiori.  Perciò  non
ha la produzione geniale del poeta, ma la mirabile  costruzione  di  un  artista
consumato: della quale si può dire quello che il coro dice della chioma finta di
Corisca, che gli è un «cadavere d'oro». Splende e non scalda, lusinga l'orecchio
e i sensi, e non lascia alcun vestigio nell'anima: tutti quei personaggi vestiti
di oro e di porpora sono morti con esso Mirtillo e Amarilli. Ma quali splendori!
qual maraviglia di costruzione! Fra tanti costruttori il primo  posto  tocca  al
Guarini, a cui stanno prossimi il Caro e il Monti. La sua ricca immaginazione si
spande al di fuori come iride nella pompa de' suoi più smaglianti colori; il suo
spirito chiaro e acuto profonde con brio e facilità i  concetti  più  ingegnosi,
più delicati e più fini; il suo verso ti sembra nato insieme con que'  colori  e
con que' concetti: così è duttile, molle, vezzoso ed elegante. Se ci è lì dentro
un sentimento, è una sensualità raffinata, la poesia della libidine. È lo stesso
mondo del Tasso con le stesse qualità, esagerate dall'emulo,  che  pretendea  di
far meglio: un mondo plasmato nelle corti e ritratto della coltura. Quel  mondo,
che nel Tasso apparisce malinconico  e  contraddittorio  tra  gli  strazi  e  le
confuse aspirazioni  della  transizione,  eccolo  qui  sfacciato  e  a  bandiera
spiegata. È il naturalismo del Boccaccio  nella  sua  ultima  forma,  purgato  e
castigato, involto in apparenze morali e religiose, un naturalismo  con  licenza
de' superiori, o «in maschera», come direbbe il Guarini. Non basta  la  licenza;
il nudo disgusta e non alletta;  la  sensualità  intorpidita  ha  bisogno  degli
stimoli dell'immaginazione e dello spirito. Il cavallo di battaglia per i  poeti
platonici erano gli occhi: qui è il bacio.  Già  il  Tasso  avea  fatto  qualche
allusione al gioco del bacio. Il Guarini ne fa una pittura voluttuosissima, e il
bacio preso per furto diviene il luogo comune dell'Arcadia. Quanti  raffinamenti
sul bacio! Odasi il Guarini:

        ... quello è morto bacio a cui
        la baciata beltà bacio non rende.
        Ma i colpi di due labbra innamorate,
        quando a ferir si va bocca con bocca...
        son veri baci, ove con giuste voglie
        tanto si dona altrui, quanto si toglie.
        Baci pur bocca curiosa e scaltra
        o seno, o fronte, o mano: unqua non fia
        che parte alcuna in bella donna baci,
        che baciatrice sia,
        se non la bocca, ove l'un'alma e l'altra
        corre e si bacia anch'ella, e con vivaci
        spiriti pellegrini
        dà vita al bel tesoro
        de' bacianti rubini:
        sicchè parlan tra loro
        quegli animati e spiritosi baci
        gran cose in picciol suono...
        Tal gioia amando prova, anzi tal vita
        alma con alma unita:
        e son come d'amor baci baciati
        gl'incontri di due cori amanti amati.

Poesia splendida, dove lo spirito è così raffinato ne' suoi concetti,  com'è  la
sensuale immaginazione ne' suoi colori. Non è la vita in atto;  è  vita  lirica,
narrata,  descritta,  sentenziata.  Anche  Corisca  e  il  satiro  si  esprimono
sentenziando, anche il coro. Uno spirito sottile trova i più ingegnosi rapporti,
che l'immaginazione condensa in versi felicissimi. E poichè si tratta  di  baci,
ecco una sentenza di Amarilli:

        Bocca baciata a forza,
        se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.


        La soverchia facilità rompe ogni misura. Ciascuna situazione diviene  un
tema astratto, sul quale  l'immaginazione  intesse  i  più  preziosi  ricami.  I
discorsi, dialoghi o monologhi, sono vere canzoni, dove riccamente è  sviluppato
qualche sentimento, divenuto un'astrazione dello spirito. La canzone  spesso  si
sveste la maestà e solennità petrarchesca, e divenuta elegiaca e idillica  anche
nella sua esteriorità, ti si presenta innanzi  spezzata  in  sè,  intramessa  di
versetti e di rime, in brevi periodetti, tutta vezzi e languori e melodie, assai
vicina  al  madrigale  concettoso  e  galante,  dove  il  Guarini  era  maestro.
Bellissimo esempio sono le canzonette, che cantano le ninfe intorno ad  Amarilli
nel giuoco della «cieca».
         Il  secolo  si  chiude  sotto  le  più  belle  apparenze  di  progresso
letterario. La sua vita  interna  è  il  naturalismo  in  viva  opposizione  con
l'ascetismo. Vi si sviluppa l'idillico, il  comico,  il  romanzesco,  portandosi
appresso come parti morte il petrarchismo e il classicismo.  Questa  vita  nuova
s'inizia nel Boccaccio, ritratto sintetico del secolo, dove commedia, idillio  e
romanzo fanno la loro prima comparsa. L'idillio,  tranquillo  riposo  dell'anima
nel seno della natura,  ideale  di  felicità  contrapposto  all'inquieto  ideale
ascetico, attinge la sua perfezione estetica nelle Stanze, e fa sentire i
suoi susurri tra le fantasie ariostesche. L'idillio è il sentimento della natura
vivente  e  delle  belle  forme,  che  si  scioglie  dal  soprannaturale;  è  un
naturalismo, non è ancora umanismo,  e  accosta  l'arte  alla  natura,  e  nella
maggior finitezza del disegno, de' contorni e delle figure raggiunge  l'idealità
della bella forma, e produce i miracoli dell'arte e della  poesia  italiana.  Il
comico ha già nel  Boccaccio  il  suo  grande  poeta.  È  il  riso  della  nuova
generazione, che fa la parodia del passato ne' suoi diversi aspetti,  religioso,
etico, dottrinale, in novelle, capitoli e commedie: onde si sviluppa  una  ricca
letteratura, buffonesca, ironica, licenziosa, umoristica. E come il  comico  non
chiude in sè alcuna affermazione, anzi viene da indifferenza e  da  scetticismo,
ha tutt'i segni di una dissoluzione morale, di cui la più sfacciata  espressione
sono le commedie dell'Aretino,  e  riesce  in  ultimo  superficiale  e  frivolo.
L'immaginazione in quella insipidezza  della  vita  interiore,  in  quella  poca
serietà della vita esteriore si gitta al romanzesco, e  vi  si  trastulla  colla
coscienza superiore di un intelletto adulto, con  la  coscienza  che  gli  è  un
giuoco e un passatempo: situazione che attinge la  sua  bellezza  artistica  nel
mondo armonico dell'Ariosto, e si scioglie nell'umorismo del Folengo. E  quando,
giunta la licenza al suo ultimo segno ne' costumi e nello scrivere, vi si  volle
porre un rimedio e sopravvenne la reazione ascetica e platonica, quando si volle
imporre alla coscienza italiana un'affermazione, e alla letteratura  un  ideale,
risorse l'idillio, l'ideale del naturalismo, e fu la sola forza viva  fra  tanti
ideali religiosi, morali, platonici,  con  visibile  contrasto  tra  i  concetti
platonici e religiosi, e  la  sensualità  dell'idillio.  La  letteratura  prende
un'apparenza religiosa e morale, epica e tragica; e la pompa delle sentenze,  il
lusso de' colori, la grandiloquenza rettorica, la finezza de' concetti  rivelano
la poca serietà di quelle tendenze.  Sotto  a  quelle  apparenze  vive  ne'  più
seducenti colori un mondo  lirico  idillico;  il  naturalismo  condannato  nelle
parole è la vera vita organica, che vien fuori in una forma  di  apparenze  meno
licenziose, ma più raffinata e voluttuosa. Il sentimento di  questa  transizione
nelle sue contraddizioni e nella sua sincerità si riflette  nella  nobile  anima
del Tasso, e ne cava suoni malinconici, elegiaci, voluttuosi, musicali, che sono
l'ultimo raggio della poesia. Quel mondo idillico fra tanta  pompa  di  sentenze
morali e d'intenzioni platoniche si afferma nella sua nudità presso il  Guarini,
e diviene il motivo della nuova generazione  poetica.  Il  Seicento  non  è  una
premessa, è una conseguenza.
        La letteratura italiana era allora così popolare in Europa,  come  prima
fu la provenzale, e poi la francese.  In  verità,  quanto  alla  parte  tecnica,
giungeva allora  all'ultima  perfezione.  I  più  mediocri  scrivono  con  piena
osservanza delle regole grammaticali, con un nesso logico più severo, e  con  un
fare più spedito. Si vede una letteratura già formata,  quando  le  altre  erano
allora in uno stato di  formazione.  Critici,  retori,  grammatici,  professori,
accademici pullulavano dappertutto, fra una turba di poeti  e  di  prosatori  in
tutt'i generi. L'Italia del  Seicento  non  solo  non  ha  coscienza  della  sua
decadenza, ma si tiene ed è tenuta principe nella coltura letteraria. Nessuno le
contende il primato, e le altre nazioni cercano ne' suoi  novellieri,  ne'  suoi
epici, ne' suoi comici le loro invenzioni e le loro forme.
        Dicono che nel Seicento si sviluppò una rivoluzione  letteraria,  e  che
tutti cercavano novità. Il che prova appunto che la letteratura avea  già  presa
la sua forma fissa, e compiuto il suo circolo. Le novità non si cercano,  ma  si
offrono, quando la letteratura comincia a svilupparsi: allora  tutto  è  fresco,
tutto è nuovo. Cercavano novità, perchè si sentivano innanzi ad una  letteratura
esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme, divenuta tradizionale, meccanica,
e già materia comica  nella  Secchia  rapita  e  nello  Scherno  degli
dei, poemi comici comparsi al principio  del  secolo,  dove  sono  volte  in
ridicolo le forme mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto  e  negativo,  perchè
gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e nulla di positivo  è  nello
spirito de' due autori, il Tassoni e il Bracciolini.  Nel  loro  spirito  quelle
forme son morte, e perciò ridicole, ma invano cerchi quali altre forme vivessero
nel loro secolo e nella loro coscienza: ond'è che quel comico cade nel  vuoto  e
rimane insipido. Al  contrario  il  Don  Chisciotte  è  opera  di  eterna
freschezza, perchè ivi lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine di una
nuova società, che gli sta dirimpetto, e con la sua presenza lo rende comico. Il
Tassoni volge in ridicolo anche le forme liriche petrarchesche,  e  censura  non
solo il petrarchismo, ma esso il Petrarca. Parla in nome della  semplicità,  del
buon senso,  e  del  verisimile:  gli  ripugna  tutto  ciò  che  è  raffinato  e
concettoso. Critica caduta nel vuoto, perchè quella  semplicità  di  vita,  quel
sentimento del reale non era nel secolo, e nella sua coscienza era un'astrazione
dell'intelletto: un buon gusto naturale, privo di un mondo plastico, in  cui  si
potesse  esplicare.  Perciò  tutti  quelli  che  scrivono   con   semplicità   e
naturalezza, malgrado certe vivezze e certe grazie di stile, riescono  insipidi,
come il Tassoni e  più  tardi  il  Redi.  Mancava  loro  la  vita  interiore,  e
l'esteriorità, in mezzo a cui stavano, era  affatto  insipida,  quando  non  era
pretensiosa. Del Tassoni sopravvive il ritratto del conte di Culagna:

        filosofo, poeta e bacchettone,
        che era fuor de' perigli un Sacripante,
        ma ne' perigli un pezzo di polmone.

Dico il ritratto, perchè nella rappresentazione è così sbiadito e insipido, come
gli altri personaggi. Del Redi è rimasto il Bacco in Toscana, che ricorda
le  baccanti  dell'Orfeo,  e  per  brio  e  calore  d'immaginazione,  per
naturalezza di movenze, per artificio di verso è di piacevole lettura.
        Non solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto, ma è  anche
esaurita la vita religiosa, morale e politica, quantunque ce ne fosse una  seria
apparenza comandata e servile, via alla fortuna. La storia ha  condannato  a  un
giusto obblio le opere servili, frondose e adulatorie, e serba grata memoria  di
quelle dove spira alcuna libertà di pensiero, perchè,  quando  anche  non  possa
ammirare lo scrittore,  trova  degno  d'ammirazione  l'uomo.  Certo  all'uomo  è
inferiore lo scrittore, perchè la sua critica  è  negativa,  e  non  move  dalla
chiara coscienza  di  una  nuova  società,  ma  da  un  semplice  sentimento  di
resistenza e di opposizione. Anche nel Cinquecento la critica è negativa,  ma  è
negazione universale, col consenso e fra le risa di tutti,  non  è  il  pensiero
solitario dell'artista. Questo spiega il Berni, spiega la Mandragola,  le
satire dell'Ariosto, le commedie dell'Aretino, i poemi cavallereschi  ironici  e
umoristici. La scienza può esser solitaria: l'arte dee avere a  sua  materia  un
mondo plastico e vivente, di cui è la voce. In  quel  secolo  la  negazione  era
libera, ammessa, desiderata, applaudita, ci era comunione simpatica fra l'autore
e i lettori; e ci era pure in fondo a quella negazione la coscienza di un  mondo
nuovo, di un rinnovamento o risorgimento, di un mondo dell'arte e della  natura,
che succedeva alla barbarie del medio evo. Anche nel Trecento Dante avea con  sè
il secolo, e lo fuse in tutte le sue direzioni in un  mondo  plastico,  che  era
appunto il mondo del medio evo, l'altro mondo. Ora ci  è  un  mondo  ipocrita  e
inquisitoriale, dove la  vita  religiosa  e  sociale  fuori  della  coscienza  è
meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L'arte  intisichisce,
priva di un mondo libero intorno a se. Chi vuol comprendere  la  differenza  de'
secoli, legga i Ragguagli  di  Parnaso  di  Traiano  Boccalini,  l'ardito
comentatore di Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo. Il  suo  Parnaso,  che
succede al mondo ariostesco e al dantesco, è di nessunissima serietà,  e  rimane
una semplice occasione, una cornice, dove  inquadra  pensieri,  stizze,  frizzi,
allusioni e allegorie, senz'altra unità o centro che il  suo  ghiribizzo.  È  un
mondo sciolto in atomi, senza vita e coesione interna. La critica, priva  di  un
mondo serio, in cui si possa incorporare, si svapora in  sentenze,  esortazioni,
sermoni, prediche, declamazioni e  generalità  rettoriche,  tanto  più  biliosa,
quanto meno artistica. Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa,  che
pure sono salvate dall'obblio per la maschia energia di un'anima sincera e piena
di vita,  che  incalora  la  sua  immaginazione  e  gli  fa  trovare  novità  di
espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate.
        Come suole avvenire, nessun secolo sonò così  spesso  la  tromba  epica,
quanto questo secolo così poco eroico. Alcuni seguirono le orme del Tasso,  come
il  Graziani  nel  Conquisto  di  Granata.  Il   Chiabrera   scrisse   il
Foresto, la  Gotiade,  la  Firenze,  l'Amadeide,  il
Ruggiero,  tutti  poemi  eroici,  oltre  ventidue  poemetti   profani   e
quattordici sacri. Il Villafranchi, lo Stigliani e altri cantarono  la  scoperta
dell'America, e anche il Tassoni avea preso a scrivere sullo stesso argomento il
suo Oceano, quando con miglior consiglio e con più chiara coscienza delle
sue attitudini si volse a fare nella  Secchia  rapita  la  parodia  delle
forme eroiche. Di tanti poemi epici non uno solo è rimasto. Ce n'è di tutti  gli
argomenti, sacri e profani,  cavallereschi,  eroici,  mitologici,  perchè  erano
capricci  individuali,  e  mancava   l'argomento   del   secolo.   Novissimo   e
popolarissimo argomento era la scoperta dell'America, che ispirò al Tasso la più
geniale delle sue concezioni, il viaggio alle isole Fortunate.  Ma  fu  trattato
col  solito  bagaglio  classico,  e  il  mondo  nuovo  apparve  stanca  e  vieta
reminiscenza di un mondo poetico già decrepito.
        Il mondo eroico di quel secolo era  stato  fabbricato  dal  Concilio  di
Trento. Ed era una ristaurazione del mondo cattolico alle prese  co'  turchi,  e
vincitore meno per virtù propria che per la grazia di Dio. Questo  argomento  di
tutt'i poemi cavallereschi, sciolto nella buffoneria  del  Pulci  e  nell'ironia
dell'Ariosto, purgato e nobilitato dal Tasso, era divenuto l'accento «ufficiale»
del secolo. Il  poeta  di  questa  ristaurazione  fu  Gabriello  Chiabrera,  che
compiuti i suoi studi a Roma, educato da' gesuiti, guidato  da  Speron  Speroni,
ritiratosi nella nativa Savona pieno il capo di testi greci e  latini  e  d'arti
poetiche, verseggiò instancabilmente, sino alla tarda età  di  ottantasei  anni,
fra le ammirazioni de' principi e de' letterati. In tre volumi di liriche non ti
è facile incontrare un pensiero o una immagine che ti arresti, e avendo  a  mano
argomenti nobilissimi o affettuosissimi, niente è che ti mova o  t'innalzi.  Non
ci è quasi avvenimento di qualche importanza che non sia da lui celebrato,  come
le vittorie su' pirati delle galee toscane, la battaglia di Lepanto, le  fazioni
de' veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano,  ma  non  mancano  lodi  di
grandi capitani, e soprattutto di santi, come di Pietro, Paolo,  Cecilia,  Maria
Maddalena,  Stefano,  Agata,  e  simili,  a   cominciare   dalla   Vergine.   Vi
s'inframmettono satire di eretici, come Lutero, Calvino e Beza,  che  sono  vere
invettive personali. Naturalmente non mancano anche gli  amori,  temi  astratti,
ne' quali spuntano già le Filli, le Amarilli e le Cloe, che più  tardi  invasero
l'Arcadia. Che più? Quando manca l'argomento vivo e presente, si esercita,  come
i collegiali, sopra  generalità  astratte,  come  il  verno,  le  stelle,  Muzio
Scevola, il ratto di Proserpina, il diluvio, Golia, Giuditta e simili. Canzoni e
canzonette, ditirambi ed epitaffi, sonetti e poemi, trovi qui  ogni  varietà  di
forme, come ogni varietà di contenuto. Ora fa l'eroe,  ora  fa  il  cascante,  e
suona con la stessa facilità la tromba, la cetra, la lira  e  la  zampogna,  ora
scimieggiando Pindaro, ora Anacreonte.  Le  feste  principesche  gli  forniscono
materia di favole boscherecce e di drammi musicali. Ma tutto è a uno  stampo,  e
tratta di argomenti commoventissimi e presenti con la  stessa  indifferenza  che
scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo di chiudersi  nel  suo  argomento  e
cercarne le latebre, divaga in fatti mitologici o in  generalità  rettoriche,  e
riesce vuoto e freddo. Dee far le lodi di san Francesco? Ed  eccoti  una  tirata
sulla fame dell'oro. Gli manca ogni talento pittorico, ogni movimento di affetto
o d'immaginazione, e non ha alcuna esaltazione  o  entusiasmo  lirico.  C'è  più
poesia nelle Vite del Cavalca, che in queste sue insipide Maddalene Lucie
Cecilie, Stefani e Sebastiani. Dante in pochi  tratti  ti  fissa  nella  memoria
santo Stefano assai meglio che non fa in sette strofe il Chiabrera, errante  tra
reminiscenze sacre e profane, e affatto incapace di cogliere  l'individuo  nella
sua personalità. In qualche strofa di fra Iacopone senti la Vergine; ma  non  la
trovi nelle cento strofe  che  le  sono  qui  consacrate.  Il  martirio  di  san
Sebastiano è materia pietosissima. In mano  al  Chiabrera  diviene  ampollosa  e
fredda  rettorica.  Dove  non  è  insipido,  riesce  pretensioso,  come  quando,
esortando le muse a cantare il santo trafitto, dice:

        tendete, arciere d'ammirabil canto,
        musici dardi al saettato Santo.

Se guardi alla materia, ci è qui tutto il mondo eroico, morale e  religioso  del
cristianesimo, ma non ce n'è lo spirito, nè poteva infonderlo co'  suoi  decreti
il Concilio di Trento.  La  letteratura  religiosa  è  una  moda,  anzi  che  un
sentimento; lo spirito vi rimane estraneo, e si conserva classico  e  letterario
quanto alle forme, nell'indifferenza del contenuto.  Che  cosa  move  davvero  o
interessa il Chiabrera? Nulla, perchè nella sua coscienza nulla ci è, non  fede,
non moralità, non patria, e non amore, e non  arte,  ancorchè  di  tutto  questo
tratti. Certo, il Chiabrera è un bravissimo uomo,  sinceramente  pio  e  onesto,
natura soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia  poetico,  non  basta  sia
nell'animo come un mondo abituale e  tradizionale,  a  quel  modo  che  era  nel
Chiabrera:  dee  essere  passione,  che  stimoli  l'immaginazione  e  svegli  la
meditazione Una passione l'ha il  Chiabrera,  e  non  è  pel  contenuto,  a  lui
indifferente, quale esso sia, ma per le forme.  Dico  «forme»,  e  non  «forma»,
perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma, che fa grandi i
nostri artisti del Cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e di
artista, la fede del contenuto  e  il  senso  della  forma.  Ha  pure  in  grado
mediocrissimo  quel  senso  musicale,  che  natura  concede  così  facilmente  a
italiani, sgraziato nell'intreccio delle rime e nella combinazione de' suoni,  e
talora dà in dissonanze e stonature. La  sua  idea  fissa  è  di  trovare,  come
Colombo, un mondo nuovo, e parve a' contemporanei  ci  fosse  riuscito,  sì  che
Urbano scrisse sulla sua tomba: «novos  orbes  poëticos  invenit».  Mondi
nuovi poetici ci erano allora, ed erano i mondi che creavano Camoens, Cervantes,
Montaigne, Shakespeare e Milton. Ma in Italia, mancata ogni vita  interiore,  la
novità era nelle forme, ed esausto il mondo  latino,  il  Chiabrera  si  mise  a
cercar novità nel mondo greco: «thebanos  modos  fidibus  hetruscis  adaptare
primus  docuit»,  dice  Urbano.  I  quali  modi  tebani  sono   le   strofe,
l'antistrofe e l'epodo, accozzamenti  di  parole  fuor  dell'usato,  costruzioni
artificiali, una certa moralità astratta e volgare, una sobrietà e semplicità di
colori. Forme meccaniche, le quali non vengono da virtù interiore, ma sono  pura
imitazione. Anzi niente è  più  lontano  dallo  spirito  del  Chiabrera  che  la
bellezza greca, quel candore, quella grazia, e quella semplicità;  e  spesso  la
sua semplicità è aridità, il  suo  candore  è  volgarità,  e  la  sua  grazia  è
cascaggine; affettato e pretensioso in quei modi e in quelle forme, che presso i
greci  sono  vezzi  natii:  veggasi  il  suo  ditirambo.  Del  resto,  più   che
nell'eroico, riesce nel grazioso, e se oggi alcuna cosa si legge  pure  di  lui,
sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi  l'Aminta,  giudicherà  queste
canzonette assai povera cosa. Anche il Gravina  studiò  alla  greca  semplicità,
come medicina al secolo tronfio e manierato, e sforzandosi  di  esser  semplice,
riuscì insipido, freddo e volgare. Gli è  che  l'imitazione  greca,  dopo  tanto
latineggiare, era il naturale  sviluppo  di  un  fatto  puramente  letterario  e
meccanico, non animato da alcuna vita interiore di poeta o di secolo.
        Un altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo Filicaia, di cui rimangono
le canzoni per la liberazione di Vienna. Prende volentieri accento di profeta, e
si dà tutta l'apparenza di un sacro furore. Sembra non  parli,  ma  canti,  anzi
urli,  col  pugno  teso,  gli  occhi  stralunati,  gli  atti  convulsi.  Ammassa
esclamazioni, interrogazioni ripetizioni, con un grande rimbombo di suoni  e  di
frasi. Pomposa rettorica, nella quale si scopre la simulazione della vita. Non è
in lui alcun sentimento del reale, ma un  calore  d'immaginazione,  un  orecchio
musicale, ed una non mediocre abilità nella fattura del verso, che  gli  assegna
un posto tra' poeti di second'ordine.
        Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali.  L'uno  lamenta
la  vita  molle  de'  guerrieri  italiani,  o,  com'egli  dice,  la   leggiadria
dell'italica gente:

        ... ... E dove
        calzar potrassi una gentil scarpetta,
        un calcagnetto sì polito? ...
        Lungo fora a narrar come son gai
        per trapunto i calzoni, e come ornate
        per entro la casacca in varie guise
        serpeggiando sen van bottonature.
        Splendono soppannati i ferraiuoli
        bizzarramente; e sulla coscia manca
        tutti d'argento arabescati e d'oro
        ridono gli elsi della bella spada.

Dell'altro è il verso celebre:

        O fossi tu men bella, o almen più forte!

Ma l'Italia era per loro un sentimento così superficiale come la  religione,  un
tema a sonetti e canzoni, come le Vendemmie o le Lodi di Cristina.
Quando il Filicaia domanda all'Italia dov'è il suo braccio, e  perchè  si  serve
dell'altrui, e ricorda che gli stranieri sono  tutti  nemici  nostri,  e  furono
nostri servi, senti ch'è a mille miglia  lontano  dalla  realtà,  che  vagheggia
un'Italia di tradizione e di reminiscenza, di cui non  è  più  vestigio  neppure
nella sua coscienza, ch'egli medesimo non prende sul serio le sue maraviglie e i
suoi furori, e che le  sue  parole  sono  ebollizioni  e  ciance  rettoriche.  I
contemporanei erano pure fatti così; e ammiravano quel bel  sonetto  tirato  giù
con un solo  impeto  tra  mille  splendori  di  una  calda  immaginazione,  come
ammiravano una bella predica, salvo a far  tutto  il  contrario  di  quello  che
diceva il Vangelo e il predicatore.
        Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un
mondo tradizionale tornato in moda, favorito dagl'interessi, mantenuto nelle sue
apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non  ventilato  e
rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà e non idealità, cioè a  dire
non praticato nella vita, e non scopo o tendenza  della  vita.  Il  tarlo  della
società era l'ozio dello spirito, un'assoluta indifferenza  sotto  quelle  forme
abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perchè mere forme  o  apparenze,
erano pompose e teatrali. La passività dello spirito,  naturale  conseguenza  di
una teocrazia autoritaria,  sospettosa  di  ogni  discussione,  e  di  una  vita
interiore esaurita e impaludata, teneva l'Italia  estranea  a  tutto  quel  gran
movimento d'idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa;  e  fin
d'allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, e più simile a museo  che  a
società di uomini vivi.
        La letteratura era a quell'immagine, vuota d'idee e  di  sentimenti,  un
gioco di forme, una  semplice  esteriorità.  Si  frugava  nel  vecchio  arsenale
classico, si giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il mondo  greco
appena libato era corso in tutte le direzioni, e dava un certo aspetto di novità
alle forme letterarie. La poesia italiana nella sua lunga durata avea  messo  in
circolazione un repertorio oramai fatto abituale e vuoto di affetto;  e  non  ci
essendo la forza di rinnovare il  contenuto,  tutti  eran  dietro  ad  aguzzare,
assottigliare, ricamare, manierare, colorire un mondo invecchiato che non  dicea
più niente allo spirito. Meno il contenuto  era  vivo,  e  più  le  forme  erano
sottili, pretensiose, sonore. Nacque una vita da scena, con grande  esagerazione
e abbondanza di frasi un eroismo religioso, patriottico, morale a buon  mercato,
perchè dietro alle parole non ci era altro. Di questo eroismo rettorico  il  più
bel saggio è la Fortuna  del  Guidi,  il  quale  trovò  modo  di  rendere
ridicola e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto il senso  del
vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa e  fiorita,  della  quale
dava già esempio l'Aretino, quando la sua mente non era  abbastanza  solleticata
dall'argomento. Uno degl'ingegni meno guasti fu il Chiabrera: pur sentasi questo
suo epitaffio a Raffaello:

        Per abbellir le immagini dipinte,
        alle vive imitar pose tal cura,
        che a belle far le vere sue Natura
        oggi vuole imitar le costui finte.

E il prezioso non è solo ne' concetti, ma nelle forme,  cercandosi  i  modi  più
disusati in dir cose le più semplici. Ecco un esempio di queste  forme  preziose
nella Fortuna del Guidi:

        Questa è la man che fabbricò sul Gange
        i regni agl'Indi, e sull'Oronte avvolse
        le regie bende dell'Assiria a' crini;
        pose le gemme a Babilonia in fronte,
        recò sul Tigri le corone al Perso,
        espose al piè di Macedonia i troni.

Tra' verseggiatori più preziosi e affettati è da porre il  Lemene,  e  tra'  più
civettuoli e fioriti Giovambattista Zappi. La degenerazione del genere  si  vede
nel Frugoni, il più vuoto e il più pretensioso.
        Spettacolo assai istruttivo è questo di  un  popolo  che  per  parecchie
generazioni spende tutta la sua attività intorno a quistioni di forme, ed erge a
suo obbiettivo la parola in  se  stessa,  staccata  da  ogni  contenuto.  Che  è
divenuta Firenze, la madre di Dante, di Michelangiolo e di Machiavelli?  Eccola,
quale è vantata dal Filicaia:

        Qui del puro natio dolce idioma
        l'oro s'affina; e se non è a' dì nostri
        spenta la gloria de' toscani inchiostri,
        forse invidia ne avranno Atene e Roma...
        Qui d'ogni voce il peso, il senso, il suono
        a rigoroso esame ognor si chiama,
        e il reo si purga e si trasceglie il buono.
        Onde l'alto lavor fregia e ricama
        la gran maestra del parlar, che trono
        erge a se stessa, ed a se stessa è fama.

Firenze è la gran maestra della parola. Là è il suo trono e la sua fama. E  qual
maraviglia che gli uomini di qualche ingegno, trovando insipida e invecchiata la
parola, l'ornano, l'aguzzano, l'imbellettano, e, come dice il Filicaia, vi fanno
intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza che tanto  liscio  al  di  fuori,  con
tanta insipidezza e vacuità nel fondo, è un'ultima forma della  decadenza;  anzi
abbondano i Pindari e gli Anacreonti,  moltiplicano  i  poeti  in  tutt'i  canti
d'Italia, e co' poeti le accademie, e si tengono primi in  tutta  Europa,  della
quale ignorano la coltura.
        Possiamo ora spiegarci come l'Arcadia acquistò l'importanza di un grande
avvenimento, sì che per parecchie decine di anni occupò  l'attenzione  pubblica.
Si videro uomini dottissimi e gravissimi  fanciulleggiare  tra  quei  pastori  e
pastorelle, e dettar le leggi dell'accademia con una solennità, come fossero  le
leggi delle dodici tavole. Parea che a restaurare la  poesia  e  il  buon  gusto
bastasse l'osservanza di alcune regole, e moltiplicarono  i  medici,  quando  il
malato era morto. Gli arcadi, rimasti proverbiali, come di gente dotta e insieme
frivola,  per  correggere  l'eroico  si  gettarono  nel   pastorale,   come   se
trasportando la vita ne' campi e tra' pastori, trovassero quella  naturalezza  e
semplicità che non è nella materia, ma nell'anima dello scrittore. Furono aridi,
insipidi, leziosi, affettati, falsi.
        Il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il  cavalier  Marino,
onorato, festeggiato, pensionato, tenuto principe de' poeti antichi e moderni, e
non da plebe, ma da'  più  chiari  uomini  di  quel  tempo.  Dicesi  che  fu  il
corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire  che  il  secolo  corruppe
lui, o, per dire con più esattezza, non ci fu corrotti, nè corruttori. Il secolo
era quello, e non potea esser altro, era una conseguenza necessaria di non  meno
necessarie premesse. E Marino fu l'ingegno del secolo, il  secolo  stesso  nella
maggior forza e chiarezza della sua espressione. Aveva immaginazione  copiosa  e
veloce, molta facilità di concezione, orecchio musicale, ricchezza  inesauribile
di modi e di forme, nessuna profondità e serietà di concetto  e  di  sentimento,
nessuna  fede  in  un  contenuto  qualsiasi.  Il  problema  per  lui,  come  pe'
contemporanei, non era il che, ma il come. Trovava un  repertorio  esausto,  già
lisciato e profumato dal Tasso e dal Guarini,  i  due  grandi  poeti  della  sua
giovanezza. Ed egli lisciò e profumò ancora più, adoperandovi la fecondità della
sua immaginazione e la facilità della sua vena. La moda era alle idee  religiose
e morali,  e  il  Murtola  scriveva  il  Mondo  creato,  il  Campeggi  le
Lagrime della Vergine, e il Marino la Strage degl'innocenti, e  le
sue stesse poesie erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma  la  vita  era  in
fondo materialista, gaudente, volgare,  pettegola,  licenziosa;  il  naturalismo
viveva nella sua forma più grossolana sotto a quelle pretensioni  religiose.  Le
prime poesie del Marino  furono  sfacciatamente  lubriche,  come  la  prima  sua
giovinezza; e quando venne a età più matura, cercò  non  la  correzione,  ma  la
decenza esteriore, decorando i suoi furori erotici di un ammanto allegorico.
        Nelle tradizioni della poesia ci è un concetto, che mette capo in  Circe
ed Ulisse, ed è  l'imbestiamento  dell'uomo  per  opera  dell'amore,  e  la  sua
liberazione per  opera  della  ragione.  Questo  concetto  diviene  un  episodio
importante in tutte le nostre poesie romanzesche ed eroiche, ed è anche la  Musa
che ispira Dante e il Petrarca. Angelica, Alcina, Armida sono le Circi italiane,
co' loro giardini, co'  loro  palagi  e  castelli  incantati,  co'  loro  viaggi
attraverso lo spazio. Questo è l'episodio più interessante, anzi è  il  concetto
fondamentale della Gerusalemme Liberata. L'episodio del Tasso  incastrato
fra elementi religiosi ed  eroici  diviene  ora  esso  solo  il  poema,  diviene
l'Adone.
         La  storia   del   naturalismo   poetico   incomincia   nell'Amorosa
visione, e finisce nell'Adone. I  due  poemi  sono  assai  simili  di
concetto. L'amore, principio della generazione, è anima del mondo, è  la  corona
della natura e dell'arte, in esso s'inizia, in esso si termina il circolo  della
vita. Venere e Adone è la congiunzione non solo  spirituale,  ma  corporale  del
divino e dell'umano; è l'amore sensuale che investe tutta  la  natura,  cielo  e
terra. Nel paradiso teologico di Dante il corpo si solve nello  spirito;  ma  in
questo paradiso mitologico lo spirito  ha  la  sua  perfezione  e  la  sua  vita
nell'amore sensuale. Un senso tragico si aggiunge  a  questa  commedia  terrena.
L'uomo è mortale, e i suoi piaceri sono lievi e fugaci; e la  conclusione  è  la
morte di Adone fra il compianto degl'immortali.
        La base è l'amore  sensuale  rappresentato  in  tutt'i  suoi  gradi  nel
giardino del Piacere, uno di quei giardini d'amore già celebri  nelle  rime  del
Poliziano,  dell'Ariosto  e  del  Tasso,   qui   diviso   in   cinque   giardini
corrispondenti a' cinque sensi, sì che questa sola descrizione prende già  buona
parte del poema. Nel giardino  del  Tatto  Adone  gode  gli  ultimi  diletti,  e
s'indìa, è rapito in cielo, attinge la felicità. Il  cielo  o  il  paradiso  del
Marino  non  comprende  che  la  Luna,  Mercurio  e  Venere,  tutto   l'universo
dell'amore. La Luna è la sede della natura, Mercurio è la sede dell'arte, e sede
dell'amore è Venere. È tutto il  cielo  della  vita,  simile  a'  diversi  gradi
dell'Amorosa visione. Ma l'apoteosi e il trionfo dell'amore  è  di  breve
durata, e Venere non ha il tempo di rendere immortale il suo amato. Adone muore,
vittima della gelosia di Marte, e gli ultimi canti narrano la morte di Adone, il
compianto di Venere e degli dei, e le sue esequie.
        È inutile dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino  alcun
valore effettivo ed intrinseco, e che esse sono una materia qualunque arricchita
di moltissime favole mitologiche, buona a sviluppare le sue forze  poetiche,  il
solito macchinismo fantastico dell'amore ne' poemi italiani.  I  concetti  e  le
passioni sono insulse personificazioni, come  l'amore,  l'arte,  la  natura,  la
filosofia, la gelosia, la ricchezza ed altre figure allegoriche.  Dico  insulse,
perchè a quelle personificazioni manca e la  profondità  del  significato  e  la
serietà della vita. È lo scheletro de' poemi italiani,  aggiuntivi  anche  certi
episodi ingegnosi per far la corte alle famiglie principesche  d'Italia  e  alla
casa di Francia. Ma è un puro scheletro, dove non penetra per  alcuno  spiraglio
la vita. E poichè quello solo c'interessa che vive, questo  poema  non  c'ispira
nessuno interesse. Non c'è un solo personaggio che attiri l'attenzione  e  lasci
di sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione drammatica o lirica  di
qualche valore. La vita è materializzata e allegorizzata, tutta al di fuori, ne'
suoi accidenti, contrasti e simiglianze esteriori; e come  le  simiglianze  o  i
contrasti esterni sono infiniti, nascono rapporti capricciosi, arbitrari tra  le
cose, che sono veri, quanto a questa o a quella apparenza, ma ridicoli  e  falsi
per rispetto alla totalità della vita. Abbiamo veduto in  che  modo  la  rosa  è
rappresentata nel Poliziano, nell'Ariosto e nel Tasso.  Sono  pochi  particolari
che lumeggiano la rosa nella sua individualità, e non alterano  la  sua  natura.
Sentite ora la rosa del Marino:

        Rosa, riso d'amor, del ciel fattura,
        rosa del sangue mio fatta vermiglia,
        pregio del mondo e fregio di natura,
        della Terra e del Sol vergine figlia,
        d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
        onor dell'odorifera famiglia;
        tu tien d'ogni beltà le palme prime,
        sopra il vulgo de' fior donna sublime.

        Quasi in bel trono imperatrice altera
        siedi colà su la nativa sponda;
        turba d'aure vezzosa e lusinghiera
        ti corteggia d'intorno e ti seconda;
        e di guardie pungenti armata schiera
        ti difende per tutto e ti circonda.
        E tu fastosa del tuo regio vanto,
        porti d'or la corona e d'ostro il manto.

        Porpora de' giardin, pompa de' prati,
        gemma di primavera, occhio d'aprile,
        di te le grazie e gli amoretti alati
        son ghirlanda a la chioma, al sen monile.
        Tu qualor torna agli alimenti usati
        ape leggiadra, o zeffiro gentile,
        dài lor da bere in tazza di rubini
        rugiadosi licori e cristallini.

        Non superbisca ambizioso il sole
        di trionfar fra le minori stelle,
        chè ancor tu fra i ligustri e le viole
        scopri le pompe tue superbe e belle.
        Tu sei con tue bellezze uniche e sole
        splendor di queste piagge, egli di quelle;
        egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
        tu sole in terra ed egli rosa in cielo.

        E ben saran tra voi conformi voglie:
        di te fia 'l sole, e tu del sole amante.
        Ei delle insegne tue, de le tue spoglie
        l'aurora vestirà nel suo levante.
        Tu spiegherai ne' crini e nelle foglie
        la sua livrea dorata e fiammeggiante;
        e per ritrarlo ed imitarlo a pieno,
        porterai sempre un picciol sole in seno.

Evidentemente, qui non ci è il  sentimento  della  natura,  e  non  la  schietta
impressione della rosa. Hai combinazioni astratte e  arbitrarie  dello  spirito,
cavate da somiglianze accidentali ed esterne, che adulterano  e  falsificano  le
forme naturali, e creano enti mostruosi che hanno esistenza solo nello  spirito.
La vita pastorale già nel Tasso ha i suoi ricami, che però fregiano forse un po'
troppo, ma non adulterano gli oggetti e i sentimenti. Ed anche l'Adone ha il suo
pastore, che vuole imitare, anzi oltrepassare il pastore di Erminia, e conchiude
così:

        Lunge da' fasti ambiziosi e vani,
        mi è scettro il mio baston, porpora il vello,
        ambrosia il latte, a cui le proprie mani
        servon di coppa, e nèttare il ruscello.
        Son ministri i bifolci, amici i cani,
        sergente il toro e cortigian l'agnello,
        musici gli augelletti e l'aure e l'onde,
        piume l'erbette, e padiglion le fronde.

Queste lambiccature e finezze di spirito egli le chiama in  una  sua  lettera  a
Claudio Achillini «ricchezze di concetti  preziosi»,  e  ivi  pone  l'eccellenza
della poesia:

        È del poeta il fin la maraviglia:
        parlo dell'eccellente e non del goffo;
        chi non sa far stupir, vada alla striglia.

La novità e la maraviglia non è nel repertorio, che è vecchissimo,  un  rimpasto
di elementi e motivi per lungo uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a
nuovo è  lo  scenario,  o  lo  spettacolo,  vecchio  anch'esso,  ma  lustrato  e
inverniciato. Il qual lustro gli viene non  dalla  sua  intima  personalità  più
profondamente esplorata o sentita,  ma  da  combinazioni  puramente  soggettive,
ispirate da simiglianze o dissonanze accidentali, e perciò tendenti al paradosso
e all'assurdo: di che nasce quello stupore in che il Marino pone  il  principale
effetto della poesia. Nè queste combinazioni artificiali sono solo intorno  alle
cose, come giardini, campi, fiori, ma anche intorno  alle  persone  allegoriche,
come la gelosia, l'amore, e intorno agli atti, come il riso, il bacio. Il Marino
confessa di avere innanzi un zibaldone, dove avea scritto per ordine di  materia
quello che di più piccante e maraviglioso avea trovato ne' poeti greci, latini e
italiani e anche spagnuoli; e ammassa e concentra tutti quei tesori di  concetti
preziosi in un punto solo. Ma non è un freddo imitatore e raccoglitore.  La  sua
immaginazione si avviva tra quelle ricchezze, e diviene attiva,  si  fa  alleata
dello spirito, trasforma quelle combinazioni e quei rapporti in immagini,  e  le
immagini hanno il loro finimento nella  facile  e  briosa  vocalità  de'  suoni.
Talora i concetti stessi spariscono; ma  rimane  sempre  un'onda  melodiosa,  la
cantilena:

        Adone, Adone, o bell'Adon, tu giaci,
        nè senti i miei sospir, nè miri il pianto;
        o bell' Adone, o caro Adon, tu taci,
        nè rispondi a colei che amasti tanto!
        Lasciami, lascia imporporare i baci,
        anima cara, in questo sangue alquanto;
        arresta il volo, aspetta tanto almeno
        che il mio spirto immortal ti mora in seno.

La poesia italiana in quest'ultimo momento  della  sua  vita  non  è  azione,  e
neppure narrazione, è spettacolo vocalizzato, descrizione  a  tendenze  liriche,
tra lo scoppiettio de' concetti, il lustro delle immagini, e la  sonorità  delle
frasi e delle cadenze, e i vezzi delle variazioni. Il suo  ideale  è  l'idillio,
una vita convenzionale, mitologica, amorosa, allegrata  dal  riso  del  cielo  e
della terra. L'Adone  è  esso  medesimo  un  idillio  inviluppato  in  un
macchinismo mitologico, come l'Euridice, la Proserpina. Un idillio
del Marino, di colorito freschissimo e  moderno,  tutto  impregnato  di  ardente
sensualità, è la sua Pastorella.  Chi  ricordi  la  pastorella  di  Guido
Cavalcanti, così sobria e semplice nella sua maniera, può misurare fino  a  qual
grado di ricercatezza nello sviluppo e nelle determinazioni di queste situazioni
liriche era giunta la poesia. Pure la sensualità era ancora quello che  rimaneva
di vivo in questi poeti seicentistici, esalata in tenerezze, languori,  voluttà,
galanterie e dolcitudini.
        Un ideale frivolo e convenzionale, nessun senso  della  vita  reale,  un
macchinismo vuoto, un repertorio logoro, in nessuna relazione con la società, un
assoluto ozio interno, un'esaltazione lirica a freddo, un naturalismo grossolano
sotto velo di sagrestia, il luogo comune sotto ostentazione di  originalità,  la
frivolezza sotto forme pompose e solenni, l'inezia collegata con l'assurdo e  il
paradosso, la vista delle cose superficiale e leggiera,  la  superficie  isolata
dal fondo e alterata con relazioni artificiali, la parola  isolata  dall'idea  e
divenuta vacua sonorità, questi sono i caratteri comuni  a  tutt'i  poeti  della
decadenza, messa la differenza degl'ingegni.
        Questi caratteri sono più o meno comuni a tutte le forme dello scrivere,
tragedie, commedie, poemi, idilli, canzoni, discorsi,  prefazioni,  descrizioni,
narrazioni, orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.
        Il Marino della prosa fu Daniello  Bartoli,  fabbro  artificiosissimo  e
insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e  fiorito.  È
stato in ogni angolo quasi della terra;  ha  fatto  migliaia  di  descrizioni  e
narrazioni: non si vede  mai  che  la  vista  di  tante  cose  nuove  gli  abbia
rinfrescate le impressioni. Retore  e  moralista  astratto,  pieno  il  capo  di
mitologia e di sacra Scrittura copiosissimo di parole e di  frasi  in  tutto  lo
scibile, colorista brillante, credè di poter dir tutto, perchè tutto sapeva  ben
dire. La natura e l'uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a  cavargli
fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo
al movimento della coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato  in
un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla  scuola,  e
non frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello rimane ozioso non  meno  che
il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica
dell'espressione. Tratta la lingua italiana, come greco o  latino,  come  lingua
morta, già fissata, e da lui pienamente posseduta.  Sferza  i  pedanti  col  suo
Torto e Dritto del non si può. Fugge le smancene toscane, e ricorda la  risposta
fatta a certi messi toscaneggianti, che domandavano qualche sussidio per  rifare
il ponte della loro città:

        Qualor, talor, e quinci e quindi, e guari,
        rifate il ponte co' vostri danari.

La sua lingua spedita, colorita, elegante, copiosa ha quel carattere  di  lingua
classica italiana già così spiccato nel Tasso, nel Guarini e  nel  Marino  e  in
quasi tutt'i seicentisti. Il toscano parlato ha poca presa anche  su  moltissimi
uomini colti della Toscana, e rimane stazionario in bocca al  volgo.  La  lingua
classica nella sua fattura esterna e grammaticale tocca in lui un alto grado  di
perfezione per copia e scelta di vocaboli, per regolarità  di  costruzione,  per
speditezza di giunture e movimenti musicali. Ama starsi nel minuto, notomizzare,
descrivere, e vi spiega tutte le ricchezze del dizionario. Descrive lungamente e
con infiniti particolari le chiocciole, e conchiude:

        «Eccovene in prima vestite di uno schietto  drappo:  argentine,  bianche
lattate,  grigie,  nericate,  morate,  purpuree,   gialle,   bronzine,   dorate,
scarlattine, vermiglie. Poi, le addogate con  lunghe  strisce  e  liste  di  più
colori a divisa, e quali se ne vergano per lo  lungo,  quali  per  lo  traverso,
alcune diritto, altre più vagamente a  onda.  Ma  certe  in  vero  maravigliose,
lavorate a modo  d'intarsiatura,  con  minuzzoli  di  più  colori  bizzarramente
ordinati, o d'un musaico di scacchi, l'un bianco e  l'altro  nero,  quanto  alla
figura formatissimi, e alle giunture non isfumati punto,  ma  con  una  division
tagliente, come appunto fossero alabastro e paragone, strettamente commessi.  Le
più sono dipinte a capriccio, o granite, gocciolate, moscate,  altre  qua  e  là
tócche con  certe  leggerissime  leccature  di  minio,  di  cinabro,  d'oro,  di
verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più risentite e grandi; altre o
grandinate di piastrelli o sparse di rotelle, o minutissimo  punteggiate;  altre
corse di vene come i marmi, con un artificio senz'arte, o spruzzate di sangue in
mezzo ad altri colori, che le fan parere diaspri.»

E segue ancora per un pezzo su questo andare.  L'immaginazione  rimane  smarrita
fra tante ricchezze, e perchè tutto è rilievo, manca il rilievo. Non ci è  senso
di arte, nè di natura, e chi vuol sentire la differenza, ricordi la  descrizione
che fa l'Aretino del cielo di Venezia, così trepida  d'impressioni  e  movimenti
interni. E non ha neppur senso d'uomo, nè di tante sue situazioni affettuose, nè
di tanti suoi ritratti di personaggi ideali o  storici  alcuna  cosa  è  rimasta
viva. Eccolo in Terra Santa. Che impressioni  e  che  affetti  non  dee  destare
quella vista in un buon cristiano, com'era il Bartoli! Ma se ne sbriga così:

        «Lagrime di dolore e baci di pietoso affetto  unitamente  si  debbono  a
questo venerabile terreno, che col piè scalzo e in atto non di curioso geografo,
ma di pellegrino divoto, calchiamo.»

E attendiamo gli ardori estatici del pellegrino. Ma è un cominciare con Plinio e
un finire con Lucano, con intramessa di fredde amplificazioni rettoriche.
        Stessa coltura e stesso  contenuto  nel  padre  Segneri.  Non  ha  altra
serietà che letteraria, ornare  e  abbellire  il  luogo  comune  con  citazioni,
esempli, paragoni e figure rettoriche: perciò stemperato superficiale, volgare e
ciarliero. Si loda il suo esordio alla  predica  del  paradiso:  «Al  cielo,  al
cielo!». Il concetto è questo: - La terra non offre un  bene  perfetto;  miriamo
dunque al cielo. E noi  abbiamo  conosciuto  già  questo  mondo,  già  l'abbiamo
sperimentato, ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh! Al cielo, al cielo! - Ora la
prima parte non ha bisogno di dimostrazione, perchè ammessa da tutti. Ma qui  si
accaneggia il Segneri, e intorno a  questo  luogo  comune  intesse  tutt'i  suoi
ricami. E se avesse veramente il sentimento della  terrena  infelicità  e  delle
gioie celesti, non mancherebbe ai suoi colori novità, freschezza, profondità. Ma
non è che uno  spasso  letterario,  un  esercizio  rettorico.  Luogo  comune  il
concetto; luoghi comuni gli accessorii. Non mira efficacemente a  convertire,  a
persuadere l'uditorio; non ha fede, nè ardore apostolico, nè  unzione;  non  ama
gli uomini, non lavora alla loro salute e al loro  bene.  Ha  nel  cervello  una
dottrina religiosa e morale di  accatto,  ed  ereditaria,  non  conquistata  col
sudore della sua fronte, una grande erudizione sacra e profana:  ivi  niente  si
move, tutto è fissato e a posto. La sua attività  è  al  di  fuori,  intorno  al
condurre il discorso e distribuire le gradazioni, le ombre e la luce e i colori.
Gli si  può  dar  questa  lode  negativa,  che  se  spesso  stanca,  non  annoia
l'uditorio, che tien sospeso e maravigliato con un «crescendo» di  gradazioni  e
sorprese rettoriche; e talora  piacevoleggia  e  bambineggia  per  compiacere  a
quello. Ancora è a sua lode, che si mostra  scrittore  corretto,  e  non  capita
nelle stramberie del Panigarola, o nelle sdolcinature e  affettazioni  de'  suoi
successori.
         Si  può  ora  scorgere  il  cammino  della  letteratura,  iniziata  nel
Boccaccio, reazione all'ascetismo, negativa e idillica.  La  negazione  percorse
tutta la scala delle forme comiche dalla caricatura del  Boccaccio  all'umorismo
del Folengo, e si sciolse nello sfacciato cinismo di  Pietro  Aretino:  fu  essa
vita e anima delle novelle, delle commedie, de' capitoli, de' poemi romanzeschi.
Semplice negazione, finì nella sensualità, nella  licenza  delle  idee  e  delle
forme, in un pretto materialismo. Accanto a  questo  elemento  negativo  ci  era
l'idillio, un ritiro dell'anima dalle astrazioni teologiche e  dalle  agitazioni
politiche  nella  semplicità  e  nella  quiete  della  natura,  un   naturalismo
spiritualizzato dal sentimento della forma o  della  bellezza,  che  produsse  i
miracoli della poesia e della pittura. La grazia, l'eleganza, la finitezza delle
forme, la misura e l'armonia nell'insieme  e  nelle  parti  sono  l'impronta  di
quest'aurea  età.  Ma  questa  letteratura  portava  in  sè   il   germe   della
dissoluzione, ed era la sua tendenza accademica, letteraria e classica,  per  la
poca serietà del suo contenuto e la sua separazione da tutt'i  grandi  interessi
morali, politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano  molta  parte
di Europa. Giunta  l'arte  a  quella  perfezione,  aveva  bisogno  di  un  nuovo
contenuto per trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione tridentina ci avesse
dato questo nuovo contenuto, sarebbe stata la benvenuta. Avremmo avuto una seria
ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme, non della
coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro  opera  la  serietà  della
coscienza, come vedrà chi studi bene la storia del Concilio di Trento  non  dico
nel Sarpi, ma nello stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di  quei  padri
riformatori. Di che  nacque  l'ultimo  pervertimento  del  carattere  nazionale.
L'idea che a salvare l'anima bastasse andare  a  messa  e  portare  addosso  uno
scapolare, e che l'assoluzione del confessore fosse sufficiente a  lavare  tutte
le macchie, salvo a tornar da capo, diede  alle  plebi  italiane  quell'impronta
grottesca di bassezza, immoralità e divozione, che anche oggi  in  molti  luoghi
non si è cancellata. Quanto alle classi colte, la vita era  menzogna,  una  vita
ostentatrice  di  sentimenti  religiosi  e  morali  senza  alcuna  radice  nella
coscienza. Tale la vita, tale la letteratura. Quella sua tendenza  accademica  e
letteraria divenne la sua forma definitiva. Fu rettorica, cioè a dire  menzogna,
espressione pomposa di sentimenti convenzionali. Il pio Torquato prese sul serio
quel nuovo contenuto, e vagheggiò un mondo eroico e religioso, che naufragò  tra
gli elementi  che  lo  accompagnavano  idillici  e  fantastici.  Come  sotto  lo
scapolare batteva il core del brigante, sotto  a  quelle  forme  pompose  viveva
invitto il naturalismo  lirico,  fantastico,  idillico  del  vecchio  contenuto.
L'Armida divenne l'Adone, e l'Aminta il  Pastorfido.
Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre,  fra  tante  liriche  eroiche,
morali e patriottiche, ciò che ancor vive è il naturalismo, una  certa  ebbrezza
musicale de' sensi, che fa cantare a' marinai napolitani le stanze di Armida e i
lubrici versi del  Marino.  Tutti  si  sentivano  innanzi  a  un  mondo  poetico
invecchiato, e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava  innanzi  tutto
rinnovare la coscienza. Aguzzarono l'intelletto,  gonfiarono  le  frasi,  e  non
potendo esser nuovi, furono strani L'attività si concentrò intorno alla frase, e
il mondo letterario segregato dalla vita, e vuoto di ogni scopo  serio,  divenne
un esercizio accademico e rettorico.
        La parola come parola, fine a se stessa,  è  il  carattere  della  forma
letteraria o accademica. Nel  secolo  scorso  aveva  un  aspetto  ciceroniano  e
boccaccevole; ora, divenuta l'essenza stessa della letteratura, vi  si  aggiunge
un'aria preziosa, cioè a dire una ostentazione di peregrinità nella sottigliezza
del concetto o nel giro  della  frase.  Citammo  già  alcuni  esempi  di  Pietro
Aretino. Ora ci è in tutti anche ne' più semplici, un po' di Pietro  Aretino.  E
quando questo sforzo  dello  spirito  pareva  soverchia  fatica,  gli  scrittori
rimanevano senza più semplici parolai o frasaiuoli: ciò  che  si  diceva  «stile
fiorito». Queste sono le due forme della decadenza,  di  cui  si  vedono  già  i
vestigi  in  Pietro  Aretino,  e  che  ora  tengono  il  campo  nelle  accademie
letterarie.  Gli  accademici  s'incensano,  si  batton  le  mani,  si  decretano
l'immortalità. Abbiamo gli Ardenti, i Solleciti, gl'Intrepidi, gli  Olimpici,  i
Galeotti, gli  Storditi,  gl'Insipidi,  gli  Ottusi,  gli  Smarriti.  Acquistano
un'importanza artificiale, molti vi pigliano il battesimo di grandi uomini, come
fu del Salvini, dotto uomo ma d'ingegno assai inferiore  alla  fama.  Corona  di
questa letteratura frivola sono gli acrostici, gl'indovinelli, gli anagrammi,  e
simili giuochi di spiriti oziosi.
        La parola,  come  parola,  può  per  qualche  tempo  avere  un'esistenza
artificiale nelle accademie, ma non potrà mai formare una letteratura  popolare,
perchè la parola, se come espressione è potentissima, come semplice sensibile  è
inferiore a tutti gli  altr'istrumenti  dell'arte.  La  parola  è  potentissima,
quando viene dall'anima, e mette in moto tutte le facoltà  dell'anima  ne'  suoi
lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la parola non esprime che se  stessa,
riesce insipida e noiosa. Allora la vista materiale, il  colore,  il  suono,  il
gesto sono ben più efficaci alla rappresentazione che quella  morta  parola.  Si
comprende adunque come i parolai con tutto il loro spirito e  la  loro  eleganza
mantennero la loro influenza in un circolo sempre più ristretto  di  lettori,  e
come al contrario presero il sopravvento gli attori,  i  musici  e  i  cantanti,
divenuti popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie  del  Fagiuoli
doveano piacer meno che le commedie a soggetto, venute sempre più in voga,  dove
il fondo monotono e tradizionale era ringiovanito dagli accessorii  improvvisati
e dall'abile mimica.  D'altra  parte  nella  parola  si  sviluppava  sempre  più
l'elemento cantabile e musicale, già spiccatissimo nel Tasso, nel  Guarini,  nel
Marino. La sonorità o la melodia era divenuta principal legge del verso o  della
prosa,  e  si  fabbricavano  i  periodi  a  suon  di  musica:   ciascuno   aveva
nell'orecchio un'onda melodiosa. Parte di rettorica era la declamazione, cioè  a
dire un modo di recitare solenne e armonioso. La parola non era  più  una  idea,
era un suono; e spesso recitavasi a controsenso,  per  non  guastare  il  suono.
Questo movimento musicale della nuova letteratura già visibile  nel  Petrarca  e
nel Boccaccio, pure armonizzato con  le  idee  e  le  immagini,  ora  in  quella
insipidezza di ogni vita interiore diviene  esso  il  principale  regolatore  di
tutti gli elementi della composizione: tutto il solletico è nell'orecchio. E  si
capisce come, giunte le cose a questo punto, la letteratura muore  d'inanizione,
per difetto di sangue e di calore interno,  e  divenuta  parola  che  suona,  si
trasforma nella musica e  nel  canto,  che  più  direttamente  ed  energicamente
conseguono lo scopo. Perciò fra tanta letteratura accademica il melodramma o  il
dramma musicale è il genere popolare, dove lo scenario, la mimica, il canto e la
musica opera sull'immaginazione ben più potentemente  che  la  parola  insipida,
vacua sonorità, rimasta semplice accessorio. La letteratura moriva, e nasceva la
musica.
        Già la musica non fu mai  scompagnata  dalla  poesia.  Liriche  sacre  e
profane erano cantate e musicate,  e  ancora  tutta  la  varietà  delle  canzoni
popolari. Nel teatro i cori e gl'intermezzi erano cantati. Ma quando  il  dramma
divenne insulso, e la parola perdette ogni efficacia, si cercò l'interesse nella
musica, e tutto il dramma fu cantato. E come la musica non bastasse, si  ricorse
a tutt'i mezzi più  efficaci  su'  sensi  e  sull'immaginativa,  magnificenza  e
varietà di apparati scenici, combinazioni fantastiche di avvenimenti,  allegorie
e macchine mitologiche. Fu da questa corruzione e  dissoluzione  letteraria  che
uscì il melodramma, o l'«opera», serbata a sì grandi destini.
        Il primo tipo del melodramma è l'Orfeo. Il Tasso, il Guarini,  il
Marino sono scrittori melodrammatici. La lirica seicentistica è  in  gran  parte
melodrammatica. E quelle canzonette, tutti quei languori  di  Filli  e  Amarilli
sono  i  preludi  del  Metastasio.  I  trilli,  le  cadenze,  le  variazioni,  i
parallelismi,  le  simmetrie,  le  ripigliate,  tutt'i  congegni  della  melodia
musicale, appariscono già nella poesia. La parola, non  essendo  altro  più  che
musica, avea perduta la sua ragion d'essere, e cesse il campo alla musica  e  al
canto.





XIX LA NUOVA SCIENZA

La letteratura non poteva risorgere che  con  la  risurrezione  della  coscienza
nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che  si  chiuse  col  Folengo  e
l'Aretino. Arrestato quel movimento negativo  dal  Concilio  di  Trento,  nacque
un'affermazione ipocrita e rettorica, sotto alla quale senti una delle forme più
deleterie della negazione, l'indifferenza.  In  quella  stagnazione  della  vita
pubblica e privata, non rimane alla letteratura  altro  di  vivo  che  un  molle
lirismo idillico, il quale si scioglie nel melodramma, e dà luogo alla musica.
        Ma quel movimento non era  puramente  negativo.  Vi  sorgeva  dirimpetto
l'affermazione del Machiavelli, una  prima  ricostruzione  della  coscienza,  un
mondo nuovo in opposizione dell'ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza. È
in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto, il  suo
motivo, la sua novità. Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma  bisognava  ad
ogni costo avere una fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella.
        I princìpi furono favorevoli. Insieme con la nuova  letteratura  si  era
sviluppata  un'agitazione  filosofica  nelle  università  e   nelle   accademie,
indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto  in  opposizione
mascherata alla teologia e all'aristotelismo dominante ancora  nelle  scuole.  I
liberi pensatori eran detti  «filosofi  moderni»  o  i  «nuovi  filosofi»,  come
predicatori di nuove dottrine, e vedemmo come  il  Tasso  nella  sua  giovinezza
soggiacque alla loro autorità.  Tra  questi  nuovi  filosofi,  che  proclamavano
l'autonomia della ragione, e la sua indipendenza da ogni autorità di  teologo  e
di filosofo, disputando soprattutto contro Aristotile, era  Bernardino  Telesio,
dell'Accademia   Cosentina,   nel   quale   è   già   spiccata    la    tendenza
all'investigazione de' fatti naturali e al libero filosofare lasciate  da  parte
le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi «uomini nuovi», come li  chiama
Bacone, ebbe qualche fama il Patrizi, e Mario Nizzoli da  Modena,  che  combattè
ugualmente Aristotile e Platone, fuggì il  gergo  scolastico,  e  fu  detto  dal
Leibnitz «exemplum dictionis philosophiae reformatae». Gli  uomini  nuovi
chiamavano pedanti gli avversari, e  come  portavano  i  tempi,  alternavano  le
villanie con  gli  argomenti.  Il  carattere  di  questo  nuovo  filosofare  era
l'indipendenza della filosofia  dirimpetto  la  fede  e  l'autorità,  il  metodo
sperimentale, e la riabilitazione della materia o della natura,  risecato  dalla
investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia  di  fede.  Filosofia  e
letteratura andavano di pari passo; il Machiavelli  e  l'Ariosto  s'incontravano
sullo stesso terreno, ciascuno co' suoi mezzi. L'ironia dell'Ariosto ha  il  suo
comento nella logica del Machiavelli. Come negazione,  la  nuova  filosofia  era
troppo radicale, perchè non solo negava il papato, ma  il  cattolicismo,  e  non
solo il cattolicismo, ma il cristianesimo,  e  non  solo  il  cristianesimo,  ma
l'altro mondo, e non solo l'altro mondo, ma Dio stesso. Non è  che  queste  cose
apertamente si negassero, anzi il linguaggio era pieno di cautele e di  ossequi,
maestro il Machiavelli; ma co' più umili inchini le  mettevano  da  parte,  come
materia di fede, e vi sostituivano la «natura»,  il  «mondo»,  la  «forza  delle
cose», la «patria», la «gloria», altri elementi ed  altri  fini.  Era  in  fondo
l'umanismo e il naturalismo,  appoggiato  alla  ragione  e  all'esperienza,  che
prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito che segna
l'aurora de' tempi moderni, e che si può  ben  chiamare  il  Rinnovamento,  avea
nell'intelletto italiano la sua posizione più avanzata. Tutte le idee religiose,
morali e  politiche  del  medio  evo  erano  parte  affievolite,  parte  affatto
cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de' preti, anche de'  papi:
l'indifferenza pubblica aveva  la  sua  espressione  nell'ironia,  nel  cinismo,
nell'umorismo letterario. Ora questa negazione  e  indifferenza  universale  non
potea produrre un  organismo  politico  e  sociale,  anzi  era  indizio  più  di
dissoluzione, che di nuova formazione. La  negazione  non  era  effetto  di  una
energica affermazione, come fu per la Riforma, reazione contro il  paganesimo  e
il  materialismo  della  Corte  romana  prodotta   da   un   vivace   sentimento
spiritualista, religioso e morale, secondato da passioni e  interessi  politici.
La  Riforma  riuscì,  perchè  fu  limitata  nella  sua  negazione  e  nelle  sue
conclusioni, perchè avea a sua base lo spirito religioso e morale  delle  classi
colte, e perchè, combattendo il papa e sostenendo i principi  nella  loro  lotta
contro l'imperatore, seppe metter dalla sua gl'interessi e le ambizioni.  Presso
noi, la negazione era un fatto puramente intellettuale, e quanto più assolute le
conclusioni dell'intelletto, tanto più era debole  la  volontà  e  la  forza  di
effettuarle. L'ideale stava a troppa distanza dal reale. La  stessa  utopia  ne'
suoi voli d'immaginazione rimaneva inferiore a quella  posizione  così  avanzata
dell'intelletto.  Rimasero  dunque  conclusioni  accademiche,  temi   rettorici,
investigazioni solitarie  nell'indifferenza  pubblica.  Le  stesse  audacie  del
Machiavelli passarono inosservate. La libertà del pensiero non  era  scritta  in
nessuna legge, ma ci era nel  fatto,  e  si  filosofava  e  si  disputava  sopra
qualsivoglia materia senz'altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora
concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse potuto
svilupparsi liberamente, non è dubbio che avrebbe trovato il  suo  limite  nelle
applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono
lontane dalla realtà, e che si trovano già delineate  nel  Machiavelli,  il  più
pratico e positivo di quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la  «patria»  del
Machiavelli, una  chiesa  nazionale,  una  religione  purgata  di  quella  parte
grottesca e assurda, che la rende spregevole agli uomini colti, e una educazione
civile dell'animo e del corpo.  Ma  appunto  allora  l'Italia  perdette  la  sua
indipendenza politica e la sua libertà intellettuale;  anzi  la  vittoria  della
Riforma in molte parti di Europa  rese  timidi  e  sospettosi  i  governanti,  e
cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e  più
gli eretici, come più pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l'Inquisizione,
e, cosa anco peggiore, l'educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I  più  arditi
esularono; e venne su la nuova generazione, con apparenze più  corrette,  e  con
una dottrina ufficiale che non era lecito  mettere  in  discussione.  Salvar  le
apparenze era il motto, e bastava. E ne uscì una  società  scredente,  sensuale,
indifferente,  rettorica  nelle  forme,  insipida  nel  fondo,  con  letteratura
conforme. Religione, patria, virtù, educazione, generosità, sono temi poetici  e
oratorii frequentissimi, con esagerazioni spinte all'ultimo eroismo,  perchè  in
nessuna relazione con la serietà e la pratica della vita.
        Ma nè l'Inquisizione co' suoi terrori, nè poi i gesuiti co'  loro  vezzi
poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua  base
nel naturale sviluppo della vita italiana.  Poterono  bene  ritardarlo  tanto  e
impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di  un  secolo,  perchè  acquistasse
importanza sociale.
        La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma  la  differenza  era  in
questo, che ne' suoi uomini era stagnata ogni  attività  intellettuale  ed  ogni
vigore speculativo, volto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme, più
che alla sostanza, com'era pure de' letterati; dove negli  altri  hai  un  serio
progresso intellettuale, vivificato dalla fede, e stimolato dalla  passione.  La
reazione  avea  vinto  pienamente,  avea  seco  tutte  le   forze   sociali,   e
l'opposizione  cacciata  via   dalle   accademie   e   dalle   scuole,   frenata
dall'Inquisizione e dalla censura, toltale ogni libertà e forza  di  espansione,
era una infima minoranza appena avvertita nel  gran  movimento  sociale.  Perciò
alla reazione mancò la lotta, dove si affina  l'intelletto  e  si  accendono  le
passioni, e per difetto di alimento rimase stazionaria  e  arcadica.  L'attività
intellettuale e l'ardore della fede rimase privilegio dell'opposizione,  sì  che
dove  trovi  movimento  intellettuale,  ivi  trovi  opposizione   più   o   meno
pronunziata, e spesso involontaria e quasi  senza  saputa  dello  scrittore.  La
storia di questa opposizione non è stata ancora fatta in modo  degno.  Pure,  là
sono i nostri padri, là batteva il core d'Italia, là stavano i germi della  vita
nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il vuoto della coscienza, e la
storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia  della  lenta
ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era  nella  coscienza?  Nulla.
Non Dio, non patria, non famiglia, non umanità, non civiltà. E non  ci  era  più
neppure la negazione, che anch'essa è vita, anzi ci era una pomposa  simulazione
de' più nobili sentimenti con la più profonda indifferenza. Se in questa  Italia
arcadica vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una  vita,
cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del  bene,  zelo
della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone,
in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno  una  nuova
Italia e una nuova letteratura.
        E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta, fu grande
ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito, due  qualità
che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; nè altre ne  avea
il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici  del  Seicento.  Ma  Bruno
avea facoltà più poderose, che trovarono alimento  ne'  suoi  studi  filosofici.
Avea la visione intellettiva, o, come dicono, l'intuito, facoltà che  può  esser
negata solo da quelli che ne  son  senza,  e  avea  sviluppatissima  la  facoltà
sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze  e  cercare  l'uno  nel
differente. Non era di ugual forza nell'analisi,  dove  non  mostra  pazienza  e
sagacia d'investigazione, ma quell'acutezza sofistica d'ingegno, che fa  di  lui
l'ultimo degli scolastici nelle argomentazioni, e il  precursore  de'  marinisti
ne' colori. Supplisce all'analisi con l'immaginazione, fantasticando,  dove  non
giunge la sua visione, saltando le idee medie, e sforzandosi divinare quello che
per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le sue idee  sono
immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era nel suo  petto
un dio agitatore, che sentono tutt'i grand'ingegni; ed era  un  dio  filosofico,
attraversato e avviluppato di forme poetiche, che gli guastano la visione  e  lo
dispongono più a costruire lui il mondo, che a speculare  sulla  costruzione  di
quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può immaginare  qual  viva
impressione dovettero fare sul suo spirito gli studi filosofici. La sua  cultura
è ampia e seria: si mostra  dimestico  non  solo  de'  filosofi  greci,  ma  de'
contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso  il  «divino»  Cusano  e  molta
riverenza pel Telesio. Il suo favorito è  Pitagora,  di  cui  afferma  invidioso
Platone. Alla sua natura  contemplativa  e  poetica  dovea  riuscire  sommamente
antipatico Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa  dovea  parere  a
quel giovine tutto quell'edifizio teologico-scolastico-aristotelico sconquassato
dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle  scuole,  sul  quale  s'innestava  una
società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito  fu  negativo  e
polemico, fu la negazione delle opinioni ricevute,  accompagnata  con  un  amaro
disprezzo  delle  istituzioni  e  de'  costumi  sociali.  Era  il  tempo   delle
persecuzioni. I migliori ingegni emigravano, regnava l'Inquisizione. E Bruno era
frate, e frate domenicano. Come uscì dal convento, e perchè esulò, s'ignora.  Ma
a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del
povero Tasso. Fuggì Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche più intollerante.
Fuggì a Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe qualche tregua, e pubblicò  il  suo
primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni.
        Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno  vi
sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la  materia  è
il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna lotta  degli  sciocchi  e  de'
furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma
è cinica. È il fondo della commedia italiana dal  Boccaccio  all'Aretino,  salvo
che gli altri vi si spassano, massime l'Aretino, ed egli se ne stacca  e  rimane
al di sopra. Chiamasi «accademico di nulla accademia, detto il  Fastidito».  Nel
tempo classico delle  accademie  il  suo  titolo  di  gloria  è  di  non  essere
accademico. Quel «fastidito» ti dà la chiave del suo  spirito.  La  società  non
gl'ispira più collera; ne ha fastidio, si  sente  fuori  e  sopra  di  essa.  Si
dipinge così:

        «L'autore, sì lo conosceste, ... have una fisonomia  smarrita:  par  che
sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno; ... un che  ride  sol  per
far comme fan gli altri. Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro.»

Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza conclusione. E il risultato
della sua commedia è «in tutto non esser cosa di sicuro; ma  assai  di  negozio,
difetto abbastanza, poco di bello e  nulla  di  buono».  Nessuno  interesse  può
destare la scena del mondo a un uomo, che nella dedica conchiude così:

        «Il tempo tutto  toglie  e  tutto  dà;  ogni  cosa  si  muta,  nulla  si
annichila, è un solo, che non può mutarsi, un solo è eterno  e  può  perseverare
eternamente  uno,  simile  e  medesimo.  Con   questa   filosofia   l'animo   mi
s'ingrandisce, e me si magnifica l'intelletto.»

Ma non gli s'ingrandisce il senso poetico, il quale è appunto nel contrario, nel
dar  valore  alle  più  piccole  rappresentazioni  della  natura,  e   prenderci
interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull'uno e sul medesimo, non
certo a fare un'opera d'arte. Non si mescola nel suo mondo, ma ne sta da fuori e
lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual modo dipinge l'innamorato:

        «Vedrete in un amante sospiri, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni,
rizzamenti e un cuor rostito nel fuoco d'amore; pensamenti, astrazioni, collere,
malinconie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia.»

E continua di questo passo, ammassando tutt'i luoghi topici  della  rettorica  e
tutte le frasi della moda:

«cuor mio», «mio bene», «mia vita», «mia dolce piaga» e «morte», «dio»,  «nume»,
«poggio», «riposo», «speranza», «fontana», «spirito»,  «tramontana  stella»,  ed
«un bel sol che all'alma mai tramonta», ... «crudo core», «salda colonna», «dura
pietra», «petto di diamante», ... «cruda man che ha le  chiavi  del  mio  core»,
«mia nemica», «mia dolce guerriera», «bersaglio sol di tutt'i miei pensieri»,  e
«bei son  gli  amor  miei,  non  quei  d'altrui».  È  il  vecchio  frasario  de'
petrarchisti, venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci  è  il  critico,
non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino  il  titolo,
il Candelaio, lo mena  a  questa  considerazione  filosofica:  che  è  la
candela destinata a illuminare le «ombre delle idee». Perciò costruisce  il  suo
mondo comico a quel  modo  che  costruisce  il  suo  universo,  guardando  nelle
apparenze l'essenza e la generalità:

        «Eccovi  avanti  agli  occhi  oziosi  princìpi,  debili  orditure,  vani
pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture  di  corde,  falsi
presuppositi, alienazioni di  mente,  poetici  furori,  offuscamento  di  sensi,
turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto, fede sfrenata,  cure
insensate, studi incerti, somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia.»

Con queste disposizioni non individua, come fa l'artista, ma generalizza,  mette
insieme le cose più disparate, perchè nelle massime differenze trova  sempre  il
simile e l'uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con una  copia,  un
brio, una novità di relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di  mente.
Chi legge Bruno si trova già in pieno Seicento, e indovina Marino  e  Achillini.
Ecco un periodo alla sua donna:

        «Voi, coltivatrice del campo dell'animo mio, che dopo di  avere  attrite
le glebe della sua durezza, e assotigliatogli il stile, acciocchè  la  polverosa
nebbia sollevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e
quello, con acqua divina, che dal fonte del vostro spirito deriva, m'abbeveraste
l'intelletto.»

Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che  ne  facea  mercato.  Il  difetto
penetra  anche   nella   rappresentazione,   essendo   i   caratteri   concepiti
astrattamente, perciò tesi e crudi, senza ombre e chiaroscuri,  con  una  cinica
nudità,  resa  anche  più  spiccata  da  una  lingua  grossolana,  un   italiano
abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.
        In questo mondo comico i tre  protagonisti,  che  sono  i  tre  sciocchi
beffardi e castigati, abbracciano la vita nelle sue tre forme più  spiccate,  la
letteratura,  la  scienza  e  l'amore  nella  loro  comica   degenerazione.   La
letteratura è pedanteria, la scienza  è  impostura,  l'amore  è  bestialità.  Il
personaggio meglio riuscito è il pedante, che finisce sculacciato e rubato. E il
pedante  sotto  vari  nomi  diviene  parte  sostanziale  anche  del  suo   mondo
filosofico, diviene il suo elemento negativo e  polemico.  Dirimpetto  alla  sua
speculazione ci è sempre il  pedante  aristotelico,  che  rappresenta  il  senso
comune o le opinioni volgari, ed  è  messo  alla  berlina.  La  speculazione  si
sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte  del  buffone
resa più piccante dalla solennità magistrale. A questo elemento comico  aggiungi
un altro elemento letterario, l'allegorico e il fantastico,  che  lo  dispone  a
inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni, com'è  nel  suo  Asino
cillenico e nello  Spaccio  della  bestia  trionfante.  Qui  arieggia
Luciano, come in altri dialoghi più severamente speculativi arieggia Platone. Il
suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita  nuova  di  Dante,
una filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua generalità  è
una dottrina allegorica intorno all'entusiasmo e alla ispirazione. Il  contenuto
nel Bruno è in molta parte nuovo, ma le sue forme  letterarie  non  nascono  dal
contenuto, sono appiccate a quello, e sono  forme  invecchiate  e  corrotte  dal
lungo uso, perciò senza grazia e semplicità,  e  senza  calore  intimo.  Se  non
disgustano e non annoiano, si dee al suo  acuto  spirito  e  alla  sua  attività
intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti sorprende di continuo con  sali,
frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e finezze, che è il  cattivo  gusto  degli
uomini d'ingegno.
        Ma quest'uomo così inviluppato in forme tradizionali e già  guaste,  che
accennavano già ad una prossima dissoluzione  della  letteratura  italiana,  era
nella sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo contenuto,  da
cui dovea uscire più tardi una nuova critica e una  nuova  letteratura.  La  sua
filosofia è la condanna più esplicita delle sue  forme  e  de'  suoi  pregiudizi
letterari.
        Non vo' già analizzare il suo sistema filosofico: chè non fo  storia  di
filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze che ebbero una decisa influenza
sul progresso umano.
        Ne' suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane,  a  cui  si
apre tutto il mondo della cognizione, e cerca  riassumerlo,  costruire  l'albero
enciclopedico. Raimondo Lullo avea già tentata questa sintesi, come aiuto  della
memoria. Bruno rifà il suo lavoro,  stabilisce  categorie  e  distinzioni,  note
mnemoniche, o idee generali, intorno a cui si  aggruppino  i  particolari,  come
«cielo», «albero», «selva». Queste note le chiama «suggelli», a cui  è  aggiunto
«sigillus sigillorum», cioè le idee prime, da cui discendono le altre. Il
suo entusiasmo per quest'«architettura lulliana», titolo di un  suo  scritto,  è
tale, che la chiama «arte delle arti»,  perchè  vi  si  trova  «quidquid  per
logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem  magiam,  artes  magnas  atque  breves
theoretice inquiritur». Bruno non  avea  attinto  che  il  meccanismo  della
scienza, perchè queste categorie o distribuzioni per capi  e  per  materia  sono
distinzioni formali e  arbitrarie,  e  rassomigliano  un  dizionario  fatto  per
categorie a soccorso della memoria. Il volgo ci dà  molta  importanza  e  crede,
imparando quelle categorie, di avere imparato  a  così  buon  mercato  tutte  le
scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da  lui  il  secreto  di
diventar dottori in qualche mese, e che beffati gliene volessero: anzi a  queste
inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata a Londra.
Ivi  continuò  i  suoi  studi  lulliani  e   pubblicò   Explicatio   triginta
sigillorum, con una  introduzione  intitolata:  Recens  et  completa  ars
reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela già un principio
organico, che annunzia il gran pensatore. L'arte  del  ricordarsi  si  trasforma
innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare, in  una  logica
che è ad un tempo una ontologia. Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col
titolo: De umbris idearum, e lo raccomando a' filosofi, perchè ivi  è  il
primo germe di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle
bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo,  che  le  serie
del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale, perchè  uno
è il principio dello spirito e della natura,  uno  è  il  pensiero  e  l'essere.
Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura  rappresenta  al  di
fuori, copiare in sè la scrittura della natura. Pensare  è  vedere,  ed  il  suo
organo è l'occhio interiore, negato agl'inetti. Ond'è che la  logica  non  è  un
argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che
sono in Dio, sostanza fuori della cognizione, ma delle ombre  o  riflessi  delle
idee ne' sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo,  a
cui è negato il lume interno, la visione del vero e  del  buono  riflesso  nella
ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:

     Umbra profunda sumus, ne nos vexetis, inepti;       non vos,  sed
doctos tam grave quaerit opus.

Che vuol dire in buono italiano: - Chi non ci vede, suo danno, e non ci  stia  a
seccare. -
        Questo concetto rinnovava la  scienza  nella  sua  sostanza  e  nel  suo
metodo. Il dualismo teologico-filosofico del medio  evo,  da  cui  scaturiva  il
dualismo politico, papa e  imperatore,  dava  luogo  all'unità  assoluta.  E  il
formalismo  meccanico  aristotelico-scolastico  cedeva  il  campo  a  un  metodo
organico, cioè a dire derivato  dall'essenza  stessa  della  scienza.  Il  nuovo
concetto era la chiave della speculazione di Bruno.
        A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico, lungamente
da lui narrata e con colori molto comici nella Cena  delle  ceneri,  cioè
del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee  nel  dialogo
della Causa, principio e uno, e nell'altro dell'Infinito,  universo  e
mondi, pubblicati a Londra nel 1584. Quei tre libri sono la sua metafisica.
        Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è la riabilitazione,
anzi l'indiamento della materia scomunicata, chiamata «peccato». Bruno ha chiara
coscienza di ciò che fa. Perchè  mette  in  bocca  al  pedante  aristotelico  le
opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio, ed è
descritto così:

        «Questo è un di quelli che, quando ti arràn fatta una bella costruzione,
prodotta una elegante  epistolina,  scroccata  una  bella  frase  da  la  popina
ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive  Salustio;
qua è un Argo che vede ogni lettera,  ogni  sillaba,  ogni  dizione...  Chiamano
all'essamina le orazioni, fanno discussione de le  frasi,  con  dire:  -  Queste
sanno di poeta, queste di comico, queste di oratore! Questo è  grave,  questo  è
lieve, quello è sublime, quell'altro è  «humile  dicendi  genus».  Questa
orazione è aspera, sarebbe lene, se fusse formata cossì.  Questo  è  un  infante
scrittore, poco  studioso  dell'antiquità,  non  redolet  arpinatem,  desepit
Latium. Questa voce non è tosca, non è usurpata  da  Boccaccio,  Petrarca  e
altri probati autori... - Con questo trionfa, si contenta di sè, gli piaceno più
ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un  Giove  che  da  l'alta  specula  rimira  e
considera la vita degli  altri  uomini  suggetta  a  tanti  errori,  calamitadi,
miserie e fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando
contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio,  un  dizionario,  un
Calepino, un lessico, un Cornucopia, un Nizzolio... Se avvien  che  rida,
si chiama Democrito; se avvien che si dolga, si chiama Eraclito; se disputa,  si
chiama Crisippo; se discorre, si nome Aristotile;  se  fa  chimere,  si  appella
Platone;  se  mugge  un  sermoncello,  se  intitula  Demostene;  se  construisce
Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille, approva Enea, riprende  Ettore,
esclama contro Pirro, si  condole  di  Priamo,  arguisce  Turno,  scusa  Didone,
comenda Acate, e infine mentre «verbum verbo reddit» e infilza salvatiche
sinonimie «nihil divinum a se alienum putat», e così borioso smontando de
la sua catedra, come colui c'ha disposti i cieli, regolati i senati, domati  gli
eserciti, riformati i mondi, è certo che se  non  fosse  l'ingiuria  del  tempo,
farebbe con gli effetti quello che fa con l'opinione. O tempora o  mores!
Quanti son rari quei che intendeno la natura dei participi, degli adverbi, delle
coniunczioni !

Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così vivo e vero, come è  dipinto
qui, ma l'artista è inferiore al critico, nè il Polinnio che parla è  uguale  al
Polinnio descritto con così felice umore sarcastico. Polinnio sa a  mente  tutto
quello che è stato scritto intorno alla materia, e tutto solo, «ita,  inquam,
solus ut minime omnium solus», come fosse in  cattedra,  ti  sciorina  sulla
materia una lezione, anzi, come dice lui, una «nervosa orazione:»

        «La materia... di peripatetici dal principe..., non minus che dal
Platon divino e  altri,  or  «caos»,  or  «hyle»  or  «silva»,  or
«massa», or «potenzia», or «aptitudine»,  or  «privationi  admixtum»,  or
«peccati causa», or «ad maleficium ordinata», or  «per  se  non
ens», or «per  se  non  scibile»,  or  «per  analogiam  ad  formam
cognoscibile»,  or  «tabula   rasa»,   or   «indepictum»,   or
«subiectum»,  or  «substratum»,  or  «substerniculum»,   or
«campus», or «infinitum», or «indeterminatum», or «prope
nihil», or« neque quid, neoue quale,  neque  quantum»,  tandem
...  «femina»  vien  detta,  tandem,  inquam,  ut  una  complectantur   omnia
vocula, «foemina» 

Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo chiama «femmina»,  la  «causa
del peccato», la «tavola rasa», il  «prope  nihil»,  il  «neque  quid,
neque quale, neque quantum», è proclamata da  Bruno  immortale  e  infinita.
Passano le forme: la materia resta immutabile nella sua sostanza:

        «Nella natura, variandosi in infinito, e succedendo l'una a  l'altra  le
forme, è sempre una materia medesma... Quello che era seme, si  fa  erba,  e  da
quello che era erba, si fa spica, da che era spica, si fa pane, da  pane  chilo,
da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo,  da  questo
cadavero, da questo terra, da  questo  pietra...  Bisogna  dunque  che  sia  una
medesima cosa, che da sè non è pietra, non terra, non cadavere,  non  uomo,  non
embrione, non sangue...; ma che dopo che era sangue, si fa  embrione,  ricevendo
l'essere embrione; dopo ch'era embrione, riceve l'essere uomo, facendosi uomo.»

        E poichè tutte le forme passano, ed ella resta, Democrito e gli epicurei
«quel che non è corpo dicono esser nulla: per conseguenza  vogliono  la  materia
sola essere la sustanza delle cose, e anche quella essere la natura divina»,  le
forme non essendo «altro che certe accidentali disposizioni della materia», come
sostengono i cirenaici, cinici e stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione,
diffusa già in molti  contemporanei,  soprattutto  nei  medici,  parendogli  che
quella dottrina avesse «fondamenti più corrispondenti alla natura  che  quei  di
Aristotile». Cominciò dunque prettamente materialista; ma  considerata  la  cosa
«più maturamente» non potè confondere la potenza passiva di tutto e  la  potenza
attiva di tutto, chi fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde  venne  nella
conclusione esserci nella natura due sustanze, l'una ch'è forma, l'altra  che  è
materia, la «potestà di fare» e la «potestà di esser fatto». Perciò nella  scala
degli esseri «c'è un intelletto, che dà  l'essere  a  ogni  cosa,  chiamato  da'
pitagorici...'datore delle forme'; una anima e principio formale, che si  fa  ed
informa ogni cosa, chiamata da' medesimi 'fonte delle forme'; una materia, della
quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti 'ricetto delle forme'.
         Quanto  all'intelletto,  «primo  e  ottimo  principio»,  «non  possiamo
conoscer nulla, se non per modo di vestigio, essendo la divina sostanza infinita
e lontanissima da quegli effetti che  sono  l'ultimo  termine  del  corso  della
nostra discorsiva facultade ». Dio dunque è materia di fede e di rivelazione,  e
secondo la teologia e «ancora tutte riformate filosofie» è cosa  «da  profano  e
turbolento spirito il voler precipitarsi a ... definire circa  quelle  cose  che
son sopra la sfera della nostra intelligenza».  Dio  «è  tutto  quello  che  può
essere»; in lui potenza e atto «son la  medesima  cosa»,  possibilità  assoluta,
atto assoluto. «Lo uomo è quel che può essere; ma  non  è  tutto  quel  che  può
essere... Quello, che è tutto quel che può essere, è uno il quale nell'esser suo
comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è e può essere.» In lui ogni potenza
e atto è «complicato, unito e uno: nelle altre  cose  è  esplicato,  disperso  e
moltiplicato». Lui è «potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti,  vita
di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l'essere.» Perciò  il
Rivelatore lo chiama «Colui che è», il «Primo» e il «Novissimo», poichè  «non  è
cosa antica e non è cosa nuova», e dice di lui: «Sicut tenebrae eius, ita  et
lumen eius». «Atto absolutissimo» e «absolutissima potenza,  non  può  esser
compreso dall'intelletto se non per modo di negazione; non può ... esser capito,
nè in quanto può esser tutto»,  nè  in  quanto  è  tutto.  Ond'è  che  il  sommo
principio è escluso dalla filosofia, e Bruno costruisce il mondo,  lasciando  da
parte la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale  «a  chi
non crede è impossibile e nulla». Quelli che non hanno il  lume  soprannaturale,
stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto,  come  gli
astri, e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose, ma
dentro questo e in quelle». Questa è la sola differenza tra il «fedele  teologo»
e il «vero filosofo». E Bruno conchiude: - Credo che abbiate compreso  quel  che
voglio dire. - Il medio evo avea per base il  soprannaturale  e  l'estramondano:
Bruno lo ammette come  «fedele  teologo»,  ma  come  «vero  filosofo»  cerca  la
divinità non fuori del mondo, ma nel mondo. È in fondo la più radicale negazione
dell'ascetismo e del medio evo.
        Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono  due
sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa, i due princìpi  costitutivi
delle cose.
        La forma nella sua assolutezza è l'«anima del mondo»,  la  cui  «intima,
più reale e propria facoltà e parte  potenziale»  è  l'«intelletto  universale».
Come il nostro intelletto produce  le  specie  razionali,  così  l'intelletto  o
l'anima del  mondo  produce  le  specie  naturali,  «empie  il  tutto,  illumina
l'universo», come disse il poeta: «...totamque infusa per artus / mens agitat
molem, et toto se corpore miscet». Questo intelletto,  detto  da'  platonici
«fabro del mondo», e da Bruno «artefice interno», «infondendo e porgendo qualche
cosa del suo alla materia, ... produce il tutto». Esso è la forma  universale  e
sostanziale insita nella materia, perchè non opera circa la materia  e  fuor  di
quella, ma figura la materia da dentro, «come da dentro del seme o radice» forma
«il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance,
da dentro queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura  e  intesse  come  di
nervi le fronde, li fiori e li frutti». La natura opra dal centro, per dir così,
del suo soggetto o  materia.  Sicchè  la  forma,  se  come  causa  efficiente  è
estrinseca, perchè «non è parte delle cose prodotte»; «quanto all'atto della sua
operazione», è intrinseca alla materia, perchè  opera  nel  seno  di  quella.  È
causa, cioè, fuori delle cose; ed è insieme principio, cioè insito  nelle  cose.
Non ci è creazione, ci è generazione, o, come dice Bruno, «esplicazione».
        La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima.  Vivere
è avere una forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. «Se la vita si trova
in tutte le cose, l'anima» è «forma di tutte le cose»:  presiede  alla  materia,
«signoreggia nelli  composti,  effettua  la  composizione  e  consistenza  delle
parti». Perciò essa è immortale e una non meno che la materia.  Ma  «secondo  la
diversità delle disposizioni della materia e secondo  la  facultà  de'  princìpi
materiali attivi e passivi, viene a produr  diverse  figurazioni».  Sono  queste
forme esteriori, che solo si cangiano e annullano, «perchè non sono cose, ma  de
le cose, non sono sustanze, ma de le  sustanze  sono  accidenti  e  circostanze.
Perciò dice il poeta: «Omnia mutantur, nihil interit». E  Salomone  dice:
«Quid est quod est? Ipsum, quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum
est. Nihil sub sole novum». Vani dunque sono i terrori della  morte,  e  più
vani i terrori dell'«avaro Caronte, onde il più dolce della nostra  vita  ne  si
rape ed avvelena».
        Machiavelli avea già parlato di uno «spirito  del  mondo»  immortale  ed
immutabile, fattore della  storia  secondo  le  sue  leggi  costitutive.  Quello
spirito della storia nella speculazione di Bruno è il «fabro del mondo», il  suo
«artefice interno».
        Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta, cioè  secondo  sè,
distinta dalla forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di materia, così
la materia esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è «informe», potenza
passiva «pura, nuda, senz'atto, senza virtù e perfezione», «prope nihil»:
è l'indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il nulla. Appunto perchè è
tutte le cose, non è alcuna cosa. E perchè non  è  alcuna  cosa,  non  è  corpo;
«nullas habet dimensiones», è indivisibile, soggetto di cose  corporee  e
incorporee. Se avesse  certe  dimensioni,  certo  essere,  certa  figura,  certa
proprietà, certa differenzia, non sarebbe assoluta.»
        Ma forma e materia nella loro assolutezza,  come  aventi  vita  propria,
estrinseca l'una all'altra, sono non distinzioni reali, ma  vocali  e  nominali,
sono distinzioni logiche e intellettuali, perchè «l'intelletto divide quello che
in natura è indiviso», com'è  vizio  di  Aristotile,  e  degli  scolastici,  che
popolarono il mondo di entità logiche, quasi fossero sussistenze reali. Bruno si
beffa in molte occasioni  di  questi  filosofi,  che  moltiplicarono  gli  enti,
immaginando fino la «socrateità» come l'essenza di Socrate, la  «ligneità»  come
essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già
un gran progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza  importanza,  anzi
esse sono una serie corrispondente alla serie delle  cose,  sono  le  generalità
della natura; il torto è di considerarle cose viventi e reali,  e  credere,  per
esempio, che forma  e  materia  sieno  due  sostanze  distinte,  appunto  perchè
possiamo e dobbiamo concepirle distinte.
        In natura o nella realtà forma e materia sono una sola  sostanza.  L'una
implica l'altra: porre l'una è porre l'altra. La forma non può sussistere se non
aderente alla materia, una  forma  che  stia  da  sè  è  una  astrazione  logica
Parimente la materia vuota e informe è un'astrazione; essa è come una «pregnante
che ha già in sè il germe vivo». Non ci è forma che non  abbia  in  sè  «un  che
materiale», e non ci è materia che non abbia in sè il suo  principio  formale  e
divino. Bruno dice: «Lo ente, logicamente diviso in quel che  è  e  può  essere,
fisicamente è indiviso, indistinto e uno». Perciò la potenza coincide coll'atto,
la materia con la forma.  Giove,  «la  essenzia  per  cui  tutto  quel  ch'è  ha
l'essere», è «intimamente» in tutto; onde «s'inferisce che tutte le cose sono in
ciascuna cosa, e tutto è uno».
        La  materia  non  è  dunque  nulla,  «prope  nihil»,  come  vuole
Aristotile; anzi ha in sè tutte le forme, e le produce dal suo  seno  per  opera
della natura, efficiente o artefice «interno e non esterno,  come  aviene  nelle
cose artificiali». Se il principio  formale  fosse  esterno,  si  potrebbe  dire
ch'ella «non abbia in sè forma e atto alcuno»; ma le ha tutte, perchè  tutte  le
caccia «dal suo seno». Perciò la materia non è «quello in cui le cose si fanno»,
ma quello «di cui ogni specie naturale si produce». Ciò che, oltre i pitagorici,
Anassagora e Democrito, comprese anche Mosè, quando disse: «'Produca la terra li
suoi animali',... quasi dicesse: 'Producale la materia'». Adunque le «forme»  ed
«entelechie» di Aristotile e le «fantastiche idee di Platone», i «sigilli ideali
separati dalla materia  ...  son  peggio  che  mostri»,  sono  «chimere  e  vane
fantasie». La materia è fonte dell'attualità, è non solo in potenza, ma in atto;
è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato, e non è quella che si  muta,
ma quella intorno alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si  altera  è
il composto, non la materia. Si dice stoltamente che  la  materia  appetisca  la
forma. Non può appetere «il fonte delle forme  che  è  in  sé»,  perchè  nessuno
appete ciò che possiede. E perciò, in caso di morte, non si  dee  dire  che  «la
forma fugge... o... lascia la materia, ma  più  tosto  che  la  materia  rigetta
quella forma» per prenderne un'altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo  la
parte del senso  comune  e  volgare,  vedendo  a  terra  non  solo  le  opinioni
aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in questa  esclamazione:  -
«Or ecco a terra non solamente li castelli di Polinnio, ma ancora d'altri che di
Polinnio!». -
        Adunque, se gl'individui sono  innumerabili,  ogni  cosa  è  uno,  e  il
conoscere  questa  unità  è  lo  scopo  e  termine  di  tutte  le  filosofie   e
contemplazioni  naturali,  montando  non  al  sommo  principio,  escluso   dalla
speculazione, ma alla somma monade o atomo o unità, anima  del  mondo,  atto  di
tutto, potenza di tutto, tutta in tutto.
        Questa sostanza unica è «l'universo, uno, infinito,  immobile».  «Non  è
materia, perchè non è figurato,  nè  figurabile...,  non  è  forma,  perchè  non
informa, nè figura» sostanza particolare, «atteso che è tutto, è massimo, è uno,
è universo... È talmente forma che non è forma, è talmente  materia  che  non  è
materia, è talmente anima che non è anima; perchè è il tutto  indifferentemente,
e però è uno, l'universo è uno». In lui tutto è centro: il centro è  dappertutto
e la circonferenza è in nessuna parte, ed anche la circonferenza è dappertutto e
in nessuna parte il centro. Non c'è vacuo tutto è pieno: quello in  cui  vi  può
essere corpo, e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono  gli  atomi.
Perciò l'universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La causa
finale del mondo  è  la  perfezione,  e  agl'innumerabili  gradi  di  perfezione
rispondono i mondi innumerabili: animali grandi,  co'  loro  organi  e  il  loro
sviluppo, de' quali uno è la terra. Per la continenza di questi innumerabili  si
richiede uno spazio infinito, l'eterea regione, dove si muovono i mondi,  perciò
non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno, perchè tutti si
muovono dal principio interno, che è la propria anima.
        Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale  e
l'estramondano. Il mondo popolato di universali nel medio evo è negato da  Bruno
in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura,  è  natura  della
natura; se non è l'anima del mondo, è l'anima dell'anima del mondo. E in  questo
caso è materia di fede, non è parte della cognizione. La base della sua dottrina
è perciò l'intrinsechezza del principio formale o divino della natura.  Ciascuno
ha Dio dentro di sè. Il vero e  il  buono  luce  dentro  di  noi  non  per  lume
soprannaturale,  ma  per  lume  naturale.  Il  naturalismo  reagiva  contro   il
soprannaturale.
        Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè  a  dire  che
ricevono il lume dal di fuori, egli li chiama «asini» o «ignoranti»,  de'  quali
fa un ironico panegirico nell'Asino cillenico, e tra questi e quelli  che
hanno il lume naturale e vedono per virtù propria è la stessa differenza  che  è
«tra l'asino che porta i sacramenti  e  la  cosa  sacra».  Quelli  sono  vasi  e
strumenti; questi principali artefici ed efficienti: quelli hanno  più  dignità,
perchè hanno la divinità; questi sono essi più degni, e sono divini. L'asinità è
la condizione della fede: chi crede, non  ha  bisogno  di  sapere;  e  l'asinità
conduce alla vita eterna. «- Forzatevi, forzatevi dunque ad essere asini, o  voi
che siete uomini!... - grida Bruno con umore - così, divoti e  pazienti,  sarete
contubernali alle angeliche squadre... E voi che siete già asini,...  adattatevi
a proceder... di bene in meglio, afinchè perveniate... a quella dignità che  non
per scienze ed opre,...  ma  per  fede  s'acquista.  Se...  tali  sarete...,  vi
troverete scritti  nel  libro  della  vita,  impetrerete  la  grazia  in  questa
militante, ed otterrete la gloria in quella  trionfante  ecclesia,  nella  quale
vive e regna Dio per tutt'i secoli de' secoli.»

Questa tirata umoristica finisce con un «molto pio» sonetto in lode degli asini,
il cui concetto è che «il gran Signor li vuol far trionfanti». Nè solo è l'asino
trionfante, ma l'ozio, perchè l'eterna felicità s'acquista per «fede»,  non  per
«scienze», e non per «opre». Anche dell'ozio hai un panegirico  ironico,  e  per
saggio diamo il seguente sillogismo:

        «Li dèi son dèi, perchè son felicissimi; li felici son felici perchè son
senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non han coloro che  non  si
muovono e alterano; questi son massime quei ch'han seco l'ocio: dunque  gli  dèi
son dèi, perchè han seco l'ocio.»

Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo, il censore  divino,
ne resta intrigato, e dice che «per aver studiato logica in Aristotile non aveva
imparato di rispondere agli argomenti in quarta figura». L'ozio fa  naturalmente
l'elogio dell'età dell'oro, la sua età, il suo regno, e cita  i  bei  versi  del
Tasso:

        ... ... legge aurea e felice,
        che natura scolpì: «S'ei piace, ei lice».

E finisce con questa esortazione:

        Lasciate le ombre, ed abbracciate il vero,
        non cangiate il presente col futuro.
        Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
        mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
        Avviso non fu mai di saggio e scaltro,
        perdere un ben per acquistarne un altro.
        A che cercate sì lunge diviso,
        se in voi stessi trovate il paradiso?

L'ozio e l'ignoranza sono i caratteri della  vita  ascetica  e  monacale,  della
quale Bruno aveva avuto esperienza.

        «[La libertade], - fa egli dire a Giove - quando verrà ad essere ociosa,
sarà frustratoria e vana, come indarno è l'occhio che non vede, e mano  che  non
apprende. Ne l'età... dell'oro per l'ocio gli uomini non erano più virtuosi, che
sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che  molte  di
queste.»

Bruno rigetta quella vita  oziosa,  che  fu  detta  «aurea»,  e  ch'egli  chiama
«scempia», fondata sulla passività dell'intelletto e della volontà,  e  non  può
parlarne senz'aria di beffa. Il soprannaturale è incalzato ne' suoi  princìpi  e
nelle sue conseguenze.
        Secondo la morale di Bruno il lume  naturale  viene  destato  nell'anima
dall'amore del divino, o dal principio formale aderente alla materia, e  per  il
quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia è cosa  bestiale  e
volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti, lodatori  di  donne
per ozio e per pompa d'ingegno, a quel modo che altri «han  parlato  delle  lodi
della mosca, dello scarafone, dell'asino, de  Sileno,  de  Priapo,  scimmie  de'
quali son coloro che han poetato a' nostri tempi - dic'egli - delle  lodi  degli
orinali, della piva, della fava, del  letto,  delle  bugie,  del  disonore,  del
forno, del martello, della carestia, della peste». Obbietto dell'amore eroico  è
il divino, o il formale: la bellezza divina «prima si comunica alle anime,  e...
per quelle... si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama... la
corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello
che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la  qual
si chiama 'bellezza', la qual non consiste nelle dimensioni maggiori  o  minori,
non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri
e  colori.»  L'amore  sveglia  nell'anima  il  lume  naturale,  o   la   visione
intellettiva, la luce intellettuale, e la tiene in istato di contemplazione o di
astrazione, sì che pare insana e furiosa, come posseduta dallo  spirito  divino.
Questo è non il volgare, ma l'eroico furore, per il quale  l'anima  si  converte
come Atteone in quel che cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo  contratta  in
sè la divinità, non è necessario che la cerchi fuori di sè. «Però ben si dice il
regno di Dio essere in noi, e la divinitade  abitare  in  noi  per  forza  della
visione intellettuale. Non tutti gli  uomini  hanno  la  visione  intellettuale,
perchè non tutti hanno l'amore eroico; ne' più domina non la mente, che  innalza
a cose sublimi, ma l'immaginazione, che abbassa alle cose  inferiori;  e  questo
volgo concepisce l'amore a sua immagine:

        fanciullo il credi, perchè poco intendi;
        perchè ratto ti cangi, e' par fugace;
        per esser orbo tu, lo chiami cieco.

L'amore eroico è proprio delle nature superiori, dette «insane», non perchè  non
sanno, ma perchè «soprasanno», sanno più dell'ordinario, e tendono più alto, per
aver più intelletto.
        La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca, come
ne' mistici e ascetici: Dio è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi.  E
non ci viene dal di fuori, ma ci è data  dalla  forza  dell'intelletto  e  della
volontà,  che  sono  tra  loro  in  reciprocanza  d'azione:  l'intelletto,  che,
suscitato  dall'amore,  acquista  occhio  e  contempla;  e   la   volontà   che,
ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace, o doppiata: ciò che Bruno
esprime con la formola: «io voglio volere».  Dalla  contemplazione  esce  dunque
l'azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è  «intelletto  e  atto  mediante
l'amore», secondo la formola  dantesca  rintegrata  da  Bruno:  è  intendere  ed
operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità della vita, e più intensa è
la volontà, perchè amore è unità e amicizia de' contrari, o  degli  oppositi,  e
nel contrasto cerca la concordia. La mente è unità,;l'immaginazione  è  moto,  è
diversità; la facultà razionale è in mezzo, composta di tutto, in  cui  concorre
l'uno con la moltitudine, il  medesimo  col  diverso,  il  moto  con  lo  stato,
l'inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in forme basse e  aliene,  o
per sentimento della propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso
eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina  beltà  e  bontà,  con
l'ale dell'intelletto e volontà intellettiva s'innalza alla divinità,  lasciando
la forma di soggetto più basso:

        da soggetto più vil divegno un dio...
        Mi cangio in Dio da cosa inferiore.

«Cangiarsi in Dio» significa levarsi dalla moltitudine all'uno, dal diverso allo
stesso,  dall'individuo  alla  vita  universale,  dalle   forme   cangianti   al
permanente, vedere e volere nel tutto l'uno e nell'uno il tutto. O,  per  uscire
da questa terminologia, Dio è verità e  bontà  scritta  al  di  dentro  di  noi,
visibile per lume naturale; e cercarla e possederla è la perfezione  morale,  lo
scopo della vita.
        È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e  deciso.  La
filosofia è in lui  ancora  in  istato  di  fermentazione.  Hai  i  vacillamenti
dell'uomo nuovo, che  vive  ancora  nel  passato  e  del  passato.  Combatte  il
soprannaturale, ma il suo lume naturale, la  sua  «mens  tuens»,  la  sua
intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio  nella
infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano, e  non  sa  che
farsene, rimasto come un antecedente inconciliato della  sua  speculazione.  Ora
quel Dio è verità  e  sostanza,  e  noi  siamo  sua  ombra,  «umbra  profunda
sumus»; ora quel Dio è proprio la natura, o, «se  non  è  natura,  è  natura
della natura». Ci è in lui confuso Cartesio, Spinosa e Malebranche. Combatte  la
scolastica, e ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora,
a sentirlo, è più mistico di un santo padre. Rigetta l'immaginazione,  e  ne  ha
tutt'i vizi e tutte le forme. Manca l'armonia nel  suo  contenuto  e  nelle  sue
forme. E non è maraviglia  che  anche  oggi  i  filosofi  si  accapiglino  nella
interpretazione del suo sistema.
        Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle
sue distinzioni e sottigliezze, e nelle oscillazioni del suo  sviluppo;  anzi  è
questa la sua vera biografia. Niente è più drammatico che la vita  interiore  di
un grande spirito nella sua lotta con l'educazione, co' maestri, con gli  studi,
col tempo, co' pregiudizi, nelle sue imitazioni, fluttuazioni e  resistenze.  La
sua grandezza è appunto in questo, di vincere in quella lotta, cioè che di mezzo
a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze
predilette, che gli danno un carattere ed una fisonomia. E questa  fisonomia  di
Bruno noi dobbiamo cercare, a traverso i suoi ondeggiamenti.
        Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso, cioè il
sentimento dell'infinito e del divino,  com'è  di  ogni  spirito  contemplativo.
Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti,  se  Dio
è, e cosa è. Perchè lo senti in te, e appresso a te, nella tua coscienza e nella
natura. Dio è «più intimo a te che non sei tu a te stesso». Tutte  le  religioni
non sono in fondo che il divino in diverse forme. E sotto questo  aspetto  Bruno
ti fa un'analisi assai notevole delle religioni antiche  e  nuove.  L'amore  del
divino, il «furore eroico», è il carattere delle nobili nature. E  questo  amore
ci rende atti non solo a contemplare Dio come verità, ma  ancora  a  realizzarlo
come bontà. Ivi ha radice la scienza e la morale.
        Questi concetti non  sono  nuovi,  e  di  simili  se  ne  trovano  nella
Scrittura e ne' padri. Ma lo spirito n'è nuovo. Non è solo questo, che «i  cieli
narrano la gloria di Dio», ma  quest'altro,  che  i  cieli  sono  essi  medesimi
divini, e si movono per virtù propria, per la loro  intrinseca  divinità.  È  la
riabilitazione della materia o della natura, non  più  opposta  allo  spirito  e
scomunicata, ma fatta divina, divenuta «genitura di  Dio».  È  il  finito  o  il
concreto che apparisce all'infinito, e lo realizza, gli dà l'esistenza. O,  come
dicesi oggi, è il Dio vivente e  conoscibile  che  succede  al  Dio  astratto  e
solitario. L'universo, eterno ed infinito, è la vita o la storia di Dio.
        Questo è ciò che fu detto il «naturalismo di  Bruno»,  o  piuttosto  del
secolo, ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze
scolastiche, o, come dice Bruno, «dalle credenze e dalle fantasie», e cercava la
sua base nel concreto e nel finito era la prima voce della natura  che  scopriva
se stessa e si proclamava di essenza divina, una e  medesima  che  la  divinità,
«secondo che l'unità è distinta nella  generata  e  generante,  o  producente  e
prodotta». Bruno nel suo entusiasmo per la natura divina  dice  che  lo  spirito
eroico

«vede l'anfitrite, il fonte di tutti i numeri,  di  tutte  specie,  di  tutti  i
raggioni, che è la monade, vera essenza dell'essere di tutti, e, se non la  vede
in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura, che gli è  simile,
che è la sua imagine: perchè dalla monade, che è la divinitate,  procede  questa
monade, che è la natura, l'universo, il mondo, dove [ella]  si  contempla  e  si
specchia»

cioè dove s'intende ed è intelligibile.
        Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico, non ha  nulla  a
fare col lume soprannaturale, con la fede, o la grazia, o l'estasi, o altro  che
dal di fuori piova nell'anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene materia
della cognizione, e l'anima effettua la sua unione con lui per un atto della sua
energia, per intrinseca virtù. La visione è intellettiva, e il suo organo  è  la
mente, dove Dio, o la Verità, si rivela, come «in propria e viva sede», a quelli
che la cercano, «per forza del riformato intelletto  e  volontà»,  cioè  per  la
scienza.
        L'amore del divino, spinto sino  al  «furore  eroico»,  lega  Bruno  co'
mistici. Il naturalismo letterario era pretto materialismo, che si sciolse nella
licenza e nel  cinismo,  e  mise  capo  in  ozio  idillico  snervante,  peggiore
dell'ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno  era  al  contrario  non  il  divino
materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in  se  stessa  è  volgare
bestialità; essa ha valore come divina. Il divino non è infuso o intrinseco,  ma
è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della  vita.  E
non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo conquistano col  lavoro  della
mente illuminata dall'amore eroico. Ciò distingue i vulgari da' nobili  spiriti.
Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. «Molti rimirano, pochi  vedono.»  Bruno
parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica,  che  ti  pare  un
Dante o un san Bonaventura.
        Ma i mistici sono semplicemente  contemplanti,  dove  per  Bruno  non  è
contemplazione nella quale non sia azione, e non è azione nella  quale  non  sia
contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è  operare.  Si  vede
l'uomo che esce dal convento ed entra nella vita militante.
        Folengo esce dal convento, rinnegando  Dio  e  sputando  sul  viso  alla
società. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima  espressione.
Anche a Bruno abbonda la satira e l'ironia; anche in lui ci è un lato negativo e
polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d'immaginazione.  Ma  questo  lato
rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo è  tutto  positivo:  è  la
restaurazione di Dio, e con esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò
che Savonarola tentò con la fede e con l'entusiasmo, egli tenta con la  scienza.
Non accetta Dio come gli è dato, nè se ne rimette alla fede,  perchè  non  è  un
credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività  intellettuale,
con l'occhio della mente.  E  questo  Dio,  da  lui  trovato,  e  di  cui  sente
l'infinita presenza in se stesso e  negl'infiniti  mondi  e  in  ciascun  essere
vivente, nel massimo  e  nel  minimo,  non  rimane  astratta  verità  nella  sua
intelligenza, ma scende nella coscienza e penetra  tutto  l'essere,  intelletto,
volontà, sentimento e amore. Comincia  scredente,  finisce  credente.  Ma  è  un
«credo» generato e formato nel suo spirito, non  venutogli  dal  di  fuori.  Per
questo «credo» non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo  a'  suoi
giudici le celebri parole: «Maiori  forsitan  cum  timore  sententiam  in  me
dicitis, quam ego accipiam». Sembra che il suo maggior peccato innanzi  alla
Chiesa sia stata la sua  fede  negl'infiniti  mondi,  come  traspare  da  questa
malvagia ironia dello Scioppio: «Sic ustulatus misere  periit,  renunciaturus
credo, in reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et
impii a romanis tractari solent».
        Insisto su questo  carattere  entusiastico  e  religioso  di  Bruno,  o,
com'egli dice, «eroico», che gli dà la figura di un santo della scienza.  Quante
volte l'umanità, stanca di aggirarsi nell'infinita varietà, sente il bisogno  di
risalire al  tutto  ed  uno,  all'assoluto,  e  cercarvi  Dio,  le  si  affaccia
sull'ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno.
        Il suo supplizio passò così inosservato in Italia, che parecchi  eruditi
lo mettono in dubbio. Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio.  Si  direbbe
che i carnefici insieme col corpo arsero la sua  memoria.  Anche  in  Europa  il
brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e delle dottrine era così
violento, che il gran precursore fu avvolto e oscurato nel turbinìo. Come Dante,
Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo  lavoro  di  analisi
riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela  col  grande
italiano, e riedificarono la sua statua.
        In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza  moderna,  con
le sue più  spiccate  tendenze,  la  libera  investigazione,  l'autonomia  e  la
competenza della ragione,  la  visione  del  vero  come  prodotto  dell'attività
intellettuale,  la  proscrizione  delle  fantasie,  delle   credenze   e   delle
astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico «tendenze»,
perchè nel fatto l'immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui,  e  gli
tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza la quale riesce difettiva
la virtù organizzatrice, e quella pazienza di osservazione e di  analisi,  senza
la quale le più belle speculazioni rimangono infeconde generalità.
        Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto  visibile
e conoscibile nella infinita natura, l'unità e medesimezza di tutti gli  esseri,
l'eternità e l'infinità dell'universo nella perenne metempsicosi delle forme, il
sentimento dell'anima o della vita universale, l'infinita  perfettibilità  delle
forme  nella  loro  trasformazione,  la  produttività  della  materia  dal   suo
intrinseco, l'azione dinamica della natura nelle sue  combinazioni,  la  libertà
distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la  stessa  effettuazione  del
divino o della legge, la moralità e la glorificazione del lavoro, sono  concetti
che, svolti lungamente e  variamente  da  Bruno  in  opere  latine  e  italiane,
appaiono punti luminosi nella speculazione moderna, e  ne  trovi  i  vestigi  in
Cartesio, in Spinosa, in Leibnitz, e più tardi in  Schelling,  in  Hegel  e  ne'
presenti materialisti. Se dovessi con una sola formola caratterizzare  il  mondo
di Bruno, lo chiamerei il «mondo moderno ancora in fermentazione».
        Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I loro carnefici li dissero
atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria, come nel loro petto. - Andiamo a  morir
da filosofo - disse Vanini, avvicinandosi al rogo. Eran detti anche  «novatori»,
titolo d'infamia, che è divenuto il titolo della loro gloria.
        Nel 1599. Bruno era già nelle mani dell'Inquisizione, e Campanella nelle
mani spagnuole. Nel primo anno del Seicento Bruno periva sul rogo, e  Campanella
aveva la tortura. Così finiva l'un  secolo,  così  cominciava  l'altro.  «Tu,
asinus, nescis  vivere»,  dicevano  a  Campanella  amici  e  nemici:  «ne
loquaris in nomine Dei». E lui prendeva ad insegna una campana, con  entrovi
l'epigrafe: «Non tacebo». Anche  Bruno  diceva  di  sè:  «Dormitantium
animorum excubitor». La  nuova  scienza  sorge  come  una  nuova  religione,
accompagnata  dalla  fede  e  dal  martirio.  «Philosophus»   diceva   il
Pomponazzi per esperienza propria «ab omnibus irridetur, et  tamquam  stultus
et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus  prosequitur,  fit  spectaculum  vulgi:
haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum  merces».  Pure  questi
uomini nuovi derisi,  perseguitati,  spettacolo  del  volgo,  avevano  una  fede
invitta nel trionfo delle loro dottrine. L'accademia cosentina di  Telesio  avea
per impresa la luna crescente, col motto: «Donec  totum  impleat  orbem».
Bruno, perseguitato dal suo secolo, diceva: - La morte in un secolo fa  vivo  in
tutti gli altri. - Campanella paragona il  filosofo  al  Cristo,  che  il  terzo
giorno, spezzando la pietra, risorge. Il carattere era pari all'ingegno.  Dietro
al filosofo ci era l'uomo.
        Telesio è detto da Bacone il «primo degli uomini nuovi».  Ma  la  novità
era già antica di un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studi a  Padova,  a
Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di  persecuzioni,
deliberò di ritrarsi nella nativa  Cosenza,  vi  portò  il  motto  del  pensiero
italiano, la «filosofia naturale», fondata sull'esperienza e  sull'osservazione.
Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra'  suoi
concittadini e di aver  fondata  sotto  nome  di  «accademia»  una  vera  scuola
filosofica. Come Machiavelli, così egli non segue altro che l'osservazione e  la
natura: «poichè la sapienza umana è  arrivata  alla  più  alta  cima  che  possa
afferrare, se ha osservato quello che si presenta a' sensi, e ciò che può  esser
dedotto per analogia dalle percezioni sensibili».  Sincero,  modesto,  d'ingegno
non grande ma  di  grandissima  giustezza  di  mente  e  di  sano  criterio,  fu
benemerito meno per le sue dottrine, che per il metodo ed il  linguaggio.  E  in
verità, la grande e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo
ha fatto Campanella in queste parole:  «Telesius  in  scribendo  stylum  vere
philosophicum solus servat, iuxta verum naturam sermones significantes  condens,
facitque  hominem  potius  sapientem  quam   loquacem».   L'obbiettivo   era
sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile,  «tiranno  degl'ingegni»,  e
metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò che con una
precisione uguale alla concisione dice  Campanella  nel  suo  famoso  sonetto  a
Telesio:

        Telesio, il telo della tua faretra
        uccide de' sofisti in mezzo al campo
        degl'ingegni il tiranno senza scampo:
        libertà dolce alla verità impetra.

L'impresa non era lieve. Resistevano  tutte  le  dotte  mediocrità,  tutto  quel
complesso di uomini e d'istituzioni che l'Aretino chiamava  «la  pedanteria»,  i
«Polinnii» di Bruno spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti, e  spesso
l'ultimo argomento era il rogo, il carcere, l'esilio. Dir cose nuove era delitto
non solo alla Chiesa, ma a' principi venuti in sospetto  di  ogni  novità  nelle
scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale,  e  «Renovabitur»
fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che  scrisse  della
sua dottrina. Si era fino allora pensato col capo d'altri: gli  uomini  volevano
ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile, che
la novità usciva anche da' segreti del convento. Fu là che si  formò  ne'  forti
studi libera e ribelle l'anima di  Bruno.  E  là,  in  un  piccolo  convento  di
Calabria, si educava a libertà l'ingegno di  Tommaso  Campanella.  Assai  presto
oltrepassò gli studi delle scuole, e, fatto maestro di sè,  lesse  avidamente  e
disordinatamente tutti quei libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si
fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto  lo
scibile. Il suo idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era  Aristotile
con tutto il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi  filosofi  greci,
massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già  conoscevano  l'uomo,
non vollero permettergli di udire, nè di veder  Telesio:  ciò  che  infiammò  il
desiderio e l'amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla
bara il giovine frate, che dovea  continuarlo.  I  cosentini,  sentendolo  nelle
dispute, dicevano che in lui era  passato  lo  spirito  di  Telesio.  La  scuola
telesiana o riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il  Bombino,  il
Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu
una difesa di Telesio contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la  stampa
dell'opera, attirò l'attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l'agilità e
la presenza dello spirito, per la franchezza delle  opinioni,  e  per  l'immenso
sapere. E gl'invidiosi dicevano: - Come sa di lettere costui,  che  mai  non  le
imparò? - E recavano a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto  di
studi solitari. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il  buon
Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a
disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente,
si strinse un legame tra Campanella e l'autore  della  Magia  naturale  e
della Fisionomia. Disputavano,  leggevano,  conferivano  i  loro  lavori.
Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum, a cui successe
l'altro: De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via  si  giunga  a
ragionare «col solo senso e colle cose che si conoscono pe' sensi»: ciò che è il
metodo sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si  vede  l'influenza  di
Telesio, di Porta e di tutta la scuola riformatrice.
        Porta potè esser tollerato a Napoli, perchè era non  solo  gentiluomo  e
assai riverito, ma uomo di spirito, e  amabilissimo.  Ma  Campanella  non  sapea
vivere, come dicevano i suoi emuli. Era tutto di  un  pezzo,  e  alla  naturale,
veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E venne in uggia a  moltissimi,
e anche ai suoi frati, che non gli potevano perdonare l'odio contro  Aristotile.
Come Bruno, lasciò il convento, e indi a non molto Napoli, e con in capo già una
nuova metafisica tutta abbozzata, fu a Roma, poi  a  Firenze,  dove  il  destino
faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo, Campanella e Galilei.
        Michelangiolo moriva, e tre giorni  prima,  il  15  febbraio  del  1564,
nasceva  in  Pisa  Galileo  Galilei.  Tutto  gli  rise  nel  principio,   levato
maraviglioso grido di sè per le sue invenzioni della misura del tempo per  mezzo
del pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con questo
potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche, che  rinnovavano  il
cielo biblico e tolemaico.  Parecchi  fatti,  divinati  da  Bruno,  acquistavano
certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il suo Nunzio sidereo appariva
così maraviglioso, come il viaggio di Colombo. Le montuosità della luna, le fasi
di Venere e di Marte, le macchie del sole,  i  satelliti  di  Giove  erano  tali
scoperte a breve distanza, che spoltrivano gli  animi  oziosamente  cullati  ne'
romanzi e nelle oscenità letterarie. La filosofia  naturale  vinceva  oramai  le
ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava più  d'ipotesi  e  di
astratti ragionamenti. I fatti erano là, e parlavano più alto che  i  sillogismi
de' teologi e degli scolastici. La  cosa  effettuale  di  Machiavelli,  il  lume
naturale di Bruno, il metodo sperimentale di  Telesio,  la  libertà  dolce  alla
verità di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle parole di Galileo:  -
«Ah viltà inaudita d'ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio!» -. Il buon
Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, risponde: -  «Ma,  quando  si
lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta  nella  filosofia?»  -.  E  Galileo
replica pacatamente: - «...I ciechi solamente hanno bisogno di guida.. Ma chi ha
gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta» -.
Il lume soprannaturale, la scienza occulta, il mistero, il  miracolo  scompariva
innanzi allo splendore di questo lume naturale dell'occhio  e  della  mente:  la
magia, l'astrologia, l'alchimia, la cabala sembravano  povere  cose  innanzi  a'
miracoli del telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo  cielo.
Sulle rovine delle scienze occulte  sorgevano  l'astronomia,  la  geografia,  la
geometria, la fisica, l'ottica, la meccanica, l'anatomia. E tutto questo era  la
filosofia naturale, il naturalismo. - «La filosofia - diceva Galileo - è scritta
nel libro grandissimo della natura.» - E stupendamente diceva Campanella:

        Il mondo è il libro, dove il Senno eterno
        scrisse i propri concetti.

Campanella nacque il 1568, quattro anni  dopo  Galileo.  Si  videro  a  Firenze:
Galileo  già  famoso,  in  grazia  della  Corte,  professore,  con  un  concetto
dell'universo e della scienza  chiaro,  intero,  ben  circoscritto:  Campanella,
oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria
di avventuriere che cerchi fortuna, più che di un savio  tranquillo  e  riposato
nella scienza. Cercò una cattedra. - Chi è costui? - E  il  Granduca  chiese  le
informazioni al generale di San Domenico, il quale rispose: «Alquanto differente
relazione tengo io del padre fra Tommaso Campanella di quella è  stata  fatta  a
Vostra  Altezza...  io  farò  prova  del   valore   e   sufficienza   sua».   Le
raccomandazioni di Galileo non valsero contro l'ira domenicana.  Campanella  non
riuscì, e la ragione è detta da Baccio Valori:

        «Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia del Telesio,
con colore che la pregiudichi alla teologia scolastica fondata in Aristotile  da
lui così riprovato, corre qualche risico conseguente [Tommaso Campanella]  della
medesima scuola, e per avventura  il  più  terribile  per  eccellenza  de'  suoi
concetti, che veramente sono e alti e nuovi.»

        Campanella aveva  allora  ventiquattro  anni.  L'indomabile  giovane  si
vendicò, scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva già  scritto  un  trattato
De sphaera Aristarchi, dove  sostiene  l'opinione  copernicana  del  moto
della terra. Vagheggiava una scienza universale, col titolo  De  universitate
rerum, che diventò più tardi la sua Philosophia realis. A  lui  dovea
parere molto modesto Galileo, che lasciava da banda  teologia  e  metafisica  ed
ogni  costruzione  universale,  contento  ad  esplorar  la   natura   ne'   suoi
particolari. E gli scriveva: «Invero  non  si  può  filosofare,  senza  un  vero
accertato sistema della costruzione de' mondi, quale da lei  aspettiamo:  e  già
tutte le cose sono poste in dubbio,  tanto  che  non  sapemo  se  il  parlare  è
parlare».  Domandava  egli  a  Galileo  una  riforma  dell'astronomia  e   della
matematica sublime, una vera filosofia naturale. «Scriva pel primo» diceva  «che
questa filosofia è d'Italia, da Filolao e Timeo in parte,  e  che  Copernico  la
rubò da' predetti e dal ferrarese suo maestro; perchè è  gran  vergogna  che  ci
vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche». Ma Galileo rimase
fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue  ipotesi;  ma  gli
parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile, e  attenersi
a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch'ei  non  volea
«per alcun modo, con cento e più proposizioni  apparenti  delle  cose  naturali,
screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole da  lui  ritrovate,  e  che
sapeva per dimostrazione esser vere». Stavano a fronte la saviezza fiorentina  e
l'immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura  toscana,
già chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e la cultura meridionale, ancor
giovane e speculativa, e in tutta l'impazienza e l'abbondanza della  giovanezza.
In Galileo si sente Machiavelli;  e  in  Campanella  si  sente  Bruno.  Vedi  la
differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di
Galileo, vi trova subito l'impronta della coltura toscana  nella  sua  maturità,
uno stile tutto cosa e tutto pensiero, scevro di  ogni  pretensione  e  di  ogni
maniera, in quella forma diretta e propria, in che è l'ultima  perfezione  della
prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilità, anzi  tra'  suoi  baciamano
penetra un'aria di  dignità  e  di  semplicità,  che  lo  tiene  alto  su'  suoi
protettori. Non cerca eleganza, nè vezzi, severo e schietto, come  uomo  intento
alla sostanza delle cose,  e  incurante  di  ogni  lenocinio.  Ma  se  causa  le
esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la forza di rinnovare quella forma
convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d'uso,  frondoso  e
monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall'abitudine,
pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto.  Al  contrario  in
Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale,  senza  fisonomia;
ma ne' suoi balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi
ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente; non una formazione
organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata innanzi e riprodotta,
spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità: qui vedi una lingua  ancora
mobile e in formazione, con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno
sembrano scritte oggi.
        Ma  saviezza  fiorentina  e  immaginazione  napoletana  erano  del  pari
sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della natura era libro proibito, e  chi  vi
leggeva era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a  Padova,
a Bologna, a Roma, co' suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre  per  sè  e
per altri, in verso e in prosa, in latino e  in  italiano,  trattati,  orazioni,
discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i  manoscritti.  E  che  importa?
Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna
a Napoli, e va a prender fiato a  Stilo  sua  patria.  Ivi  sperava  riposo;  ma
«accadde a me quello che  dice  Salomone:  quando  l'uomo  avrà  finito,  allora
comincerà; quando riposerà, sarà affaticato».  Ivi  cominciarono  i  suoi  guai.
Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà condotto  nelle  prigioni  di
Napoli. Chiarito innocente  di  un'accusa,  se  ne  suscitava  un'altra,  perchè
«gl'iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente». - Come  sai
tu le lettere, se non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. - «Ma io -
rispose il prigioniero - ho consumato più d'olio che voi di vino.» - Lo si  fece
autore del libro  De  tribus  impostoribus,  Mose,  Christo  et  Mahumed,
stampato trent'anni  prima  ch'ei  nascesse.  Fu  detto  che  voleva  fondar  la
repubblica con l'aiuto de' turchi, e  che  era  un  eretico,  e  aveva  dottrina
pericolosa, e non credeva  a  Dio.  Invano  scrisse  Della  monarchia,  e
l'Ateismo vinto, e la Disputa antiluterana. Fu condannato da  Roma
e da  Spagna,  ribelle  ed  eretico,  e  tenuto  in  prigione  ventisette  anni,
sottoposto alla tortura sette volte.

        «Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell'eculeo mi  lacerò
le ossa..., e la terra bevve dieci libbre del mio sangue...: risanato  dopo  sei
mesi, in una fossa fui seppellito, ove non è nè  luce,  nè  aria,  ma  fetore  e
umidità e notte e freddo perpetuo. »

        Dopo dodici anni di tali martìri fa questo triste  inventario  de'  suoi
mali:

        Sei e sei anni che in pena dispenso
        l'afflizion d'ogni senso,
        le membra sette volte tormentate,
        le bestemmie e le favole de' sciocchi,
        il sol negato agli occhi,
        i nervi stratti, l'ossa scontinuate,
        le polpe lacerate,
        i guai dove mi corco,
        li ferri, il sangue sparso e il timor crudo
        e il cibo poco e sporco.

Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose.
        I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo piissimo,  chiuso  ne'
suoi studi matematici; era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno,  che  di
quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col  suo  ingegno  libero  e
speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi e  spiegazione  de'
fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano  sempre  cura  di  aggiungere:
«salva la fede». Così il libro di Copernico, dedicato a Paolo terzo,  fu  tenuto
innocuo per  ottanta  anni.  Ma  la  sua  dottrina  si  diffondeva  celeremente,
propugnata da Bruno, da Campanella, da Galileo e da Cartesio, che si preparava a
farne una dimostrazione matematica. Il libro  di  Copernico  parve  allora  cosa
eretica, e fu condannato, essendo cosa più  facile  scomunicare  che  confutare.
Cartesio pose a dormire la sua dimostrazione. Il povero  Galileo,  processato  e
torturato, dovette confessare che «Terra stat  et  in  aeternum  stabit»,
ancorchè la sua coscienza rispondesse: - Eppur si muove. - E  la  sua  scrittura
sulla mobilità della terra mandò al Granduca con  queste  parole,  ritratto  de'
tempi:

        «Perchè io so quanto convenga obbedire e credere alle determinazioni de'
superiori, come quelli che sono scorti da più alte  cognizioni,  alle  quali  la
bassezza del mio ingegno per  se  stesso  non  arriva,  reputo  questa  presente
scrittura che gli mando, come quella che è fondata sulla mobilità  della  terra,
ovvero che è uno degli argomenti che io produceva in sostegno di essa  mobilità,
la reputo, dico, come una  poesia,  ovvero  un  sogno,  e  per  tale  la  riceva
l'Altezza Vostra.»

        Altrove la chiama una «chimera», un «capriccio matematico»,  e  nasconde
la verità, come fosse un delitto o una vergogna. Di  quest'accusa  e  di  questo
processo giunse notizia a  Tommaso  Campanella,  e  fra'  tormenti  del  carcere
scrisse l'apologia di Galileo.
        Galileo fu  lasciato  vivere  solitario  in  Arcetri,  già  rifugio  del
Guicciardini, dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista  e  poi
la vita. Morì nel 1642, l'anno stesso che nacque Newton. L'anno dopo Torricelli,
suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva Campanella  in  Francia
dov'erasi rifuggito, e dove potè pubblicare la sua filosofia.
         A  Galileo  chiusero  gli  occhi  i  discepoli.  Le  sue  scoperte   ed
osservazioni diedero un impulso straordinario alle scienze, e formarono  attorno
a lui una scuola di filosofi naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli,
Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma  per  bontà  di  scrivere.
Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto
Magno e Ruggiero Bacone: Galileo ripigliava la bandiera con miglior  fortuna.  E
l'Italia, maestra di Europa nelle lettere e nelle arti, aveva ancora il  primato
nelle scienze positive,  o,  come  dicevasi,  nella  «filosofia  naturale».  Qui
venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il moto della  terra,
e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui  sorgeva  l'accademia  del
Cimento,  dove  «provando  e  riprovando»  si  studiava  la  natura.  Geografia,
astronomia, anatomia, medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria,  algebra
ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare
Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, già finito e chiuso
in sè, e Lorenzo Magalotti, di una limpidezza già vicina alla forma moderna.
        Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista,  e  crede
che la filosofia non si possa fondare che su' fatti. Onde Galileo tirava  questa
conseguenza, che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza  di
fatti naturali, morali, sociali ed economici,  in  tante  lacune  delle  scienze
positive filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi
greci, con l'immaginazione divinatrice, ed avere per risultato l'ipotetico e  il
probabile, anzi che il certo e il vero. Questo, pensava Galileo, non è  scienza.
Pure è chiaro che una certa idea del mondo l'avevano anche i filosofi  naturali,
e che quel medesimo porre  le  fondamenta  della  scienza  sull'osservazione,  e
tagliarne fuori le credenze e le fantasie, era già mettere  in  vista  un  mondo
metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro di gravità  dello
scibile a spese del Dio astratto, o, per parlare secondo quei tempi,  Dio  fatto
visibile e conoscibile nella natura,  un  Dio  intimo  e  vivo.  Questo  era  il
significato stesso di quel movimento che tirava  gli  spiriti  dalle  astrazioni
scolastiche alla investigazione de' fatti naturali; e  Bruno  e  Campanella  non
fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica  e  fondarvi  sopra
tutta una filosofia. Se necessario fu Galileo, non fu meno  necessario  Bruno  e
Campanella. Un nuovo  mondo  si  formava,  una  nuova  filosofia  era  in  vista
all'orizzonte con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era  quella  sintesi
poetica e provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la divinazione
dell'ultima sintesi, risultato di una lunga analisi,  e  corona  della  scienza.
Quella prima sintesi te la dànno Bruno  e  Campanella,  appassionatissimi  degli
antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano.
        È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora
più accentuata in Campanella che in  Bruno.  Trovi  in  lui  scienze  occulte  e
scienze  positive,  soprannaturale  e  naturale,  medio  evo   e   Rinascimento,
tradizione e ribellione, assolutismo e libertà, cattolicismo e  razionalismo,  e
mentre combatte, come Bruno, le credenze e  le  fantasie,  nessuno  più  di  lui
dommatizza e fantastica.  Pongono  in  opera  tutto  quel  materiale  che  hanno
innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione  e  di  analisi,  senza  il
quale è impossibile la composizione.  Hanno  fede  nell'ingegno,  e  si  mettono
all'opera con l'ardore di una speciale vocazione, si  sentono  attirati  da  una
forza fatale verso quelle alte regioni, verso l'infinito o il divino, a  rischio
di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno,  o  all'anonimo  autore,  questo  sublime
sonetto:

        Poi che spiegate ho l'ali al bel desio
        quanto più sott'il piè l'aria mi scorgo
        più le veloci penne all'aria porgo,
        e spregio il mondo e verso il ciel m'invio.

        Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
        fa che giù pieghi, anzi via più risorgo:
        ch'i' cadrò morto a terra, ben mi accorgo;
        ma qual vita pareggia al viver mio?

        La voce del mio cor per l'aria sento:
         - Ove mi porti, temerario? China,
        chè raro è senza duol troppo ardimento.

         - Non temer - rispond'io - l'alta ruina:
        fendi sicur le nubi, e muor' contento,
        se il ciel si illustre morte ne destina. -

Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione. Si  chiama  «luce  tra
l'universale ignoranza», «fabbro di un mondo nuovo», «Prometeo  che  rapisce  il
fuoco sacro a Giove»:

        Con vanni in terra oppressi al ciel men' volo
        in mesta carne d'animo giocondo;
        e se talor m'abbassa il grave pondo,
        l'ale pur m'alzan sopra il duro suolo.

Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava  formando,  e
ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva età dell'oro,  l'attuazione  del
divino sulla terra, il regno di Dio,  invocato  nel  «paternostro»,  quel  mondo
della pace e della giustizia appresso al quale sospirava Dante  e  molti  nobili
intelletti Bruno  rimane  nelle  generalità  metafisiche.  Campanella  abbraccia
l'universo nelle sue più varie  apparizioni,  e  ti  delinea  tutto  quel  mondo
ideale, di cui spera l'effettuazione.
        Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione  tutti
gl'indirizzi percorsi dalla  moderna  filosofia.  Il  punto  di  partenza  è  la
coscienza di sè, «io, che penso, sono», divenuto la base del sistema cartesiano.
Questa è la sola  cognizione  innata,  occulta:  tutto  il  resto  è  cognizione
acquisita per mezzo de' sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio  non  solo
come metodo, ma come contenuto. Tutte le cose sono animate; il  mondo  stesso  è
«animal grande e perfetto». In ciascuna cosa è la divina Trinità, i tre princìpi
o «primalità», com'egli dice, potenza, sapienza e amore. Ciascuna  cosa  che  è,
può essere: ama il suo essere, e lo ama perchè  lo  conosce,  ne  ha  una  certa
notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne.  L'animale
pensa come l'uomo; ha fino la facoltà dell'universale. Ci si vede in germe Locke
e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà  propria  dell'uomo,  e  negata
all'animale, il sentimento religioso. Perciò, quando  il  corpo  è  formato,  vi
entra l'anima, che esce «fanciulla dalle mani di Dio», come dice Dante.  L'anima
è la facoltà del divino, o, come si direbbe oggi, dell'assoluto. Ella ti  dà  la
contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa facoltà  dell'assoluto,
e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò che entra nella mente o  visione
di Bruno) ma è intuito, estasi, fede, un ponte fatto  alla  rivelazione  e  alla
teologia, uno studio di conciliazione tra il medio evo e il mondo  moderno.  Qui
vedi spuntare la moderna  filosofia  dell'assoluto  nel  suo  doppio  indirizzo,
razionalista e neocattolico. Tutte le idee e tutti gl'indirizzi, che anche  oggi
agitano le coscienze, fermentano nel suo cervello.
        Come Bruno, Campanella non ha il senso  del  reale  e  del  naturale;  e
neppure ha il senso  psicologico,  ancorchè  parli  spesso  di  coscienza  e  di
esperienza, e le faccia basi del  suo  filosofare.  Aveva  al  contrario  quella
seconda vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non  scrutata,  non
compresa e non disciplinata, ch'egli confonde con l'estasi e col puro intuito, e
che lo gitta in braccio alla teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte.
Cerca una conciliazione tra' due uomini che pugnavano in lui, l'uomo di  Telesio
e l'uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza riuscire ad altro che a
mettere  in  maggior  lume  la  contraddizione.  Perciò  il  suo  metodo  rimane
scolastico, cumulo di argomenti astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio
riesce  a  san  Tommaso.  Attendendo  da  Galileo  la  costruzione  del   mondo,
provvisoriamente crede all'astrologia e alla magia, e oggi gli  spiritisti  e  i
magnetisti lo chiamano loro precursore.
        Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontà  di
Dio: atto conforme al disegno o all'idea del mondo preordinato nella sua  mente,
perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo, e per  esso  il  papa
che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è l'imperatore. Qui siamo con  san
Tommaso nel più puro medio evo, ancora più indietro di Dante e  di  Machiavelli,
perchè l'elemento laico è sottoposto all'ecclesiastico. E si concepisce come  il
nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli, uomo «senz'alcuna specie
di scienza e di filosofia, semplice storico o empirico», che voleva  fare  della
religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch'egli è  più
Machiavelli  del   Machiavelli,   perchè   nessuno   ha   spinto   così   avanti
l'annichilamento dell'individuo e l'onnipotenza dello  Stato  nella  sua  doppia
forma, ecclesiastica e laica.  In  quel  tempo  che  la  monarchia  assoluta  si
sviluppava nella Spagna e nella Francia col favore e l'appoggio del papato, egli
era la voce dell'assolutismo europeo, e  ci  mettea  una  sola  condizione:  che
quell'assolutismo fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai
il vecchio quadro del medio evo, con  tinte  ancora  più  decise.  Egli  dice  a
Filippo: - I re sieno tuoi sudditi, e la terra sia  tua,  a  patto  che  tu  sii
veramente «il cattolico», primo suddito della Chiesa. - Questa  è  la  carta  di
alleanza fra il trono e l'altare. L'Italia ha perduto l'imperio del mondo, nè ci
si può più pensare, perchè il passato non torna più; ma l'Italia  si  consolerà,
perchè ha nel suo seno il papato, e per esso dominerà ancora il mondo. Che  cosa
è l'individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri, non ha dritti. Non ha il
dritto di scegliersi la sua donna, di crearsi la sua proprietà,  di  educare  ed
istruire la sua prole, di mangiare, di  dormire,  di  vivere  a  suo  gusto,  di
esaminare, discutere, accettare o rigettare: non può dire: - Questo è mio  -;  e
non può dire: - No. - Il  dritto  è  nella  società,  e  per  essa  nel  papa  e
nell'imperatore. Hai per risultato il comunismo, l'assolutismo della  società  e
l'ubbidienza passiva dell'individuo. Il comunismo è  in  fondo  a  tutte  queste
teorie di monarchia universale e assoluta, di dritto  divino,  e  Campanella  va
sino in fondo. Il che sempre avviene quando l'unità è posta  fuori  dell'umanità
in una volontà a lei estrinseca, e quando l'unità rimane astratta, e  tiene  non
in sè, ma dirimpetto a sè il vario  e  il  molteplice.  In  questa  unità  va  a
naufragare ogni particolare, l'individuo, la famiglia, la nazione. Or  questa  è
la filosofia sua, questa è  la  sua  «città  del  sole»,  la  sua  rediviva  età
dell'oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo.  Perchè  Campanella  è  un
riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo
di nome ma di fatto, perchè la ragione governa il mondo. Dio è il Senno  eterno;
il sovrano dee essere anche lui il sapientissimo di tutti. Non è re  chi  regge,
ma chi più sa. Il vero sovrano è la scienza. E l'obbiettivo della scienza  è  il
progresso e il miglioramento dell'uomo. Si maraviglia come si studi a migliorare
la razza cavallina o bovina, e si lasci al caso e al  capriccio  individuale  la
razza umana.  Egli  ha  fede  nel  miglioramento  non  solo  morale,  ma  fisico
dell'uomo, per mezzo della scienza,  applicata  da  un  governo  intelligente  e
paterno. E suggerisce provvedimenti sociali,  politici,  etici,  economici,  che
sono un primo schizzo di scienza sociale  nelle  sue  varie  diramazioni  ancora
confuse, guidato da una rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo delle
cose non nella loro degenerazione, «come fecero Aristotile  e  Machiavelli»,  ma
nella loro origine e purezza natia, «come fecero Platone e gli stoici». E balzan
fuori idee,  utopie,  ipotesi,  speranze,  aforismi,  che  sono  in  parte  veri
presentimenti e divinazioni del mondo nuovo.
        Con tante novità in capo, la società in mezzo a cui si trovava  non  gli
dovea parere una bella cosa. Accetta le  istituzioni,  ma  a  patto  che  le  si
trasformino e diventino istrumento di  rigenerazione.  Vuole  un  papato  ed  un
monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna poco  garbasse  trar
di prigione un così pericoloso alleato, un nuovo marchese di Posa.
        Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque  un  elemento  negativo,  una
critica della società, com'era costituita. Il suo punto di  mira  sono  sofisti,
ipocriti e tiranni, come contraffattori e  falsificatori  delle  tre  primalità,
sapienza, amore e potenza, «di tre dive eminenze falsatori»:

        Io nacqui a debellar tre mali estremi,
        tirannide, sofismi, ipocrisia...

        che nel cieco amor proprio, figlio degno
        d'ignoranza, radice e fomento hanno:
        dunque a diveller l'ignoranza io vegno.

Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia  del  mondo,  foggiata
dall'amor proprio:

        Credulo il proprio amor fe' l'uom pensare
        non aver gli elementi nè le stelle
        (benchè fusser di noi più forti e belle)
        senso ed amor, ma sol per noi girare:

        poi tutte genti barbare ed ignare,
        fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
        poi il restringemmo a que' di nostre celle;
        sè solo alfine ognun venne ad amare,

        e per non travagliarsi il saper schiva;
        poi visto il mondo a' suoi voti diverso,
        nega la provvidenza, o che Dio viva.

        Qui stima senno le astuzie: e perverso,
        per dominar fa nuovi dèi, poi arriva
        a predicarsi autor dell'universo.

Se tutt'i mali sono frutto dell'ignoranza, si comprende il suo entusiasmo per la
scienza e per la sua missione. Il savio è invitto, perchè  vince,  anche  se  tu
l'uccidi:

        S'e' vive, perdi, e s'ei muore, esce un lampo
        di deità dal corpo per te scisso,
        che le tenebre tue non han più scampo.

I guai più spandono suo nome e gloria, e  ucciso  è  adorato  per  santo;  nè  è
sventura eh'ei sia nato di vil progenie e patria, perchè illustra  egli  le  sue
sorti. Più è calpesto, e più s'innalza:

        E il fuoco più soffiato, più s'accende:
        poi vola in alto e di stelle s'infiora.

La sua vita è antica quanto il mondo:

        Ben seimila anni in tutto 'l mondo io vissi:
        fede ne fan le istorie delle genti,
        ch'io manifesto agli uomini presenti
        co' libri filosofici ch'io scrissi.

Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de' corpi

        di scena in scena van, di coro in coro,
        si veston di letizia e di martoro,
        dal comico fatal libro ordinate.

In questa commedia universale l'uomo spesso segue più il caso che la ragione:

        chè gli empi spesso fur canonizzati,
        gli santi uccisi, ed i peggior tra noi
        principi finti contro i veri armati.

Principi veri sono i savi:

        Neron fu re per sorte in apparenza,
        Socrate per natura in veritate...

        Non nasce l'uom con la corona in testa,
        come il re delle bestie...

E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?

        Se a' lupi i savi, che 'l mondo riprende,
        fosser d'accordo, e' tutto bestia fòra.

La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:

        In noi dal senno e dal valor riceve
        esser la nobiltade, e frutta e cresce
        col bene oprare...

Il savio è re, è nobile; il savio  è  libero.  La  plebe  è  serva  per  la  sua
ignoranza:

        Il popolo è una bestia varia e grossa
        che ignora le sue forze...

        Tutto è suo, quanto sta fra cielo e terra:
        ma nol conosce; e se qualche persona
        di ciò l'avvisa, e' l'uccide ed atterra.

Quest'apoteosi della scienza è congiunta con un vivo sentimento del divino, anzi
la scienza non è che il divino, il senno eterno, che comunica alla natura i suoi
attributi o primalità, la potenza, la sapienza e la  bontà,  della  quale  segno
esteriore è la bellezza. Tale era la natura nell'età dell'oro, e tale ritornerà:

        Se fu nel mondo l'aurea età felice,
        ben essere potrà più ch'una volta;
        chè si ravviva ogni cosa sepolta,
        tornando il giro ov'ebbe la radice...

        Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
        nell'util, nel giocondo e nell'onesto,
        cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;

        e 'l cieco amore in occhiuto e modesto,
        l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
        e 'n fratellanza l'imperio funesto.

Base dell'età dell'oro è la  fratellanza  e  uguaglianza  umana,  l'amor  comune
sostituito all'amor proprio:

        ... chi all'amor del comun Padre ascende,
        tutti gli uomini stima per fratelli,
        e con Dio di lor beni gioia prende.
        Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
        «frati appelli»; oh beato chi ciò intende!

È ciò  che  direbbesi  oggi  «democrazia  cristiana»,  un  ritorno  alla  Chiesa
primitiva di Lino e di Callisto, a' puri tempi evangelici, vagheggiati da  Dante
e da Campanella, quando si mangiava in carità, e non ci era ricco nè povero, non
mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose  nella  loro  origine  e  non  nella  loro
degenerazione, il sogno di Campanella è che il mondo  «nel  suo  giro  torni  là
ov'ebbe radice». Il progresso è la ristaurazione del buon  tempo  antico.  Bruno
spregia l'età dell'oro, stato d'innocenza,  alla  quale  contrappone  la  virtù.
Innocenza è ignoranza, virtù è sapienza. Ed è sapienza non infusa  e  comunicata
dal di fuori, ma prodotto della libera attività individuale. In  questo  sistema
la libertà è sostanziale; l'ideale è il progresso per mezzo  della  libertà.  In
questi due grandi italiani spuntano già le due vie dello spirito  moderno,  vedi
il razionalista e il neocattolico. L'uno volge le  spalle  al  passato,  l'altro
cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso
         Attendendo  l'età  dell'oro,  Campanella  vede  il  mondo   nella   sua
degenerazione, grazie a' tiranni, a' sofisti e agl'ipocriti. Tra' sofisti pone i
poeti, seminatori di menzogne:

        In superbia il valor, la santitate
        passò in ipocrisia, le gentilezze
        in cerimonie, e 'l senno in sottigliezze,
        l'amor in zelo, e 'n liscio la beltate,
mercè vostra, poeti, che cantate
        finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
        non le virtù, gli arcani e le grandezze
        di Dio, come facea la prisca etate.

Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e gli alti  fatti  moderni,
stieno impaludati nelle favole antiche. Nè gli è caro che sciupino l'ingegno  in
argomenti futili. Bellezza è segno del bene: bella ogni  cosa  è  dove  serve  e
quando, e brutta dov'è inutile, o mal serve, e più s'annoia:

        Il bianco, che del nero è ognor più bello,
        più brutto è nel capello...
        pur bello appar, se prudenza rassembra.
        Belle in Socrate son le strane membra,
        note d'ingegno nuovo; ma in Aglauro
        sarian laide: e negli occhi il color giallo,
        di morbo indicio, e brutto, è bel nell'auro,
        ch'ivi dinota finezza, e non fallo.

Ci s'intravvede la nuova critica, che richiama  gli  spiriti  dalle  forme  alle
sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori al di dentro. Di  che  esempio  è
lui stesso, che scrive cose nuove e alte nel più assoluto disprezzo della forma.
La sua poesia nervosa, rilevata, succosa, e insieme rozza e aspra, è  l'antitesi
di quella letteratura vuota, sofistica, e leziosa, venuta su col Marino.
        Campanella scrisse infiniti volumi, e de omnibus  rebus.  Nessuna
parte dello  scibile  gli  è  ignota,  scienze  occulte  e  naturali,  teologia,
metafisica, astronomia, fisica, fisiologia. È un primo schizzo di  enciclopedia,
un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o intravede  cose
nuove. Notabile è soprattutto l'interesse  che  prende  per  l'educazione  e  il
benessere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa  e
politica, rimasta nelle alte cime, più intenta  al  meccanismo  sociale  che  al
miglioramento dell'uomo. In lui  si  vede  accentuata  questa  tendenza,  che  i
mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l'istruzione e  la  felicità
delle classi più numerose.  A  questo  scopo  si  riferiscono  i  suoi  più  bei
concetti: la riforma delle imposte, sì che non gravassero  principalmente  sugli
artigiani e i villani, toccando appena  i  cittadini  o  borghesi,  e  niente  i
nobili; l'imposta sul lusso e su' piaceri; i  ricoveri  per  gli  invalidi;  gli
asili per le figliuole de' soldati; i prestiti gratuiti a' poveri  sopra  pegni,
le banche popolari, gli  impieghi  accessibili  a  tutti,  un  codice  uniforme,
l'uniformità delle monete, l'incoraggiamento  delle  industrie  nazionali,  «più
proficue che le miniere». Lasciare  le  discussioni  astratte,  le  sottigliezze
teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla  storia,  alla  geografia,  allo
studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l'ultima  parola
di Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è comporre la storia  de'
fatti. Ci è già la nuova società che si andava formando sulle rovine del  regime
feudale. Ci è tutto  un  rinnovamento  sociale,  accompagnato,  quanto  a'  suoi
procedimenti, da questo motto profondo: che i moti  umani  durevoli  «son  fatti
prima dalla lingua e poi dalla spada»; o, in altri termini, che la forza non può
fondare niente  di  durevole,  quando  non  sia  preceduta  e  accompagnata  dal
pensiero.
        Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere e di coltura  con
Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero.  Celebre  era
la scuola materialista di  Padova.  La  stessa  indipendenza  si  sviluppava  in
materia politica. Di là all'Italia serva giungevano i liberi  accenti  di  Paolo
Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti  politici  sotto  i  nomi  di
Tesoro politico, Principe regnante,  Segretario,  Chiave
del gabinetto, Ambasciatore, Ragion di Stato, guazzabuglio di luoghi  comuni
e di erudizione indigesta. I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte  di
san Bartolomeo e le stragi del duca d'Alba. Il che non toglie che tutti  non  se
la prendano col Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli  i  concetti.  Fra
gli altri è degno di nota il Botero  nella  sua  Ragion  di  Stato,  dove
combatte il Machiavelli, e segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori
e gli eretici. Quel libro è il codice de' conservatori. A lui sembra  che  tutto
sta benissimo come sta, e che non rimane che a prender guardia contro le novità:
«bonum est sic esse». Nacque nel 1540, lo stesso anno che  nasceva  Paolo
Paruta, il più vicino di  spirito  e  di  senno  a  Nicolò  Machiavelli.  Mentre
l'Italia sonnacchiava tra l'assolutismo papale e spagnuolo, e  si  fondavano  in
Europa le monarchie assolute, lo storico veneto scriveva che «tolta la  libertà,
ogni altro bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane  oziosa  e  di  poco
pregio»; che il vero monarca è la legge; e che «chi commette  il  governo  della
città alla legge, lo raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all'uomo, lo lascia
in potere di una fiera bestia». «Nascere e vivere in città libera»,  è  per  lui
l'ideale della felicità. Ne' suoi Discorsi politici trovi  il  successore
di Machiavelli e il precursore di Montesquieu,  il  senso  pratico  veneziano  e
l'acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal sentimento
religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo, base della restaurazione cattolica,
parevagli minaccioso alla libertà veneziana, e non guardava senza  speranza  nel
moto germanico, dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era
più profonda nella sua intelligenza, dove  ragione  e  fede  contendevano  senza
possibilità di conciliazione. Nel  suo  Soliloquio  s'intravedono  quegli
strazi interiori, che amareggiarono ancora i  primi  anni  del  Tasso.  La  qual
contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità di  spirito,  e  gli
toglie quella fisonomia di originalità e  di  sicurezza,  propria  degli  uomini
nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello spirito veneto in  quel  tempo
di transizione. Erano buoni cattolici, ma gelosi  della  loro  libertà,  avversi
alla Curia e soprattutto a' gesuiti, già temuti  per  la  loro  abile  ingerenza
nelle faccende politiche, nè erano disposti a tener  vangelo  tutte  le  massime
della Chiesa, specialmente in fatto di disciplina. Con queste  disposizioni  gli
animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma, nè senza  speranza
i luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la  diffusione
dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; nè
le dispute religiose poterono esser frenate dall'Inquisizione, che in città così
difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni religiose si  mescolavano
contenzioni di giurisdizione tra il governo e il papa, per le quali  non  dubitò
Paolo V di fulminare l'interdetto su  tutta  la  città,  che  sortì  un  effetto
contrario al suo intento, rese ancora più viva e più tenace la lotta.
        Il personaggio, intorno a cui si raccoglie  tutto  questo  movimento,  è
Paolo Sarpi, l'amico di Galileo e di Giambattista Porta, e della stessa  scuola.
Teologo, filosofo e canonista sommo,  non  era  meno  versato  nelle  discipline
naturali,  fisica,  astronomia,  architettura,  geometria,  algebra,  meccanica,
anatomia; a lui si  attribuisce  la  scoperta  della  circolazione  del  sangue.
Mescolato nella vita attiva,  non  specula,  come  Bruno  e  Campanella,  e  non
inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta tutto armato,  e  mette  le  sue
cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la  sagacia
dell'uomo politico, anzi che con la passione del  filosofo  e  del  riformatore;
perchè il suo scopo non è puramente filosofico  o  scientifico,  ma  è  pratico,
indirizzato a raggiungere certi  effetti.  Mira  a  interessare  nella  lotta  i
principi, come facevano i protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso  il
potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, nega al papa ogni potestà
su' principi, e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune,
non altrimenti che semplici  cittadini.  Emancipare  lo  Stato,  secolarizzarlo,
assicurargli la sua libertà dirimpetto alla corte di Roma, questo era un terreno
comune, dove spesso s'incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi  ebbe  il
buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e fermezza di scopo assai rara  in
scrittore italiano. D'ingegno sveltissimo e di amplissima  coltura,  non  lascia
tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un effetto  pratico  a
quel tempo e in quella società, usando una moderazione di concetti  e  di  forme
più terribile che non l'aperta violenza. Taglia nel vivo con un'aria d'ingenuità
e di semplicità, come chi ti faccia  una  carezza.  Cinque  volte  si  tentò  di
ammazzarlo; e all'ultima, colpito dal ferro assassino,  esclamò:  -  Conosco  lo
stile della romana curia. -

continua
www.tuttonet.com - hits exchange
Alert Me When This Page Changes:
Powered by changeAlarm
Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
copyright © 2004 www.astalalista.tk
This page is powered by Copyright Button(TM).
Click here to read how this page is protected by copyright laws.


All logos and trademarks in this site are property of their respective owner.

Manda qualunque
commento al

Webmaster


Free-Banners

KingsClick Sponsor - Click Here
KingsClick-Your Website Deserves to be King