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Francesco De Sanctis - Storia della letteratura italiana

        La sua Storia del Concilio di Trento è il lavoro  più  serio  che
siasi allora fatto in Italia. Quel concilio  era  la  base  della  restaurazione
cattolica, o piuttosto reazione, e delle  pretese  della  corte  romana.  Vi  fu
consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul  potere  laicale.
Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia e  gesuiti  cercavano  di
far valere negli Stati, concitando contro di sè non solo  i  protestanti,  ma  i
principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie, di apparenze
più corrette e meno rozze. Scrivere la storia di quel concilio, e dimostrare  la
sua mondanità, cioè a dire i fini,  le  passioni  e  gl'interessi  mondani,  che
resero possibili quei decreti, e prevalenti le opinioni estreme e violente,  era
un attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E  se
la passione politica fosse in lui soprabbondata, tirandolo a violenza  d'idee  e
di espressioni, e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti, il suo  scopo
sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e nella sua sincerità.  Nè
questo egli fa solo per sagacia di uomo politico, ma per naturale probità e  per
serietà di storico e  letterato.  La  storia  nelle  sue  mani  non  è  solo  un
istrumento politico: è un sacro  ufficio,  che  egli  non  sa  prostituire  alle
passioni contemporanee, e al quale si  prepara  con  ogni  maniera  di  studi  e
d'investigazioni. E qui è l'interesse di questo libro. Ha  voluto  scrivere  una
storia imparziale con sincerità e gravità di storico,  e  riesce  parzialissimo,
perchè l'uomo con le sue passioni, con le sue simpatie  e  antipatie,  co'  suoi
fini politici, con le sue opinioni traspare da ogni parte e  si  fa  valere.  La
parzialità non è volontaria, e non è nella materialità de'  fatti,  ma  è  nello
spirito nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma nelle
sue più concrete determinazioni politiche ed  etiche.  Non  ci  è  autorità  che
tenga; Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui.  L'autorità  legittima  è
nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva e evangelica, sgombra  di
ogni temporalità, e non di altro sollecita che d'interessi spirituali.  Condanna
soprattutto la gerarchia, «nata di ambizione papale e d'ignoranza de' principi».
Nè per questo fra Paolo si crede men cattolico del papa, anzi è  lui  che  vuole
una  vera  restaurazione  cattolica,  riconducendo  la  religione  nella  prisca
sincerità e bontà, e  rendendo  possibile  quella  conciliazione  fra  tutte  le
confessioni, che dovea essere procurata, e  fu  impedita  dal  Concilio.  Perciò
chiama il Concilio l'«Iliade del  secolo»  per  i  mali  effetti  che  ne
uscirono, e la sua opera giudica non una riforma, ma una  «difformazione».  Qual
era la riforma da lui desiderata, traspare da' concetti che attribuisce  a  quel
buon papa di Adriano sesto, «uomo germano, e pertanto sincero, che non  trattava
con arti e per fini occulti», il quale confessava il male esser nato dagli abusi
e dalle usurpazioni della monarchia romana, e prometteva piena riforma,  «quando
anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio  temporale,  e  anco  alla  vita
apostolica».
        Grande è in questo libro l'armonia tra  il  contenuto  e  la  forma.  Il
concetto fondamentale del contenuto  è  questo,  che  come  la  verità  è  nella
sostanza delle cose, non nei loro accidenti e apparenze, così la religione ha la
sua essenza nella bontà delle opere, e non nella osservanza delle forme o  nelle
concessioni e grazie pontificie, e parimente non è la diligente  narrazione  de'
peccati, ma il proposito di mutar vita, che assicura efficacia alla confessione.
Questo è lo  stesso  concetto  dello  spirito  nuovo,  che,  già  adulto,  dalla
moltiplicità delle forme e degli accidenti  saliva  all'unità  e  alla  sostanza
delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo  e
Sarpi, e che in questa Storia penetra anche nella forma letteraria.  Perchè  qui
la forma non è niente per sè, e non è altro che la cosa stessa, liberata da ogni
elemento fantastico e rettorico, è il positivo e  il  reale,  proprio  l'opposto
della letteratura in voga. Il  Pallavicino,  che  per  commissione  della  Curia
scrisse una storia del Concilio in confutazione di questa, dice: «Il fuoco delle
ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o  con  la  pioggia  del
sangue». Dice cosa gravissima con lo spirito  distratto  dalla  forma,  cercando
metafore. Qui la forma non è espressione, ma ostacolo; nè da  questi  lisci  può
venire la grave impressione che pur dee fare  sullo  spirito  un  pensiero  così
feroce, base dell'Inquisizione. Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano;  nella
forma vi penetra una energia e una precisione di colorito, che ti rende la  cosa
nella sua crudeltà e insieme  nella  sua  ragionevolezza.  Ci  è  la  cosa  come
sentimento e come idea.

        «Se non potranno con le dolcezze - dice Adriano a' principi  tedeschi  -
ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via, vengano a' rimedi  aspri  e  di
fuoco, per risecare dal corpo i membri morti.»

Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella indifferenza del  contenuto;
si vede nel Sarpi l'importanza del contenuto nella indifferenza della forma, una
forma che è il contenuto stesso nel suo significato  e  nella  sua  impressione.
Trovi in lui una elevatezza d'ingegno, che gli fa spregiare  i  lenocini  e  gli
artifizi  letterari,  una  viva  preoccupazione  delle   cose,   una   chiarezza
intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d'analisi,  e  quel  senso
della misura e del reale che lo tien  sempre  nel  vivo  e  nel  vero.  Aggiungi
l'assoluta padronanza della materia, la conoscenza de' più  intimi  secreti  del
cuore umano, la chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo a  cui
viveva ne' suoi umori, nelle sue  tendenze  e  ne'  suoi  interessi,  e  si  può
comprendere come sia  venuta  fuori  una  prosa  così  seria  e  così  positiva.
L'attenzione volta al di dentro,  e  non  curante  della  superficie,  ti  forma
un'ossatura solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e  rilievo,  ma
scabra e ruvida. Manca a questa prosa quell'ultima finitezza,  che  viene  dalla
grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il difetto della  sua  qualità
più spiccato in lui, non toscano e  con  l'orecchio  educato  più  alla  gravità
latina che alla sveltezza del dialetto natio.
         Machiavelli,  Bruno,  Campanella,  Galileo,  Sarpi  non  erano   esseri
solitari. Erano il risultato de' tempi nuovi, gli astri maggiori, intorno a  cui
si movevano schiere  di  uomini  liberi,  animati  dallo  stesso  spirito.  Cosa
volevano? Cercare l'essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare  lo
spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma;  cercare  il  reale  e  il
positivo, e non ne' libri, ma  nello  studio  diretto  delle  cose,  come  dicea
Galileo; o, come  diceano  Bruno  e  Campanella,  cercare  l'uno  attraverso  il
molteplice, cercare il divino nella natura. Sono formole diverse di  uno  stesso
concetto. Riformati e filosofi nelle  loro  tendenze  s'incontravano  su  di  un
terreno comune. Camminavano con disugual  passo;  molti  erano  innanzi  troppo;
altri restavano a mezza via; ma per tutti la via era quella. Volevano  squarciar
le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e  fatte  venerabili,  e
guardare le cose svelate nella loro sostanza o  realtà,  guardarle  col  proprio
sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici,  contro
le forme e le  dottrine  ecclesiastiche,  contro  le  «intrusioni  umane»  nella
Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era  il  lato
negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale,  come  metodo  e  come
contenuto: l'uomo e la natura studiati direttamente  dall'intelletto,  prendendo
per base l'esperienza e l'osservazione. Paolo Sarpi trasportava la  lotta  dalle
generalità filosofiche in mezzo agl'interessi,  dove  potea  aver  favorevoli  i
principi e i popoli: perciò fu più temuto, ed ebbe più influenza.

         Se  la  ristaurazione  cattolica  fosse  stata   vera   e   ragionevole
restaurazione,  cioè  a  dire  conciliazione,  come  volea  il  Sarpi,  e   come
fantasticava il Campanella, si sarebbe  assimilato  il  nuovo  in  ciò  che  era
pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co' «se», nè col senno di poi.  Il
movimento era ancora nella  sua  forma  istintiva,  nel  suo  stato  violento  e
contraddittorio. D'altra parte la Chiesa più che  da  sentimenti  e  convinzioni
religiose era mossa da interessi mondani e  da  passioni  politiche.  Perciò  la
restaurazione si chiarì un'aperta reazione. Nessuno di queste condizioni morbose
ha avuto una intelligenza più chiara che Paolo Sarpi. Ecco  alcuni  brani  delle
sue pitture:

        «Le pene canoniche erano andate in disuso, perchè,  mancato  il  fervore
antico, non si potevano più sopportare... Il presente secolo non era  simile  a'
passati, ne' quali tutte le deliberazioni  della  Chiesa  erano  ricevute  senza
pensarci più oltre, là dove nel presente ognuno vuol farsi giudice  ed  esaminar
le ragioni... Il rimedio è appropriato al male, ma supera  le  forze  del  corpo
infermo, ed in luogo di guarirlo sarebbe per condurlo  a  morte  e  pensando  di
riacquistar  la  Germania,  farebbe  perdere  l'Italia,   ed   alienare   quella
maggiormente.»

Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere  Adriano  sesto,  che  voleva  a
forza di pene canoniche sradicare le idee nuove, e ricondurre

«l'aureo secolo della Chiesa primitiva, nel quale  i  prelati  avevano  assoluto
governo sopra i fedeli, non per altro se non perchè  erano  tenuti  in  continuo
esercizio colle penitenze; dove ne' tempi che corrono,  fatti  oziosi,  vogliono
scuotersi dall'ubbidienza».

 Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso da Gaeta, a cui il Sarpi  fa
dire:

        «Il popolo germanico, che sepolto nell'ozio presta  orecchio  a  Martino
che predica la libertà cristiana, se fosse con penitenze tenuto  in  freno,  non
penserebbe a questa novità.»

Oltre a questo rimedio delle  penitenze,  il  buono  Adriano  voleva  una  seria
riforma, quando anche dovesse  lasciare  il  potere  temporale.  Ma  contro  gli
ragiona il cardinale Soderino in questo modo:

        «Non esservi speranza  di  confondere  ed  estirpare  i  luterani  colla
correzione de' costumi della Corte; anzi questo essere un mezzo di  aumentare  a
loro molto più il credito. Imperocchè la plebe, che sempre giudica dagli eventi,
quando per l'emenda seguita resterà  certificata  che  con  ragione  il  governo
pontificio era ripreso in qualche parte, si persuaderà facilmente  che  anco  le
altre novità proposte abbiano buoni fondamenti... In tutte le cose umane avviene
che il ricevere soddisfazione in alcune richieste dà pretensione di procacciarne
altre e di stimare  che  sieno  dovute.  Nissuna  cosa  far  perire  un  governo
maggiormente che il mutare i modi di reggerlo; l'aprire vie nuove  e  non  usate
essere un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare  per  li
vestigi de' santi pontefici. Nissuno avere mai estinto l'eresie con le  riforme,
ma con le crociate e con  eccitare  i  prencipi  e  popoli  all'estirpazione  di
quelle.»

Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma non bisogna toccarvi,  per
non dar ragione agli avversari. E all'ultimo riserba il più prezioso, la ragione
più efficace:

        «Nissuna riforma potersi fare,  la  quale  non  diminuisca  notabilmente
l'entrate ecclesiastiche; le quali  avendo  quattro  fonti,  uno  temporale,  le
rendite dello Stato ecclesiastico,  gli  altri  spirituali,  le  indulgenze,  le
dispense e la collazione de' beneficii, non si può otturare alcuno di questi che
le entrate non restino troncate in un quarto.» Adriano conchiuse che farebbe  le
riforme passo a passo: il qual sistema moderato non piacque a' tedeschi, i quali
rispondevano motteggiando che da un passo all'altro sarebbe corso un secolo.  Si
può  immaginare  quale  impressione  dovessero  fare  su'  contemporanei  queste
rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in tanta evidenza  i  motivi  mondani  e
politici della ristaurazione cattolica.
        La quale, essendo aperta  reazione,  fondavasi  sopra  idee  e  tendenze
affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l'indipendenza e la forza  della
ragione, quelli la sua incompetenza e la sua debolezza.  Questi  celebravano  la
coltura e la scienza, quelli stavano con la pura fede, co' poveri di  spirito  e
con  i  semplici  di   cuore.   Gli   uni   si   fondavano   sull'esperienza   e
sull'osservazione; gli altri sulla rivelazione e  sull'autorità  di  Aristotile,
degli scolastici, de' santi Padri e de' dottori. Gli  uni  facevano  centro  de'
loro studi la natura e l'uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di  Dio,
sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni
temporalità, e semplicizzare le forme ed il culto; gli altri volevano  mantenere
inviolate tutte le forme, anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare
al temporale, ma  volevano  dilatare  la  loro  ingerenza  e  il  loro  dominio,
prendendo a base il potere assoluto del papa e la  sua  supremazia  anche  nelle
cose temporali. Fin d'allora valse il motto:  «Aut  sint  ut  sunt,  aut  non
sint»; o vivere così, o morire.
        Questa reazione così cieca sarebbe  durata  poco,  se  non  fosse  stata
sorretta dalla tenace abilità de' gesuiti, la milizia del papa.  I  quali,  doma
l'aperta ribellione  co'  terrori  dell'Inquisizione,  vollero  guadagnare  alla
restaurazione anche le volontà e le coscienze, mostrando in questo  assunto  una
conoscenza degli uomini e del secolo e un'arte di governo, che li  resero  degni
continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi  più  sa,
coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il primato  del  clero  nella
coltura. Non potendo estirpare in tutto il nuovo, accettarono la  superficie,  e
vestirono la società a nuovo per meglio conservare il  vecchio.  Presero  dunque
aria di uomini colti e liberali, scossero da sè la  polvere  scolastica,  e  per
meglio vincere il laicato presero ne' modi e ne' tratti  apparenze  più  laicali
che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le  sue  armi.  Divenuti  amici  e
protettori de' letterati e fautori della coltura, apersero scuole e convitti,  e
presero nelle loro mani l'istruzione e l'educazione pubblica.  Non  mancarono  i
teatrini, le commedie, le accademie, altre  imitazioni  degli  usi  laicali.  La
superficie era la stessa, lo spirito era diverso. Perchè, dove gli uomini  nuovi
miravano a tirare l'attenzione dal di fuori al  di  dentro,  dagli  accidenti  e
dagli accessorii al sostanziale, dalle  forme  allo  spirito,  essi  miravano  a
coltivare  la  memoria,  ad  allettare  i  sensi  e  l'immaginazione   più   che
l'intelletto, a trattenere l'attenzione sulla superficie, sì che  l'intelligenza
fra tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura
mezzana e superficiale, più simile ad  erudizione  che  a  scienza.  Al  che  si
accomodava facilmente la tempra fiacca de' più, contenti di quello spolvero, che
dava loro un'aria di nuovo, l'aria del secolo e così a buon mercato.  I  gesuiti
vennero in moda, sfogandosi i mali umori  del  secolo  sopra  gli  altri  ordini
religiosi, come restii ad ogni novità. Il loro successo  fu  grande,  perchè  in
luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono  la  scienza  agli  uomini,
lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in quella mezza  istruzione,
che è peggiore dell'ignoranza. Parimente, non potendo  alzare  gli  uomini  alla
purità del Vangelo, abbassarono il  Vangelo  alla  fiacchezza  degli  uomini,  e
costruirono una morale a uso del  secolo,  piena  di  scappatoie,  di  casi,  di
distinzioni, un compromesso tra la coscienza e il vizio, o, come si  disse,  una
doppia coscienza. E nacque la dottrina del «probabilismo», secondo la  quale  un
«doctor gravis» rende probabile un'opinione, e l'opinione probabile basta
alla giustificazione di qualsiasi azione, nè  può  un  confessore  ricusarsi  di
assolvere chi abbia operato secondo un'opinione probabile. Un giudice,  dice  un
dottore, può  decidere  la  causa  a  favore  dell'amico,  seguendo  un'opinione
probabile, ancorchè contraria alla sua  coscienza.  Un  medico,  dice  un  altro
dottore, può con lo stesso criterio dare una medicina, ancorchè egli  opini  che
farà danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo, e non già perchè la
cosa sia in sè cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire.
        Questa morale rilassata era favorita da  un'altra  teoria,  «directio
intentionis», formulata a questo modo,  che  un'azione  cattiva  sia  lecita
quando il fine sia lecito.  È  la  massima  che  il  fine  giustifica  i  mezzi,
applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata.  Non  è  peccato
annegare in un fiume un fanciullo eretico, per battezzarlo. Uccidi il corpo,  ma
salvi l'anima. Non è peccato uccidere la  donna,  che  ti  ha  venduto  l'onore,
quando puoi temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione.
         E  all'ultimo  viene   la   dottrina   «reservatio   et   restrictio
mentalis». Il giuramento non ti lega, se  tu  usi  parole  a  doppio  senso,
rimanendo a te l'interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola  che
ne muti il senso. Non è bugia, dice un  dottore,  usare  parole  doppie  che  tu
prendi in un senso, ancorchè gli altri le prendano in un senso opposto. E non  è
bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai  ammazzato
il padre; pure puoi dire francamente: - Non l'ho ammazzato -, quando  dentro  di
te pensi a un altro che realmente non  hai  ammazzato,  o  ci  aggiungi  qualche
riserva mentale, come: - Prima ch'egli nascesse,  non  l'ammazzai  di  certo.  -
Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande utilità, porgendoti modo  di
nascondere senza bugia quello che hai a nascondere.
        Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutt'i  casi.  In  quell'arsenale
trovi come puoi senza peccato non andare talora a messa, o spendervi poco tempo,
o durante la messa conversare, o andando a messa guardare le donne con  desidèri
amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso il tuo confessore,  scegli  un
altro, quando abbi commesso qualche peccato grave. E se ti pesa  il  dirlo,  usa
parole doppie, o fa una confessione generale  per  gittarlo  così  alla  rinfusa
nella moltitudine de' peccati vecchi.
        Ciascuno immagina, con quella facile  scienza,  con  quella  più  facile
morale, che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori,
predicatori, missionari,  scrittori,  uomini  di  mondo  e  di  chiesa.  Seppero
conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il dominio con l'energia e la
logica della loro volontà. Salirono a tanta potenza che ingelosirono i principi,
e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base l'ubbidienza passiva,
di  modo  che  l'uomo  dirimpetto  al  suo  superiore   fosse   «perinde   ac
cadaver», stabilirono  la  monarchia  assoluta.  Ma  volevano  che  il  papa
dominasse i principi, e volevano loro dominare il papa.
        I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle
idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la  libertà  di  Venezia.  La  lotta  era
disuguale, perchè alle armi spirituali era scemata la riputazione, e i  principi
avevano guadagnata tutta quella forza, ch'era mancata a' feudi ed a'  comuni.  I
gesuiti allora, non trasandando  le  armi  puramente  ecclesiastiche,  operarono
principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le armi mondane  con
una tenacità uguale alla destrezza. Presero aria  di  democratici,  e  cercarono
forza ne' popoli contro i principi. Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de'
gesuiti, sosteneva nel Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da  Dio,
ma la società ha il dritto di scegliersi  essa  il  suo  governo.  Il  cardinale
Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino  è  non
ne' singoli uomini, ma nella  intera  società,  non  ci  essendo  nessuna  buona
ragione  che  uno  o  molti  debbano  comandare  agli  altri;   che   monarchia,
aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla natura dell'uomo;  e  che
perciò, quando ci è alcuna legittima ragione, può il popolo mutare la sua  forma
di governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la «sovranità del popolo», e
il «dritto dell'insurrezione». Mariana  vuole  la  monarchia,  ma  a  patto  che
ubbidisca al consiglio de' migliori cittadini raccolti in senato. Era spagnuolo,
e scriveva sotto Filippo terzo, che tenea Campanella nelle prigioni  di  Napoli.
Non ammette il dritto ereditario, «nato dalla troppa possanza  de'  re  e  dalla
servilità de' popoli», e  causa  di  tanti  mali,  non  ci  essendo  niente  più
mostruoso che «commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al
capriccio di una donna». Re che offende i  dritti  de'  popoli  e  disprezza  la
religione è come una bestia feroce, e «ciascuno gli può metter le mani addosso».
I dritti di successione non possono esser mutati che col  consenso  del  popolo;
perchè «dal popolo viene il dritto della signoria». Il re ha il suo  potere  dal
popolo; perciò «non è signore dello Stato o de' singoli individui, ma  un  primo
magistrato, pagato da' cittadini». Il re non può da solo porre  le  tasse,  fare
leggi, scegliersi il successore; perchè «le son cose che interessano non solo il
re, ma anche il popolo». Il re è sottoposto alle leggi, e quando  le  viola,  il
popolo ha il dritto «di deporlo  e  punirlo  con  la  morte».  Queste  erano  le
risposte che davano a' principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perchè
si potea loro rispondere che  se  il  dritto  di  signoria  è  non  ne'  singoli
individui, ma nella universalità  de'  cittadini,  quel  dritto  nelle  faccende
ecclesiastiche è non nel papa, ma nella Chiesa o universalità de' fedeli, e  per
essa nel concilio, che può perciò deporre e  anche  punire  il  papa.  Che  cosa
diveniva allora il loro  papa,  il  vicario  di  Dio?  Essi  erano  repubblicani
dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa.  E,  per  dire  la
verità, si mostravano repubblicani per meglio  dominare  i  principi,  ed  erano
assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già  che  i
loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi  erano  sinceri,  credenti  e
patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo  de'  capi,  più  uomini  politici  che
uomini di fede.
        Dicono che corruppero e infiacchirono i  popoli.  Il  che  è  così  poco
giusto, come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e  causa.  Furono
il cattolicismo rammodernato, accomodato possibilmente a' nuovi tempi per meglio
conservarlo nella sua sostanza; furono l'intelletto  che  succede  alla  fede  e
all'immaginazione, e si affida più nell'arte del governo che  nelle  passioni  e
nella violenza, l'intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico
e seicentistico; nacquero da quello stesso spirito che  portò  sulla  scena  del
mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso, un naturale portato della storia.
La  loro  responsabilità  è  questa,  che,  trovando  nel  secolo  fiacchezza  e
ignoranza,  non  lavorarono  a  combatterla  per  migliorare  l'uomo,  anzi   la
favorirono e se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni.  Vollero  una
coltura con licenza de' superiori, e stretta in  pochi.  E  quando  la  coltura,
rotte le dighe, si diffuse, finì il loro regno.
        La diffusione della coltura era visibile in Italia.  E  non  parlo  solo
delle scienze esatte e naturali, dove  i  gesuiti  si  mostrarono  valentissimi,
seguendo anche loro la via aperta da Galileo, ma pur delle  scienze  storiche  e
sociali. L'abbondanza dell'oro per la scoperta dell'America e la crisi monetaria
die' occasione a' primi scritti di economia, il Discorso sopra le monete e la
vera proporzione fra l'oro e l'argento di Gaspare Scaruffi, che  propugnava,
come Campanella, l'uniformità  monetaria;  e  il  trattato  sulle  Cause  che
possono fare abbondare i regni di  oro  e  d'argento  di  Antonio  Serra  di
Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l'autore, come complice di  Campanella,  era
tenuto prigione. Moltiplicarono i  trattati  di  giurisprudenza,  massime  nella
seconda metà del secolo. Alberico Centile nel suo libro De iure belli  fa
già presentire Grozio, e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini,
che scrisse De Pandectis. Tra gl'interpreti del dritto romano sono  degni
di nota l'Alciato, l'Averani, il Farinaccio, il Fabro.  Fondatori  della  storia
del dritto furono il «gran» Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il  Panciroli,
maestro del Tasso.
         Pubblicarono  lavori  non  dispregevoli  di  cronologia  l'Allacci,  il
Riccioli, il Vecchietti.  Comparivano  storie  venete,  napolitane,  piemontesi,
pisane, il Nani, il  Garzoni,  il  Summonte,  il  Capecelatro,  il  Tesauro,  il
Roncioni: cronache più che storie, volgari di sentimento e  di  stile.  In  Roma
naturalmente si sviluppava l'archeologia. Il Fabretti di  Urbino  scrivea  degli
Acquidotti romani e della Colonna traiana, e  pubblicava  in  otto
serie quattrocentotrenta iscrizioni  dottamente  illustrate.  Moltiplicavano  le
compilazioni, le raccolte, come  sussidio  agli  studiosi.  Il  Zilioli  scrisse
l'Indice di tutt'i libri di dritto pontificio e cesareo, e il Ziletti  in
ventotto volumi il trattato Iuris universi. Avevi già  annali,  giornali,
biblioteche, cataloghi, e  simili  mezzi  di  diffusione.  Vittorio  Siri  aveva
pubblicato il Mercurio politico e le Memorie recondite, l'Avogadro
il Mercurio veridico. Il Nazzari cominciò a Roma nel 1668, il Giornale
de' letterati, e il Cinelli pubblicava  la  Biblioteca  volante,  una
specie di storia letteraria.  Comparivano  gli  Annali  del  Baronio,  le
Vite de' pàpi e  cardinali  del  Ciacconio,  la  Storia  generale  de'
concili di monsignor Battaglini, la Storia delle eresie del  Bernini,
la Napoli sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro,
liste e notizie di vescovi, la  Miscellanea  italica  erudita  del  padre
Roberti, la Bibliotheca selecta e l'Apparatus  sacer  del  gesuita
Possevino,  il  Mappamondo  storico  del  padre  Foresti,  continuato  da
Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia universale. Aggiungi relazioni  come
la Descrizione  della  Moscovia  del  Possevino,  i  viaggi  del  Carreri
napolitano, che nel 1698 compì a piedi il giro del  mondo,  la  Relazione
dello Zani bolognese, che  fu  in  Moscovia,  le  Lettere  del  Negri  da
Ravenna, che giunse fino al capo Nord, la descrizione delle Indie del fiorentino
Sassetti, che primo die' notizia della lingua sanscrita. Si conoscea  meglio  il
mondo, e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante
latino  delle  Indie  orientali,  il  Falletti  ferrarese   della   Lega   di
Smalcalda, il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante  delle
Guerre di Fiandra, il Davila con semplicità  trascurata  delle  Guerre
civili di Francia, il padre Strada  prolissamente  delle  cose  belgiche.  A
questa coltura empirica e  di  mera  erudizione  partecipavano  tutti,  laici  e
chierici,  uomini  nuovi  e  uomini  vecchi,  e  i  gesuiti  vi  si   mostravano
operosissimi: si pensava poco, ma  s'imparava  molto  e  da  molti.  La  coltura
guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità. Chi avesse  allora  guardata
l'Italia con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione  e  guerra
aveano abbandonato le sue contrade:  piena  pace,  tranquilli  gli  spiriti,  in
riposo il cervello. Le piccole cose vi erano  avvenimenti:  l'Inghilterra  aveva
Cromwell, ella avea Masaniello. L'Europa camminava senza di lei e fuori di  lei,
tra guerre e rivoluzioni nelle quali si  elaborava  e  si  accelerava  la  nuova
civiltà. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e  la
musa de' suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la  libertà  di  coscienza,
dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertà politica,  dalle  guerre  civili  di
Francia usciva la potente unità francese e il  secolo  d'oro,  la  monarchia  di
Carlo quinto e di Filippo secondo si andava  ad  infrangere  contro  la  piccola
nazionalità olandese. L'Italia  assisteva  a  questi  grandi  avvenimenti  senza
comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e  fattarelli  curiosi,
la parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti ci erano pure  grandi  attori
italiani, Caterina de' Medici, Mazzarino, Eugenio di  Savoia,  Montecuccoli,  il
cui trattato della guerra è una delle opere più serie scritte a quel  tempo.  Si
combatteva non solo con la spada, ma con la penna:  le  quistioni  più  astratte
interessavano ed infiammavano le moltitudini; dall'attrito  scintillavano  nuovi
problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d'idee e di cose. Ciò
che fermentava nel cervello solitario di  Bruno  e  di  Campanella,  fluttuante,
contraddittorio, lì era  pensiero,  stimolato  dalla  passione,  affinato  dalla
lotta, pronto all'applicazione, in un  gran  teatro,  fra  tanta  eco,  con  una
chiarezza e precisione di contorni, come fosse già cosa. Questa chiarezza è  già
intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da  tutti  gli
elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e  si  afferma  in  forme
nette e recise. Perciò Galileo, Bacone, Cartesio sono i  veri  padri  del  mondo
moderno, la coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galileo applicava alle
scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e  assoluto,
la via della verità in tutte le sue  applicazioni:  l'induzione  caccia  via  il
sillogismo, e l'esperienza mette in fuga il  soprannaturale.  Cartesio  col  suo
«de omnibus dubitandum» riassume il lato negativo  del  nuovo  movimento,
togliendo ogni valore all'autorità e alla tradizione -  e  col  suo  «cogito,
ergo sum» pone  la  prima  pietra  alla  costruzione  dell'edificio,  inizia
l'affermazione. Come la Riforma, così Cartesio pone a fondamento della coscienza
il senso individuale; e come Galileo stabilisce il  mondo  naturale  su'  fatti,
così  egli  stabilisce  il  mondo  metafisico  su  di  un  fatto,  «io   penso».
All'esperienza esterna si aggiunge l'esperienza interna, l'analisi  psicologica.
L'ente, ch'era il primo filosofico,  qui  è  un  prodotto  della  coscienza,  un
«ergo». L'evidenza innanzi a' sensi e innanzi alla  coscienza,  il  senso
interno, è il criterio della verità. Cartesio, che era un matematico,  introduce
nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù della forma  entrasse
nel  mondo  metafisico  quella  evidenza  ch'era  nel  mondo   matematico.   Era
un'illusione, il cui benefizio  fu  di  cacciar  via  definitivamente  le  forme
scolastiche e aprire la strada a quella  forma  naturale  di  discorso,  di  cui
Machiavelli  avea  dato  esempio,  ed   egli   medesimo   nel   suo   ammirabile
Metodo. Queste idee non erano nuove in Italia, anzi erano volgari a tutti
gli uomini nuovi;  ma,  naufragate  in  vaste  sintesi  immature  e  senza  eco,
rimanevano sterili. Qui le vedi  a  posto,  staccate,  rilevate,  formulate  con
chiarezza ed energia, e parvero una rivelazione.  D'altra  parte  Cartesio  ebbe
cura di non rompere con la fede, e di accentuare la natura spirituale dell'anima
e la sua distinzione dal corpo, base della  dottrina  cristiana,  sì  che  dicea
parergli meno sicura l'esistenza del corpo che quella  dello  spirito;  oltre  a
ciò, con le sue idee  innate  lasciava  aperto  un  varco  alla  teologia  e  al
soprannaturale. Così egli  ti  dava  la  prima  filosofia  nuova  che  sembrasse
conciliabile con la religione, in un tempo che per l'infanzia  della  critica  e
della coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze. Perciò, come  la
Riforma religiosa, la sua riforma filosofica ebbe un gran  successo;  perchè  le
riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana  dal  passato  e
dallo stato reale degli  spiriti.  Aggiungi  la  sua  superficialità,  l'estrema
chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee e nette innanzi  alle
moltitudini: si rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e  popolare.  La
conseguenza naturale della riforma era questa, che l'uomo  rientrava  in  grembo
della natura, diveniva una parte della storia naturale. Posto che  la  filosofia
ha la  sua  base  nella  coscienza,  lo  studio  della  coscienza  o  de'  fatti
psicologici diveniva la condizione  preliminare  di  ogni  metafisica,  come  lo
studio della natura diveniva l'antecedente di ogni cosmologia. Il  mondo  usciva
dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno  studio  serio  dell'uomo  e
della natura, nello studio del reale. Per questa via modesta  e  concludente  si
era messo Galileo; di là uscivano i grandi  progressi  delle  scienze  positive.
Cartesio applicava alla  metafisica  gli  stessi  procedimenti  della  filosofia
naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico,  all'ipotetico,
e dandole una base  sicura  nell'esperienza  e  nell'osservazione.  Ma  i  fatti
psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali, perchè ne potesse  uscire
una soluzione de' problemi metafisici, e l'Europa  era  ancora  troppo  giovane,
troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri e  di  forze  occulte,
perchè potesse aver la pazienza  di  studiare  i  dati  de'  problemi  prima  di
accingersi a risolverli. Le «idee innate» e i «vortici» di Cartesio, la «visione
di Dio» di Malebranche, la «sostanza unica» di Spinosa, l'«armonia prestabilita»
di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e provvisorie, che appagavano il pensiero
moderno abbandonato a se stesso, e attestavano il  suo  vigore  speculativo.  Ma
l'impulso era dato, e fra quelle immaginazioni  progrediva  la  storia  naturale
dell'intelletto umano, la scienza  dell'uomo.  Le  meditazioni  di  Cartesio,  i
maravigliosi capitoli di Malebranche  sull'immaginazione  e  sulle  passioni,  i
Pensieri di Pascal, dove l'uomo in presenza di se stesso si sente  ancora
un enigma, preludevano al Saggio sull'intelletto umano di Giovanni Locke,
l'erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua  modestia.  Ivi  la  riforma
cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo  punto  di  fermata;  ivi  la
filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l'ideale del suo  risorgimento,  al
quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini  nuovi,  acquistava  la  sua  base
positiva, fondata sull'esperienza e sull'osservazione, sulla «cosa  effettuale»,
come dicea Machiavelli, e col «lume naturale», come dicea Bruno, con  la  scorta
dell'occhio del corpo e della mente, come dicea Galileo, e  leggendo  nel  libro
della natura, come dicea Campanella. Cadevano insieme forme scolastiche e  forme
geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella  sua  età
umana; agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari, e vi si affinavano le
moderne lingue. La semplicità, la chiarezza, l'ordine, la naturalezza divenivano
le qualità essenziali della forma, e  n'era  un  primo  e  stupendo  esempio  il
Saggio di Locke. Così la  filosofia  nella  sua  linea  divergente  dalla
teologia giungeva sino all'opposto,  dal  soprannaturale  e  dal  soprasensibile
giungeva al puro naturale ed al puro sensibile, giungeva  al  motto:  «Niente  è
nell'intelletto che non sia stato prima nel senso». E non era  già  un  concetto
astratto e solitario, era lo spirito nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che
ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione  in  filosofia.  Anche  la
morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico, e cercava la sua  base
nella natura dell'uomo, e non dell'uomo quale  l'avea  formato  la  società,  ma
nell'integrità e verginità del suo essere. Comparve un dritto naturale, come era
comparsa  una  filosofia  naturale;  ed  entrano  in  iscena   Grozio,   Hobbes,
Puffendorfio. A  quel  modo  che  Campanella  e  Sarpi  con  tutti  i  riformati
vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità delle sue istituzioni, e in  nome
di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l'opera  posteriore  de'
papi, i filosofi vagheggiavano  l'uomo  primitivo,  nello  stato  di  natura,  e
combattevano tutte le istituzioni sociali, che non erano di accordo con  quello.
Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale; l'idea era una, che si
sentiva ora abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze anche negli  ordini
politici. Sorge uno spirito di critica e d'investigazione, che non tien conto di
nessun'autorità e tradizione, e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti  e
i princìpi tenuti fino a quel punto indiscutibili, come un assioma. Bayle è  là,
con la  sua  ironia,  col  suo  dubbio  universale.  Come  Locke  realizzava  il
«cogito», egli  realizzava  il  «de  omnibus  dubitandum».  E  chi
paragoni il suo Dizionario con le Raccolte  italiane,  può  vedere
dov'era la vita e dov'era la morte. Che faceva l'Italia innanzi a quel colossale
movimento di cose e d'idee? L'Italia creava  l'Arcadia.  Era  il  vero  prodotto
della sua esistenza individuale e morale. I  suoi  poeti  rappresentavano  l'età
dell'oro, e in quella nullità della vita presente fabbricavano temi  astratti  e
insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre il
mondo per la sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano in  tutti  i
versi le reliquie di Roma e di  Atene;  e  poichè  le  idee  erano  date  e  non
discutibili, si occupavano  de'  fatti,  e  non  potendo  essere  autori,  erano
interpreti, comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia,  centro
Cristina di Svezia, povera donna, che non comprendendo i grandi avvenimenti, de'
quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo, si era  rifuggita  a  Roma
co'  suoi  tesori,  e  si  sentiva  tanto  felice  tra  quegli  arcadi,  ch'ella
proteggeva, e che con dolce ricambio chiamavano lei «immortale e divina». Felice
Cristina! E felice Italia!
        L'inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto  noto  nella
dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo.  Gli
stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza, e non avvezzi  più
a pensare col capo proprio, attendevano con  avidità  le  idee  oltramontane,  e
mendicavano elogi da' forestieri. Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua
Biblioteca, una specie d'inventario ragionato delle opere nuove.  E  come
si tenea fortunato quell'italiano, che potea averci là dentro un  posticino!  La
lingua francese era divenuta quasi comune, e prendeva il posto della latina.  Un
movimento d'importazione c'era, lento, e impedito da molti ostacoli, e vivamente
combattuto nelle accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez  e  Alvarez,  tra
interpreti e  comentatori.  La  Fisica  di  Cartesio  penetrò  in  Napoli
settanta anni dopo la sua morte, e quando già era dimenticata in Francia, e  non
si aveva ancora notizia del suo Metodo e  delle  sue  Meditazioni.
Grozio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo  nome  faceva
orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore.  Un  movimento  si  annunziava
negli spiriti, quel non  so  che  di  vago,  quel  bisogno  di  cose  nuove  che
testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo lungo  sonno,  si
svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole co' loro  «metodi  strepitosi»,
come li chiamava Vico, promettitori di scienza  facile  e  sicura.  Definizioni,
assiomi, problemi, teoremi, scolii, postulati  cacciavano  di  sede  sillogismi,
entimemi   e   soriti.   Il   «quod   erat    demonstrandum»    succedeva
all'«ergo». Chiamavano «pedanti» i peripatetici, e questi chiamavano loro
«ciarlatani». Sempre  così.  Il  vecchio  è  detto  «pedanteria»,  ed  il  nuovo
«ciarlataneria». E qualche cosa  di  vero  c'è.  Perchè  il  vecchio  nella  sua
decrepitezza e stagnazione ha del  pedante,  e  il  nuovo  nella  sua  giovanile
esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo  lato  debole,  che  non  può
nascondere all'occhio acuto e appassionato dell'avversario.
        La riforma cartesiana in  Italia  non  produsse  alcun  serio  progresso
scientifico,  com'è  d'ogni  scienza  importata  e  non  uscita  da  una   lenta
elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo  di  diffusione  delle
idee nuove. Le quali, cacciate d'Italia co' roghi, con gli esili, con le torture
e coi pugnali, vi rientrarono sotto  la  protezione  delle  idee  cristiane.  La
riforma era detta il «platonismo cartesiano», ed aveva  aria  di  ribenedire  la
religione in nome della filosofia. L'Inquisizione, in quel movimento rapidissimo
d'idee, preoccupata  di  Spinosa,  aperto  nemico,  lasciava  passare  il  nuovo
Platone,  che  almeno  non  toccava   i   dogmi.   I   peripatetici   invocarono
l'Inquisizione  contro  i  novatori,  e  i  novatori  rispondevano   proclamando
Aristotile nemico della religione. Così il movimento ricominciava in Italia, col
permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era  movimento  arcadico,  confinato
nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva
superficiale; ma si diffondeva, guadagnava gli animi alle novità, sopraffaceva i
peripatetici, s'infiltrava nella nuova  generazione,  la  metteva  in  comunione
coll'Europa, preparava la trasformazione dello spirito nazionale.

        Il serio movimento scientifico usciva di là, dove s'era  arrestato,  dal
seno stesso dell'erudizione. Lo studio  del  passato  era  come  una  ginnastica
intellettuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero
le  illustrazioni.  E  vi  si  sviluppò   uno   spirito   d'investigazione,   di
osservazione, di comparazione, dal quale usciva  naturalmente  il  dubbio  e  la
discussione.  Lo  spirito  nuovo  inseguiva  gli  eruditi  tra  quegli   antichi
monumenti. Già non erano più semplici  eruditi,  erano  critici.  In  Europa  la
critica usciva dal libero esame e dalla ribellione: era roba eretica. In  Italia
era parte di Arcadia, un esercizio intellettuale sul passato,  e  li  lasciavano
fare. Il critico di Europa era Bayle; il critico d'Italia era Muratori.  Le  sue
vaste e diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores,  Antiquitates  medii
aevi,  Annali  d'Italia,  Novus  thesaurus   inscriptionum,   la   Verona
illustrata  e  la  Storia  diplomatica   di   Scipione   Maffei,   le
Illustrazioni del Fabretti segnano già questo periodo, dove la scienza  è
ancora erudizione, e nella erudizione si  sviluppa  la  critica.  Non  è  ancora
filosofia, ma è già buon senso, fortificato dalla  diligenza  della  ricerca,  e
dalla pazienza dell'osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per  il  suo
spirito positivo e modesto, e  pel  giusto  criterio.  E  anche  egli  osò.  Osò
combattere il potere temporale, osò porre  in  guardia  gl'italiani  contro  gli
errori e  le  illusioni  della  fantasia.  Se  non  gliene  venne  condanna,  fu
tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto, il quale disse che «le  opere
degli uomini grandi non si proibiscono», e che la quistione del potere temporale
«era materia non dogmatica nè di disciplina». Anche il Maffei parve incredulo al
Tartarotti, perchè negava la magia, e parve eretico  al  padre  Concina,  perchè
scrivea De' teatri antichi e moderni; ma  quel  buon  papa  decretò  «non
doversi abolire i teatri, bensì cercare che le  rappresentazioni  siano  al  più
possibile oneste e probe». L'Italia papale era più papista del papa.
        Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto  Grecia  e  Roma,  tutto
papato e impero, fra testi e comenti, con le spalle vòlte all'Europa.  Dommatico
e assoluto, sentenzia e poco discute, in istile monotono e plumbeo. È ancora  il
pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua dottrina,  senza  ispirazione,
nè originalità, e così vuoto di sentimento, come d'immaginazione. Pure già senti
che siamo verso la fine del secolo.  Già  non  hai  più  innanzi  l'erudito  che
raccoglie e discute testi, ma il critico  che  si  vale  della  storia  e  della
filosofia per illustrare la giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto,
e ne cerca il principio generatore. Anche la sua Ragion poetica,  se  non
mostra gusto e sentimento dell'arte, colpa non sua,  esce  da'  limiti  empirici
della pura erudizione, e ti dà riflessioni d'un carattere generale.
        Ecco un altro uomo d'ingegno, Francesco Bianchini, veronese. A che pensa
costui? Pensa agli assiri, a' medi e a' troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a
dire scruta, paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce. I monumenti
non rimangono più lettera morta: parlano, illustrano la cronologia e la  storia.
Per mezzo di essi si stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i  pensieri,  i
simboli, si rifà il mondo preistorico. In questa geologia della storia i fatti e
gli uomini vacillano, si assottigliano, diventano favole, e le favole  diventano
idee. Comparve la sua Storia nel 1697, Vico aveva ventinove anni.
        L'erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso
storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto,  nello
studio del passato. Questo era  il  carattere  del  suo  progresso  scientifico.
Quelli che si occupavano del presente a loro rischio, erano cervelli spostati. E
tra questi cervelli balzani c'era il milanese Gregorio Leti, che pose in luce la
cronaca scandalosa dell'età in uno  stile  che  vuol  essere  europeo  e  non  è
italiano, e Ferrante Pallavicino nel suo Corriere svaligiato, una  specie
di  satira-omnibus,  dove  ce  n'è  per  tutti.  In  quel  vacuo  dell'esistenza
sciupavano l'ingegno in argomenti grotteschi, e in forme che parevano  ingegnose
ed erano freddure, un seicentismo  arcadico.  Il  canonico  Garzoni  scrivea  il
Teatro de' cervelli mondani, L'Ospedale de' pazzi  incurabili,  la
Sinagoga degl'ignoranti, il Serraglio  degli  stupori  del  mondo.
Sono discorsi accademici, infarciti  d'erudizione  indigesta,  più  curiosa  che
soda. I quali erano la vera piaga d'Italia, e attestavano una coltura verbosa  e
pedantesca senz'alcuna serietà di scopo e di mezzi. Il più noto di questi dotti,
e ce n'erano moltissimi, è Anton Maria Salvini, cervello ingombro, cuore  fiacco
e immaginazione povera, vita vuota. E volle tradurre Omero.
        Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia  in  Suarez,  la
grammatica in Alvarez, il dritto in Vulteio. Pedagogo in  casa  della  Rocca  in
Vatolla, un paesello nel Cilento, si chiuse per nove anni nella  biblioteca  del
convento, e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto il suo ufficio,  tornò
in Napoli, era già un uomo dotto, come poteva essere un italiano, e  ce  n'erano
parecchi  anche  tra'  gesuiti.  Era  il  tempo  del  Muratori,  del  Fontanini,
dell'abate Conti,  del  Maffei,  del  Salvini.  «dottissimo,  eruditissimo»  era
Lionardo da Capua, e Tommaso Cornelio «latinissimo»: così li qualifica Vico.  Il
quale conosceva a fondo il mondo greco e latino, Aristotile e Platone con  tutta
la serie degl'interpreti fino a quel  tempo;  ammirava  nel  Cinquecento  quello
stesso mondo redivivo ne' Ficini, ne' Pico, ne' Mattei Acquaviva,  ne'  Patrizi,
ne' Piccolomini, ne' Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di  giurisprudenza
peritissimo; il medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotile,  il
Cinquecento con  Platone  e  Cicerone;  de'  fatti  europei  sapeva  quanto  era
possibile in Italia. Era un dotto del Rinnovamento, che scoteva da sè la polvere
del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo antico. Il suo sapere  era
erudizione, la forma del suo pensiero era latina, e il suo  contenuto  ordinario
era il dritto romano. Avvocato senza clienti, fece il letterato e il maestro  di
scuola. Passati erano i bei  tempi  di  Pietro  Aretino.  La  letteratura  senza
l'insegnamento era povera  e  nuda,  come  la  filosofia.  Andava  per  le  case
insegnando, facea canzoni,  dissertazioni,  orazioni,  vite,  a  occasione  o  a
richiesta. Lo conobbe don Giuseppe  Lucina,  «uomo  di  una  immensa  erudizione
greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino», e lo  fe'
conoscere a don Niccolò Caravita, un avvocato primario  e  «gran  favoreggiatore
de' letterati». Vico, parte merito, parte protezione, fu professore di rettorica
all'università. Vita semplice e ordinaria, dal 1668 al  1744.  Vita  accademica,
tranquilla, di erudito italiano, formatosi nelle biblioteche e fuori del  mondo,
rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il movimento  europeo  gli  giunse  a
traverso la sua biblioteca, e gli giunse nella  forma  più  antipatica  a'  suoi
studi e al suo genio. Gli venne addosso la fisica di Gassendi, e poi  la  fisica
di Boyle, e poi la fisica di Cartesio. - La gran  novità  -  pensava  il  nostro
erudito. - Ma l'hanno già detto, questo, Epicuro e  Lucrezio.  -  E  per  capire
Gassendi si pose a studiare Lucrezio. Ma la novità  piacque.  -  Fisica,  fisica
vuol  essere,  -  diceva  la  nuova  generazione  -  macchine;  non  più  logica
scolastica, ma Euclide; sperimenti, matematiche; la metafisica bisogna lasciarla
ai frati. - Che diveniva Vico con la sua erudizione e  col  suo  dritto  romano?
Reagì, e cercò la fisica non con le macchine e con gli sperimenti, ma  ne'  suoi
studi di erudito. Le scienze positive entravano appena nel gran quadro della sua
cultura, e di matematiche sapeva non oltre di Euclide, stimando «alle menti  già
dalla metafisica fatte universali non... agevole  quello  studio  proprio  degli
ingegni minuti». Cercò dunque la fisica fuori delle matematiche  e  fuori  delle
scienze sperimentali, la cercò fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei
«numeri» di Pitagora, ne' «punti» di Zenone, nelle  «idee  divine»  di  Platone,
nell'antichissima sapienza italica. L'Europa  aveva  Newton  e  Leibnizio;  e  a
Napoli si stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano due colture,
due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era  il  pensiero  creatore,
che faceva la storia moderna, dall'altra il pensiero critico che meditava  sulla
storia passata. Chiuso nella sua erudizione, segregato nella sua biblioteca  dal
mondo de' vivi, quando Vico tornò in Napoli, trovò nuova cagione di  maraviglia.
L'aveva   lasciata   tutto   fisica;   la   trovava   tutto    metafisica.    Le
Meditazioni e il Metodo di  Cartesio  avevano  prodotto  la  nuova
mania. Vico sentì disgusto  per  una  città  che  cangiava  opinione  da  un  dì
all'altro «come moda di vesti». E vi si sentì straniero, e vi stette  per  alcun
tempo straniero e sconosciuto. Vedeva il movimento attraverso i suoi studi  e  i
suoi preconcetti.
        Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all'ateismo
e alla morale del piacere, e le accusava di falsa posizione, perchè l'atomo,  il
loro principio,  era  corpo  già  formato,  perciò  era  principiato  e  non  il
principio, e andava cercando il principio al di là dell'atomo, ne' numeri e  ne'
punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e di  Campanella.  Si  sentiva
concittadino di Pitagora e discepolo dell'antica  sapienza  italica.  Quanto  al
metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo  come  una  panacea  universale:  era
buono in certi casi, e si potea usarlo senza quel lusso di forme esteriori, dove
vedea ambizione, pretensione e ciarlataneria. Il «cogito»gli pareva  così
poco serio, come l'atomo.  Era  anch'esso  principiato  e  non  principio;  dava
fenomeni, non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo  ed  anche
un po' impostore, e quel suo  «metodo»,  dove,  annullando  la  scienza  con  la
bacchetta magica del suo «cogito», la fa ricomparire  a  un  tratto,  gli
pareva  un  artificio  rettorico.  Quel  suo  de  omnibus  dubitandum  lo
scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato, quel  disprezzo  di  ogni
tradizione, di ogni autorità, di ogni erudizione,  lo  feriva  nei  suoi  studi,
nella sua credenza e nella sua vita intellettuale, e si  difendeva  con  vigore,
come si difende dal masnadiero la roba e la vita. La diffusione  della  coltura,
la  moltiplicità  dei  libri,  quei  metodi  strepitosi   abbreviativi,   quella
superficialità di studi con tanta audacia di giudizi, fenomeni naturali di  ogni
transizione, quando un mondo se ne va e un altro viene, movevano la sua collera.
Avvezzo ai severi e profondi studi, a pensare co' sapienti  ed  a  scrivere  pei
sapienti, gli spiacea quella tendenza a vulgarizzare la scienza,  quella  rapida
propagazione d'idee superficiali e cattive. E se la pigliava con la  stampa.  Si
gloriava di non appartenere a nessuna setta. E lì era il suo punto debole. Posto
tra due secoli, in  quel  conflitto  di  due  mondi  che  si  davano  le  ultime
battaglie, non era nè con gli uni, nè con gli altri, e le cantava a tutti e due.
Era troppo innanzi pe' peripatetici, pe' gesuiti e per gli eruditi;  era  troppo
indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli  i  suoi  «punti  metafisici»;
quelli trovavano avventate le sue etimologie e sospetta la sua  erudizione.  Era
da solo un terzo partito, come si direbbe oggi, la ragione serena  e  superiore,
che nota le lacune, le contraddizioni  e  le  esagerazioni,  ma  ragione  ancora
disarmata, solitaria, senza seguaci,  fuori  degl'interessi  e  delle  passioni,
perciò in quel fervore della lotta appena avvertita e di nessuna  efficacia.  Se
dietro al critico ci fosse stato l'uomo, un po' di quello spirito propagatore  e
apostolico di Bruno e Campanella, sarebbe stato vittima degli uni e degli altri.
Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa e  studio,  e  guerreggiava
contro i  libri,  rispettosissimo  verso  gli  uomini.  Oltrechè  le  sue  ubbie
rimanevano nelle altissime regioni della  filosofia  e  della  erudizione,  dove
pochi potevano seguirlo, e fu lasciato vivere fra le nubi, stimato  per  la  sua
dottrina, venerato per la sua pietà e  bontà.  Conscio  e  scontento  della  sua
solitudine, vi si ostinò, benedicendo «non aver  lui  avuto  maestro  nelle  cui
parole avesse giurato», e ringraziando «quelle selve, fra le quali dal suo  buon
genio guidato, aveva fatto il maggior corso de' suoi studi». Il latino veniva in
fastidio, ed egli pose da canto greco e toscano, e fu tutto  latino.  Veniva  in
moda il francese: e' non volle apprendere il francese. La letteratura tendeva al
nuovo, ed egli  accusava  questa  letteratura  «non...  animata  dalla  sapienza
greca..., o invigorita dalla grandezza romana». Nella medicina  era  con  Galeno
contro i moderni, divenuti scettici «per le  spesse  mutazioni  de'  sistemi  di
fisica». Nel dritto biasimava gli eruditi moderni, e se ne stava con gli antichi
interpreti. Vantavano l'evidenza delle matematiche; ed egli  se  ne  stava  tra'
misteri della  metafisica.  Predicavano  la  ragione  individuale,  ed  egli  le
opponeva la tradizione, la  voce  del  genere  umano.  Gli  uomini  popolari,  i
progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso,
che stavano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui  era  un  retrivo,
con tanto di coda, come si  direbbe  oggi.  La  coltura  europea  e  la  coltura
italiana s'incontravano per la prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. Vico
resisteva. Era vanità di pedante? era  fierezza  di  grande  uomo?  Resisteva  a
Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano «lumi sparsi»,  a
Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui Saggio  era  la  «metafisica  del
senso». Resisteva, ma li studiava più che non facessero  i  novatori.  Resisteva
come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare.  Accettava  i  problemi,
combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co' suoi metodi e coi  suoi
studi. Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava  assorbire,
e stava chiusa nel suo passato,  ma  resistenza  del  genio,  che  cercando  nel
passato trovava il mondo moderno.  Era  il  retrivo  che  guardando  indietro  e
andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli
che lo precedevano. Questa era la resistenza di  Vico.  Era  un  moderno,  e  si
sentiva e si credeva antico, e resistendo allo spirito  nuovo,  riceveva  quello
entro di sè.
        Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era  il  suo  uomo,  dopo
Platone e Tacito. Quel suo libro, De augumentis scientiarum,  gli  faceva
dire: - Roma e Grecia non hanno avuto un Bacone. - Trovava in lui  congiunto  il
senso ideale di Platone, il senso  pratico  di  Tacito,  la  «sapienza  riposta»
dell'uno, la sapienza volgare dell'altro. E poi,  gli  apriva  nuovi  orizzonti.
Avea studiato tanto, e la sua scienza non era più un libro chiuso, ci era  tanto
da aggiungere, tanto da riformare. Voleva egli pure  conferire  del  suo  «nella
somma che costituisce l'universal  repubblica  delle  lettere».  Non  è  più  un
erudito immobilizzato nel passato, è un riformatore, un  investigante.  Critica,
dubita, esamina, approfondisce. Sente il morso dello  spirito  nuovo.  Ne'  suoi
studi dell'antica sapienza italica,  vedi  già  il  disdegno  delle  «etimologie
grammaticali», il dispregio dell'erudizione volgare, l'uomo che tenta nuove vie,
intravvede nuovi orizzonti, cerca tra i particolari le alte generalità.
        Più tardi gli capitò Grozio. E divenne il suo  «quarto  autore».  Grozio
gli completa Bacone. Costui vide «tutto il saper umano e divino doversi supplire
in ciò che non ha, ed emendare in ciò che ha;  ma  intorno  alle  leggi...,  non
s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa  di  tutt'i  tempi,  nè
alla distesa di tutte le nazioni». Grozio gli dà un dritto universale, in cui «è
sistemata tutta la filosofia e teologia». Il comentatore del  dritto  romano  si
sente alzare a filosofo. Cerca una filosofia del dritto con Grozio, e si  fa  il
suo annotatore: poi riflette che è un eretico, e lascia stare.
        La materia della sua coltura è  sempre  quella,  dritto  romano,  storia
romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua  metafisica  è  platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia e l'ente, l'uno, Dio. Tutto
viene da Dio, tutto torna  a  Dio,  l'«unum  simplicissimum»  di  Ficino.
L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni. La  scienza  è  conoscere
Dio, «perdere se stesso» in Dio. E vien su il Dio di Campanella, l'eterno  lume,
il senno eterno, con le sue primalità, «nosse,  velle,  posse».  Fin  qui
Vico è un luogo comune. La sua erudizione e la sua filosofia camminano in  linea
parallela, e non s'incontrano. Manca l'attrito. Ci è l'ascetico, il teologo,  il
platonico, l'erudito, ci è l'italiano di quel tempo nello stato ordinario  delle
sue credenze e della sua cultura.
        Dentro a questa cultura e contro  a  queste  credenze  venne  ad  urtare
Cartesio. - La cultura non ha valore; del passato  bisogna  far  tavola.  Datemi
materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il  senso.
- Cosa diveniva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di  Vico?
Cosa divenivano le «idee divine» di Platone?  E  il  «simplicissimum»  di
Ficino cosa  diveniva?  E  il  dritto  romano,  la  storia,  la  tradizione,  la
filologia, la poesia, la rettorica, non era più buona a  nulla?  Nella  violenta
contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Uscì del vago e del comune, trovò  un
terreno, un problema, un avversario. La sua erudizione  si  spiritualizzava.  La
sua filosofia si concretava. E si compivano l'una nell'altra.
        Già non si perde negli accessorii; vede e  investe  subito  la  dottrina
avversaria nella sua base. Vuole atterrare  Cartesio,  e  con  lo  stesso  colpo
atterra tutta la nuova scienza, e non andando indietro, ma andando  più  avanti.
La sua confutazione di Cartesio è completa, è l'ultima parola della critica.  Ma
la sua critica non è solo negativa: è creatrice;  la  negazione  si  risolve  in
un'affermazione più vasta, che tirasi appresso, come  frammenti  di  verità,  le
nuove dottrine, e le alloga, le mette a posto.  La  nuova  scienza,  la  scienza
degli uomini nuovi, trova nella Scienza nuova il suo limite, e perciò  la
sua verità.
        La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e politica, è in  uno  stato
di guerra contro il passato,  e  lo  combatte  sotto  tutte  le  sue  forme.  La
tradizione, l'autorità, la fede è il suo nemico, e cerca riparo  nella  forza  e
nell'indipendenza della ragione individuale; gli «universali»,  gli  «enti»,  le
«quiddità» lo infastidiscono  della  metafisica,  e  cerca  la  sua  base  nella
psicologia, nella coscienza; il soprannaturale, il sopramondano offende  il  suo
intelletto adulto, e vi oppone lo studio diretto della natura, la fisica nel suo
senso più generale, le scienze positive; al gergo scolastico cerca  un  antidoto
nella precisione delle matematiche, nel  metodo  geometrico;  ai  misteri,  alle
cabale, alle scienze occulte, alle astrazioni  oppone  l'esperienza  rischiarata
dall'osservazione, la percezione chiara e distinta, l'evidenza della coscienza e
del senso; alla società in quello stato di corruzione oppone  l'uomo  integro  e
primitivo, la natura dell'uomo, dalla quale cava i princìpi della morale  e  del
dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza: naturalismo e umanismo,  fisica
e psicologia. Cartesio in maschera di Platone porta la bandiera.
        Ma non inganna Vico, che gli strappa la maschera. - Tu non  sei  che  un
epicureo. La tua fisica è atomistica, la  tua  metafisica  è  sensista,  il  tuo
trattato Delle passioni par fatto più per i medici che  per  i  filosofi;
segui la morale del  piacere.  -  Combattendo  Cartesio,  la  quistione  gli  si
allarga, attinge nella  sua  essenza  tutto  il  nuovo  movimento.  Anch'esso  è
un'astrazione. È un'ideologia empirica, idea vuota, e vuoto fatto.  L'importante
non è di dire «io penso» (la grande novità!), ma è di spiegare come il  pensiero
si fa. L'importante non è di osservare il fatto, ma di esaminare come  il  fatto
si fa. Il vero non è nella sua immobilità, ma nel suo divenire, nel suo «farsi».
L'idea è vera, colta nel suo farsi. Il pensiero è moto  che  va  da  un  termine
all'altro, è idea che si fa,  si  realizza  come  natura,  e  ritorna  idea,  si
ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò «verum et factum», vero  e  fatto
sono convertibili, nel fatto vive il vero, il fatto è pensiero,  è  scienza;  la
storia è una scienza, e come ci è una logica per il moto delle idee, ci è  anche
una logica per il moto de' fatti, una «storia ideale eterna, sulla quale corrono
le storie di tutte le nazioni».
        Ecco ribenedetta tradizione, autorità e fede;  ecco  filologia,  storia,
poesia, mitologia, tutta l'erudizione rientrata  in  grembo  della  scienza.  La
storia è fatta dall'uomo, come le matematiche, e perciò è scienza  non  meno  di
quelle. È il pensiero che fa quello che pensa,  è  la  «metafisica  della  mente
umana», la sua «costanza», il suo processo di formazione secondo le leggi  fisse
del pensiero umano. Perciò la sua base non è  nella  coscienza  individuale,  ma
nella coscienza del genere umano, nella ragione  universale.  I  nuovi  filosofi
vogliono rifare il mondo coi loro princìpi assoluti, co' loro dritti universali.
Ma non sono i filosofi che fanno la storia, e  il  mondo  non  si  rifà  con  le
astrazioni. Per rifare la società non basta  condannarla:  bisogna  studiarla  e
comprenderla. E questo fa la «Scienza nuova».
        A Vico non basta porre le basi;  mette  mano  alla  costruzione.  Se  la
storia ha la sua costanza scientifica, se è fatta  dal  pensiero,  com'e  fatta?
Qual è il suo processo di formazione? Che la storia sia  una  scienza,  non  era
cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall'arbitrio divino  e
dal caso Machiavelli avea già contrapposta la «forza  delle  cose»,  lo  spirito
della storia  eterno  e  immutabile.  L'«intelletto  universale»  di  Bruno,  la
«ragione che governa il  mondo»  di  Campanella  rientrano  nella  stessa  idea.
Platone con le sue «idee divine» porgeva già il filo a Vico. L'importante era di
eseguire il problema, il cui dato era già posto,  era  il  trovar  le  leggi  di
questo spirito della storia, era il «probare per causas», il generare  la
storia come l'uomo genera le matematiche, il fare la storia  della  storia,  ciò
che era fare una scienza nuova. Di questa storia ideale egli «ritrova  le  guise
dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana», cerca la base  nella
natura dell'uomo, doppio com'è, spirito e corpo. È una psicologia applicata alla
storia. Stabilisce  alcuni  canoni  psicologici,  ch'egli  chiama  «degnità»,  o
«princìpi». Il concetto è questo: che l'uomo, come essere  naturale,  opera  per
istinti, sotto la pressura dei  suoi  bisogni,  interessi  e  passioni;  ma  ivi
appunto si sviluppa come essere pensante, come Mente, sì che nelle sue opere più
grossolane e corpulente ce n'è come un'immagine velata,  il  sentore.  La  quale
immagine si fa più chiara, secondo che «la mente più si spiega», insino a che il
pensiero si  manifesta  nella  sua  propria  forma,  opera  come  riflessione  o
filosofia. Questo, che è il corso naturale della vita individuale,  è  anche  il
corso naturale e la storia di tutte le nazioni, quando non ci sia interruzione o
deviazione per violenza di casi estrinseca, come fu per  Numanzia  oppressa  nel
suo fiorire da' romani. Perciò nelle nazioni ci è tre età, la divina, l'eroica e
la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie, dove l'uomo è servo del
corpo, e come una «fiera vagante nella gran selva della terra». La libertà è  il
«tenere in freno i moti della concupiscenza, che viene dal  corpo,  e  dar  loro
altra direzione, che viene dalla mente ed è propria dell'uomo». Secondo  che  la
mente si spiega, o si fa più intelligente, si sviluppa la  libertà,  prevale  la
ragione o l'«umanità». La prima età ragionevole o socievole, l'età divina, sorse
co' matrimoni e  l'agricoltura,  quando,  «a'  primi  fulmini  dopo  l'universal
diluvio», gli uomini «si umiliarono ad  una  forza  superiore  che  immaginarono
essere Giove, e tutte le umane utilità  e  tutti  gli  aiuti  porti  nelle  loro
necessità immaginarono essere dei». Allora, rinunziando alla vaga venere, ebbero
certe mogli, certi figli e certe dimore, sorsero le famiglie governate da' padri
con «famigliari imperii ciclopici». In questi regni famigliari, divenuti  sicuro
asilo contro i selvaggi o vaganti, riparavano  i  deboli  e  gli  oppressi,  che
furono ricevuti in protezione, come clienti o famoli. Così si ampliarono i regni
famigliari, e si spiegarono le «repubbliche erculee» sopra  ordini  naturalmente
migliori per  virtù  eroiche,  la  pietà  verso  gl'iddii,  la  prudenza,  o  il
consigliarsi co' divini auspìci, la temperanza, onde i concubiti umani e pudichi
co' divini auspìci, la fortezza, uccider fiere, domar terreni,  la  magnanimità,
il soccorrere a' deboli e  a'  pericolanti.  In  questi  primi  ordini  naturali
comincia la libertà, e il primo spiegarsi della mente. Nacque la  corruzione.  I
padri, lasciati grandi per la religione e virtù  de'  loro  maggiori  e  per  le
fatiche de' clienti, tralignarono, uscirono dall'ordine naturale, che  è  quello
della  giustizia,  abusarono  delle   leggi   di   protezione   e   di   tutela,
tiranneggiarono: indi la ribellione de' clienti. Allora padri delle famiglie  si
unirono con le loro attinenze in ordini contro di quelli, e per pacificarli, con
la prima legge agraria concessero il «dominio bonitario»,  ritenendosi  essi  il
«dominio ottimo», o «sovrano famigliare»: onde nacquero  le  prime  città  sopra
«ordini regnanti di nobili», e  l'«ordine  civile».  Finirono  i  regni  divini:
cominciarono gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò
gli auspìci e i matrimoni, e per essa religione  furono  de'  soli  eroi  tutt'i
diritti e tutte le ragioni civili. Ma «spiegandosi le  umane  menti»,  i  plebei
intesero essere di egual natura umana co' nobili, e  vollero  entrare  anch'essi
negli ordini civili delle città,  essere  sovrani  nelle  città.  Finisce  l'età
eroica, comincia l'età umana, l'età della eguaglianza, la «repubblica popolare»,
dove comandano gli ottimi non per nascita, ma per virtù. In questo  stato  della
mente agli uomini non è più necessario fare le azioni  virtuose  per  «sensi  di
religione», perchè la filosofia fa intendere le  «virtù  nella  loro  idea»;  in
forza della quale riflessione, quando anche gli uomini non abbiano virtù, almeno
si vergognano de' vizi. Nasce la filosofia e l'eloquenza, insino a che  l'una  è
corrotta dagli scettici, l'altra da' sofisti. Allora,  corrompendosi  gli  stati
popolari, viene l'anarchia, il totale disordine, la  peggiore  delle  tirannidi,
che è la sfrenata libertà de' popoli liberi. I quali o cadono in servitù  di  un
monarca, che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi  con  la  forza
delle armi; o diventano schiavi per «diritto natural delle  genti»,  conquistati
con armi da nazioni migliori, essendo giusto che chi non sa governarsi da sè  si
lasci governare da altri che il possa,  e  che  nel  mondo  governino  sempre  i
migliori; o, abbandonati  a  sè,  in  quella  folla  di  corpi  vivendo  in  una
solitudine d'animi e di voleri, seguendo ognuno il suo piacere e capriccio,  con
disperate guerre civili vanno a fare selve delle città,  e  delle  selve  covili
d'uomini, e in lunghi secoli  di  barbarie  vanno  ad  «irrugginire  le  malnate
sottigliezze degl'ingegni maliziosi». Con questa «barbarie della riflessione» si
ritorna allo stato selvaggio, alla «barbarie del senso»,  e  ricomincia  con  lo
stess'ordine una nuova storia, si rifà lo stesso corso.
        Questa è la «storia ideale eterna», la logica della storia,  applicabile
a tutte le storie particolari.  È  in  fondo  la  storia  della  mente  nel  suo
spiegarsi, come dice Vico, dallo stato di senso, in cui è  come  dispersa,  sino
allo stato di riflessione, in cui si riconosce e si afferma. L'operazione con la
quale l'intelletto giunge alla verità  è  la  stessa  operazione  con  la  quale
l'intelletto fa la storia. Locke aveva il suo complemento  in  Vico.  La  teoria
della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era una nuova
applicazione della psicologia. Gli uomini operano secondo i loro impulsi e  fini
particolari; ma «i risultati  sono  superiori  a'  loro  fini»,  sono  risultati
mentali, il successivo progredire della  mente  nel  suo  spiegarsi.  Perciò  le
passioni, gl'interessi, gli accidenti, i fini particolari sono non la storia, ma
le occasioni, e gl'istrumenti della storia; perciò una scienza  della  storia  è
possibile. Machiavelli e Hobbes ti dànno la storia occasionale,  non  la  storia
finale e sostanziale. La loro storia è vera, ma non è  intera,  è  frammento  di
verità. La verità è nella totalità, nel vedere «cuncta ea, quae in re insunt,
ad rem sunt affecta», l'idea nella pienezza del suo contenuto  e  delle  sue
attinenze. Machiavelli è non meno di Vico  un  profondo  osservatore  de'  fatti
psicologici, è un ritrattista, ma non è un metafisico.  La  psicologia  di  Vico
entra già nelle regioni della metafisica, ti  dà  le  prime  linee  della  nuova
metafisica, fondata non sull'immobilità dell'ente guardato nei  suoi  attributi,
ma sul suo moto o divenire; perciò non descrizione o dimostrazione, come  te  la
dava Aristotile e Platone, ma vero dramma, la storia dello spirito nel mondo. In
questo dramma tutto ha la sua spiegazione,  tutto  è  allogato,  la  guerra,  la
conquista, la rivoluzione, la tirannide, l'errore,  la  passione,  il  male,  il
dolore, fatti necessari e strumenti del progresso. Ciascuna età  storica  ha  la
sua guisa di nascere e di vivere, la sua natura, onde  procede  la  forza  delle
cose, la sapienza volgare del genere umano, il  senso  comune  delle  genti,  la
forza collettiva. Non è l'individuo,  è  questa  forza  collettiva,  che  fa  la
storia; e spesso i più celebrati individui non  sono  che  simboli  e  immagini,
«caratteri poetici» di quella forza,  come  Zoroastro,  Ercole,  Omero,  Solone.
Cerchi un individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto, e trovi un'idea. Fabbro
della storia è «l'umano arbitrio regolato con la sapienza volgare».
        Rimaneva a dare la dimostrazione di  questa  storia  ideale:  dimostrare
cioè che tutte le storie particolari  sono,  secondo  quella,  regolate  da  uno
stesso corso d'idee, ubbidienti a un solo tipo. La prova  poteva  cercarla  a
priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi.  Lo  spirito  si
estrinseca in conformità della sua natura, in che è la sua logica, la legge  del
suo divenire, e quel divenire è appunto la storia. Ma Vico, appena adombrate  le
prime linee della nuova metafisica, si arresta sulla soglia, e ritorna  erudito,
e cerca la prova a posteriori, consultando tutte le storie, e cercando in
tutte il suo corso, il suo sistema, e non solo nelle grandi linee,  ma  ne'  più
minuti accidenti. Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s'immerge
tra' «rottami dell'antichità», e raccoglie  i  minimi  frammenti,  e  li  anima:
«intus legit», li fa  corpi  interi,  ricostituisce  la  storia  reale  a
immagine della sua storia ideale. È il mondo guardato  da  un  nuovo  orizzonte,
ricreato dalla critica e dalla filosofia, e con la sua originalità  scolpita  in
quella potente forma, lapidaria  e  metaforica,  come  una  legge  delle  dodici
tavole. Cerca tra quei rottami la prova della «scienza nuova», e scopre per  via
nuove scienze. Lingua,  mitologia,  poesia,  giurisprudenza,  religioni,  culti,
arti, costumi, industrie, commercio, non sono fatti arbitrari, sono fatti  dello
spirito,  le  scienze  della  sua  Scienza.   Cronologia,   geografia,   fisica,
cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto questa nuova  critica.  Ad  ogni
passo senti il grido trionfale del gran creatore: - Ecco una nuova  scoperta!  -
Alla metafisica della mente umana, filosofia dell'umanità o  delle  idee  umane,
onde scaturisce una giurisprudenza, una morale e una politica del genere  umano,
corrisponde la logica, «fas gentium»,  una  scienza  dell'espressione  di
esse idee, la filologia. Ecco dunque una scienza delle lingue e de' miti e delle
forme poetiche, una lingua del genere umano,  una  teoria  dell'espressione  ne'
miti, ne' versi, nel canto, nelle arti. E  come  teoria  e  scienza  non  è  che
«natura delle cose», e la natura delle cose è nelle «guise di  lor  nascimenti»;
l'uomo ardito, sgombro lo spirito d'ogni idea anticipata e fidato  al  solo  suo
intendere; si addentra nelle origini dell'umanità, guaste dalla  doppia  «boria»
«delle nazioni e de' dotti», e tu assisti alla prima formazione  delle  società,
de' governi, delle leggi, de' costumi, delle lingue, vedi nascere la  storia  di
entro la mente umana, e svilupparsi logicamente da' suoi  elementi  o  princìpi,
«religione, nozze, sepolture», svilupparsi sotto tutte le forme,  come  governo,
come legge, come costume, come religione, come arte, come scienza,  come  fatto,
come parola.  La  sua  grande  erudizione  gli  porge  infiniti  materiali,  che
interpreta, spiega, alloga, dispone, secondo i bisogni  della  sua  costruzione,
audace  nelle  etimologie,  acuto  nelle  interpretazioni   e   ne'   confronti,
sicurissimo ne' suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con l'aria  di  chi
scopre ad ogni tratto nuovi mondi, tenendo sotto i  piedi  le  tradizioni  e  le
storie volgari. Così è nata questa prima  storia  dell'umanità,  una  specie  di
Divina Commedia, che dalla «gran selva della  terra»  per  l'inferno  del
puro sensibile si va realizzando tra via sino all'età umana della riflessione  o
della filosofia;  irta  di  forme,  di  miti,  di  etimologie,  di  simboli,  di
allegorie,  e  non  meno  grande  che  quella;  pregna  di   presentimenti,   di
divinazioni, d'idee scientifiche, di veri e di scoperte: opera di  una  fantasia
concitata dall'ingegno filosofico e fortificata dall'erudizione,  che  ha  tutta
l'aria di una grande rivelazione.
        È la  Divina  Commedia  della  scienza,  la  vasta  sintesi,  che
riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora ingombra di vecchi  frantumi
dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano, continuatore di  Ficino  e
di Pico, uno di spirito con Torquato Tasso, Vico non comprende la Riforma, e non
i tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia con  la  teologia,  e  la  sua
erudizione con  la  filosofia,  costruire  un'armonia  sociale  come  un'armonia
provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i pie il globo, e gli occhi  estatici
in su verso l'occhio della provvidenza, onde le piovono  i  raggi  delle  divine
idee.  Vuole  la  ragione,  ma  vuole  anche  l'autorità,  e  non  certo   degli
«addottrinati», ma del genere umano; vuole la fede e la tradizione; anzi fede  e
tradizione non sono che essa medesima la ragione, «sapienza volgare».  Tale  era
l'uomo formato nella biblioteca di un  convento;  ma,  entrando  nel  mondo  de'
viventi, lo spirito nuovo l'incalza, e combattendo Cartesio, subisce l'influenza
di Cartesio.  Era  impossibile  che  un  uomo  d'ingegno  non  dovesse  sentirsi
trasformare al contatto dell'ingegno. Tutto dietro a costruir  la  sua  scienza,
gli si affaccia il «de omnibus dubitandum» ed il «cogito»:

        «... in meditando i princìpi di questa Scienza, dobbiamo...  ridurci  in
uno stato di una somma ignoranza di tutta l'umana e divina erudizione,  come  se
per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi nè filosofi, nè filologi,  e
chi si vuol profittare, egli in tale stato si dee ridurre, perché nel  meditarvi
non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni.»

        Parole auree, che sembrano tolte da una pagina del Metodo.  E  in
questa ignoranza cartesiana, qual è l'«unica verità», che  fra  tante  dubbiezze
non si può mettere in dubbio, ed è perciò la «prima di siffatta Scienza»?  È  il
«cogito», è la mente umana.

        «Poiché... il mondo delle gentili  nazioni...  è  stato...  fatto  dagli
uomini, i di lui princìpi si debbono ritruovare dentro la  natura  della  nostra
mente umana e nella forza del nostro intendere.»

La provvidenza e la metafisica, che guarda in  lei,  sono  nel  gran  quadro  un
semplice antecedente, o, com'egli dice, un'«anticipazione», un convenuto  e  non
dimostrato: il quadro è la mente umana nella  natura  e  nell'ordine  della  sua
esplicazione, la mente umana delle nazioni,  la  storia  delle  umane  idee.  La
provvidenza regola il mondo, assistendo il libero arbitrio con la sua grazia, ed
oltrepassando ne' suoi risultati i fini  particolari  degli  uomini;  ma  questi
risultati provvidenziali non sono più miracolo,  sono  scienza  umana,  sono  lo
«schiarire delle idee», lo «spiegarsi della mente». Come Bruno,  Vico  canta  la
provvidenza e narra l'uomo: non è più  teologia,  è  psicologia.  Provvidenza  e
metafisica sono di lontano, come sole o  cielo,  nello  sfondo  del  quadro:  il
quadro è l'uomo, e la sua luce, la sua scienza è in lui stesso, nella sua mente.
La base di questa scienza è moderna, ci è Cartesio col suo scetticismo e col suo
«cogito». Ben talora, portato dall'alto ingegno  speculativo,  spicca  il
volo verso la teologia e la metafisica, ma Cartesio è là che lo richiama,  e  lo
tiene stretto ne' fatti psicologici. Nel quale studio del processo  della  mente
negl'individui e ne' popoli fa osservazioni così profonde e insieme così giuste,
che ben si sente il contemporaneo  di  Malebranche,  di  Pascal,  di  Locke,  di
Leibnizio, il più affine al suo spirito, e ch'egli chiama «il primo ingegno  del
secolo».  Nè  solo  è  moderno  nella  base,  ma  nelle  conclusioni,  mostrando
nell'ultimo spiegarsi della mente vittoriosi  i  princìpi  de'  nuovi  filosofi.
Perchè corona della sua epopea storica è lo  spiritualizzarsi  delle  forme,  il
trionfo della filosofia, o della mente nella sua «riflessione»,  la  fine  delle
aristocrazie, e perciò de' feudi e della servitù, la libertà e l'uguaglianza  di
tutte le classi, come stato delle società «ingentilite  e  umane»,  come  ultimo
risultato  della  coltura.  È  la  teocrazia  e  l'aristocrazia  conquise  dalla
democrazia per  il  naturale  spiegarsi  della  mente,  è  l'affermazione  e  la
glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne  spicca  e  rimane
solo in  mezzo  al  suo  secolo.  Posto  tra  il  mondo  della  sua  biblioteca,
biblico-teologico-platonico, e il mondo naturale di Cartesio e  di  Grozio,  due
assoluti, e impenetrabili come due solidi, e che si scomunicavano l'un  l'altro,
cerca la conciliazione in un mondo superiore, l'idea mobilizzata o storica, e in
una scienza superiore, la critica, l'idea analizzata e giustificata ne'  momenti
della sua esistenza, la scienza  uscita  dall'assolutezza  e  rigidità  del  suo
dommatismo, e mobilizzata come il suo contenuto. La  critica  è  rifare  con  la
riflessione quello che la mente ha fatto  nella  sua  spontaneità.  È  la  mente
«spiegata e schiarita», che si riflette sulla sua opera e  vi  trova  se  stessa
nella sua identità e nella sua  continuità;  è  la  coscienza  dell'umanità.  In
questo mondo superiore tutto si move e tutto si riconcilia e  si  giustifica;  i
princìpi, che i nuovi filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili in ogni
tempo e in ogni luogo, e co' quali dannavano tutto il passato, si riferiscono  a
stati sociali di certe epoche e di certi luoghi; ed i princìpi contrari, appunto
perchè in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati «comportevoli», sono
veri anch'essi, come anticipazioni e  vestigi  de'  princìpi  nuovi.  Perciò  il
criterio della verità non è l'idea in sè, ma l'idea come si fa  o  si  manifesta
nella storia della mente, il senso comune del genere umano, ciò  ch'egli  chiama
la «filosofia dell'autorità». Qui Vico avea contro di sè Platone  e  Grozio,  il
passato e il presente. La malattia  del  secolo  era  appunto  la  condanna  del
passato in nome di princìpi astratti, come il passato condannava esso in nome di
altri princìpi astratti. Vico era come chi, vivuto solitario nel suo  gabinetto,
scenda in piazza d'improvviso, e vegga gli uomini  concitati,  co'  pugni  tesi,
pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono  sembrare  de'  pazzi  da
catena. - A che tanto furore contro il  passato?  Il  quale,  appunto  perchè  è
stato, ha avuto la sua ragion  d'essere.  E  poniamo  pure  sia  tutto  cattivo,
credete di poter distruggere con la forza l'opera  di  molti  secoli?  I  vostri
princìpi! Ma credete voi che la storia si fa da' filosofi  e  co'  princìpi?  La
vostra ragione! Ma ci è anche la ragione degli altri, uomini  come  voi,  e  che
sanno ragionare al pari di voi. E poi, un po' di rispetto, io credo, si dee pure
all'autorità. E non parlo di tanti dottori, ne'  quali  non  avete  fede:  parlo
dell'autorità del genere umano, al quale, se uomini siete non potete negar fede.
Un po' meno di ragione, e un po' più di  senso  comune.  -  Un  discorso  simile
sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede. E  qualcuno
poteva rispondergli: - Fàtti in là, e sta' fra le tue nuvole, e non  venire  fra
gli uomini, chè non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su' libri: è la
tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale, di cui sentiamo  le  punture
ad ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perchè è, ha
la sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci parla della
sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato, nostro  martirio  e
de' padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar  la  tua
critica. - Vico rimase solo nel secolo battagliero; e quando la lotta ebbe  fine
si alzò come iride di pace la sua immagine su' combattenti, e comunicò la parola
del nuovo secolo: «critica». Non più dommatismo, non più  scetticismo:  critica.
Nè altro è la storia di Vico che una critica dell'umanità: l'idea vivente  fatta
storia e, nel suo eterno peregrinaggio seguita, compresa, giustificata in tutt'i
momenti della sua vita.  I  princìpi,  come  gl'individui  e  come  la  società,
nascono, crescono e muoiono, o piuttosto, poichè niente muore,  si  trasformano,
pigliando forme sempre più ragionevoli, più conformi  alla  mente,  più  ideali.
Indi la necessità del progresso, insita nella stessa natura della mente, la  sua
fatalità. La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede, la
formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino,  diresti  che  l'indica
col dito, e quando non gli resta a fare che un passo per giungervi, la gli fugge
dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non sa uscirne. Poneva le  premesse  e
gli fuggiva la  conseguenza.  Gli  è  perchè,  profondo  conoscitore  del  mondo
greco-romano, non seppe spiegarsi il medio evo, e non  comprese  i  tempi  suoi,
parendogli indizio di  decadenza  e  di  dissoluzione  quella  vasta  agitazione
religiosa e politica, in cui era la crisi e la salute. D'altra  parte  lui,  che
negava l'esistenza di Omero, non osò sottoporre alla  sua  critica  il  mito  di
Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della provvidenza e  la  missione  del
cristianesimo, lasciando grandi ombre  nelle  sue  pitture.  Vedi  la  coscienza
moderna rilucere nel mondo pagano,  ardita  nelle  sue  negazioni  e  nelle  sue
spiegazioni, e, quando sta per entrare nel mondo  inquieto  e  appassionato  de'
vivi, chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de' grandi pensatori;
aprire le grandi vie, stabilire le grandi premesse, e lasciare a'  discepoli  le
facili conseguenze. Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili  effetti  che
doveano uscire dalle sue  speculazioni.  Cartesio  avrebbe  rinnegati  per  suoi
Spinosa e Locke, e Vico Condorcet, Herder ed Hegel. Poichè si occupa  più  degli
antichi che de' moderni, più de' morti che de' vivi, i vivi lo dimenticarono. La
sua Scienza parve più  una  curiosa  stranezza  di  erudito,  che  una  profonda
meditazione di filosofo, e non fu presa sul serio.

        Intanto il secolo camminava con passo  sempre  più  celere,  tirando  le
conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo. La scienza si  faceva
pratica, e scendeva in mezzo al popolo. Non s'investigava più: si  applicava,  e
si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica, e diveniva letteraria; le
lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino.  Il  trattato  e  la
dissertazione  divenivano  memorie,  lettere,  racconti,   articoli,   dialoghi,
aneddoti; forme  scolastiche  e  forme  geometriche  davano  luogo  al  discorso
naturale,  imitatore  del  linguaggio  parlato.  La  scienza  prendeva  aria  di
conversazione, anche negli scrittori più  solenni  come  Buffon  e  Montesquieu,
conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico, la «sapienza
riposta» diveniva «sapienza volgare»,  e,  scendendo  nella  vita,  prendeva  le
passioni e gli abiti della vita: ora amabile e spiritosa,  come  in  Fontenelle,
ora limpida, scorrevole, facile, come in Condillac e in Elvezio; ora rettorica e
sentimentale, come in Diderot.  Il  «dritto  naturale»  di  Grozio  generava  il
Contratto sociale, la  società  era  dannata  in  nome  della  natura,  e
l'erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata  di
Rousseau. Lo scetticismo un po' impacciato di Bayle, velato  fra  tante  cautele
oratorie, si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L'erudizione  e
la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano  un  amabile  senso
comune. La scienza diveniva letteratura, e la letteratura a sua  volta  non  era
più serena contemplazione, era un'arma  puntata  contro  il  passato.  Tragedie,
commedie, romanzi, storie, dialoghi, tutto era pensiero militante che dalle alte
cime della speculazione scendeva in piazza tra gli  uomini,  e  si  propagava  a
tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le  sue  forme,  filosofia,
arte, critica, filologia, erano macchine di guerra e la macchina più formidabile
fu l'Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot  proclamava
l'ideale. Elvezio proclamava la natura. Rousseau proclamava i dritti  dell'uomo.
Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava  il  dritto  di
resistenza.  Smith  glorificava  il  lavoro  libero.  Blackstone   rivelava   la
Carta inglese.  Franklin  annunziava  la  nuova  «carta»  all'Europa.  La
società sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare l'ordine  e  la  luce.
Una nuova coscienza si formava negli uomini, una nuova fede.  Riformare  secondo
la scienza istituzioni, governi, leggi e costumi, era l'ideale di tutti, era  la
missione della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza  che  ebbero
al secolo decimosesto i letterati. Maggiore  era  la  fede  in  questo  avvenire
filosofico, e più viva era la passione contro il presente. Tutto era male, e  il
male era stato tutto opera maliziosa  di  preti  e  di  re,  nell'ignoranza  de'
popoli. «Superstizione»,  «pregiudizio»,  «oppressione»  erano  le  parole,  che
riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato.  «Libertà,  uguaglianza,
fraternità umana» erano il verbo,  che  riassumeva  l'avvenire.  Tutto  il  moto
scientifico dal secolo decimosesto in qua aveva acquistata la semplicità  di  un
catechismo. La rivoluzione era già nella mente.
        Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che  si  scioglieva  da
ogni involucro classico e teologico, e acquistava coscienza di  sè,  si  sentiva
tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava  alla  teologia.  Era  la
natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava ne' fatti la sua base. Era
l'uomo che cercava nella sua natura i suoi dritti e il  suo  avvenire.  Era  una
nuova forza, il popolo, che sorgeva sulle rovine del papato e  dell'impero.  Era
una nuova classe, la borghesia, che cercava il suo  posto  nella  società  sulle
rovine del clero e dell'aristocrazia.  Era  la  nuova  «carta»,  non  venuta  da
concessioni divine o umane, ma trovata dall'uomo nel fondo della sua  coscienza,
e proclamata in quella immortale Dichiarazione de' dritti dell'uomo.  Era
la  libertà  del  pensiero,  della  parola,  della  proprietà  e   del   lavoro,
l'eguaglianza de' dritti e de' doveri. Era la fine de' tempi divini ed eroici  e
feudali, il rivelarsi di quella «età umana», così  ammirabilmente  descritta  da
Vico. Il medio evo finiva: cominciava l'evo moderno.
        E che cosa era questa vecchia società, soprapposta a tutto il resto?  Ci
era alla cima il papato assoluto e la monarchia assoluta,  che  si  pretendevano
amendue di dritto divino, ed erano stampati  sullo  stesso  modello.  Il  papato
pretendea ancora al dominio universale, ma in parola  e  conscio  della  scemata
possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti, e  mantenea  vigorosamente  la
sua influenza e la sua giurisdizione in  tutti  gli  Stati.  Come  re,  il  papa
governava in modi così assoluti come tutti i monarchi. L'assolutismo dominava in
tutta Europa. Quello che era la corte romana al Cinquecento, erano allora  tutte
le  corti:  scostumatezza,  dissipazione,  ignoranza.  I  conventi   screditati,
chiamati «covi del vizio», «asilo dell'ozio e dell'ignoranza». Il clero, scemato
di coltura e di riputazione, aumentato di numero  e  di  ricchezza.  I  vescovi,
adulatori in corte, tiranni nelle diocesi, signori feudali. I nobili,  a'  piedi
del trono, e co' piedi sopra i vassalli. Altare e trono, appoggiati sul clero  e
sulla nobiltà: lì era la libertà, lì era il dritto; tutto il resto  era  poco  o
meno che cosa, e valeva assai poco. La fonte del dritto  era  nella  concessione
papale o sovrana: era investitura, privilegio,  immunità,  esenzione.  Le  leggi
erano un caos. Leggi romane, longobarde, canoniche, feudali, usi, costumanze. Un
altro caos erano le imposte. Ce n'erano del papa, del clero, de' baroni, del re,
sotto molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia «taillable et
corvèable a merci». Nessuna sicurezza per le proprietà e le persone, nessuna
protezione nelle leggi, nessuna guarentigia nei giudizi, secrete  le  procedure,
sproporzionate e arbitrarie le pene. Si  può  dire  di  quella  vecchia  società
quello che allora già si diceva della proprietà feudale. Era  manomorta,  l'uomo
così immobilizzato, come la terra. La palude non era solo  nel  territorio,  era
nel cervello.
        Dirimpetto a queste classi privilegiate, cristallizzate dal  dommatismo,
cioè a dire da un complesso d'idee  ammesse  per  tradizione  e  fuori  di  ogni
discussione, sorgeva lo scetticismo della borghesia, che tutto ponea in  dubbio,
di tutto facea discussione. La borghesia faceva in grandi proporzioni quello che
prima compirono i comuni  italiani.  Era  il  «medio  ceto»,  avvocati,  medici,
architetti,  letterati,  artisti,  scienziati,  professori,  prevalenti  già  di
coltura, che non si contentavano più di rappresentanze nominali, e  volevano  il
loro posto nella società. Non è già che si affermassero anch'essi come classe, e
volessero privilegi. Volevano libertà per tutti, uguaglianza di dritti e doveri,
parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel  fatto  erano
essi la classe predestinata, e in buona fede, parlando per tutti, lavoravano per
sè. La loro arma  di  guerra  era  lo  scetticismo.  Alla  fede  e  all'autorità
opponevano il dubbio e l'esame. Oggi è moda  declamare  contro  lo  scetticismo.
Pure non dobbiamo dimenticare che di là uscì l'emancipazione del pensiero umano.
Esso cancellò l'intolleranza religiosa, la credulità scientifica, e la servilità
politica.
        Il movimento, che usciva  dalle  fila  della  borghesia,  non  era  solo
popolare, cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi,  ma
era ancora cosmopolitico, o, come si dice oggi, «internazionale». L'accento  era
umano, più che nazionale. L'America e l'Europa si abbracciavano in un linguaggio
che esprimeva idee e speranze comuni; lo svizzero, l'olandese, il  francese,  il
tedesco, l'inglese parevano nati nello stesso paese, educati alle  stesse  idee.
Il movimento era universale nel suo obbiettivo e nel suo contenuto. L'obbiettivo
erano tutte le classi e tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una  riforma
religiosa, politica, morale e civile, ma  un  radicale  mutamento  nelle  stesse
condizioni economiche della società, ciò che oggi direbbesi  «riforma  sociale»,
correndo nel suo lirismo sino alla comunione de' beni. Nato dal costante  lavoro
di tre secoli, il movimento per la sua universalità contenea in idea o in  germe
tutta la storia futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure,  ciò  che  era
appena un principio, sembrava esser la fine: tanto parea cosa facile  effettuare
di un colpo tutto il programma.
        Dove il movimento si mostrava più energico e concentrato,  e  di  natura
assolutamente cosmopolitica, era in Francia. Ed essendo la lingua  francese  già
molto divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre  nazioni  appariva
appena, e nelle sue forme più modeste.
        La forma più temperata di questo movimento era l'antica lotta tra papato
e impero, divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie.  In
questo terreno i novatori avevano per sè i principi, e all'ombra loro spandevano
le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica  tradizione  coi  principi,  e
difendevano i loro dritti contro la Chiesa con una  dottrina  ed  un  acume  non
scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di  quel  tempo,  e  fu  loro
opera che le nuove idee si dilatassero nella classe  colta.  Nel  campo  avverso
erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti, che invelenivano la  lotta  e  ne
allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che  stuzzicava  l'ingegno.  In
quel  contrasto  si  formò  Paolo  Sarpi;  da   quel   contrasto   uscirono   le
Provinciali di Pascal, e il giansenismo e la scuola di  Portoreale  e  le
libertà gallicane, preludi di quel movimento, che  prendeva  allora  in  Francia
proporzioni così vaste. Ma in Italia il movimento iniziato con tanta larghezza e
ardire nel Cinquecento,  arrestato  e  snaturato  dalla  reazione  trentina,  si
manteneva ancora in quella forma, era lotta giurisdizionale tra papa e principi.
Il pensiero era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi:  ci  erano  fantasie
solitarie; mancava l'eco, non ci era ancora la moltitudine. Ma il  movimento  in
quella forma così circoscritta guadagnava terreno, e costituiva un vero  partito
politico,  intorno  al  quale  stava  schierata  tutta  la  borghesia.  Era   un
liberalismo a buon mercato, via a fortuna e favori principeschi, quando rimaneva
in quei limiti, e, attaccando curia e gesuiti, si mostrava riverente al  papa  e
alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo aspetto, e  mentre  il  buon
Vico fantasticava una storia dell'umanità e  andava  col  pensiero  così  lungi,
fervea la  lotta  giurisdizionale,  dov'erano  principali  attori  giureconsulti
eminenti, Capasso, D'Andrea, D'Aulisio,  Argento,  Pietro  Giannone.  I  gesuiti
cercavano appoggio nell'ignoranza popolare, e li predicavano empi e  nemici  del
papa. L'avevano principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono  contro
il  minuto  popolo,  che  fu  più  volte  a  rischio  della  vita.   Scomunicato
dall'arcivescovo, per aver lasciato stampar la sua Storia  senza  il  suo
permesso, riparò a Vienna, nè osò più tornare a Napoli,  ancorchè  l'arcivescovo
ci avesse avuto torto, e fosse stata ritrattata la  scomunica.  I  giureconsulti
sostenevano bastare per la stampa la licenza regia, non avere  alcun  valore  la
proibizione ecclesiastica, ed essere invalide le scomuniche senza fondamento  di
ragione.  Era  il  libero  esame  applicato  alla  giurisdizione  e  agli   atti
ecclesiastici. E ci era sotto altro, lo spirito laico che  si  ridestava,  e  lo
spirito borghese che si annunziava, il medio ceto, che all'ombra  del  principe,
interessato anche lui nella lotta, si facea valere così contro la nobiltà,  come
e più contro il clero.
        Da questa lotta uscì la Storia civile del regno di Napoli, e  più
tardi il Triregno, di Pietro Giannone. La Storia per la sua  universalità
fu  tradotta  in  molte  lingue,   riguardando   principalmente   la   quistione
giurisdizionale, ardente in tutti  gli  Stati  cattolici.  Giannone  lasciò  gli
argomenti e venne a' fatti, prendendo il potere temporale fino nelle origini,  e
seguendolo ne' suoi ingrandimenti e nelle sue usurpazioni. È  una  requisitoria,
tanto più formidabile, quanto maggiore è la calma  dell'esposizione  istorica  e
l'imparzialità continuamente ostentata dell'erudizione  e  della  dottrina.  Non
mancano sarcasmi e punture, ma protesta sempre che  è  contro  gli  abusi  e  le
esorbitanze, e affetta il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente
l'universalità della Chiesa, tutta la comunione dei fedeli, insino a  che  sorge
usurpatore l'episcopato, assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo,
che il dritto è nella universalità de' fedeli: è la  democrazia  applicata  alla
Chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest'altro, che i  principi,
come capi della  società  laica,  hanno  ereditato  i  suoi  dritti.  Il  popolo
sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto: «Date a  Cesare  quel
che è di Cesare». I gesuiti ritorcevano l'argomento, sostenendo che la fonte del
dritto non è ne' principi, ma ne' popoli. Così democratizzavano  i  gesuiti  per
difendere il papato, e democratizzavano i giannonisti per combattere il  papato.
Erano inconseguenti gli uni e gli altri, e la vera conseguenza doveva tirarla il
popolo contro il papato e la monarchia  assoluta.  S'immagini  quale  propaganda
inconscia facevano. Era facile conchiudere, che se la fonte  del  dritto  è  nel
popolo,  sovrana  legittima  è  la  democrazia,  l'universalità  de'  fedeli   e
l'universalità de' cittadini. Il vero padrone mettea il  capo  fuori,  salutando
gesuiti e giannonisti come suoi  precursori,  benemeriti  tutti  e  due,  perchè
lavoravano gli uni a scalzare il principato assoluto, gli altri  a  scalzare  il
papato assoluto. Erano «istrumenti della  provvidenza»,  avrebbe  dettoVico,  la
quale tirava dall'opera loro risultati superiori a' loro fini.
        Si era sempre parlato dell'età  primitiva  della  Chiesa.  Una  immagine
confusa ne rimanea alle moltitudini, come dell'età dell'oro Dante,  Machiavelli,
Sarpi, Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici,  più  conformi
alla purità del Vangelo. Quello era  anche  il  cavallo  di  battaglia  per  gli
eretici. Ecco quella età divenuta storia particolareggiata, accertata e in buono
e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli della Chiesa sono
descritti coll'immaginazione vòlta  alla  Chiesa  di  quel  tempo.  Scrittore  e
lettore facevano il paragone. Di mezzo alla narrazione germogliava  l'allusione,
la confutazione, l'epigramma. Allora la gerarchia era molto semplice, e  non  ci
erano che vescovi, preti, e diaconi, e i preti non erano soggetti a' vescovi, ma
erano il loro senato, i loro consiglieri, e alla cima non  ci  era  nessuno  che
comandasse: comandava il sinodo, l'assemblea de' vescovi. La legge era la  sacra
Scrittura; i provvedimenti presi  nei  sinodi  erano  semplici  regolamenti  per
l'amministrazione delle chiese, e non ci era la ragion canonica,

 «la quale, col lungo correr degli anni, emula della ragion  civile,  maneggiata
da' romani pontefici, ardì non pur pareggiare, ma interamente  sottomettersi  le
leggi civili».

        La Chiesa non avea alcuna giurisdizione: la sua giustizia  era  chiamata
«notio», «iudicium», «audientia», non «iurisdictio»;
ed era censura di costumi, e arbitrato volontario. Clero e popolo  eleggevano  i
vescovi, e anche nell'elezione de' preti e de' diaconi clero e popolo vi avevano
lor parte. La Chiesa vivea di offerte volontarie, non avea stabili, e non decime
Ciò che soverchiava, si dava a' poveri. Tale era la Chiesa primitiva:

«ma assai mostruosa e con più strane forme  sarà  mirata  nell'età  meno  a  noi
lontane, quando, non bastandole d'avere in  tante  guise  trasformato  lo  stato
civile e temporale de' principi, tentò anche di sottoporre interamente l'imperio
al sacerdozio.»

        I monaci erano pochi, solitari, e  religiosi,  ma  la  corruzione  venne
subito, e

« non senza stupore scorgerassi come in queste nostre provincie  abbiano  potuto
germogliar tanti e sì vari ordini, fondandovi sì numerosi e magnifici monasteri,
che ormai occupano la  maggior  parte  della  repubblica  e  de'  nostri  averi,
formando un corpo tanto considerabile, che ha potuto mutar  lo  stato  civile  e
temporale di questo nostro reame.»

        Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa nè giurisdizione, così non
avea foro, nè territorio; perchè ciò «non dipende dalle chiavi, nè è di  diritto
divino, ma più tosto di diritto umano e positivo, procedendo dalla concessione o
permissione de' principi temporali, ai quali solamente «Dio ha dato in  mano  la
giustizia», come dice il Salmista: «Deus iudicium suum  regi  dedit».  Nè
avea potere d'imponer pene afflittive  di  corpo,  d'esilio,  e  molto  meno  di
mutilazione di membra o di morte; e ne' delitti più gravi di eresia  toccava  a'
principi di punire con temporali pene i delinquenti. Degli  abusi  della  Chiesa
spettava il rimedio  a'  principi,  che  facevano  leggi  per  porvi  un  freno,
specialmente per gli acquisti de' beni temporali; e «i padri della Chiesa», come
sant'Ambrogio e san Girolamo, «non si dolevano di tali leggi, nè che i  principi
non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero che  per  ciò  si  fosse
offesa l'immunità o libertà della Chiesa». Federico  secondo  proibì  l'acquisto
de' beni stabili alle chiese, monasteri, templari ed altri luoghi religiosi.

«Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi  altre  massime,
che persuasero non potere il principe  rimediare  a  questi  abusi,  e  riputata
perciò la costituzione di Federico empia ed ingiuriosa all'immunità delle chiese
si ritornò a' disordini di prima. E se la cosa  fosse  stata  ristretta  a  que'
termini, sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le chiese e i monasteri
abbondare di tanti stati e ricchezze, ed in tanto  numero,  che  piccola  fatica
resta loro d'assorbire quel poco ch'è rimaso in potere de' secolari.»

        Il potere temporale «appartiene allo Stato  in  corpo»;  ma  i  principi
hanno guadagnata e ottenuta la signoria in tutt'i paesi  del  mondo.  E,  se  il
romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno «potere temporale», non è già

«perchè fosse stato prodotto dalla sovranità spirituale, e fosse una  delle  sue
appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistato di volta in volta per titoli
umani, per concessioni di  principi,  o  per  prescrizioni  legittime,  non  già
apostolico iure, come dice san Bernardo: «Nec enim ille tibi dare quod
non habebat, potuit».

        Questo quadro della Chiesa primitiva accompagnato con tali riscontri  ti
dà come in iscorcio tutto il processo  della  storia.  La  lotta  tra  le  leggi
canoniche e le civili è come il centro di un vasto ordito, che  abbraccia  tutta
la storia della legislazione,  illuminata  dalla  storia  de'  governi  e  delle
mutazioni politiche. Vico e Giannone erano contemporanei. Giannone era  di  otto
anni più giovane. Ma non parlano l'uno dell'altro,  come  non  si  conoscessero.
Pure lavoravano su di un fondo comune, le leggi, e riuscivano  per  diversa  via
alle stesse conclusioni. L'uno era il filosofo, l'altro  lo  storico  del  mondo
civile. Tutti e due avvocati mediocri, profondi  giureconsulti.  Vico  si  tenea
alto nelle sue speculazioni filosofiche e nelle sue origini, e non  scendeva  in
mezzo agl'interessi e alle passioni, e passò inosservato. Ma grandissima  fu  la
fama e l'influenza dell'altro, perchè scende nelle  quistioni  più  delicate  di
quel  tempo,  ed  è  scrittore  militante,  animato  dallo  stesso  spirito  de'
combattenti. Parla ardito, e già con quel motteggio, che era proprio del secolo:
sente dietro  di  sè  tutta  la  sua  classe,  e  tutti  gli  uomini  colti.  La
persecuzione fece di lui un eroe, lo confermò nella sua via, lo spinse  fino  al
Triregno, la più radicale negazione  del  papato  e  dello  spiritualismo
religioso, a volerne giudicare da' sunti. Il  manoscritto  fu  seppellito  negli
archivi dell'Inquisizione. Il suo motto era: - Bisogna demolire il regno celeste
-. Non gli basta più la polizia ecclesiastica: vuole colpire il papato nella sua
radice, rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia
del regno celeste, come prima avea fatto una storia delle leggi  ecclesiastiche;
e, come questa è il centro di un quadro più vasto, quella  è  il  centro  di  un
quadro che abbraccia tutta l'umanità. Mostrare i dogmi nella loro origine, nelle
loro alterazioni, nella  loro  negazione,  scuotere  la  fede  nel  dogma  della
risurrezione degli uomini:  questo  fa  con  grande  erudizione  e  con  sottili
considerazioni. Ma l'ambiente in Italia non era ancora tale,  che  vi  potessero
trovar favore idee così radicali, elaborate a Vienna e  a  Ginevra.  La  coltura
avea sviluppato l'ingegno, ma non avea ancora formato il carattere. In  Giannone
stesso l'uomo era inferiore allo scrittore. Nè i tempi erano così  feroci  nella
persecuzione, e così assoluti nella proibizione,  che  rendessero  possibili  le
disperate resistenze sino al martirio. Ci era una mezza libertà,  e  perciò  una
mezza opposizione. Ci era il liberalismo del medio ceto, rivolto contro i baroni
e i chierici, favorito  dal  sovrano,  e  perciò  in  certi  limiti  cortigiano,
ipocrita, e, come si dice oggi, in guanti gialli. Un saggio delle idee  di  quel
tempo e di questo modo di  opposizione  ce  lo  dà  il  seguente  brano  di  uno
scrittore napolitano di quella età:
        «La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del cielo  gli
aveva esentati da tutt'i pesi del regno della terra; e la  cura  destinata  loro
delle anime e del culto  divino  gli  ha  oltre  misura  arricchiti  di  beni  e
privilegi in questo mondo. Non è già nostra intenzione di diminuire in nulla  la
vantaggiosa opinione del clero presso il popolo: quEi ministri  della  religione
li rispettiamo nel fondo del  cuore.  La  religione  è  una  delle  prime  leggi
fondamentali dello Stato; e  il  senso  di  tali  leggi  non  deve  mai  formare
l'oggetto della discussione del semplice cittadino.  Al  consiglio  del  sovrano
appartiene il decidere delle loro inutilità e vantaggi; siccome la  sua  suprema
potestà ne crea o depone i ministri, ne fissa o sospende l'esercizio, i riti, le
funzioni, ne spiega o  vela  le  dottrine,  o  le  vendica,  altera  ed  abroga,
conformemente a' lumi che su di ciò la divinità, di  cui  è  il  rappresentante,
gl'ispira. Dico  la  «divinità»,  perchè  altrimenti  che  significherebbe  quel
«Dei gratia rex»? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso il dovere del
suddito. Ma la religione, e soprattutto la vera religione, ordina agli uomini di
amarsi, vuole che ciaschedun  popolo  abbia  le  migliori  leggi  politiche,  le
migliori leggi civili. Ella impone  a'  suoi  ministri  l'osservanza  di  queste
leggi. Essi devono dare l'esempio: la loro condotta è la base della purità delle
coscienze de' popoli. Ma, parlando a cuore aperto, hanno eglino  da  più  secoli
mai dato,  o  danno  tuttora  un  tale  esempio?  Le  loro  immunità  personali,
l'esenzione de' loro beni da' tributi,  le  giurisdizioni  usurpate,  gl'immensi
acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa con la  quale  hanno  sempre  sostenuto
tali giurisdizioni ed acquisti, le dottrine bizzarre da  loro  insegnate  a  tal
fine, e tanti altri loro pretesi privilegi, dritti e riguardi non sono nel fondo
tante manifeste infrazioni delle leggi politiche  e  civili?  Essi  sono  troppo
ragionevoli onde volere sottrarsi all'evidenza  di  questo  argomento.  Noi  non
parliamo a' sacerdoti di Cibele o di Bacco, e molto meno ai preti di Hume  e  di
Rousseau: noi ci lusinghiamo di ragionare co' ministri della vera  religione,  e
fra questi soprattutto con quei d'Italia, li quali si son quasi sempre  distinti
per l'affabilità e dolcezza del loro carattere, non meno che  per  l'aborrimento
pel bigottismo e l'intolleranza. Non vi ha una contea, baronia  o  altro  simile
feudo, non vi ha una rendita stabile e fissa, un'abitazione  comoda  e  decorosa
destinata a compensare i sudori di un ministro di Stato, di un presidente, di un
consigliere o di un generale; dove tanti guardiani,  priori,  vescovi  ed  abati
possedono sotto questo titolo de' pingui feudi e rendite fisse intatte da'  pesi
de' sovrani ed intangibili, e le loro  abitazioni  fanno  scorno  a  quelle  de'
principi. I frati, comechè giurino solennemente di osservare una maggior povertà
del clero secolare, sono andati più oltre nell'accumulare, e han tolto a' poveri
secolari i mezzi da potere sussistere. In  coscienza  potrebbono  essi  occupare
nell'università le cattedre, nella Corte le cariche, nelle parrocchie i pulpiti,
e fino nelle case l'intendenza degli affari domestici? Potrebbero senz'arrossire
far da speziale, da mercante e  da  banchiere?  In  quanto  al  loro  numero,  è
divenuto così eccessivo, che, se i principi non vi mettono  presto  rimedio,  il
loro vortice inghiottirà l'intiero Stato. Onde viene  che  il  minimo  villaggio
d'Italia debba  esser  retto  da  cinquanta  o  sessanta  preti,  senza  contare
gl'iniziati di altro rango. Le città vi pullulano  di  campanili  e  i  conventi
fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduna di esse venticinque conventi di  frati
o suore di san Domenico, sette collegi di gesuiti, altrettante case di  teatini,
una ventina o trentina di monasteri di frati francescani, forse cinquanta  altri
di diversi ordini religiosi di ambi i sessi, e  più  di  quattro  o  cinquecento
altre chiese e cappelle  di  minor  conto;  ma  non  vi  sono  all'incontro  che
trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio astronomico, verun'accademia  di
pittura, di scoltura, di architettura, di chirurgia, di agricoltura e  di  altre
arti e scienze,  veruna  buona  fabbrica  di  panni  o  di  tele,  veruna  buona
manifattura di seta o di cotone, veruna  biblioteca  appartenente  al  pubblico,
verun orto botanico o gabinetto di curiosità naturali o teatro anatomico, veruna
cura per rendere i porti netti, le strade comode ed agiate, gli alberghi  propri
e le città illuminate, il commercio più vivo. Pensano i chierici di dover sempre
sentire i comodi della società senza mai sentirne alcun peso?  che  la  bilancia
penderà sempre a lor favore? che non vi sarà mai da sperar l'equilibrio?»

        Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel suo linguaggio Si  sente
a mille miglia il laico,  il  borghese  e  l'avvocato.  Il  sovrano  è  per  lui
l'infallibile. Dovere del  suddito  è  «ascoltare»  e  «ubbidire».  Rispetta  la
religione; ha il maggiore ossequio verso i suoi ministri; li accarezza anche;  e
fra tante dolcezze che botte da orbo! Il suo dispetto è che  quelli  sieno  così
ricchi; e lui, cioè loro, fra tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo,
passi. Ci si vede l'effetto della coltura.  Il  confronto  fra  tante  chiese  e
conventi,  e  tanta  negligenza  di  scienze,  arti,  industrie  e  commerci,  è
eloquente. Si sente il progresso dello spirito con un carattere ancora  volgare.
L'animo  è  ancora  servile,  lo  spirito  si  è  emancipato.   Tali   erano   i
giureconsulti, da' quali usciva il movimento liberale, in quella  forma  un  po'
grottesca, tra l'insolenza verso il prete e la servilità verso il sovrano. Pure,
teneri com'erano delle leggi, doveano essere portati naturalmente, per necessità
della loro professione, a combattere l'arbitrio non solo ne' chierici, ma  anche
ne' laici, e a promovere una monarchia non  più  assoluta,  ma  legale,  se  non
liberale. Questa tendenza è già manifesta in Giannone. Adora le leggi romane, ma
adora innanzi tutto la legge, ed è inesorabile verso l'arbitrio:

        «Fin da' primi tempi  -  egli  dice  -  della  repubblica  niente  altro
bramavasi dalla licenziosa gioventù romana, salvo che non esser governati  dalle
leggi, ma che dovesse al re ogni cosa rimettersi ed al suo arbitrio, Né ciò  per
altra ragione se non per quella  che...  vien  rapportata  da  Livio:  «Regem
hominem esse, a quo impetres, ubi ius, ubi iniuria opus sit. Leges  rem  surdam,
inexorabilem esse». Sentimenti pur troppo  licenziosi  e  dannevoli.  Meglio
sarà che nella repubblica abbondino le leggi, che  rimetter  tutto  all'arbitrio
de' magistrati.»
        Così la quistione  ecclesiastica  si  allargava,  e  diveniva  quistione
legale, combattere l'arbitrio sotto ogni forma. Le usurpazioni de' nobili e  de'
chierici erano contrastate come illegittime, contrarie alle  leggi  politiche  e
civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle autorità secolari, e
anche nel monarca. In questo pendio si andava molto innanzi. Arbitrio erano  non
solo gli atti fuori delle leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia  ed
equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt'i disordini e abusi nelle leggi
civili e criminali, e i principi lasciavano dire, perchè non  si  toccava  della
forma de' governi, nè era messa in dubbio la loro potestà, anzi  si  facea  loro
appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia  non  veniva  dalla
filosofia o da «ragioni metafisiche», come  dicea  Giannone,  ma  da  un  intimo
sentimento di legalità e di giustizia. Al Cinquecento il motto  de'  riformatori
era la «corruttela de' costumi». Allora fu  l'«ingiustizia  delle  leggi».  Quel
moto era religioso ed etico, questo era politico, quello stesso moto  sviluppato
nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.
        Il movimento, rimasto  in  gran  parte  speculativo  e  senza  immediate
applicazioni  in  Bruno,  in  Campanella,  in  Vico,  quasi  ancora   un'utopia,
allargandosi nella classe colta, si concretava nello  scopo  e  ne'  mezzi,  per
opera  principalmente  de'  giureconsulti.  Scopo  era  combattere  i  privilegi
ecclesiastici e feudali in nome dell'eguaglianza, combattere l'arbitrio in  nome
della legge, e riformare la legge in nome della giustizia e dell'equità. La leva
era il principato civile, elemento laico, legale e  riformatore,  sul  quale  si
appoggiavano le speranze de' novatori.  Le  idee  erano  sviluppate  con  grande
erudizione, con molta sottigliezza d'interpretazioni e di  argomentazioni,  come
di gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania  il  movimento  era  appena
spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il  sensismo  di  Locke
avea generato lo scetticismo di  Hume,  e  n'era  nata  una  nuova  speculazione
sull'intelletto umano, una filosofia o una critica  dell'intelletto,  del  quale
Locke avea scritta la storia. Kant e poi  Fichte  concentravano  lo  spirito  in
quegli ardui problemi, e attendevano a  gittare  profonde  le  radici  prima  di
alzare l'albero; pensavano alla base,  sulla  quale  dovea  sorgere  la  civiltà
nazionale. Di questi filosofi in Italia era appena penetrato  Locke,  e  in  una
traduzione mutilata dalla censura. Il  movimento,  come  si  andava  sviluppando
nell'Inghilterra e in Germania, aveva appena qualche eco in Italia,  anzi  anche
colà penava a farsi via, dominato dagl'influssi  francesi.  La  Francia  era  la
grande volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore  elaborate:  era  non  la
dimostrazione, ma l'epilogo; non la ricerca, ma la formola; non la speculazione,
ma l'applicazione;  la  scienza  già  assodata  ne'  suoi  princìpi  e  divenuta
catechismo, in una forma  letteraria  e  popolare,  che  rendeva  la  propaganda
irresistibile.  La  negazione  giungeva  all'ultima  sua  efficacia  nell'ironia
bonaria di Voltaire, con tanto buon senso sotto  tanta  malizia.  L'affermazione
giungeva alla precisione di un catechismo in  Rousseau,  che  combatteva  quella
società convenzionale in nome della società naturale, dalla quale scaturivano  i
dritti dell'uomo, il suffragio universale e la sovranità del popolo. Già la  sua
non era quasi  più  una  speculazione  filosofica:  era  una  bibbia,  filosofia
divenuta sentimento, e calata nell'immaginazione. Montesquieu  sollevava  i  più
ardui problemi di politica e di legislazione, in una forma incisiva,  la  quale,
più che scienza, era sapienza condensata e formolata. Intorno a questi centri si
aggruppavano  gli  enciclopedisti,  e  una  moltitudine  di  scrittori   diversi
d'ingegno e di coltura, ma tenuti tutti a quel tempo grandi uomini.  Ben  presto
non ci fu più uomo colto in Italia che non li leggesse avidamente.
        Abbondarono i «filosofi», i «filantropi» e gli «spiriti forti», i  nuovi
nomi de' liberali o degli uomini nuovi, o novatori. I filosofi erano  filantropi
o amici dell'uomo, o umanitari, e insieme spiriti forti o liberi pensatori,  che
in nome della ragione o della scienza condannavano tutto ciò che  nelle  idee  o
ne' fatti se ne allontanava.  La  loro  azione  pubblica  era  avvalorata  dalle
associazioni secrete de' franchi muratori,  mossi  dagli  stessi  fini  e  dagli
stessi sentimenti. Emancipare il pensiero e l'azione da ogni ostacolo esteriore,
religioso  o  sociale,   uguagliare   giuridicamente   le   classi,   provvedere
all'istruzione e al benessere delle classi inferiori, queste erano le  basi  del
nuovo edificio che si voleva costruire. Credevasi che tutto  questo  si  potesse
ottenere con articoli di leggi, a quel modo che avevano fatto  Solone,  Licurgo,
Numa. E blandivano i sovrani, e li predicavano istrumenti provvidenziali per  il
rinnovamento del mondo. Si formò  una  pubblica  opinione,  il  cui  centro  era
Parigi, la cui voce erano i filosofi. Seguire la pubblica opinione, fare  alcune
riforme secondo i dettami de' filosofi era un  mezzo  di  governo,  un  modo  di
acquistarsi fama e popolarità a buon mercato, come era nel secolo decimosesto il
proteggere letterati  e  artisti.  Il  gran  delitto  del  secolo,  il  violento
attentato alla nazionalità polacca rimase seppellito sotto quel nembo  di  fiori
che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta e Caterina seconda, di Maria
Teresa e Giuseppe secondo e di Federico secondo, i cortigiani e i corteggiati di
Voltaire, di D'Alembert, di Raynal, e degli enciclopedisti. Nè voglio  già  dire
che fossero riformatori solo per  calcolo:  chè  sarebbe  calunniare  la  natura
umana. Riforme benefiche, e non pericolose alla  loro  autorità,  anzi  buone  a
rafforzarla, le  facevano  volentieri,  cospirando  insieme  l'utile  proprio  e
l'interesse pubblico: il calcolo si accompagnava col  desiderio  del  bene,  col
piacere delle lodi, e con l'intima persuasione, imbevuti com'erano delle  stesse
idee. Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle riforme, Carlo
terzo e Ferdinando quarto, Maria Teresa  e  Giuseppe  secondo,  Leopoldo,  Carlo
Emmanuele, e fino  papa  Ganganelli,  che  alla  pubblica  opinione  offerse  in
olocausto i gesuiti. I filosofi,  domandando  in  nome  della  libertà  e  della
uguaglianza l'abolizione di tutt'i privilegi feudali,  ecclesiastici,  comunali,
provinciali, e di ogni distinzione di classi, o di ordini sociali, avevano  seco
i principi, che lottavano appunto da gran tempo  per  conseguire  questo  scopo,
fondando il loro potere assoluto sulla soppressione di ogni libertà o privilegio
locale. Fin qui filosofia e monarchia assoluta andavano di conserva.  Lo  stesso
accordo era  per  le  riforme  economiche,  amministrative  e  giuridiche,  come
semplicizzare le imposte, unificare le leggi, svincolare la proprietà, promovere
l'industria e il commercio e l'agricoltura, assicurare contro l'arbitrio la vita
e le sostanze de' cittadini. I principi ci stavano, e qual più, qual meno  erano
innanzi in quella via. Pensavano che, fiaccato il clero e la nobiltà, sciolte le
maestranze, rimosse tutte le resistenze locali, sarebbe rimasta nelle loro  mani
la signoria assoluta, assicurata da' due nuovi ordigni che succedevano a  quella
compagine disfatta del medio evo, la burocrazia e l'esercito.  E  non  pensavano
che i princìpi da cui movevano quelle riforme, e che  costituivano  la  pubblica
opinione, menavano a conseguenze più lontane, essendo impossibile che abolendo i
privilegi rimanesse salvo il  privilegio  più  mostruoso,  ch'era  la  monarchia
assoluta e di dritto divino, e che, frenando l'arbitrio ne' preti, ne' baroni  e
ne' magistrati, potessero  essi  governare  a  lungo  co'  biglietti  regi  e  i
motupropri. Erano conseguenze inevitabili, che presto o tardi avrebbero condotta
la rivoluzione anche se la Francia non ne avesse dato l'esempio. Ma  per  allora
nessuno ci badava, e si procedeva allegramente nelle riforme, persuasi tutti che
bastassero ministri «illuminati» e principi «paterni» per potere pacificamente e
per gradi rinnovare la società. Gli scrittori non impediti, anzi incoraggiati  e
protetti, lasciavano le speculazioni  astratte,  e  trattavano  i  problemi  più
delicati  e  di  applicazione  immediata  con  quella  sicurezza  che  veniva  e
dall'applauso pubblico  e  dalla  benevolenza  de'  principi,  «direttori  della
pubblica felicità». Beccaria dice:

        «I grandi monarchi, i benefattori dell'umanità, che ci reggono, amano le
verità esposte dall'oscuro filosofo,... e i disordini presenti... sono la satira
e il rimprovero delle  passate  età,  non  già  di  questo  secolo  e  de'  suoi
legislatori.»
        E Filangieri con entusiasmo meridionale così conchiude il libro  secondo
della sua Scienza della legislazione:

        «Il filosofo dee essere l'apostolo della verità e  non  l'inventore  de'
sistemi. Il dire che «tutto si è detto» è il linguaggio di coloro che non  sanno
cosa alcuna produrre, o che non hanno il coraggio di farlo. Finchè  i  mali  che
opprimono l'umanità non saranno guariti; finchè gli errori e i pregiudizi che li
perpetuano troveranno de' partigiani;  finchè  la  verità  conosciuta  da  pochi
uomini privilegiati sarà nascosta alla maggior parte del  genere  umano;  finchè
apparirà lontana  da'  troni;  il  dovere  del  filosofo  è  di  predicarla,  di
sostenerla, di promuoverla, d'illustrarla. Se i lumi  ch'egli  sparge  non  sono
utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente  per  un  altro
paese. Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte le età, l'universo  è
la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i  suoi  posteri
sono i suoi discepoli.»

        La  filosofia  è  già  oltrepassata.  Non  la  si  dimostra  più,  è  un
antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una  filosofia,  inventare
un sistema. Lo scopo è un apostolato, propagare e illustrare la filosofia,  cioè
la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la  verità  annunziata  con
tuono di oracolo, col calore della fede, come facevano gli apostoli. È una nuova
religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si  rifà  la  coscienza.  Rinasce  l'uomo
interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più  scienza:  è
letteratura.





XX LA NUOVA LETTERATURA

L' uomo che rappresenta lo stato di  transizione  tra  la  vecchia  e  la  nuova
letteratura è Metastasio. L'antica letteratura, non essendo oramai più che forma
cantabile e musicabile, ha come ultima espressione il dramma in musica, dove non
è più fine, ma mezzo: è melodia, e serve alla musica. Ma non vi si  rassegna,  e
vuol conservare la sua  importanza,  rimanere  letteratura.  Quest'ultima  forma
della vecchia letteratura è Metastasio.
        La sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina che l'educò,  a
quel modo che richiamava lo studio delle leggi alle fonti romane  illustrandole,
e tentando una prima filosofia del dritto, voleva  ritirare  l'arte  alla  greca
semplicità, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse tragedie a modo
di Sofocle, e tentò una teoria dell'arte che chiamò  Ragion  poetica.  Il
buon uomo vedea il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La  semplicità
è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e  divenuta  natura.
Niente era più contrario al secolo, manierato e pretensioso al di  fuori,  vacuo
al di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il colorito  e  vi
supplì con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L'intenzione era buona;
parea volesse dire: - Cose e non parole -. Nè altra  è  la  tendenza  della  sua
Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza  dell'arte,  e
il vero ignudo, non «condito in molli  versi».  Così,  volendo  esser  semplice,
riuscì arido. La teoria non era nuova, anzi  era  la  vecchia  teoria  di  Dante
ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che  lo  sforzo  dell'ingegno
era tutto intorno alla frase. Metastasio fu  educato  secondo  queste  idee.  Il
severo pedagogo gli proibì la lettura del  Tasso  e  de'  poeti  posteriori,  lo
ammaestrò di buon'ora nel greco e nel latino,  e  lo  volse  allo  studio  delle
leggi,  vagheggiando  se  stesso  redivivo  in  un  Metastasio  giureconsulto  e
letterato. Ma il giovine era poeta nato. E morto il Gravina, si gettò avidamente
sul frutto proibito,  e  la  Gerusalemme  Liberata,  l'Aminta,  il
Pastorfido, soprattutto l'Adone, furono il suo cibo. Quella  prima
educazione classica non gli fu inutile, perchè lo  avvezzò  alla  naturalezza  e
alla semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina. Ma, lasciato a
sè medesimo, si sviluppò in lui, come in tutti  quelli  che  hanno  ingegno,  il
senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a uso greco, o
piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua  vocazione,  e  l'autore  del
Giustino preferì Ovidio a Sofocle, e,  come  era  moda,  fece  la  sua  comparsa
trionfale in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi d'obbligo erano
Cloe, Nice, Fille, Tirsi,  Irene  e  Titiro.  Il  Sogno  della  gloria  è
l'ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato di sentenze che sono luoghi  comuni,  e
pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il Ritorno della  primavera,
scritto l'anno appresso, 1719, ti mostra  già  i  vestigi  dell'Aminta  e
dell'Adone,  facilmente  impressi  in  quell'anima  ricca  di  armonie  e
d'immagini. L'ideale del tempo era l'idillio, il riposo e l'innocenza della vita
campestre, in antitesi alla vita sociale,  così  come  l'avevano  sviluppato  il
Tasso, il Guarini e il Marino. L'idillio era un certo equilibrio interiore,  uno
stato di pace e di  soddisfazione  a  cui  il  dolore  serviva  come  di  salsa.
L'Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto  all'idillio  quella  tensione
intellettuale che si chiamava il «seicentismo», sì che la forma era rimasta  una
pura effusione musicale dell'anima beatamente oziosa, cullata da  molli  cadenze
tra l'elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi «melodia». La musica  penetrava
già in questa forma così apparecchiata a riceverla, e  la  canzone  diveniva  la
canzonetta la cantata e l'arietta, e il dramma pastorale diveniva il  dramma  in
musica. Le canzonette del Rolli erano in molta voga, ma già si  disputava  quale
ne facesse di migliori, o il Metastasio  o  il  Rolli.  Sciupata  l'eredità  del
Gravina, il nostro Metastasio, visto che l'Arcadia non gli dava pane, ricordò  i
consigli del maestro, e andò a Napoli col proposito di far l'avvocato. Ma Napoli
era già il paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono  cantate  ed
epitalami. In occasione di nozze prima si scrivevano sonetti e canzoni:   allora
erano in voga epitalami, cantate e feste teatrali. Il  Metastasio  fu  poeta  di
nozze, e restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e  idilliche,  dove  è
visibile l'imitazione del  Tasso  e  del  Marino.  Canta  le  nozze  di  Antonio
Pignatelli e Anna de' Sangro, evocando gli amori di Venere  e  Marte,  a'  quali
intreccia gli amori degli sposi, e naturalmente  Anna  è  Venere,  e  Antonio  è
Marte. Vi trovi il monte dell'Amore, che ricorda il giardino di Armida, e  tutto
il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:

        Se in giro in liete danze il passo mena,
        se tace o ride, o se favella o canta,
        porta in ogni suo moto Amore accolto,
        Pallade in seno e Citerea nel volto.
        Vicino al lato suo siedono al paro
        con la dolce consorte il genitore,
        coppia gentil d'illustre sangue e chiaro,
        vivi esempli di senno e di valore:
        alme che prima in ciel si vagheggiaro,
        e poi quaggiù le ricongiunse Amore:
        e dier tal frutto, che non vede il sole
        più nobil pianta e più leggiadra prole.

Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove già trovi facilità di  verso  e
di rima e molta chiarezza. Un'ottava,  dove  descrive  Anna  che  canta,  rivela
nell'evidenza e nel brio del colorito una certa genialità:

        La voce pria nel molle petto accolta,
        con maestra ragion spigne o sospende;
        ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
        velocissimamente in alto ascende;
        ora in placido corso e più disciolta,
        soavissimamente in giù discende;
        i momenti misura, annoda e parte,
        e talor sembra fallo, ed è tutt'arte.

Qui lascia le solite generalità, entra nel vivo de' particolari, e vi mostra  la
forza di chi sa già tutto dire e nel modo più felice. Gli epitalami non sono  in
fondo che idilli, col solito macchinismo, Amore, Venere, Marte, Diana,  Minerva,
Vulcano. Nè altro sono le prime sue azioni teatrali,  rappresentate  in  Napoli,
come  la   Galatea,   l'Endimione,   gli   Orti   Esperidi,
l'Angelica. Diamo un'occhiata all'Angelica. Di rincontro a' protagonisti,
Angelica e Orlando, stanno Licori e Tirsi. C'è  il  solito  antagonismo  tra  la
città e la campagna, la scaltrezza di Angelica e  l'ingenuità  di  Licori:  onde
nasce un intrighetto che riesce nel più schietto comico. Le furie di Orlando non
possono turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro, e lo stesso Orlando
finisce idillicamente:

        Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
        Aurette leggiere
        che intorno volate,
        tacete, fermate,
        chè torna il mio ben.

Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con quest'arietta:

        Io dico all'antro - Addio! -
        ma quello al pianto mio
        sento che, mormorando:
        - Addio! - risponde.
        Sospiro, e i miei sospiri
        ne' replicati giri
        Zeffiro rende a me
        da quelle fronde.

La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia dolce e molle, è già  canto
e musica, una pura esalazione melodica, una espressione sentimentale rigirata in
se stessa, come un ritornello:

        Ombre amene,
        amiche piante,
        il mio bene,
        il caro amante
        chi mi dice ove ne andò?
        Zeffiretto lusinghiero
        a lui vola messaggiero.
        di' che torni e che mi renda
        quella pace che non ho.

Concetti e immagini oramai comunissime, senza più  alcun  valore  letterario,  e
rimaste interessanti solo come combinazioni melodiche.  L'effetto  non  è  nelle
idee, ma in quel canto di due amanti a una certa lontananza e  nascosti  tra  le
fronde; perchè, mentre Licori cerca Tirsi, Tirsi  cerca  Licori  con  la  stessa
melodia:

La mia bella pastorella,
        chi mi dice ove ne andò?

È notabile che in questa cheta  atmosfera  idillica  penetra  una  cert'aria  di
buffo, un certo movimento vivace e allegro, come è la dichiarazione  amorosa  di
Licori a Orlando, ascoltatore non visto Tirsi.
         La  Bulgarelli,  celebre  cantante,  che  negli  Orti   Esperidi
rappresentava la parte di Venere,  prese  interesse  al  giovane  autore,  e  lo
addestrò in tutt'i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl'insegnò la  musica.
Questa  fu  la  seconda  educazione  di  Metastasio,  corrispondente  alla   sua
vocazione. Roma ne avea fatto un arcade. Napoli ne fece un poeta.  La  Didone
abbandonata, scritta sotto l'ispirazione e la guida della Bulgarelli,  fissò
l'opinione, e Metastasio prese posto d'un tratto accanto ad Apostolo  Zeno,  che
tenea il primato, poeta cesareo alla corte di  Vienna.  Più  tardi,  a  proposta
dello stesso Zeno, occupò egli quell'ufficio, e menò a Vienna  vita  pacifica  e
agiata, universalmente stimato, e tenuto senza contrasto principe  della  poesia
melodrammatica. La sua vita fu  un  idillio,  e  se  questo  è  felicità,  visse
felicissimo sino  alla  tarda  età  di  ottantaquattro  anni.  Vivo  ancora,  fu
divinizzato. Lo chiamarono il «divino Metastasio».
        Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel  modo  che
avea già mostrato Apostolo  Zeno.  Ma  il  meccanismo  non  è  che  la  semplice
ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita
lieta e armoniosa. E fu il poeta del  melodramma,  di  cui  lo  Zeno  era  stato
l'architetto.
        La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia,  tale
cioè che anche senz'accompagnamento musicale avesse il suo  effetto.  E  la  sua
ambizione fu di lasciare le basse regioni dell'idillio e del buffo, e tentare  i
più alti e nobili argomenti del «genere  tragico»,  come  se  la  nobiltà  fosse
nell'argomento. Questo si vede  già  nella  Didone  e  nel  Catone  in
Utica.  Più  tardi  volle  gareggiare  co'  grandi  poeti  francesi,  e   il
Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e
l'Atalia di Racine nel Gioas. Su questa via porse il  fianco  alla
critica, e sorsero dispute se  e  fino  a  qual  punto  i  suoi  drammi  fossero
tragedie. Ed ecco in mezzo l'inevitabile Aristotele e le famose quistioni  delle
unità drammatiche. Metastasio  si  mescolò  nella  contesa,  e  nell'Estratto
dell'«Arte poetica» di Aristotile addusse indirettamente  argomenti  in  suo
favore. La critica era ancora  così  impastoiata  nell'esterno  meccanismo,  che
molti seriamente domandarono come potesse esser tragedia un  dramma,  che  aveva
soli tre atti. A Metastasio pareva quasi  una  degradazione  scendere  dall'alto
seggio di poeta tragico, ed essere  rilegato  fra'  melodrammatici.  Pregiudizio
instillatogli dal Gravina, che non vedea  di  là  dalla  tragedia  classica.  La
Merope del Maffei, che allora levava molto  rumore,  l'offuscava,  e  nol
lasciava dormire la gloria di Corneille e  di  Racine.  Ranieri  de'  Calsabigi,
celebre per la polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno  al  Filippo,  sosteneva
che quei drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia, che  dopo  la
sua morte i Martinez fecero incidere in suo  onore,  si  leggeva  questo  motto:
«Sophocli Italo». Ma il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a chiamare
le sue opere teatrali non tragedie, e neppur melodrammi, ma drammi, come  quelli
che avevano un valore in sè, anche  fuori  della  musica.  E  il  pubblico  avea
ragione. Sono una poesia già penetrata e trasformata dalla musica, ma che si  fa
ancora valere come poesia. Stato di transizione, che dà una fisonomia al  nostro
«Sofocle». Più tardi, quei drammi, come letteratura paiono troppo musicali, e ne
nasce la reazione di Alfieri; come musica paiono troppo letterari, e ne nasce la
reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò  appunto
quei drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali come poesia, e troppo  poetici
come  musica:  perciò  abbandonati  dalla  musica,  e  offuscati   dalla   nuova
letteratura. Il che avviene facilmente a  chi  sta  tra  due  e  non  ha  chiara
coscienza di quello che vuol fare.
         Pure  è  certo  che  quei  drammi  ebbero  al  lor  tempo  un  successo
maraviglioso, e che anche  oggi,  in  una  società  così  profondamente  mutata,
producono il loro effetto. È noto l'entusiasmo di Rousseau  e  l'ammirazione  di
Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un  breve  armeggiare,  gli
s'inchinarono, tratti dall'onda popolare. Certi luoghi, che fanno  sorridere  il
critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato
così popolare, come il Metastasio, nessuno è penetrato  così  intimamente  nello
spirito delle moltitudini. Ci è dunque  ne'  suoi  drammi  un  valore  assoluto,
superiore alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del  secolo
decimonono.
        Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol
fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è più  poesia,
è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la  forma  stessa  del
suo genio e del suo  tempo.  Perciò  non  è  costruzione  artificiosa,  come  la
tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena  di  vita,
che nella sua  spontaneità  produce  risultati  superiori  alle  intenzioni  del
compositore. Ciò ch'egli vi mette con intenzione  e  con  coscienza,  non  è  il
pregio, ma il difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano  lui
e i critici.
        Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non  domandiamo  cosa  ha
voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla  schiettezza  delle  nostre
impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla  sua
spontaneità, come l'artista.
        Prendiamo  il  primo  suo  dramma,  la  Didone.  Volea  fare  una
tragedia. Studiò l'argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare  una
tragedia con quell'uomo e con quella società. Non capiva che a quella società  e
a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia
con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora  direttore,  con  quel  Sarro
compositore, e col pubblico dell'Angelica e degli Orti Esperidi, e
in presenza della sua anima  elegiaca,  idillica,  melodica,  impressionabile  e
superficiale, come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia, che sarebbe  stata
una pedanteria nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che  era  in
lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con avidità da un capo all'altro.
La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche  sono  soverchiate  da
impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di «Didone»  qui  vedi  l'Armida
del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il  posto  alla
donna terrena, come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la più
popolare, dalla quale scappan fuori i più vari e concitati moti  della  passione
femminile, le sue smanie e le sue  furie.  Ma  è  un'Armida  col  comento  della
Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i movimenti  comici  penetrati  in
questa natura appassionata, com'è nella  scena  della  gelosia,  applauditissima
alla rappresentazione. Una Didone così fatta non ha niente di classico, qui  non
ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo.  La  passione
non ha semplicità e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno,  perde
ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la  dignità
di regina, l'amore de' suoi, la pietà  verso  gl'iddii,  se  in  lei  fosse  più
accentuata l'eroina, il contrasto  sarebbe  drammatico,  altamente  tragico.  Ma
l'eroina c'è a parole, e la donna  è  tutto:  la  passione,  unica  dominatrice,
diviene come una pazzia del cuore, cinica  e  sfrontata  sino  al  grottesco,  e
scende dritta la scala della vita sino alle più basse regioni della commedia. Al
buon Pindemonte danno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto  forme
tragiche la situazione è sostanzialmente comica sicchè, se  in  ultimo  Enea  si
potesse rappattumare con l'amata, sarebbe il dramma, con  lievi  mutazioni,  una
vera commedia. E non già una commedia costruita artificialmente,  ma  colta  dal
vero, perchè è la donna come poteva essere concepita  in  quel  tempo,  ispirata
dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell'anima conforme del poeta, e  contro  le
sue intenzioni, e senza  sua  coscienza.  A  Metastasio,  che  voleva  fare  una
tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe  stato
come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no  della  passione,  in  quei
movimenti  subitanei,  irrefrenabili,  che   scoppiano   improvvisi   e   contro
l'aspettazione, nell'irragionevole, spinto  sino  all'assurdo,  negl'intrighi  e
nelle scaltrezze, di bassa lega, più da donnetta che da regina, e tutto  così  a
proposito, così naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride  e  applaude,
come volesse dire: - È vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero
proverbiali, come:

        Temerario! Ch'ei venga!

Quando allora allora avea detto:

        mai più non mi vedrà quell'alma rea.

O come:

        Passato è il tempo, Enea,
        che Dido a te pensò.

La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli aveva promessa la
sua mano, quel cacciar via da sè Osmida e Selene nella cecità del suo furore, le
sue credulità, le sue dissimulazioni, le sue astuzie,  tutto  ciò  è  tanto  più
comico, quanto è  meno  intenzionale,  contemperato  co'  moti  più  variati  di
un'anima impressionabile e subitanea: sdegni che son tenerezze,  e  minacce  che
sono carezze. C'è della Lisetta e della Colombina  sotto  quel  regio  manto.  E
tutto il quadro è conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose  rasenta  il
bravo  della  commedia  popolare;  Selene,  ch'è  l'«Anna,  soror   mea»,
rappresenta la parte della «patita», con molta insipidezza; e il pio Enea  nella
sua parte di amoroso attinge il  più  alto  comico,  massime  quando  Didone  lo
costringe a tenerle la candela. Il nodo  stesso  dell'azione  ha  l'aria  di  un
intrigo di bassa commedia, co' suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.
        La Didone  fece  il  giro  de'  teatri  italiani.  E  dappertutto
piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico, e trovava se  stesso.  Quel  suo
dramma, a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel  più
intimo, quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e  la  vacuità  del  di
dentro. Il tragico non era elevazione dell'anima,  ma  una  semplice  fonte  del
maraviglioso, così piacevole alla plebe, come  incendii,  duelli,  suicidii.  Il
comico riconduceva quelle magnifiche apparenze  di  una  vita  fantastica  nella
prosaica e volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze,  braverie.
Concordare elementi così disparati, fondere insieme fantastico e reale,  tragico
e comico, sembra poco meno che impossibile: pure qui è fatto  con  una  facilità
piena di brio e senz'alcuna coscienza, com'è  la  vita  nella  sua  spontaneità.
L'illusione è perfetta. Una vita  così  fatta  pare  un'assurdità:  pure  è  là,
fresca, giovane,  vivace,  armonica,  e  t'investe  e  ti  trascina.  Il  povero
Metastasio, inconscio del grande miracolo, si difendeva  con  Aristotile  e  con
Orazio; alle vecchie  critiche  si  aggiunsero  le  nuove.  Oggi  la  ragione  e
l'estetica condannano quella vita, come convenzionale e incoerente.  Ma  essa  è
là, nella sua giovanezza immortale, e le basta rispondere: - Io vivo.  -  E,  se
l'estetica non l'intende, tanto peggio per l'estetica.
        Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella  vita.  Brav'uomo,
buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo
tradizionale e abituale ch'era possibile  allora,  senza  fede,  senza  energia,
senza elevatezza d'animo, perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico  e
Muratori, bonissima gente, ma senza quella fiamma interiore, dove si  scalda  il
genio del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di
una società tranquilla e prosaica. Vico agitava i più  grandi  problemi  sociali
con la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si  cercasse  in  quel
tempo fuori della società, nell'età dell'oro e nella vita pastorale. Ma  nessuno
può fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione, onore, amore,  libertà
operavano in quella  vita  posticcia,  come  in  quella  pacifica  società,  con
perfetto riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio, che  cercava  la  tragedia
con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto  sospiri
e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l'elegia, non la  tragedia.
Aveva, come  il  Tasso,  grande  sensibilità,  molta  facilità  di  lacrime,  ma
superficiale sensibilità, che  poteva  increspare,  non  turbare  il  suo  mondo
sereno. Non si può dir  che  la  sua  sensibilità  fosse  malinconia,  la  quale
richiede una certa durata e consistenza: era emozione  nata  da  subitanei  moti
interni, e che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo difetto  di
analisi e di profondità nel sentimento  manteneva  al  suo  mondo  il  carattere
idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo  movimento;
perchè l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata  dalla
serietà di un mondo interiore, appena ventilata dal sentimento, scorre  leggiera
su questo mondo idillico, e vi annoda e snoda una folla di  accidenti,  che  gli
danno varietà e vivacità. Sembrano sogni che svaniscono appena formati,  ma  con
tale chiarezza plastica ne' sentimenti e nelle immagini, che vi  prendi  la  più
viva  partecipazione.  Il  poeta  vi  s'intenerisce,  vi  si  trastulla,  vi  si
dimentica:

        Sogni e favole io fingo; e pure in carte
        mentre favole e sogni orno e disegno,
        in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
        che del mal che inventai piango e mi sdegno.

        Di sogni e favole ce n'era  tutto  un  arsenale  nelle  nostre  infinite
commedie e  novelle,  dove  attingevano  anche  i  forestieri,  e  dove  attinge
Metastasio. Ciò a cui mira è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato  dalla
sua grand'esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido,  non
perde mai di vista lo scopo, non s'indugia per via, divora lo spazio,  sopprime,
aggruppa,  combina,  producendo  effetti  subitanei  e   perciò   irresistibili.
Combinazioni drammatiche, che  appunto  perchè  mirano  a  uno  scopo  meramente
teatrale, mancano di serietà interiore, e spesso hanno aria  d'intrighi  comici,
con que' viluppi, con quegli equivoci, con quei parallelismi. Nè solo il  comico
è nella logica stessa di quelle combinazioni, ma nella  natura  de'  fatti,  che
spesso  sono  episodi  della  vita  comune  nella  sua  forma  più  pettegola  e
civettuola. Così un eroico puramente idillico andava a finire  ne'  bassi  fondi
della  commedia.  Cesare  sonava  il  violino  e  faceva  all'amore.  Tale   era
Metastasio, e tale era il suo tempo, idillico, elegiaco e comico,  vita  volgare
in  abito  eroico,  vellicata   dalle   emozioni   dell'elegia   e   idealizzata
nell'idillio.
        Si può ora comprendere il meccanismo del  dramma  metastasiano.  Sta  in
cima l'eroe o l'eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L'eroe  ha  tutte
le perfezioni che la poesia ha collocate nell'età dell'oro, e sveglia  l'eroismo
intorno a sè, rende eroici anche i personaggi secondari. Più l'età  è  prosaica,
più  esagerato  è  l'eroismo,  abbandonato  a  una  immaginazione  libera,   che
ingrandisce le proporzioni a arbitrio, con non altro scopo che  di  eccitare  la
maraviglia. Il maraviglioso è in questo, che l'eroe è un'antitesi  accentuata  e
romorosa alla vita comune, offrendo in olocausto alla  virtù  tutt'i  sentimenti
umani, come Abramo pronto a uccidere il figlio. Così Enea abbandona  Didone  per
seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno incontro a  morte  per  amor  della
patria, Catone si uccide per la libertà, Megacle offre la vita  per  l'amico,  e
Argene per l'amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che
regolano la vita comune, era  detta  «generosità»  o  «magnanimità»,  «forza»  o
«grandezza di animo», com'è il perdono delle offese, il sacrificio dell'amore, o
della vita. Situazione tragica se  mai  ce  ne  fu,  anzi  il  fondamento  della
tragedia. Ma qui rimane per lo più elegiaca, feconda di  emozioni  superficiali,
momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e  lasciano  il  cielo
sereno. La generosità degli uni provoca la  generosità  degli  altri,  l'eroismo
opera come corrente elettrica, guadagna tutt'i personaggi, e tutto  si  accomoda
come  nel  migliore  de'  mondi,  tutti  eroi  e  tutti  contenti.   Di   questa
superficialità che resta ne' confini dell'idillio e dell'elegia, e  di  rado  si
alza  alla  commozione  tragica,  la  ragione  è  questa,  che  la  virtù  vi  è
rappresentata non come il sentimento di un dovere  preciso  e  obbligatorio  per
tutti, corrispondente alla vita pratica, ma come un fatto maraviglioso, che  per
la sua straordinarietà tolga il pubblico alla contemplazione della vita  comune.
Perciò è una virtù da teatro, un eroismo da  scena.  Più  le  combinazioni  sono
straordinarie, più le proporzioni sono ingrandite, e  più  cresce  l'effetto.  I
personaggi posano,  si  mettono  in  vista,  sentenziano,  si  atteggiano,  come
volessero dire: - Attenti! Ora viene il miracolo. - Temistocle dice:

        ... ... Sentimi, o Serse;
        Lisimaco, m'ascolta; udite, o voi,
        popoli spettatori,
        di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
        testimonio e custode.

In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il contrasto tra l'eroismo e la
natura. L'eroismo ha la sua sublimità nello splendore delle sentenze. La  natura
ha il suo patetico nelle tenere effusioni  dei  sentimenti.  Ne  nasce  un  urto
vivace di sentimenti e  di  sentenze,  con  alterna  vittoria  e  con  crescente
sospensione, come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed  eroismo  fanno
la loro riconciliazione in un modo così inaspettato e straordinario, com'è tutto
l'intrigo. Tito fa condurre Sesto all'arena, deliberato già di perdonargli:  non
basta la virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa, che a  noi  pare  una
moralità da scena, era a quel tempo una moralità convenuta, ammessa  in  teoria,
ammirata, applaudita, a quel modo che le romane battevano le mani ai  gladiatori
che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che Tito  facesse  il  possibile
per meritarsi gli applausi del pubblico. Appunto perchè questo eroismo non aveva
una vera serietà di motivi interni e non  veniva  dalla  coscienza,  quel  mondo
atteggiato all'eroica aveva del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza
stonatura la società contemporanea  nelle  sue  parti  anche  buffe  e  volgari.
Prendiamo l'Adriano. Vincitore de' Parti, proclamato imperatore,  Adriano
si trova in una delle situazioni  più  strazianti,  promesso  sposo  di  Sabina,
amante di Emirena figlia del suo  nemico,  e  rivale  di  Farnaspe,  l'amato  di
Emirena. Situazione molto avviluppata, e che diviene intricatissima per opera di
un quarto personaggio, Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di Sabina,
e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena per salvare  il  padre
offre la mano ad Adriano. La generosità  di  Emirena  eccita  la  generosità  di
Sabina, che scioglie Adriano dalla data fede. La generosità di Sabina eccita  la
generosità di Adriano, che libera il padre  di  Emirena,  rende  costei  al  suo
amato, e sposa Sabina. E tutti felici, e il coro intuona le lodi di Adriano.  Ma
guardiamo in fondo a questi  personaggi  eroici.  Adriano  è  una  buona  natura
d'uomo, tutt'altro che eroica, voltato in qua e in là dalle impressioni, mobile,
superficiale, credulo, in somma un buon uomo che rasenta l'imbecille. Non è  lui
che opera: egli è il paziente, anzi che l'agente del melodramma,  e  come  colui
che dà ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione all'ultima impressione.  Si
trova eroe per occasione, un eroe così equivoco, che  impedisce  ad  Emirena  di
baciargli la mano, tremando  di  una  nuova  impressione.  Maggiori  pretensioni
all'eroismo ha Osroa, il re de' Parti, reminiscenza di Iarba. Un  patriota,  che
appicca l'incendio alla reggia, che uccide un creduto Adriano, che è  condannato
a  morte,  che  supplica  la  figlia  di   ucciderlo,   sarebbe   un   carattere
interessantissimo,  se  nel  pubblico  e  nel  poeta  ci  fosse  il  senso   del
patriottismo.  Ma  Osroa  ha  più  dell'avventuriere  che  dell'eroe,  e  di  un
avventuriere sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi allo scopo, e
nelle situazioni più appassionate della vita discute, sentenzia. A  Emirena,  la
sua figlia, che ricusa di ucciderlo, risponde:

        Non è ver che sia la morte
        il peggior di tutt'i mali:
        è il sollievo de' mortali
        che son stanchi di soffrir.

È una caricatura di Iago, un basso e sciocco  intrigante  da  commedia.  Sabina,
Emirena, Farnaspe sono nature superficialissime,  incalzate  dagli  avvenimenti,
senza intima energia negli  affetti,  e  tratte  ad  atti  generosi  per  impeti
subitanei. Se dunque ci approfondiamo in questo mondo eroico, vediamo con quanta
facilità si sdrucciola nel comico e  come,  sotto  un  contrasto  apparente,  in
verità questa vita eroica è in se stessa di quella mezzanità, che può accogliere
nel suo seno il volgare e il buffo della società contemporanea. Di tal natura  è
la scena in cui Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato,  che  rimane
lì stupido e col naso allungato; o l'altra in cui  Aquilio  insegna  ad  Emirena
l'arte della cortigiana, ed Emirena, botta e risposta, gli fa  il  ritratto  del
cortigiano; o quando Adriano  si  fa  menare  pel  naso  da  Osroa,  o  l'arrivo
improvviso di Sabina da Roma, e l'imbarazzo di Adriano, o quando  Adriano  giura
di non vedere più Emirena, e gli si annunzia: - Vieni Emirena. -  Tutto  questo,
che in fondo è comico, non è sviluppato comicamente, nè c'è l'intenzione comica;
perciò non c'è stonatura: è la società contemporanea nel suo spirito, nella  sua
volgarità e mezzanità, vestita di apparenze eroiche.  Se  Metastasio  avesse  il
senso dell'eroico, e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza
sarebbe insopportabile, anzi mescolanza non ci sarebbe; ma  concepisce  l'eroico
come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il  poeta  è  in
perfetta buona fede;  non  sente  ciò  che  di  basso  e  di  triviale  è  sotto
quell'apparato eroico, uno di spirito e di carattere col suo pubblico. Ben ne ha
una coscienza confusa, e non è proprio contento, e tenta talora alcun che di più
elevato, come nel Regolo e nel Gioas, senza riuscirvi:  si  scopre
l'antico Adamo. E fu ventura, perchè così non ci die' costruzioni artificiose  e
imitazioni aliene dalla sua natura,  ma  riuscì  artista  originale  e  geniale,
l'artista indimenticabile di quella società.
        Questa vita così assurda nella sua profondità ha tutta  l'illusione  del
vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti,  sviluppare  i  caratteri,
graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialità  è  la  sua
condizione di esistenza. È una vita, di cui vedi le  punte  e  ignori  tutto  il
processo di formazione, una specie di vita a  vapore,  che  nella  rapida  corsa
divora spazi infiniti  e  non  ti  mostra  che  i  punti  di  arrivo.  Sbucciano
sentimenti e situazioni così di un tratto, e spesso ti trovi di un balzo  da  un
estremo all'altro. Sei in un continuo flutto d'impressioni variatissime, di poca
durata e consistenza, libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti  gli
uni negli altri, come onde tempestose.  Scusano  questa  superficialità  con  la
musica, quasi che la musica potesse o compiere, o sviluppare, o  approfondire  i
sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il  prolungamento  e  l'eco
del sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento,  perchè
quella poesia è già in sè musica e canto. Una vita  così  superficiale  non  può
essere che esteriore. È vita per lo più descritta, come già si vede nel  Guarini
e nel Marino. I  personaggi  nella  maggior  violenza  de'  loro  sentimenti  si
descrivono, si analizzano, com'è proprio  di  una  società  adulta,  in  cui  la
riflessione e la critica ti segue nel momento stesso dell'azione. Ti  trovi  nel
più acuto della concitazione; e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti
sopraggiunge un'analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica.
Licida snuda il brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo volge in  sè,  e
si arresta, e fa la sua analisi:

        Rabbia, vendetta,
        tenerezza, amicizia,
        pentimento, pietà, vergogna, amore
        mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
        anima lacerata
        da tanti affetti e sì contrari. Io stesso
        non so come si possa
        minacciando tremare, arder gelando,
        piangere in mezzo all'ire,
        bramar la morte e non saper morire.

Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco. Aristea così si descrive
a Megacle:

        Caro, son tua così,
        che per virtù d'amor
        i moti del tuo cor
        risento anch'io.
        Mi dolgo al tuo dolor,
        gioisco al tuo gioir,
        ed ogni tuo desir
        diventa il mio.

E Megacle, seguendo l'amico Licida  nella  sua  sventura,  esce  in  questo  bel
paragone:

        Come dell'oro il fuoco
        scopre le masse impure,
        scoprono le sventure
        de' falsi amici il cor.

Questi riposi musicali sono come l'arpa di David, che calmava le furie di  Saul:
rinfrescano l'anima e la tengono in equilibrio fra passioni  così  concitate.  E
sono sopportabili, appunto perchè mescolati co' moti  più  vivaci,  con  la  più
impetuosa spontaneità del sentimento, offrendoti lo spettacolo della vita  nelle
sue più varie apparenze. Argene che sfida la morte per  salvare  l'amato,  e  si
sente alzare su di sè, come invasata da un iddio, è sublime:

        Fiamma ignota nell'alma mi scende;
        sento il nume; m'inspira, mi accende,
        di me stessa mi rende maggior.
        Ferri, bende, bipenni, ritorte,
        pallid 'ombre, compagne di morte,
        già vi guardo, ma senza terror.

Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel  rivedere  l'amato.  Di  un
elegiaco ineffabile è il cànto di Timante, quando la madre gli presenta  il  suo
bambino:

        Misero pargoletto,
        il tuo destin non sai.
        Ah! Non gli dite mai
        qual era il genitor.
        Come in un punto, o Dio,
        tutto cambiò d'aspetto!
        Voi foste il mio diletto,
        voi siete il mio terror.

Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali, come:

        Ne' giorni tuoi felici ricordati di me.

Questa vita  nei  suoi  moti  alterni  di  spontaneità  e  di  riflessione  così
equilibrata,  essendo  superficiale  ed  esteriore,  ha  per  suo  carattere  la
chiarezza, è visibile e  plastica.  Le  gradazioni  più  fine,  i  concetti  più
difficili sono resi con una estrema precisione di contorni, e perciò  non  hanno
riverbero: appagano e saziano lo sguardo, lo tengono sulla  superficie,  non  lo
gittano nel profondo.  Questa  chiarezza  metastasiana,  tanto  vantata  e  così
popolare perchè il popolo è tutto superficie,  è  la  forma  nell'ultimo  stadio
della sua vita, quando a forza di precisione diviene massiccia e densa  come  il
marmo. La vecchia letteratura vi raggiunge  l'ultima  perfezione;  l'espressione
perde ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si  appaga,  come  un
infinito. Stato di petrificazione, che oggi dicesi «letteratura popolare»,  come
se la letteratura debba scendere al popolo, e non il popolo debba salire a  lei.
Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma prima di morire
manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è  la
vita nella sua superficie, paga  e  contenta  della  sua  esteriorità,  con  una
facilità e una rapidità, con un giuoco pieno di grazia e  di  brio.  Il  periodo
perde i suoi giri,  la  parola  perde  le  sue  sinuosità,  liscia,  scorrevole,
misurata come una danza, accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le
impressioni che te ne vengono, sono vivaci, ma labili, e ti  lasciano  contento,
ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti ha divertito, e a cui  non  pensi
più.
        Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi  alla  filosofia,  come
innanzi alla filosofia pareva assurda la  società  ch'esso  rappresentava.  Come
arte, niente è più vero per coerenza, per armonia, per interna  vivacità.  È  il
ritratto più finito di una società vicina  a  sciogliersi,  le  cui  istituzioni
erano ancora eroiche e  feudali,  materia  vuota  dello  spirito  che  un  tempo
l'animò, e che  sotto  quelle  apparenze  eroiche  era  assonnata,  spensierata,
infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela. Essa  è  tutta  profumata,
incipriata, col suo codino, col suo spadino, cascante, vezzosa,  sensitiva  come
una donna, tutta «idolo mio», «mio bene», e «vita mia». La poesia di  Metastasio
l'accompagna con la sua declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha più
niente a dirle; essa è il luogo  comune,  che  acquista  valore  trasformata  in
trillo, con le sue fughe e le sue volate, co' suoi bassi e i suoi acuti;  non  è
più un'idea,  è  un  suono  raddolcito  dagli  accenti,  dondolato  dalle  rime,
attenuato in quei versetti, ridotto un sospiro. Una  poesia  che  cerca  i  suoi
mezzi fuori di sè, che cerca i motivi e i suoi  pensieri  nella  musica,  abdica
già, pronunzia la sua morte.  Ben  presto  Metastasio  sembra  troppo  poeta  al
maestro di musica, nè il pubblico sa più che farsi della parola, e  non  domanda
cosa dice, ma come suona. La parola, dopo di avere tanto abusato di sè, non  val
più nulla, e la stessa parola metastasiana, così leggiera, così rapida, non  può
essere sopportata. La parola è la nota, e i nuovi poeti si  chiamano  Pergolese,
Cimarosa,  Paisiello.  Così  terminava  il  periodo   musicale   della   vecchia
letteratura, iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini  e  nel  Marino,  giunto
alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo, che prima  si  fa
la musica, e poi Giuseppe secondo dice al suo  nuovo  poeta  cesareo,  all'abate
Casti: - Ora fatemi le parole. -

        In seno a questa società in dissoluzione si  formava  laboriosamente  la
nuova società. E che ce ne fosse la forza, si vedeva da questo: che  non  teneva
più gran conto della forma letteraria, stata suo  idolo,  e  che  cercava  nuove
impressioni nel canto e nella musica. Il letterato, che aveva rappresentata  una
parte così importante, cade in  discredito.  I  nuovi  astri  sono  Farinello  e
Caffarello, Piccinni, Leo, Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla forma
letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi,  a  sopprimere  il  suo
cerimoniale e la sua solennità,  i  suoi  aggettivi,  i  suoi  ripieni,  le  sue
perifrasi, i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte  le
sue dotte inutilità, e a prendere un'aria più spedita e  andante.  Gli  orecchi,
avvezzi alla rapidità musicale non possono più sopportare i periodi accademici e
le tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato «divino», è per  la  musicalità
della sua poesia, per la chiarezza, il brio e la rapidità  dell'espressione.  Il
pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta  a  seguire  il
pubblico. E il pubblico non è  più  l'accademia,  ancorchè  di  accademie  fosse
ancora grande il numero, prima l'Arcadia. E non  è  più  la  corte,  ancorchè  i
principi avessero ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di  «poeti».  La
coltura si è distesa, i godimenti dello spirito sono più variati: i periodi e le
frasi  non  bastano  più.  Compariscono  sulla  scena  filosofi  e   filantropi,
giureconsulti, avvocati e scienziati, musici  e  cantanti.  La  parola  acquista
valore nell'ugola e nella nota, ed è più interessante nelle pagine di  Beccaria,
o di Galiani, che ne' libri letterari. Oramai non si dice  più  «letterato»,  si
dice «bell'ingegno» o  «bello  spirito».  Il  «letterato»  diviene  sinonimo  di
parolaio, e la parola come parola è merce scadente. La parola non può ricuperare
la sua importanza, se non rifacendosi il sangue, ricostituendo in sè l'idea,  la
serietà di un contenuto. E questo volea dire il motto che era già  in  tutte  le
labbra: «Cose e non parole».
        Già nella critica vedi i segni di questa grande  rigenerazione.  Rimasta
fino allora nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali, la critica si mette
in istato di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli.
        Mentre ferveva la  lotta  giurisdizionale  tra  papa  e  principi,  e  i
filosofi combattevano il passato nelle sue idee e nelle  sue  istituzioni,  essa
apre  il  fuoco  contro  la  vecchia   letteratura,   battezzandola   senz'altro
«pedanteria». L'obbiettivo de' filosofi e de' critici era  comune.  Combattevano
entrambi la forma vacua, gli uni nelle istituzioni, gli  altri  nell'espressione
letteraria, ancorchè senza intesa.
        E come i filosofi, così i critici erano avvalorati  e  riscaldati  nella
loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva  da  Londra  tutto
Shakespeare; l'Algarotti, il Bettinelli, il Cesarotti,  il  Beccaria,  il  Verri
erano in  comunione  intima  con  Voltaire  e  con  gli  enciclopedisti.  Locke,
Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee,  e  introdotto  il  gusto  delle
grammatiche ragionate e delle rettoriche filosofiche. Si vede la loro  influenza
nella Filosofia delle lingue  del  Cesarotti  e  nello  Stile  del
Beccaria. Cosa dovea parere il Crescimbeni, o il Mazzuchelli, o il Quadrio, cosa
lo stesso Tiraboschi, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a  questi
uomini, che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato  non
altro che uso e regola? E non si contentarono  i  critici  de'  trattati  e  de'
ragionamenti, ma vollero  accostarsi  un  po'  più  al  pubblico,  usando  forme
spigliate e  correnti,  che  preludevano  ai  nostri  giornali.  Tali  erano  le
Lettere  virgiliane  del  Bettinelli,  la  Difesa  del  Gozzi,  la
Frusta letteraria, il Caffè, l'Osservatore. Così  la  nuova
critica dava a  un  tempo  l'esempio  di  una  nuova  letteratura,  gittando  in
circolazione molte idee nuove in una forma rapida,  nutrita,  spiritosa,  vicina
alla conversazione, in una forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal
popolo il suo tuono. Certo questi critici non si accordavano fra loro,  anzi  si
combattevano, come facevano anche i  filosofi;  ma  erano  tutti  animati  dalla
stessa tendenza, uno era lo spirito. E  lo  spirito  era  l'emancipazione  dalle
regole o dall'autorità,  la  reazione  contro  il  grammaticale,  il  rettorico,
l'arcadico e l'accademico, e, come in tutte le altre cose, così  anche  qui  non
ammettere altro giudice che la logica e la natura. Secondo il solito la  critica
passò il segno, e nella sua foga contro le superstizioni letterarie toccò  anche
il sacro Dante: onde venne la bella Difesa che ne scrisse Gaspare  Gozzi.
Ma la critica veniva dalla testa, e non aveva radice nell'educazione  letteraria
ch'era stata anzi tutto  l'opposto.  Il  che  spiega  come  i  critici,  giudici
ingegnosi de' vivi e de' morti, volendo essere scrittori, facevano  mala  prova,
dando un po' di ragione a' retori e a' grammatici, i  quali,  chiamati  da  loro
«pedanti», chiamavano loro «barbari». Posti tra il vecchio, che censuravano,  ed
un nuovo modo di scrivere,  chiaro  nella  loro  testa,  ma  affatto  personale,
estraneo allo spirito nazionale, e non preparato, anzi contraddetto  nella  loro
istruzione, si gittarono alla maniera francese,  sconvolsero  frasi,  costrutti,
vocaboli, e, come fu detto poi, «imbarbarirono la lingua». Gaspare  Gozzi  tenne
una via mezzana, e facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove idee,  non
accettò sotto nome di libertà la licenza, e si studiò di tenersi in  bilico  tra
quella pedanteria e quella barbarie, usando un modo di scrivere corretto,  puro,
classico, e insieme disinvolto. Ma il buon  Gozzi,  misurato,  elegante,  savio,
rimase solo, come avviene a' troppo savi nel fervore della lotta, quando la  via
di mezzo non è ancora possibile,  standosi  di  fronte  avversari  appassionati,
confidenti nella loro forza e disposti a nessuna  concessione.  Stavano  nell'un
campo i puristi, che non potendo invocare l'uso toscano,  intorbidato  anch'esso
dall'imitazione straniera, invocavano la Crusca e i classici, e,  come  non  era
potuta più tollerare la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il
Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso; onde venne quel
motto felice: «Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava». Costoro erano,
il maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici, puri  letterati,  tutti  brava
gente, che avevano in sospetto ogni novità, e non volevano essere turbati  nelle
loro abitudini.  Nell'altro  campo  erano  i  filosofi,  che  non  riconoscevano
autorità di sorta e tanto meno quella  della  Crusca;  che  invocavano  la  loro
ragione, e vagheggiavano una  nuova  Italia  così  in  letteratura,  come  nelle
istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici  rappresentavano  la  parte
della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso la  loro
insolenza letteraria era mantello alla loro  servilità  politica,  come  fu  del
gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano l'abate
Cesari e l'abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso  i  classici
cancellò in sè ogni vestigio dell'uomo  moderno.  Il  Cesarotti,  di  molto  più
spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre,  che
volle fare il pedagogo a Omero e  Demostene,  e  andò  in  cerca  di  una  nuova
mitologia nelle selve calidonie. Quando comparve l'Ossian, girò la  testa
a tutti: tanto eran sazii di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo
in moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo  trono.  Si  sentiva  che  il
vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia società, e in  quel  vuoto
ogni novità era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto  cozzo  di
spade scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti e i
Bettinelli. Cominciava una reazione contro l'idillio, espressione di una società
sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a  Clori,  e  piacevano  quei  figli
della spada, quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de' brandi,  e  quelle
vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma  il  pubblico  applaudiva.
Per vincere Cesarotti non bastava gridargli la croce: bisognava fare  e  piacere
al pubblico. Ora l'attività intellettuale era tutta dal canto de' novatori:  chi
aveva un po' d'ingegno, «si gittava al moderno», come si diceva, nelle  dottrine
e nel modo di scrivere, e si acquistava nome di «bello spirito», dispregiando  i
classici,  come  di  «spirito  forte»,  dispregiando  le  credenze.  La  vecchia
letteratura, come la vecchia credenza, era detta pregiudizio,  e  combattere  il
pregiudizio era la divisa del secolo illuminato, del secolo  della  filosofia  e
della coltura. Chi ricorda l'entusiasmo letterario del Rinascimento,  può  avere
un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico  del  secolo  decimottavo.  I
fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava «barbarie» il medio  evo;  ora  si
chiama «barbarie» medio evo e Rinascimento. Lo stesso impeto negativo e polemico
è ne' due movimenti, foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci  erano  le  stesse
idee, maturate e sviluppate oltralpe, strozzate presso di noi e  rivenuteci  dal
di fuori. Anzi il movimento non è che un solo, prolungatosi per due  secoli  con
diverse vicissitudini nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle più
sanguinose resistenze, e ora accentrato e condensato sotto nome di  «filosofia»,
fatto della letteratura suo istrumento. Questo volea dire il motto: «Cose e  non
parole». Volea dire che la letteratura, stata trastullo  d'immaginazione,  senza
alcuna serietà di contenuto, e divenuta perfino un  semplice  giuoco  di  frasi,
dovea acquistare un contenuto,  essere  l'espressione  diretta  e  naturale  del
pensiero e del sentimento, della mente e del cuore: onde  nacque  più  tardi  il
barbaro vocabolo «cormentalismo». Messa la sostanza nel contenuto,  quell'ideale
della forma perfetta, gloria del Rinascimento, e rimasto visibile  nelle  stesse
opere della decadenza,  come  nel  Pastor  fido,  nell'Adone,  nel
dramma  di  Metastasio,  cesse  il  posto  alla   forma   naturale,   non
convenzionale, non manifatturata, non tradizionale, non classica,  ma  nata  col
pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti, rispondendo al  libro
del conte Napione Sull'uso e su' pregi della  lingua  italiana,  sostenea
nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un  fatto
arbitrario, e regolato unicamente dall'uso e dall'autorità, ma che ha in  sè  la
sua ragion d'essere; che la sua ragion d'essere è nel pensiero, e quella  parola
è migliore che meglio  renda  il  pensiero,  ancorchè  non  sia  toscana  e  non
classica, e sia del dialetto, o addirittura forestiera con inflessione italiana.
Cosa era quel Saggio? Era l'emancipazione della  lingua  dall'autorità  e
dall'uso in nome della filosofia e della ragione, come  si  volea  in  tutte  le
istituzioni sociali; era la  ragione,  il  senso  logico,  che  penetrava  nella
grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno, che violava  quelle  forme
consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro  un'aria  cosmopolitica,
l'aria  filosofica,  a  scapito  del  colore  locale  e  nazionale.  Aggiungendo
l'esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte  le  parole  che  gli  venivano
innanzi, senza domandar loro onde venivano, e, come era uomo d'ingegno,  e  avea
mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e  indigeni
della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicina al  linguaggio
parlato, intelligibile dall'un capo all'altro d'Italia. Gli  scrittori,  intenti
più alle cose che alle parole, e stufi di quella forma in gran parte latina  che
si chiamava «letteraria», screditata  per  la  sua  vacuità  e  insipidezza,  si
attennero senza più all'italiano corrente e locale, così com'era,  mescolato  di
dialetto  e  avvivato  da  vocaboli  e  frasi  e  costruzioni  francesi:  lingua
corrispondente  allo  stato  della  coltura.  Così  si  scriveva   nelle   parti
settentrionali e meridionali d'Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a  Torino,
a Napoli: così scrivevano Baretti, Beccaria,  Verri,  Gioia,  Galiani,  Galanti,
Filangieri, Delfico, Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze,  patria
della Crusca, e a Roma,  patria  dell'Arcadia:  schiamazzi  di  letterati  e  di
accademici abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le
qualità opposte a  quelle  che  costituivano  la  forma  letteraria.  Si  voleva
rapidità,  naturalezza  e  brio.  Tutto  ciò  che  era   finimento,   ornamento,
riempitura, eleganza, fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò più  ad  una
perfezione ideale della  forma,  ma  all'effetto,  a  produrre  impressioni  sul
lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà intellettive.  I  secreti  dello
stile furono chiesti alla psicologia,  a  uno  studio  de'  sentimenti  e  delle
impressioni, base  del  Trattato  dello  stile  del  Beccaria.  Al  vuoto
meccanismo,  dottamente  artificioso,  solletico  dell'orecchio,  detto   «stile
classico», e ridotto oramai un frasario pesante e noioso, succedeva un  modo  di
scrivere alla buona e al naturale, vispo, rotto, ineguale, pieno  di  movimenti,
imitazione  del  linguaggio  parlato.  Tipo  dell'uno  era  il  trattato;   tipo
dell'altro era la gazzetta. Il principio  da  cui  derivava  quella  rivoluzione
letteraria, era l'imitazione della natura, o, come si direbbe, il realismo nella
sua verità e nella sua semplicità, reazione alla declamazione e alla  rettorica,
a quella maniera convenzionale, che si decorava col nome d'«ideale» o di  «forma
perfetta». La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua  e  nel
suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L'eroico,  l'idillico,  l'elegiaco,  che
ancora  animava  quelle  liriche,  quelle  prediche,  quelle  orazioni,   quelle
tragedie, non attecchiva più, se n'era sazii  sino  al  disgusto.  L'eroico  era
esagerazione;  l'idillio  era  noia;  l'elegia  era   insipidezza;   pastori   e
pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati  un  mondo  convenzionale,  già
consumato come letteratura, buono al più a esser messo  in  musica,  come  facea
Metastasio. Si volea rinnovare l'aria, rinfrescare le impressioni, si cercava un
nuovo contenuto, un'altra società, un altro uomo, altri costumi. Vennero in moda
i turchi, i cinesi, i persiani. Si  divoravano  le  Lettere  persiane  di
Montesquieu. L'Ossian era preferito  all'Iliade.  Comparve  l'uomo
naturale, l'uomo selvaggio, l'uomo di Hobbes e di Grozio, l'uomo che fa  da  sè,
Robinson Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere, tipo Gil
Blas. E ci fu anche la donna errante,  la  filosofessa,  la  «lionne»  di
oggi, che stimava pregiudizio ogni costume e  decoro  femminile.  Ci  fu  l'uomo
collocato in società, in lotta con essa in nome delle leggi naturali,  e  spesso
sua vittima, come donne maritate o monacate a forza o  sedotte,  figli  naturali
calpestati da' legittimi, poveri oppressi dai  ricchi,  scienza  soverchiata  da
ciarlatani, le Clarisse, le Pamele,  gli  Emilii,  i  Chatterton.  Questo  nuovo
contenuto, conforme al pensiero  filosofico  che  allora  investiva  la  vecchia
società in tutte le sue direzioni, veniva fuori in  romanzi,  novelle,  lettere,
tragedie, commedie, una specie  di  repertorio  francese,  che  faceva  il  giro
d'Italia. Il concetto fondamentale era la legge di natura in  contrasto  con  la
legge scritta, la proclamazione  sotto  tutte  le  forme  de'  dritti  dell'uomo
dirimpetto la società che li violava. I  capiscuola  erano  Rousseau,  Voltaire,
Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto séguito in Italia, e vi
furono   rappresentati   i   suoi   drammi:   il   Disertore,   l'Amor
Familiare, il Jevenal, l'Indigente. Nel  Disertore  hai
un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore lascia il
suo reggimento, ed è dannato a morte: è il grido della natura  contro  la  legge
scritta. Nell'Amor familiare è descritta con  vivi  colori  l'oppressione  degli
eretici   ne'   paesi   cattolici.   Jeneval   è   il   contrario   della
Clarissa: è un don Giovanni femmina, una Rosalia, che seduce il giovine e
inesperto Jeneval fino al delitto. Nell'Indigente è vivo il contrasto tra
il ricco ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che  fa  mercato  di  tutto,
anche del matrimonio; e il povero operoso e virtuoso, disprezzato e oppresso.  A
contenuto nuovo nomi nuovi. Commedia e tragedia parve l'uomo  mutilato  e
ingrandito, veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica  da'  bassi
fondi della lingua e dello stile si  alzava  al  concetto  dell'arte,  alla  sua
materia e alla sua forma, al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di quest'alta
critica, che fu detta «estetica», era  Diderot.  Da  lui  usciva  l'affermazione
dell'ideale nella piena realtà della natura,  che  è  il  concetto  fondamentale
della filosofia dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico, e non
era più un di là, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle grandezze e alle
miserie della vita; non era un iddio sotto nome di uomo,  era  l'uomo;  non  era
tragedia e non commedia, era il dramma. La poesia era storia, come la storia era
poesia. L'ideale era  la  stessa  realtà,  non  mutilata,  non  ingrandita,  non
trasformata, non scelta; ma piena, concreta, naturale, in tutte le sue  varietà,
la realtà vivente. La tragedia ammetteva il riso, e  la  commedia  ammetteva  la
lacrima; s'inventò la «commedia lacrimosa», e la «tragedia borghese».  Il  nuovo
ideale non era l'idillio o l'eroe de' tempi feudali: era il semplice borghese in
lotta con la vita e con la società, e che sente della lotta tutt'i dolori  e  le
passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime, così l'ideale  uscendo
dalla sua astrazione  serena  entrava  nella  vita  lacrimoso,  era  patetico  e
sentimentale. Le  Notti  di  Young  ispiravano  ad  Alessandro  Verri  le
Notti romane. Rousseau  col  suo  sentimentalismo  rettorico  faceva  una
impressione così profonda, come col suo naturalismo filosofico. Questi  concetti
e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione presso i francesi,  giungevano
a noi tutt'in una volta, come una inondazione, destando l'entusiasmo degli  uni,
le collere degli altri.  Le  quistioni  di  lingua  e  di  stile  si  elevavano,
divenivano quistioni intorno allo stesso contenuto dell'arte: in breve tempo  la
critica meccanica diveniva psicologica,  e  la  critica  psicologica  si  alzava
all'estetica. La vecchia letteratura, combattuta ne'  suoi  mezzi  tecnici,  era
ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era
la  demolizione  dell'eroico,  com'era  concepito  e  praticato  fra  noi:  cosa
divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna
di  quegl'ideali  oziosi,  sereni,  noiosi,  che  costituivano  l'idillio:  cosa
diveniva l'Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un passatempo, è una  scuola  di
nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano le commedie  a  soggetto?
Tutto era riforma. L'abate Genovesi, Verri, Galiani davano  addosso  al  vecchio
sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta da Beccaria; tutti gli
ordini sociali erano in quistione; Filangieri, andando alla base,  proponeva  la
riforma  dell'istruzione  e  dell'educazione  nazionale;  principi  e  ministri,
sospinti  dalla  opinione,  iniziavano  riforme  in  tutt'i  rami   dell'azienda
pubblica. La vecchia letteratura non poteva durare così: ci voleva anche per lei
la riforma. Già non produceva più, non destava più l'attenzione: tutto era canto
e musica, tutto era filosofia. Si concepisce in questo stato  degli  spiriti  il
maraviglioso successo de' romanzi e delle commedie dell'abate  Chiari,  che  per
sostentare la vita adulava il pubblico e gli offriva quell'imbandigione che  più
desiderava. Sarebbe interessante un'analisi  delle  infinite  opere,  già  tutte
dimenticate, del Chiari, perchè mostrerebbe qual era il genio del  tempo.  Donne
erranti, filosofesse, gigantesse, figli  naturali,  ratti  di  monache,  scontri
notturni, finestre scalate, avvenimenti  mostruosi,  caratteri  impossibili,  un
eroico patetico e un patetico sdolcinato, una filosofia messa in  rettorica,  un
impasto di vecchio e di nuovo, di ciò che il nuovo avea di più stravagante, e di
ciò che il vecchio avea di più volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari.
Il Martelli aveva inventato il verso alla francese, come prima si era  inventato
il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino
la Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del Chiari
è l'immagine di un tempo, che la vecchia letteratura se ne andava,  e  la  nuova
fermentava appena in quella prima confusione delle menti; sicchè egli ha  tutt'i
difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben  presto  si  trovò  fra'
piedi Carlo Goldoni, costretto dalle stesse necessità della  vita  a  servire  e
compiacere al pubblico. Per qualche tempo si  accapigliarono  i  partigiani  del
Chiari e del Goldoni. E tra' due contendenti sorse un terzo,  che  die'  addosso
all'uno e all'altro: dico Carlo Gozzi, fratello di Gaspare.  Uscì  a  Parigi  la
Tartana degl'influssi, caricatura di due comici:

        Il primo si chiamava «Originale»,
        ed il secondo «Saccheggio» s'appella...

        I partigiani ogni giorno crescevano,
        chi vuole Originale e chi Saccheggio;
        tutto il paese a romore mettevano...

        Il parlar mozzo e lo stare intra due
        niente vale per trarsi di tedio:...

        dir bisognava: - Saccheggio è migliore, -
        ovvero: - Originale è più dottore. -

Gozzi  avea  maggior  coltura  del  Chiari  e   del   Goldoni,   era   d'ingegno
svegliatissimo,  avea  fatto  buoni  studi,  come   il   fratello,   apparteneva
all'accademia de' Granelleschi, che si proponeva di ristaurare la buona  lingua,
della quale quei due  si  mostravano  ignorantissimi.  Tutto  quel  mondo  nuovo
letterario, predicato con tanta iattanza e venuto fuori con  tanta  stravaganza,
non gli parea una riforma, gli parea una corruzione, e non solo  letteraria,  ma
religiosa, politica e civile:

        Usciti son certi autorevol dotti,
        con un tremuoto di nuova scienza,
        che han tutti gli scrittori mal condotti.
        Tratto il lor, di saper non ci è semenza,
        dicono che gli autor morti fur cotti,
        e condannano i vivi all'astinenza...

        Leggonsi certe nuove «Marianne»,
        certi «baron», certe «marchese» impresse,
        certe fraschette buse come canne,
        e le battezzan poi «filosofesse»,
        che il mal costume introducono a spanne:
        credo il dimonio al torchio le mettesse.
        Chi dice: - Egli è un comporre alla francese. -
        Certo è peggior del mal di quel paese.

La sua Marfisa è una caricatura  de'  nuovi  romanzi,  alla  maniera  del
Chiari. Carlo magno e i paladini diventano oziosi e  vagabondi;  Bradamante  una
spigolistra casalinga; Marfisa, l'eroina,  guasta  da'  libri  nuovi,  vaporosa,
sentimentale, isterica, bizzarra, e finisce tisica e  pinzochera.  La  mira  era
alle donne del Chiari e de'  romanzi  in  voga.  Gli  parea  che  quel  predicar
continuo   «dritti   naturali»,   «leggi   naturali»,   «religione    naturale»,
«uguaglianza»,  «fratellanza»,  dovesse  render  gli  uomini  cattivi   sudditi,
ammaestrandoli di troppe cose, e avvezzandoli a guardare con invidia al di sopra
della loro condizione. Questo  pericolo  era  più  grave,  quando  massime  tali
fossero predicate in teatro, che non era una scola, ma un passatempo; e invocava
contro i predicatori di così nuova morale la severità  dei  governi.  Il  povero
Chiari non  ci  capiva  nulla.  Goldoni,  che  era  un  puro  artista,  come  il
Metastasio, buon uomo e pacifico, e che di tutto quel movimento del  secolo  non
vedeva che la parte letteraria, dovea trasecolare a sentirsi dipingere poco meno
che un ribelle, un nemico della società. Vi si  mescolarono  gl'interessi  delle
compagnie comiche, che si disputavano furiosamente gli  scarsi  guadagni.  Gozzi
difendeva la compagnia Sacchi, tornata di Vienna, e trovato il suo  posto  preso
dalle compagnie Chiari e  Goldoni.  Il  Sacchi  era  l'ultimo  di  quei  valenti
improvvisatori comici, che giravano l'Europa e mantenevano la riputazione  della
commedia  italiana  a  Vienna,  a  Parigi,  a   Londra.   Musici,   cantanti   e
improvvisatori erano la merce italiana che ancora avea corso di là  dalle  Alpi.
La commedia  a  soggetto,  alzatasi  sulle  rovine  delle  commedie  letterarie,
accademiche e noiose, era padrona del campo a  Roma,  a  Napoli,  a  Bologna,  a
Milano, a Venezia. Era della vecchia letteratura il  solo  genere  vivo  ancora,
considerato gloria speciale d'Italia, e solo che  ricordasse  ancora  in  Europa
l'arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi,  dov'erano
meglio retribuiti. Ma, come a  Parigi  Molière  fondava  la  commedia  francese,
combattendo  le  commedie  a  soggetto  italiane;  così   a   Venezia   Goldoni,
vagheggiando a sua volta  una  riforma  della  commedia,  l'avea  forte  con  le
maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi  un  delitto
di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana.  La  contesa  oggi  sembra
ridicola, e pare che potevano vivere in buon'amicizia l'uno e l'altro genere. Ma
ci era la passione, e ci era l'interesse, e i  sangui  si  scaldarono,  e  molte
furono le dispute, insino a che Goldoni, cedendo il campo, andò a Parigi. La sua
fama s'ingrandì, e impose silenzio al Baretti e rispetto al  Gozzi,  soprattutto
quando Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière.  Da  tutto  quell'arruffio  non
uscì alcun progresso notabile di  critica,  essendo  i  Ragionamenti  del
Gozzi pieni più di bile che di giudizio, e vuote e confuse generalità,  come  di
uomo che non conosca con precisione il valore de' vocaboli e delle quistioni. Ma
ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura, le commedie del Goldoni e
le fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia popolana.
        Carlo Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di tutti e due  se  ne
volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni fece l'avvocato con qualche successo. Ma
alla prima occasione correva appresso agli attori, insino a che il natural genio
vinse. Tentò parecchi generi, prima di trovare  se  stesso.  Zeno  e  Metastasio
erano le due celebrità del tempo; il dramma in musica  era  alla  moda.  Scrisse
l'Amalasunta,  il   Gustavo,   l'Oronte,   più   tardi   il
Festino e qualche altro melodramma  buffo;  scrisse  anche  tragedie,  la
Rosmonda, la Griselda, l'Enrico, e tragicommedie,  come  il
Rinaldo. Poeta stipendiato di compagnie comiche,  costretto  in  ciascuna
stagione teatrale di dare parecchie opere nuove,  e  in  una  stagione  ne  die'
sedici, saccheggiò, raffazzonò, tolse di qua e di là ne'  repertori  italiani  e
francesi, e  anche  ne'  romanzi.  Non  ci  era  ancora  il  poeta,  ci  era  il
mestierante; ci era Chiari, non ci era ancora Goldoni. Trattava ogni maniera  di
argomento  secondo  il   gusto   pubblico,   commedie   sentimentali,   commedie
romanzesche,   come   la   Pamela,   Zelinda   e    Lindoro,    la
Peruviana, la  Bella  selvaggia,  la  Bella  georgiana,  la
Dalmatina,  la  Scozzese,   l'Incognita,   l'Ircana,
raffazzonamenti la più parte e imitazioni francesi.  Scrisse  anche  commedie  a
soggetto,  come  il  Figlio  di  Arlecchino  perduto  e   ritrovato,   le
Trentadue disgrazie di Arlecchino. Si rivelò a se stesso  e  al  pubblico
nella Vedova scaltra. Cominciarono le critiche, e cominciò lui  ad  avere
una coscienza d'artista. La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo  e
l'arcadico, il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie dice:

        «I miei  compatriotti  erano  accostumati  da  lungo  tempo  alle  farse
triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione non è mai stata di
stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella
ragione un pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi, ed al ridicolo del
gigantesco e romanzesco.»

        Per sua ventura gli capitò una buona compagnia.

        «- Ora, - diceva io a me medesimo - ora sto bene, e  posso  lasciare  il
campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto basta sopra vecchi  soggetti.
Avendo presentemente attori  che  promettono  molto,  convien  creare,  conviene
inventare. Ecco forse il momento di tentare quella riforma, che ho in  vista  da
così lungo tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi sono la  sorgente
della buona commedia; ed  è  appunto  con  questi  che  il  gran  Molière  diede
principio alla sua carriera, e pervenne a quel  grado  di  perfezione,  che  gli
antichi ci avevano soltanto indicato, e che i moderni  non  hanno  ancor  potuto
eguagliare. -»

        Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio;  faceva  di  cappello  a
Orazio e Aristotile; rispettava per tradizione le regole; ma dice: «Non  ho  mai
sacrificata una commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la  poteva
render cattiva». Ciò che chiama «pregiudizio» è l'unità di luogo. La sua  scarsa
coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da  ogni
elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch'egli vagheggia non  è  la
commedia dotta, regolata, letteraria, alla latina o alla toscana, di cui  ultimo
esempio dava il Fagiuoli; ma la  buona  commedia,  com'egli  la  concepiva:  «La
commedia essendo stata la mia tendenza, la  buona  commedia  dee  esser  la  mia
meta.» E il suo concetto della buona commedia è  questo:  «Tutta  l'applicazione
che ho messa nella costruzione delle mie commedie, è stata quella di non guastar
la natura». Carattere idillico, superiore  a'  pettegolezzi  e  alle  invidiuzze
provinciali del letterato italiano, pigliandosi la buona e  la  cattiva  fortuna
con eguaglianza d'animo, quest'uomo che visse i suoi  bravi  ottantasei  anni  e
morì a Parigi pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna, dice di sè:

        «Il morale da me è analogo al fisico; non temo nè il freddo nè il  caldo
e non mi lascio infiammar dalla collera, nè ubbriacar dalla gioia.»

        Con questo temperamento più di spettatore  che  di  attore,  mentre  gli
altri operavano, Goldoni osservava e li  coglieva  sul  fatto.  La  natura  bene
osservata gli pareva più ricca che tutte le combinazioni della fantasia.  L'arte
per lui era natura, era ritrarre dal vero.  E  riuscì  il  Galileo  della  nuova
letteratura. Il suo telescopio fu l'intuizione netta e pronta del reale, guidata
dal buon  senso.  Come  Galileo  proscrisse  dalla  scienza  le  forze  occulte,
l'ipotetico, il congetturale, il soprannaturale,  così  egli  volea  proscrivere
dall'arte il fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il rettorico. Ciò  che
Molière avea fatto in Francia, lui voleva tentare in Italia, la  terra  classica
dell'accademia e  della  rettorica.  La  riforma  era  più  importante  che  non
apparisse;  perchè,  riguardando  specialmente  la  commedia,  avea  a  base  un
principio universale dell'arte, cioè il naturale nell'arte, in opposizione  alla
maniera e al convenzionale. Goldoni avea da  natura  tutte  le  qualità  che  si
richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito  inventivo,
misura e  giustezza  nella  concezione,  calore  e  brio  nella  esecuzione.  La
Mandragola,  capitatagli  ch'era  giovanissimo,  gli  avea  fatta   molta
impressione.  Il  Misantropo,  l'Avaro,  il   Tartufo,   le
Preziose, e simili commedie di Molière compirono la  sua  educazione.  Il
fondamento della commedia italiana era l'intreccio; la buona commedia,  come  la
concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. - Voi  avete  la  commedia
d'intreccio; io voglio darvi la  commedia  di  carattere  -  diceva  Goldoni.  E
commedia di carattere era tirare l'effetto non dalla moltiplicità di avvenimenti
straordinari, ma dallo svolgimento di un carattere nelle  situazioni  anche  più
ordinarie della vita. Era tutt'un altro sistema, e non solo nella  commedia,  ma
nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il protagonista nel primo sistema è il caso o
l'accidente, le cui bizzarre combinazioni generano il maraviglioso.  Gli  uomini
ci stanno come figure o comparse, appena schizzati, avvolti  nel  turbine  degli
avvenimenti. La  vita  è  nella  superficie:  l'interno  è  occulto.  In  questa
superficialità ottusa si era consunta la vecchia letteratura, ed, esaurite tutte
le forme del maraviglioso, non bastava più  a  conseguire  l'effetto  con  mezzi
propri, senza il sussidio del canto, della  musica,  del  ballo,  della  mimica,
della declamazione. La parola non era più il principale:  era  l'accessorio,  il
semplice tema, l'occasione. Anche la commedia si credea inetta a  conseguire  il
suo effetto senza il sussidio delle maschere, senza quell'improvviso  de'  lazzi
degli Arlecchini, de' Truffaldini, de' Brighella e  de'  Pantaloni.  Ora  l'idea
fissa di Goldoni era che la commedia potea per sè sola interessare il  pubblico,
e  che  non  le  era  necessario  a  ciò  lo  spettacoloso,  il  gigantesco,  il
maraviglioso in maschera e senza maschera.  La  sua  riforma  era  in  fondo  la
restaurazione della parola, la restituzione della letteratura nel  suo  posto  e
nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide chiaramente che a  ristaurare
la parola bisognava  non  lavorare  intorno  alla  parola,  ma  intorno  al  suo
contenuto, rifare il mondo organico o interiore  dell'espressione.  Questo  vide
nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli elementi formali  e  meccanici,  ma
l'interno organismo, sopra questo concetto, che la vita non è il gioco del  caso
o di un potere occulto, ma è quale ce la  facciamo  noi,  l'opera  della  nostra
mente e della nostra volontà. Concetto del  Machiavelli,  dal  quale  usciva  la
Mandragola. Perciò il protagonista è l'uomo, con le sue virtù  e  le  sue
debolezze, che crea o regola gli avvenimenti, o cede in balìa di quelli. Manca a
Goldoni non la  chiarezza,  ma  l'audacia  della  riforma,  obbligato  spesso  a
concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico,  la  compagnia  e  gli
avversari. E, come era il suo carattere, vinse talora più con la pazienza  o  la
destrezza, che con la risoluta tenacità de'  propositi.  Di  queste  concessioni
trovi i vestigi nelle sue  migliori  commedie,  dove  non  rifiuta  certi  mezzi
volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea.  E  mi  spiego  come
insino   all'ultimo   continuò    nel    romanzesco,    nel    sentimentale    e
nell'arlecchinesco: le necessità del  mestiere  contrastavano  alle  aspirazioni
dell'artista. D'altra  parte,  intento  all'interno  organismo  della  commedia,
neglesse troppo l'espressione, e per volerla naturale la fece volgare, sì che le
sue concezioni si staccano vigorose da una forma più simile a pietra grezza  che
a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della  commedia,  tolto  dal
vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel dialogo.  Il  centro  del
suo mondo comico è il carattere. E  questo  non  è  concepito  da  lui  come  un
aggregato di qualità astratte, ma è còlto nella pienezza della vita  reale,  con
tutti gli accessorii. Base è la  società  veneziana  nella  sua  mezzanità,  più
vicina al popolo che alle classi elevate: ciò che dà più  presa  al  comico  per
quei moti improvvisi, ineducati, indisciplinati, che  son  propri  della  classe
popolana, alla quale si accostava molto la borghesia veneta, non giunta ancora a
quel raffinamento e delicatezza di forme, che sono come l'aria della civiltà.  I
caratteri, come il maldicente, il bugiardo, l'avaro,  l'adulatore,  il  cavalier
servente,  inviluppati  in  quest'atmosfera,  escono   fuori   vivi,   coloriti,
originali, nuovi, vi contraggono la forma della loro esistenza. Ci  è  nel  loro
impasto del grossolano e dell'improvviso;  anzi  qui  è  la  fonte  del  comico.
Cadendo in nature di uomini non disciplinate  dall'educazione,  paion  fuori  in
modo subitaneo, e senza freno o ritegno o  riguardo,  in  tutta  la  loro  forza
primigenia, e producono con quella loro improvvisa grossolanità la più  schietta
allegria, tipo il Burbero benefico. Non essendo concezioni subbiettive  e
astratte, ma studiate dal vero e colte nel movimento della vita, il  comico  non
si sviluppa per  via  di  motti,  riflessioni  e  descrizioni  (ciò  che  dicesi
propriamente «spirito», e appartiene a una società più  colta  e  raffinata)  ma
erompe nella brusca vivacità delle situazioni e  dei  contrasti.  Il  Goldoni  è
felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi possa sviluppare tutte
le sue forze. La  situazione  è  per  lo  più  unica,  semplice,  naturalissima,
sobriamente variata, messa in rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o
inviluppata, graduata con un crescendo  di  movimenti  drammatici,  e  ti  porta
rapidamente alla fine tra la più viva allegria. Indi viene  la  superiorità  del
suo dialogo, che  è  azione  parlata,  di  rado  interrotta  o  raffreddata  per
soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai  perduta  di
vista, non digressioni, non deviazioni, rari intermezzi o episodi; nessuna parte
troppo accarezzata o rilevata; onde è che l'interesse è nell'insieme, e di  rado
se ne stacca un personaggio, una scena, un motto. Tutto è  collegato  saldamente
con tutto:  la  situazione  è  il  carattere  stesso  in  posizione,  nelle  sue
determinazioni; l'azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il  dialogo  è
la stessa azione ne' suoi movimenti. Questo mondo poetico ha  il  difetto  delle
sue qualità: nella sua grossolanità è superficiale, e nella  sua  naturalezza  è
volgare. In quel suo correre diritto e  rapido  il  poeta  non  medita,  non  si
raccoglie, non approfondisce; sta tutto al  di  fuori,  gioioso  e  spensierato,
indifferente al suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo, e
con l'aria più ingenua, senza ombra di malizia e di mordacità: onde la forma del
suo comico è caricatura allegra e smaliziata, che di rado giunge all'ironia. Nel
suo studio del naturale e del vero trascura troppo il rilievo, e, se ha il  brio
del linguaggio parlato, ne ha pure la  negligenza;  per  fuggire  la  rettorica,
casca nel volgare. Gli manca quella divina  malinconia,  che  è  l'idealità  del
poeta comico e lo tiene al di sopra del suo mondo, come fosse  la  sua  creatura
che accarezza con lo sguardo e non la lascia che  non  le  abbia  data  l'ultima
finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua  ignoranza  della  lingua  ed  alla
soverchia fretta; il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a
spiegare il crudo e lo sciacquo del suo colorito.
        La nuova letteratura fa la sua  prima  apparizione  nella  commedia  del
Goldoni, annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell'arte.
Se  la  vecchia  letteratura  cercava  ottenere  i  suoi  effetti,   scostandosi
possibilmente  dal  reale,  e  correndo  appresso  allo   straordinario   o   al
maraviglioso nel contenuto e nella forma, la nuova cerca nel reale la sua  base,
e studia dal  vero  la  natura  e  l'uomo.  La  maniera,  il  convenzionale,  il
rettorico, l'accademico, l'arcadico, il  meccanismo  mitologico,  il  meccanismo
classico, l'imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto ciò che  costituiva
la forma letteraria, è sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l'uomo,
studiato come un fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali,  e
calato in tutte le particolarità della vita reale. Vero è che la realtà è appena
lambita, e le sue profondità rimangono occulte. Ma la via era quella, e in  capo
alla via trovi Goldoni.
        A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la  tomba  della
poesia; e quando il successo del Goldoni gl'impose rispetto, parlando  pure  con
riguardo dell'avversario, non potè risolversi ad  accettare  per  buona  la  sua
riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l'arlecchinesco, o, in altri termini,  il
mirabile e il fantastico, gli parevano elementi essenziali  della  poesia;  quel
ritrarre dal reale gli pareva una  volgarità.  D'altra  parte  non  vedea  senza
rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che  gli  sembrava
una gloria italiana. Dicevano che l'era oramai un vecchio repertorio, che  l'era
ridotta a mero meccanismo, che l'era una  scuola  d'immoralità,  di  scurrilità,
roba da trivio, «goffe buffonate, fracidumi indecenti in un secolo  illuminato».
C'era esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di verità c'era.  La  commedia
improvvisa, dell'arte o a soggetto, era isterilita,  come  tutt'i  generi  della
vecchia letteratura, e tutti quei lazzi che tanto  divertivano  erano  con  poca
varietà un vecchiume trasmesso da  una  generazione  all'altra:  si  viveva  sul
passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi;  la  parte  improvvisata  era
così poco nuova e improvvisa, come la parte scritta. Piaceva più che la commedia
letteraria, perchè ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma oramai  quel
Dottor bolognese e Truffaldino stancavano, come un professore  che  ripeta  ogni
anno lo stesso corso. I  letterati  e  i  fautori  delle  commedie  regolate  ne
pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere e  volevano  proscrivere
addirittura quel genere di commedia, «indecente in un secolo illuminato».  Gozzi
che l'avea contro quei lumi, e vedea di mal occhio tutte quelle  novità  che  ci
venivano d'oltralpe, se ne fece paladino, e scese in campo  co'  ragionamenti  e
coll'esempio, scrivendo sotto nome di «fiabe» commedie con le maschere, e perciò
con una parte improvvisata, le quali ebbero successo grandissimo,  e  oggi  sono
quasi dimenticate. Gozzi parea a  quel  tempo  un  retrivo,  e  Goldoni  era  il
riformatore;  pure  avrei  desiderato  a  Goldoni  un  po'   di   quella   fibra
rivoluzionaria ch'era in quel retrivo: chè così sarebbe proceduto più  ardito  e
conseguente  nella  sua  riforma.  Il  «taciturno  solitario»  Gozzi,  come   lo
chiamavano, era uomo d'ingegno; e perciò penetrato della vita  contemporanea,  e
trasformato senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la bile.
Volendo ristaurare il vecchio, si chiarì  novatore  e  riformatore,  e  correndo
dietro alla commedia a soggetto, s'incontrò nella commedia popolana, e ne  fissò
la base.  Grande  confusione  era  nella  sua  testa,  come  si  vede  da'  suoi
ragionamenti; indi la  sua  debolezza.  Goldoni  sa  quello  che  vuole,  ha  la
chiarezza dello scopo e dei  mezzi,  e  va  diritto  e  sicuro:  perciò  la  sua
influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo, e vuole una  cosa
e fa un'altra, e procede a balzi, tirato da varie correnti.  Vuole  favorire  le
maschere;  vuole  parodiare  gli  avversari;  vuole  rifare  Pulci  e   Ariosto,
ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere  popolare
e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo.  Fini  transitorii,  i
quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica
e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro.  Queste  intenzioni
penetrano in tutta  la  composizione,  come  elementi  perturbatori,  e  rimasti
inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto  della  commedia  popolana,  in
opposizione  alla  commedia  borghese.  Le  maschere,  cioè  certi  caratteri  o
caricature  tipiche  del  popolo,  come   Tartaglia,   Pantalone,   Truffaldino,
Brighella, Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo
e convenzionali,  accessorii  spesso  grotteschi  e  insipidi  per  rispetto  al
contenuto, innestati e soprapposti.  Il  contenuto  è  il  mondo  poetico  com'è
concepito dal popolo, avido del maraviglioso e del misterioso,  impressionabile,
facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale,  nelle  sue  forme,
miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immaginazione  tanto  più  vivo,
quanto meno l'intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia  popolana
sotto le sue diverse forme, conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La
vecchia letteratura se n'era impadronita; ma per demolirlo, per  gittarvi  entro
il sorriso incredulo della  colta  borghesia.  Rifare  questo  mondo  nella  sua
ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi  il  sangue  giovine  e
nuovo della commedia a soggetto, questo osò Gozzi in presenza di  una  borghesia
scettica e nel secolo de' lumi, nel secolo degli «spiriti forti»  e  de'  «belli
spiriti». E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel mondo  ha  un  valore
assoluto, e risponde a certe corde che,  maneggiate  da  abile  mano  d'artista,
suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno  del  fanciullo  e
del popolo. E poichè il pubblico s'interessava ancora alla commedia del Goldoni,
se ne doveva conchiudere, se le conclusioni  ragionevoli  fossero  possibili  in
mezzo alla disputa, che tutti e due i  generi  erano  conformi  al  vero,  l'uno
rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura, e l'altro il  popolo
nelle sue credulità e ne' suoi stupori. E tutti e due erano  una  riforma  della
commedia ne' due suoi aspetti, la commedia dotta e la commedia  improvvisa:  era
l'apparizione della  nuova  letteratura.  Ma  questo  che  fece  Gozzi  non  era
precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per picca e per  occasione,
disprezzava il pubblico che l'applaudiva, non prendeva sul serio la sua opera, e
perchè Goldoni imitava dal vero, s'innamorò lui del romanzesco e del fantastico.
Ora l'arte non è un capriccio individuale, e perchè Shakespeare ti piace, non ne
viene che tu possa rifare Shakespeare, quando anche avessi forza da ciò. L'arte,
come religione e filosofia, come istituzioni politiche ed amministrative,  è  un
fatto sociale, un risultato della coltura e della vita  nazionale.  Gozzi  volea
rifare un mondo dell'immaginazione, quando egli medesimo segnava la dissoluzione
di quel mondo nella Marfisa, quando la parte colta e  intelligente  della
nazione era mossa da impulsi affatto contrari, e quando il popolo,  ebete  nella
sua miseria, stava come una massa inerte, e non dava segno di  vita  letteraria.
Se Gozzi fosse sceso in mezzo al popolo, e vi avesse attinte le sue ispirazioni,
potea forse fare opera viva. Ma Gozzi era  aristocratico,  odiava  tutte  quelle
novità, che sentivano troppo di democrazia, e viveva co' suoi Granelleschi in un
ambiente puramente letterario. Rimase perciò un letterato, non divenne un poeta.
Oltre a ciò, un fatto letterario in quel tempo non potea  sorgere  di  mezzo  al
popolo, divenuto acqua stagnante; un movimento c'era, e veniva dalla  borghesia,
e con quelle tendenze si sviluppava la vita nazionale in tutt'i suoi  indirizzi.
Creare  un  mondo  d'immaginazione,  quando  la  guerra   era   appunto   contro
l'immaginazione in nome della  scienza  e  della  filosofia,  era  un  andare  a
ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che la borghesia, spaventata
da quelle  esagerazioni  che  stomacavano  Gozzi,  si  riafferrò  a  quel  mondo
soprannaturale, come a tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi;  e  Gozzi
ci fu, e si chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio  e
perciò inconcludente; e la sua idea, altamente estetica in astratto,  riuscì  un
fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l'antico, odiava  le  novità,  e
senza saperlo le  portava  nel  suo  seno:  ond'è  che  tratta  quel  suo  mondo
dell'immaginazione a quello stesso modo che il forense  Goldoni  rappresenta  la
sua società borghese. Gli manca il chiaroscuro, gli  manca  l'impressione  e  il
sentimento del soprannaturale, anzi il suo studio è di rappresentarlo con  tutte
le apparenze della naturalezza, come fosse un fatto vulgare e ordinario, a  quel
modo che andava predicando Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo,  il  suo
colorito non ha trasparenza, le  sue  tinte  non  sono  fuse,  e  volendo  esser
naturale spesso ti casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza  di  questo
mondo  è  nella  ingenuità  delle  sue   impressioni,   curiosità,   maraviglia,
sospensione, terrore, collera, pianti, riso, com'è ne'  racconti  delle  società
primitive. Questa ingenuità è perduta, la naturalezza di Gozzi  è  negligenza  e
volgarità.
        Quelle apparizioni non hanno per lui serietà, sono giochi e  passatempi;
perciò scherzi abborracciati, e senza alcun valore proprio, che,  aiutati  dalla
mimica,  da'  lazzi,   dallo   scenario,   potevano   produrre   effetto   nella
rappresentazione, e alla lettura piacciono,  senza  che  ti  lascino  nell'animo
alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo Shakespeare, e  quando  gli
fallì alla prova, se la prese con lui furiosamente,  come  l'avesse  tradito,  e
dovea prendersela con sè medesimo, che andava sognando un Shakespeare nel secolo
decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano,  con  le
sue maschere, le sue indecenze e le sue volgarità, e di Gozzi rimase  una  bella
idea, presto dimenticata. La società prendeva altra via, e seguiva Goldoni.

Il  movimento  a  Venezia  rimase  puramente   letterario.   C'era   un   centro
toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi, divenuta presto ridicola,  della
quale erano anima i  fratelli  Gozzi;  e  c'era  dall'altra  parte  Goldoni  con
intenzioni più alte, che attingevano l'organismo dell'arte. Il solo Carlo  Gozzi
presentì il significato politico del movimento, e sonò la campana a  stormo;  ma
nessuno rispose, perchè il nemico non si trovò. Goldoni anche a  Parigi  non  ci
capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio d'idee, e Rousseau non era  per  lui
che un fenomeno curioso, un magnifico carattere da commedia, qualche  cosa  come
il «burbero benefico». Questa sua concentrazione in  un  punto  solo  e  la  sua
perfetta innocenza in tutto l'altro fu la sua forza e la sua debolezza.  La  sua
idea fissa, ch'era rappresentare dal vivo e dal vero e non  guastar  la  natura,
era  il  principio  rinnovatore  della  letteratura,   negazione   dell'Arcadia,
ricostituzione del contenuto e della forma,  incarnato  in  alcune  commedie  di
esecuzione più o meno perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza  e  la
verità della concezione, delle situazioni e de' caratteri: qui fu la sua  forza.
E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario della sua  riforma,  che
lo tiene nella superficie e gli fa produrre un mondo locale e particolare, a cui
la sua indifferenza religiosa, filosofica, politica,  morale,  sociale,  la  sua
poca coltura, la scarsezza de' suoi motivi  interni  toglie  rilievo  e  vigore,
toglie quella idealità, che viene da un significato generale e permanente.  Cosa
manca a Goldoni? Non lo spirito, non la forza comica, non l'abilità tecnica: era
nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli mancò un mondo  interiore
della coscienza, operoso, espansivo, appassionato,  animato  dalla  fede  e  dal
sentimento. Mancò a lui quello che mancava da più secoli a tutti gl'italiani,  e
che rendeva insanabile  la  loro  decadenza:  la  sincerità  e  la  forza  delle
convinzioni. Ciò che attestava una possibile rigenerazione, era la riapparizione
di quel mondo interiore negli spiriti più  eletti,  che  rimetteva  in  moto  il
cervello, e svegliava il sentimento. Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma
l'entusiasmo pubblico mostrava che ci era la materia atta  a  riceverlo,  e  che
l'Italia  dopo  lungo  riposo  si  rimetteva  in  via.  Nel  mezzodì  l'attività
speculativa da Telesio a Coco non mancò mai, e vi  si  era  formata  una  scuola
liberale, che avea  per  materia  la  quistione  giurisdizionale,  e  si  andava
allargando a tutte le utili riforme nell'assetto dello Stato:  quando  le  nuove
idee vi si affacciarono, trovarono gli spiriti educati e pronti a  riceverle,  e
se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e  Galiani.  Vi
si andava così elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di spirito e  di
movimento,  spesso  ingegnosa  e  appassionata,  filosofia   volgarizzata,   col
linguaggio vivo e spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie, orazioni,
dissertazioni,  prediche,  trattati,  sonetti,  tutt'i  generi   della   vecchia
letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica, senza alcun  segno  di
movimento   nel   loro   interno   organismo,    imitazioni,    raffazzonamenti,
contraffazioni, un mondo di convenzione accolto con applausi di convenzione. Già
Salvator Rosa aveva a suon di tromba  mosso  guerra  alla  declamazione  e  alla
rettorica, senz'accorgersi che faceva della  rettorica  anche  lui.  Un  po'  di
rettorica c'era pure in alcuno di quegli scrittori, massime  in  Filangieri,  ma
vivificata dalla novità e importanza delle cose, e da quello spirito  moderno  e
contemporaneo che  desta  sempre  la  più  viva  partecipazione.  Il  sentimento
puramente letterario, errante in quelle provincie tra il voluttuoso, l'ingegnoso
e il sentimentale, ciò che vi  rendea  così  popolari  il  Tasso  e  il  Marino,
stagnato il movimento letterario, s'era trasformato nel sentimento  musicale,  e
vi educava Metastasio, e vi apparecchiava quella scuola immortale di maestri  di
musica, che furono i veri padri di un'arte serbata a  così  grandi  destini.  La
musica  sorgeva  animata  da  quegli  stessi  impulsi  che  non  trovavano   più
soddisfazione nella imputridita forma letteraria, sorgeva tutta  melodia,  piena
di voluttà, di spirito e di  sentimento.  Mentre  l'attività  speculativa  e  il
sentimento musicale si andava sviluppando nel mezzogiorno  d'Italia,  e  Goldoni
tentava a Venezia la sua riforma  della  commedia,  Milano  diveniva  il  centro
intellettuale e politico della vita nuova,  principali  motori  Pietro  Verri  e
Cesare Beccaria. A Venezia c'era l'accademia de' Granelleschi,  a  Milano  c'era
l'accademia de' Trasformati. Lì si concepiva la riforma, come una  restaurazione
degli studi classici, e si combatteva il Goldoni, ch'era  il  vero  riformatore.
Qui dominava sotto tutti gli aspetti lo spirito nuovo, l'Enciclopedia  vi
era penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano
non frasi, ma idee, e per maggior libertà si usava non di rado il dialetto e non
la lingua. Ci erano i due Verri, il Beccaria, il  Baretti,  il  Balestrieri,  il
Passeroni;  ci  era  il  fiore  dell'intelligenza  milanese.  Si  chiamavano   i
Trasformati, e si può dire  che  filosofia,  legislazione,  economia,  politica,
morale, tutto lo scibile era già trasformato nelle loro menti, con più o meno di
chiarezza  e  di  coscienza.  La  letteratura  non  potea  sfuggire   a   questa
trasformazione, e alla solennità classica succedeva una forma svelta e naturale,
e ne' più briosa e sentimentale alla francese. Si rideva a spese  di  Alessandro
Bandiera, che voleva insegnar lingua e stile al padre Segneri, da lui tenuto non
abbastanza boccaccevole, e di padre Branda, che levava a cielo l'idioma  toscano
e scriveva vitupèri del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia
società nella Vita di Cicerone e nelle  Favole  esopiane,  e  alla
vuota  turgidezza  del  Frugoni,  ai  lambicchi  dell'Algarotti,  a'  lezii  del
Bettinelli, che erano i tre poeti alla moda, opponeva quel suo scrivere andante,
alla buona, tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele,  senza
iniziativa, rideva saporitamente della  società,  in  mezzo  alla  quale  viveva
povero e contento. Metastasio, Goldoni e Passeroni  erano  della  stessa  pasta,
idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro  già
i segni di una  nuova  letteratura,  una  forma  popolare,  disinvolta,  rapida,
liquida, chiara, disposta più alla negligenza che all'artificio. Ma è sempre  un
giuoco di forma, alla  quale  manca  altezza  e  serietà  di  motivi;  ci  è  il
letterato, manca l'uomo. Senti in questi riformatori il vecchio  uomo  italiano,
di  cui  era  espressione  letteraria  l'arcade  e  l'accademico.   Combattevano
l'Arcadia, ed erano più o meno arcadi.
        In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini,
il 22 maggio del 1729. Venuto dal contado in Milano,  cominciò  i  soliti  studi
classici sotto i barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro  di  rettorica.  Il
babbo volle farne un prete per  nobilitare  il  casato;  ma  sul  più  bello  fu
costretto per le strettezze domestiche a troncare i suoi studi  e  a  ingegnarsi
per trarre innanzi la vita. Fece il copista e il  pedagogo,  e  ne'  dispregi  e
nella miseria si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt'i poeti di
quel tempo cominciò arcade, e le sue prime rime le  leggi  in  una  raccolta  di
poesie a cura di quegli accademici. Rivelò la sua  personalità,  combattendo  il
padre Bandiera e il padre Branda, di cui era stato un cattivo scolare. Pare  che
nella scuola facesse poco profitto, impaziente soprattutto di  quei  giuochi  di
memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sè, ne' ritagli di
tempo obbliava la sua miseria, conversando con Virgilio, Orazio, Dante,  Ariosto
e Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano, o  il  padre
Bandiera co' suoi periodi? Ma, se aveva a dispetto quella  pedanteria,  non  gli
rincresceva meno quel francesizzare de' più, divenuto moda nelle  alte  e  basse
classi. Usando per il suo mestiere in case signorili,  potè  studiare  dappresso
questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo, che costituiva allora la società
italiana. Già questo pigliar subito posizione, questo soprastare  alla  lotta  e
schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai innanzi  un
carattere.
        Parini era uomo più di meditazione che di azione. Non aveva il gusto de'
piaceri, aveva pochi bisogni, e nessuna cupidigia di onori e  di  ricchezze.  La
società non avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario, inaccessibile
alle tentazioni e a' compromessi, e, come Dante, fece parte da  sè.  Quel  mondo
nuovo, che fermentava negli spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione, e  in
opposizione al fattizio e al  convenzionale  del  secolo,  giuntogli  attraverso
Plutarco e Dante più che per influssi francesi, rimase in lui  inalterato,  puro
di quelle macchie e ombre che  vi  sovrappongono  le  vanità  e  le  passioni  e
gl'interessi mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una
interna misura, quell'equilibrio delle facoltà,  che  è  la  sanità  dell'anima,
quella compiuta possessione di se stesso, che è l'ideale del savio, quella mente
rettrice, che sta sopra alle passioni e  alle  immaginazioni,  e  le  tiene  nel
giusto limite. La sua forza è  più  morale  che  intellettuale;  perchè  la  sua
intelligenza si alza poco più su  del  luogo  comune,  ed  è  notabile  più  per
giustezza e misura che  per  novità  e  profondità  di  concetti.  Lo  alza  su'
contemporanei la sincerità e vivacità del  suo  senso  morale,  che  gli  dà  un
carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui
quella concordia dell'intendere e dell'atto mediante l'amore, che Dante chiamava
sapienza: rinasce l'uomo.
        E l'uomo educa l'artista. Perchè Parini concepisce  l'arte  allo  stesso
modo. Non è il puro letterato, chiuso nella forma,  indifferente  al  contenuto;
anzi la sostanza dell'arte è il contenuto, e l'artista è per  lui  l'uomo  nella
sua integrità, che esprime  tutto  se  stesso,  il  patriota,  il  credente,  il
filosofo, l'amante, l'amico. La poesia ripiglia il suo antico significato, ed  è
voce del mondo interiore, chè non è poesia dove non è coscienza, la fede  in  un
mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò base del poeta è l'uomo.
        La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza.
E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l'idea,  armonia  tra
l'idea e l'espressione.
        La base del contenuto è morale e politica, è la libertà,  l'uguaglianza,
la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l'azione.  È  il
vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La  base
della  forma  è  la  verità  dell'espressione,  la  sua  comunione  diretta  col
contenuto, risecata ogni mediazione. È  la  forma  di  Dante  e  di  Machiavelli
riverginata con esso il contenuto.Il contenuto è lirico  e  satirico.  È  l'uomo
nuovo in vecchia società.
        L'uomo nuovo non è un concetto o un tipo d'immaginazione;  ha  tutte  le
condizioni della realtà, è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo  mondo
lirico è Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le  sue  impressioni,  si
effonde, così com'è,  nella  ingenuità  della  sua  natura.  Spariscono  i  temi
astratti e fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è contemporaneo  e
vivo e concreto, prodotto in mezzo al movimento de' fatti e  delle  impressioni.
Il poeta, ritirato nella pace della natura e nella calma della mente, sta al  di
sopra del suo mondo, e sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture,
ma non sì che giungano a turbare l'eguaglianza e la serenità del suo animo. Ci è
in questo uomo nuovo una vena d'idillio e di filosofia, come di uomo  solitario,
più spettatore che attore, avvezzo a vivere  tranquillo  con  sè,  a  conservare
l'occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. Ci è nel poeta un  po'  del
pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il pedagogo
è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato pedantesco e pretensioso. Il  suo
amore per la vita campestre non è misantropia, anzi è accompagnato  con  la  più
tenera sollecitudine per l'umanità.  La  sua  rigidità  pel  decoro  e  l'onestà
femminile è raddolcita da un vivo sentimento della bellezza. La  sua  dignità  è
scevra di orgoglio, la sua severità è amabile, la sua virtù è pudica,  piena  di
grazia e di modestia. Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti  ci  è  sempre  il
limite, un'armonica temperanza, dov'è la sua perfezione intellettuale  e  morale
di uomo e di  poeta.  Quando  leggi  la  Vita  rustica,  la  Salubrità
dell'aria, il Pericolo, la Musa, la  Caduta  e  la  sua
Nice e la sua Silvia, provi una soddisfazione  più  che  estetica,
senti in te appagate tutte le tue facoltà.
        La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come nel
Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma  nella  forma  sostanziale  della  sua
vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza del  contenuto.  Quelle
forme così magnifiche, alle quali si  dà  una  importanza  così  capitale,  sono
un'ironia, messe allato al  contenuto.  La  Batracomiomachia  è  l'ironia
dell'lliade, la Moscheide è  l'ironia  dell'Orlando:  sono  forme  epiche
applicate a un mondo plebeo. L'ironia è la  forma  delle  vecchie  società,  non
ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da  giovine,
con tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più meschina  è  la  sostanza.
Questo è il concetto fondamentale del Giorno, fondato su di un'ironia che
è nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che
il rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E  perchè
sente in quelle mentite forme negato  se  stesso,  la  sua  semplicità,  la  sua
serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli esce dalla penna
uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto  e
il disprezzo. L'Italia avea riso  abbastanza,  e  rideva  ancora  ne'  versi  di
Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie, sotto  alla  quale  giace
repressa e contenuta l'indignazione dell'uomo offeso. La sua  interna  misura  e
pacatezza, la sua mente rettrice gli dà la forza della repressione,  sì  che  il
sentimento di rado erompe sulla superficie, e l'ironia di rado piglia  la  forma
del sarcasmo. L'ironia de' nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica,
come nel Boccaccio  e  nell'Ariosto,  perchè  era  rivendicazione  intellettuale
dirimpetto alle assurdità teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata  con
la dissoluzione morale: era l'ironia della scienza  a  spese  dell'ignoranza,  e
l'ignoranza fa ridere. Ma qui l'ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto
a una società destituita di ogni vita interiore; lì era l'ironia del buon senso,
qui è l'ironia del senso morale. Senti che rinasce l'uomo, e con  esso  la  vita
interiore.
        La parola di quella  vecchia  società  era  a  sua  immagine,  cascante,
leziosa, vuota sonorità, travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la
parola. E  vien  fuori  faticosa,  martellata,  ardua,  pregna  di  sensi  e  di
sottintesi. La parola scopre l'ironia, perchè è in antitesi con  quella  società
molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.
        Togliete ora l'ironia, fate salire sulla superficie in modo  scoperto  e
provocante l'ira, il disgusto, il disprezzo, tutti quei  sentimenti  che  Parini
con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri. È l'uomo
nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a' contemporanei, statua  gigantesca
e solitaria col dito minaccioso.
        Alfieri si rivelò tardi a  se  stesso,  e  per  proprio  impulso,  e  in
opposizione alla società. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di  un
signorotto italiano, tra dissipazioni,  viaggi,  amori,  cavalli,  che  non  gli
empivano però la vita. De' primi studi non  gli  era  rimasto  che  l'odio  allo
studio. Ricco, nobile, non ambiva nè onori,  nè  ricchezze,  nè  uffici:  viveva
senz'altro scopo che di vivere.  Vita  vuota  de'  ricchi  signori,  che  se  ne
contentano, e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se
ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra  tanto  inutile  affaccendarsi
sentiva la noia. Era malattia italiana, propria di tutt'i popoli  in  decadenza,
l'ozio interno, la vacuità di ogni mondo interiore. Alfieri aveva il  sentimento
di quel vuoto, e quella sua vita  puramente  esteriore  era  per  lui  noia  mal
dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro che questa  vita  esteriore  debbono
conquistarsela col sudore della fronte possono nel  loro  travaglio  trovare  un
certo lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri  tutta
fatta quella vita; i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma
a godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella tenace  energia
di carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perchè tutto
piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta Europa;
e  non  vi  trovò  altro  piacere  che  il   correre,   simulacro   dell'interna
irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi «dissipazione», una  vita
senza scopo e a caso, dove fra  tanto  moto  rimangono  immobili  le  due  forze
proprie dell'uomo, il pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato  un  cavallo,
quel suo correre l'avrebbe contentato, come  contenta  moltissimi,  che  pur  si
chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e  annoiato,  e  non  sapeva
perchè. Il perchè era questo, che, nato gagliardissimo di pensiero e di affetto,
non aveva trovato ancora un centro, intorno  a  cui  raccogliere  ed  esercitare
quelle sue facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell'ozio,  e  Alfieri
ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne' momenti
più feroci della noia si gittò a' libri. Di latino non intendeva  più  nulla,  e
pochissimo d'italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo per  passatempo,
tutto natura e niente educazione, lo  stile  classico  lo  annoiava;  Racine  lo
faceva dormire, e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato in
quel primo «conciossiachè». Si die' a' romanzi come i giovanetti alle Mille e
una notte. Tutto il suo piacere era di seguire  il  racconto  e  vederne  la
fine, e gli dispiacque l'Ariosto per le sue  interruzioni,  e  lesse  Metastasio
saltando le ariette, e non potè leggere l'Henriade e l'Emilio  per
quel rettoricume, che gli toglieva la vista del racconto. Aspettando  i  cavalli
in Savona, gli capitò un  Plutarco.  Qui  sentì  qualche  cosa  di  più  che  il
racconto, gli battè il cuore, quelle immagini  colossali  non  lo  sbigottivano,
anzi suscitarono la sua emulazione: - Non potrei essere anch'io come loro?  -  E
il potere c'era, perchè le sue forze non erano da meno.  Una  notte,  assistendo
l'amata nella sua infermità, sceneggiò una tragedia, la quale rappresentata  poi
a Torino ebbe grandi applausi. - Perchè non potrei io essere scrittore  tragico?
- Venutogli questo pensiero, ci si fermò. Secondo le  opinioni  di  quel  tempo,
l'Italia era innanzi a tutte le nazioni  in  ogni  genere  di  scrivere;  ma  le
mancava la tragedia.  Quest'era  l'idea  fissa  di  Gravina,  e  l'ambizione  di
Metastasio; a questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei. Ma la tragedia
non c'era ancora, per sentenza di tutti.  E  dare  all'Italia  la  tragedia  gli
pareva il più alto scopo a cui un italiano potesse tendere. Da' suoi viaggi avea
portata ingrandita l'immagine dell'Italia, non trovato nulla comparabile a Roma,
a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la maestà dell'antica Roma, le  memorie
di una grandezza non superata mai. E quantunque l'Italia a quei dì  fosse  tanto
degenere, avea fermissima  fede  in  una  Italia  futura,  che  vagheggiava  nel
pensiero simile all'antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi  la
pianta «uomo», e gli parea che la tragedia, rappresentazione dell'eroico,  fosse
acconcia a ritrarvi questo nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed  era  lui
stesso. Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e là nelle menti,  e  da
lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione,  scopo  unico  e
ultimo della vita, e  vi  pose  tutte  le  sue  forze.  Volle  essere  redentore
d'Italia, il grande precursore di una nuova era, e, non potendo con l'opera, co'
versi. Così trovò alla vita un  degno  scopo,  che  gli  prometteva  gloria,  lo
ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era difficilissimo,
perchè tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltà gli fu sprone,  e  glielo
rese più caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata  fino  allora
ne' cavalli e ne' viaggi. Per «disfrancesizzarsi» e «intoscanirsi» visse il  più
in Toscana, ristudiò il latino, si pose  in  capo  i  trecentisti,  contento  di
«spensare per pensare», fece suoi compagni indivisibili Dante, Petrarca, Ariosto
e Tasso. Copiò, postillò, tradusse, «s'inabissò nel  vortice  grammaticale»,  e,
non guasto dalla scuola, e tutto lui,  si  fece  uno  stile  suo.  Scrisse  come
viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio e l'animo era già  alla
fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La  parola  gli  sembra  non  via,  ma
impedimento alla corsa, e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia; una  parola  di
più gli è una scottatura. Fugge le frasi, le  circonlocuzioni,  le  descrizioni,
gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa  antitesi  a  Metastasio.  Tratta  la
parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i  ben  costrutti  orecchi
italiani, e a quelli che strillano dà la baia:

        Mi trovan duro?
        Anch'io lo so:
        pensar li fo.
        Taccia ho d'oscuro?
        Mi schiarirà poi libertà.

All'Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:

        Io canterò d'amor soavemente:
        molle udirete il flauticello mio
        l'aure agitare armoniosamente
        per lusingare il vostro eterno oblio.

Ciò che parevano i suoi versi e ciò che  ne  pare  a  lui,  si  vede  da  questo
epigramma contro i pedanti:

        Vi paion strani?
        «Saran toscani.»
        Son duri duri,
        disaccentati...
        «Non son cantati.»
        Stentati, oscuri,
        irti, intralciati.. .
        «Saran pensati.»

Pure Alfieri, discepolo di sè, non era ben sicuro  del  fatto  suo,  e  consultò
Cesarotti, Parini, tutti quelli che andavano per la maggiore. Voleva un  modello
di  verso  tragico,  e  un  barlume  ne  vedeva  nell'Ossian.  Ma  voleva
l'impossibile, e  in  ultimo  prese  il  miglior  partito,  fece  da  sè.  «Osa,
contendi», gli diceva in un bel sonetto Parini. E lui a sudare intorno  a'  suoi
versi, tormentandoli in mille guise; ma

«Gira, volta, ei son francesi»

Gira, volta, ei son versi di  Alfieri,  energicamente  individuali,  «carme  più
aguzzo  assai,  che  tondo».  Questo  ei  chiamava  «stile  tragico».  La  forma
letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui, vi oppone questo stile, «pensato e
non cantato», energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli  venne  già
da un preconcetto filosofico intorno  all'arte,  gli  venne  dalla  sua  natura:
perciò in quelle sue asprezze è vivo e originale.
        I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto, quasi lo stile
fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l'intima connessione che  è
tra quello stile e tutto il congegno della composizione.  Perchè  Alfieri,  come
sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto  sopprime  confidenti,
personaggi, episodi.  Nasce  una  forma  nervosa,  tesa,  spesso  convulsa,  che
risponde al suo modo di concepire e di  sentire:  perciò  non  pedantesca,  anzi
viva,  interessante,  sincera  e  calda  espressione  dell'anima.  Se   vogliamo
conoscere il segreto di questa forma, vediamo non com'è fatta, ma come è nata.
        Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse.
Trovò definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il
suo problema, ma il dato o l'antecedente.  Poste  quelle  definizioni  e  quelle
regole, il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la
tragedia greca; avea letto Seneca; gli erano familiari le  tragedie  italiane  e
francesi. Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e  rettoriche,  e
confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell'eroico,
la concepì come un conflitto di forze individuali,  dove  l'eroe  soggiace  alla
forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica, essa  clemente  e
benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale è un  riso,  un
canto, un inno, il mondo della misura e dell'armonia glorificato e  divinizzato.
Qui la forza maggiore è la tirannide,  o  l'oppressione,  e  la  sua  vittima  è
l'eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e della barbarie condannato  e
marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo, Alfieri ne cominciava un  altro.
I contemporanei disputavano  sullo  stile  dell'uno  e  dell'altro,  e  volevano
somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.
        Ponendo  la  tragedia  come  conflitto  di  forze  individuali,  Alfieri
rimaneva  nel  quadro  delle  tragedie  francesi.  Il  secolo  decimosettimo   e
decimottavo, come reazione al soprannaturale, cercavano di  spiegare  la  storia
con mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione de' caratteri e  delle
passioni individuali quello che gli antichi chiamavano il «destino», e Dante con
tutto  il  mondo  cristiano  chiamava  «ordine  provvidenziale».   Un   concetto
scientifico della storia era  nato  in  Italia,  dove  il  destino  e  l'«ordine
provvidenziale» si era trasformato nella «natura  delle  cose»  di  Machiavelli,
nello «spirito» di Bruno, nella «ragione» di Campanella, nel «fato» di Vico.  Ma
il concetto era rimasto nelle alte sfere dell'intelligenza, e appena  avvertito,
e fuori dell'arte. Shakespeare con la profonda genialità del  suo  spirito  avea
colto queste forze collettive e superiori che sono il fato della storia.  Ma  lo
spirito di Alfieri era superficiale, più operativo che  meditativo,  più  inteso
alla rapidità e al calore del racconto, che a scrutarne  le  profondità.  Rimase
dunque ne' cancelli del  secolo  decimottavo.  La  tragedia  fu  per  lui  lotta
d'individui, e il fato storico fu la forza maggiore o la tirannide, e la  chiave
della storia fu il tiranno. Più tardi,  ispirato  dalla  Bibbia,  gli  lampeggiò
innanzi il Saul e intravvide  un  ordine  di  cose  superiore.  Ma  il  suo  Dio
inesorabile ci sta per figura rettorica ed  esiste  più  nell'opinione  e  nelle
parole  degli  attori,  che  nel  nesso  degli   avvenimenti,   tutti   spiegati
naturalmente. E come un tiranno ci ha da essere,  Dio  è  il  tiranno,  e  tutto
l'interesse è per Saul, i cui  moti  sono  inconsci,  e  determinati  più  dalla
malizia di Abner, che da malizia sua propria. Il suo Saul è la Bibbia  al
rovescio, la riabilitazione di Saul, e i sacerdoti tinti di colore oscuro.
        Or questo concetto era la negazione dell'Arcadia, anzi la sua aperta  ed
esagerata  contraddizione.  Al  mondo  di  Tasso,  di  Guarini,  di  Marino,  di
Metastasio succedeva la tragedia, non  accademica  e  letteraria,  com'erano  le
tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale,  fondata  su  di  una  idea
maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era  questa,  che  la
società apparteneva al più  forte,  e  che  giustizia,  virtù,  verità,  libertà
giacevano sotto l'oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile,  la
tirannide regia e la tirannide papale, il trono e l'altare. Più tardi Alfieri vi
aggiunse la tirannide popolare. Or questa era tragedia  viva,  la  tragedia  del
secolo sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto  e  civile  contro  un
assetto sociale ancor barbaro, fondato  sulla  forza.  Ma  è  tragedia  di  puro
pensiero, rimasta in regioni meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la
società tra quelle agitazioni  speculative  era  ancora  idillica  e  rettorica,
confidente in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello  stato
sociale corrispondea la tragedia filosofica  e  accademica,  com'era  quella  di
Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia è  lo  sfogo  lirico
de' suoi furori, de' suoi odii, della tempesta che gli ruggìa dentro.  In  mezzo
alla società imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava  tirannide  e
libertà, egli prende sul serio la vita e non si rassegna a vivere  senza  scopo,
prende sul serio la morale, e vi conforma rigidamente i suoi  atti,  prende  sul
serio la tirannide, e freme e si dibatte sotto alle sue  strette,  imprecando  e
minacciando, prende sul serio l'arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono
i suoi sentimenti; i suoi princìpi sono le sue azioni. L'uomo nuovo che sente in
sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza, e della  solitudine
si fa piedistallo, e vi si drizza sopra col petto e  colla  fronte  come  statua
ideale del futuro italiano, come di «liber uomo esempio».

        Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
        redivivi omai gl'Itali staranno
        in campo audaci...
        Al forte fianco sproni ardenti dui,
        lor virtù prisca ed i miei carmi, avranno;
        Onde in membrar ch'essi già fur, ch'io fui,
        d 'irresistibil fiamma avvamperanno.
        Gli odo già dirmi: - O vate nostro, in pravi
        secoli nato, eppur create hai queste
        sublimi età che profetando andavi.

Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito  di  vita,  che  scolpisce  le
situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo  calore  tutto  il
mondo circostante. Ci è lì dentro l'uomo  nuovo,  solitario,  sdegnoso  verso  i
contemporanei, e che pure s'impone a' contemporanei, sveglia l'attenzione  e  la
simpatia. Gli è che, se quest'uomo nuovo non era ancora entrato  ne'  costumi  e
ne' caratteri, informava di sè tutta la cultura, era vivo  negl'intelletti:  una
parentela c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque
Alfieri si sente solo? Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo?  Gli  è
per questo, che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato  nella  sua
potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta  la
vita, e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi, che
pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso
i democratici «facitori di libertà», che verso re e papi e  preti,  e  fugge  la
loro compagnia, «vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino»:

        Non l'opra lor, ma il dir consuona al mio.

E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando nella posterità:

        Ma non inulta l'ombra mia, nè muta
        starassi, no: fia de' tiranni scempio
        la sempre viva mia voce temuta.
        Nè lunge molto al mio cessar, d'ogni empio
        veggio la vil possanza al suol caduta,
        me forse altrui di liber uomo esempio.

Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta  la  sua  indegnazione  è  per
l'Assemblea nazionale, per quei «profumati barbari»,  balbettanti  «una  qualche
non lor libera idea», per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta  l'ultimo
strale nel Misogallo:

        Tiene 'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.

Eccolo dunque quest'Alfieri solitario, che serba in sè inviolato e  indiviso  il
suo modello, e se il cielo gli dà torto, lui dà  torto  al  cielo.  Taciturno  e
malinconico per natura, risospinto dalla società ancora più in se  stesso,  solo
col suo modello, rimane nel  mondo  vago  e  illimitato  de'  sentimenti  e  de'
fantasmi, dove non ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i
suoi fantasmi sono più simili a concetti logici che a  cose  effettuali,  più  a
generi e specie che  ad  individui.  Non  sono  astrazioni,  come  le  chiamano.
Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi  sono  fantasmi
appassionati, ribollenti, sanguigni: non ci è vacuità, ci è  congestione  di  un
sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la
solitudine dell'uomo, che armeggia con  se  stesso  e  produce  la  sua  propria
sostanza. Non ama  ciò  che  gli  è  estrinseco,  la  natura,  la  località,  la
personalità, e non l'intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi  le  sue
orme impresse. Il calore di una  potentissima  individualità  non  gli  basta  a
infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perchè gli manca  l'amore,
quel sentirsi due  e  cercar  l'altro  e  obbliarsi  in  quello.  Impotenza  per
soverchio di attività, che gli toglie la facoltà di ricevere  le  impressioni  e
riprodurle. L'occhio torbido della passione non guarda intorno, non si  assimila
gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia  con  un
solo impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e
il riposo dell'artista, quel divino riso,  col  quale  segue  in  tutti  i  suoi
movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del quale si vanta, è il  furore  di
Oreste, che gl'intorbida l'occhio, sì che investendo il drudo uccide la madre; e
gli fa scambiare i colori, abbozzare le immagini, appuntare i  sentimenti,  dare
al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura  e  quello  stile,
quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir  molto
in poco, come si vanta, quella mutilazione  e  congestione,  quell'abbreviazione
tumultuosa della vita,  quel  fondo  oscuro  e  incolore  della  natura,  quelle
situazioni strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più  fremono,  e  meno  li
comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:

        Nulla di quanto l'uom scienza chiama
        per gli orecchi mai giunto erami al core:
        ira, vendetta, libertade, amore
        sonava io sol, come chi freme ed ama.

E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta,  libertà,  amore.  Ma  non  basta
fremere, o sonare, e l'attica dea, che gli dice: - O dormi o crea -,  ha  torto:
non chi dorme, ma chi studia e medita, è buono a creare. Non vale cuore pieno, e
«mente ignuda». Manca a lui la scienza  della  vita,  quello  sguardo  pacato  e
profondo, che t'inizia nelle sue ombre e ne' suoi misteri, e te ne  porge  tutte
le armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte  arditissime,
un certo addensamento di cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo  scarno
e povero, com'è il «Pace» di Nerone, il celebre - Scegliesti? - Ho scelto  -,  e
il «Vivi, Emon, tel comando», e il  «Fui  padre»,  e  il  «Ribelli  tutti.  -  E
ubbidiran pur tutti»: uno stile a fazione di Tacito e di  Machiavelli,  con  una
ostentazione che scopre l'artificio, una vita a lampi e salti, più  dialogo  che
azione, e sotto forme brevi spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti
crudi,  aguzzi,  senza  riposi  o  passaggi,  e  accumulati  con  una   tensione
intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e  nell'insipido.  E  si
comprende perchè fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme  fredda
e monotona, perchè in quell'esaltazione  fittizia  del  discorso  ti  senti  nel
vuoto, e perchè fra tanti motti  e  sentenze  memorabili  non  ricordi  un  solo
personaggio, uomo o donna che sia. Non uno  è  rimasto  vivo.  E  il  difetto  è
maggiore negli eroi, soprattutto ne' rari casi che la forza è con  loro  e  sono
essi i vincitori. Le loro qualità eroiche, religione, patria, libertà, amore, si
esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella loro intimità e nella
loro attività. Ci è il patriottismo, e non  la  patria;  ci  è  l'amore,  e  non
l'amante; ci è la libertà, e manca l'uomo:  sembrano  personificazioni  più  che
persone ne' contrasti, nelle gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali
sono Carlo e Isabella, Davide e Gionata, Icilio  e  Virginio,  e  i  Bruti,  gli
Agidi, i Timoleoni. Manca  alla  virtù  ogni  semplicità  e  modestia,  e  nella
concitata espressione senti  la  povertà  del  contenuto.  Maggior  vita  è  ne'
personaggi tirannici o colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua  bile,
e l'odio lo rende profondo. Uno  de'  personaggi  da  lui  meno  stimati  e  più
interessanti  per  ricchezza  e  profondità  di  esecuzione  è  il  suo   Egisto
nell'Agamennone; e la scena dove l'iniquo con tanta  abilità  fa  sorgere
nella mente di Clitennestra l'idea dell'assassinio, è degna di Shakespeare.
        Alfieri è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo,  la  libertà,
la dignità, l'inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il  sentimento
del dovere, tutto  questo  mondo  interiore  oscurato  nella  vita  e  nell'arte
italiana gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo  studio
dell'antico, congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia  futura
è l'antica Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com'egli  dice,  «il
'sarà' è l''è stato'». Risvegliare negl'italiani la «virtù  prisca»,  rendere  i
suoi carmi «sproni acuti» alle nuove generazioni,  sì  che  ritornino  degne  di
Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante  e  col  Petrarca.  L'alto
motivo che ispirò il patriottismo de' due antichi toscani,  divenuto  a  poco  a
poco un vecchiume rettorico e messo in musica da  Metastasio,  ripiglia  la  sua
serietà nell'uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di cui  Alfieri  era
l'espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè
il tipo di Machiavelli, si avea formata un'anima politica: la patria era la  sua
legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano idee  povere  di
contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte  le  aspirazioni
non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse
rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con  la  realtà,  ne
sarebbe uscito un alto pathos, il vero motivo della tragedia moderna.  Ma
un concetto così elevato del mondo era prematuro, e  d'accordo  col  suo  secolo
Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la forza
maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma  l'odia,  come  la
vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che non  potendo
spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i
giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e se i giacobini  avessero  lette
le sue tragedie, potevano dirgli: - Maestro, da voi abbiamo imparato  l'arte.  -
L'uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore  de'  figli,  e  l'altro  Bruto,
uccisore di Cesare padre suo, l'uomo che non avea che parole  di  dispregio  per
Carlo primo, vittima de' repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire  a  coloro
che tagliarono la testa al decimosesto Luigi.  Ridotte  le  forze  collettive  e
sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era  naturale  che  l'individuo
prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di  tiranno,  e  che  l'odio
contro di quello fosse proporzionato a quella  grandezza.  Ma  in  questo  caso,
divenuta la tragedia un gioco di  forze  individuali,  eliminato  ogni  elemento
collettivo e superiore, essa non può avere per base che la formazione  artistica
dell'individuo. Se non che il nostro tragico è più preoccupato  delle  idee  che
mette in bocca a' suoi eroi, che della loro anima e della loro  personalità.  Il
contenuto politico e  morale  non  è  qui  semplice  stimolo  e  occasione  alla
formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta il  lavoro  dell'arte.
Il qual fenomeno ho già notato come caratteristico della nuova  letteratura.  Il
contenuto esce dalla sua secolare indifferenza,  e  si  pone  come  esteriore  e
superiore all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo e
infiammarne la coscienza,  per  modo  che  i  carmi  sieno  «sproni  acuti».  Il
sentimento  politico  è  troppo  violento  e  impedisce   l'ingenua   e   serena
contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento estetico.
Perciò le sue concezioni,  i  suoi  sentimenti,  i  suoi  colori  sono  crudi  e
disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie troppo alla forma. Egli  è  la
nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità,  più  simile  a
violenta reazione contro il passato, che a quella tranquilla affermazione di sè,
paga di un'ironia senza fiele, così  nobile  in  Parini.  Nell'ironia  pariniana
senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel  sarcasmo
alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè  ci  volea  meno  che
quella  esagerazione  e  quella  violenza  per  colpire  le  torpide   e   vuote
immaginazioni.
        Gli effetti della tragedia alfieriana  furono  corrispondenti  alle  sue
intenzioni. Essa infiammò il sentimento  politico  e  patriottico,  accelerò  la
formazione di  una  coscienza  nazionale,  ristabilì  la  serietà  di  un  mondo
interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi,  le  sue  sentenze,  i  suoi
motti,  le  sue  tirate  divennero  proverbiali,  fecero  parte  della  pubblica
educazione. Declamare tirannide  e  libertà  venne  in  moda,  spasso  innocente
allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione  politica  piena
di allusione a' casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro  alle  sue
tirate, non credevano che quelle massime  dovessero  impegnar  la  coscienza,  e
trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della
esagerazione; perchè l'esagerazione era da un pezzo la  malattia  dello  spirito
italiano, smarrito il  senso  della  realtà  e  della  misura.  Ma  nelle  nuove
generazioni, travagliate  da'  disinganni  e  impedite  nella  loro  espansione,
quegl'ideali tragici così vaghi e insieme così  appassionati  rispondevano  allo
stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti
condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la  mente  ed  il
carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben  presto  parve
all'Italia di avere infine il  suo  gran  tragico  pari  a'  sommi.  Ci  era  la
tragedia, ma non c'era ancora  il  verso  tragico,  a  sentenza  de'  letterati.
Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri  e  la  cantilena  di
Metastasio. E quando fu rappresentato  l'Aristodemo,  il  problema  parve
sciolto. Vedevano  in  quella  tragedia  la  fierezza  dantesca  e  la  dolcezza
virgiliana, «di Dante il core e del suo duca il canto». E in verità di  Dante  e
di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea Dante nell'immaginazione  e
Virgilio nell'orecchio.
        L'abate Monti, nato fra tanto fermento d'idee, ne ricevè  l'impressione,
come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda, che  il
frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser  liberale  a
quel tempo, quando anche i retrivi gridavano «libertà»,  bene  inteso  la  «vera
libertà», come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt'i  governi.
Quando era  moda  innocente  declamare  contro  il  tiranno,  gittò  sul  teatro
l'Aristodemo, che fece  furore  sotto  gli  occhi  del  papa.  Quando  la
rivoluzione francese s'insanguinò, in nome della libertà combattè la licenza,  e
scrisse la Basvilliana. Ma il canto gli  fu  troncato  nella  gola  dalle
vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertà cantò Napoleone, e in nome
anche della libertà cantò poi il  governo  austriaco.  Le  massime  eran  sempre
quelle, applicate a tutt'i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello  che
i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I
suoi versi suonano sempre «libertà», «giustizia», «patria», «virtù», «Italia». E
non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le  idee  pigliano
calore e forma, sì che facciano illusione a lui stesso e  simulino  realtà.  Non
aveva l'indipendenza sociale di Alfieri, e non la virile moralità di Parini: era
un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e  nuove,  tutte
le opinioni, e dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza,  e  non
gli piacea di fare il martire. Fu dunque il segretario dell'opinione  dominante,
il  poeta  del  buon  successo.  Benefico,  tollerante,  sincero,  buono  amico,
cortigiano più per bisogno  e  per  fiacchezza  d'animo,  che  per  malignità  o
perversità d'indole, se si fosse ritratto nella verità della sua  natura,  potea
da lui uscire un  poeta.  Orazio  è  interessante  perchè  si  dipinge  qual  è,
scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo.  Monti  raffredda
perchè sotto la magnificenza di Achille senti la meschinità di  Tersite,  e  più
alza la voce, e più piglia aria dantesca, più ti lascia freddo. Ci è quel  falso
eroico, tutto di frase e d'immagine, qualità tradizionale della  letteratura,  e
caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le  idee  e  piccolo  il
carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno fu  più  applaudito.  La
natura gli aveva largito  le  più  alte  qualità  dell'artista,  forza,  grazia,
affetto, armonia, facilità e brio  di  produzione.  Aggiungi  la  più  consumata
abilità tecnica, un'assoluta padronanza della lingua e dell'elocuzione  poetica.
Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un
contenuto  profondamente  meditato  e  sentito,  mancava  il  carattere,  che  è
l'impulso morale. Pure i suoi lavori, massime  l'Iliade,  saranno  sempre
utili a studiarvi i  misteri  dell'arte  e  le  finezze  dell'elocuzione.  E  la
conclusione dello studio sarà, che non basta l'artista quando manchi il poeta.
        Monti, come Metastasio, fu divinizzato  in  vita.  Ebbe  onori,  titoli,
forza, molto seguito. Un popolo così artistico, come l'italiano,  ammirava  quel
suo magistero a freddo, quella facilità e quella felicità di  armonie.  Dopo  la
sua morte ebbe  gli  elogi  di  Alessandro  Manzoni  e  di  Pietro  Giordani.  E
l'esagerazione delle accuse rese cari  quegli  elogi,  quasi  pio  ufficio  alla
memoria di un uomo, in cui era più da compatire che da biasimare.

        Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertà  Monti
fu censurato per la sua Basvilliana con lo stesso  furore  che  l'avevano
applaudito.Un giovane scrisse la sua  apologia.  L'atto  ardito  piacque.  E  il
giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di  Ugo
Foscolo, formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante e di Alfieri.
        L'Italia, secondo il solito, se la  contendevano  francesi  e  tedeschi.
Ritornava la storia, ma con  altri  impulsi.  Non  si  trattava  più  di  dritti
territoriali. La sete del dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più
nobili. Venivano in nome delle  idee  moderne.  Gli  uni  gridavano  «libertà  e
indipendenza nazionale»: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e  Rousseau.
Gli altri, proclamatisi prima difensori del  papa  e  ristoratori  del  vecchio,
finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano
appresso a' soldati e penetravano ne' più umili strati della società. Propaganda
a suon di cannoni, che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo.
Il popolo italiano ne fu agitato ne' suoi  più  intimi  recessi:  sorsero  nuovi
interessi, nuovi bisogni, altri costumi. E  quando  dopo  il  1815  parve  tutto
ritornato nel primo assetto, sotto a quella  vecchia  superficie  fermentava  un
popolo profondamente trasformato  da  uno  spirito  nuovo,  che  ebbe,  come  il
vulcano, le sue periodiche eruzioni, finchè non fu soddisfatto.
        Quei grandi avvenimenti colsero l'Italia  immatura  e  impreparata.  Non
ancora vi si era formato uno spirito  nazionale,  non  aveva  ancora  una  nuova
personalità, un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena  gli
alti monti.  Nella  stessa  borghesia,  ch'era  la  classe  colta,  trovavi  una
confusione d'idee vecchie e nuove, niente di chiaro e ben definito,  audacie  ed
utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti  atti  a
stimolare le passioni,  a  formare  i  caratteri.  Privi  d'iniziativa  propria,
aspettavano prima tutto da' principi, poi tutto da' forestieri. Fatti  liberi  e
repubblicani senza merito loro, rimasero al sèguito de'  loro  liberatori,  come
clientela messa lì per batter le mani e far la corte  al  padrone  magnanimo.  E
quando, passata la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e  prese  aria
di  conquistatore  e  d'invasore,  gittarono  le  alte  grida,  e  cominciò   il
disinganno.
        I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e  Milano,  colà
dove le idee nuove si erano  mostrate  più  vive.  Napoli,  fatta  repubblica  e
abbandonata poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici  voi,
Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné, cui il patibolo cinse d'immortale  aureola!
La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e  desidèri  non
potuti più sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che  ripararono  a
Milano, e tra gli altri il Cuoco, che narrò gli errori e le glorie  della  breve
repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne  il
convegno de' più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e  Beccaria
erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore,  sopravviveva  a  se  stesso.
Alfieri, che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America e  la
presa della Bastiglia, vedute  le  esorbitanze  della  rivoluzione,  sdegnoso  e
vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire  l'acre  umore,  e
contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico,  e
studiando il greco, finiva la vita  nel  riso  sarcastico  di  commedie  triste.
Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi  ufficiali  e
scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava
con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione  se  ne  andava  al
suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte.
I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie.  E
non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i  dolori  e  gli  sdegni  e  le
vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.
        Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno,  uscito
dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta  tragedia.  Il
giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al  lirismo  di
una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava  l'eroe  liberatore
di Venezia, e l'eroe mutatosi in traditore vendeva Venezia all'Austria. Da un dì
all'altro Ugo Foscolo si trovò  senza  patria,  senza  famiglia,  senza  le  sue
illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo  Iacopo  Ortis.  La
sostanza del libro è il grido di Bruto: «O virtù, tu non sei che un nome  vano».
Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro  morte
è la sua morte, è il suicidio. A  breve  distanza  hai  l'ideale  illimitato  di
Alfieri con tanta fede, e l'ideale morto  di  Foscolo  con  tanta  disperazione.
Siamo ancora nella gioventù,  non  ci  è  il  limite.  Illimitate  le  speranze,
illimitate le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù,  giustizia,  gloria,
scienza, amore, tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione
appena è fiorito, e già appassisce.  La  verità  è  illusione,  il  progresso  è
menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze, al  primo
disinganno ci è la follia  delle  disperazioni.  Questo  subitaneo  trapasso  di
sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quella agitazione d'idee
astratte ch'era in Italia, venuta da' libri e rimasta nel cervello,  scompagnata
dall'esperienza, e non giunta ancora a temprare i  caratteri.  Trovi  in  questo
Iacopo un sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale,  più  che
l'espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza  più
alla riflessione astratta, che  alla  formazione  artistica,  una  immaginazione
povera e monotona in tanta esagerazione de' sentimenti.
        Il grido di Iacopo rimase sperduto  fra  il  rumore  degli  avvenimenti.
Sorsero nuove speranze, si fabbricarono  nuove  illusioni.  Il  romanzo,  uscito
anonimo, mutilato e interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità, fu
il libro delle donne e de' giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non
vi si die' importanza politica nè letteraria, anzi molti, tratti da  somiglianze
superficiali, lo dissero imitazione del  Werther.  Il  fatto  è  che  non
rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così  rapida  vicenda
di cose e di uomini,  e  quelle  disperazioni  erano  contraddette  dalle  nuove
speranze.
        Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della  sua  nuova
patria, della patria  di  Dante  e  di  Alfieri.  Le  necessità  della  vita  lo
incalzavano. E ancora più, uno spirito guerriero che gli  ruggìa  dentro  e  non
trovava espansione, una forza inquieta  in  ozio.  Giovane,  pieno  d'illusioni,
appassionato, con tanto «furore di gloria», con tanto orgoglio al di dentro, con
un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose, lui,  educato  da  Plutarco,
stimolato da Alfieri, quell'ozio forzato lo gitta violentemente in sè, gli  rode
l'anima. È la malattia ch'egli chiama nel suo Ortis con una energia piena
di verità  «consunzione  dell'anima».  Lo  vedi  a  Milano  vagante,  scontento,
fremente, ora rinselvarsi,  fantasticare,  scrivere  se  stesso  in  verso,  ora
giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il  suicidio,  ed
ha appena venti anni:

        Non son chi fui, perì di noi gran parte:
        questo che avanza è sol languore e pianto.

In questa malattia di languore s'intenerisce, pensa  alla  madre,  al  fratello,
alla sua lontana Zacinto,  non  senza  certi  ribollimenti,  che  annunziano  la
vigoria di una forza ròsa, non doma. Alfieri a venti anni  si  sfogava  correndo
Europa, Foscolo si sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche  sono  la  sua
storia da' sedici a' venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e
malinconica, di cui l'Italia avea perduta la memoria. E gli veniva non solo  dal
Petrarca, ma dalla terra materna, dal suo  sentire  greco,  dalle  «corde  eolie
maritate alla grave itala cetra». Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:

        Tu non altro che il canto avrai del figlio,
        o materna mia terra: a noi prescrisse
        il fato illacrimata sepoltura.

L'esercizio della vita guarì  Foscolo.  Soldato  della  repubblica,  combattè  a
Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. La vita militare gli  ritornò  il  sapore
della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini e All  'amica  risanata
trovi un mondo musicale e voluttuoso, dove l'anima guarita e gioiosa si  espande
nella varietà della vita. La sua fama gli dà il  gusto  delle  lettere  e  della
poesia; traduce la Chioma di Berenice e vi appone  un  comento,  dove  fa
sfoggio di una erudizione peregrina; tenta  una  traduzione  dell'Iliade,
emulo di Monti; scrive un'orazione pei comizi di Lione, con pomposo artificio di
stile e con gravità e arditezza d'idee.
        I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo  alzarono  accanto
a' sommi. Fu chiamato per  antonomasia  «l'autore  de'  Sepolcri».  E  in
verità,  questo  carme  è  la  prima  voce  lirica  della   nuova   letteratura,
l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo.
        Una legge  della  repubblica  prescriveva  l'uguaglianza  de'  sepolcri,
l'uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de' sepolcri  sembrava
privilegio de' nobili e de' ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione
delle classi, anche in quella forma. - Parini dunque giacerà nella fossa  comune
accanto al ladro, - pensava Foscolo. Questa logica  rivoluzionaria  spinta  fino
agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della  vita,  lo  riconduceva  nel
mondo naturale e ferino, non ancora  abitato  dall'uomo.  Nè  gli  entrava  quel
trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in sè offeso  il  poeta  e  l'uomo.
Mancava l'idea religiosa che abbellisce la morte e mostra il paradiso  sotto  le
oscure volte dell'obblio. Ma vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso  e
ne' suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la libertà, con  la
gloria Di là cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de'  sepolcri:  il
sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato  da'  sentimenti
più delicati dell'umanità in un pantheon vivente, perchè opera ancora su'  vivi,
desta ricordanze e illusioni, accende a  nobili  fatti.  Sono  illusioni,  senza
dubbio; ma sono le illusioni dell'umanità, eterne quanto essa, parte  della  sua
storia. Il carme è una storia dell'umanità da  un  punto  di  vista  nuovo,  una
storia de' vivi costruita da' morti. Senti  un'ispirazione  vichiana  in  questo
mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e  ferini  la  religione  de'
sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio
mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa  Croce.
La storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di  forme  e
di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del  nulla  e
dell'infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d'uomo, il tutto  in
una forma solenne e quasi religiosa come di un inno alla divinità.
        La Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi rifaceva già la sua  via.
Sopravvenivano idee più temperate; si sentiva il bisogno  di  una  restaurazione
religiosa e morale. Il carme di Foscolo facea vibrare  queste  nuove  corde.  La
Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
        Declamare contro i preti e contro  la  superstizione  era  il  tono  del
secolo. Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva  in
nome della filosofia, della libertà,  dell'economia  pubblica.  Qui  il  tono  è
altro.
        Non può credere  il  poeta  all'immortalità  dell'anima;  pure  vorrebbe
crederci. Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni  che  ci  rendono
felici, che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad  un  ritorno  delle
idee religiose, non in nome della  verità,  ma  in  nome  dell'umanità  e  della
poesia. Senti già Châteaubriand.
        Ma se «purtroppo» è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia
solo è immortale, e le forme periscono, non è vero che la morte dell'uomo sia il
nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli  scritti,
le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i viventi
vi cercano  ispirazioni  e  conforti.  La  pietà  de'  defunti  è  la  religione
dell'umanità, ove non si voglia che ricaschi nello stato  ferino.  Non  vogliamo
credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena:  sia  pure,
anzi pur troppo è così: «vero è ben,  Pindemonte!».  Ma,  uomini,  possiamo  noi
rifiutar fede all'umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita  tutte  le  sue
illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come  poeta.  È  in
lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato  troppo  innanzi  nel  suo
lavoro di demolizione, e che si  arretra,  cercando  un  punto  di  fermata  ne'
sentimenti umani, via a' sentimenti religiosi.
        Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era già il patriota,
il liber uomo: qui apparisce l'uomo nella sua intimità, ne' delicati  sentimenti
della sua natura civile.  L'uomo  nuovo  s'integra,  il  mondo  interiore  della
coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di  sentire  che
sono uscite le più belle  ispirazioni  della  lirica  italiana,  il  lamento  di
Cassandra, le impressioni di Maratona, l'apoteosi di Santa Croce.  Il  punto  di
vista è così elevato che lo spettacolo d'Italia  caduta  così  giù,  materia  di
tanta rettorica, lo trova rassegnato e meditativo sulle  alterne  vicende  delle
umane sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d'uomo e ispirazione di poeta.
        Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse  tócca  una  corda
che vibrava in tutt'i cuori. E non fu minore l'impressione su' letterati.
        La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione  della  rima.
Alla terzina e all'ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la
cadenza e la cantilena. La  nuova  parola,  confidente  nella  serietà  del  suo
contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima:  bastava  ella  sola  a  se
stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa, e non era già una  tragedia  o  un
poema, era una composizione lirica, alla quale egli osa  togliere  tutt'i  mezzi
cantabili  e  musicali  della  metrica.  Qui  è  pensiero  nudo,  acceso   nella
immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue
armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme  tradizionali
e meccaniche, vien fuori spezzato in sè, con nuove tessiture e  nuovi  suoni,  e
non è artificio, è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera  di
Dante. Anche il genere parve nuovo. Al  sonetto  e  alla  canzone  succedeva  il
carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema  lirico  del  mondo
morale e religioso, l'elevazione dell'anima  nelle  alte  sfere  dell'umanità  e
della storia, una ricostruzione della coscienza  o  dell'uomo  interiore  al  di
sopra delle passioni contemporanee, era l'uomo intero, nella  esteriorità  della
sua vita di patriota e di cittadino e nella intimità de' suoi  affetti  privati,
era l'aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva  all'inno.  Foscolo  batteva
alle porte del secolo decimonono.
        Entrato in questa via, mette mano ad  altri  carmi,  l'Alceo,  la
Sventura, l'Oceano. Ma non trova più la prima ispirazione: compone
a freddo, letterariamente, gli  escono  frammenti,  niente  giunge  a  maturità.
Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di  artista,  ma  il  poeta
quasi non ci è più.
        Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione, le sue
lezioni, i suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana, voglio dire
che vi desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio  francese.
È una prosa personale, ancora in formazione,  piena  di  reminiscenze  latine  e
oratorie, con  una  tendenza  alla  maestà  e  alla  forza.  Mostra  più  calore
d'immaginazione che vigore d'intelletto.
        Il concetto dominante di questa prosa è l'uomo soprapposto al letterato.
Foscolo ti dà la formola della nuova letteratura. La  sua  forza  non  è  al  di
fuori, ma  al  di  dentro,  nella  coscienza  dello  scrittore,  nel  suo  mondo
interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono di  nuova  luce.
Lo stile si scioglie dall'elocuzione e da ogni artificio  tecnico,  e  s'interna
nel pensiero e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo
all'estetica. Non ci è ancora la scienza, ma ce n'è il gusto e la tendenza.
        E ci  è  ancora  di  più.  Vi  rinasce  il  gusto  delle  investigazioni
filologiche e storiche, tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola
di tutto il passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni, e si ricongiunge  a
Vico e Muratori.
        Foscolo apriva la via al  nuovo  secolo.  E  non  è  dubbio  che  se  il
progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico,
l'ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore
del secolo decimonono, il capo della nuova scuola.  Ma  quel  progresso  vestiva
aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee
e le forme di un secolo, del quale Foscolo si  sentiva  complice.  Gli  spiaceva
soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle  negazioni
negato se stesso. E quando avea già moderate  molte  sue  opinioni  religiose  e
politiche, e s'era fatto della vita un concetto più  reale,  e  s'era  spogliata
gran parte delle sue illusioni, quando stava già con l'un piè nel nuovo  secolo;
calunniato,  disconosciuto,  dimenticato,  nel   continuo   flutto   delle   sue
contraddizioni finì tristo, lanciando al nuovo secolo, come  una  sfida  le  sue
Grazie, l'ultimo fiore del classicismo italiano.
        Foscolo morì nel 1827. E già si  erano  levati  sull'orizzonte  Pellico,
Manzoni, Grossi, Berchet. Comparsa  era  la  scuola  romantica  l'audace  scuola
boreale.

        Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna
la manifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma  filosofica  e
letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne veggono  le  orme  anche  ne'
Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio.  La  reazione  fu  così  rapida  e
violenta come la rivoluzione. Invano  Bonaparte  tentò  di  arrestarla,  facendo
delle concessioni, e cercando nelle idee medie una conciliazione.  Il  movimento
impresso giunse a tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono  mescolati
in una comune condanna, giacobini e girondini, Robespierre  e  Danton,  Marat  e
Napoleone. Il «terrore bianco» successe al «rosso».
        Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario,  politico.  I
due nemici erano il  materialismo  e  lo  scetticismo,  e  vi  sorse  contro  lo
spiritualismo portato sino all'idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si
oppose il dritto divino, alla  sovranità  popolare  la  legittimità,  a'  dritti
individuali lo Stato, alla libertà l'autorità o l'ordine. Il medio evo ritornò a
galla, glorificato come la culla dello spirito moderno, e fu corso e ricorso dal
pensiero in tutt'i suoi indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto
di tutti gli strali, divenne il centro di ogni investigazione  filosofica  e  la
bandiera di ogni progresso sociale e civile;  i  classici  furono  per  istrazio
chiamati «pagani», e le dottrine liberali furono qualificate  senz'altro  pretto
paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltà,  e
il papato potente  fattore  di  libertà  e  di  progresso.  Mutarono  i  criteri
dell'arte. Ci fu un'arte pagana, e un'arte cristiana, di cui fu cercata  la  più
alta  espressione  nel  gotico,  nelle  ombre,   ne'   misteri,   nel   vago   e
nell'indefinito, in un di là  che  fu  chiamato  «l'ideale»,  in  un'aspirazione
all'infinito, non capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia  fu
battezzata, e detta qualità «cristiana», il  sensualismo,  il  materialismo,  il
plastico divenne il carattere dell'arte  «pagana»:  sorse  il  genere  cristiano
«romantico»  in  opposizione  al   genere   «classico».   «Religione»,   «fede»,
«cristianesimo», «l'ideale», «l'infinito», lo «spirito», «il trono e  l'altare»,
«la pace e l'ordine» furono le prime parole del nuovo secolo. La  contraddizione
era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva Châteaubriand,  Staël,  Lamartine,
Victor Hugo, Lamennais. E proprio nel 1815 uscivano in luce gl'Inni sacri
del  giovane   Manzoni.   Storia,   letteratura,   filosofia,   critica,   arte,
giurisprudenza, medicina, tutto prese quel colore. Avevamo un  neoguelfismo,  il
medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.
        Il movimento non era già fittizio  e  artificiale,  sostenuto  da  penne
salariate, promosso dalle polizie, suscitato da passioni e interessi temporanei.
Era un serio movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della  storia,  al
quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del nuovo secolo. Movimento
esagerato senza dubbio ne' suoi inizi, perchè mirava non solo a spiegare,  ma  a
glorificare il passato, a cancellare dalla storia  i  secoli,  a  proporre  come
modello il medio evo. Ma l'una esagerazione chiamava l'altra. La dea  Ragione  e
la  comunione  de'  beni  avea  per  risposta  l'apoteosi  del  carnefice  e  la
legittimità dell'Inquisizione.
        Ma l'esagerazione fu di corta durata,  e  la  reazione  fallì  ne'  suoi
tentativi di ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sè  infiniti
nuovi interessi venuti su  con  la  Rivoluzione,  interessi  materiali,  morali,
intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran  parte  la
monarchia, che avea pure  contribuito  a  promuoverlo.  Non  era  interesse  de'
principi  restaurare  le  maestranze,   le   libertà   municipali,   le   classi
privilegiate,   tutte   quelle   forze   collettive   sparite   nella    valanga
rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un  freno  al  loro  potere  assoluto.
Rimase  dunque  in  piedi   quasi   dappertutto   e   quasi   intero   l'assetto
economico-sociale consacrato da' nuovi codici, e la monarchia assoluta uscì  più
forte dalla burrasca. Perchè il clero e  la  nobiltà,  un  giorno  suoi  rivali,
divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi,  e  scomparse
le forze collettive naturali, potè con  facilità  riordinare  la  società  sopra
aggregazioni  artificiali  necessariamente  sottomesse  alla  volontà   sovrana,
burocrazia, esercito e clero. La burocrazia interessava alla conservazione dello
Stato la borghesia, che si dava alla caccia degl'impieghi, e centralizzando  gli
affari sopprimeva ogni libertà e movimento locale, e teneva nella sua dipendenza
provincie  e  comuni.  Una  moltitudine  d'impiegati  invasero  lo  Stato   come
cavallette, ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto, di
cui era istrumento. L'esercito, divenuto permanente, anzi una istituzione  dello
Stato,  fu  ordinato  a  modo  di  casta,  contrapposto  ai  cittadini,  evirato
dall'ubbidienza passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme che di soldato.  Il
clero, stretta l'alleanza fra il trono e l'altare, si recò in mano  l'educazione
pubblica, vigilò scuole, libri, teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove,
mantenne l'ignoranza nelle moltitudini,  trattò  la  coltura  come  sua  nemica.
Motrice della gran mole era la polizia, penetrata in tutte  queste  aggregazioni
governative, divenuto spia l'impiegato, il soldato  e  il  prete.  Ne  uscì  una
corruzione organizzata, chiamata «governo», o in forma assoluta, o  in  maschera
costituzionale.
        Una reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte  le
idee moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli,  di
Torino, di  Parigi,  delle  Romagne;  Grecia  e  Belgio  conquistavano  la  loro
autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale.
E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino co' suoi  dritti  individuali,
co' suoi princìpi d'eguaglianza, con la sua «carta» dell'Ottantanove. I principi
legittimi caddero. La monarchia per vivere si  trasformò,  si  ammodernò,  prese
abiti borghesi, divise il suo potere con  le  classi  colte.  E  soddisfatta  la
borghesia, soddisfatti tutti. Il terzo stato  era  niente;  il  terzo  stato  fu
tutto.
        Su  questo  compromesso  visse  l'Europa  lunghi  anni.  Le  istituzioni
costituzionali si allargarono. Il censo e la capacità apersero  la  via  a'  più
alti uffici, rotte tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra  più  aspra
al feudalismo, alla manomorta, a' privilegi. La borghesia  trovò  largo  pascolo
alla sua attività e alla sua ambizione ne' parlamenti, ne' consigli  comunali  e
provinciali, nella guardia nazionale, nel giurì, nelle accademie,  nelle  scuole
sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono; si apersero altre
fonti alla ricchezza. Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su.  Non  si
diceva più «aristocrazia», si  diceva  «bancocrazia»,  alimentata  dalla  libera
concorrenza. Chi aveva più forza, vinceva e dominava, forza di censo,  d'ingegno
e di lavoro. L'attività intellettuale, stimolata in tutti  i  versi,  fra  tanta
pubblica prosperità faceva  miracoli.  All'ombra  della  pace  e  della  libertà
fiorivano le scienze e le lettere. Anche  dove  gli  ordini  costituzionali  non
poterono vincere, come in Italia, la reazione allentò i suoi freni, la borghesia
ebbe una parte più larga alle pubbliche faccende, e vi s'introdusse un  modo  di
vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si accostumava a  vivere  accanto
al nuovo; il dritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi  e
negli scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo  edificio;  e
venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e il
popolo, ma fra il papato e la libertà.
        Adunque, sedati i primi  bollori,  quel  movimento  che  aveva  aria  di
reazione, era in fondo la stessa Rivoluzione, che ammaestrata  dalla  esperienza
moderava e disciplinava se stessa. I disinganni, le rovine,  tanti  eccessi,  un
ideale così puro, così lusinghiero, profanato al suo primo contatto  col  reale,
tutto questo  dovea  fare  una  grande  impressione  sugli  spiriti  e  renderli
meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle  moltitudini,  assalito
con una violenza, che tirava in suo favore  anche  gl'indifferenti,  e  che  ora
rialzava il capo con  superbia  di  vincitore.  L'esperienza  ammaestrò  che  il
passato non si distrugge  con  un  decreto,  e  che  si  richiedono  secoli  per
cancellare dalla storia l'opera de' secoli. E ammaestrò pure che la forza allora
edifica solidamente quando sia preceduta dalla persuasione, secondo  quel  motto
di Campanella che «le lingue precedono le spade». Evidentemente  la  Rivoluzione
aveva errato, esagerato le sue idee e le sue forze, ed ora si rimetteva  in  via
con minor passione, ma con maggior senso del reale, confidando più nella scienza
che nell'entusiasmo. Che cosa fu dunque  il  movimento  del  secolo  decimonono,
sbolliti  i  primi  furori  di  reazione?  Fu  lo  stesso  spirito  del   secolo
decimottavo, che dallo stato spontaneo e istintivo passava  nello  stadio  della
riflessione, e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il
senso della misura e della realtà, creava la scienza della  rivoluzione.  Fu  lo
spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sè e prendeva il  suo  posto  nella
storia.  Châteaubriand,  Lamartine,  Victor  Hugo  Lamennais,  Manzoni,  Grossi,
Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di  Alfieri  e  Foscolo.
Sono anch'essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il loro programma è
sempre la «carta»  dell'Ottantanove,  il  «credo»  è  sempre  «libertà,  patria,
uguaglianza, dritti  dell'uomo».  Il  sentimento  religioso,  troppo  offeso  si
vendica, offende a  sua  volta;  pure  non  può  sottrarsi  alle  strette  della
Rivoluzione. Risorge, ma impressionato dello spirito nuovo,  col  programma  del
secolo decimottavo. Ciò a cui mirano  i  neo-cattolici  non  è  di  negare  quel
programma, come fanno  i  puri  reazionari,  co'  gesuiti  in  testa,  ma  è  di
conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto il
programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. È la  vecchia  tesi
di Paolo Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior  splendore  di  parola  e  di
scienza. La Rivoluzione è costretta a  rispettare  il  sentimento  religioso,  a
discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza e  la  sua  missione
nella storia; ma d'altra parte il cristianesimo ha bisogno  per  suo  passaporto
del secolo decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare di
una «democrazia cristiana» e di un «Cristo  democratico»,  a  quel  modo  che  i
liberali  trasferiscono  a  significato  politico   parole   scritturali,   come
l'«apostolato delle idee», il «martirio patriottico», la «missione sociale»,  la
«religione del dovere». La rivoluzione, scettica e materialista, prende per  sua
bandiera: «Dio e popolo», e la religione, dommatica e  ascetica,  si  fa  valere
come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale  e  s'impregna
di umanismo e  di  naturalismo,  si  avvicina  alla  scienza  prende  una  forma
filosofica.  Lo  spirito  nuovo  raccoglie  in  sè  gli  elementi   vecchi,   ma
trasformandoli, assimilandoli a sè, e in quel lavoro trasforma anche se  stesso,
si realizza ancora più. Questo è  il  senso  del  gran  movimento  uscito  dalla
reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in  conciliazione.
E la sua forma politica è la monarchia per la grazia di Dio e per la volontà del
popolo.
        La base teorica di  questa  conciliazione  è  un  nuovo  concetto  della
verità, rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come  un
divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e dello spirito.
Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale, dello spirito e  della  natura,
o, come disse Vico, la «conversione del vero col certo». Il qual concetto da una
parte ridonava ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio  in  qua,
li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un significato  e
uno scopo, creava la filosofia della storia; d'altra parte realizzava il divino,
togliendolo  alle  strettezze  mistiche  e  ascetiche  del   soprannaturale,   e
umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario,  in
opposizione ricisa col medio evo, e con lo scolasticismo,  quantunque  apparisca
una reazione a tutto ciò che di troppo  esclusivo  e  assoluto  era  nel  secolo
decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza reazionario dovea condurre a  un
nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.
        Il primo periodo del movimento fu detto «romantico», in  opposizione  al
classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo,  come  le  vere
fonti della vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il Rinascimento
fu chiamato «paganesimo», e quell'età che il Rinascimento  chiamava  «barbarie»,
risorse cinta di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere  dopo  lunga  assenza
Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro  e  i  tempi  e  le
torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici:  il  gotico,
il vaporoso, l'indefinito, il sentimentale liquefecero le  immagini,  riempirono
di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto  e  nuova  forma.  Il
papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il  cui  storico  era
Carlo Troya, e l'artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero
ragione  contro  Dante  e  Federico  secondo.  Cronisti   e   trovatori   furono
disseppelliti;  l'Europa  ricostruiva  pietosamente  le  sue   memorie,   e   vi
s'internava, vi s'immedesimava, ricreava  quelle  immagini  e  quei  sentimenti.
Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi cercava i titoli della  sua
esistenza e del suo posto nel mondo, la legittimità delle sue aspirazioni.  Alle
antichità greche  e  romane  successero  le  antichità  nazionali,  penetrate  e
collegate da uno spirito superiore e unificatore, dallo  spirito  cattolico.  Si
svegliava l'immaginazione, animata dall'orgoglio nazionale e  da  un  entusiasmo
religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva  più  vivace  il
senso metafisico e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e  l'alta  poesia.
Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.
        Ma il romanticismo, come il classicismo, erano forme sotto alle quali si
manifestava lo spirito moderno. Foscolo e  Parini  nel  loro  classicismo  erano
moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano  cerchi
il candore e la semplicità dello spirito  religioso:  è  un  passato  rifatto  e
trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha lasciato i suoi vestigi  il
secolo decimottavo. Non ci sono più  le  passioni  ardenti  e  astiose  di  quel
secolo, ma ci sono le sue idee, la tolleranza, la libertà, la fraternità  umana,
consacrata da una religione di pace e di amore, purificata  e  restituita  nella
sua verginità, nella purezza delle sue origini e de' suoi motivi.  Una  reazione
così fatta già non è più reazione, è  conciliazione,  è  la  rivoluzione  stessa
vinta, che non minaccia più, e  lascia  il  sarcasmo,  l'ironia,  l'ingiuria,  e
trasformatasi in  apostolato  evangelico  prende  abito  umile  e  supplichevole
dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa  suo  Dio  e  Cristo,  e  la
Bibbia diviene l'«ultima parola di un credente». Lo  spirito  non  rimane  nelle
vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma.  Oramai  conscio  di  sè,
plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo  accompagna  nella  storia.  La
«divina Commedia» è capovolta: non è l'umano che s'india, è  il  divino  che  si
umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e
Vico. La stella di Monti scintillava  ancora  cinta  di  astri  minori;  Foscolo
solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava  alla  nuova  generazione  il
pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815, tra  il  rumore  de'  grandi
avvenimenti, usciva in luce un  libriccino,  intitolato  Inni,  al  quale
nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co' Carmi; Manzoni apriva il
suo   con   gl'Inni.   Il   Natale,   la    Passione,    la
Risurrezione,  la  Pentecoste  erano  le  prime  voci  del  secolo
decimonono. Natali, Marie e Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia  letteratura,
materia  insipida  di  canzoni  e  sonetti,  tutti  dimenticati.   Mancata   era
l'ispirazione, da cui uscirono gl'inni de' santi padri e i  canti  religiosi  di
Dante e del Petrarca e i quadri e le  statue  e  i  templi  de'  nostri  antichi
artisti. Su quella sacra materia era passato il Seicento e l'Arcadia,  insino  a
che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora  la  poesia
faceva anche lei  il  suo  «concordato».  Ricompariva  quella  vecchia  materia,
ringiovanita da una nuova ispirazione.
        Ciò che move il poeta non è la santità e il misterioso  del  dogma.  Non
riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente.  Mira  a
trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo.  Non  è
più un «credo», è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine  poeta  ci
sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si  attenti  di  presentare  a'
contemporanei le disusate immagini, se non pomposamente decorate. Non gli  basta
che sieno sante; vuole che sieno belle. L'idea cristiana ritorna  innanzi  tutto
come arte, anzi come la sostanza dell'arte  moderna,  chiamata  «romantica».  La
critica entrava già per questa via, e fin d'allora sentivi parlare di «classico»
e di «romantico», di «plastico» e di «sentimentale» di «finito» e  d'«infinito».
L'inno era poesia  essenzialmente  religiosa,  la  poesia  dell'infinito  e  del
soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la materia  e  per  la  forma.
Pure il poeta, volendo esser romantico, rimane classico. Invano si arrampica tra
le nubi del Sinai; non ci regge, ha bisogno di toccar terra; il suo spirito  non
riceve se non ciò che è chiaro, plastico, determinato, armonioso; le  sue  forme
sono descrittive, rettoriche e letterarie, pur  vigorose  e  piene  di  effetto,
perchè animate da immaginazione fresca in materia nuova.  Vi  senti  lo  spirito
nuovo, che in quel ritorno delle idee religiose non abdica, e penetra in  quelle
idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se stesso. Perchè la base ideale di
quegl'Inni è sostanzialmente democratica, è l'idea del secolo  battezzata
e consacrata sotto il nome d'«idea cristiana», l'eguaglianza degli uomini  tutti
fratelli in Cristo la riprovazione degli oppressori e  la  glorificazione  degli
oppressi; è la famosa triade, «libertà, uguaglianza, fratellanza», vangelizzata;
è il cristianesimo ricondotto  alla  sua  idealità  e  penetrato  dallo  spirito
moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca  nelle
sue visioni, semplice e commovente ne' suoi sentimenti, come di un mondo  ideale
riconciliato e concorde, ove si armonizzano e si acquietano  le  dissonanze  del
reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore,  che  nel  suo  dolore  pensò  a
tutt'i figli d'Eva; ivi è Maria, nel cui seno regale la femminetta depone la sua
spregiata lacrima; ivi è lo Spirito, che scende, aura consolatrice ne'  languidi
pensieri dell'infelice; ivi è il regno della pace, che il mondo irride,  ma  che
non può rapire; il povero, sollevando le ciglia al cielo «che è  suo»,  volge  i
lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia.      In questa ricostruzione di  un
mondo celeste accanto a una lirica di pace e di perdono, alta  sulle  collere  e
sulle cupidigie mondane, si sviluppa l'epica, quel veder le cose  umane  dal  di
sopra con l'occhio dell'altro mondo. Questa novità di contenuto, di forma  e  di
sentimento rende altamente originale il Cinque maggio, composizione epica
in forme liriche.  L'individuo,  grande  ch'ei  sia,  non  è  che  un'«orma  del
Creatore», un istrumento «fatale». La gloria terrena, posto pure  che  sia  vera
gloria, non è in cielo che «silenzio e tenebre». Sul mondano rumore sta la  pace
di Dio. È lui che atterra e suscita, che affanna e consola. La sua  mano  toglie
l'uomo alla disperazione, e  lo  avvia  pe'  floridi  sentieri  della  speranza.
Risorge  il  «Deus  ex  machina»,  il  concetto   biblico   dell'uomo   e
dell'umanità. La storia è la volontà imperscrutabile di Dio. Così vuole.  A  noi
non resta che adorare il  mistero  o  il  miracolo,  «chinar  la  fronte».  Meno
comprendiamo gli avvenimenti, e più siamo percossi di maraviglia,  più  sentiamo
Dio, l'incomprensibile. La storia anche di ieri si  muta  in  leggenda,  diviene
poesia epica. Napoleone è un gran miracolo, un'orma più  vasta  di  Dio.  A  che
fine? Per quale missione? L'ignoriamo. È il secreto di Dio. Così  volle.  Rimane
della storia la parte  popolare  o  leggendaria,  quella  che  più  colpisce  le
immaginazioni; le battaglie, le vicende assidue, gli  avvenimenti  straordinari,
le grandi catastrofi, le miracolose  conversioni.  Il  motivo  epico  nasce  non
dall'altezza e moralità de' fini, ma dalla grandezza e potenza del genio,  dallo
sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove strofe,  di  cui
ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un  piccolo  mondo,  e  te  ne
viene una impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di
prospetto, ed è sempre colossale. L'occhio profondo  e  rapido  dell'ispirazione
divora gli spazi, aggruppa gli anni, fonde gli avvenimenti,  ti  dà  l'illusione
dell'infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di  prospettiva
nella  maggior  chiarezza  e  semplicità  dell'espressione.  Le   immagini,   le
impressioni,  i  sentimenti,  le  forme  tra   quella   vastità   di   orizzonti
ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e  di  dimensioni.  Trovi
condensata la vita del grande uomo nelle sue geste, nella  sua  intimità,  nella
sua azione storica, ne' suoi effetti su'  contemporanei,  nella  sua  solitudine
pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli  avvenimenti  e  i  secoli,  come
incalzati e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli accavallantisi,
appena frenati dalle rime.
        Questo è il primo movimento, epico-lirico,  del  secolo  decimonono.  Al
macchinismo  classico  succede  il  macchinismo  teologico.  Ma   non   è   mero
macchinismo,  semplice  colorito  o  abbellimento.  È  un   contenuto   redivivo
nell'immaginazione che ricostruisce a sua immagine la storia dell'umanità  e  il
cuore dell'uomo. È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi.  Ritorna  la
provvidenza nel mondo, ricomparisce il miracolo nella  storia,  rifioriscono  la
speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce, si apre a sentimenti miti: su'
disinganni e sulle discordie mondane spira un alito di perdono e  di  pace.  Ciò
che intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo  giovanile,  riflesso
di quell'entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce,  ispirava
ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli  uomini  stanchi  un'era
novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste  illusioni,  e
mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie,  allegorizzando
con colori antichi cose  moderne,  Manzoni  ricostruiva  l'ideale  del  paradiso
cristiano e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia  se  ne  va,  e
resta il classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato, e restano le sue  idee.
Mutata è la cornice, il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque maggio. La
cornice è una illuminazione artistica, una bell'opera  d'immaginazione,  da  cui
non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è la storia di  un  genio
rifatta dal genio. L'interesse non è nella cornice è nel quadro.
        Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio  è
l'assoluto,  l'idea;  Cristo  è  l'idea   in   quanto   è   realizzata,   l'idea
naturalizzata; lo Spirito è l'idea riflessa e consapevole il Verbo;  la  trinità
teologica diviene la base di una trinità filosofica. Il Dio teologico è l'essere
nel suo immediato, il nulla, un Dio astratto e formale, vuoto di contenuto.  Dio
nella sua verità è lo spirito che riconosce  se  stesso  nella  natura.  Logica,
natura, spirito, sono i tre momenti della sua  esistenza,  la  sua  storia,  una
storia dove niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale.
Ciò che è stato, dovea  essere.  La  schiavitù,  la  guerra,  la  conquista,  le
rivoluzioni, i colpi di Stato non sono fatti arbitrari, sono fenomeni  necessari
dello spirito nella sua esplicazione. Lo  spirito  ha  le  sue  leggi,  come  la
natura; la storia  del  mondo  è  la  sua  storia,  è  logica  viva,  e  si  può
determinare  a  priori.  Religione,   arte,   filosofia,   dritto,   sono
manifestazioni dello spirito, momenti della sua esplicazione. Niente si  ripete,
niente  muore:  tutto  si  trasforma  in  un  progresso  assiduo,   che   è   lo
spiritualizzarsi dell'idea, una coscienza sempre più chiara di sè, una  maggiore
realtà.
         In  queste  idee  codificate  da  Hegel  ricordi  Machiavelli,   Bruno,
Campanella, soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori.  Quelle  leggi,  che
egli traeva da' fatti sociali, ora  si  cercano  a  priori  nella  natura
stessa dello spirito. Nasce un'appendice  della  Scienza  nuova,  la  sua
metafisica  sotto  nome  di  «logica»,  compariscono  vere  teogonie,  o  epopee
filosofiche, con le loro ramificazioni. Hai la  filosofia  delle  religioni,  la
storia della filosofia, la filosofia dell'arte,  la  filosofia  del  dritto,  la
filosofia della storia, illuminate dall'astro maggiore, la logica, o, come  dice
Vico, la «metafisica». Tutto il contenuto scientifico è rinnovato.  E  non  solo
nell'ordine morale, ma nell'ordine fisico. Hai una filosofia della natura,  come
una filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola  e  medesima  filosofia,
momenti dell'Idea nella sua manifestazione.
        Il misticismo, fondato sull'imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato
dal sentimento, dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema  piace  alla
colta borghesia, perchè da  una  parte,  rigettando  il  misticismo,  prende  un
aspetto  laicale  e  scientifico,  e  dall'altra,  rigettando  il  materialismo,
condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee di forze brute.  Piace  il
concetto di un progresso inoppugnabile, fondato sullo  sviluppo  pacifico  della
coltura: alla parola «rivoluzione» succede la parola «evoluzione». Non  si  dice
più «libertà», si dice «civiltà», «progresso», «coltura». Sembra trovato  oramai
il punto, ove s'accordano autorità e libertà, Stato  e  individuo,  religione  e
filosofia, passato e avvenire. Anche  le  idee  fanno  la  loro  pace,  come  le
nazioni.  E  il  sistema  diviene  ufficiale  sotto  nome  di  «ecletismo».   La
rivoluzione gitta via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata sotto  il
vessillo tricolore,  vagheggiando,  come  ultimo  punto  di  fermata,  le  forme
costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo,  e  i
rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee facevano il giro  di  Europa  e
divennero il «credo» delle classi colte. La parte liberale si costituì  come  un
centro tra una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava
i «partiti estremi». Luigi Filippo realizzò questo  ideale  della  borghesia,  e
l'ecletismo lo consacrò. Sembrò  dopo  lunga  gestazione  creato  il  mondo.  Il
problema era sciolto, il bandolo era trovato. Dio  si  poteva  riposare.  Chiusa
oramai era la porta alla reazione  e  alla  rivoluzione.  Regnava  il  progresso
pacifico  e  legale,   governava   la   borghesia   sotto   nome   di   «partito
liberale-moderato». Teneva in iscacco la dritta, perchè, se combatteva i gesuiti
e gli oltramontani, onorava il cristianesimo, divenuto nel nuovo sistema  l'idea
rifiessa e consapevole, lo spirito che  riconosce  se  stesso.  Non  credeva  al
soprannaturale, ma lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo  divino,
ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con unzione,  e
con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava dalla sua i cristiani liberali  e
patrioti, e non urtava le plebi. E teneva a un  tempo  in  iscacco  la  sinistra
rivoluzionaria, perchè se  respingeva  i  suoi  metodi,  se  condannava  le  sue
impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee, confidando  più
nell'opera lenta, ma sicura, dell'istruzione e dell'educazione, che nella  forza
brutale. Per queste vie la rivoluzione sotto aspetto di conciliazione si rendeva
accettabile a' più, e si rimetteva in cammino.
        Tra queste idee si formò la nuova critica  letteraria.  Rimasta  fra  le
vuote forme rettoriche empirica e tradizionale, anch'ella  gridò  «libertà»  nel
secolo scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all'autorità,  acquistò  una
certa indipendenza di giudizio, illuminata ne' migliori dal  buon  senso  e  dal
buon gusto. L'attenzione dall'esterno meccanismo si volse alla forza produttiva,
cercando i motivi e  il  significato  della  composizione  nelle  qualità  dello
scrittore; l'arte ebbe il suo «cogito» e trovò la sua formola nel  motto:
«Lo stile è l'uomo». Ma era una critica d'impressioni più  che  di  giudizi,  di
osservazioni più che di princìpi. Con la nuova filosofia il  bello  prese  posto
accanto al vero e al buono, acquistò una base scientifica nella logica,  divenne
una manifestazione dell'idea, come la religione, il dritto,  la  storia:  avemmo
una filosofia dell'arte, l'estetica. Stabilito un corso  ideale  della  umanità,
l'arte entrò nel sistema allo stesso modo  che  tutte  le  altre  manifestazioni
dello spirito, e  prese  dalla  qualità  dell'idea  la  sua  essenza  e  il  suo
carattere. Materia principale della critica fu  l'idea  col  suo  contenuto:  le
qualità formali ebbero il  secondo  luogo.  Avemmo  l'idea  «orientale»,  l'idea
«pagana» o «classica», l'idea «cristiana» o «romantica» nella  religione,  nella
filosofia, nello Stato, nell'arte, in tutte le forme dell'attività sociale,  uno
sviluppo storico a priori, secondo la logica o le leggi dello spirito. La
filosofia dell'idea  divenne  un  antecedente  obbligato  di  ogni  trattato  di
estetica, come di ogni ramo dello scibile; e il problema fondamentale  dell'arte
fu cercare l'idea in ogni lavoro dell'immaginazione, e misurarlo secondo quella.
Rivenne  su  il  concetto  cristiano-platonico  dell'arte,  espresso  da  Dante,
ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero «sotto il velo della favola  ascoso»,
o il «vero condito in molli  versi».  Divenuta  la  favola  un  velo  dell'idea,
ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche, e le concezioni  artistiche
si trasformavano in  costruzioni  ideali:  la  Divina  Commedia,  materia
d'infiniti comenti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust. Venne in
moda un certo filosofismo  nell'arte  anche  presso  i  migliori,  anche  presso
Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia  divenne  il  frontispizio
obbligato  della  critica,  trattandosi  di  coglier  l'idea   non   nella   sua
astrattezza, ma nel suo  contenuto,  nelle  sue  apparizioni  storiche.  Sorsero
investigazioni accuratissime sulle idee, sulle istituzioni, su'  costumi,  sulle
tendenze dei secoli a cui  si  riferivano  le  opere  d'arte,  sulla  formazione
successiva della materia artistica;  al  motto  antico:  «Lo  stile  è  l'uomo»,
successe quest'altro: «La letteratura è l'espressione della società». Ne uscì un
doppio impulso:  sintetico  e  analitico.  Posto  che  la  storia  non  sia  una
successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione  progressiva  e
razionale dell'idea, una dialettica vivente, gli spiriti  si  affrettarono  alla
sintesi, e costruirono vere epopee storiche secondo una logica  preordinata.  La
storia del mondo fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal  genio
metafisico, e in tutte le direzioni:  religioni,  arti,  filosofie,  istituzioni
politiche, leggi, la vita intellettuale, morale e materiale de'  popoli.  Questo
fu il momento epico di tutte le scienze;  nessuna  potè  sottrarsi  al  bagliore
dell'idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo  morale.
Ma queste sintesi frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate  de'  problemi
più delicati urtavano alcuna volta  co'  dati  positivi  della  storia  e  delle
singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune, i raccozzamenti  disparati,
le interpretazioni forzate, gli artifici involontari.  Accanto  a  quelle  vaste
costruzioni ideali sorse la paziente analisi; il metodo di Vico parve più  lungo
e più arduo, ma più sicuro, e  si  ricominciò  il  lavoro  a  posteriori,
ingolfandosi lo spirito nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello  scibile.
Il movimento di  erudizione  e  d'investigazione,  interrotto  in  Italia  dalla
invasione delle teorie cartesiane e da' sistemi assoluti del secolo decimottavo,
tutti di un pezzo, tutti ragionamento, con superbo  disdegno  di  citazioni,  di
esempli, di  ogni  autorità  dottrinale,  quasi  avanzo  della  scolastica,  ora
ripigliava con maggior forza in tutta la  colta  Europa,  massime  in  Germania:
ritornavano i Galilei, i  Muratori  e  i  Vico,  si  sviluppava  lo  spirito  di
osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo  delle  scienze,  e  dal
gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto nelle scienze  naturali,
nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della  coltura,
stata prima poco più che greco-romana, guadagnò di estensione e  di  profondità.
Abbracciò l'Oriente, il medio evo, il  Rinascimento.  È  con  tale  attività  di
ricerca e di scoperta, che lo scibile ne fu rinnovato.
        Stavano dunque di fronte due tendenze: l'una  ideale,  l'altra  storica.
Gli uni procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri per via  di
osservazioni e d'induzioni. E spesso s'incontravano. La scuola ontologica teneva
molto conto dei fatti, e proclamava che  il  vero  ideale  è  storia,  è  l'idea
realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della storia nel regno de'  princìpi
assoluti e immobili; anzi la sua metafisica  non  è  altro  che  un  progressivo
divenire, la storia. Parimente la scuola storica era tutt'altro che empirica, ed
usciva dalla cerchia de' fatti, ed aveva anch'essa i suoi preconcetti e  le  sue
conietture.  La  più  audace  speculazione  si  maritava  con  la  più  paziente
investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto, ora di conserva,
posero in moto tutte le facoltà  dello  spirito,  e  produssero  miracoli  nelle
teorie e nelle applicazioni.  Al  secolo  de'  lumi  succedette  il  secolo  del
progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto  a  lui  risorsero
con fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì ne' tre grandi italiani  i
suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la sua Bibbia, la
sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate  tutte  le  forze  del
secolo: la speculazione, l'immaginazione, l'erudizione. Di là partiva quell'alta
imparzialità di  filosofo  e  di  storico,  quella  giustizia  distributiva  ne'
giudizi, che fu la virtù del  secolo.  Passato  e  presente  si  riconciliarono,
pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia. E contro al  fato
non val collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la sua  infallibilità
e lo scetticismo con la sua ironia cessero il posto alla critica,  quella  vista
superiore dello spirito consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non si
adira contro se stesso.
        La letteratura non potea  sottrarsi  a  questo  movimento.  Filosofia  e
storia diventano l'antecedente della critica letteraria. L'opera  d'arte  non  è
considerata  più  come  il  prodotto  arbitrario   e   subiettivo   dell'ingegno
nell'immutabilità delle regole e degli esempi, ma come un prodotto  più  o  meno
inconscio dello spirito del mondo  in  un  dato  momento  della  sua  esistenza.
L'ingegno è l'espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il  cui
complesso costituisce l'individualità di una società o di un secolo. L'idea  gli
è data con esso il contenuto; la trova intorno a sè, nella società dove è  nato,
dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della  vita  comune
contemporanea, salvo che di quella è in lui più sviluppata l'intelligenza  e  il
sentimento. La sua forza è di unirvisi in ispirito, e questa  unione  spirituale
dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o  il  contenuto  non
gli può  dunque  essere  indifferente;  anzi  è  ivi  che  dee  cercare  le  sue
ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di  vista,  mutati  i  criteri.  La
letteratura del Rinascimento fu condannata  come  classica  e  convenzionale,  e
l'uso della mitologia fu messo in ridicolo.  Quegl'ideali  tutti  di  un  pezzo,
ch'erano decorati col nome di «classici», furono  giudicati  una  contraffazione
dell'ideale, l'idea  nella  sua  vuota  astrazione,  non  nelle  sue  condizioni
storiche, non nella varietà della sua esistenza. Cadde la rettorica con  le  sue
vuote forme, cadde la poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie, rivenne
su il vecchio motto di Goldoni: «Ritrarre dal vero, non guastar la  natura.»  Il
più vivo sentimento dell'ideale si accompagnò con la più paziente  sollecitudine
della verità storica. L'epopea cesse il luogo al romanzo, la tragedia al dramma.
E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate, le romanze, le  fantasie  e
gl'inni. La naturalezza, la  semplicità,  la  forza,  la  profondità,  l'affetto
furono qualità stimate assai più che ogni dignità ed eleganza, come  quelle  che
sono intimamente connesse col contenuto. Dante, Shakespeare, Calderon,  Ariosto,
reputati i più lontani dal classicismo, divennero gli astri maggiori. Omero e la
Bibbia,  i  poemi  primitivi  e  spontanei,  teologici  o  nazionali,  furono  i
prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito all'elegante storico,  e  il
canto popolare alla poesia solenne. Il  contenuto  nella  sua  nativa  integrità
valse più che  ogni  artificiosa  trasformazione  di  tempi  posteriori.  Furono
sbanditi dalla storia tutti gli elementi  fantastici  e  poetici,  tutte  quelle
pompe fattizie, che l'imitazione classica vi aveva introdotto. E  la  poesia  si
accostò alla prosa, imitò il linguaggio parlato e le forme popolari.

        «Tutto questo fu detto «romanticismo», «letteratura de' popoli moderni».
La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del medio  evo  e
delle idee religiose, una condanna dell'aborrito Rinascimento,  soprattutto  del
più aborrito  secolo  decimottavo.  I  liberali,  non  potendo  pigliarsela  co'
governi, se la pigliavano con Aristotele e co'  classici  e  con  la  mitologia:
piaceva essere almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle  alle  regole.  Il
sistema era così vasto e vi si mescolavano idee e  tendenze  così  diverse,  che
ciascuno potea vederlo con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era più  comodo.
I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciuole letterarie  distraessero
le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i  soliti  fenomeni  della
servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di  lingua,  diverbii
letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La  Proposta  e  il
Sermone all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti  che  succedevano
alla battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi e lassisti, di classici e
romantici. Il  giornalismo,  mancata  la  materia  politica,  vi  cercò  il  suo
alimento. Il centro più vivace di quei moti letterari era  sempre  Milano,  dove
erano più vicini e più potenti gl'influssi francesi e germanici. Là s'inaugurava
nel  Caffè  il  secolo   decimottavo.   E   là   s'inaugurava   ora   nel
Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria, e i  Verri
e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico,  Giovanni  Berchet  e
gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso Grossi e Massimo d'Azeglio,  divenuto  sposo
di Giulia Manzoni, e anello fra la Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello
stesso giro d'idee Cesare Balbo e  Vincenzo  Gioberti.  La  vecchia  generazione
s'intrecciava con  la  nuova.  Vivevano  ancora,  memorie  del  regno  d'Italia,
Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro  Giordani.  Dirimpetto  a
Melchiorre Gioia vedevi Sismondi, italiano di mente e  di  cuore;  e  mentre  il
vecchio Romagnosi scrivea  la  Scienza  della  Costituzione,  il  giovane
Antonio  Rosmini  pubblicava  il  trattato  Della  origine  delle   idee.
Spuntavano Camillo Ugoni, Felice  Bellotti,  Andrea  Maffei,  il  traduttore  di
Klopstock e di Schiller. Dirimpetto a' poeti vedevi i critici,  dilettanti  pure
di poesia, Giovanni Torti, Ermes  Visconti,  Giovanni  De  Cristoforis,  Samuele
Biava. Nelle stesse file militavano Carlo Porta, Niccolò  Tommaseo,  i  fratelli
Cesare e Ignazio Cantù, e Maroncelli, e Confalonieri, e altri minori.
         Cosa  volevano  i  romantici,  che  levavano  così  alto  la  voce  nel
Conciliatore? Parlavano con audacia giovanile della vecchia  generazione,
s'inchinavano appena al gran padre Alighieri, vantavano gli scrittori  stranieri
soprattutto inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano  delle  tre
unità, e delle regole si curavano poco, e non curvavano il capo che innanzi alla
ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura  da
uomini che in religione predicavano fede e autorità. I classici,  al  contrario,
miscredenti  e  scettici  nelle  cose   della   religione,   erano   qualificati
superstiziosi in fatto di letteratura.  Nè  parea  ragionevole  che  Aristotele,
detronizzato in filosofia, dovesse in letteratura rimanere  sul  suo  trono.  La
lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca italiana, a  cui
tenea bordone  la  Gazzetta  di  Milano.  Vi  si  mescolavano  ingenui  e
furfanti, scrittori coscienziosi e mestieranti. E  dopo  molto  contendere,  fra
tante esagerazioni di offese e  di  difese,  si  venne  in  tale  confusione  di
giudizi, che oggi stesso non si sa  cosa  era  il  romanticismo,  e  in  che  si
distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti sostenevano che il Monti  era
un ingegno  romantico  sotto  apparenze  classiche,  e  altri  che  Manzoni  con
pretensioni romantiche era in verità un classico. Si cominciò a  vedere  chiaro,
quando fu posta da parte la parola «romanticismo», materia  del  litigio,  e  si
badò alla qualità della merce e non al suo nome. Al  romanticismo,  importazione
tedesca, si sostituì a poco a  poco  un  altro  nome,  letteratura  nazionale  e
moderna. E su questo convennero tutti, romantici  e  classici.  Il  romanticismo
rimase in Italia legato con le idee della prima origine germanica, diffuse dagli
Schlegel e da' Tieck, in quella forma  esagerata  che  prese  in  Francia,  capo
Victor  Hugo.  Respingevano  il  paganesimo,  e  riabilitavano  il  medio   evo.
Rifiutavano la mitologia  classica,  e  preconizzavano  una  mitologia  nordica.
Volevano la libertà dell'arte, e negavano la libertà di  coscienza.  Rigettavano
il plastico e il semplice dell'ideale classico, e vi sostituivano il gotico,  il
fantastico,  l'indefinito  e  il  lugubre.  Surrogavano   il   fattizio   e   il
convenzionale dell'imitazione classica con imitazioni fattizie  e  convenzionali
di peggior gusto. E per fastidio del bello classico idolatravano il brutto.  Una
superstizione cacciava l'altra. Ciò che era legittimo e naturale in  Shakespeare
e in Calderon, diveniva strano, grossolano, artificiale  in  tanta  distanza  di
tempi, in tanta differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo in  questa
sua esagerazione tedesca e francese non attecchì in Italia, e  giunse  appena  a
scalfire la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare la
ripugnanza del genio italiano. E  i  romantici  furono  lieti,  quando  poterono
gittar via quel nome d'imprestito, fonte di tanti equivoci e litigi, e  prendere
un nome accettato da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto attirato
nelle alte regioni della filosofia, e, spogliatosi quelle  forme  fantastiche  e
quel  contenuto  reazionario,  riuscì  sotto  nome  di   «letteratura   moderna»
nell'ecletismo, nella conciliazione di tutti gli elementi e di  tutte  le  forme
sotto i princìpi superiori dell'estetica, o della filosofia dell'arte.
        Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio, quando si  affermava
come distinto, anzi in contraddizione col  secolo  scorso,  e  movea  guerra  ad
Alfieri e proclamava una nuova riforma  letteraria,  il  suo  torto  fu  di  non
accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza  di
quel secolo appunto, contro il quale armeggiava. In  Germania  l'idea  romantica
sorse in opposizione all'imitazione  francese  così  alla  moda  sotto  il  gran
Federico. Era una esagerazione, ma  in  quell'esagerazione  si  costituivano  le
prime basi di una letteratura nazionale, dalla quale uscivano Schiller e Goethe.
E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando
l'idea  romantica  s'affacciò  in  Italia,  già   in   Germania   era   scaduta,
trasformatasi in un concetto dell'arte filosofico e universale. Goethe  era  già
alla sua terza maniera, a quel suo spiritualismo panteistico, che  produceva  il
Faust. Il romanticismo veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu  poi
dell'eghelismo. parve a noi un progresso ciò che in Germania  la  coltura  aveva
già  oltrepassato  e  assorbito.  La  riforma  letteraria   in   Italia,   tanto
strombazzata, non cominciava, ma continuava.  Essa  era  cominciata  nel  secolo
scorso. Era appunto la nuova letteratura, inaugurata da  Goldoni  e  Parini,  al
tempo stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della  coltura  tedesca.
La differenza era questa, che la Germania reagiva contro l'imitazione francese e
acquistava  coscienza  della  sua  autonomia   intellettuale;   dove   l'Italia,
associandosi alla coltura europea, reagiva contro la sua  solitudine  e  la  sua
stagnazione intellettuale. L'Italia entrava nel grembo della coltura europea,  e
vi prendea il suo posto, cacciando via da sè una parte di  sè,  il  seicentismo,
l'Arcadia e l'accademia; la  Germania  al  contrario  iniziava  la  sua  riforma
intellettuale, rimovendo da sè la coltura francese,  e  riannodandosi  alle  sue
tradizioni. L'influenza francese non fu che una breve deviazione  nel  movimento
di  continuità  della  vita   tedesca,   movimento   fortificato   nella   lotta
d'indipendenza, e che portò quel popolo nel  secolo  decimonono  ad  una  chiara
coscienza della sua autonomia nazionale e della sua  superiorità  intellettuale.
Perciò la riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari,  con
progresso rapido, con intima  consonanza  in  tutt'i  rami  dello  scibile,  non
ricevendo ma dando l'impulso alla coltura europea. Esclusiva  ed  esagerata  nel
principio sotto nome di «romanticismo», la sua coltura in breve tempo  abbracciò
tutti gli orizzonti, e conciliò tutti gli elementi della  storia  in  una  vasta
unità, della quale rimane monumento colossale la  Divina  Commedia  della
coltura moderna, il Faust. Ivi tutte le religioni  e  tutte  le  colture,
tutti gli elementi e tutte le forme, si danno la mano e si riconoscono partecipi
del redivivo Pane, sottoposte alle stesse leggi, spirito o  natura,  espressioni
di una sola idea, già inconsapevoli e nemiche, ora unificate dall'occhio ironico
della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme, che  fu  detto
lo «scetticismo» di Goethe, ed era la  serenità  olimpica  di  una  intelligenza
superiore, la tolleranza di tutte le differenze riconciliate e  armonizzate  nel
mondo superiore della filosofia e dell'arte. Così  il  misticismo  romantico  si
trasformava nell'idealismo panteistico, l'idea cristiana  nell'idea  filosofica,
il Cristo del Vangelo nel Cristo di  Strauss,  la  teologia  s'inabissava  nella
filosofia, il domma e  il  dubbio  si  fondevano  nella  critica,  e  il  famoso
«cogito» trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella  coscienza  di
sè, come spirito del mondo morale e naturale: punto d'arrivo divenuto  stagnante
nel superficiale ecletismo francese.
        Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a Parigi, ebbe le  sue
prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all'Impero,
e dove abitava lo spirito di Châteaubriand e madama di Staël. Di là gli venne un
riflesso della Germania, e si diede alla storia di quella  letteratura.  Strinse
relazioni con uomini illustri delle due grandi nazioni; Cousin  lo  chiamava  il
suo «amico», Fauriel e Goethe mettevano su il giovine poeta. Il suo orizzonte si
allargò, vide nuovi mondi, e reagì contro la sua educazione  letteraria,  contro
le sue adorazioni giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto  il  regno
d'Italia, le nuove idee raccolsero intorno a sè i giovani, e Manzoni divenne  il
capo della scuola  romantica.  Così,  mentre  la  Germania,  percorso  il  ciclo
filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava  intorno  all'applicazione
in tutte le sue scienze sociali o naturali, in Italia si  disputava  ancora  de'
princìpi.  Naturalmente,  nè  Manzoni  nè  altri  poteva  assimilarsi  tutto  il
movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo vedevano che nella sua  parte
iniziale e superficiale. Ammiravano  Schiller,  Goethe,  Herder,  Kant,  Fichte,
Schelling, ma conoscevano assai meglio i  nostri  filosofi  e  letterati,  e  di
quelli veniva loro come un'eco, spesso per studi  e  giudizi  di  seconda  mano,
spesso per intramessa di scrittori francesi. Rimasero  essi  dunque  nella  loro
spontaneità, ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia, con argomenti e
metodi propri; e  ne  uscì  un  romanticismo  locale,  puro  di  stravaganze  ed
esagerazioni forestiere, accomodato  allo  stato  della  coltura,  timido  nelle
innovazioni, e tenuto in freno  dalle  tradizioni  letterarie  e  dal  carattere
nazionale. Un romanticismo così fatto  non  era  che  lo  sviluppo  della  nuova
letteratura sorta col Parini, e rimaneva nelle  sue  forme  e  ne'  suoi  colori
prettamente italiano.
        In effetti, i punti sostanziali di questo  romanticismo  concordano  col
movimento iniziato nel secolo scorso, e non è maraviglia che la lotta continuata
con tanto furore e con tanta confusione finì nella piena indifferenza del popolo
italiano, che riconosceva se stesso nelle due schiere. Volevano i romantici  che
l'Italia lasciasse i temi classici? E già n'era  venuto  il  fastidio,  e  avevi
l'Ossian, il Saul, la Ricciarda, il  Bardo  della  selva
nera. Volevano che i personaggi fossero presi  dal  vero?  E  che  le  forme
fossero semplici e naturali? Ed ecco là  Goldoni,  che  predicava  il  medesimo.
Spregiavano la vuota forma? E sotto questa  bandiera  avevano  militato  Parini,
Alfieri e Foscolo, e appunto la  risurrezione  del  contenuto,  la  ristorazione
della coscienza era il carattere della nuova  letteratura.  Cosa  erano  le  tre
unità e la mitologia, pomo della discordia, se non  quistioni  accessorie  nella
stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido, umano e anco
religioso, intravedevi ne' Sepolcri di Foscolo e  d'Ippolito  Pindemonte.
Adunque la scuola romantica, se per il suo nome, per le sue relazioni, pe'  suoi
studi, e per le sue impressioni  si  legava  a  tradizioni  tedesche  e  a  mode
francesi,  rimase  nel  fondo  scuola  italiana  per  il  suo  accento,  le  sue
aspirazioni, le sue forme, i suoi motivi; anzi fu la stessa  scuola  del  secolo
andato, che dopo le grandi illusioni e i grandi  disinganni  ritornava  a'  suoi
princìpi, alla naturalezza di Goldoni e alla  temperanza  di  Parini.  Erano  di
quella scuola più i romantici, i  quali  avevano  aria  di  combatterla,  che  i
classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità si
mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti  e  nel  purismo  rettorico  di
Pietro Giordani.  La  scuola  andava  visibilmente  declinando  sotto  il  regno
d'Italia, e non avendo più novità di contenuto, si girava in se stessa, divenuta
sotto nome di «purismo» un gioco di frasi, intenta alla purità  del  Trecento  e
all'eleganza del Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici, i linguisti e  i
retori; ripullulava sotto altro nome l'Arcadia e l'accademia. Così fu  possibile
la Storia americana di  Carlo  Botta,  uscita  a  Parigi  quando  appunto
uscirono gl'Inni; e fu tal cosa che gli stessi accademici della Crusca si
sentirono oltrepassati e domandavano che lingua era quella. Furono  i  romantici
che, insorgendo contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici furono i
suoi veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono
la sua vernice classica e mitologica, l'accostarono a forme semplici,  naturali,
popolari, sincere, libere da ogni involucro artificiale e  convenzionale,  dalle
esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie  abitudini  letterarie  non
ancor dome, di cui vedi le orme anche tra gli sdegni di Alfieri  e  di  Foscolo.
Come, sotto forma di reazione, essi erano la stessa rivoluzione, che moderandosi
e disciplinandosi ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla
democrazia; così, sotto forma di opposizione, essi erano la nuova letteratura di
Goldoni e di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del  vecchio,  acquistava
una coscienza più chiara delle sue tendenze, e,  lasciando  gl'ideali  rigidi  e
assoluti, prendeva terra, si accostava al reale.
        Questo sentimento più vivo del reale  era  anche  penetrato  nel  popolo
italiano. Non era più il popolo accademico, che batteva le mani in  teatro  alla
Virginia e all'Aristodemo e applaudiva all'Italia  ne'  sonetti  e
nelle canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme,  nelle  sue  illusioni,
nelle sue promesse, ne'  suoi  disinganni,  nelle  sue  esagerazioni.  Il  regno
d'Italia,  la  spedizione  di  Murat,  le  promesse  degli  alleati,  la   lotta
d'indipendenza della Spagna e della Germania, l'insorgere  della  Grecia  e  del
Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era più un  tema
rettorico, era uno scopo serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più
arditi e impazienti cospiravano  nelle  società  secrete,  contro  le  quali  si
ordinavano anche secretamente i sanfedisti. Fatto  vecchio  era  questo.  Ma  il
fatto nuovo era, che nella grande maggioranza della  gente  istrutta  si  andava
formando una coscienza politica,  il  senso  del  limite  e  del  possibile:  la
rettorica e la declamazione non avea più presa sugli animi. La  grandezza  degli
ostacoli rendea modesti i desidèri, e tirava gli spiriti dalle  astrazioni  alla
misura dello scopo e alla convenienza de'  mezzi.  La  libertà  trovava  il  suo
limite nelle forme costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una
maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola  venne  su:  non  si
disse più rivoluzione, si disse «progresso». E fu il maestoso cammino  dell'idea
nello spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie,  morale
e naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo.  Ed  avea  il
suo  lasciapassare,  perchè  cacciava  quella  maledetta  parola  che   era   la
«rivoluzione», e significava la naturale evoluzione della storia,  e  condannava
le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a' popoli,  dimostrava
compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con  la
filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio,  preghiera  e  rassegnazione.
Oltre  a  ciò,  «libertà»,  «rivoluzione»  indicavano  scopi  immediati  e   non
tollerabili ai governi, dove progresso  nel  suo  senso  vago  abbracciava  ogni
miglioramento, e dava agio a' principi  di  acquistarsi  lode  a  buon  mercato,
promovendo, non fosse  altro,  miglioramenti  speciali,  che  parevano  innocui,
com'erano le strade ferrate, l'illuminazione a gas, i telegrafi, la libertà  del
commercio, gli asili d'infanzia, i congressi scientifici, i  comizi  agrarii.  A
poco a poco i liberali tornarono là ond'erano partiti, e non potendo  vincere  i
governi,  li  lusingarono,  sperarono  riforme  di  principi,  anche  del  papa,
rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano  anche  un
po' quell'arcadia. Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio  e
all'Idea, dovea condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo  i  popoli  troppo
facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo in
una nuova arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che vi contrapponeva la  Giovine
Italia. Pure i moti repressi del  Ventuno  e  del  Trentuno,  i  vari  tentativi
mazziniani mal riusciti, la politica del non intervento delle nazioni  liberali,
la potenza riputata insuperabile  dell'Austria,  la  forza  e  la  severità  de'
governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte, disponevano gli animi ad  uno
studio più attento de' mezzi, li  piegavano  a'  compromessi,  fortificavano  il
senso politico, rendevano impopolare la dottrina del «tutto o niente». Lo stesso
Mazzini, ch'era all'avanguardia, avea nel suo linguaggio  e  nelle  sue  formole
quell'accento di misticismo e di vaporoso  idealismo  che  era  penetrato  nella
filosofia e nelle lettere, e che lo chiariva uomo del secolo, e mostravasi anche
lui disposto a tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione,  e  a
sacrificarvi  una  parte  del  suo  ideale.  Così,  rammorbidite  le   passioni,
confidenti nel progresso naturale delle cose,  e  persuasi  che  anche  sotto  i
cattivi governi si può promuovere la coltura e la  pubblica  educazione,  i  più
smessero l'azione diretta e si diedero agli  studi:  fiorirono  le  scienze,  si
sviluppò il senso artistico e il genio della musica e del canto; la  Taglioni  e
la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e Bellini, le dispute  scientifiche
e letterarie, i romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel posto che
la  politica  lasciava  vuoto.   In   breve   spazio   uscivano   in   luce   il
Carmagnola, l'Adelchi e i Promessi sposi, la Pia del
Sestini;  la  Fuggitiva,  l'Ildegonda,  i  Crociati  e   il
Marco Visconti del Grossi, la Francesca da Rimini del Pellico,  la
Margherita Pusterla del Cantù, l'Ettore Fieramosca e più tardi  il
Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio. Ultime venivano  con  più  solenne
impressione le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto romantico,  un
romanticismo italiano, che facea vibrare le corde  più  soavi  dell'uomo  e  del
patriota, con quella misura, con quell'ideale internato nella storia, con quella
storia fremente d'intenzioni patriottiche, con quella  intimità  malinconica  di
sentimento, con quella finezza di analisi nella maggiore semplicità de'  motivi,
che rivelava uno spirito venuto a maturità e ne' suoi ideali studioso del reale.
Con tinte più crude e con intenzioni  più  ardite  comparivano  l'Arnaldo  da
Brescia e l'Assedio di Firenze.
        Ciascuno sentiva sotto la scorza  del  medio  evo  palpitare  le  nostre
aspirazioni: le minime allusioni, le più lontane somiglianze erano còlte a  volo
da un pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette la
serietà del suo contenuto; la parola stessa usciva di moda. Il medio evo non  fu
più materia trattata con intenzioni storiche  e  positive.  Fu  l'involucro  de'
nostri ideali, l'espressione abbastanza trasparente delle  nostre  speranze.  Si
sceglievano argomenti, che meglio rappresentassero il pensiero o  il  sentimento
pubblico, come era la Lega lombarda, trasformata in  lotta  italiana  contro  la
Germania. Massimo d'Azeglio, che segna il passaggio dalla maniera principalmente
artistica de' romantici  ad  una  rappresentazione  più  svelatamente  politica,
volgeva in mente un terzo romanzo, che dovea avere per materia la Lega lombarda.
Il pittore arieggiava allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la  Sfida  di
Barletta, il Brindisi di  Francesco  Ferruccio,  la  Battaglia  di
Gavinana, la Difesa di  Nizza,  la  Battaglia  di  Torino.  Il
medesimo era del  misticismo.  L'ispirazione  artistica,  da  cui  erano  usciti
gl'Inni e il Cinque maggio e l'Ermengarda, non  fu  più  il
quadro, fu  l'accessorio,  un  semplice  colore  attaccaticcio  sopra  un  fondo
estraneo, filosofico e  politico.  Vennero  gl'inni  alle  scienze,  alle  arti,
gl'inni di guerra. Rimasero madonne, angioli, santi e paradiso, a quel  medesimo
modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche,
estranee all'intimo spirito della composizione, o puramente arcadiche.  Dove  la
poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne' versi del Berchet. E
non poco vi contribuì lord Byron, vivuto lungo  tempo  in  Venezia,  di  cui  si
sentono i fieri accenti nell'Esule di Parga. Se  Giovanni  Berchet  fosse
rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato  nelle
allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e i
furori della patria tradita e vinta. Fu l'accento della collera nazionale in una
lirica, che, lasciate le generalità de' sonetti e delle  canzoni,  s'innestò  al
dramma, e colse la vita nelle più patetiche  situazioni.  La  voce  possente  di
questa lirica drammatica giunse solitaria in  un'Italia,  dove  i  secondi  fini
della   prudenza   politica   avevano   rintuzzata   la   verità   e    virilità
dell'espressione. Si era trovata una specie di  modus  vivendi,  come  si
direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli.  I  freni  si
allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare,  di  riunirsi,
sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari  erano
detti «oscurantisti». I principi facevano bocca da ridere; promettevano riforme;
e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla  magistratura,
a' ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo
riordinamento degli studi. Che  si  voleva  più?  I  liberali,  con  quel  senso
squisito dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse  proprio,  inneggiavano
a' principi, stringevano la mano a' preti, fino ridevano a' gesuiti.  Fu  allora
che apparve in  Italia  un'opera  stranissima,  il  Primato  di  Vincenzo
Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di  erudizione,
con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il  primato  della  civiltà
italiana   riannodata   attraverso   le   glorie    romane    alle    tradizioni
italo-pelasgiche, fondata sul  papato  restitutore  della  religione  nella  sua
purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente all'autocrazia dell'ingegno
e al riscatto  delle  plebi.  La  creazione  sostituita  al  divenire  egheliano
rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto  il  Risorgimento
era  dichiarato  eterodosso  o  acattolico,  e  il  presente  si   ricongiungeva
immediatamente  col  medio  evo.  Era  la  conciliazione  politica  sublimata  a
filosofia, era  la  filosofia  costruita  ad  uso  del  popolo  italiano.  Frate
Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L'impressione fu immensa.  Sembrò  che
ci fosse alfine una filosofia italiana.  Vi  si  vedevano  conciliate  tutte  le
opposizioni, il papa a braccetto co' principi, i principi riamicati  a'  popoli,
Il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia,
un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non  religioso
e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma religiosa  nè  un
movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede  dall'equivoco,  e
crollato al primo urto de' fatti. Questa era la faccia della  società  italiana.
Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti  del
presente, fiduciosi nell'avvenire: i liberali biascicavano  «paternostri»,  e  i
gesuiti biascicavano «progresso e riforme». La situazione in fondo era comica, e
il poeta che seppe coglierne tutt'i segreti fu Giuseppe Giusti. La Toscana, dopo
una prodigiosa produzione di tre secoli,  non  aveva  più  in  mano  l'indirizzo
letterario d'Italia. Si era addormentata col  riso  del  Berni  sul  labbro.  La
Crusca l'aveva inventariata e imbalsamata. Resistè più che potè nel  suo  sonno,
respingendo da sè gl'impulsi del secolo decimottavo. Quando si sentì il  bisogno
di una lingua meno accademica, prossima per naturalezza  e  brio  al  linguaggio
parlato, molti si diedero al dialetto locale,  altri  si  gittarono  alle  forme
francesi, altri col padre Cesari a capo l'andavano pescando  nel  Trecento.  Non
veniva innanzi la soluzione  più  naturale:  cercarla  colà  dove  era  parlata,
cercarla in Toscana. La  rivoluzione  avea  ravvicinati  gl'italiani,  suscitati
interessi, idee, speranze comuni. Firenze, la città prediletta di Alfieri  e  di
Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura accolti  esuli  illustri  di  altre
parti d'Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con
quello di Milano. Manzoni e D'Azeglio andavano pe' colli di Pistoia  raccattando
voci e proverbi della  lingua  viva.  Gl'italiani  si  studiavano  di  comparire
toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi  lo
spirito italiano. Risorgeva in Firenze  una  vita  letteraria,  dove  l'elemento
locale prima timido e come sopraffatto ripigliava la sua forza con la  coscienza
della sua vitalità. Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per
opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo  de'  Medici  che
gittasse una occhiata ironica  sulla  società  quale  l'aveva  fatta  il  secolo
decimonono.  Quelle  finezze  politiche,  quelle  ipocrisie  dottrinali,  quella
mascherata  universale,  sotto  la  quale  ammiccavano  le  idee  liberali   gli
«Arlecchini», i «Girella», gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non
privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una  grazia
e una vivezza che dava l'ultimo  contorno  alle  immagini  e  le  fissava  nella
memoria. Ciascun sistema d'idee medie nel suo studio di contentare e  conciliare
gli estremi va a finire  irreparabilmente  nel  comico.  Tutto  quell'equilibrio
dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta
sistemazione  e  conciliazione  dello  scibile  in  costruzioni   ideali,   quel
misticismo  impregnato  di  metafisica,   quella   metafisica   del   divino   e
dell'assoluto declinante in teologia, quel  volterianismo  inverniciato  d'acqua
benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.
        Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo.  La  metafisica  in
lotta con la teologia si era esaurita in questo tentativo di  conciliazione.  La
moltiplicità de' sistemi avea tolto credito  alla  stessa  scienza.  Sorgeva  un
nuovo scetticismo che non colpiva più solo la  religione  o  il  soprannaturale,
colpiva la stessa ragione. La metafisica era tenuta come  una  succursale  della
teologia. L'idea sembrava un sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della
storia, delle religioni, dell'umanità, del dritto avevano  aria  di  costruzioni
poetiche. La teoria del progresso  o  del  fato  storico  nelle  sue  evoluzioni
sembrava una fantasmagoria. L'abuso degli elementi provvidenziali  e  collettivi
conduceva diritto  all'onnipotenza  dello  Stato,  al  centralismo  governativo.
L'ecletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L'apoteosi  del
successo rintuzzava il senso morale,  incoraggiava  tutte  le  violenze.  Quella
conciliazione tra il  vecchio  ed  il  nuovo,  tollerata  pure  come  temporanea
necessità politica, sembrava  in  fondo  una  profanazione  della  scienza,  una
fiacchezza morale. Il sistema non  attecchiva  più:  cominciava  la  ribellione.
Mancata era la  fede  nella  rivelazione:  mancava  ora  la  fede  nella  stessa
filosofia. Ricompariva ii mistero. Il filosofo  sapeva  quanto  il  pastore.  Di
questo mistero fu l'eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del
suo dolore.  Il  suo  scetticismo  annunzia  la  dissoluzione  di  questo  mondo
teologico-metafisico, e inaugura il regno dell'arido vero,  del  reale.  I  suoi
Canti sono le più profonde e occulte voci di quella transizione laboriosa
che  si  chiamava  «secolo  decimonono».  Ci   si   vede   la   vita   interiore
sviluppatissima. Ciò che ha importanza, non è la brillante esteriorità  di  quel
secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle  «sorti  progressive»
dell'umanità. Ciò che ha importanza è l'esplorazione del proprio petto, il mondo
interno, virtù, libertà, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza e
della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli  scaldano
il  cuore,  e  non  vogliono  morire.  Il  mistero  distrugge   il   suo   mondo
intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa vita  tenace  di  un
mondo interno, malgrado la caduta  di  ogni  mondo  teologico  e  metafisico,  è
l'originalità di Leopardi, e dà al suo scetticismo una impronta religiosa.  Anzi
è lo scetticismo di un quarto  d'ora  quello  in  cui  vibra  un  così  energico
sentimento del mondo morale. Ciascuno sente lì dentro una nuova formazione.
        L'istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel
seno stesso dell'ecletismo. Il secolo sorto con tendenze  ontologiche  e  ideali
avea posto esso medesimo il principio della sua  dissoluzione:  l'idea  vivente,
calata nel reale.  Nel  suo  cammino  il  senso  del  reale  si  va  sempre  più
sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido tutte
le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il  credito.  Rimane
intatta la critica.  Ricomincia  il  lavoro  paziente  dell'analisi.  Ritorna  a
splendere  sull'orizzonte  intellettuale  Galileo  accompagnato  con  Vico.   La
rivoluzione, arrestata e sistemata  in  organismi  provvisori  ripiglia  la  sua
libertà,  si  riannoda  all'Ottantanove,  tira  le  conseguenze.  Comparisce  il
socialismo nell'ordine politico, il positivismo  nell'ordine  intellettuale.  Il
verbo non è più solo «libertà», ma «giustizia»,  la  parte  fatta  a  tutti  gli
elementi reali dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La
letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni,  i
privilegi. Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio,  non  c'è  più  nè
bello, nè brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e  non  finito.  L'idea
non si stacca, non soprastà al contenuto.  Il  contenuto  non  si  spicca  dalla
forma. Non ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell'idealismo comparisce  il
realismo nella scienza, nell'arte, nella storia.  È  un'ultima  eliminazione  di
elementi fantastici, mistici, metafisici  e  rettorici.  La  nuova  letteratura,
rifatta la coscienza, acquistata una vita  interiore,  emancipata  da  involucri
classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale,  come
filosofia, come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più
il suo contenuto, si chiama oggi ed è la «letteratura moderna».
         L'Italia,  costretta  a  lottare  tutto  un   secolo   per   acquistare
l'indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in  un  cerchio  d'idee  e  di
sentimenti troppo uniforme  e  generale,  subordinato  a'  suoi  fini  politici,
assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico,
che ha dato quello che le potea dare. L'ontologia con le sue  brillanti  sintesi
avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è  visibilmente  esaurita,
ripete se stessa, diviene accademica, perchè accademia  e  arcadia  è  la  forma
ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo  dottrinario.
Vedete il Prati in  Satana  e  le  Grazie  e  nell'Armando.
Vedete la Storia universale di Cesare Cantù. Erede  dell'ontologia  è  la
critica, nata con essa, non ancor libera  di  elementi  fantastici  e  dommatici
attinti nel suo seno, come si vede in Proudhon, in Renan,  in  Ferrari,  ma  con
visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare. La  paziente  e
modesta monografia prende il posto delle sintesi  filosofiche  e  letterarie.  I
sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte  con  diffidenza,  i  princìpi  più
inconcussi sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più, che non esca da  una
serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse  che  stabilire
una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante  lotte  e
tante passioni, sono un repertorio di  convenzione,  non  rispondenti  più  allo
stato reale dello spirito. C'è  passato  sopra  Giacomo  Leopardi.  Diresti  che
proprio  appunto,  quando  s'è  formata  l'Italia,  si  sia  sformato  il  mondo
intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una  dissoluzione,  se  non  si
disegnasse in modo vago  ancora  ma  visibile  un  nuovo  orizzonte.  Una  forza
instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le
altre.
        L'Italia è stata finora avviluppata come  di  una  sfera  brillante,  la
sfera della libertà e della nazionalità,  e  ne  è  nata  una  filosofia  e  una
letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorchè intorno a  lei.  Ora
si dee guardare in seno, dee cercare se  stessa:  la  sfera  dee  svilupparsi  e
concretarsi come sua vita interiore. L'ipocrisia religiosa, la prevalenza  delle
necessità politiche, le abitudini accademiche, i  lunghi  ozi,  le  reminiscenze
d'una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl'impulsi  estranei  soprapposti
al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante,  le
tolgono ogni raccoglimento, ogn'intimità. La  sua  vita  è  ancora  esteriore  e
superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da
ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito  di  Galileo,  di
Machiavelli. In questa ricerca degli elementi  reali  della  sua  esistenza,  lo
spirito italiano  rifarà  la  sua  coltura,  ristaurerà  il  suo  mondo  morale,
rinfrescherà  le  sue  impressioni,  troverà  nella  sua  intimità  nuove  fonti
d'ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l'amore, la libertà, la patria,
la scienza, la virtù, non come idee  brillanti,  viste  nello  spazio,  che  gli
girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
        Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali
e diretti in tutt'i rami  dello  scibile,  guidati  da  una  critica  libera  da
preconcetti e paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica
e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi,  ne'  nostri  costumi,  nelle
nostre idee, ne' nostri  pregiudizi,  nelle  nostre  qualità  buone  e  cattive,
convertire il mondo moderno in  mondo  nostro,  studiandolo,  assimilandocelo  e
trasformandolo, «esplorare il proprio petto» secondo il motto  testamentario  di
Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura  nazionale  moderna,
della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste  ombre.  Abbiamo
il romanzo storico, ci manca la storia e il romanzo. E ci manca  il  dramma.  Da
Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E  da  Leopardi  non  è  uscita
ancora la lirica. C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo  e  il
romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento  di  poca  serietà  di
studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci  è
vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti s'intravede la  coscienza  della
nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono  è  al  suo  termine.
Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di  una  nuova  formazione.
Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo  secolo.  E  questa  volta  non
dobbiamo trovarci alla coda, non a' secondi posti.

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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 Etichettato con ICRA
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