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DALLA CONOSCENZA MITICA AL VERBO DIVINO - III C INDICE
In principio era il mythos Reda E., Ricci T., Sabbatini M.,
Scarponi V., Ventura S.
Le fonti di un'invenzione Caprioli F
Un esordio che è già una tradizione Fabretti C., Cervini S., Conti P.
Ulisse: il prototipo dell'uomo occidentale Atzori E.
Ancora un esordio: Livio Andronico traduce l'Odissea Giuralarocca D., Capaccetti D.
Il folle volo Maglio B
Il naufragio di Ulisse Marinelli G.
Ulisse e Dante: l'esploratore ed il pellegrino Capobianco S., Toscano A.
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IN PRINCIPIO ERA IL MYTHOS
Il mito generalmente è una narrazione che, in forma immaginosa propone i grandi temi della vita umana: la creazione del mondo, la nascita degli dei, la morte, l'amore, la felicità e la sofferenza.
Nel mito la tendenza principale è di rappresentare in forma narrativa il mondo nel momento in cui si cerca di spiegarlo, si tratta perciò di un tentativo di chiarire l'universo attraverso un racconto, così che la spiegazione, assorbita nell'evento preso in esame, non sia più discutibile.
Il mito, invece di essere zona di unità originaria fra soggetto oggetto e fra uomo e natura, è piuttosto l'espressione del nostro desiderio di questa unità.
È plausibile affermare che ogni cultura ha conservato miti che hanno contribuito a plasmarla profondamente. Questo termine può essere usato in due accezioni: come verità e come favola, quindi invenzione.
I miti differiscono dalle favole poichè si riferiscono a un tempo che precede il costituirsi del mondo convenzionalmente inteso; proprio per questa dimensione spazio-temporale straordinaria che investe esseri e processi sovrannaturali, il mito è stato spesso interpretato come un aspetto della religione. La sua natura onnipervasiva, del mito può gettare luce su molti aspetti della vita dell'individuo e della società.
L'eredità culturale greca ha lasciato sussistere una tensione tra la narrazione mitologica (Mythos) e la razionalità discorsiva (Logos), produttiva di una descrizione vera della realtà. Platone, pur inizialmente critico nei confronti del mito, non si astenne dal farvi ricorso, anzi gli affidò sovente la funzione di comunicare tramite un racconto allusivo, una verità. Mentre la filosofia di Platone fa largo uso del mito come strumento di ricerca conoscitiva, il sistema aristotelico indicò nel Logos e nei suoi processi di dimostrazione razionale l'unica via percorribile per giungere alla verità. Il Logos non uccide il mito né è dietro questo. Il mito, infatti, non è un'allegoria ma è un simbolo poiché in esso non dobbiamo cercare significati razionali nascosti. Sembra quindi impossibile porre una netta linea di confine tra Mythos e Logos, contrapponendoli semplicemente l'uno all'altro. Ne deriva che, da una parte, la filosofia greca non ha mai spezzato definitivamente ogni legame col mito e, dall'altra, che nel mito sono contenuti orizzonti di pensiero che non vanno affatto considerati immaturi, ingenui o del tutto irrazionali rispetto alla speculazione filosofica propriamente detta. Ma le distinzioni tra razionalità e mito, e tra mito e storia, benchè fondamentali, non sono mai state assolute: Aristotele giunse alla conclusione che in alcuni primordiali miti greci della creazione Logos e Mythos coincidevano; Platone utilizzò il mito come un'allegoria e un espediente retorico per sviluppare un argomento; Mythos, Logos e storia si sovrappongono nel prologo al vangelo di Giovanni nel Nuovo Testamento, in cui Gesù Cristo è ritratto come il Logos, il Verbo, venuto dall'eternità nel tempo storico.
Fra le tradizioni occidentali, spicca l'assimilazione del materiale mitologico greco da parte dei romani, che fornì ispirazione a periodi culturalmente fecondi come il Rinascimento e il Romanticismo; inoltre, dopo la conversione al cristianesimo dei popoli pagani, alcuni elementi delle loro mitologie vennero a costituire il substrato folclorico di varie culture europee. La tradizione ebraico-cristiana ha oppposto il concetto di storia a quello di mito, complicato dal fatto che il Dio degli ebrei e dei cristiani, benché esistente oltre il tempo lo spazio, si era rivelato all'umanità entro la storia e la società.
I fondamenti mitici che sostengono la tradizione occidentale moderna sono depositati nelle Sacre Scritture e nella mitologia greco-latina. L'incontro fra queste due tradizioni mitologiche è la vera storia della letteratura europea. Il mito, pur trattando del rapporto dell'uomo con il divino, non coincide propriamente con la religione in quanto tale, né è parte della religione, perchè esso si esprime concretamente come racconto di "antiche favole" e quindi ha strettamente a che fare con l'espressione poetica. Dalle origini fino almeno all'Ottocento lo sforzo della nuova mitologia chiamata "letteratura "è stato quello di trovare un equilibrio fra i due modi di concepire il mondo: la classica e la cristiana. Per tutto il medioevo questi due visioni si sono inseguite. La sete mitologica viene assorbita in una dogmatica nella quale possono anche confluire i poeti pagani, reinterpretati allegoricamente. Come un sogno rispetto alla realtà o come l'infanzia rispetto all'età adulta, il mondo classico è lì a provare ai cristiani che qualcosa è stato estromesso. Il rinascere dell'esperienza letteraria testimonia che il dissidio non è più evitabile. Se da un lato il fiorire della lirica latino-cristiana nel tardo medioevo europeo è un tentativo assai poetico di riproporre il mito cristiano così com'è sentito dai credenti - come " verità "-,d'altro lato il lento affiorare di una letteratura profana è lì a provare che il mito pagano non si assoggetta più al suo ruolo di bella favola da interpretare allegoricamente e da custodire e nei tabernacoli dell'inconscio collettivo che sono le biblioteche monacali.
Quando il confronto diventa aperto, la letteratura religiosa esce allo scoperto, nel campo stesso dell'avversario: l'espressione in lingua volgare. Nel Duecento e nel Trecento il fiorire parallelo di una letteratura laica e di una letteratura dichiaratamente religiosa è il segnale che i due miti sono l'uno al cospetto dell'altro: il primo è sentito come recupero semiortodosso, l'altro come verità da riconfermare. Le laudi di Jacopone sono lo sforzo appassionato di riconsiderare letterariamente il mito cristiano, di fronte al dilagare di Ovidio e di Virgilio in tutti gli ambienti colti, dove nascono le poetiche del fino amore e dove si elaborano le gesta epico-erotiche della letteratura cortese. In Dante si può riscontrare una sorta di mitologia personale, basata sulla capacità di utilizzare i dati biografici, artistici, filosofici, in modo da creare un sistema organico e coerente, aperto alla possibilità di reinterpretazione e di sviluppi ma stabile nelle sue caratteristiche di fondo. In questo tipo di mitologia è difficilissimo distinguere tra verità storica e invenzione fantastica, tra esperienza e interpretazione dell'esperienza. Si può notare quindi un collegamento continuo tra mondo dell'autore e mondo dell'opera. Nella Divina Commedia la mitologia dantesca raggiunge il suo culmine, ma le basi di essa vengono gettate nella Vita Nuova attraverso la mitizzazione del personaggio di Beatrice.
Poiché il mito è una narrazione, molti tentativi di comprensione si sono concentrati sulla sua struttura linguistica: una tra le varie teorie sostiene che il significato del mito debba cercarsi nella storia e nella struttura del linguaggio stesso. Il mito è un'aspirazione all'originario, ma può solo essere rievocato come letteratura. La realtà sospinge il linguaggio, e il mito sospinge la letteratura. I miti permangono come blocchi di organizzazione tematica entro il discorso letterario. Da millenni possiamo tornare alle origini del mito solo attraverso l'esperienza scritta. La letteratura è la forma più duratura della nostra memoria. Dall'inizio della tradizione letteraria è cambiato il rapporto dell'uomo col suo passato; e quindi il rapporto delle cose con esso.. Solo i miti che hanno raggiunto la scrittura hanno potuto sopravvivere.
Il più famoso propugnatore del mito come esempio dello sviluppo storico del linguaggio è l'orientalista tedesco Friedrich Max Müller; egli sosteneva che nei Veda, antichi testi indiani, gli dei e le loro azioni non rappresentavano persone o fatti reali, ma risultavano piuttosto da una confusione del linguaggio, o da un tentativo di dare espressione a fenomeni naturali come il fulmine o il mare mediante immagini icastiche e sensuali.
Più recente è invece il modello linguistico strutturalista, basato sull'opera dei linguisti Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson. Gli strutturalisti si concentrano sul significato globale del linguaggio come sistema logico ed esaminano in particolare la relazione tra due livelli di linguaggio: le parole e i contenuti effettivamente espressi e la struttura sottostante: grammatica, sintassi e altre regole linguistiche.
Il più importante studioso del mito da questo punto di vista è stato l'antropologo francese Claude Lévi-Strauss, secondo cui il mito rappresenta un caso particolare di uso linguistico, un terzo livello oltre la superficie narrativa e la struttura sottostante, nel quale egli rinviene raggruppamenti di relazioni che, pur espresse nel contenuto narrativo e drammatico, obbediscono all'ordine sistematico della struttura linguistica. Secondo Lévi-Strauss in ogni idioma e cultura opera la medesima forma logica, nelle opere scientifiche così come nei miti tribali.
Le teorie per le quali il mito costituisce una forma e un veicolo di conoscenza sono antiche quanto l'interpretazione del mito stesso: tanto la cultura filosofica classica quanto la teologia cristiana, soprattutto Origene, padre della Chiesa del III secolo, affrontarono il tema.
Nelle formulazioni del rapporto tra mito e conoscenza ricorrono due orientamenti principali: nel primo, il mito è esaminato dal punto di vista intellettuale; nel secondo, è studiato nel suo significato intuitivo e immaginativo, come una modalità percettiva distinguibile dal tipo di conoscenza razionale e logica, oppure come precorritore di questa nell'evoluzione del pensiero umano.
Tra gli antropologi è ormai universale l'accettazione del significato sociologico del mito. Ciò non implica, tuttavia, che il mito venga considerato come una funzione della società umana. Mito e società coesistono; l'ordine sociopolitico può essere considerato un riflesso imperfetto dell'ordine cosmico e sociale presente nei miti, che ne forniscono una legittimazione.
Nella società contemporanea il termine mito assume vari significati a seconda degli elementi a cui si riferisce. Si usa in relazione a personaggi, che hanno avuto grande notorietà dovuta a doti personali o a qualità eccezionali. Il termine mito è legato a valori di cui l'uomo è rimasto privo ma che possono dare la vera felicità perchè la condizione in cui si vive non è soddisfacente.
Reda E., Ricci T., Sabbatini M., Scarponi V., Ventura S
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LE FONTI DI UN'INVENZIONE
L'episodio di Ulisse, narrato da Dante nel XXVI canto dell'inferno, così autonomo rispetto alla tradizione Omerica, viene spesso considerato frutto della geniale inventiva del celebre poeta fiorentino. In realtà il mito del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole affonda le sue radici in tradizioni piuttosto antiche, che Dante fu molto abile a riadattare al contesto storico letterale del '300.
Facendo riferimento ai testi di Maria Corti, andiamo quindi ad analizzare le fonti che alimentarono la nascita della "favola" di Ulisse così come ce la racconta Dante nella Commedia.
I punti fondamentali per risalire alle fonti cui ha attinto Dante sono tre: il collegamento tra il mito di Ulisse e quello delle colonne d'Ercole, la dettagliata descrizione dell'itinerario seguito da Ulisse per giungere alle colonne, il naufragio finale.
La principale testimonianza di una stretta connessione tra il mito di Ulisse e quello delle colonne d'Ercole già in età latina ce la fornisce il geografo Strabone (circa 20 a.C.- 60 d.C.) , che, nel terzo libro dei "Geografica", trattando la penisola Iberica, ci segnala la presenza della città di Odysseia, dove, in un tempio dedicato ad Atena (che insieme a Mercurio è la protettrice dell'eroe omerico), sarebbero conservati scudi, speroni di navi e altri oggetti raccolti da Ulisse durante le sue peregrinazioni. È interessante notare che la presenza in Iberia di una città fondata da Ulisse si può riscontrare anche un millennio dopo, nei testi di Eustazio di Tessalonica, scrittore bizantino che va a collocarsi tra i personaggi di maggior rilievo nel quadro letterario dell'XI secolo. Egli scrive: "Dicono che in Iberia vi è anche la città di Odissea e molte vestigia del viaggio errante di Ulisse".
Già nella concezione latina, dunque, il personaggio di Ulisse tende a simboleggiare la "curiositas", la brama di conoscenza, che lo costringe a spingersi verso spazi ignoti. Ma sapendo da fonti attendibili, quale la "Naturalis Historiae" di Plinio, che i Romani possedevano già una buona conoscenza delle terre oltre lo stretto prospicenti l'Atlantico, possiamo concludere che già nel periodo latino si era diffusa l'idea che queste aree ignote si trovassero ben oltre le colonne d'Ercole: nell'estrema pars dell'oceano.
Un'altra testimonianza dell'esistenza di un collegamento tra il mito di Ulisse e quello delle colonne d'Ercole già in età classica, sta nell'itinerario che, secondo Dante, viene seguito da Ulisse per giungere alle colonne, che coincide con quello della "via Herkaleia". Questa rotta, che sembra risalire ai primi viaggi dei Rodiesi verso occidente viene citata da numerosi geografi dell'età classica, tra i quali lo stesso Strabone. Come egli stesso testimonia la "via Herkaleia" era molto seguita nell'antichità, in quanto era attraversata da correnti favorevoli alla navigazione verso occidente e non era infestata da pirati.
L'ultimo punto da analizzare per risalire alle fonti dantesche, è il naufragio finale.
È innegabile un collegamento tra il mito del naufragio e il mito del divieto di navigazione oltre lo stretto. Per risalire alle origini del naufragio dantesco occorre quindi esaminare le origini del mito del divieto. Nonostante la cultura classica conoscesse già il mito delle colonne d'Ercole, non troviamo alcun accenno al divieto di oltrepassarle; al contrario molti testi latini attestano che lo stretto era spesso attraversato da navi dirette in Britannia e nella penisola Iberica. Il mito del divieto ha dunque origini più tarde, da attribuire, con ogni probabilità, alla tradizione arabo-castigliana.I più antichi scritti in cui compare il divieto di attraversare lo stretto, sono opera di geografi arabo-ispanici,e parlavano dell'architettura del tempio di Ercole, e dell'imponente statua che si ergeva dinanzi ad esso. La statua raffigurava un uomo dalla barba lunga con il braccio sinistro proteso verso lo stretto in un gesto che, secondo gli autori, invitava gli incauti navigatori che si accingevano a passare le colonne, a tornare indietro, per non incorrere nella terribile punizione che li attendeva: il naufragio appunto.
Il naufragio è senz'altro il momento principale vissuto dall'Ulisse dantesco, in quanto è teso a criticare lo stereotipo rappresentato dall'eroe omerico, che, bramando la conoscenza, la ricerca affidandosi solo all'intelletto, e non tramite la fede. Dante vuole dunque testimoniarci la sconfitta dell'ingegno non cui dato da virtù da parte di quello mosso da fede.
A questo punto ci si presentano dei nuovi interrogativi: per quale ragione Dante sceglie di presentare Ulisse con un mito così distante dalla tradizione omerica? Non certo per giustificare la dura punizione inflittagli, in quanto la natura ambigua e il ruolo di consigliere fraudolento per cui Ulisse viene relegato tra i dannati erano già stati legittimati da secoli di letteratura. E ancora, perchè il poeta condanna Ulisse mettendogli in bocca frasi di Aristotele?
Per rispondere alla prima domanda bisogna prima accorgersi dei caratteri autobiografici posseduti dall'Ulisse dantesco. Dante si serve del mito del viaggio verso occidente, e quindi del conseguente naufragio, allo scopo di accostare l'avventura vissuta dall'eroe omerico a quella del Dante personaggio.
Ma tra i due vi è una differenza fondamentale: Ulisse, affidatosi solo all'ingegno, incorrerà nell'inevitabile naufragio, mentre Dante spinto dalla fede, raggiungerà la conoscenza.
Ritorna, quindi, il tema della superiorità dell'ingegno mosso da fede sul può intelletto, tema che assume ancora maggior valore se confrontiamo il XXVI canto dell'Inferno con il primo canto del Purgatorio, in cui Dante raggiunge finalmente la montagna ( PURG ver 1-2 "per correr migliori acque alza le vele ormai la navicella del mio ingegno).Il concetto della vittoria della fede sulla razionalità è assai ricorrente nella "Commedia": lo stesso Virgilio, che rappresenta la ragione, e che guida Dante attraverso i primi due regni dell'aldilà, non potrà mai accedere al Paradiso, dove la ragione è inutile, se non è supportata dalla virtù.
Per dare una risposta al secondo quesito, dovremo invece calarci nella realtà storico-sociale del '300, e parlare dei fautori di una corrente di pensiero che andava diffondendosi in quel periodo: gli aristotelici radicali. Questi pensatori aspiravano, come affermato da Boezio di Dacia, uno dei più noti di essi, a divenire "sapientes mundi". Considerando che Ulisse è stato sempre considerato "sapiens", possiamo riscontrare una sorprendente analogia tra gli aristotelici e l'Ulisse dantesco. Non con Aristotele, ma con gli enunciati degli aristotelici radicali Ulisse si rivolge ai suoi uomini (INF XXVI ver 118-120).Per rendersene conto è sufficiente confrontare questi versi con quelli di Boezio di Dacia. Dunque non è contro Aristotele che si scaglia il poeta, ma contro Boezio e suoi seguaci, rei di aver sacrificato la fede alla sete di conoscenza, per conseguire un utopico ideale di felicità intellettuale, che li porterà, invece, all'inevitabile naufragio.Caprioli F.
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