Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

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Biografia di Pasolini

Epigrammi e Strofe (formato .txt)

OPERE DI POESIA

L'intera produzione poetica di Pasolini è raccolta in Bestemmía, 2 VOL., Garzanti, Milano 1993
che comprende anche una gran mole di poesie inedite e disperse. 
Le prime edizioni delle singole raccolte sono le. seguenti: Poesie a Casarsa, Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna 1942; Poesie, Primon, San Vito al Tagliamento 1945; Diarit. Academiuta di lenga furlana, Casarsa 1945; I píantí, Academiuta di lenga furlana, Casarsa 1946; Dov-è la mia patria, Accademia di lenga furlana, Casarsa 1949; Dal diario, Sciascia, Caltanissetta 1954,- La meglio gioventù, Sansoni, Firenze 1954; Le ceneri di Gramsci Garzanti, Milano 1957; L'usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, Milano 1958; Roma 1950, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1960; Sonetto primaverile, All'Insegna del Pesce d'Oro, Mílano 1960; La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 196 1; Poesia informa di rosa, Garzanti, Milano 1964; Poesie dimenticate, Società filologica friulana, Udine 1965; Poesie, Garzantí, Milano 1970 (si tratta di una antologia); Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 1971; La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975.


da Le ceneri di Gramsci

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
 
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
 
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
 
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
 
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...
 
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
 
quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano
 
delineavi l'ideale che illumina
 
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido
 
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
 
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
 
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
 
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
Tra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
 
e nobile, in cui caparbio l'inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
 
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
 
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
 
più grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell'urne sparse
 
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
 
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
 
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
 
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera
 
rasserenando spegne in disadorni
sentori d'alga... quest'erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
 
l'atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
 
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
 
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
- familiari da latitudini e
 
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
 
smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie
invocazioni...

III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
 
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
 
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
 
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
 
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
 
la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte
 
nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
 
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
 
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso
 
rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrine
 
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
 
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
 
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
 
l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare
 
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
 
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria
 
sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo
della coscienza...

 

IV

Lo scandalo del contraddirmi,
dell'essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;
 
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
 
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
 
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
 
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
 
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...
 
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
 
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
 
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
 
ma a che serve la luce?

[...]


[torna su]

 

VI

Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
 
che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
 
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
 
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
 
caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;
 
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
 
- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
 
che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano
 
- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta
 
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
 
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...
 
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
 
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
 
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;
 
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
 
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette
 
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
 
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
 
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
 
vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
 
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
 
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
 
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
 
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
 
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?

 

 
da L'usignolo della chiesa cattolica

/-/

Il fresco sguardo

Tra i dolci muri spenti 
vedo dopo il rosario 
correre i ragazzi 
umili e violenti...

E ascolto tremare 
sperduti strumenti 
in fondo all'asfalto 
nella pace lunare.

Ma non piango in segreto. 
O, vincendo il pianto, 
non mi rnostro tremante 
di finte allegrezze.

Allegrezze che ingenuo 
effondevo un tempo 
divorato da colpe 
innocenti di vergine.

Nessuno mi sentiva 
impazzire, all'alba, 
desto da sogni 
che un MAI malediva.

Ma l'odiata purezza 
e i peccati sognati 
erano il fresco sguardo 
dei miei occhi bruciati.

Il Narciso e la rosa

Non Narciso, lo specchio 
brilla nel verdecupo 
prato della mia morta 
fanciullezza di lupo...

Buona sera, Demonio, 
mi ascolti sorridendo? 
Ma non aprire bocca, 
ho capito, mi arrendo.

Parlavo dello specchio 
che null'altro è che luce 
pura, riflessa - nido 
di poetici echi.

No, Narciso non c'entra, 
s'è guardato abbastanza;
e, una volta tanto, 
posso affrontarti intrepido.

Sogno o indífferenza. 
o memoria, non so, 
l'argenteo specchio splende 
nel nero prato solo.

Mi soggíoga il suo raggio
vespertino che fruga 
immoto nella mesta 
ombra del paesaggio.

Vieni, caro Demonio, 
e contempliamo insieme 
l'assenza di Narciso 
nell'argento del sogno.

Non imperversa il riso 
nella tua bocca odiosa? 
Ebbene, amico, cogli 
nell'orto una rosa.

Moralità o poesia o 
bellezza, non so, 
protendo questa rosa 
a rispecchiarsi sola.




Supplica

Sento la tua carezza, 
capriccioso padrone, 
inebbriarmi muta 
la carne troppo avvezza.

Non sorridi nemmeno? 
La tua crudeltà 
ha dunque l'impudenza 
d'un cielo sereno?

Sei così sicuro 
della tua vinta vittima 
che giungi ad annoiarti 
del suo rimorso impuro

Lasciami, o Fatale, 
sciogli la delicata 
stretta della tua mano 
che m'incanta di male.

Ben dolcemente sfiori 
le note della carne 
e quel fioco concerto 
mi devasta il cuore.

Lasciami fuggire, 
togli dalle mie viscere 
la tua indiscreta mano. 
Ho altre, caste, mire...

Amo (da giovinetto) 
della tua primavera 
anche ciò che non celo 
nel mio cuore abietto.


[torna su]

 

da La religione del mio tempo

/-/

La ricchezza

Tra orizzonti che il tramortito blu 
umbro copre di assolate fiumare 
e crinali arati che si perdono su 
nel cielo, così tersi da incrinare 
la cornea, o in valli che aprono 
lucidità di baíe, tu, ignara 
macchina - per cui non sono che gravitante 
peso nel cuoio - e tu, che la guidi, 
e che in quel peso al tuo fianco 
- mentre gli parli, intenditore e prodigo 
vedi fin troppa vita-, c'è qualcosa 
che, írrelato, misto di tenerezza e odio, 
di sgomento entusiasmo e di smaniosa 
noia, accade invisibile a voi.

E in questo accadere una mostruosa 
distruzione si compie, pur splendendo di gioia. 
E' l'io che brucia. E, poiché è ìmpotente,
cieco, prigione dell'eccesso 
della visione, chi il suo incendio sente 
come da un'altra vita, ne avesse 
solo pietà o simpatia! E non l'orrore
 per l'uomo perduto nel regresso 
che gli costa la sua vecchia, puerile passione!

E fosse solo, a bruciare, sotto queste 
vesti sciupate, questa fronte che introna 
la corsa, la smania - manifesta 
a testimoniare La religiosa, pazza 
coscienza che fa immota la festa 
della vita incosciente, della razza 
bambina, i cui volti, fuggendo,
ridono caldi contro le terrazze 
delle colline, sul vuoto dei torrenti 
tra millenarie vigne e casolari...
Si che questi chiari momenti 
d'oscuro amore, abbandonati, 
non si perdano, nel mondo, in cui rimane 
persa nella sua purezza l
a luce delle gesta quotidiane.

O fosse, insieme, a bruciare - ardente 
legna di questa antica ansia 
di testimoniare - la carne, che sente 
in ogni voce di questi festanti 
paesaggi, una voce d'amore, 
che vede in ogni atto - con cui avanzi 
o resti indietro un nuovo corpo, bello 
di giovinezza - un atto d'amore... 
Ed è amore - voglia disperata 
dei sensi, lucido isterismo - questo 
che cola oro e marrone sui declivi, 
dietro i cespugli e i fossi, nel modesto 
splendore del meriggio e il vivo 
buio della sera. 
Questo che accende 
una gota, con le tinte dell'ulivo 
o del garofano, che al sole radente 
brilla - imberbe o appena ombrata 
dalla prima peluria - gaiamente 
fischiettando... o il ciuffo d'una testa 
ben tosata, che balza alto e dolcemente sghembo 
su due allegri occhi- o la mano posata 
negligente e ironica su un grembo... 
Questo che vede la morte in ogni proda 
che scompare, per sempre, nel lembo 
di ogni strada che tra soglie si snoda,
corre tra liete gioventù, per sempre 
è perduta...

*

Ché qualcos'altro, ancora, brucia il cuore: 
fuoco, anche questo, di cui io, vile, 
non vorrei parlare: come di un dolore 
troppo interiore e misero, per dire 
l'interiore e misera grandezza 
che pure ha in sé ogni nostro dolore.

Il desiderio di poter contare 
sul pane, almeno, e- un po' di povera lietezza. 
Ma preme senza vita l'ansia che più serve 
a stare in vita... Quanta vita mi ha tolto 
l'essere stato per anni un triste 
disoccupato, una smarrita vittima 
di ossesse speranze. Quanta vita 
l'essere corso ogni mattina tra resse 
affamate, da una povera casa, perduta 
nella periferia, a una povera scuola 
perduta in altra periferia: fatica 
che accetta solo chi è preso alla gola, 
e ogni forma dell'esistenza gli è nemica.

Ah, il vecchio autobus delle sette, fermo 
al capolinea di Rebibbia, tra due 
baracche, un piccolo grattacielo, solo 
nel sapore del gelo o dell'afa... 
Quelle facce dei passeggeri 
quotidiani, come in libera uscita 
da tristi caserme, dignitosi è seri 
nella finta vivacità di borghesi 
che mascherava la dura, l'antica 
loro paura dì poveri onesti.

Era loro la mattina che bruciava, 
sul verde dei campi di legumi intorno 
all'Aniene, l'oro del giorno, 
risvegliando l'odore dei rifiuti, 
spargendo una luce pura come uno sguardo 
divino, sulle file delle mozze casette, 
assopite insieme nel cielo già caldo... 
Quella corsa sfiatata tra le strette 
aree da costruzione, le prodaie bruciate, 
la lunga Tiburtina... Quelle file di operai, 
disoccupati, ladri, che scendevano 
ancora unti del grigio sudore 
dei letti - dove dormivano da piedi 
coi nipoti - in camerette sporche 
di polvere come carrozzoni, biechi e gai... 
Quella periferia tagliata in lotti 
tutti uguali, assorbiti dal sole 
troppo caldo, tra cave abbandonate, 
rotti argini, tuguri, fabbrichette...




                                                                                                        

Ma in questo mondo che non possiede 
nemmeno la coscienza della miseria, 
allegro. duro, senza nessuna fede, 
io ero ricco, possedevo! 
Non solo perché una dignità borghese 
era nei miei vestiti e nei miei gesti 
di vivace noia, di repressa passione: 
ma perché non avevo la coscienza 
della mia ricchezza!

L'essere povero era solo un accidente 
mio (o un sogno, forse, un'inconscia 
rinuncia di chi protesta in nome di Dio...)

Mi appartenevano, invece, biblioteche, 
gallerie, strumenti d'ogni studio: c'era 
dentro la mia anima nata alle passioni, 
già, intero, San Francesco, in lucenti 
riproduzioni, e l'affresco di San Sepolcro, 
e quello di Monterchi: tutto Piero, 
quasi simbolo dell'ideale possesso, 
se oggetto dell'amore di maestri, 
Longhi o Contini, privilegio 
d'uno scolaro ingenuo, e, quindi, 
squisito... Tutto, è vero, 
questo capitale era già quasi speso, 
questo stato esaurito: ma io ero 
come il ricco che, se ha perso la casa 
o i campi, ne è, dentro, abituato: 
e continua a esserne padrone...

Giungeva l'autobus al Portonaccío, 
sotto il muraglione del Verano: 
bisognava scendere, correre attraverso 
un piazzale brulicante di anime, 
lottare per prendere il tram, 
che non arrivava mai o partiva sotto gli occhi, 
ricominciare a pensare sulla pensilina 
piena di vecchie donne e sporchi giovanotti, 
vedere le strade dei quartieri tranquilli, 
Via Morgagni, Piazza Bologna, con gli alberi 
gialli di luce senza vita, pezzi di mura, 
vecchie Alette, palazzine nuove, 
il caos della città, nel bianco 
sole mattutino, stanca e oscura...

*

Ah, raccogliersi in sé, e pensare! 
Dirsi, ecco, ora penso - seduti
sul sedile, presso ],amico finestrino. 
Posso Pensare! Brucia gli occhi, il viso, 
dalle marcite dì Piazza Víttorio, 
il mattino, e, misero, adesivo, 
mortifica l'odore del carbone 
l'avidità dei sensi: un dolore terribile 
pesa nel cuore, così di nuovo vivo.

Bestia vestita da uomo - bambino 
mandato in giro solo per il mondo, 
col suo cappotto e le sue cento lire, 
eroico e ridicolo me ne vado al lavoro, 
anch'io per vivere... Poeta, è vero, 
ma intanto eccomi su questo treno 
carico tristemente di impiegati, 
come per scherzo, bianco di stanchezza, 
eccomi a sudare il mio stipendio, 
dignità della mia falsa giovinezza, 
miseria da cui con interna umiltà 
e ostentata asprezza mi difendo...

Ma penso! Penso nell'amico angoletto, 
immerso ]'intera mezzora del percorso, 
da San Lorenzo alle Capannelle, 
dalle Capannelle all'aeroporto, 
a pensare, cercando infinite lezioni 
a un solo verso, a un pezzetto di verso. 
Che stupendo mattino! A nessun altro 
uguale! Ora fili di magra 
nebbiolina, ignara tra i muraglioni 
dell'acquedotto, ricoperto 
da casette Piccole come canili 
e strade buttate là, abbandonate, 
al solo uso di quella povera gente. 
Ora sfuriate di sole, su praterie di grotte 
e cave, naturale barocco, con verdi
stesi da un pitocco Corot; ora soffi d'oro 
sulle piste dove con deliziose groppe marrone 
corrono i cavalli, cavalcati da ragazzi 
che sembrano ancor più giovani, e non sanno 
che luce è nel mondo intorno a loro.