Storie, racconti, poesie
Il Natale a Greccio di San Francesco d'Assisi
Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato
Francesco, come spesso faceva chiamò a sé Giovanni, uomo di buona fama, e gli
disse: <<Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e
prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in
qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi cui si è trovato per
mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia
e
come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello>>.
Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad
approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno del
Santo. E giunse il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza!
Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e
donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le
possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale
s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi.
Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo
desiderio, ed è raggiante di letizia.
Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e
l’asinello.
In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo.
Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava << il Bambino di Betlemme >> e, quel nome << Betlemme >> lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva << Bambino di Betlemme >> o << Gesù >>, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.
Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo.
Né
la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il
fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano
dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro
memoria.
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.
(Fonti
Francescane – vita prima di Tommaso da Celano – capitolo 30° n. 84-85-86)
Una lettera da Gesu' Bambino
Carissimo, eccomi di nuovo a te con la lettera che ti scrivo in questi giorni per aiutarti a farmi un bel regalo per il mio prossimo compleanno.
Volevo dirti che, quando mi sono fatto uomo, sarei potuto anche apparire nella maestà della mia gloria e risolvere tutto «in quattro e quattr’otto», invece ho deciso di seguire la via ordinaria, ho scelto di avere una Madre, e — apro parentesi — in verità ti devo confidare che mi sono sentito a mio agio nel grembo della mia mamma, non mi sono sentito per niente stretto, ridotto; il suo amore era talmente grande e perfetto che ha potuto portare in sé «Colui che i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (cfr. 1 Re 8,27) e, se la mia gloria è più splendente del sole, lei era ed è, per la sua umiltà, più grande del cielo che contiene lo stesso sole; la chiamavo per gioco «il mio paradiso », così era e così è. Scusa la digressione, ma, mi capisci, quando si parla della mamma non si finirebbe mai...
Dunque,
dicevo... Quando sono sceso dal Cielo sulla terra, sono nato in un popolo, il
mio popolo, ma la mia missione era di salvare il mondo intero, tutti gli uomini
«..... di ogni tribù, lingua, popolo e nazione » (Ap 5,9). Che cosa potevo
fare? in quei pochi anni, tre in tutto, in cui ho predicato, non ho fatto altro
che infiammare il cuore della gente dell ‘Amore che viene da Dio, perché «sono
venuto a portare il fuoco sulla terra; e non vedevo l’ora che divampasse! » (cfr;
Lc 12,49); non c’è nulla che possa resistere al fuoco, neanche i metalli più
forti; niente può resistere all ‘Amore, neanche il cuore più duro. E chiaro
che non ho potuto raggiungere i confini della terra di persona in quel poco
tempo, ma nella tua umanità posso continuare a diffondere quest’amore. Oggi
non ho più mani, ho soltanto le tue mani per dare da mangiare a chi ha fame; oggi
non ho più piedi, ho soltanto i tuoi piedi per raggiungere gli uomini lì dove
stanno; oggi non ho più voce, ho soltanto la tua voce per portare ai poveri il
lieto messaggio che Dio li ama; tu sei oggi il mio cuore che può continuare a
infiammare d’amore il cuore dei fratelli e far avanzare il regno di Dio.Il
fuoco non può essere contenuto e neanche l'amore di Dio: se lo hai incontrato
veramente, non puoi tenerlo per te.
Sì è vero, questo mondo di oggi ha bisogno di essere nuovamente infiammato, rischia di raffreddarsi per l’egoismo; saresti disposto a darmi una mano ad accendere di fuoco divino questa società? No, non pensare ai popoli dell’Africa, dell’ America Latina o dell'altra parte del mondo: sarebbe troppo comodo, stanno là e di fastidio te ne danno ben poco. Pensa invece a chi ti sta vicino adesso: non guardare se è bello o brutto, se è Simpatico o antipatico, buono o cattivo. lo, quando mi sono fatto uomo, non ho fatto tanti calcoli, altrimenti saresti ancora nel tuo peccato. Ti ho amato come eri e con il mio amore ti ho fatto bello, simpatico, buono.
Allora, per domani ricorda: ama tutti e ama per primo, e
l’ amore conquisterà il mondo a me. Attraverso di te io continuerò ad essere per gli uomini di questo tempo il Salvatore. Amen.
Tuo Gesù
Le dieci stelle di Natale
Se
sei triste, rallegra il tuo cuore: Natale è gioia
Se
hai nemici, riconciliati con loro: Natale è pace
Se
hai degli amici, vai a trovarli: Natale è incontro
Se
vedi dei poveri intorno a te, aiutali: Natale è carità
Se
sei orgoglioso, umiliati: Natale è umiltà
Se
hai dei debiti, pagali: Natale è giustizia
Se
sei in peccato, convertiti: Natale è grazia
Se
hai dei dubbi, rafforza la tua fede: Natale è luce
Se
vivi nell’errore, correggiti: Natale è verità
Se
porti rancore o odio, perdona: Natale è amore.
ACCENDI
LA TUA STELLA
Il
Natale di Martin di Leone Tolstoj
In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava
in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada.
Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne
riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre
molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di
più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al
punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale,
che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E
Martin gli aprì il suo cuore. - Non ho più desiderio di vivere - gli confessò.
- Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere
solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe
che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla
soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì
talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui
un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una
peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime.
Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e
non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei
piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo,
questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.
Martin rifletté. Doveva essere come me
quel fariseo. Se il Signore venisse da
me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma
senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani,
perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò
la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette
a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte
precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni
volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo
sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un
vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere,
cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e
continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva
appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin
usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi
avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica!- rispose
Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe
al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era
chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il
bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera- rispose Martin - stavo
leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi
dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per
accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda
in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin
Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo. Stepanic se ne andò e
Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra,
una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro.
Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia.
Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri
indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la
invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. -
Mangia, mia cara, e riscaldati - le
disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono
la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne
ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere
tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio
ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. -
È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole
del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla
finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una
donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che
voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un
paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e
cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si
mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. -
Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse
allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e
la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una
mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di
perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a
un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente
viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti.
- Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono
insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare
l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di
pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo
scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un
altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò
all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che
sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio.
Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela
apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era
aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare,
ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina
lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete
fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e
che lui aveva saputo accoglierlo.
Non c'e' posto nella locanda
Guido
Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media. Era già stato bocciato due
volte. Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di comprendonio, ma
benvoluto dai compagni. Sempre servizievole, volenteroso e sorridente, era
diventato il protettore naturale dei bambini più piccoli. L'avvenimento più
importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia. A Guido sarebbe
piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la signorina Lombardi gli diede una
parte più impegnativa, quella del locandiere, perché comportava poche battute
e il fisico di Guido avrebbe dato più forza al suo rifiuto di accogliere
Giuseppe e Maria.
«Andate via!»
La sera della rappresentazione c'era un folto pubblico di genitori e parenti.
Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di Guido Purlini.
E venne il momento dell'entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano verso la
porta della locanda sorreggendo teneramente Maria. Giuseppe bussò forte alla
porta di legno inserita nello scenario dipinto. Guido il locandiere era là, in
attesa.
«Che cosa volete?» chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
«Cerchiamo un alloggio».
«Cercatelo altrove. La locanda è al completo». La recitazione di Guido era
forse un po' statica, ma il suo tono era molto deciso.
«Signore, abbiamo chiesto ovunque invano. Viaggiamo da molto tempo e siamo
stanchi morti».
«Non c'è posto per voi in questa locanda», replicò Guido con faccia burbera.
«La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e ha
bisogno di un luogo per riposare. Sono certo che riuscirete a trovarle un
angolino. Non ne può più».
A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e guardò
verso Maria. Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo
d'imbarazzo tra il pubblico.
«No! Andate via!» sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
«No!» ripeté Guido automaticamente. «Andate via!».
Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la
testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei. Invece di richiudere la
porta, però, Guido il locandiere rimase sulla soglia con lo sguardo fisso sulla
miseranda coppia. Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da rughe di
preoccupazione, e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime.
Il finale di Guido
Tutt'a un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre. «Non
andar via, Giuseppe» gridò Guido. «Riporta qui Maria». E, con il volto
illuminato da un grande sorriso, aggiunse: «Potete prendere la mia stanza».
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva mandato a pallino la
rappresentazione.
Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la più natalizia di tutte le
rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
Perche' alla grotta c'erano l'asino e il bue
Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti
gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella
stalla.
Per primo, naturalmente, si presentò il leone.
«Solo un re è degno di servire il Re del mondo», ruggì «io mi piazzerò
all'entrata e sbranerò tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!».
«Sei troppo violento» disse l'angelo. Subito dopo si avvicinò la volpe.
Con aria furba e innocente, insinuò: «Io sono l'animale più adatto. Per il
figlio di Dio ruberò tutte le mattine il miele migliore e il latte più
profumato. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!»
«Sei troppo disonesta», disse l'angelo.
Tronfio e splendente arrivò il pavone. Sciorinò la sua magnifica ruota color
dell'iride: «Io trasformerò quella povera stalla in una reggia più bella dei
palazzo di Salomone!». «Sei troppo vanitoso» disse l'angelo.
Passarono, uno dopo l'altro, tanti animali ciascuno magnificando il suo dono.
Invano. L'angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene. Vide però che
l'asino e il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un
contadino, nei pressi della grotta.
L'angelo li chiamò: «E voi non avete niente da offrire?».
«Niente», rispose l'asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie, «noi
non abbiamo imparato niente oltre all'umiltà e alla pazienza. Tutto il resto
significa solo un supplemento di bastonate!».
Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: «Però potremmo di tanto
in tanto cacciare le mosche con le nostre code».L'angelo finalmente sorrise: «Voi
siete quelli giusti!».
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
Signora si chiude
Era
la Vigilia di Natale e la commessa non vedeva l'ora di andarsene. Pensava in
continuazione alla festa che l'attendeva appena finito il lavoro. Sentiva già i
mormorii di ammirazione che l'avrebbero accompagnata mentre entrava vestita con
l'abito da sera di velluto, con il cavaliere che la scortava... Quando arrivò
l'ultima cliente.
Mancavano solo cinque minuti alla chiusura. «Non è possibile che venga proprio
al mio banco» pensò. Finse di non sentire quando quella si schiarì la voce e
disse piano: «Signorina, signorina quanto costano quelle calze?».
«Credo che sul cartellino ci sia scritto 6.000 lire» rispose brusca. «Non ne
avete di meno care?». «Tremila e cinque» scattò guardando l'orologio. «Mi
faccia vedere quelle meno care».
«Spiacente signora, stasera chiudiamo alle 18,30 perché, se non lo sa, oggi è
la Vigilia di Natale».
Siccome non apriva bocca si decise a guardarla. Era pallida, aveva l'aria
affaticata, le occhiaie profonde… non doveva avere neanche 30 anni.
«Ma i miei figli non hanno neanche un regalo» disse alla fine tutta d'un
fiato. «Fino a stasera non avevo soldi». «Mi dispiace per lei signora» disse
la commessa e se ne andò. Non giunse fino al fondo del banco. La donna non
aveva detto una parola ma non le riuscì di fare un passo in più. Quando si
voltò notò nei suoi occhi l'espressione più triste che avesse mai visto. Si
ritrovò dietro al banco: «D'accordo, signora, ma faccia presto». Un sorriso
le illuminò il volto, e si mise a correre dai calzini ai nastri poi ai
giradischi portatili.
Alla commessa quei pochi minuti sembravano lunghi come l'eternità. Finalmente
si decise per alcune paia di calze, per qualche nastro colorato, un giradischi
portatile e due dischi di fiabe natalizie.
La commessa gettò gli acquisti in un sacchetto e le diede il resto delle 50.000
lire.
Ormai non c'era più nessuno. Andò di corsa negli spogliatoi e si infilò in
fretta il vestito e corse fuori dal negozio incontro al suo «cavaliere» che
l'attendeva in macchina, con il motore acceso.
Fu al terzo semaforo rosso che vide la donna del negozio: camminava in fretta
tenendo stretto contro il suo esile corpo il pacco dei doni per i suoi figli. Il
suo volto, che aveva perduto la patina di stanchezza, era ancora illuminato dal
sorriso.
In quel breve istante qualcosa avvenne dentro di lei.
Non vide solo una donna: vide i suoi quattro bambini che, il mattino dopo, si
sarebbero infilati felici le calze nuove, messi i nastri nei capelli e avrebbero
ascoltato le favole natalizie sul giradischi nuovo.
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
La storia del tronchetto
Ogni
sera, quando il padre di Nellina rientrava dal bosco, scuoteva la neve dagli
stivali e brontolava: «Oh, là là! Che caldo fa, qui! Sembra un forno! Guarda,
Nellina, i vetri delle finestre sono tutti appannati! E poi, sempre questo odore
di dolci e creme bruciacchiate! Toh, guarda tua madre, coperta di farina dalla
testa ai piedi! Che idea che ho avuto di sposare una fornaia!».
Naturalmente la mamma di Nellina non era contenta. I suoi occhi brillavano di
collera.
Gridava: «Che cosa? Dolci bruciacchiati? lo? I miei panettoni farciti sono i
migliori dei mondo! E poi io faccio delle cose con le mie mani. Tu, grand'uomo,
non fai che demolire dei poveri alberi che non t'hanno fatto niente. Guardalo,
Nellina, tutto coperto di segatura dalla testa ai piedi!».
Nellina ne aveva abbastanza di questi litigi. Si arrotolava le trecce bionde
forte forte intorno alle orecchie e non sentiva più niente.
Ma il papà continuava a gridare: «Questa sedia è tutta appiccicosa. È
ancora la tua crema!». E la mamma urlava: «Crema? ma quale crema: è la resina
dei tuoi maledetti alberi. La spiaccichi dappertutto!».Quella sera, Nellina
piangeva nel suo lettino. Amava tanto il papà e la mamma. Ma ora esageravano.
Due giorni dopo era Natale e loro non facevano nessuno sforzo per andare
d'accordo e passare una bella festa insieme. Il papà si era rifiutato di
ridipingere l'insegna della pasticceria. La mamma non aveva voluto rammendare il
gilet dei marito. I grossi lacrimoni di Nellina bagnavano la sua bambola
preferita.
Il giorno dopo Nellina raccontò tutto al cugino Gianni.
«Non serve a niente piangere» le disse Gianni. «Devi fare qualcosa. I tuoi
genitori ti vogliono bene. Prepara tu la festa. Fabbrica un regalino, addobba la
casa e Natale sarà una festa fantastica!».
Nellina tornò a casa di corsa. Aprì le finestre, spazzò fuori farina e
segatura. Pulì e lucidò. Decorò la casa con rametti di agrifoglio e carta
crespa, aggiustò il gilet del papà e stirò il nastro che la mamma si annodava
nei capelli. Poi si disse: «E adesso preparo una bella sorpresa! Almeno a
Natale non litigheranno». E mentre mamma e papà erano al lavoro, Nellina
preparò la sua sorpresa, ridendo da sola.
Quando il padre rientrò, non riuscì a trattenere un fischio di sorpresa: «Oh,
là, là! Che bella casa! E il mio gilet riparato per Natale». La madre a sua
volta: «La casa addobbata e il mio nastro lavato e stirato. Che meraviglia!».
Il giorno di Natale, andarono a Messa tutti insieme e poi tornarono per il
pranzo. Al momento dei dolce, Nellina portò la sua sorpresa. Mamma e papà
aggrottarono le sopracciglia.
La mamma domandò: «Che cos'è? Sembra un tronco d'albero, con la corteccia
scura e un po' di neve. È disgustoso!». Il papà annusò e disse: «Sa di
biscotti, cioccolato e zucchero in polvere. È disgustoso!»
Poi, tutto d'un colpo, la mamma scoppiò a ridere e disse: «È un dolce, è per
me. Grazie Nellina!»
Il papà scoppiò a ridere anche lui: «È un tronchetto d'albero, è per me.
Grazie Nellina!»
Nellina, felice, gridò: «È per tutti e tre. E lasciatene un po' anche per me!».
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
I regali nello sgabuzzino
Il
postino suonò due volte. Mancavano cinque giorni a Natale. Aveva fra le braccia
un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e legato con nastri
dorati.
«Avanti», disse una voce dall'interno.
Il postino entrò. Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena d'ombre
e di polvere. Seduto in una poltrona c'era un vecchio.
«Guardi che stupendo pacco di Natale!» disse allegramente il postino.
«Grazie. Lo metta pure per terra», disse il vecchio con la voce più triste
che mai.
«Non c'è amore dentro»
Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano. Sentiva benissimo che
il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva certo l'aria di
spassarsela male. Allora, perché era così triste?
«Ma, signore, non dovrebbe fare un po' di festa a questo magnifico regalo?».
«Non
posso... Non posso proprio», disse il vecchio con le lacrime agli occhi. E
raccontò al postino la storia della figlia che si era
sposata nella città vicina ed era diventata ricca. Tutti gli anni gli
mandava
un pacco, per Natale, con un bigliettino: «Da tua figlia Luisa e marito». Mai
un augurio personale, una visita, un invito: «Vieni a passare il Natale con noi».
«Venga a vedere», aggiunse il vecchio e si alzò stancamente.
Il
postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino. Il vecchio aprì la porta.
«Ma ... » fece il postino. Lo sgabuzzino traboccava di regali natalizi.
Erano
tutti quelli dei Natali precedenti. Intatti, con la loro preziosa carta e i
nastri luccicanti.
«Ma non li ha neanche aperti!» esclamò il postino allibito.
«No», disse mestamente il vecchio. «Non c'è amore dentro».
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
Tre agnellini
Lassù
sulle montagne del Tirolo, c'era un piccolo villaggio dove tutti sapevano
scolpire santi e Madonne con grande abilità. Ma giunse il tempo in cui non ci
furono più ordinazioni per le loro belle statuine religiose.Un pomeriggio
Dritte, uno dei maestri intagliatori, entrando nella sua bottega trovò un
fanciullo biondo, che giocava con le statuine del presepio. Dritte gli disse con
fare burbero che le statuine del presepio non erano giocattoli. Il bambino
rispose: «A Gesù non importa, Lui sa che non ho giocattoli per giocare».
Maestro Dritte commosso gli promise un agnellino di legno con la testa che si
muoveva.
«Vienilo a prendere domani pomeriggio, però, strano che non ti abbia mai
visto, dove abiti?»
«Là», rispose il fanciullo indicando vagamente l'alto.Il giorno dopo, prima
di mezzogiorno, l'agnellino era pronto, bello da sembrare vivo. Ad un tratto si
affacciò alla porta della bottega di Dritte una giovane zingara con un bambino
in braccio. Il bambino appena vide l'agnellino protese le braccine e l'afferrò.
Quando glielo vollero togliere di mano si mise a piangere disperato. Dritte che
non aveva nulla da dare alla povera donna disse sospirando: «Tienilo pure.
Intaglierò un altro agnellino».
Nel pomeriggio tardi Dritte aveva appena terminato il secondo agnellino quando
Pino, un povero orfanello, venne a salutarlo. «Oh! che meraviglioso agnello»,
disse. «Posso averlo per piacere?». «Sì tienilo pure, Pino, io ne intaglierò
un altro». E così fece. Ma il bambino dai capelli d'oro non ritornò, e
l'agnellino rimase abbandonato sullo scaffale della bottega.
La situazione del villaggio continuava a peggiorare e Dritte cominciò ad
intagliare giocattoli per i bambini del villaggio per far loro dimenticare la
fame. Un giorno un mercante di passaggio si offrì di comperare tutti i
giocattoli che Dritte riusciva ad intagliare. Dritte rifiutò di intagliare
giocattoli per denaro: «Sono alla locanda», disse il commerciante, «in caso
cambiate idea».
La piccola Marta era molto malata e Dritte, per farla sorridere, le regalò
l'agnellino che aveva conservato sullo scaffale della sua bottega. Mentre
tornava dalla casa di Marta, incontrò il bambino dai capelli d'oro.
«Ho tenuto l'agnellino fino ad oggi, ma tu non sei venuto. Ne farò subito un
altro».
«Non ho bisogno di un altro agnellino» disse il fanciullo scuotendo il capo,
«quelli che hai donato al piccolo zingaro, a Pino e a Marta li hai donati anche
a me. Fare un giocattolo può servire alla gloria di Dio quanto intagliare un
santo».Un attimo dopo il fanciullo era scomparso.
Quella notte Dritte si recò alla locanda. «Costruirò giocattoli per voi»,
disse.
«Allora avete cambiato idea» sussurrò il mercante.
«No», rispose Dritte con gli occhi scintillanti, «ma ho ricevuto un segno da
Dio!»
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
Natale
al fronte
Nel dicembre 1914 inglesi e tedeschi si fronteggiavano dalle trincee separate da
una striscia di terra brutta e piatta, divisa al centro da filo spinato.
Di tanto in tanto alcune sagome si avventuravano nella terra di nessuno, ma la
maggior parte dei soldati rimanevano nel fango e nell'acqua che stagnavano nelle
trincee, intenti solo ad evitare il fuoco dei nemico.
La Vigilia di Natale, l'aria era fredda e piena di nebbia. Improvvisamente
alcuni soldati inglesi stupefatti videro delle luci avanzare lungo le trincee
nemiche. Poi venne l'incredibile suono di un canto. I soldati tedeschi cantavano
Stille Nacht. Quando il canto cessò i soldati inglesi risposero con First
Christmas.
Il canto da entrambe le parti durò per un'ora. Poi una voce invitò tutti a
superare le linee. Un tedesco con grande coraggio uscì dalla trincea, attraversò
la terra di nessuno e scese nella trincea inglese. Altri commilitoni lo
seguirono con le mani in tasca per dimostrare che erano disarmati.
«Io sono un sassone e voi degli anglosassoni. Perché mai ci combattiamo?»
chiese.
Nell'alba limpida e fredda del giorno di Natale non ci fu nessuna sparatoria.
Gli uomini avevano autonomamente stabilito un giorno di pace.
«Uno spirito più forte della guerra era all'opera», commentò un osservatore.
I comandanti di entrambe le parti non approvarono. Sapevano che l'amicizia fra
nemici dichiarati avrebbe impedito la guerra. Ma la tregua continuò. Perfino
gli uccelli selvatici, che tanto tempo prima occupavano il rumoroso campo di
battaglia, ritornarono e furono nutriti dai soldati.
Sarebbero stati salvati 9 milioni di uomini, se quei soldati avessero potuto
obbedire al loro desiderio di amicizia e di pace e la tregua non fosse finita
subito dopo Natale.
Un soldato inglese, che aveva preso parte a quella memorabile pace natalizia,
morì all'età di 85 anni. Fino alla fine dei suoi giorni non poteva sentire Stille
Nacht senza che le lacrime gli rigassero le guance. Si ricordava degli amici
tedeschi che aveva avuto in quel giorno di Natale e che, per quanto ne sapeva,
aveva poi ucciso nei giorni che seguirono.
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
Il piu' bel canto di Natale
Nel
piccolo paese di Obendorf, in Austria, un giovane sacerdote, padre Mohr, stava
dando le ultime istruzioni ai bimbi e ai piccoli pastori per provare il canto da
eseguire nella notte di Natale.Tra le navate silenziose si spandeva l'eco di un
vocio allegro e di piccole risatine.
«Buoni, silenzio! Incominciamo!».
Ma come padre Mohr appoggiò il dito sulla tastiera dall'interno dell'organo uscì
uno strano rumore, poi un altro e un altro ancora. «Strano», pensò il giovane
prete. Aprì la porticina dietro l'organo e dieci, venti topi schizzarono fuori
inseguiti da un gatto.
Povero padre Mohr. Si voltò a guardare il mantice: completamente rosicchiato e
fuori uso. «Pazienza», pensò, «faremo a meno dell'organo».Ma anche i
piccoli cantori all'apparire dei topi e del gatto si erano scatenati in una
furibonda caccia. Ed ora non c'era più nessuno. Con l'organo in quelle
condizioni e il coro dileguato dietro ai topi, addio canto di Natale.
Fu un momento di grande sconforto per padre Mohr. Mentre, davanti all'altare
maggiore si chinava nella genuflessione gli venne in mente l'amico Franz Gruber
il maestro elementare che, oltre ad essere un discreto organista, se la cava
bene nel pizzicare le corde della chitarra.
Quando
padre Mohr giunse a casa sua, Gruber stava correggendo i compiti degli scolari
al debole chiarore di una lucerna. «Bisogna inventare qualche cosa di nuovo per
la messa di mezzanotte, un canto semplice che accompagnerai con la chitarra. Qui
ho scritto le parole: sta a te vestirle di musica... Ma in fretta mi raccomando!»
Uscito padre Mohr, Gruber prese subito in mano la chitarra e dopo aver scorso il
testo lasciatogli dal prete cominciò a cercare tra le corde le note più
semplici. A mezzanotte in punto, del 24 dicembre 1818, la chiesa parrocchiale
traboccava di fedeli. L'altare maggiore era tutto sfolgorante di lumi e di
candele accese. Padre Mohr celebrava la S. Messa. Dopo aver proclamato il
vangelo di Luca che narra la nascita del Salvatore si avvicinò, con il maestro
Gruber al presepio e con la voce tremante intonarono: «Stille Nacht, Heilige
Nacht (Notte silenziosa, Notte santa) ... ».
Dalle navate si persero nel silenzio le ultime parole del canto. Un attimo dopo
l'intero villaggio le ripeteva davanti a Gesù, come la schiera degli angeli del
vangelo di Luca. E da allora non si è più smesso di cantarlo, non solo ad
Obendorf ma in tutto il mondo. È diventata una delle musiche più care del
Natale.
E di padre Mohr e di Franz Gruber che ne è stato?
Nessuno dei due ha avuto il tempo di rendersi conto di quanto hanno donato al
mondo senza aver avuto in cambio nulla.
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)
Eliogabalo e Matusalemme
Il
piccolo e zoppo Matusalemme ed Eliogabalo (detto Gabalo) erano due ragazzi
poveri della città. Avevano sempre vissuto, dalla nascita, nel collegio dei
ragazzi poveri.«Sai che domani è Natale?» chiese Gabalo, un giorno che tutti
e due stavano spalando la neve dall'ingresso dell'istituto.«Ah, davvero?»
rispose Matusalemme. «Spero proprio che la signora Pynchurn non se ne accorga.
Diventa particolarmente antipatica nei giorni di festa!»
L'antipatica signora Pynchum era la direttrice dell'istituto dei poveri, ed era
temuta da tutti. Matusalemme proseguì: «Gabalo, tu credi che Babbo Natale ci
sia davvero?».
«Certo che c'è».«E allora perché non viene mai qui alla casa dei poveri?».
«Beh», rispose Gabalo, «noi stiamo in una strada tutte curve, lo sai no?
Forse Babbo Natale non riesce a trovarla». Gabalo cercava sempre di mostrare a
Matusalemme il lato bello delle cose, anche quando non c'era!Proprio in quel
momento un'automobile investì un povero cane che cadde riverso sulla neve.
Gabalo corse subito in suo aiuto e vide che aveva una zampa rotta. Fece una
stecca e fasciò strettamente la zampa del cane. Gabalo lesse sul collare che il
cane apparteneva al dottor Carruthers, un medico famoso nella città. Lo prese
in braccio e si avviò verso la casa dei dottore.«Io sono tutto quello che
lui possiede»
Il dottore aveva una gran barba bianca lo accolse con un sorriso e gli chiese
chi aveva immobilizzato e steccato così bene la zampa dei cane.
«Perbacco, io, signore», rispose Gabalo e gli raccontò di tutti gli altri
animali ammalati che aveva guarito.
«Sei un ragazzo davvero in gamba!» gli disse alla fine il dottor Carruthers
guardandolo negli occhi. «Ti piacerebbe venire a vivere da me e studiare per
diventare dottore?».
Gabalo rimase senza parole. Andare lontano dalla signora Pynchum e non essere più
uno «della Casa dei Poveri», diventare un dottore! «Oh,
oh si signore! Oh ... ».
Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Gabalo se ne andava, chi si
sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Matusalemme?«lo... io vi ringrazio,
signore» disse. «Ma non posso venire, signore! E prima che il dottore
scorgesse le sue lacrime corse fuori dalla casa».
Quella sera, il dottor Carruthers si presentò all'istituto con le braccia
cariche di pacchetti. Quando Matusalemme lo vide cominciò a gridare: «è
arrivato Babbo Natale!».
Il dottore scoppiò a ridere e, mentre consegnava al ragazzo un pacchetto dai
vivaci colori, notò che zoppicava e gli fece alcune domande. Dopo un attimo, il
dottor Carruthers disse: «Conosco un ospedale in città dove potrebbero
guarirti. Hai parenti o amici?».
«Oh, sì», rispose subito Matusalemme, «ho Gabalo!».
Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Gabalo. «È per lui che non hai
voluto venire a stare da me, figliuolo.»«Beh, io... io sono tutto quello che
lui possiede», rispose Gabalo.
Il dottore, profondamente commosso, disse: «E se prendessi anche Matusalemme
con noi?».
Questa volta a Gabalo non importò che tutti vedessero le sue lacrime, e
Matusalemme si mise a battere le mani dalla gioia. Naturalmente non sapeva che
sarebbe guarito e che un giorno Gabalo sarebbe diventato un chirurgo famoso.
Tutto quello che sapeva era che Babbo Natale aveva trovato la strada per la casa
dei poveri e che lo portava via con Gabalo.
(Bruno Ferrero – Tutte storie – elle di ci)