I nomi Giudice e Lorefice collegati alla città di Vittoria

    Dall'elenco alfabetico, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia del 12 novembre 1878, riguardante i componenti la spedizione dei Mille di Garibaldi e compilato sulla scorta dell'Elenco pubblicato nel 1864 dal Ministero della Guerra, risulta che ne faceva parte il sottotenente di fanteria Giovanni Girolamo Giudice fu Domenico, nato a Codevilla (Pavia) il 14 marzo 1829 e morto il 2 novembre 1862 sulle rive del fiume Po; il Garibaldino risulta aver soggiornato per breve tempo a Vittoria.

    Da un documento notorio del 1447, circa le famiglie che hanno creato la cittadina di Spotorno (Savona) risulta il nome del sacerdote Maria Giacomo Giudice, presumibilmente originario di Vittoria, che fu l'autore del manoscritto “Vita della serva di Dio Maria Berlingieri”, dato alle stampe nel 1881; abitava in una casa di Via Mazzini, sormontata da un’architrave in pietra di Finale, che rappresenta l'Annunciazione (XVI secolo).

    Emanuele Giudice, scrittore, poeta, saggista, è nato a Vittoria nel 1932. Vive e lavora tra Ragusa e Vittoria. Avvocato, già dirigente pubblico, collabora a giornali e riviste su temi di cultura, di politica e di costume.

    Lauretta Lorefice, (componente della Società di Mutuo Soccorso Leonardo Da Vinci di Ispica, comune limitrofo a Vittoria) ha ricevuto alcuni riconoscimenti giornalistici.

    Salvino Lorefice, ha ricevuto vari riconoscimenti in narrativa.

La città di VITTORIA

(informazioni e immagini tratte dal sito web del Comune di Vittoria)

    Città in provincia di Ragusa a 25 km da essa. E' sita a 168 s.l.m. alle falde dei Monti Iblei. Superficie di 181,34 kmq con 60.000 abitanti; attività principali: agricoltura, turismo balneare, industrie alimentari, meccaniche, del legno, delle materie plastiche e dei materiali da costruzione.

    E' il comune più giovane della provincia di Ragusa e presenta una pianta urbanistica regolare con strade perpendicolari. Il territorio di Vittoria è compreso fra due fiumi, l'Ippari e il Dirillo. Nelle zona vicino al corso dell'Ippari, si estende una grande riserva naturale dei "Pini d'Aleppo". E' una folta macchia mediterranea e una delle poche località del Mediterraneo dove ancora esistono queste specie protette e particolari di alberi secolari.

    Vittoria vanta una bella località marinara, Scoglitti, dotata di un porto e di alcune baie caratteristiche, come il paesaggio suggestivo di Baia Dorica. Nell'antichità il territorio veniva chiamato "Plaga Mesopotamica sicula". Oltre alla folta foresta di Boscopiano, esisteva nel Medioevo una grande piana detta di "Cammarana". Nella preistoria, il territorio era oggetto di insediamenti di piccoli villaggi rurali, come testimonia il ritrovamento di reperti siculi, di resti dell'epoca greco-romana, di tracce bizantine e dell'età paleocristiana, oltre a resti di insediamenti medievali.

La storia di Vittoria.

    La nascita di Vittoria, il 24 aprile del 1607 secondo la versione del seicentesco Santjapichi, viene fatta risalire alla volontà della Contessa Vittoria Colonna, moglie di Luigi III Cabrera Enriquez e figlia del Vicerè di Sicilia. Il nome conferito alla città è un riconoscimento in onore di Donna Vittoria Colonna da parte del figlio.

Le opere d'arte.

    Il luogo più artistico del centro storico è Piazza del Popolo con il bellissimo Teatro Comunale e la Chiesa della Madonna delle Grazie. Il teatro in stile neoclassico presenta tre ordini di palchi al suo interno ed è decorato in oro e affreschi. Berenson nel suo "Viaggio in Sicilia", lo ha definito una delle più belle testimonianze di neoclassicità dell'Europa. Il prospetto è monumentale e riporta colonnati e sculture che formano il portico e una loggia superiore. Nella facciata vi sono anche nicchie laterali, le statue di Apollo e Diana e i medaglioni delle muse e dei musicisti italiani. La chiesa della Madonna delle Grazie, di origine tardo gotica, venne ultimata nel primo Rinascimento. Fu poi danneggiata dal tremendo terremoto del 1693 e subì numerosi interventi sia interni che esterni con la ricostruzione che avvenne nel 1754. Essa custodisce dei bellissimi altari con preziosi marmi policromi, alcune sculture in legno, dei quadri e un elegante pulpito di marmo.

Tipicità della città

Il "muro a secco".

    In nessun altro luogo al mondo, se non qui nella terra iblea, c’è una cornice che si ripete all’infinito fra gli altopiani, le colline e i pascoli. Essa è il muretto a secco, il frutto paziente del lavoro contadino, delle mani callose che ponevano, pietra su pietra, le fondamenta di questi muri. Erano e sono le splendide decorazioni della campagna, le sole recinzioni dei campi che seguono il naturale digradare delle valli e delle coltivazioni di ulivi e carrubi. Pietre di calcare tenero che raccontano secoli di storia che oggi sono semplici recinzioni, ma ieri erano anche inespugnabile difesa. "La pietra vissuta" che cinge tante masserie, nel Cinquecento e nel Seicento assolveva la funzione di fortificare gli abitati rurali. Alcuni muretti sono alti anche quattro metri e fungevano da valida protezione per i contadini riuscendo anche a tenere lontani gli animali feroci (lupi).

Il "carrubo".

    Nel paesaggio ibleo, emerge sempre il carrubo o un ulivo millenario, sempre orlato dai muretti a secco. Secondo Hoofer, quello che Omero riteneva il "Lotus", il loto di cui si cibavano i popoli delle coste africane e i primi abitatori della Sicilia, altro non era che il carrubo. Per Omero, le carrube erano il cibo più prezioso per i Lotofagi che abitualmente si nutrivano solo delle ruvide ghiande. Il carrubo cresce rigoglioso nell’area iblea, come nei paesi africani, restando spesso una macchia bassa , che attecchisce bene nei terreni calcarei o vulcanici. I suoi frutti, servono alla produzione di saccarosio, mangimi e sciroppi, mentre dai semi si ricava un'ottima farina, che viene destinata agli usi più diversificati, come i concianti e i conservanti. Le api poi, trasportano il polline dai fiori: un lavorio che fa nascere il pregiato miele di carrubo

La "casa delle api"

    L'ambiente di piante nel quale operano le api: la spinosa "Spina Janca" con le corolle filiformi bianco-rosate che ricopre interi campi, tra le pietre si annida la ciocca, nella sua violacea infiorescenza, la "varraina" dal fiore azzurro e i cardi a macchie dense. Poi il mandorlo e le zagare profumate. Infine, in una esplosione di colori, un filare di rigogliosi fichi d’India.

    La "casa" consiste in una singolare "logghia" con il tetto coperto da tegole e macchiate di muschio ingiallito, protegge le arnie, "i vasceddi", in legno di ferula e abete, che sono sistemate in varie file.

    I muri a secco alti due metri, delimitano la superficie che contiene le cassette. A volte le arnie sono sistemate all’interno di grotte naturali.

    Il mielaio, a pochi metri dalle arnie, prepara l’affumicatore ("u pignatu"), un recipiente in rame dove bruciano erba secca, trucioli di ferula, sterco. Adagia le arnie sulle pietre dei muri a secco, mentre l’affumicatore è in funzione; stacca poi con la runca il coperchio della base posteriore e spinge delicatamente le api verso l’interno. La gestualità della sequenza del suo lavoro, riconsegna la fisionomia del mielaio, legato alle sue api e alle sue tradizioni di lavoro che alla natura e alle risorse ambientali continua a chiedere la sopravvivenza del suo mestiere.

Caciocavallo Ragusano

    Molte le tracce del suo passato. Nel suo testo "Ferdinando il cattolico a Carlo V" (la esperienza siciliana 1475-1525) vol. 1°, Carmelo Traselli scriveva che nel 1515 Ugo Moncada aveva concesso a se stesso l'esenzione dei dazi di uscita per i 200 cantari di caciocavallo per Tripoli (un cantaro equivale a circa 80 Kg). Questa citazione sottolinea l'importanza del Caciocavallo Ragusano, il quale per essere sottoposto a dazio, doveva essere già allora  oggetto di notevole commercio.

    Nel suo Arcuné Club Teatro Ristorante Fata Morgana, Pino Correnti scrive già nel XVIII secolo, che il conte Cagliostro raccomandava il "formaggio fabbricato col latte di una sola mungitura", e dunque il Ragusano, che il Conte aveva cominciato ad apprezzare da giovinetto al Convento dei Frati Erboristi del Fatebenefratelli di Caltagirone.

    Altri scritti risalenti allo stesso periodo testimoniano che il "caciocavallo Ragusano" riempiva la stiva di navi che si spingevano fino in Istria. Più tardi, alla fine del secolo scorso, durante la grande emigrazione in America, il Ragusano, grazie al suo sapore ed alla sua serbevolezza, fu al centro di un ragguardevole flusso commerciale: per le famiglie siciliane negli Stati Uniti, esso diventava messaggero silenzioso della patria, qualcosa della terra, degli affetti, della cucina di casa, del proprio mondo lontano. E, aggiungiamo noi, anche in Egitto.

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