Su 'nten doss en mezz ai sbrichi gh'è 'n castel de quei antichi L'è 'n castel, che 'l ga 'na storia: ogni sass l'è 'na memoria. Fat sù, penso, dai Romani 'l ga da pù de mili anni; 'l ga 'na tor quadrata e alta fatta sù de sassi e malta; Porte grosse e cadenaci, che se move sol coi braci, gh'era denter le segrete con cadene e con manete, per sassini e manigoldi che trufava roba e soldi ... L'è 'nten bosc de fovi e pini con gran muri per confini. Gh'è taccà, con gran saloni, en palaz dai finestroni, abità dai Castellani e dai servi e dai sgherani: L'era i conti Madruziani, dell'Impero Ciambellani, che per starghe più sicuri i ga fat entorno i muri. Chì, ogni dì, i feva festa 'ntei saloni e 'n la foresta: fra banchetti e cavalcade i se passava le giornade! ... Qualche volta, da 'ste sale for vegniva 'n cardinale: el prim de lori, en dit en fato, 'l se bina 'nsema 'n Principato, e a Trent, dal Bon Consiglio l'ha diret el gran Concilio ... ma sicome 'nde 'sto mondo ogni roba la va a fondo così anca 'sti gran siori i è passadi anca lori: sol de lori quel che resta l'è 'l castel e la foresta, che i se gode, fra 'ste mura quei che fa villeggiatura!

 

 

da Madruzzo blocco medioevale blocco rinascimentale
torre esagonale del Gumpone

 

Don Modesto Lunelli: "Calavino e la sua Pieve" pg.220

Castello Madruzzo

Di questo castello di storica importanza credo opportuno riportare qui un articolo di don Felice Vogt pubblicato nella Strenna Trentina del 1930 in cui è tracciata per sommi capi la sua storia.

---Arrivando da Trento a Vezzano, appena fuori della linda borgatella , l'occhio dopo essersi fermato a destra su Castel Toblino, uscente come ninfa dal lago omonimo, già d'un bel verde trasparente, ed ora opalino senza riflessi causa 1' immissione nel Sarca, si posa a sinistra su Castel Madruzzo, che s'erge come dominatore su d'un trono, mentre d' intorno le montagne brulle e rocciose sembrano star ritte a guisa di vassalli davanti al loro Signore. Fino a Calavino si vede sempre il profilo delle due torri che stagliansi nel cielo, d'un azzurro veramente meridionale, sembrano due scolte vigilanti immobili dai neri spalti la lenta ascesa del visitatore. Poco dopo Calavino all' imbocco della valletta di Cavedine le torri scompaiono dietro alle muraglie del fabbricato medioevale, annerito dalle libecciate, e poi dietro il massiccio palazzo cinquecentesco, prospiciente maestoso verso sera e mezzogiorno, mentre vicine le scure lame dei cipressi svettano con eleganza al soffio dell'ora gardesana, facendo risaltare per contrasto il verde grigio delle annose elci sottostanti.

Le casupole del paesello di Madruzzo si raggruppano ai lati delle strade, che salgono da Calavino e da Lasino, come pecorelle meriggianti dappresso alla roccia, sulla quale sta assiso il mandriano sicuro della sua gagliardia.

Il luogo, come ne fanno fede i rinvenimenti archeologici, fu abitato nella prima età del ferro probabilmente dai Galli, forse come stazione pastorizia all' aperto, forse anche come rifugio fortificato, dove torre era la rupe stessa, i fianchi erano ripari sufficienti, e nel punto più debole a settentrione era facile erigere un vallo, fatto di sassi e zolle, intrecciato di tronchi rovesciati. I Romani non vi lasciarono traccia di sé: le loro poche abitazioni rustiche del tardo impero sorgevano in luoghi riparati dal vento e coltivati a grano, preferibilmente sul versante occidentale della valle, uniti da strada, che sussiste ancora in gran parte. Da qualche oggetto dell' alto medioevo, venuto in luce, si potrebbe congetturare che vi stanziarono in quel tempo dei guerrieri, che però non vi eressero nessuna opera fortificatoria in muro.

Fu solo verso la metà del secolo XII, quando anche i nobili del principato trentino furono presi dalla febbre edilizia, che Gumpone e suo nipote Boninsegna di Madruzzo, famiglia ministeriale e feudale dipendente dal Vescovo, per incitamento dello stesso o certamente col suo permesso, costruirono sul dosso sovrastante due torri quadrate, appoggiandovi due piccoli corpi di abitazione e da' intorno sulla cresta rocciosa una muraglia di non grande spessore. Quantunque le abitudini della vita di allora fossero assai semplici, la fabbrica primitiva è così rozza, che non v'è da pensare che i castellani vi abitassero di continuo, ma solo per necessità, come in un luogo di rifugio per sé e per i pochi uomini d' arme e per la poca popolazione, un decimo dell'attuale, dei paesi circostanti, sotto tettoie addossate al muro di cinta. L'abitazione loro solita, certo più comoda, era in paese, dove si vedono ancora avanzi molto antichi di muri di case, diroccati certamente da guerre e da incendi.

I documenti di infeudazione sono del 29 novembre e 16 dicembre 1161. In essi il vescovo Adalpreto II (1156-1177) investisce gli anzidetti Gumpone e Boninsegna di due fabbricati nel Castello di Madruzzo, allora in costruzione e della custodia dello stesso, con 1' obbligo di lasciarne sempre libera 1'entrata al Vescovo e alle sue genti. Concede loro inoltre facoltà di costringere i contadini, che hanno diritto di rifugiarvisi in caso di pericolo, a fare la custodia esterna dello stesso. In caso di inosservanza delle condizioni pattuite, il Vescovo e i Signori di Madruzzo si obbligano reciprocamente a pagare 200 lire veronesi (la lira veronese equivaleva a lire 3 oro anteguerra) dando in pegno a questo scopo il Vescovo i beni mensali che aveva in Madruzzo, gli investiti i loro beni feudali in Banale, che tenevano dalla Chiesa di Trento e dai conti di Flavon. Di decime e di altri oneri nessuna parola: questi probabilmente vennero imposti ai contadini più tardi a risarcimento delle spese di custodia, assunte totalmente dai castellani. E sono fiabe le narrazioni, fatte dalla gente dei paesi circonvicini, di diritti feudali esercitati con crudele prepotenza dai superbi feudatari, Perché in quel tempo gli uomini pienamente liberi di sé erano la maggior parte, ed essi andavano, come in tutta Italia, costituendosi in forti associazioni (comuni) capaci di difendere i singoli da angherie e soprusi. E poi la vicinanza della valle alla sede vescovile e la sua appartenenza alla podesteria della città di Trento saranno state certamente un freno alle velleità dei Signori di Castel Madruzzo.

La stirpe di Gumpone e Boninsegna tenne il castello dal 1181 al 1389.

Aveva per stemma un gonfalone rosso a tre bande in punta su campo bianco, soppiantato poi verso il 1600 dal campo oro, come nello stemma dei conti di Montfort, gonfalonieri della Chiesa, dai quali asseriva derivare la seconda famiglia Madruzzo. Alberto figlio di Gumpone fu nel 1182 Vice-Domino del vescovo Salomone (1177-1183), cioè suo vicario nel governo temporale e spirituale del Principato. Non fu però suo successore, come vorrebbero alcuni storici. Nelle lotte fra guelfi e ghibellini, che nei secoli XIII e XIV funestarono il Trentino, i Signori Madruzzo seguirono quasi sempre il partito vescovile, guelfo, malgrado ne venissero gravi danni ai loro privati interessi. Quando nel 1267 i rappresentanti delle comunità di Calavino e Cavedine si portarono a Riva, ove ritrovavasi il vescovo Egnone (1248 - 1273), a prestargli il giuramento di fedeltà e la promessa di difenderlo con tutte le loro forze, lo prestarono pure Adalpreto, Vicomano, e Udalrico Signori di Madruzzo per sé e per i loro figli. Assaliti per questo dai Signori di Campo e Seiano, ghibellini che tenevano per Ezzelino da Romano e per il conte del Tirolo, perdettero il possesso del castello, il quale venne in potere dei Seiani, che occuparono tutto il territorio di Arco, Dro, Drena, Cavedine e Vezzano, e poterono riaverlo solo nel 1273, quando i beni dei Seiani furono confiscati per ordine del Vescovo, riconciliatosi col conte del Tirolo. Nelle gravi differenze insorte fra il Vescovo Enrico II (1274-1289) e Udalrico Panzeria dei Signori di Arco, alcuni dei Madruzzo tennero per quest'ultimo. Ne seguì la confisca della loro parte del castello e di altri beni feudali, che riebbero solo nel 1307 dal vescovo Bartolorneo Quirini (1304- 1307); Parisio di Madruzzo però si riconciliò appena nel 1316, anno in cui il vescovo Enrico III (1310 -1336) incarica il suo vicario di assolverlo dalla scomunica incorsa, alla porta della cattedrale. L'anno seguente 1317 fu fatta la pace tra quelli di Madruzzo, che avevano seguito la parte vescovile, e Udalrico Panzeria di Arco, al quale restituirono il castello di Drena, che avevano occupato per ordine del Vescovo. Durante l'invasione di Lodovico di Brandeburgo (1343-1362) i Madruzzo tennero per il Vescovo, quantunque fossero perciò cacciati dal loro castello, che fu occupato da Corrado di Castelnuovo, e potessero ritornarvi solamente nel 1369. In quest' anno il vescovo Alberto II (1363 - 1390) in remunerazione dei servigi prestati a sé e alla Chiesa dai Signori Madruzzo, restituiti loro i possessi perduti ne li investiva, aggiungendovi altri beni in Calavino e Madruzzo. Riavuto il castello ne alzarono le mura e le torri. coronandole con merlatura guelfa a testimonianza del loro pensiero politico, lo restaurarono e lo ingrandirono facendone una dimora, per quei tempi, bella e forte.

Ma la pace e il benessere nel rinovellato maniero durarono breve tempo; perché estintasi verso il 1380 la linea maschile discendente da Oprandino di Gumpone, e concessa dal Vescovo in feudo fiduciario la parte spettante a questa linea alle superstiti Regina e Fiorinella, sposate a Jacopo ed Enrico di Roccabruna, discendenti della linea di Udalrico di Gumpone, non si adattarono alla sentenza vescovile e chiamarono anzi a sostegno delle loro pretese i Signori di Arco. Ne vennero tre anni di guerre e rappresaglie. Antonio conte d' Arco, Capitano delle milizie di Bernabò Visconti, Signore di Milano, con l'aiuto degli altri Madruzzo, s'impadronì della parte in contestazione e la tenne occupata fino al 1385. In questo' anno però, per intervento del Vescovo, dovette restituirla ai Roccabruna con la compensazione di tutti i danni arrecati. Ma l'odio e il rancore fra i Roccabruna era così profondo che la connivenza in uno stesso luogo era divenuta impossibile. Perciò Stefano Madruzzo, quantunque fosse stato investito nuovamente dei suoi feudi, rinunziò assieme ai suoi figli ad ogni diritto in mano del Vescovo. Questo al 25 maggio dello stesso anno 1389 investiva del castello e sue dipendenze i fratelli Jacopo ed Enrico di Roccabruna.

La famiglia Madruzzo si ritirò a Trento, dove e nel 1400 aveva ancora beni e decime. Verso la metà del secolo XV lasciò anche il nome di Madruzzo e finì ignobilmente fra odii e liti.

Ma i Roccabruna., oberati di debiti, non poterono mantenere a lungo il nuovo possesso, che rovinato dalla recente guerra, dava un reddito appena sufficiente a mantenere il capitano del castello, e nel 1441 rinunziarono al feudo, vendendolo per 1970 ducati d'oro (un ducato equivaleva a 11 lire oro ante guerra) a Sigismondo Stetten di Carinzia, Capitano nel Castello di Segonzano, che ai 14 dicembre ne fu investito dal vescovo Alessandro (14S3 -1444). Ma neppure questi si sentì in grado di affrontare le ingenti spese di restauro del castello e dopo pochi anni nel 1447 lo vendette ad Aliprando figlio di Guglielmo di Denno-Nanno che ai 10 ottobre dello stesso anno ne venne investito dal vescovo Giorgio II (1446-1465).

I Signori di Denno-Nanno, forse imparentati con i primi Madruzzo, avevano dei beni a Calavino e a Pìetramurata da più di un secolo, unificarono con questa compera i loro possessi e vennero ben presto ad abitare il castello preferendolo a quello di Nanno.

Qui nacque verso il 1480 da Federico, nipote di Aliprando, morto senza figli, Giovanni Gaudenzio. Questi, rimasto unico dei Denno-Nano, si sposò poi con Eufemia di Sporemberg e Villanders, e aggiunta alla propria, già grande, la pingue eredità di lei, inquartò nello stemma dei Denno - Nanno tre travi cerulei diagonali in campo bianco, quello dei Sporemberg - Villanders, cinque monti ovali d' argento in campo rosso, e pose nel mezzo lo stemma della prima famiglia Madruzzo, usando il predicato di Nanno e Madruzzo, e poi solamente di Madruzzo. Gian Gaudenzio continuò con maggior energia il rinnovamento edilizio del castello, iniziato dal padre e dall'avo, ampliò il vecchio palazzo d'abitazione e lo alzò di due piani: e perché il luogo potesse essere difeso anche contro le artiglierie, circondò tutto il dosso di grosse mura, con largo cammino di ronda tutto coperto verso la parte più esposta, vi aggiunse bertesche, caditoie e piambatoie e larghe cannoniere e, presso le porte, massicci torrioni. Costruì un mulino a vento e in mezzo al nuovo largo piazzale fece scavare nella roccia un profondo pozzo d'acqua freschissima e più sana di quella della cisterna trecentesca. E' pure opera sua la strada, che più larga e più comoda dell'antica (accedente al castello dietro al paese per la "valletta delle marmotte"), dalla croce presso la via maestra ascende attraverso il paese. Scopo di questa nuova strada era il trasporto in castello di grossi pezzi d'artiglieria. Uno di questi detto la "Madrutia" era del peso di 7500 libbre.

Divenuto poi consigliere e gentiluomo di Ferdinando, re dei Romani, e maggiordomo dei suoi figli, gli arciduchi Massimiliano e Ferdinando, a fine di ospitarli principescamente eresse dalle fondamenta il nuovo grandioso palazzo, che nel 1545, apertosi il Concilio di Trento dal figlio cardinale Cristoforo, elevò tutto di un piano con spaziosa sala per eventuali feste e ricevimenti d'occasione. Morì nel 1551 e fu sepolto nella cappella gentilizio dell'arcipretale di Calavino, che egli stesso aveva fatto costruire nel 1547 e nella quale in quell'anno stesso aveva deposto con immenso dolore la salma del figlio Aliprando, valoroso generale nell'armata di Carlo V, morto a Ulma a soli 25 anni.

Il cardinale Cristoforo (1539-1567) sempre occupatissimo negli affari della sua Chiesa e per il concilio e quale legato papale presso l'imperatore, poco poté abitare in castello. Invece suo fratello Nicolò, vi trascorse gli ultimi anni della sua vita e vi mori nel 1578.Fu sepolto nella cappella familiare di Calavino. Il castello passò in eredità prima ai figli Gian Federico, ambasciatore imperiale a Roma, dove morì nel 1587, e Fortunato morto nel 1604, e poi all'altro figlio Aliprando, canonico di Salisburgo e Bressanone e Decano del Capitolo di Trento. Gian Federico vi eresse nel 1591 la cappella dedicata a s. Nicolò da Tolentino, che essendo della famiglia dei Mauruzi si riteneva essere della stessa stirpe dei Madruzzo. Assai amante della vita rustica Aliprando si dilettava di tener cervi, daini, caprioli ed altri animali selvatici, secondo il costume delle Corti italiane di quel tempo, e perciò fece acquisto dalla Comunità di Calavino, Lasino e Madruzzo di un vasto tratto di bosco a sera del castello, lo circondò tutto all'intorno di un muro e lo trasformò in ombroso parco con in mezzo un'elegante fontana, ora nel piazzale Ciani a Lasino, con acqua condottavi appositamente dal sovrastante laghetto di Lagolo.

Morto il canonico Aliprando nel 1606 il castello passò al figlio di suo fratello Fortunato, Gian Angelo Gaudenzio, che poco vi abitò, perché occupato sempre in guerre come colonnello comandante un proprio reggimento formato da trentini, al servizio dell'Imperatore e della Spagna. Nel 1615, in adempimento della volontà del padre, fondò a Calavino il beneficio della Cappella Madruzzo, dotandolo riccamente. Stava di preferenza a Riva, dove eresse la chiesa dell'Inviolata coll'annesso convento dei Gerolimini e dove mori nel 1618. Il castello passò allora per eredità a Carlo Emanuele, figlio del cugino Emanuele Renato, coadiutore del cardinale suo zio Carlo Gaudenzio (1600-1629) e poi, alla rinunzia di lui, suo successore nella sede di Trento (16S9-1658). Amante dello studio, della quiete e della solitudine, Carlo Emanuele faceva lunghi soggiorni in questo luogo, dove, passato il limitare del portico, pare veramente che ogni rumore della vita sia spento.

Morto improvvisamente e senza testamento ai 15 dicembre 1658, ed estintasi con lui la linea maschile dei Madruzzo, sorse per la vistosa eredità un litigio, che durò più di 100 anni, ed al quale prese parte anche la famiglia Floriani di Calavino come discendente, sia pur illegittima, di Aliprando Madruzzo, figlio di Gian Gaudenzio.

In seguito a una convenzione del 1661 il castello Madruzzo venne devoluto a Carlotta figlia di Ferdinando Madruzzo, cugina del Vescovo Carlo Emanuele e maritata al marchese Carlo di Lenoncourt, lorenese. Estintasi poi la linea maschile dei Lenoncourt il feudo di castel Madruzzo passò nel 1691 a Maurizia Cristina contessa di Lenoncourt, moglie di Ottavio Balestrina, marchese di Carretto.

Nel 1703 nella ritirata delle truppe francesi restò preda delle fiamme assieme alle elci secolari del dosso. Restaurato nuovamente e ricoperto, nel secolo XIX fu sistematicamente saccheggiato e spogliato, conniventi talora amministratori senza coscienza, e divenne, ad eccezione della parte cinquecentesca, e delle solide torri, un rudere cadente. Per questo la famiglia Carretto nel 1876, allodializzatolo vendette il castello con le sue pertinenze a pubblico incanto.

Lo acquistò il dott. Francesco Larcher di Trento. Questi con intelletto d'amore vi fece i restauri necessari per impedire ulteriori irreparabili rovine, sempre rispettando le linee di origine e cercando di riprodurre con un conveniente arredamento la vita di una volta.

Il figlio Gian Domenico lo vendette nel 1963 ai signori Montagna di Milano (N. d. R.)

 

 

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