CAPITOLO X
Ipocrisia del padre di Gertrude. – Letta quella
lettera, il principe mandò a chiamare Gertrude, che, giunta alla presenza del
padre, gli si buttò ginocchioni davanti ed ebbe appena il fiato di dire:
«Perdono!». Egli le rispose che il perdono bisognava meritarlo, e cominciò
a parlare a lungo del fallo di lei, dicendo che, quand’anche… caso mai…
avesse avuto prima intenzione di maritarla, lei stessa aveva messo ora un
ostacolo insuperabile, perché a un cavaliere d’onore, come era lui, non
sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina, che
aveva dato un tal saggio di sé, e che essa doveva vedere, in questo triste
accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli
per lei…
Gertrude si lascia scappare un sé. – La povera
Gertrude, scossa dal timore, si lasciò scappare un sì. Allora il principe
cambiò tono, mandò a chiamare subito la principessa e il principino, e disse
loro che Gertrude non aveva più bisogno di consigli, e che ciò che essi
desideravano per suo bene, l’aveva voluto le spontaneamente, e che era
risoluta prendere il velo. La principessa e il principino si congratularono,
mentre il principe propose di andare subito a Monza per fare la richiesta alla
badessa, richiesta che differì al giorno seguente per desiderio di Gertrude.
Allora il principe, per non perder tempo, si recò dal vicario delle monache
per fissare la data dell’esame, e fu stabilito che esso avrebbe avuto luogo
da lì a due giorni.
Le congratulazioni dei parenti e degli amici. – Subito
dopo partito il principe, la sposina (così chiamavano allora le giovani
monache) fu condotta nel gabinetto della principessa, dove fu pettinata ed
elegantemente vestita; poi si recò a pranzo, dove trovò alcuni parenti più
prossimi, che erano stati invitati in fretta per farle onore e per rallegrarsi
della spiegata vocazione; dopo il pranzo andò in carrozza con la madre e con
due zii, che si misero a parlare come portava la convenienza in quel giorno;
al ritorno, sul tardi, trovò a casa amici e parenti che, essendo corsa la
voce dell’avvenimento, erano venuti a fare il loro dovere. Partite le
visitie, si cenò in fretta, per ritirarsi subito ed essere pronti il giorno
dopo di buon’ora.
Gertrude si reca al monastero per chiedere di essere
ammessa. – Al mattino seguente Gertrude, dopo che il principe l’ebbe
tirata in disparte per dirle come doveva rispondere alla badessa, insieme coi
genitori ed il fratello montò in carrozza. Giunti al monastero, videro la
porta del chiostro interno spalancata e tutta occupata da monache, tra cui in
prima fila la badessa. Questa, dopo i primi complimenti, domandò a Gertrude
cosa desiderasse in quel luogo, ed essa, dopo una breve esitazione, rispose
che voleva vestir l’abito religioso. La badessa aggiunse subito che
bisognava attendere i voti comuni delle suore, ma che poteva prevedere con
certezza quele sarebbe stata la risposta. Poi fece venire il principe alla
grata del parlatorio, e gli disse che, per ubbidire alle regole, era obbligata
ad avvertire i genitori che, se per caso forzassero la volontà della figlia,
incorrerebbero nella scomunica; ma il principe rispose che essa non poteva
dubitare.
La madrina. – Gertrude, nel tornare, non aveva troppa
voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, faceva tristemente
il conto delle occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva
debolmente e confusamente a se stessa che, in questa o inquell’altra,
sabrebbe stata più destra e più forte. Sulla fine della cena, il principe
desse che bisognava pensare a una madrina, che fosse custode e scorta della
giovane monacanda nel tempo tra la richiesta e l’entrata al monastero, tempo
che veniva speso nel visitare le cose più notabili della città e dei
dintorni, affinché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile,
vedessero bene a cosa dovessero rincinciare. La scelta fu lasciata a Gertrude,
la quale indicò la dama che, in quella sera, si era mostrata verso di lei
più premurosa; ma tali premure non erano senza motivo, poiché la dama aveva
già da molto tempo messo gli occhi addosso al principino per farlo suo
genero.
L’esame del vicario. – Il giorno dopo Gertrude si
svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava
ruminando se potesse cogliere quell’occasione per tornare indietro, il
principe la fece chiamare e le disse che, se le fosse nato qualche pentimento,
avrebbe dovuto spiegarsi, ma al punto in cui erano le cose non era più tempo
di far ragazzate, minacciandola oscuramente che, se avesse esitato nelle
risposte al dabben uomo, sarebbe stato costretto a svelare il vero motivo
della risoluzione di lei, ossia la lettera diretta al paggio. Gertrude divenne
rossa e le si gonfiarono gli occhi. Arrivò intanto il vicario, che, dopo i
primi compliemtni, incominciò a interrogare Gertrude nella forma prescritta
dalle regole; e la giovane rispose che essa si faceva monaca liberamente, che
aveva sempre avuto quella vocazione, che voleva servire Dio e fuggire i
pericoli del mondo. Finito l’esame, il vicario s’imbattè nel principe, e
si congratulò con lui per le buone disposizioni in cui aveva trovato la
figliuola.
Fu quindi tenuto il capitolo per l’accettazione di
Gertrude. Esso ottenne i due terzi dei voti segreti che erano richiesti dai
regolamenti, e la giovane fu accettata.
Monaca per sempre. – Essa stessa, stanca di quel
lungo strazio, chiese di entrare più presto che fosse possibile nel
monastero. Fu fatta la sua volontà e vestì l’abito. Dopo dodici mesi di
noviziato, pieni di pentimenti e di risentimenti, si trovò al momento della
professione, in cui conveniva dire un no più strano, più inaspettato, più
scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripetè e fu
monaca per sempre.
Gertrude maestra delle educande. – E’ una delle
facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana il poter
indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, in qualsivoglia
termine, ricorra ad essa. Se al passato non vi è rimedio, essa dà mdo di
fare reealmente, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù.
Ma l’infelice Gertude, invece di abbracciare con santa
rassegnazione il nuovo stato, si dibatteva sotto il giogo, e così ne sentiva
più forte il peso e le scosse. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza,
deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e
invidiava qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza,
potesse liberamente godersi nel mondo quei doni.
Poco dopo la professione era stata fatta maestra delle
educande, ma, quando le veniva in mente che molte di loro erano destinate a
vivere in quel mondo dal quale essa ere esclusa per sempre, provava contro
quelle poverette un astio, un desiderio quasi di vendetta; in altri momenti lo
stesso orrore per il chiostro scoppiava in accessi d’uomore tutto opposto, e
allora non solo si mischiava nei loro giochi, ma lirendeva più sregolati.
Così visse alcuni anni, non avendo comodo, né occasione
di fare di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si
presentasse.
Egidio. – Tra gli altri privilegi che le erano stati
concessi c’era quello di stare in un quartiere a parte, che era contiguo a
una casa abitata da un giovane, scellerato di professione, di nome Egidio.
Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere,
avendo veduto Gertrude qualche volta passare o gironzolare in quel luogo,
allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empità dell’impresa,
osò un giorno rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
Si videro allora gran novità in tutta la condotta di
Gertrude: divenne tutt’a un tratto più regolare, più tranquilla, smise gli
scherni e il brontolìo, ma ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e
i soliti capricci, tornarono a farsi sentire le imprecazioni e gli scherni
contro la prigione claustrale.
La scomparsa della conversa. – Un giorno che la
signora, venuta a parole con una conversa, si lasciò andare a maltrattarla
fuor di modo, la conversa, dopo essersi un pezzo morse le labbra, perdette la
pazienza e buttò là una parola che lei sapeva qualche cosa e che, a tempo e
luogo, avrebbe parlato. Da quel momento la signora non ebbe più pace. Non
passò però molto tempo che la conversa fu aspettata invano, una mattina,
alle sue consuete occupazioni. Furono fatte ricerche dappertutto, ma senza
frutto; finchè fu scoperta una buca nel muro dell’orto, che fece pensare
che la conversa fosse fuggita di là. Si disse che fosse riparata a Monza, e
principalmente a Meda, da dove essa proveniva, o che si fosse rifugiata in
Olanda. Ma forse si sarebbe potuto sapre di più se, invece di cercare
lontano, si fosse scavato vicino. E quante volte l’immagine di quella donna
veniva a cacciarsi d’improvviso nella mente della signora, e si piantava lì
e non voleva muoversi! Quante volte la signora avrebbe desiderato vedersela
innanzi viva e reale, piuttosto che dover trovarsi giorno e notte in compagnia
di quella forma vana, terribile, impassibile!
I signori han tutti un po’ del matto. – Era scorso
circa un anno da quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora ed ebbe
quel colloquio, durante il quale si sentì fare delle domande, che le
sembravano più che nuove e strane in bocca ad una monaca, e che la fecero
stupire e arrossire.
Appena si trovò con la madre, se ne aprì con lei; ma
Agnese, come più esperta, sciolse tutti quei dubbi, dicendo che i signori,
chi più chi meno, han tutti un po’ del matto.
CAPITOLO XI
Don Rodrigo attende il ritorno dei bravi. – Mentre i
bravi, come un branco di segugi, che hanno inseguito invano una lepre,
tornavano mortificati verso il palazzotto di don Rodrigo, questi, in una
stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata,
camminava innanzi e indietro al buio, pieno d’impazienza e non privo di
inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le
conseguenze possibili, perché quell’impresa era la più grossa e la più
arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano.
La relazione del Griso. – Quando vide dalla finestra
che i bravi tornavano senza la bussola, comprese che l’impresa era fallita.
Il Griso, deposta la sua veste da pellegrino, salì, come
richiedeva la sua carica, a render conto a don Rodrigo di quanto era accaduto.
Questi, che l’aspettava in cima alla scala, quando lo vide apparire con un’aria
di birbone deluso, lo coprì di insulti e di ironie («Signor spaccone, signor
capitano, signor lascifareame»); ma quando apprese lo svolgimento dei
fatti, gli disse che si era portato bene e che forse vi doveva essere una spia
in casa. Il Griso rispose che, da varie cose, gli era apparso di poter
rilevare che ci doveva essere qualche altro intrigo, per il momento
inspiegabile.
La conclusione fu che don Rodrigo ordinò al Griso, per il
giorno dopo, tre cose: spedire la mattina presto due uomini a fare al console
quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiamo veduto; due altri al
casolare a far la ronda, per sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla
notte prossima, in cui si sarebbe mandato a prenderla; andar poi lui, e mandar
anche altri, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio
di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci
lasciò andare anche il Griso.
Il conte Attilio promette di rivolgersi al conte zio. – La
mattina seguente, appena alzato, don Rodrigo cerò il conte Attilio per
metterlo al corrente dell’accaduto. Il conte Attilio, vedendo spuntare il
cugino, gli ricordò in tono canzonatorio che quel giorno era S. Martino; poi,
udito come si erano svolte le cose, avanzò subito l’ipotesi che in quella
faccenda doveva aver messo lo zampino fra Cristoforo, e si fece riferire il
dialogo avvenuto il giorno prima col frate; infine, dopo aver fatto le sue
meraviglie perché il cugino l’aveva lasciato andar via senza la punizione
che gli stava bene, promise che, per mezzo del signor conte zio del Consiglio
segreto, avrebbe pensato a servire il frate nel modo migliore.
Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il
discorso d’un affare di quell’importanza. Poi il conte Attilio uscì per
andare a caccia, mentre don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno
del Griso.
Il Griso riferisce le notizie raccolte in paese. – Il
Griso ritornò finalmente sull’ora del desinare a fare la sua relazione. Lo
scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre
persone da un paesello era un tale avvenimento, che il Griso poté comporre
per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Perpetua non poteva
farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro,
perché dicesse chi era stato a fare quella gran paura al suo padrone;
Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli
altri, crepava dalla voglia di vantarsene; Tonio non aveva potuto dissimulare
il fatto a sua moglie, la quale non era muta; i genitori di Menico, quantunque
avessero tenuto in casa il figliuolo per quel giorno e per qualche altro
ancora, andarono essi stessi chiacchierando con la gente del paese,
aggiungendo, come cosa conosciuta, che i tre poveretti si erano rifugiati a
Pescarenico.
Il Griso informò perciò il suo padrone del colpo tentato
dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vuota e il
sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse
un traditore; l’informò anche della fuga, che si poteva spiegare col timore
degli sposi colti in fallo o con qualche avviso dell’invasione. Disse
finalmente che si erano ricoverati a Pescarenico: più in là non andava la
sua scienza.
Don Rodrigo invia il Griso a Pescarenico. – Don
Rodrigo, dopo essersi compiaciuto che nessuno l’avesse tradito e che non
erano rimaste tracce del suo fatto, mandò subito il Griso a Pescarenico per
sapere che cosa fosse avvenuto dei tre fuggiaschi, e il Griso la sera di quel
giorno medesimo poté riportare al suo degno padrone la notizia, messa in giro
in tutto segreto dal barocciaio al suo ritorno a Pescarenico, che Lucia e sua
madre si erano rifugiate in un convento di Monza e che Renzo aveva continuato
la sua strada fino a Milano.
Don Rodrigo invia il Griso a Monza. – Don Rodrigo
provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un
po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Alzatosi
presto al mattino, ordinò al Griso di recarsi a Monza per avere più chiare
notizie di Lucia e per sapere se ci fosse da tentar qualche cosa; e poiché il
Griso si mostrava titubante a causa di una taglia posta sul suo capo, gli
consigliò di prendere con sé un paio di bravacci, lo Sfregiato e il
Tiradritto, in modo da far passare ai birri di quella città la voglia di
mettere la vita a un gioco così rischioso.
Don Rodrigo avrebbe voluto anche trovare il modo che Renzo
non potesse più tornare con Lucia, né metter piede in paese. Si poteva, per
esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale,
dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottor
Azzecca-garbugli, fare intendere al podestà che era il caso di spedir contro
Renzo una buona cattura; ma (come vanno le cose di questo mondo!) il giovane
medesimo lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di
tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputo trovare.
Renzo a Milano. – Dopo la dolorosa separazione dalle
due donne, Renzo camminava verso Milano in quello stato d’animo che ognuno
può immaginarsi facilmente. Giunto nei pressi della metropoli lombarda, vide
in lontananza la mole magnifica del duomo, e si fermò sui due piedi a
contemplarla; ma, voltandosi indietro, vide all’orizzonte il suo Resegone e
si sentì tutto rimescolare il sangue. Quando s’accorse di esser ben vicino
alla città, s’accostò a un viandante, chiedendogli la strada più breve
per andare al convento dei cappuccini; e quello, con inusitata gentilezza,
dopo aver letto sulla lettera del giovane l’indirizzo di Porta Orientale,
gliela indicò. Renzo rimase stupefatto ed edificato della buona maniera dei
cittadini verso la gente di campagna; ma non sapeva che era un giorno fuor
dell’ordinario, in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti.
Pane e farina per terra. – Renzo fece la strada che
gli era stata insegnata e si trovò a Porta Orientale. La strada era deserta,
di modo che, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran
movimento, gli sarebbe parso di entrare in una città disabitata. Andando
avanti, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve, e,
chinandosi su una di quelle, trovò che era farina. Dopo pochi passi, ai piedi
della colonna di san Dionigi, vide qualcosa di più strano, cioè alcuni piani
tondi e bianchissimi, di quelli che egli era solito mangiare nelle solennità.
Si chinò, ne raccolse uno e se lo mise in tasca, ne prese un secondo e se lo
mise nell’altra, un terzo e cominciò a mangiare, desideroso di chiarire che
storia fosse quella. Si era appena mosso, che vide spuntare un uomo, una
donna, e, qualche passo indietro, un ragazzetto: tutti e tre con un carico
addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutti e tre infarinati nei
panni e stravolti e accesi nei visi. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un
gran sacco di farina, che bucato qua e là, ne seminava un poco ad ogni
tratto. La donna, che sembrava avesse un pancione smisurato, tenuto a fatica
da due braccia piegate, come una pentolaccia a due manichi, teneva per il
lembo la sottana, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di
più, in modo che, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il
ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pane,
ma, avendo le gambe più corte dei suoi genitori, rimaneva a poco a poco più
indietro, e, allungando poi il passo per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio
e qualche pane cadeva, provocando le irose minacce della madre.
Renzo, da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva,
cominciò a capire che era arrivato in una città sollevata.
Renzo giunge al convento. – Appena giunto al
convento, chiese del padre Bonaventura; ma il portinaio gli rispose che il
frate non era al convento e che poteva aspettarlo in chiesa. Il giovane fece
pochi passi verso la chiesa, ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al
tumulto e si mosse verso l’interno della città, dove il brulichio era più
folto e più rumoroso.
CAPITOLO XII
La carestia a Milano. – Era quello il secondo anno di
raccolta scarsa. La contrarietà delle stagioni e il guasto e lo sperperio
della guerra per la successione di Mantova e per il possesso del Monferrato
avevano subito fatto sentire la carestia, e con la carestia il rincaro. Ma,
con suole avvenire, quando il rincaro oltrepassò un certo segno, la
moltitudine credette che esso non fosse prodotto dalla scarsezza del grano, ma
dagli incettatori e dai fornai che lo tenevano nascosto, e cominciò a
chiedere provvedimenti e rimedi. E poiché i provvedimenti di questo mondo,
per quanto siano gagliardi, non hanno la virtù di diminuire il bisogno del
cibo, né di far venire derrate fuor di stagione, così il male durava e
cresceva.
Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de
Cordova, che comandava l’assedio di Casale nel Monferrato, faceva le sue
veci in Milano il gran cancelliere Antimonio Ferrier, pure spagnolo. Egli
fissò il prezzo del pane, che sarebbe stato equo se il grano si fosse venduto
a trentatré lire il moggio, mentre si vendeva pure a ottanta. Fece come una
donna stata giovane, che pensasse di ringiovanire alterando la sua fede di
battesimo.
La moltitudine, vedendo convertito in legge il suo
desiderio, accorse subito ai forni a chiedere pane al prezzo tassato; e
sebbene i forni facessero vedere ai magistrati l’iniquità del carico
imposto lor, Ferrer rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente don
Gonzalo, conosciuta la necessità di un più equo prezzo, nominò una giunta,
che deliberò di rincarare il pane. I fornai respirarono, ma il popolo montò
su tutte le furie.
I primi tumulti. – La sera avanti il giorno in cui
Renzo arrivò a Milano, le strade e le piazze brulicavano di uomini, che,
trasportati da una rabbia comune, si riunivano in crocchi. Ogni discorso
accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come colui che l’aveva
proferito. Tra essi ve n’erano alcuni, che s’adoperavano per intorbidare
le acque, con quei ragionamenti e con quelle storie che i furbi sanno
comporre. Migliaia di uomini andavano a letto con il sentimento indeterminato
che qualche cosa bisognava fare e che qualche cosa si farebbe.
Avanti giorno le strade erano ancora sparse di crocchi: non
mancava altro che un’occasione qualunque per ridurre le parole ai fatti, e
non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe dei fornai i
garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarle alle solite
case. Il primo comparire di uno di quei malcapitati fu il segnale della
rivolta. Il ragazzo fu fatto fermare e la gerla gli fu svuotata in un baleno.
Coloro a cui non era toccato nulla, si mossero in cerca di altre gerle: quante
incontrate, tante svaligiate. Ma coloro che rimanevano a denti secchi, e
quelli che non erano rimasti soddisfatti di prede così piccole, cominciarono
a gridare: «Al forno! al forno!».
L’assalto al forno delle grucce. – Tutta la gente
si avviò allora al forno delle grucce, nella strada chiamata la Corsia dei
Servi. Quelli della bottega chiusero in fretta e puntellarono i battenti,
mentre la gente cominciava a gridare: «Pane! pane! aprite! aprite!». Pochi
momenti dopo arrivò il capitano di giustizia con una scorta di alabardieri,
che, dopo essersi fatto largo attraverso la folla, riuscirono a farsi aprire
da quelli di dentro e ad entrare nella bottega. Il capitano salì di corsa le
scale e, affacciatosi ad una finestra, esortò la folla ad andare a casa, ma,
mentre faceva il suo discorsetto a quei buoni figlioli, una pietra, uscita
dalle mani di uno di essi, colpì la fronte del capitano, sulla protuberanza
sinistra della profondità metafisica, costringendolo a ritirarsi.
Frattanto la folla, con pietre e con ferri, riuscì a
sfondare la porta e a svellere le inferriate, mentre i padroni e i garzoni
della bottega, che erano alle finestre dei piani di sopra, cominciarono a
gettare pietre sugli assalitori. Neppure una ne cadeva in fallo, poiché la
calca era tale che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe
andato in terra. Più d’uno fu conciato male e due ragazzi vi rimasero
morti.
Il furore accrebbe allora la forza della moltitudine: la
porta fu sfondata, l’inferriate divelte, e il torrente penetrò per tutti i
varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il
capitano, gli alabardieri e alcuni della casa si rannicchiarono nei cantucci;
altri, uscendo per gli abbaini, andarono su per i tetti come i gatti. I
vincitori si slanciarono ai cassoni: tutto fu messo a ruba, il pane, il denaro
del banco, i sacchi di farina, e perfino la pasta che vi era nella madia.
Mentre questo forno veniva così messo sottosopra, anche
gli altri della città correvano lo stesso pericolo; ma in alcuni i padroni
riuscirono a stare sulle difese, in altri distribuirono il pane gratuitamente,
mentre gli alabardieri e la sbirraglia tenevano in rispetto i tumultuanti.
Renzo davanti al forno delle grucce e in piazza del Duomo.
– A questo punto erano le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato
il suo pane, si avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto.
Mentre procedeva, prestava orecchio ai discorsi svariati e confusi della
gente, particolarmente contro il vicario di provvisione, giudicato l’autore
di tutti quei mali. Arrivò finalmente davanti al forno delle grucce, e,
contemplando quel brutto e recente soqquadro, disse tra sé: «Questa poi non
è una bella cosa… se concian così tutti i forni, dove voglion fare il
pane? Né pozzi?». Poi, vedendo che alcuni si allontanavano con un pezzo di
cassone o di madia o di frullone od altro, e s’incamminavano dalla stessa
parte, come a un luogo convenuto, andò dietro ad uno che portava un fascio d’asse
spezzate e di schegge in ispalla, e giunse in piazza del Duomo, dove, fra un
cerchio di folla schiamazzante, ardeva un mucchio di brace, che veniva
alimentato dagli attrezzi detti di sopra.
Renzo in piazza Cordusio. – Quando finì la fiamma e
la gente cominciava ad annoiarsi, si sparse la voce che al Cordusio, una
piazzetta non molto distante, si era messo l’assedio ad un forno. Tutti
cominciarono ad avviarsi in quella direzione, mentre Renzo teneva consiglio in
cuor suo, se dovesse uscir dal baccano e ritornare al convento, o andare a
vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità, ma risolvette di
non cacciarsi nel fitto della mischia a farsi ammaccare le ossa, ma di tenersi
in disparte ad osservare. Giunto al Cordusio, vide alcuni che se ne stavano a
qualche distanza dalla bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente
armata, in atto di star pronta a difendersi. Quella vista produsse un ronzio
confuso di opposti pareri. Ad un tratto scoppiò in mezzo alla folla una
maledetta voce: «C’è qui vicino la casa del vicario di provvisione:
andiamo a far giustizia e a dare il sacco»; e la folla, al grido «Dal
vicario! dal vicario!», si mosse tutta insieme verso la strada, dove era la
casa nominata.
CAPITOLO XIII
Il vicario di provvisione in soffitta. – Lo
sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato, e
attendeva con gran sospensione come avesse a finire quella burrasca, lontano
però dal sospettare che dovesse cadere così spaventosamente addosso a lui.
Qualche galantuomo percorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che
gli sovrastava, appena in tempo per chiudere porte e finestre. Il meschino,
udendo la folla che lo chiamava tiranno e affamatore, e che lo voleva vivo o
morto, girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a
palma, raccomandando a Dio e ai suoi servitori, che tenessero fermo, che
trovassero la maniera di farlo scappare. Salì infine in soffitta, e, vedendo
da un pertugio la strada zeppa di furibondi, andò a rannicchiarsi nel più
sicuro e riposto nascondiglio.
Renzo nel forte del tumulto. – Renzo questa volta, si
trovava nel forte del tumulto, non già perché vi fosse portato dalla piena,
ma perché vi si era cacciato deliberatamente, col proposito di assecondare
coloro che volevano salvare il vicario. Egli si era spinto fin quasi alla
porta del palazzo, che i più scalmanati cercavano in ogni modo di abbattere,
mentre altri, perfino con le unghie, scalcinavano e sgretolavano il muro per
aprirsi una breccia.
Il comandate del castello, avvertito di quel che accadeva,
mandò un ufficiale ed alcuni soldati, ma essi arrivarono quando la casa era
già cinta di vasto assedio, e fecero alto lontano da quella, all’estremità
della folla. L’ufficiale non sapeva che partito prendere, e, poiché la sua
irresolutezza parve, a diritto o a torto, paura, la gente non badò neppure ad
essi, o, se era un po’ lontano, li provocava con visacci e grida di scherno.
Il vecchio mal vissuto e l’indignazione di Renzo. – Spiccava
tra gli altri un vecchio mal vissuto, che, con un sorriso di compiacenza
diabolica, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, coi
quali diceva di voler attaccare il vicario ad un battente della sua porta,
dopo che fosse ammazzato. Renzo, a tale vista, non poté trattenere un grido
di protesta e di orrore; ma ciò bastò perché fosse scambiato per un
servitore del vicario, e perfino il vicario stesso, travestito da contadino. E
se la sarebbe vista brutta, se alcuni vicini non l’avessero preso in mezzo,
cercando di confondere con alte e diverse grida quelle voci nemiche ed
omicide; e soprattutto se non fosse giunta una lunga scala a mano, che alcuni
volevano appoggiare alla casa per entrarvi da una finestra, e che, picchiando
su spalle, braccia, costole, avanzava balzelloni, scompigliando la folla.
Renzo approfittò della confusione per allontanarsi da quel luogo, dove non c’era
buona aria per lui, con l’intenzione di uscire dal tumulto e di andare
davvero a trovare il padre Bonaventura.
L’arrivo di Antonio Ferrer. – Tutt’a un tratto un
movimento si propagò per la folla, una voce si sparse: «Ferrer! Ferrer!».
Infatti all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove
stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran
cancelliere, il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza di esser stato
coi suoi spropositi la causa, o almeno l’occasione, di quella sommossa,
veniva ora a cercar d’acquietarla, spendendo bene una popolarità mal
acquistata. L’uomo era gradito alla moltitudine per quella tariffa di sua
invenzione, così favorevole ai compratori, e per quel sue eroico star duro
contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor
più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio, che, senza guardie, veniva
ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa; e faceva poi un effetto
mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario.
I partigiani di Ferrer lo secondavano in cento maniere:
quelli che si trovavano vicino a lui, eccitando e rieccitando col loro il
pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il
passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le
sue parole, o quelle che a loro parevano le migliori che potesse dire, dando
sulla voce ai più furiosi e più ostinati.
Renzo partigiano di Ferrer. – Renzo, rammentandosi
del vidit Ferrer, che il dottor Azzecca-garbugli gli aveva gridato all’orecchio,
chiese a un vicino se quello era quel Ferrer che aiutava a far le gride, e,
avendo avuto risposta affermativa, riuscì, con certe sue spinte e gomitate da
alpigiano, a farsi largo e ad arrivare in prima fila, proprio di fianco alla
carrozza.
Ferrer promette di condurre in prigione il vicario. – Il
vecchio Ferrer presentava or all’uno, ora all’altro sportello, un viso
tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in
serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto
a spenderlo anche in questa occasione. Parlava e si aiutava anche coi gesti,
ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le
mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in
ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole o movendole
lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di silenzio.
Prometteva inoltre pane ed abbondanza, e asseriva di esser venuto per condurre
in prigione il vicario, per dargli il giusto castigo, soggiungendo sottovoce:
«si es culpable». Chinandosi poi verso il cocchiere, gli diceva in
fretta: «adelante, Pedro, si puedes». Il cocchiere sorrideva anche
lui alla moltitudine, e dimenando adagio adagio la frusta, a destra e a
sinistra, con una grazia ineffabile, chiedeva ai vicini un po’ di luogo per
poter passare.
Renzo fa far largo alla carrozza di Ferrer. – Renzo,
dopo esser stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza,
mise da parte ogni pensiero di andarsene, e si risolvette di aiutare Ferrer,
unendosi a coloro che cercavano di ottenere un po’ di largo. Ferrer, in
mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi
particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che
vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo,
al quale parve quasi di aver fatto amicizia con il gran cancelliere.
Ferrer giunge alla casa del vicario. – Tra le
incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che veniva
subito soffocato, alla fine Ferrer arrivò alla casa. Egli mise un gran
respiro, quando vide la porta ancor chiusa, ma con i gangheri quasi
sconficcati. Uscì dalla carrozza, si fermò un momento su predellino, diede
un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un
pulpito, e, messa la mano sinistra al petto, gridò: «Pane e giustizia», e
franto, diritto, togato, scese in terra, tra le acclamazioni che andavano alle
stelle.
Intanto quelli di dentro avevano aperto, allargando lo
spiraglio appena quanto bastava per far entrare il desideratissimo ospite; e,
appena questi fu entrato, riaccostarono i battenti e li riappuntellarono alla
meglio.
Ferrer porta via il vicario nella sua carrozza. – Il
vicario scendeva le scale, appoggiandosi ai suoi servitori, bianco come un
panno lavato; ma quando vide il suo salvatore, mise in gran respiro, gli
tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore
sulle gote, e corse come poté verso Ferrer, dicendogli che era nelle mani di
Dio e in quelle di lui, e che non sapeva come avrebbe potuto uscire di lì,
dove vi era ovunque gente che lo voleva morto.
Ferrer, dopo avergli fatto coraggio, uscì il primo, il
vicario dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come
un bambino alla sottana della mamma. Il vicario entrò primo nella carrozza e
vi si rimpiattò in un angolo; Ferrer salì dopo: la moltitudine vide in
confuso, riseppe, indovinò quello che era accaduto, e mandò un urlo d’applausi
e d’imprecazioni.
Ferrer, durante tutto il cammino di ritorno, riprese il
discorso col suo mutevole uditorio, interrompendolo però ogni tanto con
qualche parola spagnola, che in fretta si voltava a bisbigliare all’orecchio
del suo acquattato compagno. «Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in
prigione, sotto la mia guardia. Un castigo severo. Esto lo digo por su bien».
Già erano vicini a uscire al largo, quando Ferrer vide
quei soldati spagnoli, che non gli avevano portato nessun aiuto, ma che non
erano stati affatto inutili, giacché, sostenuti e diretti da qualche
cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente e a tenere il
passo libero all’ultima uscita. Essi presentarono le armi al gran
cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra e a sinistra; e all’ufficiale,
che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un
cenno della destra: «Beso a usted las manos», parole che l’ufficiale
intese per quel che volevano dire realmente, cioè «Mi avete dato un bell’aiuto!».
Il cocchiere, nel passare tra quelle due ali di soldati, si
riebbe dallo sbalordimento, si rammentò chi era e chi conduceva, e gridando:
«Ohè! ohè!» alla gente ormai rada, sferzò i cavalli e fece loro prender
la rincorsa verso il castello.
Il vicario dichiara di voler dimettersi. – Il
vicario, rassicurato da Ferrer, che gli diceva: «Su, su siamo già fuori»,
dal cessar delle grida e dal rapido moto della carrozza, cominciò a render
grazie, grazie e grazie al suo salvatore; ma manifestò il fermo proposito di
rassegnare la sua carica e di ritirarsi a vivere in una grotta, su una
montagna a far l’eremita, lontano da quella gente bestiale. Che avvenisse
poi di questo proponimento, la storia non lo dice.
CAPITOLO XIV
La folla si disperde. – La folle rimasta indietro
cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per
quella strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi, come
quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa e gira per l’azzurro del cielo
dopo una burrasca, e fa dire a chi guarda in su che questo tempo non si è
rimesso bene.
Renzo capita in un crocchio e dice la sua. – Intanto
si faceva notte e molti tornavano a casa. Renzo, dopo aver aiutato il
passaggio della carrozza di Ferrer, uscì anch’egli dalla folla, alla prima
cantonata, per respirare un po’ liberamente; e sentendo un gran bisogno di
mangiare e di riposarsi, cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra,
cercando un’insegna d’osteria, giacché per andare al convento dei
cappuccini era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò
a ridosso di un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevano di
congetture, di disegni per il giorno seguente. Dopo esser stato un momento a
sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua. E persuaso, per tutto
ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandar ad effetto una
cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade,
tenne tutto un discorso a modo suo, dicendo che non si facevano solamente
bricconerie nell’affare del pane, ma che bisognava mettere rimedio a molte
altre scelleratezze, affinché in mondo andasse un po’ più da cristiani.
Aggiunse, che, quel che è peggio, le gride vi erano per castigare i
prepotenti, ma i dottori non facevano giustizia ai poveri; e, perciò,
bisognava andare il giorno dopo da Ferrer, che era un galantuomo, un signore
alla mano, e dirgli come stavan le cose: Egli, per parte sua, gliene avrebbe
potuto raccontar delle belle, poiché aveva visto coi suoi occhi una grida col
nome di Ferrer, che diceva cose giuste, e un dottore, al quale si era rivolto
per farsi render giustizia, sembrava che ascoltasse delle pazzie. Renzo parlò
tanto di cuore, che gli uditori applaudirono, e fu fissato che il giorno dopo
si sarebbero ritrovati tutti insieme in piazza del Duomo per fare qualcosa.
Un birro travestito si offre come guida a Renzo. – Renzo
chiese chi di quei bravi signori volesse indicargli un’osteria per mangiar
un boccone e per dormire, e subito gli si offerse come guida un tale, che
aveva ascoltato attentamente il discorso, ma non aveva detto ancor nulla. La
radutana si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mano, s’avviò con lo
sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia. Durante il cammino lo
sconosciuto, che era un birro travestito, fece a Renzo, in aria di discorso,
ora una, ora un’altra domanda, e, in tal modo, venne a sapere che egli
veniva da Lecco. E forse lo avrebbe condotto direttamente in carcere, se il
giovane, vista un’insegna d’osteria, non si fosse rifiutato d’andar più
lontano.
All’osteria della luna piena. – Renzo con la sua
guida entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna
piena. Trovarono all’interno molta gente, che era seduta su due panche, di
qua e di là di una tavola stretta e lunga, e che faceva un gran chiasso. L’oste
era a sedere su una panca, sotto la cappa del camino, occupato in apparenza a
tracciare con le molle certe figure nella cenere, ma in realtà intento a
tutto ciò che accadeva intorno a lui. Quando i due entrarono, andò loro
incontro, e, visto che ebbe la guida, disse tra sé: «maledetto!…… che tu
m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!»; poi, data un’occhiata
a Renzo, disse ancora tra sé: «non ti conosco: ma venendo con un tal
cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti
conoscerò».
Renzo rifiuta di dare le proprie generalità. – Renzo
ordinò un buon fiasco di vino sincero e un boccone, dicendo ad alta voce e
ridendo che al pane ci aveva pensato la Provvidenza. E tirato fuori il terzo
ed ultimo di quei pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per
aria, gridando «ecco il pane della Provvidenza!», ma soggiungendo
candidamente, tra le sghignazzate dei presenti, ben lontani dal prestargli
fede, che non l’aveva come si suol dire, sgraffignato, e che, se avesse
potuto trovare il padrone, sarebbe stato pronto a pagarlo.
La guida disse poi all’oste che il giovane voleva
dormire, e quello ritornò con carta, penna e calamaio, e invitò il
forestiero a dare le proprie generalità; ma Renzo, vuotato un terzo
bicchiere, non volle assolutamente saperne. L’oste tirò allora fuori la
grida, ma Renzo cominciò a imprecare contro quella faccia di ariano con la
corda al collo (lo stemma del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova,
recante un moro incatenato per la gola), che non aveva fatto andare in galera,
il signor don…, soggiungendo che egli non aveva nessuna intenzione di dire i
fatti suoi. L’oste, dato uno sguardo d’intesa allo sconosciuto, ritornò a
sedere sotto la cappa del camino, pensando tra sé, mentre istoriava di nuovo
la cenere: «Altro che lepre! E in che mani sei capitato! Pezzo d’asino!».
Renzo si lascia scappare il proprio nome e cognome. – Renzo
intanto continuava a bere, diventando sempre più allegro e più loquace, e
facendo un gran discorrere di carta, penna e calamaio. La guida, che non
vedeva l’ora di andarsene, riattaccò allora il discorso del pane, tirando
fuori un suo progetto di tesseramento, che avrebbe dovuto assicurare il pane
per tutti, tanto per i poveri che per i ricchi. Egli riuscì in tal modo a
farsi dire da Renzo il nome e il cognome («A me, per esempio, dovrebbero
rilasciare un biglietto in festa forma: Ambrogio Fusella, di professione
spadaio, con moglie e quattro figliuoli. A voi dovrebbero fare un biglietto
per… il vostro nome?»); e subito dopo, data la buona notte, se ne andò,
mentre Renzo avrebbe voluto che si fosse fermato a bere un altro gocciolino,
e, acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte per farlo sedere di
nuovo.
Renzo ubriaco. – Renzo riprese a bere, finché,
essendo ormai ubriaco, vino e parole continuarono ad andare, l’uno in giù e
le altre in su, senza misura né regola. Un poco se la prendeva con l’oste
per quel tiro del nome e cognome, un po’ coi signori delle gride e con quel
cane assassino di don…; poi accennò al tentativo di matrimonio con quel
maledetto ton ton e col signor curato… Infine la mente corse a Lucia,
abbassò la testa, e stette qualche tempo come assorto in un pensiero; poi
mise un sospiro e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un
certo accoramento così svenevole e sguaiato, che guai se chi n’era l’oggetto
avesse potuto vederlo un momento.
Egli divenne lo zimbello della brigata; ma per buona sorte,
in quel vaneggiamento, gli era rimasta come un’attenzione istintiva a
scansare i nomi delle persone, di modo che anche quello, che doveva essere
più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito.
CAPITOLO XV
Renzo va a letto. – L’oste, vedendo che il gioco
andava in lungo, si accostò a Renzo, e, dopo molti sforzi, riuscì a
trascinarlo nella camera che gli aveva destinata. Mentre l’aiutava a
svestirsi, volle fare un altro tentativo per farsi dire il nome e il cognome,
ma inutilmente. Quando Renzo si fu levato il farsetto, l’oste l’agguantò
subito e, accortosi che vi era il morto, mettendo in opera tutta la sua
pratica e tutta la sua pazienza, gli riuscì di fare il conto e di pagarsi.
Poi gli stese la coperta addosso, gli disse sgarbatamente «buona notte»,
uscì dalla camera e chiuse l’uscio a chiave.
L’oste si reca al palazzo di giustizia. – Quindi,
dopo aver dato alla moglie alcuni avvertimenti sul modo di comportarsi con gli
avventori, uscì per recarsi al palazzo di giustizia, brontolando e imprecando
contro quel testardo d’un montanaro, quel pezzo d’asino, che, per aver
visto un po’ di gente in giro a far baccano, si era cacciato in mente che il
mondo avesse a mutarsi, e, su questo bel fondamento, aveva rovinato se stesso
e voleva rovinare anche lui. Anch’egli sapeva che vi erano delle gride che
non contavano nulla, ma quelle contro gli osti avevano pieno valore, e, se un
povero oste non avesse domandato il nome dell’avventore, avrebbe dovuto
pagare una pena di trecento scudi, o in caso di impossibilità, cinque di
galera….
Al palazzo di giustizia, come in tutti gli altri uffici, c’era
un gran da fare, perché si attendeva a dare gli ordini che sembravano i più
adatti per sedare i tumulti che si prevedevano per il giorno seguente. Si
ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedirono
staffette ai paesi vicini, con ordini di mandar grano alla città; e nello
stesso tempo, per rendere più efficaci i consigli con un po’ di spavento,
si pensò anche a metter le mani addosso a qualche sedizioso. Il capitano di
giustizia, che, dopo l’assalto al forno delle grucce, portava una pezzetta d’acqua
vulneraria su uno degli organi della profondità metafisica, aveva fin dal
principio del tumulto messo in campo i suoi uomini, come quel sedicente
Ambrogio Fusella, che, come s’è visto, aveva tentato il colpo maestro di
condurre Renzo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della
città, e, sebbene il colpo gli fosse fallito, era riuscito tuttavia a portar
ai suoi superiori il nome, il cognome e la patria del giovane.
Quando l’oste si presentò a un notaio criminale per fare
la sua deposizione, rimase meravigliato nell’apprendere che la polizia ne
sapeva già più di lui. Egli dovette subire molti rimproveri per quanto era
avvenuto nella sua osteria e l’intimazione di non lasciarsi sfuggire il
forestiero.
Renzo svegliato dalla polizia. – Allo spuntar del
giorno, Renzo russava da circa sette ore, ed era ancora sul più bello, quando
due forti scosse alle braccia ed una voce che gridava: «Lorenzo Tramaglino!»,
lo fece riscuotere. Aperti gli occhi a stento, vide appiè del letto un uomo
vestito di nero (il notaio criminale che aveva ricevuto la denunzia) e due
armati, uno di qua e uno di là del capezzale. Il suo primo moto fu di
sorpresa e di rivolta, ma poi, vedendo che i birri gli mettevano le mani
addosso per tirarlo fuori dal letto, cominciò a vestirsi. Mentre si vestiva,
diceva che non voleva andare dal capitano di giustizia, perché non aveva a
far nulla con lui, ma che voleva esser condotto da Ferrer, perché galantuomo
e perché gli aveva delle obbligazioni. Il notaio, che udiva un crescente
ronzio che veniva dalla strada, e che perciò desiderava spicciarsi, diceva
sempre di sì. Ma anche Renzo si accorgeva del ronzio che proveniva dalla
strada, e, guardando in viso il notaio, vi scorgeva in pelle la titubazione
che costui si sforzava invano di tener nascosta.
Ad un tratto si sentì dalla strada un rumore
straordinario. Il notaio non poté trattenersi dall’aprire l’impannata per
dare un’occhiatina. Vide che era un crocchio di cittadini, i quali,
all'intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevano in
principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavano continuando
a brontolare. Chiuse l’impannata e stette un momentino in forse, se dovesse
condurre a termine l’impresa, o lasciar Renzo in guardia dei due birri e
correr dal capitano di giustizia per render conto di ciò che accadeva. Ma
decise di eseguire gli ordini per non passare per un buono a nulla o un
pusillanime.
Quando Renzo era ormai tutto vestito, si accorse che dal
farsetto mancavano i denari e la lettera di padre Cristoforo; e, rivolgesi al
notaio con un volto molto significativo, se li fece restituire.
I birri mettono i manichini a Renzo. – Quando giunto
in cucina, i birri, ad un cenno del notaio, afferrarono l’uno la destra e l’altro
la sinistra di Renzo, e in fretta in fretta gli legarono i polsi con certi
ordigni, che, per un’ipocrita figura d’eufemismo, erano detti manichini
(=cordicella sparsa di nodi, che aveva all’estremità pezzetti di legno). Il
giovane cercò di svincolarsi, ma il notaio lo esortò ad avere pazienza, a
procedere diritto per la strada senza farsi scorgere, in modo da conservare il
proprio onore; poi, volgendosi ai birri, raccomandò loro di non fargli male,
di andare come tre galantuomini che vanno a spasso.
Renzo riesce a sfuggire ai birri. – Appena furono in
istrada, Renzo cominciò a girar gli occhi di qua e di là, a sporgersi con la
persona a destra e a sinistra, a tender gli orecchi, sebbene il notaio gli
sussurrasse: «Giudizio, giudizio! il vostro onore; l’onore, figliuolo».
Quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con
visi accesi, sentì che parlavano d’un forno, di farina nascosta, di
giustizia, cominciò a fare anche ad essi dei cenni col viso e a tossire in
quel modo che indica tutt’altro che un raffreddore. Quelli guardarono più
attentamente la comitiva e si fermarono; con loro si fermarono altri che
arrivavano. Il notaio esortò Renzo ad aver giudizio, a badare all’onore, ma
il giovane faceva peggio, e i birri, pensando di far bene, gli diedero una
stretta di manichini. Renzo cominciò allora a gridare per il dolore; la gente
si affollò intorno; il notaio cercò di far credere che si trattasse di un
malvivente, di un ladro colto sul fatto, ma Renzo, visto il bel momento, alzò
la voce, gridando che era stato arrestato per aver gridato pane e giustizia, e
la folle si mise ad incalzare e a pigiare sempre più. I birri, vista la mala
parata, lasciarono i manichini, preoccupandosi soltanto di perdersi nella
folla; il notaio, che avrebbe desiderato di fare lo stesso, ma che non poteva
a causa della cappa nera, fu circondato da ogni parte, e tra grida di
«Corvaccio! corvaccio!» e urtoni d’ogni genere, riuscì a stento a trarsi
fuori da quel serra serra.
CAPITOLO XVI
Renzo in fuga verso Bergamo. – La folla da ogni parte
gridò a Renzo di scappare, di rifugiarsi in un convento o in una chiesa; ma
Renzo, in quanto allo scappare, non aveva bisogno di consigli; in quanto al
convento e alla chiesa, aveva deciso di andare, senza fermarsi, finché non
fosse fuori non solo dalla città, ma dal ducato, perché – pensava –
finche posso esser uccel di bosco, non voglio diventare uccel di gabbia. Aveva
perciò disegnato di trovare rifugio in quel paese del territorio di Bergamo,
dov’era accasato suo cugino Bortolo, che più volte l’aveva invitato ad
andar là.
Dopo aver chiesto ad una persona, che gli ispirò fiducia,
la strada per andare a Bergamo, attraversò la piazza del Duomo, rivide il
forno delle grucce, arrivò al convento dei cappuccini, e sospirando disse tra
sé che il consiglio di stare in chiesa ad aspettare il padre Bonaventura era
stato buono.
Giunto alla Porta Orientale, vide un mucchio di gabellieri,
rinforzati da soldati spagnoli; ma stavano tutti attenti a non lasciar entrare
la gente del contado, così che Renzo poté uscire senza che nessuno gli
dicesse nulla, sebbene il cuore gli battesse forte. Vedendo a diritta una
viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra, e camminò un pezzo
prima di voltarsi indietro. Trovava cascine e villaggi, ma tirava innanzi
senza domandarne il nome: era certo di allontanarsi da Milano, sperava di
andar verso Bergamo, e questo per il momento gli bastava.
Intanto cercava di raccapezzare le cose dette e fatte la
sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e
soprattutto come la polizia avesse potuto conoscere il suo nome. I suoi
sospetti cadevano naturalmente sulla guida sconosciuta, alla quale si
rammentava bene d’averlo spiattellato.
Renzo si tiene lontano dalla via maestra. – Dopo aver
camminato un pezzo alla ventura, risolvette di chiedere la strada, come aveva
fatto in Milano, al primo viandante la cui fisionomia gli andasse a genio.
Costui gli rispose che era fuor di strada e gli indicò quella giusta; ma
Renzo, per non battere la via maestra, procedette a zig-zag, così che, dopo
forse dodici miglia, si trovava distante da Milano non più di sei, e, in
quanto a Bergamo, era molto se non se ne era allontanato.
Gli venne allora in mente di scovare, con qualche astuzia,
il nome di qualche paese vicino al confine, al quale si potesse andare per
strade comunali; e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza
seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di
fuga, di sfratto, di criminale.
Entra in una piccola osteria. – Strada facendo, vide
pendere una frasca da una cosuccia solitaria, fuori di un paesello, e poiché
sentiva crescere il bisogno di ristorare le sue forze, vi entrò e chiese un
boccone. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco e col fuso in
mano, la quale gli offrì un po’ di stracchino e del buon vino, che gli era
venuto in odio per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti. La
vecchia tempestò il suo ospite di domande sui gran fatti di Milano; ma Renzo
non solo seppe schermirsi dalle domande, ma le chiese come si chiamasse quel
paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però
nello Stato di Milano. La vecchia gli rispose che il paese richiesto non
poteva essere che Gorgonzola.
Entra nell’osteria di Gorgonzola. – Col nome di
Gorgonzola sulle labbra, di paese in paese, vi arrivò un’ora prima di sera,
col proposito di farvi un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più
sostanzioso e per informarsi della distanza dell’Adda e di qualche traversa
che portasse fin là. Fatti alcuni passi, vide un’insegna, entrò; e all’oste,
che gli venne incontro, chiese un boccone e una mezzetta di vino: le miglia di
più e il tempo gli avevano fatto passare quell’odio così estremo e
fanatico. C’erano in quella stanza alcuni sfaccendati, i quali, dopo aver
discusse e commentate le grandi notizie di Milano del giorno avanti, si
struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno. Uno di
essi si accostò a Renzo e gli domandò se veniva da Milano, ma il giovane
rispose asciutto asciutto che veniva da Liscate, cioè da uno dei paesi che
aveva attraversato per giungere a Gorgonzola. Quando poi l’oste venne a
mettere in tavola, gli domandò quanto distasse l’Adda e quali fossero i
luoghi dove poter passare; ma l’oste, dopo avergli detto che il fiume era
lontano circa sei miglia, gli ficcò in viso due occhi pieni di una curiosità
così maliziosa, che gli fece morire tra i denti le altre domande che aveva
preparato.
Il mercante di Milano. – Mentre Renzo mangiava e gli
avventori discorrevano dei recenti disordini, giunse a cavallo un mercante di
Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo per i suoi traffici, era
solito passar la notte in quell’osteria. Tutti gli si affollarono intorno,
chiedendo notizie di Milano; ed il mercante cominciò a raccontare, con tono
di manifesta ostilità contro i rivoltosi, che in quella stessa mattina si era
fatto un nuovo tentativo di assalire la casa del vicario (un signore dabbene e
puntuale nei pagamenti; ed egli lo poteva dire, che lo serviva di panno per le
livree della servitù!), ma il tentativo era fallito per l’intervento dei
micheletti; che era stato saccheggiato il forno del Cordusio, e che quei
manigoldi vi avrebbero appiccato il fuoco, se un galantuomo del vicinato non
avesse messo ad una finestra un Crocifisso, e se non fossero poi arrivati in
processione i monsignori del duomo ad ammonire che il pane era a buon mercato
e che vi era l’avviso sulle cantonate.
Il mercante aggiunse che molti dei più accesi erano stati
arrestati e che certamente sarebbero stati impiccati: la giustizia aveva anzi
acchiappato uno in un’osteria, che non si sapeva da che parte fosse, né da
chi fosse mandato, né che razza di uomo fosse, ma certo uno dei capi, il
quale, mentre veniva condotto in carcere, era stato liberato dai suoi
compagni, che facevano la ronda intorno all’osteria.
Renzo si rimette in cammino. – A questo punto l’oste,
che era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola,
per vedere cosa faceva quel forestiero. Renzo, a cui quel poco mangiare era
andato in tanto veleno e gli pareva mille anni d’esser fuori da quella
osteria, colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il
conto, lo saldò senza tirare; e, senza fare altri discorsi, andò diritto all’uscio
e s’incamminò dalla parte opposta a quella per cui era venuto.
CAPITOLO XVII
Renzo nella notte verso l’Adda. – Le sciagurate
parole del mercante avevano accresciuto a Renzo le opposte voglie di correre e
di star nascosto. Pensava che chi sa quanti birri erano in campo per dargli la
caccia, ma pensava pure che quelli che lo conoscevano erano due soli, e che il
nome non lo portava scritto in fronte.
Dapprima, sebbene avesse lasciato Gorgonzola che scoccavano
le ventiquattro, e le tenebre diminuissero sempre più i pericoli, prese
contro voglia la via maestra; ma ben presto, quando vide aprirsi una
straducola a mancina, vi entrò. Mentre andava, dialogava nella sua mente col
mercante e immaginava di ricacciargli in gola tutte le spudorate invenzioni.
Dopo qualche tempo la paura di essere inseguito non gli
diede ormai più fastidio, ma quante cose rendevano il viaggio molto più
noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza, e una brezzolina sottile che
non doveva essere affatto piacevole a chi si trovava ancora indosso gli abiti
da sposo; e, soprattutto, quell’andare alla ventura, cercando un luogo di
riposo e di sicurezza.
Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava
adagio adagio, guardando però se ci fosse qualche uscio aperto; ma non vide
mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche
impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto, e stava
in orecchi per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda, ma invano.
Altre voci non sentiva che un mugolio di cani, che veniva da qualche cascina
isolata.
L’Adda. – Arrivò finalmente dove la campagna
coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non
indizio, almeno un certo quel argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per
quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. A poco a poco si trovò tra
macchie più altre, di pruni, di quercioli, di marruche. Andando ancora,
sempre per lo stesso sentiero, s’accorse di entrare in un bosco. Provava un
certo ribrezzo ad inoltrarvisi, ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma
più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava
fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza gli rappresentavano figure
strane, deformi, mostruose; la brezza notturna gli batteva più rigida e
maligna sulla fronte e sulle gote, e penetrava più acuta nelle ossa rotte
dalla stanchezza. A un certo punto si fermò sui due piedi a deliberare se
proseguire il cammino o tornare indietro per la strada già fatta a cercare un
ricovero, anche un’osteria; quando, stando così fermo, sospeso il fruscio
dei piedi nel fogliame, cominciò a sentire un mormorio d’acqua corrente.
Era l’Adda! Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un
salvatore. E non esitò ad internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico
rumore.
Arrivò in pochi momenti all’estremità del piano, sull’orlo
d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie, che tutta la
rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre, e, sull’altra riva, sopra
un colle, una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città,
Bergamo sicuramente. Scese un po’ sul pendio, guardò giù se qualche
barchetta si muovesse nel fiume, ma non vide né sentì nulla.
Renzo dorme in una capanna. – Renzo si mise allora a
consultare tra sé, sul partito da prendere, poiché mancavano circa sei ore
all’aurora. Gli venne in mente di aver veduto, in uno di quei campi più
vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costruite di
tronchi e di rami, dove i contadini del milanese usano l’estate depositare
il raccolto. La disegnò subito per suo albergo; ripassò il bosco, le
macchie, la sodaglia, e vi entrò. Vide per terra un po’ di paglia, e pensò
che anche lì una dormitina sarebbe ben saporita.
Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza
gli aveva preparato, vi si inginocchiò a ringraziarla di quel beneficio e di
tutta l’assistenza che aveva avuta da essa in quella terribile giornata.
Disse poi le sue solite devozioni, e, per di più, chiese perdono a Dio di non
averle dette la sera innanzi; anzi, per dir le sue parole, di essere andato a
dormire come un cane, e peggio.
Appena chiuse gli occhi, cominciò nella sua fantasia una
andare a venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno.
Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la
brigata dell’osteria, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui
Renzo aveva che dire. Tre sole immagini gli si presentarono non accompagnate
da alcuna memoria amara, principalmente una treccia nera ed una barba bianca.
Renzo passa l’Adda. – Quando finalmente il martello
di un orologio vicino, forse quello di Trezzo, ebbe battuto undici tocchi,
cioè erano le cinque, si levò, disse le devozioni del mattino, uscì dalla
capanna e prese il sentiero della sera avanti.
Il cielo prometteva una bella giornata: quel cielo di
Lombardia, così bello quando è bello, così splendido, così in pace. Renzo
giunse sul ciglio della riva, vide una barchetta di pescatore, che veniva
adagio, contr’acqua, e diede una voce leggera al pescatore. Questi, dopo
aver guardato attentamente in giro, drizzò la prora e approdò presso Renzo,
che saltò dentro la barca e pregò l’uomo che lo traghettasse sull’altra
sponda. Poi, vedendo sul fondo della barca un altro remo, cominciò anch’egli
a remare, mentre si accertava che quella macchia biancastra, che aveva veduto
la notte prima, era Bergamo, e che la riva opposta apparteneva alla Repubblica
di Venezia.
Nella Repubblica di Venezia. – Toccata terra, Renzo
scese dalla barca e porse una berlina al pescatore, che, dopo aver dato
nuovamente un’occhiata in giro, se la mise in tasca, augurò il buon viaggio
e tornò indietro. Il giovane, dopo essersi fermato un momentino a contemplare
la riva opposta, rimpiangendo le persone care che era stato costretto a
lasciare, s’incamminò verso il paese dove abitava il cugino Bortolo
Castagneti. Dal primo viandante, a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano
ancora nove miglia da fare.
Verso il paese del cugino Bortolo. – Quel viaggio non
fu lieto, Renzo dovette accorgersi che troverebbe nel paese, in cui s’inoltrava,
la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada incontrava a ogni
passo poveri, che non erano poveri di mestiere, e mostravano la miseria più
nel viso che nel vestiario. Quella vista, oltre la compassione e la
malinconia, lo metteva anche in pensiero dei casi suoi.
Entrò in un’osteria a ristorarsi lo stomaco, e pagato
che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo, che diede in elemosina ad una
famigliola, che accattava presso la porta dell’osteria.
L’incontro con Bortolo. – Arrivato al paese del
cugino, distinse subito una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe
lunghe, e, riconoscendo in essa un filatoio, entrò e chiese del cugino
Bortolo Castagneti. Questi lo accolse con grandi dimostrazioni di affetto, e,
quando apprese da Renzo la sua dolorosa storia, promise di interessarsi presso
il padrone affinché, nonostante la scarsità di lavoro, lo assumesse nell’azienda.
Il padrone gli voleva bene, perché doveva in gran parte a lui la propria
fortuna; ed egli era il primo lavorante, anzi il factotum della filanda.
Bortolo raccomandò infine a Renzo di non offendersi se si
fosse sentito chiamare baggiano, poiché questo appellativo i bergamaschi,
senza intenzione di offesa, chiamavano i milanesi: per essi era come dare dell’illustrissimo
a un cavaliere.
CAPITOLO XVIII
Il mandato di cattura contro Renzo. – Quello stesso
giorno, 13 di novembre, il podestà di Lecco ricevette un dispaccio da Milano,
con l’ordine di arrestare un certo giovane, nominato Lorenzo Tramaglino. Il
podestà, fatto chiamare il console del villaggio, si fece condurre da lui
alla casa del ricercato, con gran treno di notaio e di birri, e poiché la
casa era chiusa, fu sfondato l’uscio e fu fatta una diligente perquisizione,
cioè si fece come in una città presa d’assalto.
La voce di quella spedizione si sparse subito per tutto il
contorno e giunse alle orecchie di padre Cristoforo, il quale, attonito non
meno che afflitto, domandò al terzo e al quarto, per avere qualche lume
intorno alla cagione di un fatto così inaspettato, ma non raccolse altro che
congetture in aria, e sperando di ricevere qualche notizia più precisa,
scrisse al padre Bonaventura. A poco a poco si venne a sapere che Renzo era
scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; ma poiché
Renzo nel paese era conosciuto per un bravo giovane, i più immaginarono che
fosse una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo per rovinare il suo
povero rivale.
Il signorotto, per quanto – come sappiamo – non avesse
avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però come se fosse
stata opera sua, e ne trionfò coi suoi fidati, principalmente col conte
Attilio. Questi che, secondo i suoi primi disegni, avrebbe già dovuto
trovarsi a Milano, quando apprese che la canaglia girava per le strade in tutt’altra
attitudine che di ricevere bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in
campagna; e soltanto quando le cose ripresero il loro corso ordinario, partì
immediatamente per la città, animando il cugino a persistere nell’impresa e
promettendo che avrebbe cercato di sbrigarlo dal frate.
Don Rodrigo apprende dal Griso il rifugio di Lucia. – Appena
partito Attilio, arrivò il Griso da Monza e riferì al suo padrone che Lucia
era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signore, e che
vi stava sempre nascosta, come se fosse anch’essa una monaca, non mettendo
mai piede fuor della porta.
Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o,
per dir meglio, rese più cattivo quello che già ci stava di casa; e
infiammò sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di
rabbia e d’infame capriccio, di cui essa era composta. Un monastero di
Monza, quand’anche non ci fosse stato una principessa, era un osso troppo
duro per i suoi denti; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a
quel ricovero, non sapeva immaginare né via né verso di espugnarlo, né con
la forza, né per insidie.
Don Rodrigo pensa di rivolgersi all’Innominato. – Fu
quasi per abbandonare l’impresa, ma poi, per non aver la baia dagli amici e
dal cugino, e per non darla vinta a un villano e a un frate, gli venne in
mente di chiedere l’aiuto di un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non
arriva la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà
delle imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Questo partito
aveva i suoi inconvenienti e i suoi rischi, ma don Rodrigo non esitò ad
abbracciarlo, quando ricevette una lettera del conte Attilio, che faceva un
gran coraggio e minacciava grandi canzonature e quando apprese che padre
Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico e che Agnese era tornata a
casa, lasciando sola Lucia. Ecco la spiegazione di questi due avvenimenti.
Lucia e Agnese apprendono la notizia della fuga di Renzo.
– Lucia e Agnese si erano appena accomodate- come sappiamo – nel
monastero di Monza, quando si sparse la notizia dei disordini di Milano e
della fuga di Renzo. Ci si può immaginare come rimanessero la madre e la
figlia, finché un giovedì capitò al monastero un pescaiolo di Pescarenico,
che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia, e che
era stato incaricato da padre Cristoforo di avvertire le due donne che Renzo
si era messo in salvo sul bergamasco. Il buon padre aggiungeva parole di
conforto e prometteva che ogni settimana avrebbe fatto loro sapere sue nuove,
per quel mezzo o altrimenti.
Il secondo giovedì tornò quel pescaiolo coi saluti di
padre Cristoforo e con la conferma della fuga felice di Renzo, ma il terzo
giovedì non si vide nessuno, ciò che fu per le povere donne cagione d’inquietudine
e di cento sospetti molesti.
Agnese decide di ritornare al paese. – Allora Agnese,
poiché Lucia non correva nessun pericolo in un asilo così guardato e sacro,
risolvette di fare una scappata a casa; e il giorno seguente, dopo aver atteso
sulla strada il pescaiolo che tornava da Milano, gli chiese per cortesia un
posto sul baroccio e si fece trasportare a Pescarenico. Smontò sulla
piazzetta del convento, e, giacché era lì, volle, prima di andare a casa,
vedere il suo buon padre Cristoforo; ma fra Galdino, quel delle noci, le disse
che il padre era stato mandato a Rimini per predicare. Agnese, a tale notizia,
si era incamminata verso il suo paesetto desolata e confusa, come il povero
cieco che avesse perduto il suo bastone.
Attilio dal conte zio. – Ecco come era andata la
cosa. Il conte Attilio, appena arrivato a Milano, si era recato, come aveva
promesso a don Rodrigo, a far visita al conte zio del Consiglio Segreto, che
era una consulta di tredici personaggi, i quali assistevano il Governatore e
lo sostituivano in caso di morte. Il conte zio, uno degli anziani del
Consiglio, vi godeva un certo credito, ma nel farlo valere, e nel farlo
rendere con gli altri, non c’era il suo compagno, come quelle scatole che si
vedono ancora in qualche bottega di speziale, e con su certe parole arabe, e
dentro non c’è nulla, ma servono a mantenere il credito alla bottega. Tale
credito, che era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, aveva fatto
ultimamente un passo, come si dice, di gigante, per un viaggio a Madrid con
una missione alla corte, dove, per non dir altro, il conte duca l’aveva
trattato con una degnazione particolare, a segno d’avergli una volta
domandato, in presenza si può dire di mezza corte, come gli piacesse Madrid,
e d’avergli un’altra volta dietro a quattr’occhi, nel vano di una
finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli
stati del re.
Il conte Attilio, fatti i suoi complimenti al conte zio,
gli raccontò travisati i fatti di don Rodrigo e di padre Cristoforo, dicendo
che questi aveva preso a proteggere gelosamente una contadinotta e che s’era
cacciato in testa che don Rodrigo avesse dei disegni sulla ragazza, mentre
egli aveva divisato di farla sposare a un cattivo soggetto, nientemeno che a
quel Lorenzo Tramaglino. Aggiunse che il frate andava dicendo, che ci trovava
più gusto a spuntarla con don Rodrigo, perché sapeva che egli era protetto
da uno zio di tanta autorità, e che se la rideva dei grandi e dei politici, e
che il cordone di san Francesco teneva legate anche le spade.
Il conte zio promette di occuparsi della cosa. – Il
conte zio, dopo aver preso nota del nome del frate, e dopo essersi lamentato
che don Rodrigo avesse lasciato andar le cose tanto avanti senza rivolgersi a
lui, promise che si sarebbe occupato della cosa; poi il conte Attilio, dopo
aver insinuato che sarebbe stato opportuno pregare, il padre provinciale di
far cambiare aria al frate, si congedò con grandi scuse e grandi
ringraziamenti. Il conte zio lo salutò con un «e abbiamo giudizio», che era
la formula di commiato per i suoi nipoti.
CAPITOLO XIX
Il conte zio e il padre provinciale. – Il conte zio,
dopo il colloquio col nipote, comprese che tutto quello che si poteva fare
contro padre Cristoforo era di cercar di allontanarlo, e il mezzo a ciò era
il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare o lo stare di
quello.
Ora, tra il conte zio e il padre provinciale passava una
antica conoscenza; s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia
e con esibizioni sperticate di servizi.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a
pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali
assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente dei più titolati,
che col solo contegno riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere ogni
momento l’idea della superiorità e della potenza, e alcuni clienti legati
alla casa, che, cominciando dalla minestra a dir di sì, alle frutta avevano
ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola il conte zio cominciò a parlare del suo famoso
viaggio a Madrid, e dei suoi rapporti con la corte, col conte duca, coi
ministri, con la famiglia del governatore; ma il padre provinciale, a sua
volta, tirò il discorso sul cardinale Barberini, che era cappuccino e
fratello, nientemeno, del papa allora sedente, Urbano VIII.
Poco dopo, alzati da tavola, il conte zio pregò il padre
provinciale di passare con lui in un’altra stanza. Due podestà, due
canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il conte zio, dopo un
preambolo amichevole, tirò il discorso sul padre Cristoforo, che doveva
essere un uomo amico dei contrasti….. e che aveva preso a proteggere un
cattivo soggetto, scappato dalle mani della giustizia, quel tale Lorenzo
Tramaglino…. Si trattava, insomma, di un affare delicato, per il quale
poteva essere fatto dal governo qualche passo a Roma…. Per giunta lo stesso
padre s’era messo a cozzare con suo nipote, don Rodrigo, e ne poteva nascere
uno scandalo, impegnarsi il puntiglio, l’onore del casato…
Il padre provinciale, dal canto suo, tentò difendere padre
Cristoforo, dicendo che, se si era interessato per quel soggetto, non aveva
potuto farlo che a fin di bene, per ridurre un traviato, e che il passato del
padre era una gloria dell’abito, poiché questo lo aveva fatto diventare un
tutt’altro uomo, e che egli avrebbe preso informazioni.
Ma il conte, che non intendeva questa faccenda delle
informazioni, invitò il suo interlocutore, per amor di pace, ad accomodare la
cosa: «Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire».
La conclusione fu che il padre provinciale, approfittando
dell’occasione che gli veniva chiesto un predicatore da Rimini, pensò bene,
in cambio di una vaga dimostrazione di amicizia che don Rodrigo avrebbe fatto
per i cappuccini, di spedire padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini, che è
una bella passeggiata.
Una sera arrivò a Pescarenico un cappuccino di Milano, con
un plico per il padre guardiano, contenente l’obbedienza per padre
Cristoforo. Fu un colpo grave per il nostro frate, che pensò subito a Renzo.
Lucia ed Agnese; ma subito si pentì d’aver mancato di fiducia, di essersi
creduto necessario a qualche cosa. Chinò la testa, prese la sua sporta col
pane del perdono, salutò i confratelli, prese la benedizione del padre
guardiano, e s’incamminò per la strada che gli era stata prescritta.
L’Innominato. – Intanto don Rodrigo, intestato più
che mai di avere nelle sue mani Lucia, si era risoluto – come già è stato
accennato – di cercare l’aiuto di un terribile uomo.
L’anonimo tace studiosamente il nome di costui, ma il
personaggio è storico, e il Ripamonti nella sua Storia Patria ne parla
come di un pauroso appaltatore di delitti. Le sue passioni principali erano
state, in ogni tempo, fare ciò che era vietato dalle leggi, o impedito da una
forza qualunque; esser arbitro e padrone negli affari altrui, senz’altro
interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti; aver la mano da
coloro che erano soliti averla dagli altri.
Aveva in tal modo commesso, per conto suo o per conto d’altri,
tanti delitti, che era stato costretto a uscir dallo Stato; ma era partito a
cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba, e, passando davanti al
palazzo di corte, aveva lasciato alla guardia un’ambasciata di insolenze per
il governatore.
Nell’assenza aveva continuato a mantenere relazioni coi
suoi amici, i quali – secondo le parole del Ripamonti – rimasero uniti a
lui «in lega occulta di consigli atroci e di cose funeste».
Finalmente (non si sa per quali ragioni) era ritornato in
patria, e si era stabilito in un castello confinante col territorio Bergamasco,
che allora era Stato veneto.
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno,
avevano dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia
e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma chi aveva scelto l’inimicizia,
si era ben presto pentito.
Don Rodrigo e l’Innominato. – Anche don Rodrigo, il
cui palazzotto distava dal castello dell’Innominato non più di sette
miglia, aveva dovuto comprendere che, a così poca distanza da un tal
personaggio, non era possibile fare il tiranno senza venire alle prese o andar
d’accordo con lui. Perciò gli si era offerto e gli era divenuto amico, gli
aveva reso più di un servizio (il manoscritto non dice di più), e ne aveva
riportate ogni volta promesse di contraccambio e di aiuto, in qualunque
occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, perché
voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno selvatico: voleva dimorare
liberamente in città; godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita
civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto
parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle
bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o
per farle sparire, o darle anche, in qualche occasione, sulla testa di
qualcheduno.
Una mattina don Rodrigo uscì a cavallo, in tenuta da
caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa e
quattro altri in coda, e s’avviò al castello dell’Innominato.
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