Circolare n° 88
Il Cristianesimo,
la giovinezza dello spirito e
la ‘soddisfazione vicaria’
Primo e Terzo Sentiero
Ci stiamo avvicinando alla Settimana Santa. Riflettiamo sul mistero della sofferenza e di quanto questa costituisca uno specifico non riduttivo ma affascinante della Risposta cristiana

 

Un giorno la superiora chiese a santa Bernadette Soubirous: "Cosa fate a letto, piccola pigrona?" Ella rispose: "Adempio al mio incarico." "Quale?" Chiese ancora la Superiora. "Di esser malata." Rispose la Santa. Per lei, infatti, soffrire era come lavorare, cooperare alla salvezza delle anime.

Dinanzi al mistero della vita e a quello della sofferenza, il cuore dell’uomo si apre ad una domanda fondamentale: c’è la possibilità di rimanere sempre ciò che si è? C’è la possibilità di non veder smarrire la propria attività e i propri desideri? Infatti, il trascorrere del tempo e la precarietà dell’esistere sembrano cospirare ad annullare la definitività dei propri desideri. Il poeta austro-tedesco Rilke (1875-1926) dice in alcuni suoi versi: “E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile.”

Il tempo che trascorre, l’impoverirsi del proprio corpo, le fatiche accumulate non eliminano il desiderio dell’azione. E’ quello che solitamente si chiama “giovinezza dello spirito”. Quante volte s’incontrano delle persone anziane che sono portatrici di un’evidente giovinezza di spirito. La santità -da questo punto di vista- è una garanzia. Il Santo, anche se vecchio, anche se è corporalmente malandato, riesce, per la dimensione della Grazia che inabita in lui, a trasmettere un’energia che anche un giovane irrequieto o iperattivo non riesce a trasmettere. Si tratta dell’energia e della giovinezza della Verità!

Questa possibilità (ovvero di conservare vivo il proprio cuore) trova realizzazione solo nel Cristianesimo. Per almeno due motivi: primo, perché il Cristianesimo è l’unica religione della vita interiore; secondo, perché il Cristianesimo è l’unica religione che rende la sofferenza chiave indispensabile per aprire le porte della salvezza. Approfondiamo.

Primo: perché il Cristianesimo è l’unica religione della vita interiore. Nessun’altra religione poggia tutto sulla Grazia, ovvero sulla possibilità che nell’uomo possa abitare la Vita stessa di Dio e quindi che l’uomo stesso possa partecipare di questa Vita. Ma vi rendete conto? In noi la Vita stessa di Dio, la Vita, cioè, di Colui che è il Signore di tutto, che è più grande dell’universo intero e che non disdegna -anzi desidera- venire ad abitare nella nostra piccolezza e nel nostro essere infimi. Questa inabitazione non è legata allo stato e all’efficienza del corpo.

Secondo: perché il Cristianesimo è l’unica religione che rende la sofferenza chiave indispensabile per aprire le porte della salvezza. Se è un mistero il perché il Signore abbia scelto la sofferenza come “chiave” della salvezza, non è certamente un mistero che sia così. Questo fatto offre al cristiano due opportunità.

La prima è quella di obbligarlo a porsi seriamente ed eroicamente dinanzi al suo esistere. Infatti, convincersi di questo, vuol dire che ci è dato un compito nell’economia della salvezza, che possiamo compartecipare al mistero redentivo di Cristo.

E’ il valore della cosiddetta “soddisfazione vicaria” o “sofferenza vicaria”. Antonio Socci così scrive nel suo libro Il segreto di Padre Pio (Rizzoli 2007) alla pagine 296-297: (…) padre Pio in certi momenti si pose queste domande. In una lettera del 1912 si interrogava su questo sconvolgente mistero della sofferenza vicaria: ‘Delle sofferenze me ne fo una felicità. Gesù stesso vuole le mie sofferenze; ne ha bisogno per le anime. Ma mi domando quale sollievo potrò dargli colle mie sofferenze?! Quale destino! Oh il dolcissimo Gesù a quanta altezza ha sollevato l’anima mia!’ Poi aggiunge: ‘Mi dà da pensare che un Dio si abbassa a mendicare pene da una sì vile creatura (…)’ Questo  -continua Socci- è ciò che in padre Pio sconvolge. Non è solo questione di linguaggio, ma della sostanza. Infatti dopo il Concilio oltre al linguaggio è sembrato che si abbandonasse anche la sostanza della soddisfazione vicaria (non a caso il carattere sacrificale, espiatorio e propiziatorio della Messa è stato messo in ombra). Quei termini urtano. Ho provato anch’io questo choc leggendo alcune espressioni usate da padre Pio che erano consuete nella Chiesa prima del Concilio (per esempio: ‘L’Onnipotente ti vuole in olocausto”). Mi è sembrato insopportabile questo ‘bisogno’ di una vittima, questo Dio irato che esige soddisfazione. E’ terribile, inaccettabile. Eppure questa cosa ‘scandalosa’ è il cuore stesso del cattolicesimo: è il Calvario, la Messa.”

La seconda opportunità che conferisce la necessità della sofferenza è di rassicurare l’uomo nella letizia. Sì: nella letizia! Il grande teologo Garrigou-Lagrange diceva a proposito della sofferenza “Dio ha reso utile la cosa più inutile”.

Dunque offre soluzione al proprio vivere il capire l’utilità di ciò che opprime, di ciò che spaventa, di ciò che crea disagio. Offre, cioè, la possibilità di capire ogni attimo, di renderlo prezioso, utile in un mistero che tocca l’universo intero, anzi che va oltre l’universo intero…interessando Colui che ne è il Signore. Scrive Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio al n.12: “L’Incarnazione del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell’uomo. (…). Al di fuori di questa prospettiva il mistero dell’esistenza personale rimane un enigma insolubile. Dove l’uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell’innocente e della morte, se non nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?”  Ed è per questo che anche un poeta non credente come Cesare Pavese è costretto ad ammettere che si può trovare la pace solo quando la vita combacia con il proprio destino. Egli non riuscì a capire quale fosse questo destino, ma con grande onestà intellettuale scrisse ne Il mestiere di vivere: “La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio strato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace.” 

 

 

 

 

                                                    

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