Capitolo 5

Il riconoscimento


Riesaminare le tappe del processo della formazione del canone è quanto mai stimolante per chiunque (credente o no) soprattutto per capire i criteri adoperati dalle prime comunità. Con ciò non intendo riaprire il dibattito su questo delicato argomento, bensì evidenziare alcuni aspetti e considerarne altri, molto spesso passati inosservati o poco considerati nei manuali d'introduzione al N.T.

Una prima considerazione di fondo la possiamo trarre guardando la posizione geografica delle comunità nascenti sparse un po' dappertutto nell'impero romano: dalla Palestina all'Africa settentrionale, dall'Egitto all'Italia, dalla Grecia (e Macedonia) all'Asia Minore. Nel volgere di pochi decenni la diffusione del cristianesimo toccò confini davvero impensati per quei timorosi "pescatori della Galilea". Si comprende bene perché una lettera di un apostolo diretta a una chiesa dell'Asia Minore, come Colosse, impiegasse parecchio tempo prima di essere conosciuta e accettata da una chiesa in occidente. A ciò si aggiunga la diffidenza generale delle chiese verso "nuovi" scritti dovuta alla circolazione di documenti gnostici e di quelli pseudoepigrafici. Ecco perché, a mio avviso, il riconoscimento fu lento, graduale e diverso da regione a regione.

Un'ulteriore considerazione ci viene dal silenzio sulla questione: fino alla metà del II° secolo non possediamo documenti che provano l'esistenza di un canone fisso. In effetti bisogna dire che gli apostoli, anche quando scrissero, non pensavano di fissare una "nuova scrittura" per le comunità nascenti. La loro preoccupazione fu quella di trasmettere l'annuncio salvifico, di insegnare tutta la verità sul "Figlio di Dio". Tutto ciò che possiamo registrare in questo periodo è l'atteggiamento riservato a quegli scritti che poi saranno universalmente accettati come "canonici". Suddividiamo la nostra indagine ib due periodi:

La testimonianza dei padri apostolici:

1. La "Didachè" (o "Dottrina degli Apostoli"), scritta probabilmente tra il 50 e il 100 d.C., si rifà ai "Comandamenti del Signore" (4, 13) e ha moltissimi insegnamenti di Gesù così come li ritroviamo in Matteo (non è un argomento conclusivo perché l'autore avrebbe potuto citare dalla tradizione orale). Questo autore sembra avvalorare l'autorità di qualche Vangelo (Matteo?) quando afferma di «far preghiere, elemosine e tutte le azioni secondo quanto prescrive il Vangelo di nostro Signore » (15, 4) (1) .

2. Clemente di Roma (vissuto intorno al 95)
Si ascrive a questo vescovo (in base a una tradizione risalente alla fine del II° secolo) la composizione della lettera che «la chiesa di Dio che è a Roma» mandò « alla chiesa di Dio che è a Corinto ». Tutte le volte che la lettera si riferisce agli insegnamenti di Cristo e degli Apostoli usa la formula « Il Signore disse» (cfr 13, 1: 46. 7). Nell'abbondante citazione che egli fa delle "antiche scritture", ne spicca una assai curiosa nella quale si fa riferimento a Geremia 9, 22-23, ma in modo del tutto particolare (13, 1):

Da Dove sta citando l'autore di questa lettera, considerando che il testo greco dei Settanta e il testo masoretico si esprimevano diversamente? È probabile che egli stia citando da una fonte scritta a noi ignota, ma è più probabile che qui Clemente abbia accostato liberamente Geremia con la prima lettera di Paolo ai Corinzi (1, 31; cfr anche 2 Co 10, 17), anche perché la conosce e la cita esplicitamente (« prendete la lettera del beato Paolo apostolo . . . sotto l'ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, di Apollo per aver voi allora formato dei partiti» 47, 1). Se così fosse, per la chiesa romana, alla fine del primo secolo, uno scritto di Paolo era considerato "scrittura" al pari delle antiche "Scritture".

Fra i riferimenti degni di nota c'è da rilevare che Clemente Romano si richiama alla lettera agli Ebrei (in quanto doveva avere chiare reminiscenze) quando, parlando di Cristo, dice: «Egli, splendore della maestà divina, di tanto è superiore agli angeli di quanto il nome che ebbe in eredità è più eccellente » (36, 2 ss con Eb 1, 3-4)

Circa la lettera di Giacomo, si può solo supporre che l'abbia conosciuta, perché, parlando di Abramo (10, 1; 17, 2), lo chiama « amico di Dio», appellativo che ricorre solo in Gc 2, 23 Is 41, 8. Sempre nella stessa lettera ai Corinzi (17, 6), Clemente ricorre a una immagine molto simile a quella che si trova in Gc 4, 14: «Io sono vapore che esce dalla pentola ».

Quanto, infine, alla 2 Pietro, non escluderei del tutto la familiarità di Clemente con questa lettera. Qua e là ci sono affinità di linguaggio. Cito, ad esempio, 7, 6 dove si dice che «Noè predicò il pentimento e tutti quelli che l'ascoltarono furono salvi ». Non escludendo la tradizione giudaica come fonte, tale notizia è riportata in 2 Pt 2, 5.

In definitiva questa lettera di Clemente rappresenta una preziosa testimonianza della letteratura apostolica tanto più perché risale alla fine del I° secolo.

3. Lettera di Barnaba (datazione incerta, ma intorno al 100 d.C.) cita un detto di Gesù riportato nel Vangelo di Matteo 22, 14 («molti chiamati ma pochi eletti ») adoperando una forma che solitamente si usa per citare l'Antico Testamento: « Come è scritto »

4. Ignazio di Antiochia, morto sotto Traiano (98-117), conosceva qualche lettera di Paolo (agli Efesini 12, 2) e non « osava mettersi sullo stesso piano degli apostoli » (ai Romani 4, 3).

5. Mella lettera di Policarpo ai Filippesi, scritto intorno al 120 d.C., un detto di Paolo (Ef 4, 26) ciene citato assieme al Sl 4, 5. Ambedue sono introdotti dalla formula: « in queste scritture è detto»:

Tutta la lettera di Policarpo ai Filippesi contiene numerosi riferimenti a quasi tutte le lettere di Paolo.

6. Papia di Gerapoli (nella Frigia), vissuto intorno al 140 d.C., avrebbe scritto un'opera chiamata "Esposizione dei detti del Signore", stando alle informazioni che co dà Ireneo di lione (Adv Haer. V,33,2-3). Qui non possiamo affrontare la questione della "tradizione orale" che egli prediligeva e di cui andava in cerca, Ci interessa sapere quale scritto apostolico egli conoscesse. Da quello che ci dice lo storico Eusebio (St. Eccl. III, XXXIX, 15.16.17), Papia conosceva il Vangelo di Marco e di Matteo, oltre che la prima lettera di Giovanni e la prima di Pietro:

Su Papia, infine, c'è da aggiungere la testimonianza di Andrea di cesarea (nella Cappadocia), vissuto tra il 532 e il 637, il quale ci riporta l'opinione del vescovo di gerapoli sull'Apocalisse: 7. Giustino Martire, vissuto intorno al 150 d.C., fu uno dei più noti apologisti greci. Nella sua Prima Apologia parla di «memorie » degli apostoli «chiamate i Vangeli » (66, 3). È da notare che egli parla di « vangeli » al plurale e non al singolare. In un'altra sua opera, Dialogo con trifone (106, 3), parla delle « memorie » di Pietro e cita un'espressione che si trova nel Vangelo di Marco (3, 16). Giustino è a conoscenza della letteratura cristiana, della quale dice di essere stata scritta in parte dagli Apostoli, in parte dai loro compagni (Dial. 103, 8).

Circa l'Apocalisse egli afferma che fu scritta da «un uomo il cui nome era Giovanni, uno degli apostoli di Cristo » (Dial. 81).

Riepilogo della situazione

Intorno alla metà del II° secolo, accanto alle "Scritture" già note (e cioè l'Antico Testamento), si associò un'altra autorità in modo, direi, naturale, senza discussioni: i detti e gli insegnamenti di Gesù di cui gli Apostoli erano i portavoce e i depositari. Venendo a mancare costoro, fu logico ricorrere agli scritti che essi avevano composto o i loro più immediati collaboratori. Sappiamo, come abbiamo visto, che gli scritti circolavano tra le varie chiese le quali li ricopiavano e li trasmettevano ad altre. Nello stesso tempo le chiese delle origini avevano ereditato dal culto sonagogale la consuetudine di leggere pubblicamente "le memorie" degli apostoli e le loro espistole. Come si vede il problema di definire quali scritti fossero "ispirati" o da usare per l'uso cultuale non era molto avvertito. D'altra parte nessuno degli scritti posteriori finora visti (cioè dei padri) si è arrogato l'autorità apostolica o ha preteso di essere considerato "scrittura".
 

La necessità di definire i limiti di questa "nuova produzione" di scritti, si avvertì proprio intorno alla metà del II° secolo, perché nel frattempo cominciarono a circolare "idee strane" su Cristo che si appellavano alla tradizione orale (peraltro ora incontrollabile). In altre parole, i circoli cosiddetti gnostici cominciarono a produrre i loro scritti e per di più fecero un loro canone di libri apostolici in base alle dottrine che professavano.

Dopo questo questo quinto capitolo della seconda parte dell'opera " Il Romanzo della Bibbia", relativa al Nuovo Testamento, di Franco Rossi, edito dalla Libera Facoltà Biblica Internazionale di Via Del Bollo 5, Milano, 1980, puoi proseguire la lettura nel sesto capitolo.

Note a margine

(1) Tutte le citazioni patristiche sono tratte da "Padri Apostolici", (a cura di A. Quacquarelli), Roma 1978. torna al testo