Capitolo 3
Il concetto di tradizione (la fase orale)


Se da una parte l'atteggiamento di Gesù nei confronti della tradizione giudaica è di netto rifiuto, si rimane sorpresi nel constatare che l'apostolo Paolo impiega lo stesso termine "paràdosis" per designare alcuni insegnamenti risalenti a Cristo: Nelle suddette circostanze l'apostolo chiede ai suoi lettori di « restare saldi» e di « mantenere» le tradizioni apprese, cioè non solo di osservarle, ma anche di tenerle in vita. C'è da ritenere che avesse in mente il vangelo stesso, il Kerygma salvifico, il nucleo dell'annuncio. Come si può capire da questi stessi testi, il concetto di "tradizione " è quello di trasmettere con autorità e da questo punto di vista è in armonia con il concetto giudaico. Ma la "tradizione" non deve la sua autorità e la sua importanza all'antichità del suo messaggio, né, tantomeno, alla comunità che la conserva, ma alle persone dalle quali essa proviene. In questo caso le persone sono gli apostoli nel senso stretto del termine. Questo senso risulta evidente dal testo di 1 Co 15, 1-3: Si noti in questo brano la formula con la quale Paolo cita la tradizione relativa agli ultimi avvenimenti della vita di Gesù. Egli non dice da quale persona l'abbia ricevuta, ma si limita a dire di averlo ricevuto come tradizione; la formula e il vocabolario usato avvalorano questa tesi. L'identica formula, ma con una variante, la ritroviamo nella stessa lettera quando parla dell'ultima cena di Gesù (11, 23): Il racconto che Paolo cita è sostanzialmente uguale a quello utilizzato da Luca (22, 19-28), come dire che entrambi si rifanno alla stessa tradizione, non essendo stati testimoni oculari di quegli avvenimenti. La variante rispetto al testo di 1 Co 15 è «dal Signore », segno che Paolo ci tiene a sottolineare l'origine del racconto. Non mi sembra di poter dedurre che ciò sia avvenuto per rivelazione; il contesto lascia supporre che egli l'abbia ricevuto dai discepoli che furono presenti all'ultima cena, i quali hanno tramandato la tradizione. La preoccupazione di Paolo era quella di far capire che egli era sullo stesso piano dei dodici e che era perfettamente a conoscenza di alcuni fatti della vita di Gesù. Questa era una garanzia per coloro che l'ascoltavano: non era la tradizione dei Giudei che egli portava in giro (e Paolo, allievo di dotti rabbini e «zelante nella tradizione dei padri », ne sapeva qualcosa), ma la tradizione nuova che ha la sua origine in Cristo e la più valida conferma in testimoni oculari. Anche Paolo è un testimone oculare del « Signore », cioè del « risorto », in forza del quale egli predica e il suo apostolato riceve autorità (cfr 2 Co 11-12). Ed è per questo motivo che a Tessalonica l'accoglienza fatta alla sua predicazione fu senza riserve (1 Te 2, 13): A mio avviso è di fondamentale importanza l'ultimo rapporto che Paolo instaura fra la tradizione e il Kyrìos: per lui è tradizione (in senso positivo) solo ciò che proviene dal Signore sia direttamente che tramite gli Apostoli. Ogni insegnamento e ogni tradizione che non risale a Cristo è da rigettare, tant'è vero che nella lettera ai Colossesi lo stesso Paolo rigetta la tradizione umana (2, 8): In definitica, d'accordo con il Cullmann, risulta ovvio che l'apostolo applica al messaggio cristiano precisamente il concetto di "paràdosis", che Gesù rifiuta con tanta forza. Il fatto è che soltanto in Cristo ci può essere una "tradizione" che non sia "paràdosis ton anthropòn", cioè tradizione umana (1) .

Paolo è ben consapevole degli insegnamenti ricevuti "dal Signore" (direttamente o dalla tradizione apostolica) e quando dà un consiglio alle chiese, ci tiene a distinguerlo e a non farlo passare per "comando del Signore" (2) Non è una sottigliezza, ma è una questione di onestà oltre che di responsabilità: avrebbe anche potuto spacciarla per una rivelazione ricevuta dal Signore, ma non l'ha fatto, anche se in certi casi sarebbe stato comodo per risolvere questioni all'interno delle chiese. Leggiamo sempre nella 1 Corinxi, capo 7:

Intendeva forse egli dire che il suo consiglio era contrario a ciò che il Signore avrebbe comandato? Niente affatto: vuole solo dire che questa volta non ha espresso un comando del Signore da trasmettere e ci tiene a farlo rilevare. Tante altre volta Paolo si è appellato alle parole di Cristo (1 Te 4, 15); At 20, 35; 1 Co 9, 14; ecc.), parole che a volte appaiono nei nostri vangeli, altre volte no. Ciò, tuttavia, non toglie che le sue disposizioni non siano autoritative! Storicamente parlando il testo ha un'enorme importanza in quanto evidenzia un fatto: gli apostoli conoscevano bene le parole e gli insegnamenti di Gesù e sapevano distinguere fra ciò che era stato detto "dal Signore " e ciò che veniva detto "nel Signore ".

Questi ed altri esempi stanno a dimostrare che la fase orale era molto diffusa e che ci è stata conservata attendibilmente. Coloro che diffondevano la" tradizione" (cioè il messaggio, i detti e gli insegnamenti) risalente a Gesù erano ben informati e potevano "controllarsi " a vicenda: le lettere di Paolo erano fatte circolare fra le comunità (Cl 4, 16), le quali a loro volta evavano relazioni (At 11, 22; 8, 14; 9, 32) e collegamenti reciproci e con la chiesa di Gerusalemme. Paolo conosceva bene Pietro e la sua attività (Gl 1, 18 ss; 2, 1-14) e viceversa; lo stesso "Apostolo delle genti " aveva diversi collaboratori che andavano in giro, ora per avere e portare notizie, ora per diffondere il Vangelo: Timoteo (1 Co 4, 16; At 19, 21; 1 Te 3, 2; 2 Co 1, 19; ecc.), Tito (2 Co 7, 7; Tt 1, 5; 2 Ti 4, 10), Tichico (At 20, 4; Cl 4, 7; 2 Ti 4, 12), Marco (2 Ti 4, 11; At 12, 24;; 15, 36; Cl 4, 10), Luca (Cl 4, 14; Fi 24; 2 Ti 4, 10) e altri. Tutta questa rete di collegamenti ci fa capire come sarebbe stato oltremodo difficile spacciare insegnamenti non risalenti agli apostoli, sia che ciò fosse stato fatto oralmente sia epistolarmente. Quando ciò si verificò, le chiese presero posizione smentendo i "nuovi insegnamenti" in base alla loro origine e la storia del canone ci mostrerà proprio questo. La riluttanza di questa o quella chiesa ad accettare uno scritto come "autoritativo" in materia di fede derivò unicamente dalla provenienza di esso: attraverso l'esame del contenuto (e quindi se era in armonia con quanto avevano ricevuto) e dalle testimonianze che ne davano le altre chiese "sorelle", la comunità, che non conosceva tale nuovo scritto, decideva di accettarlo o di rifiutarlo.

In definitiva si può dire che, nei primi decenni che seguirono la morte di Gesù, la tradizione orale era molto diffusa sia geograficamente sia dal punto di vista del contenuto. Giustamente il Dott. Gerhardsson ha fatto rilevare che « . . . la formazione della tradizione apostolica nel cristianesimo primitivo è ben diversa dalla formazione di tradizioni popolari». Negli scritti, infatti, non è affatto venuto meno il collegamento con Gesù e il suo vivo insegnamento. «Le Scritture - prosegue lo studioso - rappresentano per la tradizione un momento di arricchimento, ma anche, certamente, un fattore di stabilizzazione» (3) In tale senso il concetto neotestamentario di " tradizione" è in linea con quello giudaico: trasmettere con autorità, e l'autorità di questa tradizione risiede solo nelle persone da cui proviene, gli Apostoli in quanto testimoni oculari.

La fase scritta

Questo dovrebbe essere stato lo specchio della situazione esistente negli anni 30-50 d.C.: la fede in Cristo figlio di Dio veniva annunciata oralmente (Rm 10, 14). Perché allora sorsero gli scritti? Cosa spinse gli apostoli (o i loro collaboratori diretti) a mettere per iscritto tutto ciò che avevano comunicato a "viva voce"? È improbabile che subito dopo la morte e la risurrezione di Gesù i discepoli avessero intenzione di aggiungere altre "Scritture" a quelle già esistenti, Tanto più se si tiene conto che all'inizio c'era l'attesa dell'imminente ritorno e gli apostoli dovevano far fronte a numerosi problemi (vessazioni da parte delle autorità giudaiche, l'assistenza ai poveri, la comunione dei beni, ecc.), oltre che attendere alla predicazione e all'insegnamento. Si pensi a quante volte dovettero ripetere il loro insegnamento sulla vita, gli insegnamenti, la morte e la risurrezione di Cristo!

Ma col passare degli anni la situazione prese altre dimensioni: gli apostoli diventavano sempre più vecchi e la nuova fede assumeva proporzioni inusitate.

1. La distanza geografica

Finché le "chiese" rimasero nell'ambito palestinese fu relativamente facile stabilire un reciproco rapporto, Ma ben presto ci si rese conto (At 10, 15) che anche il mondo "pagano" era destinato a ricevere il messaggio di Cristo, ragion per cui le distanze si dilatarono. Si cercò di ovviare a questa necessità con le lettere: Paolo, divenuto un esperto missionario, mantenne il contatto con le comunità da lui fondate spesso scrivendo e usando non di rado alcuni collaboratori come latori di messaggi (1 Co 16, 17-18; 2 Co 8, 16-24; Ef 6, 21; Cl 4, 7-9; Fl 2, 25-30).

2. La distanza cronologica

Il passare degli anni, l'esperienza acquisita, la consapevolezza del ruolo, indussero gli Apostoli a mettere per iscritto l'oggetto della loro predicazione (1 Co 15, 1 ss; Gl 1, 11 ss). Con tutta probabilità fu l'apostolo Paolo a intraprendere la forma epistolare ora perché qualche chiesa gliene dava lo spunto, ora perché cercava di combattere errori, fraintendimenti e disordini introdottisi in alcune congregazioni. Non mi sembra corretto considerare le lettere come risposte a situazioni "occasionali" e a situazioni specifiche. Anche se ciò è in parte vero, i vari Paolo, Giacomo, Pietro e Giovanni si spingono ben oltre ai casi contingenti delle chiese locali. Si pensi alla ricchezza di contenuto spirituale e al valore permanente di molte lettere di Paolo, della cosiddette "cattoliche" o universali, indirizzate a cristiani di varie regioni e di diversa estrazione.
Note a margine

(1) O. Cullmann, op. cit. 215. Nella pagina precedente dello stesso testo, alla nota n. 30, lo stesso autore, facendo propria un'osservazione del Menoud, fa osservare che per l'apostolo Paolo non c'è differenza fra la rivelazioni diretta ricevuta sulla via di Damasco e la tradizione. Entrambe sono in stretto rapporto perché risalgono allo stesso Signore. torna al testo

(2) B. Gerhardsson, "Le origini delle tradizioni evangeliche" in "Studi di Teologia", n. 5 (1979), 35. Con questo articolo il noto studioso svedese critica la tesi per cui fu la chiesa primitiva a creare i testi evangelici in base alla comprensione che essa ebbe di Gesù dopo la risurrezione, Lo consiglio a chi si interessa della storia delle origini e della trasmissione del materiale di cui sono costituiti i Vangeli. torna al testo

(3) B. Gerhardsson, op. cit., 87. torna al testo
Dopo questo questo terzo capitolo della seconda parte dell'opera " Il Romanzo della Bibbia", relativa al Nuovo Testamento, di Franco Rossi, edito dalla Libera Facoltà Biblica Internazionale di Via Del Bollo 5, Milano, 1980, puoi proseguire la lettura nel quarto capitolo.