LA PRIMA LETTERA AI CORINZI
Fratellanza e separazione
a cura di Earl Edwards - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 3, III Trimestre 1973, pp. 29-59

INDICE

Introduzione
I) Il significato della fratellanza comunitaria: il «fratello» fornicatore
II) La responsabilità della comunità
III) Modalità della disciplina
IV) Per quali peccati?
V) Gli scopi della disciplina
VI) L'abuso della disciplina (appendice)


Introduzione

Alla fine del capitolo quarto l'apostolo chiedeva ai Corinzi se vogliono: che egli « venga da voi col bastone oppure in amore e spirito di mansuetudine? » (versetto 21). Si chiedeva se doveva andare a Corinto per correggere lui i problemi che esistevano nella loro comunità o se eventualmente essi stessi avrebbero saputo correggerli prima del suo arrivo. Uno dei principali problemi che egli aveva in mente era appunto ciò che avrebbe discusso immediatamente dopo, nel quinto capitolo: Il caso di un membro della loro comunità che era fornicatore ma che veniva lo stesso tollerato fra i cristiani. Paolo dice loro: « Togliete il malvagio di mezzo a voi» (versetto 5, 13). Dovevano espellerlo dalla loro fratellanza; smettere di avere a che fare con lui, nella speranza che tale isolamento, con la conseguente mancanza del calore fraterno, lo portasse a vedere la gravità della sua condotta, e che perciò egli si ravvedesse, salvando così la propria anima.

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I) Il significato della fratellanza comunitaria: il «fratello» fornicatore

Ma all'uomo di oggi, anche quello che «va alla messa» o «frequenta il culto» quasi ogni settimana, ciò può sembrare strano perché quand'anche venisse espulso dalla sua «parrocchia» o «comunità» sarebbe difficile che sentisse molto la mancanza del «calore fraterno» perché in tali collettività oggi, di solito egli non esiste perché molte volte non ci si conosce neanche, e ciò che è inesistente non può «venire a mancare». Però nelle comunità apostoliche del primo secolo le cose erano diverse.

Paolo scrisse agli stessi Corinzi che Dio Padre aveva voluto, per il suo grande amore, « riconciliarli a se stesso per mezzo di Cristo » (2 Co 5, 18) e in tal modo, dice loro,  che i cristiani sono diventati figli suoi e fratelli l'uno dell'altro, stretti insieme dall'amore paterno che deve permeare tutta la famiglia. Infatti solo che « ama il fratello dimora nella luce » secondo l'apostolo Giovanni (1 Gv 2, 10). Quando la fratellanza è sentita come vuole Iddio, i cristiani non solo si aiutano quando sono « nel bisogno » (1 Gv 3, 17), ma ci si troverà sempre più spesso insieme per conversare e conoscersi perché si ha molto in comune. Non era, perciò, soltanto a caso che i primi credenti di Gerusalemme « stavano insieme » (At 2, 44) quasi tutti i giorni, e non fu nemmeno una coincidenza che i fratelli di Roma fecero numerosi chilometri per venire incontro a Paolo, quando stava per arrivare a Roma per esservi processato (At 28, 15): per loro i legami che li univano nella famiglia di Dio erano molto preziosi. E' soltanto con questo presupposto (del «calore fraterno» all'interno delle comunità primitive) che il comando di Paolo di allontanare il fratello disubbidiente, con la speranza di provocare il suo ravvedimento, è comprensibile.

Infatti i primi cristiani, compresi i Corinzi, erano legati insieme dalla comune ubbidienza al Padre Celeste che aveva espresso il suo amore verso gli uomini, ma adesso che uno, il fornicatore, aveva cessato d'ubbidire al loro Padre, tale legame era stato per forza intaccato. Se amavano veramente quel fratello, dice Paolo giustamente, non potevano andare avanti come se niente fosse, ma dovevano essere per forza «addolorati » (versetto 2) per colui che si dimostrava disubbidiente e che perciò metteva in pericolo la propria anima. Se i legami tra fratelli erano veramente preziosi come dovevano essere, dice Paolo, l'intera comunità doveva essere in lutto davanti a Dio per questo fratello.

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II. La responsabilità della comunità

Eppure fare cordoglio non bastava! La comunità di Corinto aveva ben altre responsabilità nei confronti del fornicatore: «il risultato »(1) del loro cordoglio doveva essere una decisa azione contro il peccatore impenitente. Cioè doveva portare loro ad espellerlo se rimaneva impenitente. E' interessante notare che Paolo non indirizza il suo rimprovero al fornicatore, ma alla comunità che avrebbe dovuto agire contro lui. La comunità portava la responsabilità per questa incresciosa situazione. Ma i membri della comunità, invece di vedere il bisogno di agire per eliminare il marcio dal loro seno, si sentono « pieni di orgoglio» (versetto 2). Qual era il motivo di questo loro orgoglio? Con Crisostomo diciamo, « non a riguardo di questo peccato, speriamo; sarebbe il colmo della pazzia . . .»(2) Era probabilmente dovuto invece alla stima adulatrice che portavano per certi insegnanti falsi che screditavano Paolo e innalzavano e abusavano della libertà cristiana(3) Questi Corinzi si dividevano in partiti per cose banali (cf. il cap. 1) e addirittura si portavano l'un l'altro dinanzi ai pagani in tribunale (cf. il cap. 6), ma per un agire così turpe ed immorale quale quello del fornicatore non si preoccupavano! Né dovevano rispondere di ciò; quel che il singolo fratello faceva era «affare suo». Crisostomo dice bene che la frase paolina « in mezzo a voi» (versetto 1) dice praticamente: «non crediate che la faccenda non vi riguardi per il fatto di non aver commesso personalmente niente del genere. E' qualcosa che vi tocca tutti da vicino, la chiesa intera è in causa » (4) .

La chiesa allora avrebbe dovuto agire ed è per questo motivo che Paolo volle rendere chiaro che il suo sentimento era molto diverso: anche se egli era « lontano col corpo» era « vicino con lo spirito» (versetto 3), perciò non poteva rimanere zitto come se egli approvasse la fornicazione. Egli volle chiarire la sua posizione in merito dicendo « ho già giudicato» (versetto 3) ed è chiaro che il suo giudizio sul fornicatore era di condanna. Così facendo, mise anche la comunità sotto un obbligo solenne di purificarsi (versetto 7 = «spazzare via il vecchio fermento») e di togliere il marcio dal proprio seno (versetto 13 = « togliere il malvagio») (5) Infatti disse chiaramente che i Corinzi dovevano «giudicare» (versetti 12 e 13 = Krinete» = «voi giudicate», nel senso di disapprovare ed espellere questo fratello. Dal versetto 9 paolo parla di un'altra sua lettera, evidentemente non pervenutaci (6) in cui egli aveva detto loro di separarsi dai fornicatori, dagli avari, ecc. Essi, non capendo che parlava dei soli fratelli che peccavano in questo modo, rimasero perplessi, ritenendo che ciò fosse impossibile mentre vivevano qui in terra. Infatti Paolo spiega che aveva in mente non « quei di fuori » (= « Uso corrente anche nel giudaismo per indicare i pagani » (7) i non cristiani), ma piuttosto « chi, chiamandosi fratello» (versetto 11) vivesse in un tale modo. Le domande: « che interessa a me giudicare quelli di fuori? » e « non giudicate voi quelli di dentro?» (versetto 12) sono domande retoriche a cui le risposte sono chiaramente sottintese: non mi interessa giudicare quelli di fuori (= « li giudicherà Dio», versetto 13), e sì, come cristiano devo giudicare quelli di dentro (= « togliete il malvagio di mezzo a voi», versetto 13).

Per chi eventualmente obiettasse che Cristo disse: «Non giudicate, affinché non siate giudicati . . . » (Mt 7, 1), si risponde: Gesù ha detto pure: « Non giudicate secondo l'apparenza, ma giudicate con giusto giudizio » (Gv 7, 24). Il primo passo proibisce un certo tipo di giudizio, mentre il secondo ci comanda do giudicare. Ne segue che ci sia un senso in cui non dobbiamo giudicare, ma un altro in cui siamo in obbligo di giudicare. Il giudizio proibito è quello descritto nella prima parte di Gv 7, 24, cioè quello che è fatto « secondo l'apparenza» (8) e senza prove in mano, fatto per un certo gusto di condannare gli altri, mentre il giudizio comandato, è quello fatto con tutte le prove presenti e specialmente quello che viene fatto con tutti i principi biblici tenuti presenti nelle decisioni. Questo è un «giusto giudizio», perché i comandamenti di Dio sono giustizia (9) E fino a prova contraria tali principi biblici non permettono che fornicatori o avari o ladri siano accolti nelle comunità che vogliono esse «cristiane» nel vero senso della parola. Allora in un senso i cristiani giudicano sì, ma in un altro questo giudizio non è altro che l'applicazione di sentenze divine contenute nella Parola ispirata. Questo è il giudizio che la comunità di Corinto doveva esercitare nei riguardi del fornicatore e ciò andava fatto « nel nome del Signore nostro Gesù » (v. 4) che significa, praticamente, con l'autorità di Gesù Cristo. E' la volontà, dice Paolo, dell'autorità suprema nella chiesa!

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III. Modalità della disciplina

Allora, è chiaro che la comunità doveva espellere il peccatore se questi rimaneva impenitente, ma in che modo doveva essere applicata tale disciplina e da chi? Bisognava radunarsi per discutere la faccenda e se sì, chi doveva discuterla? Paolo parlò sì, di una riunione (v. 4) in merito ma, ci dovevano essere tutti i membri oppure ha ragione il cattolico Palmarini nel dire che ciò «riguardava i capi più che i fedeli»? (10)

Prima di tutto il greco dei versetti 4 e 5 è soggetto a quattro diverse costruzioni (11) ma quella che è da preferirsi collega « en to onòmati toù Kurìou emòn Iesoù Christoù » (= nel nome del Signore nostro Gesù Cristo) con il verbo principale « paradounai » (= consegnare) trattando «sunachthenton » (essendo radunati) e «sùn te dunàmai» (= con il potere) come inciso. In tal modo il passo è da intendersi esattamente come traduce la Lanterna: «Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo -- essendo radunati voi e il mio spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, -- quel tale sia consegnato a Satana »(12) (vv. 4-5a).

Alla luce di questa istruzione apostolica, ha ragione il Palmarini a parlare di radunanza che riguarda «principalmente i capi » oppure no? Prima di tutto c'è da tenere presente che nel primo secolo non c'era un ufficio che corrispondesse al «prete» odierno (13) e certamente gli «evangelisti» biblici non potevano dirsi in nessun senso «capi» o «conduttori» (14) e perciò, se c'erano «capi» a Corinto, sarebbero stati vescovi (= sinonimo di anziani). Ma questi non vengono mai menzionati nelle epistole ai Corinzi e perciò è più probabile che non ci fossero a Corinto quando Paolo vi scrisse le sue epistole. Ma quand'anche ci fossero stati, la nostra epistola è indirizzata «alla comunità», a quelli che erano « chiamati ad essere santi» (15) e qui sono inclusi tutti i cristiani di Corinto, e perciò quando Paolo dice, nel nostro capitolo; « essendo radunati voi» (v. 4) è assurdo che ciò sia limitato « ai capi » quand'anche fossero già stati scelti. Allora è la comunità intera che deve agire. E' ovvio che quando esistono i vescovi (= anziani) in una comunità saranno questi a guidare l'azione, ma ancora l'azione deve essere comunitaria (16) e non dei soli vescovi, e certamente tanto meno di un evangelista che non è biblicamente un «capo» in nessun senso. Barnes dice bene, «perfino Paolo l'Apostolo che è il padre spirituale della chiesa, non si arroga l'autorità di togliere il peccatore eccetto per mezzo dell'azione della congregazione. La chiesa doveva discutere il caso e poi agire in merito, dare la sentenza, espellere l'uomo. Sarebbe difficile trovare una prova più forte per il fatto che il potere di disciplinare sta nella congregazione, e non va esercitato indipendentemente da qualche individuo o gruppo di uomini ... »(17) .

Allora tutta la chiesa doveva discutere il problema in assemblea, e se il colpevole non si ravvedeva (18) doveva, al fine di ubbidire alla parola apostolica, « consegnarlo a Satana per la rovina della carne affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signor Gesù » (traduzione letterale del v. 5). Riservandoci di poter discutere «la rovina della carne » più avanti, notiamo adesso che il comando di « consegnare» a Satana significava, fra le altre cose, che i Corinzi dovevano annunciare pubblicamente la loro decisione di separarsi dal fornicatore. Egli andava espulso dalla loro assemblea. Sul piano pratico vediamo dal versetto 11 che ciò significava: « di non aver rapporti con chi, chiamandosi fratello, è fornicatore, o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con simile gente non dovete nemmeno mangiare insieme ».

Il verbo che viene tradotto «aver rapporti con » (sunanamignusthai ) significava abitualmente «mescolarsi tra»(19) Infatti Vincent dice che «denota non soltanto intimi rapporti che sono abituali » (20) Va notato pure che è chiaro nel contesto che la proibizione di « non aver rapporti con » è più forte (perché più generica) della proibizione « nemmeno mangiare insieme » (21) La prima parla di rapporti in senso generico che includerebbero anche il mangiare e l'ultima parla solamente dell'atto di mangiare senza contemplare altri contatti.

Ma di che mangiare si tratta? Si riferisce alla Cena del Signore o ad un pasto qualsiasi? La risposta ci viene data dal contesto perché è un mangiare che non è proibito con uno «di fuori» (= non cristiano) (22) ma solamente con la persona che, chiamandosi fratello, continua a peccare: perciò non può trattarsi della Cena del Signore che mai sarebbe contemplata per il non cristiano, ma deve riferirsi ad un pasto qualsiasi (23) .

Allora praticamente il cristiano sincero deve evitare qualsiasi contatto o scambio di ospitalità che potrebbe implicare una sua approvazione della condotta dell'espulso per evitare di coinvolgere la chiesa, un'altra volta, in una situazione vergognosa e che potrebbe esporre altri suoi membri alla corruzione (24) .

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IV. Per quali peccati?

Per quali peccati allora va applicata una siffatta disciplina? per rispondere a questo quesito vogliamo prima di tutto parlare del peccato specifico di questo capitolo per poi passare a discutere il principio generico che sta alla base delle istruzioni paoline del presente passo.

Si sentiva, dice Paolo, che in mezzo ai Corinzi c'era della « porneìa » (= fornicazione). Porneìa è un termine generico che viene usato in « ogni tipo di rapporto sessuale illecito » (25) ma che in questo passo si riferisce specificamente ad uno che « ha la moglie di suo padre». La donna non era sua madre (piuttosto la sua matrigna), altrimenti Paolo l'avrebbe chiamata «sua madre ». Inoltre si può presumere che non fosse cristiana, altrimenti Paolo avrebbe condannato anche la sua condotta. Il padre poteva essere morto, ma è più probabile che fosse solamente divorziato dalla donna coinvolta nello scandalo, in quanto sembra probabile che Paolo si riferisca a lui nella sua seconda epistola come chi « ha subito l'offesa» (2 Co 7, 12).

L'uomo che viene condannato qui come peccatore era un membro della comunità corinzia e secondo alcuni, è probabile che sia stato uno degli insegnanti falsi della comunità, uno dei «pretesi sapienti» (26) L'infinito «echein » (=avere) nella frase «uno ha la moglie di suo padre ...» significa un legame permanente, quasi sempre il matrimonio e non il concubinaggio (27) .

Paolo dice che questo era un tipo di «porneìa » il quale «neppure si trova in mezzo ai pagani» (v. 1). Egli lascia intendere allora che anche in un ambiente tanto pagano quanto Corinto (« fanciulla corinzia » arrivava a significare meretrice!) questo tipo di fornicazione non veniva « nominato ». Ballarini dice che si tratta di « enfasi oratoria » (28) da parte di Paolo, ma Barnes colpisce più nel segno col dire che Paolo afferma, non che ciò non venisse mai nominato tra i pagani, ma piuttosto che «non venisse nominato con approvazione » (29) Senz'altro «le sue parole si riferiscono più alle norme legali che alla realtà pratica »(30) Comunque, anche se tali unioni venivano « nominate» qualche volta, la mancanza di approvazione viene attestata prima da un ateniese, Andocide, che condanna un caso in cui un tale Callia aveva sposato prima una donna e poi la madre di costei (31) come pure da Cicerone che denunzia una certa donna, Sassia che sposa suo genero Melino(32) Inoltre il caso del matrimonio fra matrigna e figliastro è esplicitamente interdetto da Gaio(33) Da questa documentazione è chiaro che Paolo ha ragione quando dice che nemmeno i pagani approvavano una tale unione.

Come si aspetterebbe, anche gli Ebrei condannavano tali unioni tanto nella legge di Mosè quando nella tradizione rabbinica(34) . Ciò nonostante sembra che alcuni rabbini del tempo di Cristo le permettessero ai proseliti che venivano dal paganesimo con la scusa che essi erano « nuove creature » e che perciò non esistevano più i rapporti (esempio matrigna-figliastro) che precedevano la loro conversione (35) .

E' possibile che questo concetto fosse già passato fra i cristiani di origine ebraica e che avesse contaminato alcuni a Corinto? E' difficile dirlo, ma la tesi tenta perché combacerebbe con un concetto sbagliato dei Corinzi che appare al cap. 7 della nostra lettera: la conversione scioglieva gli impegni precedenti (36) In ogni modo il peccato particolare di questo passo è piuttosto ben definito, ed è chiaro pure che chi lo commetteva doveva essere estromesso dalla comunità, però non finisce lì l'insegnamento di Paolo, perché il principio che egli annuncia è più esteso. Che abbiamo a che fare appunto con un principio generico appare chiaro dai vv. 9 ad 11 dove Paolo mostra che non intende che tale disciplina venga applicata al solo fornicatore, ma pure all'avaro, all'idolatra, al maldicente, all'ubriacone e al ladro. L'avaro ( pleonéktés ), l'avido di guadagno, colui che pone fiducia nella abbondanza dei beni. L'idolatra ( eidololatres ) si riferisce prima di tutto a chi adora idoli nel senso letterale del termine, ed è questo il probabile significato qui. Maldicente ( loidoros ) si riferisce a colui che ingiuria o rivolge accuse infondate; mentre i significati di ubriacone e ladro sono ovvii. Anche nel caso di uno che commette uno qualsiasi di questi peccati, e rimane impenitente, quando viene ammonito, bisogna applicare la disciplina raccomandata in questo passo. Ma non basta, Paolo non cerca qui di dare un elenco completo, tanto è vero che non vi appare nemmeno l'omicida. Piuttosto egli nomina sei diversi peccati che sono fra quelli più evidenti e comuni e aggiunge, per rendere il concetto più generico, « con simile gente » (v. 11) non « avere rapporti » e non « mangiare ». Paragonando 2 Te 3, 6 troviamo che lo stesso apostolo dice ai Tessalonicesi di ritirarsi « da ogni fratello che si conduce disordinatamente (ataktos) e non secondo l'insegnamento che avete ricevuto da noi ». Il termine ataktos significa indisciplinati, fuori dal proprio posto (37) Thayer li definisce «essere disordinato, dei soldati che marciavano fuori riga o smettevano di marciare; di negligenza del proprio dovere» (38) Allora è necessario espellere sì il fornicatore, ma altrettanto si dovrebbe fare nel caso del pettegolo o di altro peccatore che non vuole ravvedersi. Barnes dice bene che la parola ataktos « indicherebbe qualsiasi violazione delle regole di Cristo su qualsiasi punto »(39) di cui il colpevole non volesse ravvedersi.

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V. Gli scopi della disciplina

Ma quali motivi per cui si doveva estromettere il fornicatore dalla comunità corinzia? Possiamo essere sicuri che il grande apostolo non prescrisse una tale azione per vendetta personale? Si dice infatti che andava consegnato a Satana « per la rovina della carne affinché lo spirito possa essere salvato nel Giorno del Signore » (v. 5 traduzione letterale). Cosa vuol dire « consegnare a Satana per la rovina della carne »? (40) E' più che ovvio che «la carne » ( sarkos ) menzionata è quella del corpo fisico del colpevole, ma non è altrettanto facile dire come Satana doveva « rovinarla ».Tra le varie teorie ce ne sono cinque principali:

1) E' stata suggerita la morte fisica perché la parola rovina ( olethron) può essere tradotta pure 'distruzione', ma se fosse così non si spiegherebbe come poteva portare alla salvezza «nel giorno del Signore » (cioè il giorno del giudizio)(41) .

2) La rovina (distruzione) degli appetiti carnali che sarebbe stato il risultato della espulsione della comunità, Cioè soffrendo per l'isolamento inflittogli dalla comunità, egli avrebbe capito la sua esagerazione in campo sessuale e avrebbe così soppresso (distruggendo) i suoi desideri. però con questa spiegazione non si vede come ci sarebbe entrato Satana in questa rovina e perciò non è soddisfacente.

3) Pene corporali inflitte appositamente dall'apostolo per portarlo al ravvedimento. Si tratterebbe di un parallelo di «Elima il mago» che venne accecato da Paolo (42) Però l'accecamento del mago non sembra un caso parallelo non essendo stato per la sua salvezza, ma per mostrare ad una terza persona da che parte stava la verità. Inoltre se si accetta che in 2 Co 2, 7 si tratta del ritorno dello stesso peccatore, bisogna ammettere che la malattia non durò molto, perché non viene nemmeno menzionata in questo passo scritto pochi mesi dopo. E ancora, con questa spiegazione è difficile capire come sarebbe stato Satana ad operare la rovina, sarebbe stato piuttosto l'Apostolo stesso.

4) Pene corporali inflitte da Satana nelle cui mani venne consegnato in modo che egli potesse castigarlo (43) Sarebbe un caso quasi parallelo a Giobbe in cui l'Apostolo avrebbe dato « potestà straordinaria a Satana si infierire sul corpo del colpevole » (44) Però, pur piacendo da qualche punto di vista, questa tesi presenterebbe una collaborazione fra Satana e Dio per portare un uomo alla salvezza che per lo più sembra strana. Inoltre il parallelo con Giobbe, che non era fondamentalmente un peccatore incorreggibile, non regge, e perciò cerchiamo un'altra soluzione.

5) le difficoltà fisiche e morali che più facilmente capitano a chi non segue il cristo e il suo sano modo di vivere. Infatti il cristiano è colui che ha « crocifisso la carne » (Gl 5, 23) e ha rovinato il suo « rifugio » (Eb 6, 18) in Cristo Gesù e perciò egli è « circondato da un riparo» (Gb 1, 10) e protetto dal grande re divino che ama i suoi sudditi. Invece quando, come il fornicatore, viene cacciato, sono risuscitate le voglie della carne ed egli appartiene nuovamente a «quelli di fuori » (v. 12) che a loro volta appartengono appunto a Satana « il principe di questo mondo» (Gv 12, 31 e cf. Ef 2, 11-12): e ecco il senso di « consegnato a Satana ». E' poi ovvio che che non è più « di Cristo » segua di più le sue passioni carnali e che ciò abbia, naturalmente, le sue conseguenze anche fisiche: ad esempio malattie fisiche quali quelle veneree sono spesso il risultato di promiscuità sessuale. E' questo il filo di ragionamento biblico che spesso attribuisce le malattie a Satana(45) Infatti il quadro completo da questo punto di vista comprende da una parte il regno del «Figlio di Dio che vigila su di lui (= sul cristiano)» « e il maligno non fa presa su di lui » e dall'altra « il mondo che giace sotto il potere del maligno » (46) che è senz'altro Satana. Questo mi sembra il senso più logico di questa consegna a Satana per la « rovina della carne». Cioè egli sarebbe stato esposto alla malignità di satana anche nel senso di malattie fisiche «in una misura che non può caratterizzare il cristiano » (47) e l'apostolo sperava che il fornicatore, che aveva già gustato la bontà di Dio, avrebbe poi, esperimentando i cattivi frutti della vita nel regno di Satana, preso la decisione di ravvedersi e di tornare all'ovile di Cristo. Dice bene Ricciotti(48) che «a Satana è concessa questa seconda vittoria sulla carne del colpevole affinché rimanga poi sconfitto nella principale lotta . . . ». Infatti, quand'anche si volesse discutere la mia conclusione su riportata riguardo «la consegna a Satana che rovina la carne », ciò che rimane chiaro a tutti è che il motivo di tale consegna non era vendicativa ma redentrice: « Onde il suo spirito sia salvo nel giorno del Signore » (v. 6). Il primo scopo, allora, della disciplina è di salvare colui che viene disciplinato. Sembra infatti che questo fornicatore sia ritornato ravveduto e Cristo e che la comunità l'abbia accolto nuovamente ubbidendo al comando dell'apostolo di «perdonarlo» (49) .

Il secondo scopo della disciplina di questo passo, e della disciplina biblica in genere, viene manifestato nella domanda che Paolo rivolge ai Corinzi: «Non sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta la massa?» (v. 6). Dato che durante la festa degli azzimi gli Ebrei, dietro comandamento divino, dovevano togliere ogni traccia di lievito dalla propria casa (50) esso era diventato in un certo modo un simbolo di corruzione ed ecco perché Gesù li mette in guardia contro il « lievito dei farisei» (51) Qualcuno pensa che Paolo ebbe a pensare al lievito perché la Pasqua ebraica era vicina quando scrisse (cf. 16, 8), ma Grosheide ha ragione nel dire che ciò non è per niente sicuro dato l'uso molto frequente di questa figura del lievito negli ambienti ebraici (52) In ogni modo «il lievito » di questo passo è qualsiasi impurità (come ad esempio la fornicazione o altri vizi dei pagani) è ciò andava allontanata perché nel caso contrario contaminava (esattamente come fa il lievito nella pasta) anche gli altri membri della comunità (53) In tale caso dove andava a finire la nuova pasta che era stata purificata tramite il sacrificio di Cristo? Robertson e Plummer hanno ragione poi nel dire che «l'enfasi dell'argomento (cf. vv. 6ss) sta non tanto nell'esempio cattivo del colpevole, quanto piuttosto sul fatto che la comunità, tollerando la sua condotta, l'approvava implicitamente ... chi rimane indifferente davanti ad un comportamento immorale ne assume almeno parzialmente la responsabilità »(54) Allora il secondo scopo di una tale disciplina è di conservare puro il resto della chiesa quand'anche il peccatore non si ravvedesse mai!. E ogni comunità che vuole essere veramente « di Cristo» ha un preciso dovere di mettere in atto la disciplina qui descritta dall'apostolo ispirato.

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VI. Appendice: L'abuso della disciplina

Qualsiasi buon principio, anche quello biblico può essere abusato ed è esattamente questo che si è fatto attraverso i secoli nella Chiesa Cattolica, limitando la disciplina ai capi (vescovi e papa), mentre i fedeli non c'entravano (e ancora non c'entrano) per niente. Anzi molti cattolici pensano di trovare nel capitolo che è l'oggetto dell'attuale studio « il potere giudiziario e punitivo della chiesa », altrimenti chiamato «la scomunica »(55) E per questi la scomunica è un'arma esclusiva « dei capi», mentre i fedeli devono accettare tutto passivamente senza adoperare la propria intelligenza. E purtroppo tale abuso non è limitato alla sola chiesa cattolica. Ma si torna a ripetere che la disciplina biblica richiede un'azione comunitaria come si vede nei passi già adoperati e specialmente in Mt 18, 17, dove l'ultimo passo prima di espellere un fratello disubbidiente richiede la partecipazione della comunità intera: « Dillo alla comunità. Se non ascolta neanche la comunità, ti sia come il pagano . . . ». Bisogna spiegare il peccato dell'offensore alla comunità, non ai soli vescovi, ed anche i membri devono cercare di persuaderlo e, soltanto quando non avrà « ascoltato » la comunità, egli verrà espulso. Tutto questo linguaggio sottintende chiaramente una comunità che è al corrente dei problemi ed è al corrente del torto dell'offensore e lo ammonisce prima che venga rotta la fratellanza. La comunità deve essere informata ed essere partecipe in modo che quando avviene l'esclusione dalla collettività ci possa essere una presa di posizione in ciascun membro da persona informata e cosciente. Mai dei vescovi che agiscono biblicamente chiederebbero ai fedeli della loro comunità di escludere una persona dalla fratellanza senza aver parlato chiaramente dei motivi per cui ciò va fatto. Un tale agire significherebbe arrogare a se stessi una responsabilità che è di tutta la comunità e cadere, praticamente, nello stesso tranello del clero conservatore cattolico che dice ai fedeli che ai problemi dottrinali ed altri nella chiesa « ci pensa il prete».

Si badi bene, comunque, che con il ragionamento sopra riportato non si vuol negare che i vescovi abbiano la responsabilità di guidare, quali dirigenti «maggiormente responsabili» (56) una qualsiasi azione disciplinare della loro comunità. Né si vuole affermare che la chiesa, per come la vuole il Nuovo Testamento, debba essere mandata avanti con votazioni a maggioranza. Ma è chiaro che i vescovi devono guidare il gregge di Dio in tali azioni piuttosto che agire da soli e poi annunciare, a fatto compiuto, le loro decisioni.. E se devono guidare il gregge dovranno pure esporre i motivi dell'azione proposta, discutendo e persuadendo anche i presenza del presunto colpevole. Infatti Paolo disse a Timoteo: «Quelli che sbagliano convincili d'errore davanti a tutti, affinché anche gli altri ne abbiano timore » (1 Ti 5, 20). In tal modo possiamo portare i fedeli ed una giusta e cosciente presa di posizione contro il fratello se egli è veramente ribelle. Infatti se i vescovi di una comunità sono qualificati biblicamente secondo i requisiti dati da Paolo (1 Ti 3 e Tt 1) riusciranno quasi sempre a convincere i membri. Potrebbe ovviamente capitare, però, che alcuni fratelli, o per mancanza di spiritualità od altro, non venissero convinti, ma se i vescovi sono sicuri dei motivi della disciplina proposta, dovrebbero, come dirigenti maggiormente responsabili, andare avanti ad agire (57) Però ripeto che mai dovrebbero agire senza prima rendere partecipe la comunità e senza fare di tutto per illustrare alla comunità la necessità dell'azione in modo che ognuno possa rendersene conto ed agire coscientemente. Infatti nessuno nella chiesa del Signore, vescovi compresi (anche se essi hanno dell'autorità nella loro comunità), ha il diritto di esigere che gli altri membri rinuncino all'uso della propria intelligenza né nel campo della disciplina né in qualsiasi altro campo religioso, perché ciò equivarrebbe alla costituzione di altri mediatori fra i membri e Dio, mentre Paolo ci insegna che ce n'è «uno solo » (1 Ti 2, 5). Inoltre una tale rinuncia all'uso delle proprie facoltà, con la sua conseguente accettazione senza riserva delle decisioni altrui, sottintende per forza una attribuzione di infallibilità alle persone a cui uno si affida! Ma nessuno dei cristiani è infallibile secondo la Bibbia. perciò i vescovi devono guidare la loro comunità anche nel campo della disciplina, ma la loro guida non significa biblicamente che il cristiano singolo debba darsi anima e corpo nelle loro mani e rinunciare ad ogni responsabilità per il proprio indirizzo come cristiano. Il fatto che ai singoli membri di una comunità è permesso (con la dovuta cautela e con testimoni) accusare un anziano (1 Ti 5, 19) è la prova evidente che nella chiesa del Signore nessuno debba accantonare le proprie facoltà intellettuali e darsi completamente nelle mani di altri uomini. Il cristiano deve ubbidire sì, ai suoi vescovi, ma ciò ha i suoi limiti perché egli rimane pur sempre responsabile personalmente del proprio agire « poiché ciascuno porterà il suo proprio carico » (Gl 6. 5).

Infatti i vescovi veramente biblici non vogliono che membri lascino tutti i problemi a loro, ma desiderano proprio l'opposto: che ogni membro si addentri sempre di più nei problemi e nelle difficoltà della comunità, in modo che accetti sempre più le responsabilità e diventi sempre più stabile e indipendente.

Comunque è facile che avvengano degli urti nell'applicazione dei due principi di cui sopra, o quando un membro abusa del principio della responsabilità personale, oppure quando dei vescovi abusano della loro responsabilità di dirigere il gregge. Ovviamente non possiamo qui esaminare tutta la vasta gamma di situazioni possibilmente realizzabili in questo campo, ma ne daremo un paio.

Chi scrive, conobbe una volta una «chiesa di Cristo» dove i vescovi decisero di accogliere come membri anche le persone su cui era stata praticata l'aspersione da bambini! E' ovvio che un membro qualsiasi che avesse avuto un vero rispetto per la parola del suo Signore (che è infallibile), avrebbe scelto di non sottomettersi a tale decisione dei suoi vescovi (che erano fallibili). Questo è un caso molto chiaro anche se è probabile che questi vescovi erano stati scelti senza avere i requisiti biblici. D'altro canto anche vescovi che sono in fondo sinceri e discretamente qualificati per il loro lavoro, essendo fallibili, potrebbero qualche rara volta prendere un abbaglio ed espellere un fratello erroneamente o per dei pregiudizi od altro. Cosa fa allora un altro membro di tale comunità quando se n'accorge, se non riesce a convincere i vescovi? Se egli, dopo molta introspezione e preghiera è assolutamente sicuro di non poter in coscienza accettare tale decisione degli anziani di allontanare un suo fratello e rimanere fedele al suo Dio nello stesso momento, dovrà pure rifiutare la decisione degli anziani (fallibili) e attenersi al suo Signore, perché, come disse Pietro, al supremo Tribunale del « popolo di Dio »: « si deve ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5, 29). però, dove tanto i vescovi quanto i membri osservano scrupolosamente la Scrittura, tali situazioni incresciose possono essere evitate.

Adesso, in questo caso, ciò che è valido all'interna di una comunità, vale pure nei rapporti fra più comunità? E' vero ovviamente che l'Iddio nostro, non essendo «autore di confusione » ( 1 Co 14, 33) « non vuole che una persona sia espulsa da una comunità e nello stesso momento, ricevuta da un'altra» (58) ma nuovamente dico che se non vogliamo attribuire l'infallibilità alle comunità (con o senza vescovi), dobbiamo ammettere che potrebbe darsi che qualche volta un fratello potrebbe essere erroneamente espulso da una comunità, e in quel caso ciò avviene contro la volontà di Dio; sarebbe poi un raddoppiare l'errore se, quale membro di un'altra comunità, accettassi di escludere pure io quel fratello dalla mia fratellanza. Si ripete che ciò che potrebbe succedere qualche rara volta anche in comunità piuttosto esemplari, con i vescovi ben qualificati, appunto perché gli uomini, pure quelli sinceri, sono fallibili. Cosa vuol dire in pratica tutto ciò? Come devo reagire quando mi si comunica che in una comunità consorella, per cui porto rispetto a amore, un mio fratello con cui ho intimi rapporti (e per cui porto uguale rispetto e amore), è stato espulso dalla fratellanza? E' ovvio che il cristiano maturo andrà cauto a dichiarare solidarietà per il singolo, perché le probabilità che possa sbagliarsi il singolo sono più alte che non l'intera comunità (59) Però, pur essendo cauti, come abbiamo visto, non si può escludere del tutto la possibilità che la comunità possa aver sbagliato se si ammette che gli uomini sono tutti fallibili. Cosa significa? Vuol dire che io devo cercare di sentire tanto l'una quanto l'altro per poter prendere posizione da persona cosciente e informata. Se mi si dice che ciò significa violare l'autonomia della comunità che espelle il presunto peccatore -- rispondo che finché la comunità in questione prende posizione solo per se stessa, può andare benissimo, ma quando la comunità vuole che accetti pure io tale decisione, diventa pure responsabilità mia sapere i motivi per cui devo agire per poterlo fare coscientemente. E se la comunità insiste che io accetti la sua decisione senza poterla capire e valutare, è piuttosto lei che viola il principio della responsabilità personale del cristiano asserendo, praticamente, che è soltanto lei che ha il diritto di agire coscientemente.

Se la riserva di cui sopra vale, come si è detto, per una comunità esemplare, è due volte valevole per la disciplina esercitata da una eventuale comunità non tanto esemplare. Infatti, se si viene a sapere che c'è un fratello fra i dirigenti che « cerca di avere il primato» (3 Gv 9) o che quella comunità ha in altre occasioni « manipolato » la parola di Dio « aggiustandola » ai propri desideri, allora in tal caso è giusto che si scruti ancora di più le sue eventuali decisioni disciplinari prima di escludere l'espulso dalla propria fratellanza, perché in una tale situazione è più facile che la disciplina venga abusata. Chi negherà che Barnes ha ragione quando afferma che « la disciplina quando è praticata ... per screditare un fratello rivale, o per vendicarsi di un altro o per ambizioni, o per il desiderio di rendersi più potente, è una cosa sbagliatissima. La salvezza del peccatore e la gloria di Dio devono essere i moventi »? (60)

Sull'abuso della disciplina è interessante il caso di Diotrefe di cui nella terza epistola di Giovanni vv. 9 e 10. E' molto probabile che Giovanni abbia trascorso buona parte degli ultimi anni suoi ad Efeso, e che la terza sua epistola sia stata scritta da quella città ad una comunità dell'Asia Minore (un po' distante da Efeso) di cui facevano parte tanto Diotrefe quanto un certo Gaio che era molto fedele a Cristo (61) Dei predicatori itineranti (forse mandati da Efeso da Giovanni?) erano passati dalla parte della comunità di gaio e Diotrefe (vv. 5-8) e mentre il primo li riceveva e li sosteneva, quest'ultimo li rifiutava nel senso più assoluto. Da ciò che viene detto di Gaio non sembra che sia stato uno dei dirigenti della comunità né in posizione di forte influenza (62) ma la situazione era diversa per Diotrefe che era molto influente. Giovanni lo descrive come uno che «aspira ad avere il primato» (v. 9) (63) e si vede che era riuscito ad averlo in gran parte. Egli aveva influito sulla comunità fino al punto che essa non aveva accettato ciò che Giovanni scrisse loro perché Diotrefe « non ci vuole accettare». Infatti è chiaro dal versetto seguente (v. 10) che Giovanni aveva scritto a tale comunità di ricevere i predicatori di cui sopra, ma Diotrefe non solo non li riceveva, ma lo «proibiva » anche a coloro che li avrebbero ricevuti « scacciandoli dalla comunità», cioè scacciando (= espellendo), non i predicatori, ma gli altri fratelli che li avrebbero voluto accogliere. Molti pensano che Diotrefe sia stato uno dei vescovi(64) della comunità e , pur non potendo provare questo, non è improbabile. Una cosa è sicura: egli aveva la chiesa « in mano» fino al punto di far scacciare dei predicatori raccomandati dallo stesso apostolo, e se un altro fratello cercava di ricevere questi, Diotrefe metteva « sotto disciplina» pure lui! Ma Giovanni, non soltanto non accetta tale disciplina (perché era una distorsione di quella voluta da Dio!), ma insiste che Gaio (che, come si è detto, era della stessa comunità di Diotrefe) non si lasci intimidire da siffatta disciplina, ma che vada avanti a ricevere o predicatori, malgrado Diotrefe (vv. 5-8). Della disciplina si abusa delle volte, anche da parte di uomini che hanno compiti di direzione nella chiesa, e perciò è assolutamente necessario che ogni cristiano agisca in questo campo (come in ogni altro campo delle fede cristiana) da persona informata e cosciente.

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NOTE A MARGINE

1. Robertson & Plummer (International Critical Commentary, T. and T., vol. On Corinthians, Edimburgh, 1911, p. 97) dicono bene che la «hina» del versetto 2 (= «perché» in Luzzi, ma resa in modo migliore nella traduzione della Lanterna con «per») indica, non lo scopo del cordoglio, ma «il suo risultato, risultato a cui tale cordoglio dovrebbe portare». vedere pure A Greek-English Lexicon of the New Test., Bauer, Arndt and Gingrich, Cambridge, 1957, p. 378, colonna 2, sotto n. 2. torna al testo

2 Crisostomo Giovanni, Commento alle Lettere di San Paolo ai Corinzi, Cantagalli, Siena 1962, vol. I, p. 243. torna al testo

3. Cf. cap. 4, 6 e vv. 18 e 19 e cap. 6, 12. torna al testo

4. Loc. cit., p. 241. torna al testo

5. Cf. Deuteronomio 17, 7. torna al testo

6. Vedere «problemi introduttivi » di G. Sciotti. torna al testo

7. Cf K. Rahner, La penitenza nella Chiesa, Paoline, Roma 1964, p. 107 e Palmarini ne La Sacra Bibbia, Marietti, 1964, vol. III, p. 422. Cf pure Gv 17, 14-16 e 1 Te 4, 12 e Cl 4, 3 nella traduzione di Luzzi. Grosheide (The International Commentary on the New Test., vol on 1 Corinthians, Eerdmans, Grand Rapids, 1964, p. 130) domanda se « un rapporto intimo con i fornicatori di questo mondo non sarebbe più pericoloso ancora? » e si risponde dicendo che « Paolo non considera la cosa da questo punto di vista ». Infatti per Paolo era scontato che i cristiani, pur avendo rapporti generici con i non cristiani, avessero rapporti stretti con i soli cristiani. In 2 Co 6, 17 dirà ai Corinzi di « separarsi » dai pagani nel senso di non andare con loro a partecipare ai loro riti nei templi.  torna al testo

8. La traduzione (non letterale) di C.B. Williams in inglese coglie il senso del passo: «stop judging superficially » (= smettetela di giudicare superficialmente). Infatti questo è il tipo di giudizio che viene condannato in Mt 7, 1. torna al testo

9. Cf Salmo 119, 172: «tutti i suoi comandamenti sono giustizia». Cf anche F. Buchel (sotto la voce «krino» nel Grande lessico del Nuovo testamento. Paideia, 1969, vol. 5, colonne 1070-71). Egli ammette che, malgrado i passi che proibiscono un certo giudizio - Mt 7, 1 e Gc 4, 11, ecc. -, ci sono eccezioni al divieto di giudizio nei riguardi del proprio fratello: « In questo modo non si vuole affermare una fiacca indifferenza nei confronti della condizione morale degli altri né si auspica una cieca rinuncia a pronunciare un giudizio retto e serio sugli uomini con i quali si ha da vivere; ma viene chiesto in modo rigoroso che tale giudizio sia subordinato alla certezza che il giudizio di Dio coglie pure colui che giudica, sì che ogni arroganza, ogni mancanza di misericordia, ogni cecità nei confronti delle proprie mancanze venga evitata e siano invece garantite la prontezza a perdonare e l'intercessione». torna al testo

10. Palmarini. loc. cit., p. 421. torna al testo

11. Per una discussione delle quattro possibili costruzioni vedere Alford, The Greek New test., Moody, Chicago 1958, vol. II, p. 506 o meglio ancora Robertson and Plummer, loc. cit., p. 98 che dicono giustamente: « L'apertura solenne 'en to anòmati toù Kurìou Jesoù' messa all'inizio con enfasi appartiene al verbo principale, il verbo cioè che introduce la sentenza pronunciata contro il colpevole, mentre 'sùn té dunàmei toù Kurìou emòn Iesoù Christoù '» supplisce un coefficiente alla competenza del tribunale. torna al testo

12. Nuovo Testamento, lanterna, Genova 1972, p. 356. torna al testo

13. Vedere l'articolo del sottoscritto, «I Requisiti degli Anziani e dei Vescovi», Il Seme del Regno, 1966, pp. 228-29. Riguardo le funzioni odierne del prete il Kasper, Confessioni fuori del Confessionale? in «Concilium», 1967, n. 4, p. 50, nota 4), ammette che «fino a San Tommaso non era stata chiarita e decisa la questione circa la sacramentalità e specialmente circa il valore dell'assoluzione sacerdotale ...». Infatti nel primo secolo l'ufficio non esisteva affatto. torna al testo

14. Vedere l'articolo del sottoscritto «L'evangelizzatore biblico» in questa stessa rivista, n. 2-3, 1972, pp. 227-257. Notare specialmente le pagine 252-253. torna al testo

15. Cap 1, versetto 2. Infatti molti studiosi si basano sul fatto che i vescovi non sono menzionati nelle epistole ai Corinzi, mentre lo sono piuttosto spesso nelle epistole a Timoteo e Tito, per asserire che queste ultime siano state scritte addirittura nel secondo secolo, ma ciò non è da accettarsi. torna al testo

16. Paragonare pure la situazione a Tessalonica dove, pur avendo di già i vescovi (= i «preposti» di 1 Te 5, 12), il comando di « ritirarsi da ogni fratello che si conduce disordinatamente » (2 Te 3, 6) viene rivolto, non ai soli vescovi, ma invece alla comunità intera. Ciò corrisponde pure ad un altro principio, di Scrittura: anche se i vescovi avevano una certa autorità, le testimonianze neotestamentarie mostrano univocamente che in origine ... gli 'episkopoi' (= vescovi) avevano non tanto un ufficio nel senso odierno della parola quanto una carica che era più un servizio che un ufficio (cf. per questo pensiero «Il Grande Lessico», vol. III, p. 782). Vedere pure « La Riconciliazione della Chiesa Primitiva » di José-Regidor, Concilium 1971, n. 1, pp. 104ss e specialmente p. 106 dove parlando della disciplina, pur affermando che la comunità agiva « in intima unione » con « i suoi pastori », egli riconosce che la disciplina era « portata a termine da tutta la comunità ». E. Schilleeeckz e B. Willems, parlando dello stesso tema (nello stesso fascicolo di Concilium, p. 19), affermano: « anche le pratiche penitenziali della chiesa antica mostrano chiare differenze nei confronti del costume attuale. la confessione personale dei peccati e l'aspetto giuridico erano meno appariscenti e la dimensione comunitaria (il corsivo è mio) invece era evidente. La funzione del sacerdozio universale dei fedeli era più sentita... ». Aggiungo che è chiaro pure che questo concetto dell'azione comunitaria rimase fermo nella chiesa per diversi secoli, anche dopo lo sviluppo del vescovo monarchico. Infatti verso il 250 d.C.. Cipriano (Epistole XI,1), parlando della possibilità di riaccettare nella sua comunità alcuni che erano stati infedeli durante le persecuzioni e che poi volevano rientrarci, scrisse da fuori ai cristiani del suo gregge che erano rimasti fedeli, dicendo che quando sarebbe tornata la pace « si considererà, nella vostra presenza, e con il vostro giudizio, i desideri di ciascuno». Anche se non c'è qui di mezzo una votazione a maggioranza. è chiaro che la comunità intera avrebbe contribuito in modo sostanzioso alla decisione finale sul rientro o meno degli infedeli. torna al testo

17. A. Barnes, Notes on the New Test., vol. on 1 Corinthians, Baker, 1949, Grand Rapids, Michigan, USA, p. 93. torna al testo

18, Qui Paolo non dice niente di ammonizioni per cercare di portare il colpevole al ravvedimento prima di espellerlo, ma sembra chiaro che ciò sia sottinteso nella discussione che doveva aver luogo nell'assemblea prima dell'espulsione. Infatti in altri passi come Gl 6, 1 e Mt 18, 15-17 e Tt 3, 10-11 si parla chiaramente di tali ammonizioni. Tt 3 prescrive due ammonizioni prima di espellere un fratello che fosse « settario ». torna al testo

19. Bauer, loc. cit., p. 792. torna al testo

20. Vincent, Word Studies in the New Test., Eerdmans, Grand Rapids 1946, vol. III, p. 211. torna al testo

21. Se non fosse così il «medè » (= nemmeno) non avrebbe senso. Vedere Grosheide, loc. cit., pp. 129-30 e la nota n. 23 più avanti in questo articolo. torna al testo

22. Vedere la nota n. 12 su riportata. torna al testo

23. Lipscomb, Commentary in the New Testament Epistles, vol. on 1 Corinthians, Nashville, 1954, p. 79. Plummer and Robertson (loc. cit., p. 107) fanno giustamente notare che il «medè » (=nemmeno) non avrebbe senso se Paolo intendesse la Cena del Signore perché chi è accettato ad essa, è accettato in tutti i sensi e perciò non ci sarebbe voluto il « medè» in tal caso. torna al testo

24. Da 2 Te 3, 14-15 impariamo che l'unico contatto che ci è permesso con uno che è stato giustamente espulso da una comunità, è quello che abbia lo scopo di « ammonirlo come fratello». Giovanni dice che non dobbiamo nemmeno «salutare » (2 Gv 10-11) uno che insegna dottrine false. Però non si tratta di un saluto parallelo al nostro « buon giorno», perché il saluto ebraico comprendeva anche l'idea dell'augurio di buona fortuna nel proprio corso di vita. torna al testo

25. Bauer, loc. cit., p. 699. torna al testo

26. Così pensa Crisostomo, loc. cit., p. 243. Cf 1 Co 4, 6 e 4, 18-19. torna al testo

27. Vedere Vincent, loc. cit., p. 210; come pure Alford, loc. cit., p. 505, torna al testo

28. Ballarini, Paolo, Vita-Apostolato-Scritti, Marietti, 1968, p. 476. torna al testo

29. Barnes. loc. cit., p. 83. torna al testo

30. Ricciotti, Le Lettere di San Paolo, Coletti, Roma 1948, p. 47. torna al testo

31. Discorso sui Misteri, parag. 128, dell'anno 398 a.C. torna al testo

32. Pro Cluentio, vv. 5 e 6, Cicerone (morì nel 43 a.C.) grida in merito: « O incredibile malvagità, e eccetto nel caso di questa donna, inaudita nella nostra esperienza! ». torna al testo

33. Istitutiones, I, 63. Gaio è del 2° secolo d. C.. Cf anche Ippolito di Euripide (circa 450 a.C.) e l'Edipo di Sofocle che è dello stesso periodo. torna al testo

34. Mosè lo condanna in Lv 18, 8 e 20, 11. Il primo di questi due passi dice: « non scoprirai la nudità della moglie di tuo padre ... ». per la Tradizione rabbinica vedere Mishna, Sanhedrin, VII, 4. torna al testo

35. Vedere Ricciotti, loc. cit., p. 47. torna al testo

36. Vedere cap. 7, 17ss dove sembra chiaro che Paolo sta combattendo l'idea che la conversione sciolga gli impegni presi precedentemente. torna al testo

37. Bauer, loc. cit., p. 119. torna al testo

38. Thayer, Greek-English Lexicon to the New Test., Edinburgh, 1956, p. 83. torna al testo.

39. Barnes, loc. cit., p. 99. torna al testo

40. Cf 1 Ti 1, 20 dove Paolo dice di aver « dato in mano di Satana» Imeneo ed Alessandro. torna al testo

41. il «Giorno del Signore » nel N.T. è quasi sempre da identificarsi con il giudizio finale, Cf 2 Co 1, 14; 1 Te 5, 2; 2 Pt 3, 10. Questo è senz'altro il significato qui pure. torna al testo

42. Vedere At 13, 11. Barnes, loc. cit., p. 86, prende questa posizione adoperando pure 1 Co 11, 30 come un altro caso dove il Signore avrebbe punito i fratelli con malattie fisiche e addirittura con la morte fisica per la loro disubbidienza. E' da tener presente però che alcuni vedono malattie spirituali in quest'ultimo passo. Altri adopererebbero anche il caso di Anania e Saffira (At 5, 1-5) come un parallelo, ma anche qui non c'era certamente lo scopo di portare al ravvedimento. torna al testo

43. Così Palmarini, loc. cit., p. 421. torna al testo

44. Ricciotti, loc. cit., p. 48. torna al testo

45. Vedere Lc 13, 16. Qui Plummer (International Critical Commentary, vol. on Luke, Clark, Edinburgh 1896, p. 34) dice giustamente che « l'espressione 'Satana l'aveva tenuta legata' significa probabilmente, che Gesù sapeva che la sua malattia era una conseguenza della sua vita peccaminosa». torna al testo

46. ! Gv 5, 18-19. Anche il cattolico José Ramos-Regidor (in 'Il Sacramento della penitenza', LDC, Torino, 1972, pp. 121-122) scarta la tesi di pene inflitte da Satana dicendola « più ellenistica che cristiana» e abbraccia la nostra tesi n. 5. torna al testo

47. Robertson e Plummer, loc. cit., p. 99. torna al testo

48. Ricciotti, loc. cit., p. 48. torna al testo

49. Vedere 2 Co 2, 7. A me sembra più logico riferire questo passo al fornicatore del nostro capitolo anche se diversi studiosi (fra cui Robertson e Plummer, loc. cit., p. 100) non sono d'accordo. D'accordo è invece il Ramos-Regidor, loc. cit., p. 123. torna al testo

50. Es 12, 15. E' facile che Dio abbia comandato questo perché la fermentazione provocata dal lievito implica una corruzione nella pasta per cui il pane lievitato si guasta più presto di quello non lievitato. torna al testo

51. Mc 8, 15. Cf pure altri come Mt 16, 6. In un passo del N.T. però il lievito viene menzionato in chiave positiva; Mt 13, 33 e paralleli. torna al testo

52. Loc. cit., p. 127. torna al testo

53. Paragonare pure il cap. 15, 33, dove Paolo afferma che « le cattive compagnie corrompono i buoni costumi ». torna al testo

54. Loc. cit.. p. 101. torna al testo

55. Palmarini. loc. cit., pp. 421-422, pensa appunto di ravvisare qui in 1 Co 5 « la scomunica ». torna al testo

56. Vedere l'opuscolo del sottoscritto, p. 4. torna al testo

57. In questo caso è chiaro che i vescovi dovrebbero continuare la loro opera di persuasione verso i membri non convinti e se questi eventualmente si rifiutano di accettare l'espulsione del fratello incolpato, devono essere messi sotto disciplina anch'essi. Però quando ci sono dei fratelli bravi che obiettano i vescovi, dovrebbero studiare l'azione molto più a lungo prima di compierla. Più avanti si parlerà pure dell'eventualità di uno sbaglio dei vescovi. torna al testo

58. Vedere l'opuscolo del sottoscritto, p. 12. torna al testo

59. Ovviamente queste probabilità cambiano quando dentro la comunità c'è una sola persona (evangelista o altra) che arroga a se stesso tutta l'azione disciplinare. E' certamente più facile che una sola persona o un gruppo ristretto di persone (per esempio 2 o 3 vescovi) prenda un abbaglio e sbagli nelle azioni disciplinari, quando la discussione è limitata a loro, di quanto sia quando l'azione proposta diventa oggetto di discussione da parte dell'intera comunità. Sarà appunto per questo che la Scrittura prescrive un'azione comunitaria. Tale discussione in comunità serve, per i vescovi veramente spirituali, come la prova del fuoco, per l'azione che si propone, prima di metterla in atto. torna al testo

60. loc. cit., p. 93. torna al testo

61. Il sottoscritto ed altri, dispensa della Scuola Biblica di Firenze su «Le Espistole Generali». pp. 40-41. torna al testo

62. Ciò si deduce dal fatto che Giovanni deve dirgli che aveva scritto alla sua comunità. Se egli fosse stato vescovo l'avrebbe già saputo probabilmente. torna al testo

63. La parola greca da cui deriviamo questa frase è « philoproteuon» e significa, letteralmente, «ama avere il primato ». Altrove nella Scrittura questo concetto non viene applicato a degli uomini ma a cristo (cf, Cl 1, 18). Stott, Epistole di Giovanni. GBU, Roma, p. 250, nel commentare questa parola dice bene che l'unico chiaro movente dell'azione sbagliata di Diotrefe è «l'ambizione personale». Infatti non esiste prova che egli sbagliasse dottrinalmente. torna al testo

64. Vedere la discussione di Stott, loc. cit., p. 251. Comunque, se lo era, sarebbe stato scelto, probabilmente, senza tener conto dei requisiti biblici. In caso contrario è difficile pensare che avrebbe agito nel modo descritto da Giovanni. torna al testo


BIBLIOGRAFIA
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Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. V, Paideia 1969, sotto la voce «krino» = giudicare.
Robertson & Plummer
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1 Corinthians (New International Comm. in the N.T.), Eerdmans. Grand Rapids, 1964
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Commento alle Lettere di S. Paolo ai Corinzi, Cantagalli, Siena 1962, vol. I.
Karl Rahner, 
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José Ramos, Regidor
La Riconciliazione nella Chiesa primitiva, Concilium, 1971, n. 1, pp. 104ss.
José Ramos, Regidor
Il sacramento della Penitenza, LDC, Torino 1972; vedere in modo speciale in cap. II «La Conversione e la Riconciliazione dei Peccatori membri del Nuovo Popolo di Dio secondo il Nuovo Testamento»
Earl Edwards, 
La Disciplina nel Nuovo Testamento (opuscolo presso l'autore)

N.B. Per altri testi vedere i libri già apparsi in nota