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Introduzione
I)
Il matrimonio
1) legittimità del matrimonio
2) Diritti e doveri dei coniugi
3) Finalità del matrimonio
II)
Il celibato cristiano
III)
Indissolubilità del matrimonio e «privilegio paolino»
A) Esame del contesto
B) Esame del testo
C) Il pensiero dei padri e dottori
D) L'odierna posizione ufficiale delle chiese
E) Altre ragioni bibliche addotte a sostegno di passare
a nuove nozze
F) Conclusione
Le lettere di Paolo contengono molta materia circa il matrimonio e gli argomenti connessi. Il suo insegnamento tuttavia non viene mai dato in forma sistematica come nei trattati di teologia.
Il capitolo 7 della prima lettera ai Corinti tratta di esso e del celibato, in risposta ad alcune specifiche domande rivolte all'apostolo dai cristiani di quella città. Il Vangelo, infatti, è un lievito che deve permeare la massa e far sentire la sua santificante influenza in seno alla società corrotta, e delle più corrotte era appunto quella di Corinto. La sua penetrazione pone quindi necessariamente dei problemi ai convertiti, specialmente allorché lo zelo troppo spinto di alcuni vorrebbe spingere o più ad « andare oltre» allo stesso insegnamento evangelico, come avvenne in seno alla cristianità di Corinto (1) .
1) Legittimità del matrimonio (vv. 1-3)
All'epoca di questa lettera dovettero esserci tra i cristiani di Corinto alcuni gruppi di asceti che avrebbero voluto obbligare i fedeli alla castità perfetta sia con l'interdire il matrimonio sia col negarne l'uso qualora fosse già contratto.
« E' bene per l'uomo non toccare donna (cioè non avere relazioni carnali con donna alcuna: cf Ge 20, 4-6; Pr 6, 20)? » gli avevano chiesto i Corinti. E Paolo, considerando le cose dal punto di vista della vita superiore dello spirito in cui ha da realizzarsi l'ideale umano un giorno, risponde: « Sì, è bene per l'uomo non toccare donna » (v. 1).
Questo è l'ideale che lui stesso si sforza di praticare (2) e vorrebbe che tutti i cristiani seguissero il suo esempio.
Con ciò l'apostolo né vuol porre il matrimonio in un grado inferiore al celibato nella scala dei valori, né elevare il celibato al di sopra del matrimonio: entrambi, infatti, sono per Paolo doni di Dio (v. 7) (3) e dei doni divini non si può dire che intrinsecamente uno sia superiore all'altro, anche se la loro manifestazione (4) viene lasciata alle particolari circostanze della vita (v. 26).
Perciò, il matrimonio è un dono di Dio, un'istituzione divina, e quindi cosa buona in se stesso, anzi è la condizione normale dell'uomo e della donna, quella a cui li chiama la stessa loro costituzione fisiologica e morale, le cui inclinazioni non sono per se stesse peccaminose. Che se il peccato ha dato gli istinti naturali un predominio peccaminoso, ciò non fa che rendere ancora più necessaria, in regola generale, questa istituzione che fa argine ai disordini carnali e nobilita gli istinti di natura.
E nell'affermare ciò, Paolo dovette senza dubbio avere presente la particolare situazione dei cristiani di Corinto, i cui abitanti erano allora famosi nel mondo per il modo facile con cui si abbandonavano alle gozzoviglie (5) .
Nel matrimonio, dice Paolo, ciascuno dei due coniugi acquista potere sul corpo dell'altro (v. 4) e, di conseguenza, ha il diritto di reclamare dall'altro i rapporti coniugali, e questo ha il dovere di concederglieli.
L'atto coniugale perciò non è un favore che si concede, ma un debito ( opheilé), che si paga ( apodidòto).
L'astensione da tali rapporti coniugali non spetta alla libera iniziativa di uno dei coniugi o al suo capriccio, né può essere imposta da un'autorità esterna(6) , ma deve sottostare a norme ben precise (v. 5):
a) essere decisa di
comune accordo,
b) estendersi per
un tempo molto limitato,
c) avere un motivo
particolarmente elevato, quale la preghiera. Trascorso questo «
breve tempo» i coniugi devono tornare
subito a stare insieme per evitare il pericolo della tentazione.
Ma, conclude Paolo: «Dico questo come concessione, non già come comando» (v. 6).
C'è divergenza tra gli esegeti sul come intendere il termine « concessione», usato in questo passo da Paolo. Secondo alcuni, Paolo «concederebbe » la ripresa dei rapporti coniugali dopo il breve periodo di astensione (7) . Secondo altri, invece, tale «concessione » riguarderebbe il periodo della stessa astinenza. Questa posizione ci sembra migliore, perché più ovvia e più aderente al contesto. Paolo, infatti, sta rivolgendosi a persone già sposate, per le quali l'uso dei rapporti coniugali è cosa più che ovvia (7, 2.5; e 7, 9.36). prospettandogli egli l'astensione da tali rapporti, presenta una eccezione alla norma, la quale va da sé che deve essere immediatamente ristabilita non appena cessa il motivo che momentaneamente l'ha fatta sospendere.
C'è inoltre da osservare in questi versetti l'esplicita affermazione della perfetta parità dei coniugi e della loro reciproca uguaglianza di diritti e doveri, senza alcun privilegio per l'uomo (v. 3). Da ciò ha preso avvio l'idea del matrimonio come contratto libero e bilaterale e della uguaglianza di condizione in rapporto ad esso delle due parti contraenti (8) , Che per Paolo il matrimonio rivesta un aspetto fondamentalmente contrattuale, è innegabile: esso è una istituzione che limita la libertà individuale dei coniugi, che li lega assieme, e li assoggetta l'uno all'altro (7, 3.15.19; Rm 7, 2-3)(9) .
Né in questa lettera né altrove Paolo parla dello scopo procreativo del matrimonio (10) . Non pone nemmeno in rilievo il beneficio personale che gli sposi, secondo Dio, possono trovare nella loro unione.
Dice solo: « A motivo della fornicazione, ognuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito» (7, 2)
Questo concetto, che sembra vedere nel matrimonio niente altro che un rifugio per coloro che non hanno ricevuto il dono della continenza, un mezzo per evitare l'impudicizia, potrà sembrare strano ai nostri giorni, in cui il mondo concettuale proprio a Paolo e ai cristiani della sua generazione è divenuto in parte estraneo. per essi, il cristiano, morto e risuscitato spiritualmente con Cristo mediante il battesimo, vive già in qualche modo nel mondo avvenire, che si manifesterà pienamente nella non lontana parusìa (7, 29). Così, egli appartiene ancora al mondo presente e nel contempo non vi appartiene più. Anzi, ciò che rende il matrimonio inutile, secondo Paolo, non è soltanto l'imminenza della parusìa, bensì il fatto che l'eone futuro è già presente e anteriore, nella speranza, a questo mondo: « Passa presto la figura (cioè, i beni apparenti) di questo mondo » (7, 31). Ora, nel mondo futuro « gli uomini non si sposano, né le donne sono date in matrimonio », ha detto Gesù (Mt 22, 30): i risuscitati sono come gli angeli di Dio in cielo. In queste condizioni allora il matrimonio ha l'apparenza di uno stato in un certo senso superato (11) , acquista un valore esplicitamente relativo.
Così la tendenza generale dimostrata in 1 Co 7 è di demitizzare i rapporti sessuali dal punto di vista della salvezza escatologica (7, 29-31), è di togliere al matrimonio il carattere di assolutezza che presentava nell'Antico Testamento e specialmente nel giudaismo, dove era considerato come un obbligo e chiunque non si fosse ammogliato a venti anni era giudicato reo di una offesa contro la legge di Dio(12) .
Secondo Paolo, il matrimonio non costituisce per il cristiano l'ultima parola, non è la pienezza dell'esistenza e il fine supremo. Tuttavia il suo atteggiamento è sano e realistico, in quanto per lui la trascendenza del Regno di Dio si manifesta non solo nel celibato ma anche nella vita coniugale.
Questa è la sua concezione caratteristica, che riteneva giusta (7, 26) e che attribuiva all'ispirazione dello Spirito Santo (7, 30), anche se aveva coscienza che il Cristo non gli aveva dato alcun comando in proposito.
Vari eccessi al celibato secondo la 1 Co 7 sono stati fatti nella superiore esposizione del pensiero di Paolo sul matrimonio. Ma, data l'mportanza dell'argomento e tenendo presente il fatto che anche l'apostolo gli dedica vari versetti, è bene che anche noi ce ne occupiamo, onde conoscere il suo preciso pensiero.
Come in Matteo (19, 12) il passo relativo al matrimonio si fonde con quello riguardante il celibato cristiano(13) , così anche nella nostra Lettera troviamo i due insegnamenti strettamente uniti.
Dopo aver genericamente consigliato «ai celibi e alle vedove » che per loro «è bene rimanere come anch'io sono» (7, 8), Paolo passa a darci le ragioni di questo suo consiglio, rispondendo (dal v. 25 in poi) ad una esplicita richiesta fattagli da quei cristiani.
a) La prima ragione che lo spinge a dare questo consiglio a chi è giovane è « il motivo delle presenti angustie» (v. 26)(14) . Coloro che sono sposati «avranno tribolazioni nella carne e io vorrei risparmiarvele » perché «il tempo è ristretto e ne resta ancora poco» (vv. 28-29).
Abbiamo già sopra accennato alla concezione spiccatamente personale di Paolo del carattere escatologico del celibato cristiano, ispirata dall'opinione dell'imminente ritorno di Cristo. Per cui riteneva che bisognasse lasciare che le cose del mondo compissero il loro corso. In queste circostanze egli riteneva che fosse meglio rinunciare alle nozze che sposarsi, e che non fosse proprio il momento per i cristiani di gettarsi sconsideratamente negli affari del mondo: « Quelli che usano del mondo, come se non godessero, perché passa presto la figura di questo mondo» (v. 31). In altre parole, Paolo desiderava che tutti i cristiani vivessero in questo stato di tensione escatologica.
Come è facilmente intuibile, ciò che Paolo sostiene in questi versetti circa il celibato è in sostanza quel che è già stato affermato da Gesù in Matteo (19, 10-12). Le differenze esistono solo in sfumature.
In Matteo il celibato è visto come un'eccezione, e piuttosto come uno stato, collegato con una funzione nel Regno di Dio; in Paolo, invece, è visto come lo stato di vita di tutti i cristiani, che ne abbiano il carisma. Possiamo perciò concludere che il carisma del celibato cristiano ha un senso escatologico, è in vista cioè del veniente Regno di Dio, nel quale proletticamente i cristiani sono già entrati come « figli della risurrezione». per questo Paolo lo raccomanda alle varie categorie di cristiani: agli agamòi, cioè ai non sposati, ai vedovi e vedove (7, 8.39-40), ai fidanzati (7, 38), ai parthenòi cioè ai non fidanzati né sposati (7, 25), agli sposi cristiani sia che convivano (7, 1-5.10) sia che vivano separati (7, 10) oppure che, pur vivendo insieme, siano separati a causa della loro fede (7, 12-16).
Paolo consiglia, non impone; consiglia a tutti, e non impone a una determinata categoria di cristiani.
Quanto diverso quindi è il celibato che egli consiglia da quello che la Chiesa Romana impone ai suoi preti, frati e monache!
b) La seconda ragione, da Paolo addotta in favore del celibato cristiano, è che chi è sposato si dà pensiero delle cose del mondo, del come piacere al coniuge, mentre chi non lo è, si dà pensiero delle cose del Signore (vv. 33-34).
Ma questi consigli dell'apostolo devono essere intesi in senso relativo, perché i doveri verso la famiglia sono perfettamente conciliabili con una vita di pietà. E' solo il pensiero delle «presenti angustie » che lo spinge paternamente a desiderare che i cristiani siano « senza sollecitudini » (v. 32).
Egli non consiglia chi può mantenersi libero di concentrare tutti gli affetti e le energie sugli interessi spirituali suoi e del prossimo ad addossarsi volontariamente il peso degli obblighi e delle preoccupazioni terrene connessi con la vita di famiglia. Non intende intralciare la libertà dei Corinti, non vuole obbligare gli altri in questa materia né a fare né a pensare come lui, ma vuole solo suggerire quello che gli pare più vantaggioso per loro (v. 35).
E poiché in quel tempo le fanciulle dipendevano dalla potestà paterna, ecco che lascia libero anche ogni padre di famiglia di apprezzare le circostanze esterne e quelle di famiglia nel decidersi se dare o meno a marito la propria figlia (vv. 36-38) (15) .
c) C'è però una frase di Paolo, che rappresenta per i cattolici una specie di cavallo di battaglia nel sostenere la loro tesi della superiorità del celibato sul matrimonio. Essa è: «Chi sposa la sua giovane fa bene, e chi non la sposa fa meglio » (v. 38).
Questo « bene» e questo « meglio» riassumono l'intero capitolo della lettera e quanto siamo venuti dicendo a proposito del matrimonio e del celibato. Il «meglio » non è pronunciato dal punto di vista ideale, soprannaturale per dire che il celibato è uno stato moralmente più perfetto di quello matrimoniale, ma solo in vista dei tempi calamitosi che attendono i cristiani.
Se così non fosse, Paolo si contraddirebbe in maniera vistosissima allorché più volte espressamente insiste nel dire ai cristiani che ciascuno deve rimanere nella condizione sociale (sposato o celibe, libero o schiavo, ebreo i pagano) in cui era quando Dio lo ha chiamato a salvezza (vv. 17-24.27-28).
In conclusione, possiamo dire che per Paolo il celibato è condizione affatto eccezionale finché dura lo stato attuale, dipendendo esso da un dono speciale di Dio e da circostanze individuali esterne, che lo fanno scegliere liberamente e dopo matura riflessione.
Inoltre, la libertà, che Paolo riconosce in Cristo al cristiano, esclude formalmente che la decisione in favore del celibato, una volta presa, sia irrevocabile, specialmente quando si constati che esso è divenuto un giogo insopportabile o meno utile. Infatti egli perentoriamente dice: « Se però non riescono a contenersi, si sposino, perché è meglio sposarsi che ardere» (7, 9).
Pertanto, per fare retto uso dell'insegnamento che Paolo dà in questo capitolo della sua lettera, occorre tenere conto:
1) Del punto di vista della vita superiore, spirituale, dal quale l'apostolo considera le relazioni terrene;
2) dello stato della chiesa locale a cui scrive e delle domande alle quali risponde;
3) delle minacciose circostanze esterne delle chiese cristiane d'allora di fronte al mondo pagano;
4) del carattere di parere o consiglio che l'apostolo dà a buona parte del suo insegnamento su questo argomento, e non di un ordine che annulli e restringa la libertà della coscienza e del criterio individuale.
Il non averlo fatto, ha portato alcuni a pronunziare giudizi avventati sull'apostolo e a fare del consiglio un obbligo e di ciò che era destinato a circostanze speciali un principio generale, provocando le gravi aberrazioni dalla verità.
Questa parte dell'insegnamento paolino sul matrimonio e celibato è maggiormente sviluppata delle altre due, perché in un primo momento avevamo ricevuto l'incarico di trattare solo questo argomento. Per esigenze redazionali si sono dovute aggiungere in seguito anche le due parti precedentemente trattate onde dare una visione abbastanza completa dell'insegnamento paolino sul matrimonio in tutto il cap. 7.
I versetti che ora dobbiamo prendere particolarmente in esame sono i seguenti:
«
Alle persone sposate poi ordino, non io ma il Signore: la moglie non
si separi dal marito e qualora si separi, non si risposi o si riconcili
col marito, e il marito non ripudi la moglie.
Agli altri infine
dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente e questa
è contenta di abitare con lui, non la ripudi; e se una donna ha un
marito non credente che è contento di abitare con lei, non lo mandi
via. Poiché il marito non credente è stato reso puro dalla
moglie, e la moglie non credente è stata resa pura dal fratello; altrimenti
i vostri figli sarebbero impuri, mentre ora sono puri. Ma se il non credente
si vuole separare, si separi pure. In tal caso però il fratello o
la sorella diventano liberi, perché Dio vi ha chiamati a vivere nella
pace. Infatti, che ne sai tu, o donna, se potrai salvare il marito? E che
ne sai tu, uomo, se potrai salvare la moglie?
» (1 Corinzi 7, 10-16).
Senza dubbio, l'esegesi di questo passo, e soprattutto dal vers. 15 (« Ma se il non credente si vuole separare, si separi pure »), rimane delicata, e, di fronte ad esso, ci si è potuto, ancora recentemente, domandare se il cosiddetto « privilegio paolino» sia stato realmente promulgato da Paolo.
A.
Esame del contesto del passo
(16)
.
Il passo può dividersi in due parti:
a) la prima (vv. 10-11), che parla del matrimonio tra cristiani,
b) la seconda (vv. 12-16) che parla di un matrimonio tra fedeli, che diviene « misto» (per così dire) per la conversione di uno di essi.
Prima parte: matrimonio tra cristiani (vv. 10-11)
In questa parte paolo si rivolge «ai cristiani sposati » (tòis ghegamekòsin ), ricordando loro che quanto sta per dire è un ordine del Signore. E quindi dice loro:
a) è proibito
alla donna cristiana separarsi dal marito (verbo:
koristhènai), e al marito cristiano
rimandare la moglie (verbo: afiénai
).
Da notare la sfumatura
di espressione tra «korìzo
» e «afìemi
), che sottolinea quale importanza veniva data presso gli Ebrei all'autorità
maritale.
Difatti, per la legge
ebraica solo l'uomo poteva giuridicamente ripudiare (
afiénai) la moglie, cioè
divorziare da essa, mentre la donna poteva solo
separarsi (koristhènai
) dal marito, cioè allontanarsi da lui
(17)
.
Le cose invece stavano diversamente presso la legislazione greco-romana del tempo di Paolo, in quanto si riconosceva anche alla donna il diritto di divorziare. Tanto è vero che, secondo Polibio (2° sec. a.C.) a altri, il verbo korìzo significava anche « divorziare»,
b) « e qualora la donna si separi ( koristhé) dal marito», non le resta, in forza del principio cristiano della indissolubilità del matrimonio, che questa alternativa: o riconciliarsi con il marito (il che mostra che per essa il vincolo sussiste), oppure astenersi da una nuova unione e vivere da sola (il che prova che la prima unione per essa dura ancora) (18) ,
c) al marito poi
(e si intende «marito cristiano
») è vietato, senza restrizione e senza eccezione, il rinvio
della donna, perché tale «rinvio
» (afiénai
) era inteso, sia dagli ebrei che dai pagani, come un atto avente l'effetto
di annullare legalmente il contratto nuziale.
In conclusione, Paolo
afferma in questa prima parte, senza alcuna limitazione, l'indissolubilità
del matrimonio tra cristiani.
Seconda parte: matrimonio di infedeli che diviene «misto» per la conversione al cristianesimo di uno di essi (vv. 12-16)
Anche in questa seconda parte le sfumature di pensiero e di espressione sono mirabilmente osservate:
a) v. 12. Non è
più un ordine del Signore, che Paolo dà, ma un suo consiglio,
certamente per lo Spirito del Signore.
Egli si rivolge «
agli altri» (
tòis lòipois). cioè
non più a cristiani sposati, non ai celibi e alle giovani ai quali
darà le sue istruzioni in seguito, né tanto meno agli infedeli
sposati che non lo interessano da questo punto di vista, ma a quella categoria
di persone il cui matrimonio non può essere posto nel rango «
dei matrimoni tra cristiani» in quanto
uno dei coniugi tale non è.
E' per questo che
in un caso del genere egli interpella soltanto il coniuge cristiano, per
il quale solo il Vangelo è norma di vita.
b) Egli proibisce dunque
il «mè afièto
» (che fa pensare ad una forma di proibizione assoluta)
al coniuge cristiano, sia marito o moglie,
di rimandare, cioè di ripudiare la moglie o il marito nel caso
in cui il coniuge infedele consenta a continuare la coabitazione. Da notare
che qui l'apostolo non fa più la distinzione ebraica tra il
ripudiare (
afiemi per l'uomo) e il «
separarsi » (
korizo , per le donne), ma usa per entrambi
i coniugi lo stesso verbo « afiemi
» (ripudiare), in quanto sta trattando di matrimoni conclusi sotto
il regime greco-romano, che, come abbiamo già detto, concedeva il
diritto di divorziare tanto all'uomo che alla donna.
Tale obbligo per
il coniuge cristiano di continuare la coabitazione col coniuge infedele,
se questi vi acconsente, deriva dal principio generale che l'apostolo esprimerà
al v. 17, secondo cui ognuno deve rimanere in quella condizione in cui
si trova nel momento in cui il Signore lo chiama.
Il coniuge cristiano,
quindi, non può, per effetto della sua nuova fede, prendere alcuna
iniziativa di risoluzione del matrimonio se l'altra parte consente alla
coabitazione.
c) Ma può verificarsi
il caso che il coniuge infedele a tale vita coniugale non consenta più.
Allora Paolo aggiunge subito: «Se il
non credente si vuole separare (
korithetai),
(il cristiano) si separi pure (
korizésto).
In tal caso però il fratello o la sorella diventano liberi
(greco: dedulòtai
, lett. non sono assoggettati ritrovano la loro libertà)»
(v. 15).
E la ragione di questo
atteggiamento viene data immediatamente: «
perché Dio vi ha chiamati a vivere nella pace
». E' alla pace che Dio ha chiamato i suoi e il coniuge cristiano
non può sottomettersi ad una vita impossibile senza avere alcuna
certezza di portare alla vera fede e alla salvezza il coniuge che caparbiamente
vuol rimanere infedele (v. 16).
In conclusione, dall'esame
del contesto emerge che nel caso in cui il coniuge infedele non voglia più
coabitare col coniuge divenuto cristiano, questi è sciolto dal vincolo
matrimoniale.
Ma si pone ora la domanda:
siccome il coniuge credente non è più vincolato e ritrova
la sua libertà, può passare ad altre nozze?
Benché Paolo
non lo dica espressamente (ed è questo il motivo per cui si sono
avute due tesi opposte a proposito!), pare che dall'esame del testo si possa
dare una risposta affermativa. Ed ecco il perché:
a) Se il verbo dulòo in questo versetto (v. 15) indica semplicemente «il vincolo indissolubile che lega due persone», come si legge nel Kittel («Grande Lessico del Nuovo Testamento», vol. II, p. 1463), consegue che il negativo «ou dedùlotai » paolino (cioè, non sono legati, quindi diventano sciolti) deve indicare che il precedente vincolo matrimoniale, che legava le due persone, ora non esiste più.
b) Il raffronto tra l'uso del verbo korìzo nei versetti 10-11 e nel v. 15:
— Nei vv. 10-11 è
la donna cristiana che «non si deve
separare » («
koristhènai ») dal marito non
credente, e perciò « qualora
si separi» («
koristé»), non deve, a norma
dell'insegnamento cristiano, risposarsi, anzi deve cercare di riconciliarsi
con lui, oppure rimanere senza marito. In un caso del genere la portata
giuridica del verbo korìzo
viene annullata dell'indissolubilità del matrimonio cristiano;
— nel v. 15, invece,
è la parte non credente che prende l'iniziativa di «separarsi»
( korizètai
), e per essa, che cristiana non è, tale verbo ha il valore di
divorziare, quale aveva nel mondo pagano. Quando infatti un pagano si separava
da un convertito al cristianesimo, non lo faceva certo per rimanere celibe
o vergine, bensì per riacquistare la sua libertà e il diritto
di passare a nuove nozze. Paolo pertanto non poteva imporre a lui quella indissolubilità
che è dote del matrimonio cristiano.
D'altra parte, non
si deve supporre che Paolo volesse qui imporre al coniuge cristiano la
cosiddetta «separazione legale
», mentre, permettendo al coniuge pagano la risoluzione del vincolo
matrimoniale, gli riconosceva indirettamente il diritto di passare a nuove
nozze, Se il vincolo matrimoniale è rotto, è spezzato; è
spezzato per entrambi i coniugi: sarebbe assurdo il pensare che il cristiano
continuasse a ritenersi legato a un vincolo che per l'altra parte non esiste
più. Un vincolo che non vincola le due parti, che vincolo sarebbe?
c) La frase poi «
abitare con lui o con lei» (in greco
« sunoikèo
» seguito da « metà
») significa qualcosa di più della semplice coabitazione,
indica tutta la vita coniugale.
Quindi nei versetti
12-13 il «è contenta o acconsente
ad abitare con lui o con lei» va inteso
nel senso di acconsentire a una vera vita coniugale, la quale non potrebbe
sussistere nella sua pienezza, ma solo in un modo imperfetto e monco, nella
separazione. per questo a tale assenso per una vita coniugale nella sua
pienezza, fa subito riscontro il «ma,
se il non credente si vuole separare»
(v, 15), quasi a dire: se il non credente non vuole questa vita coniugale
con il credente ... Il che implica qualcosa di più della semplice
decisione di lasciare il tetto coniugale, vuol dire che non si sente più
con lui moralmente, psichicamente e spiritualmente «
uno ». Quindi rompe il vincolo che
anche esteriormente lo lega alla parte credente per passare a nuove nozze
(e questo, come abbiamo visto, era il valore del verbo «
korìzo » presso i greci e i
romani).
d) Inoltre, Gesù
insegna che «chiunque guarda una donna
per appetirla ha commesso già adulterio con lei nel suo cuore
» (Mt 5, 18). Per il coniuge cristiano, quindi, la decisione della
moglie o del marito non credente che «
si separa» per sposare un'altra persona,
può configurarsi come «adulterio
», per cui il suo nuovo matrimonio è compreso nella eccezione
mattaica della «pornèia
», che consente al coniuge di passare a nuove nozze. Per questo,
secondo alcuni, il cosiddetto privilegio paolino non verrebbe ad aggiungere
un nuovo motivo di scioglimento del matrimonio, ma applicherebbe l'eccezione
della «pornèia
» a questo caso particolare.
In conclusione, mi
sembrano chiariti tanto il permesso paolino quanto la condizione posta.
Il cristiano non può prendere alcuna iniziativa di separazione, deve
essere il coniuge non credente prima. In tale caso egli non è più
legato; l'apostolo, in virtù della sua autorità, lo dichiara
libero. Però, eccetto un pericolo morale per lui, gli è permesso
di rinunciare al suo privilegio. Paolo permette, al più consiglia,
ma non comanda.
Ma avverandosi il
caso della separazione, egli toglie alla parte cristiana ogni motivo di
rimorso e di scrupolo, ricordando che Dio ci invita alla pace e che la speranza
remota ed incerta di convertire un giorno imprecisato il coniuge infedele,
non può richiederle il sacrificio della pace, della gioia e della
libertà in Cristo. Occorre solo che non sia il coniuge cristiano a
prendere l'iniziativa della separazione, o col rifiuto della coabitazione
o col rendere la coabitazione moralmente impossibile.
Mi sembra quindi
poter concludere che esiste «il privilegio
paolino ». Esso non è in contrasto:
né con l'insegnamento di cristo sulla indissolubilità del matrimonio
con l'unica eccezione della « pornèia
» (Mt 19, 9; 5, 32), in quanto si avrebbe in questo caso una applicazione
estensiva della « pornèia
» a un caso particolare; né con la massima generale paolina:
« Del resto ciascuno continui a vivere
nello stato che il Signore gli ha assegnato, nella condizione di vita in
cui si trovava quando il Signore lo ha chiamato
» (1 Corinzi 7, 17), in quanto tale privilegio concesso in favore
della fede non è che una deroga in un caso specifico e per motivi
particolarmente gravi alla massima stessa.
C.
Il pensiero dei padri e dottori
Dobbiamo ora vedere la storia di questo privilegio nella tradizione e nella teologia.
Fino all' ottavo secolo, non si incontrano (sembra) nella tradizione che tre autori, i quali fanno nettamente allusione a ciò che costituisce esattamente l'oggetto del privilegio stesso: il coniuge fedele può risposarsi se il coniuge infedele si separa? (19) . Due rispondono affermativamente: l'Ambrosiaster (20) (nel sec. 4°), e lo Pseudo-Teodoro di Canterbury (21) (nei sec. 7° e 8°). Il terzo, ed è Agostino di Ippona (sec 4°-5°), risponde negativamente (22) .
Nel secolo nono, Incmaro di Reims (23) cita il passo dell'Ambrosiaster (che egli attribuisce ad Ambrogio di Milano), ma sembra che seguisse Agostino nel rifiuto della possibilità di un secondo matrimonio(24) .
Ma il fatto che in quel periodo il testo dell'Ambrosiaster veniva attribuito ad Ambrogio di Milano o anche a Gregorio Magno(25) , facilitò in seguito l'introduzione del privilegio paolino nella Chiesa di Roma. Infatti, esso passerà progressivamente nelle raccolte canoniche del Medioevo: Graziano(26) e Pier Lombardo(27) precisano le condizioni nelle quali può esercitarsi (cioè che sia l'infedele a prendere l'iniziativa della separazione; Innocenzo III, alla fine del sec. 12°, riconosce ufficialmente (« auctoritative») il privilegio e con questo riconoscimento gli dà forza di legge (Denzinger, Ench. Symb. 768,778).
Dal sec. XII al XVIII l'esistenza del privilegio paolino è fuori discussione. La Chiesa greco-ortodossa(28) e le chiese nate dalla Riforma (29) ne riconoscono la validità. Nella chiesa romana ciò che in questo periodo è semplicemente controverso è lo stabilire il momento in cui si produce la rottura del vincolo. Per gli uni, dopo Graziano, è al momento della separazione; per Tommaso d'Aquino è al momento del nuovo matrimonio: il vincolo di questo nuovo matrimonio spezza il precedente (30) . Sarà questa la posizione che finirà per imporsi nella Chiesa Romana, che l'ha adottata nel suo Codice di Diritto Canonico (can 1126) (31) .
Quanto al Concilio di Trento, non dice nulla sul privilegio stesso che non era, d'altronde, respinto dai protestati(32) .
Nel secolo XVIII questa prassi venne attaccata dai Giansenisti per i quali essa era un abuso grave, in quanto le parole di Paolo, secondo loro se intese nel loro vero significato, non contengono alcun permesso di nuovo matrimonio. Essi ritenevano ancora che il consenso degli scolastici era dovuto ad un errore di attribuzione circa il vero autore dell'Ambrosiaster (33) .
D.
L'odierna posizione ufficiale delle chiese
Ai nostri giorni sia la Chiesa di Roma che le Chiese Ortodossa e Protestante ufficialmente mantengono la posizione di permettere nuove nozze al coniuge cristiano che la parte infedele abbandona «in odium fidei ».
a) ma tra i cattolici,
all'inizio del secolo XIX, alcuni teologi e canonisti (e non tutti giansenisti)
hanno preso a difendere il punto di vista giansenista. Così il
Le Plat (34)
,
Il Robeck(35)
,
lo Schlosser(36)
,
il cardinale De La Luzerne (37)
,
il Binterim(38)
,
e recentemente il Dulan(39)
.
Il punto di vista
in favore di un nuovo matrimonio è sostenuto però dalla stragrande
maggioranza dei teologi e canonisti
(40)
.
Questi, per sormontare il punto discusso se Paolo abbia o no promulgato
questo privilegio in 1 Co 7, 15, affermano che tale questione ha un'importanza
molto minore, tanto sul piano teorico che pratico, di quanto sembri. Poiché
ciò che, in realtà, dà forza di legge alle disposizioni
giuridiche, che si chiamano «privilegio
paolino», è di fatto che esse
sono state inserite, dal Medioevo in poi, dai Papi nelle loro Decretali,
dalle quali sono passate nella legislazione ecclesiastica posteriore e nell'attuale
Diritto Canonico. E' questa la tendenza di collegare il «
privilegium paulinum» più
che al testo di 1 Co 7, 15 al «privilegium
petrinum », al potere delle chiavi che
Gesù avrebbe conferito a Pietro e ai suoi successori
(41)
.
E' in conseguenza di tale potere, sostengono i teologi e canonisti cattolici,
che il Papa può sciogliere qualsiasi matrimonio «
rato et non consumato» e che può
anche emanare una legge generale che stabilisca la rottura del vincolo matrimoniale,
contratto da un convertito nella infedeltà. se determinate condizioni
sono osservate(42)
.
Ma questo «potere delle chiavi
» viene esteso dall'amministrazione giuridica ecclesiastica romana
anche a situazioni che l'apostolo Paolo non prevede: così viene sciolto
il matrimonio tra un battezzato e un infedele anche se questi continua
a vivere maritalmente con la parte convertita; così ogni matrimonio,
in cui uno dei coniugi non sia battezzato, viene ritenuto in definitiva
suscettibile di scioglimento nell'interesse della fede del coniuge battezzato,
anche se l'autorità pontificia lo abbia permesso con la dispensa
della « disparitas cultus
» (che lo rende valido secondo il Diritto Canonico); così
infine procede allo scioglimento del matrimonio, quando non sia stato consumato.
Ma osserva giustamente il padre domenicano Schillebeeckx(43) (e noi facciamo nostre le sue osservazioni): « La concezione paolina del matrimonio dimostra che problemi del genere non si possono risolvere semplicemente appellandosi alla giurisdizione ecclesiastica o potere delle chiavi (il «privilegium petrinum, nota nostra), come fanno di solito i giuristi e i canonisti ... Il potere delle chiavi (44) non è affatto un'autorità autocratica, ma una potestà legata alla parola del Cristo storico e risorto. In questo modo la Bibbia resta un'autorità critica, da cui la giurisdizione ecclesiastica non è in grado di emanciparsi».
b) Tra i
protestanti ci sono autori
(45)
(in realtà, molto pochi) i quali ritengono che Paolo non
considerasse in 1 Co 7, 12-16 che una semplice separazione legale.
Secondo costoro il
verbo «separarsi
» (korìzesthai
), che Paolo usa, non indica in effetti uno scioglimento del vincolo
matrimoniale, e l'espressione «il fratello
e la sorella sono liberi» significa semplicemente
che non sono obbligati alla vita comune, perché se Paolo avesse voluto
dare il diritto alla parte credente di risposarsi, l'avrebbe probabilmente
detto.
In ogni modo, aggiungono,
non è certo credibile che il v. 12 («
Agli altri poi dico io, non il Signore»)
possa introdurre un'eccezione alla indissolubilità del vincolo
matrimoniale. Come si potrebbe sinceramente pensare che Paolo, per giustificare
un'eccezione alla legge divina del matrimonio (che il Signore stesso ha
confermato), si sarebbe accontentato di fare appello alla sua autorità
personale di apostolo («Dico io, non
il Signore »)?
Ma questa esegesi
non ci sembra accettabile.
E.
Altre ragioni bibliche addotte a sostegno della facoltà di passare
a nuove nozze
Il paolino « Si separi pure!», che noi intendiamo nel senso giuridico di scioglimento del matrimonio, e non in quello di separazione senza possibilità di seconde nozze, che Paolo ha enunciato per la prima volta(46) per i coniugi cristiani (1 Co 7, 10-11), trova conferma nelle seguenti considerazioni bibliche:
a) Il contrasto tra i due testi paolini. Nel primo (1 Co 7, 10-11) l'affermazione di Paolo, che ai coniugi cristiani separati non è lecito risposarsi, si basa su un «logion » di Gesù, mentre nel secondo (7, 12-16) Paolo parla della propria — e tuttavia apostolica — autorità per permettere la separazione.
Tale contrasto tra i due testi dimostra che nel secondo caso il « separarsi» significa scioglimento del matrimonio: «In tali casi il fratello o la sorella diventano liberi» (7, 11). Anche se Paolo non dice espressamente che, dopo tale separazione, è lecito al coniuge cristiano risposarsi, tuttavia ciò è implicito nel testo.
Infatti, « il logion» di Gesù: « I due saranno una sola carne. Quindi non sono più due, ma una sola carne» (Mt 19, 1-8) (47) , a cui Paolo fa riferimento (vv. 10-11), comprende l'idea dell'unica comunione di vita, che è l'intenzione con cui Dio ab initio istituì il matrimonio. Ora, Paolo, che considerava questa affermazione storicamente autentica di Gesù, come una norma inviolabile, rende ancora più radicale il senso del «logion » del Cristo. Per lui, infatti, la comunione nella fede costituisce un elemento essenziale del matrimonio, al punto di far ritenere che deve essere stato un vizio sostanziale nella stipulazione del contratto, se un non cristiano si rifiuta di continuare a vivere coniugalmente con un cristiano. E' questa situazione di fatto, cioè questo rifiuto opposto dal coniuge non cristiano a convivere ulteriormente col coniuge cristiano, che pone termine all'esistenza del matrimonio. Ci si trova quindi di fronte a un'autodissoluzione del matrimonio a vantaggio della vita di fede del coniuge cristiano.
b) Dal punto di vista biblico il matrimonio di un cristiano ha un significato più profondo e radicale, assume cioè un carattere speciale nei confronti del matrimonio di un non battezzato, anche se questo è certamente un vero matrimonio.
La volontà di Dio-Creatore, a cui Gesù si riferisce nel sui « logion» (Mt 19, 4-6), significa che il matrimonio, come realtà umana, implica già in sé un rapporto religioso con Dio. Ma il matrimonio, come realtà cristiana, implica un rapporto salvifico, che è stato conquistato concretamente in Cristo e che tocca in sorte all'uomo nella fede e nel battesimo (Ef 5, 21-32). Per questo, se il matrimonio tra non cristiani è qualcosa di sacro, solo quello dei cristiani è una realtà dell'alleanza, come figura dei rapporti che intercorrono tra Cristo e la sua Chiesa (Ef 5, 32). In questo senso questo matrimonio è « il grande mistero» (Ef 5, 32). Ma ciò che lo rende tale è il battesimo: è il battesimo solo che ne costituisce il vincolo reale e concreto; è esso che continua a influire sull'istituzione del matrimonio e sul conseguente obbligo morale di essere «una sola carne ». però è il battesimo che costituisce la base dell'indissolubilità del matrimonio cristiano.
Questo vincolo è presente anche nel caso di nozze di una persona non battezzata con una battezzata o viceversa fintantoché non si rinnega il mistero di Cristo. Ma, qualora tale rinnegamento di verifiche, il vincolo matrimoniale scompare automaticamente per la parte cristiana. Quindi se la parte non cristiana vuole continuare a vivere con la parte cristiana, il matrimonio, secondo Paolo, rimane intatto, in quanto può definirsi implicitamente cristiano; in caso contrario, è evidente che la parte non cristiana rinnega l'implicita relazione del matrimonio con Cristo, e quindi il vincolo reale e indissolubile che tale relazione gli conferisce (48) .
c) Questo carattere distintivo del matrimonio di un cristiano emerge ancor più chiaramente dalle parole di Paolo, quando dice che il coniuge non battezzato « è santificato» per mezzo del battezzato e che i figli di questo matrimonio sono « santi» (vv. 7.16). Ed è questo il motivo che Paolo dà perché il coniuge cristiano non ripudi il marito o la moglie non cristiana.
Ma è molto discusso che cosa Paolo abbia veramente voluto dire con il perfetto passivo « aghiàstai» (è stato santificato, v. 14), e molti sono stati i tentativi per risolvere la difficoltà. Tutti però concordano che qui non si parli di santità interiore dell'anima, acquistandosi questa non mediante un contratto, ma solo per un libero atto di fede personale. Ugualmente, tutti pensano che non si riferisca alla possibilità o speranza di una futura conversione della parte infedele, perché il verbo è al perfetto, indicando che tale santificazione è già in atto.
Noi riteniamo che voglia indicare innanzi tutto una santità esterna e legale, che rende il matrimonio cristianamente legittimo(49) e secondariamente un carattere sacro che verrebbe ad assumere il coniuge infedele per la sua unione con chi è santificato in Gesù Cristo in senso più profondo (il che lo renderebbe in certo senso «consacrato») (50) .
Il problema è costituito dal fatto che il significato di « aghiàstai » e di « aghìoi » di questi versetti non ha paralleli nel N.T. Un confronto potrebbe farsi con 1 Ti 4, 5 dove si dice che ogni creatura di Dio, se si riceve con rendimento di grazie, è buona « perché viene santificata dalla parola di Dio e dalla preghiera ». Si tratterebbe cioè di una santificazione estrinseca (che in nessun altro luogo è applicata alle persone), la quale deriva dalla relazione con le cose sante. Si ritroverebbe così in Paolo, in certo qual modo, la concezione giudaica della «impurità legale » dei gentili (51) , ma capovolta. Secondo Paolo, infatti, non sarebbe il coniuge pagano a rendere impuro il coniuge cristiano, ma sarebbe questi a purificarlo e a prova di ciò porta il fatto che i figli, nati dal loro matrimonio, sono « santi », cioè liberi da ogni impurità che ne ostacola i contatti con la comunità di salvezza, e quindi suscettibili di sentirne i benefici effetti per una loro personale positiva adesione alla fede cristiana. Il matrimonio quindi, per la conversione del coniuge dalla sfera dell'ambito naturale, in cui si trova, entra nella sfera della grazia, quale simbolo della unione di cristo con la Chiesa.
In assoluto, per effetto della conversione del coniuge, il matrimonio non potrebbe più essere «consortium omnis vitae, divini humanique juris comunicatio», secondo la definizione del giurista romano Modestino, e il coniuge credente sarebbe danneggiato nella sua spiritualità dalla posizione spirituale del coniuge infedele. Il suo matrimonio quindi non sarebbe santificato. Ma Paolo lo tranquillizza che non è così. E' con esso col suo insegnamento in Cristo ad agire in bene anche sul coniuge infedele, se lui vorrà. «Acconsentendo» questi a continuare la coabitazione pacifica col coniuge cristiano (v. 12), sentirà l'influsso salvifico di Cristo e gli giungeranno, per vie misteriose, i benefici influssi della comunione d'amore e di grazia del coniuge cristiano, che gli faciliteranno l'adesione alla fede.
Anche Pietro parla del matrimonio tra una cristiana e un infedele, e considera lo « zelo» della moglie per la fede come una parte integrante dell'esperienza cristiana delle relazioni domestiche tra il marito non credente e la moglie credente: « Parimenti, voi, mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, affinché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla Parola, siano guadagnati, senza parola, dalla condotta delle mogli, vedendo il vostro modo di vivere casto e riservato» (1 Pt 3, 1-2).
Questo e non altro ci sembra voglia insinuare l'apostolo con le parole « è stato santificato» e « santi» (52) .
Possiamo, quindi, concludere che 1 Co 7, 12-16 non solamente segue il pensiero del « logion» sinottico di Gesù sull'indissolubilità del matrimonio, ma ne rafforza il valore e la portata. Tale risultato viene conseguito illustrando l'idea « della pace » entro « la carne una » del matrimonio e dimostrando come il battesimo cristiano trasforma il contratto matrimoniale in un vincolo indissolubile oggettivo.
Dal testo, inoltre, appare chiaro che il matrimonio cristiano è sostanzialmente una missione, un impegno di santificazione dei coniugi fra loro e verso i figli e l'intera famiglia. Esso infatti, non si limita, mediante il battesimo a entrare nella salvezza operante entro il rapporto coniugale personale. Ma è ovvio che se questo suo orientamento verso la salvezza viene rinnegato dal coniuge non battezzato, il matrimonio si scioglie in favore «della pace», in cui la salvezza ha incorporato il coniuge battezzato.
1. Bibliografia sul «Matrimonio» in Paolo: P. Adnés , il Matrimonio , Desclée, Roma 1966; F. Amiot , L'einseignement de Saint Paul , Paris 1938, t. 2, pp. 87-94, 116-118; id. , Les idées maîtesses da Saint Paul, Paris 1959, pp. 195-197; J.J. von Allmen, Maris et femmes d'après Saint Paul , Neuchâtel 1951: J. Bonsirven, L'Evangile de Paul, Paris 1948, pp. 301-302; G.B. Colon, art. Paul (Saint) in Dictionnaire de Theologie Catholique II , 2 (1932), pp. 2418-2422; G. Delling , Paulus Stelling zur Frau und Ehe , Stoccarda 1941; J. Dauvillier , Le droit du mariage dans les cités grecques et hellenistiques d'après les écrits de Saint Paul , in Revue Intern. des Droits de l'Antiquité,3° serie, 7 (1960). pp. 149-160; X. Léon-Dufour , Marriage et continence selon Saint Paul , in «A la rancontre de Dieu» (Mémorial A. Gelin), Lyon-Paris 1961, pp. 319-330; Ph.R. Menoud , Marriage et celibat selon Saint Paul , Rev. de Théol. et de Philos., 3° serie, I (1951), pp. 21-24; F. Prat, La teologia di S. Paolo, S.E.I., Torino, P.L., pp. 102-106; E. Schillebeeckx , Il matrimonio , Ediz. Paoline 1971, pp. 153-268. torna al testo
2. La situazione personale di Paolo nei confronti del matrimonio ha fatto sorgere parecchie ipotesi: egli sarebbe stato vedovo (J. Jeremias, Was Paulus Witwer, in Zeit. f. d. Neutestam., Wiss, 1936, p. 310; 1929, p. 331; E. Fascher, Zur Witwerschaft der Paulus, in ib. (1929), 62ss,); sarebbe stato sposato a una giudea che non si era convertita e sarebbe vissuto separato da lei (Ph.R. Menoud, in «Revue de Théol. et de Philos», 1961, p. 23, n. 1); sarebbe stato semplicemente celibe (O.J. von Allmen, op. cit., p. 116, n. 3); cf. anche Schillebeeckx, op. cit., p. 177. torna al testo
3. Non siamo d'accordo con E. Schillebeeckx, op. cit., p. 190, quando afferma: « Secondo me, Paolo non pensava direttamente a questo (cioè al matrimonio come dono). Il problema però consiste nel sapere se, dopo un accurato esame della concezione paolina, ci vediamo costretti ad accettare questa ipotesi come una conseguenza implicita. Egli non ha mai definito l'agàpe che deve trasformare il matrimonio come un carisma. Il matrimonio è una particolare espressione dell'amore cristiano che in esso acquista un carattere distintivo e una forma insostituibile. Mi sembra che questo e solo questo sia veramente esplicito nel pensiero paolino. Ma è difficile stabilire diversamente sulla base del testo considerato se il matrimonio in sé costituisce un a carisma particolare ». torna al testo
4. Paolo aveva una concezione tutta personale del carattere escatologico del celibato. Per lui alcuni cristiani sono già entrati proletticamente e in modo particolare nello stato di «figli della resurrezione». avendo già rinunziato alle cose di questo effimero mondo per occuparsi solo dell'avvento del Regno escatologico. Era inoltre ispirato dall'opinione, diffusa nella Chiesa primitiva, che la seconda venuta di Cristo non avrebbe tardato a lungo. In queste circostanze era meglio rinunciare alle nozze che sposarsi, era meglio non gettarsi sconsideratamente negli affari del mondo (7, 29-35). torna al testo
5. « Vivere da corinzi » ( korinthiazèin ) era una frase comune a quel tempo, ispirata dal libertinaggio che prevaleva in quel porto. torna al testo
6. Secondo la dottrina rabbinica, nella vita coniugale i rapporti tra marito e moglie erano obbligatori a intervalli regolari (cf. H.L. Strack und P. Bellerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Monaco 1922-28, 5 voll.), ma dovevano anche esserci dei periodi di continenza dedicati alla preghiera e allo studio della legge. I rabbi regolavano minuziosamente questi intervalli, mentre Paolo li affida alla coscienza individuale dei cristiani di Corinto. Anche nella morale cattolica del periodo medioevale si avevano precise norme regolanti i rapporti coniugali dei fedeli, specialmente in giorni di penitenza, soprattutto precedenti alla Pasqua, e quando al mattino seguente ci si doveva accostare alla comunione. torna al testo
7. Cf. P. Mauro Làconi, 1^ e 2^ lettera ai Corinti, Sez. III del vol. V, in Il Messaggio della Salvezza, p. 558, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1968. torna al testo
8. Rava, Lezioni di diritto civile sul matrimonio, Padova, 1935, p. 35. torna al testo
9. Questo punto di vista dell'apostolo, del resto, non pregiudica in nulla l'altro più religioso del simbolismo tra Cristo e la Chiesa, che la lettera agli Efesini svelerà in seguito (Ef 5, 22-23). torna al testo
10. E' bensì vero che delle vedove poù giovani dice in 1 Ti 5, 13-15: «Voglio che ... si rimaritino, abbiano figli», ma perché, nel suo pensiero, a quanto pare, la maternità, come il governo della casa, sarà per loro, in realtà, la migliore delle occupazioni. torna al testo
11. In questo senso alcuni esegeti sono indotti a intendere la « concessione» di Paolo di 7, 6 come permesso di riprendere i rapporti coniugali, onde evitare la tentazione carnale. Noi però non riteniamo solo in questo senso. torna al testo
12. E. Schillebeeckx, op. cit., p. 174-180; cf. L. Strack- C. Billerbeck, op. cit., parte 2^, pp. 372-373. Cf. anche H.J. Schoeps, Ehebewertung und Sexualmoral der späteren Judenchristen, in «Studia Theologica». Lund 3, 1949, pp. 99-100. torna al testo
13. Mt 19, 12: «Ma vi sono pure degli eunuchi, che si son fatti tali a motivo del Regno dei cieli. Chi lo può capire, lo comprenda». torna al testo
14. 1 Co 7, 26. Questa frase è stata spiegata diversamente dai teologi. « A causa delle persecuzioni che minacciano la Chiesa ». (J. von Allmen, op. cit., p. 15); « a causa della situazione difficile in cui si trovano i cristiani di Corinto » (A. Menoud, op. cot., p. 24); « a causa della tensione tra l'eone di questo mondo e l'eone venturo » (W. Grundmann, in Studia Theologica, pt. I, pp. 349,-350; X. Leon-Dufour. op. cit., p. 325); «a causa delle calamità che accompagneranno la fine dei tempi », che però possono essere già cominciate o essere imminenti (H. Schlier, in «Grande Lessico del N.T.», pt. 3, p. 145). Sembra che «énestos » significhi sempre «presente » e mai «imminente ». Comunque Paolo si preoccupa delle « thlipseis» ossia delle « necessità di questo eone», il tempo cioè nel quale termina l'antico eone e comincia il nuovo. Il tempo della Chiesa è un'epoca escatologica caratterizzata da sofferenze e calamità. torna al testo
15. Noi abbiamo dato di questi versetti l'interpretazione più naturale e comune, ma la loro difficoltà ha fatto sorgere varie altre spiegazioni: cf. J.J. O'Rouerke, Hypotheses regarding 1 Co 7, 36-38, in «The Catholic Biblical Quarterly», 20 (1958), pp. 292-298. Vedi anche i Commenti alle Lettere ai Corinzi di J. Cambier 425, nota 1; A. Feuillet, pp. 177-178; A. Penna, p. 466, nota 1; C. Osty, p. 42, nota b; S. Cipriani, pp. 264-265. Alcuni hanno anche pensato che l'imperativo plurale « gaméitosan» (« si sposino») potrebbe far supporre che si tratti non di un padre nei riguardi di una figlia da maritare, ma di un giovane che convive castamente con una « virgo subintroducta» (uso testimoniato per i sec. 2/3, ma non per il I° sec.: cf. J. Weiss, Commento alla Lettera 194, H. Lietezmann id. 37). Ipotesi che è stata ripresa leggermente ritoccata da H. Kruse, Matrimonia «josephina» apud Corinthios, in «Verbum Domini», 20 (1948), pp. 344-350 e da G. Leal, Super virgine sua (1 Co 7, 37), id 35 (1957), pp. 97-102. Si è anche pensato a una giovane protetta da un fratello celibe (cf J. Rohr, Paulus, Friburgo. in B. 1899 e L. Richard, Sur 1 Co 7, 36, cas de coscience d'un père ou mariages ascétique, in «Mem. J. Chaine», Lione 1950, pp. 309-320. torna al testo
16. Per questa parte dell'articolo abbiamo particolarmente tenuto presente i seguenti scritti: E. Schillebeeckx, o.p.; il Matrimonio, Ed. Paoline, Roma 1971, pp. 208-225; P. Adnés, Il Matrimonio, Desclée e C., Editori Pontifici, Roma 1966, pp. 35-36, 171-178; F. Puzo, Privilegio Paolino, in «Enciclopedia della Bibbia», Elle-Di-Ci, Torino-Leumann, 1971, vol. V, coll. 949/954; F. Prat, La teologia di San Paolo, vol. I, 7 ^ ed., Torino S.E.I. 1950, pp. 106-109; e vari commenti alla 1 Corinzi (S. Cipriani, E. Bosio, J. Héring). torna la testo
17. Questa diversa posizione dell'uomo e della donna nella risoluzione del loro matrimonio va forse inquadrata nel fatto che al momento del fidanzamento lo sposo pagava al padre della sposa il « mòhar » o dote (Ge 34, 12; Es 22, 16; 1 Sm 18, 25; Dt 22, 29; Os 3, 2). Circa il preciso valore di questa somma non concordano gli studiosi: per alcuni essa era un vero e proprio prezzo di acquisto, il segno che la donna passava dalla patria potestà alla potestà maritale, per altri essa costituiva piuttosto il sigillo di un autentico patto, quello matrimoniale (cf. R. De Vaux, o. p., Ancient Israel Its life and institutions, Londra 1961, pt. I, pp. 26-29). torna al testo
18. Cf. D. Daube, The New Testament and Rabbinic Judaism, Londra 1956, pp. 362-363. torna al testo
19. Altri scrittori dicono che il matrimonio viene infranto, ma non accennano a nuove nozze: Giustino (2 Apol. 2; cf Migne, PG 6, 443), Conc. di Elvira c. 10 (Mansi II, 38), Ambrogio (In Lucam 16, 18; cf Migne, PL 15, 1765/67), Gv. Crisostomo (Hom 19 in «Epist. O ad Cor. n. 3»; cf Migne, PG 61, 155 scrive: « E' meglio infrangere il matrimonio che perdersi »). torna al testo
20. Cf il suo Commento in S. Paulum, O Cor. 7, 10s (Migne PL 17, 219), in cui scrive: «Non è peccato per colui che è stato abbandonato per Iddio, se si congiunge ad altri ». torna al testo
21. Nel Poenintentiale Theodori 2, 12, par. 18 (cf Migne, PL 902s). torna al testo
22. Cf. B.A. Pereira, La doctrine du mariage selon saint Augustine, p. 146. Secondo Agostino il coniuge cristiano ha sempre il diritto di separarsi dal coniuge non credente che non vuole coabitare in pace con lui e mette ostacolo alla sua fede. Lo sposo cristiano però non può contrarre un nuovo matrimonio. torna al testo
23. De divorzio Lotharii et Tetbergae, Interrogatio 19 (Migne, PL 125, 730); Interrogatio 21 (Migne, PL 125, 732). torna al testo
24. Vedi sopra: De div. et Tetb., Inter. 19 (Migne, PL 732, 733). torna al testo
25. Cf Ugo di S. Vittore, De Sacramentis 2, 11, 13 (Migne, PL 176, 506). torna al testo
26. Decretum Graziani, Pars II, Causa 28, q. 2, dictum ad c 2. torna al testo
27. IV Sententia, d 39, c. 5. torna al testo
28. Cf. Paul Evdokimov, Saggio di teologia ortodossa sul matrimonio, art. in «Il matrimonio», Casa Editrice Ave, Roma 1967, III par., pp. 124-126. torna al testo
29. Cf. E. Bosio, Commento alle Epistole di Paolo ai Corinzi, Libreria Edit. Claudiana, Torre Pellice 1939, pp. 57-58. Cf Aldo Comba, Il divorzio, Claudiana 1966. torna al testo
30. Tommaso d'Aquino. Suppl. q. 59 a. 5 ad I. torna al testo
31. Lo stesso Codex Juris Canonici (can 1120-1124) regola lo scioglimento per privilegio paolino del matrimonio dei convertiti, esigendo cinque condizioni: 1) matrimonio legittimo, cioè concluso tra due infedeli; 2) ricezione del battesimo da parte di uno dei coniugi; 3) interpellanza preliminare rivolta alla parte non battezzata per sapersi se vuole convertirsi o almeno se acconsente a coabitare pacificamente senza ingiuria al Creatore; 4) rifiuto di conversione o, almeno, di coabitazione pacifica da parte dell'infedele: 5) matrimonio della parte battezzata con una persona cattolica, poiché il privilegio è concesso «in favorem fidei », in vista cioè di favorire la fede (tuttavia la Santa Sede può dispensare o permettere di sposare un infedele o un acattolico). E' il secondo matrimonio che spezza il vincolo del primo (CJC 1126). torna al testo
32. Alcuni di loro applicavano particolarmente le parole dell'apostolo: «Ma se il non credente si vuol separare, si separi pure» (1 Co 7, 15) al caso specifico del matrimonio fra un credente (protestante) e un «papista» (cattolico). torna al testo
33. Tale opposizione si manifestò particolarmente in occasione della celebre causa matrimoniale promossa dall'ebreo Baruch levi, di Hagenau, che, convertitosi nel 1752, voleva approfittare del privilegio per la sciare la moglie rimasta ebrea e sposare una cattolica. La questione occupò allora la cronaca della Francia: i teologi della Sorbona ritenevano che il levi potesse sposarsi di nuovo, altri erano di parere contrario. Finalmente il Parlamento di Parigi formulò un decreto che interdiceva all'uomo di risposarsi finché sua moglie ebrea era in vita (cf. Recueil important sur la question de savoir si un Juif peut se remarier après son bapteme, Paris 1759). torna al testo
34. J. Le Plat, Diss, Hist. can. in qua ostenditur in casu apostoli 1 Co 7 parti conversae non liberum esse ad secunda vota transire, Louvain 1771. torna al testo
35. R. Robeck, Diss de Matrimonio, Praga 1775. torna al testo
36. F.X. Schlosser, Diss. de indissolubilitate matrimonii, Freiburg 1780. torna al testo
37. Il card. De La Luzerne, Instructions sur le rituel de Langres, c. 9, n. 3, Besançon 1790, p. 731. torna al testo
38. A.J. Binterim, Die vorzüglichsten Denkwürdigeiten der Christ-Katholischen Kirche, mainz 1830, p. 148. Ma un'ammonizione di papa Gregorio XVI portò il Binterim a cambiare opinione nel suo De Libertate coniugis fidelis ... questio retracta, Coblenza 1834. torna al testo
39. P. Dulan, op. cit. torna al testo
40. Abbondantissima è la letteratura cattolica sul privilegio paolino: A. Bride, art. Privilège paulin, in Dictionnaire de Theologie Catholique, Paris 1903-1950; P. Palazzani, Enciclopedia Cattolica art. Privilegio paolino, vol. X, coll 49/56, Stato Città Vaticano 1953; L.C. De Léry, le privilège de la foi, p. 3-93; G. Rychmans, de privilegio paulino juxta 1 Co 7, 12-20, Collect Mechlin, Lovanio 10 (1930), pp. 637-638; A. Beel, Indissolubilitas matrimonii et privilegium paulinum, 1 Co 7, 10-16, Coll. Bruben, 37 (1937), pp. 388-393; J. Fahrner, Geschichte der Ehescheidung im Kanonischen Recht, t. I, pp. 271-291: G.H. Joyce, Matrimonio cristiano, Edizioni Paoline, Torino; H. Rondet, Introduction a la theologie du mariage, pp. 91-96; J. Bondow, Memento du privilège paulin, Namur 1939; G. Vromant, Le privilège de la foi au canon 1127, Nouvelle Revue Theologique, Tournai 59 (1932), pp. 440-452; D. Gregory, The pauline privilege, Washington 1931; C. Alonso, De solutione vinculi matrimonialis vi privilegii paulini, Mantall 1960; J. Jeremias, Die missionarsche Aufgabe der Mixhehe (1 Co 7, 16), in Neutestamentliche Studien für Bultmann, Berlino 1954, pp. 255-260; E. Neuhaster, Ruf Gottes und Stand des Christen. bemerkungen zu I Kor 7, in «Biblische Zeitschrift», Friburgo in Brisgovia-Paderbon 3 (1959), pp. 43-60; T.P. Considine, The Pauline privileg (Further Examination if 1 Co 7, 12-17, in «Australasian Catholic Record Manly» (Nuova Galles del Sud), 40 (1963), pp. 176-182. torna al testo
41. In tale «potere delle chiavi» il privilegio paolino sarebbe contenuto implicitamente, ma formalmente: Cf. A. Vermeersch, Theologia moralism t. 3, n. 813; L.C. De Léry, La dissolution du mariage et le pouvoir des chefs, in «Sciences ecclesiastiques», t. 10 (1958), pp. 335-339. torna al testo
42. Si fa notare a proposito che nella difesa del privilegio paolino il Magistero Cattolico non si è mai basato direttamente ed esplicitamente su 1 Co 7, 15 8CF. H. Denzinger, Eoch. Symb., Friburgo 1962, pp. 768-778). C'è solo una dichiarazione del Santo Ufficio (11 luglio 1886) che collega esplicitamente il privilegio all'apostolo Paolo, ma si fa notare che questa non è una definizione papale nel senso autentico del testo paolino. L'enciclica «Casti connubii» di Pio XI fa allusione al privilegio (Denzinger, o. c. 3712), ma non si riferisce direttamente (osservano) e esplicitamente a Paolo. torna al testo
43. E. Schillebeeckx, il matrimonio, op. cit., p. 224. torna al testo
44. Lo Schillebeeckx, da buon studioso cattolico, riconosce l'esistenza del «potere delle chiavi», anche se è critico nell'abuso che se ne fa. torna al testo
45. Vedi gli anglicani Robertson e Plummer: 1 Corinthians, International Critic. Comment., Edimburgo 1914, p. 143. torna al testo
46. Diciamo «per la prima volta », perché la separazione legale era sconosciuta tanto nella legislazione mosaica che in quella greco-romana. torna al testo
47. Cf anche Mc 10, 1-12; Lc 16, 18. torna al testo
48. Per questo, mentre un matrimonio è formalmente indissolubile finché si tratta di un battezzato, non lo è invece nel caso di un non battezzato. torna al testo
49. Cf. P. Adnés, op. cit., p. 35, nota 2; S. Cipriani, op. cit., pp. 156-157; E. Schillebeeckx, op. cit., p. 214. torna al testo
50. In questo senso il tempio santifica l'oro che è in esso, e l'altare il dono che sopra di esso è posto (Mt 23, 17-18), così la radice rende santi i rami (Rm 11, 16; e per converso 1 Co 16, 15-17). A questo proposito «La Bibbia di Gerusalemme» (cf. nota ad locum) dice: « Per mezzo della sua unione ad un membro del popolo santo, il coniuge non credente è unito, in certo modo, al vero Dio e alla sua Chiesa. E i figli che nascono da questa unione sono di diritto membri del popolo santo », considerati come santi, cioè come cristiani (ma in questo non siamo d'accordo). Secondo lo Schillebeeckx (op. cot., p. 217) questa concezione paolina della santificazione è intimamente collegata con l'idea giudaica e giudeo-cristiana della solidarietà familiare e della personalità corporativa, tanto importante nel pensiero giudaico, secondo cui la famiglia costituisce per Iddio una singola entità. Lo Schillebeeckx arriva a dire che, per questo motivo, quando il padre di famiglia si convertiva al cristianesimo, accadeva per solito che fosse battezzato con tutti i suoi, compresi i figli. Ma il battesimo dei bambini contrasta con l'insegnamento biblico (che richiede una fede personale) e con la prassi degli apostoli! Altri pensano (cf. H. Cazelles, Marriage, in «Dictionnaire de la Bible», Supplément, Paris 1928, e segg., col. 930) che Paolo voglia dire che «poiché la carne dei coniugi è una sola e anche la loro vita è una sola, la santificazione dell'uno assicura quella dell'altro, cioè ogni focolare ricava profitto dal fatto che lo Spirito di Dio è in uno dei coniugi ». torna al testo
51. E' certo che i cristiani del periodo apostolico avevano accettato questa concezione, che però avevano associato con l'idea dell'azione purificatrice del lavacro battesimale. tale concezione infatti è presupposta in Mt 8, 7; GV 18, 28; 1 Co 7, 14; At 10, 28. torna al testo
52.
Sulla storia dell'interpretazione del privilegio paolino cf. O. Huizing,
Diritto canonico e matrimonio fallito, Concilium 7/1973, pp. 21-31. Sono
interessanti tutti gli articoli del volume e in modo speciale quelli di
W. Basset e G. Cereti. Quest'ultimo pone in luce la inconciliabilità
di legge ed esigenza etica ed auspica l'abbandono nella chiesa della mentalità
giuridica. torna al testo
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