LA PRIMA LETTERA AI CORINZI
Quando sarà venuto ciò che è perfetto l'imperfetto scomparirà
(1 Co 13, 10)
a cura di Fausto Salvoni - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 1, I Trimestre 1977 pp. 7-31


INDICE
I. Il contesto del capitolo
II. Le ipotesi
    1.Ciò che è perfetto si riferisce alla visione di Dio in cielo
    2. Ciò che è perfetto si avvera già sulla terra
III. Il contesto della lettera
    1. Ciò che è perfetto secondo la lettera ai Corinzi
    2. La lettera ai Corinzi divide i cristiani in fanciulli e perfetti
    3. Dallo stato fanciullesco a quello maturo
    4. Oggetto della visione: non è Dio
    5. Dall'oscuro al chiaro
IV. Conclusione
Innumerevoli sono gli studi dedicati a questo enigmatico passo biblico, che va esaminato alla luce della situazione ambientale esistente presso la comunità di Corinto.

I. Il contesto del capitolo

Il capitolo 13 di 1 Corinzi costituisce un blocco monolitico il cui soggetto riguarda l'amore (agàpe). Esso si suddivide in due parti: parenetica (vv. 1-7) e polemica (vv. 8-13)(1) Per la difficoltà di ricollegare il c. 13 con i capitoli precedente e seguente, alcuni studiosi ne negano l'autenticità o pensano che sia stato spostato da qualche copista(2) Mi sembra tuttavia che il brano discusso si armonizzi assai bene con il contesto immediato: infatti nel c. 12 Paolo parla della profezia, che poi è spiegata meglio al c. 14 unitamente al dono delle lingue (3) Con un colorito polemico, che pure è caratteristico di tutti questi capitoli, di fronte all'esaltazione dei doni carismatici compiuta dai cristiani di Corinto, l'apostolo afferma che l'amore è il più importante di tutti gli altri doni, destinati a scomparire con la venuta di « ciò che è perfetto» (v. 10).

Ma in che cosa consiste questa «perfezione »? Quando essa arriverà? Ecco il problema discusso tra gli studiosi. Infatti «il perfetto » (to tèleion ) fu da costoro riferito talvolta alla visione di Dio in cielo e, tal'altra, a determinati momenti della vita terrena.

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II. Le ipotesi

1. Ciò che è perfetto si riferisce alla visione di Dio in cielo

E' l'opinione assai diffusa in campo cattolico (Allo, Bible Jerusalem, Zedda) e presso molti esegeti acattolici (McGarvey, Pendleton, Hering) (4) La perfezione verrà quando «le cose precedenti» saranno scomparse.

In cielo verrà la perfezione (tò téléion ) che farà scomparire la realtà « parziale» ( ek mérous); in esso si vedrà Dio «faccia a faccia », mentre ora lo si vede in immagine, come attraverso uno specchio (v. 12). Dunque i doni carismatici continueranno sino alla fine della chiesa terrena per cessare soltanto in cielo, al momento del ritorno di Gesù (parusìa ). Ma in tale caso il v. 13 crea difficoltà ai carismi che cesseranno in cielo, perché l'apostolo sembra opporvi il perdurare della « fede, della speranza e della carità ». Dunque queste tre virtù devono sussistere anche dopo la cessazione dei carismi, quindi devono essere operanti anche in cielo. Ma da altri passi biblici la fede e la speranza non perdureranno in cielo. Infatti la fede è «fondamento di cose che si sperano e dimostrazione di realtà che non si vedono » (Eb 11, 1; cf. 2 Co 5, 7). Dunque, quando vi sarà la visione, deve scomparire la fede: «Vedere già ciò che si spera non è speranza; infatti ciò che si vede come lo si può ancora sperare? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo in paziente attesa » (Rm 8, 24s).

Si è cercato di rispondervi in tre maniere diverse:

a) Secondo M.F. Lacan anche la fede e la speranza rimarranno eternamente in quanto è per la sua fede che l'uomo di dispone a ricevere il dono della visione divina; è per la sua speranza che si mantiene in un'attitudine di confidenza filiale(5) Anche per Margaret E. Thrall la fede e la speranza vanno qui prese « come un'attitudine generale»  di completa dipendenza e fiducia in Dio, attitudine che è necessaria non solo oggi ma anche nella vita dopo la resurrezione (6) .

Tuttavia tale attitudine non è più la fede e la speranza, come la intende l'apostolo Paolo, ma qualcosa di ben più vasto e per di più unico, non divisibile in fede e speranza, che si identifica con un comportamento generale di fiducioso abbandono in Dio.

b) Fr. Dreyfus propone invece di interpretare il passo come segue: fin da ora la fede, la speranza, la carità fanno parte delle realtà che non scompariranno con questo mondo ma, radicate come sono nel futuro, ne realizzano una presenza anticipata. La fede e la speranza sussisteranno, ma trasformate in visione e in possesso, mentre l'amore diverrà perfetto (7) .

Tuttavia, a ben guardare, non si può dire che fede e speranza permangono, perché come dice lo stesso autore, saranno trasformate in visione e in possesso. Inoltre anche i doni carismatici sono manifestazione di quello spirito di Dio che si disvelerà più ampiamente nel possesso del cielo. quindi fanno già parte, anch'essi dei doni a venire. Si noti anzi come la glossolalia sia persino detta «lingua degli angeli » che costituiscono la corte divina e quindi vi dovrebbe sussistere, se qui si parlasse del cielo.

c) Lo Zedda, al contrario, suppone che il v. 13 costituisca la conclusione della pericope precedente e non affermi la permanenza delle fede e della speranza in cielo. Esso parla della situazione presente: Il nunì è temporale (non consequenziale « or dunque!») e vuole solo indicare che ora (opposto al tote «allora » del v. 12) tre sono le virtù ora perduranti nel credente: fede, speranza e carità(8) .

Per accogliere una simile interpretazione occorre staccare il v. 13 dai versetti precedenti, dei quali invece è la conclusione. Inoltre in tale caso non vedo affatto il contrasto tra fede, speranza e carità e i dono carismatici (profezia, conoscenza, glossolalia) perché anch'essi, nella ipotesi precedente, sono destinati a rimanere sino alla fine del mondo per scomparire soltanto con la visione di Dio. Non vi sarebbe quindi alcuna superiorità sui doni carismatici di queste tre virtù (fede, speranza e carità) che « ora rimangono » perché anche i doni carismatici vi rimarrebbero sino alla fine della chiesa terrena. Data l'opposizione, dobbiamo concludere che i doni carismatici non possono rimanere sino alla consumazione del mondo, ma scomparire prima di tale momento.

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2. Ciò che è perfetto si avvera già sulla terra

I doni carismatici (conoscenza, profezia, glossolalia) non devono rimanere sino al termine del mondo ma devono scomparire in un tempo anteriore quando si attuerà ciò che è perfetto. Quando? Varie ipotesi sono state suggerite.

a) Scompariranno con la stesura definitiva del Nuovo Testamento (Franck Pack, Higgins, Phillips, D. Lipscomb, Vine) (9) .

Se non tradisco il loro pensiero la stesura del Nuovo Testamento ci dà la completa visione della realtà cristiana, che invece era pur sempre incompleta quando me mancavano ancora alcuni libri. Alla incompletezza della Bibbia, norma esclusiva del credente, lo Spirito Santo (autore della Bibbia) suppliva con illuminazioni carismatiche, vale a dire con la profezia, con la conoscenza (data dallo Spirito Santo) e con la glossolalia. Giunta la completezza della Bibbia che da Giacomo è chiamata appunto « la legge perfetta della libertà» (eis nómon téleion tòn tès eleutherias, Gc 1, 25) e da Paolo « la perfetta volontà di Dio » (Rm 12, 2), allora i doni carismatici scompariranno, perché ormai la perfezione si può attingere dalla Parola scritta di Dio. La Bibbia infatti « è ispirata da Dio, e utile a istruire, a confutare, a correggere e ad educare alla giustizia; affinché l'uomo di Dio sia perfetto ( ártios, non téleios) e pienamente equipaggiato per ogni opera buona» (2 Ti 3, 16).

Che la Bibbia possa renderci perfetti è indiscutibile (naturalmente tramite la fede in Cristo e la potenza dello Spirito Santo che Dio dona ai suoi credenti), tuttavia è ben difficile sostenere che sia necessario conoscerla tutta; secondo Giovanni bastano i segni (miracoli) ricordati (tra i molti altri non riferiti) per avere la fede in Gesù quale « Messia e figlio di Dio» e così ottenere la salvezza. Infatti essi sono stati scritti « affinché credendo abbiate vita mediante la sua persona » (Gv 20, 31). Quando Paolo scrisse la sua lettera a Timoteo e gli insegnò che la Bibbia può renderci « perfetti» ( ártios) non parlava del Nuovo Testamento, ma dell'Antico nel quale l'evangelista era stato istruito fin da bambino dalla nonna Loide. Se già l'Antico Testamento, congiunto con la fede in Cristo, ci può rendere perfetti, non si vede come la perfezione possa avvenire solo dopo la stesura dell'ultimo scritto biblico. L'ultimo scritto neotestamentario fu forse l'Apocalisse, non riesco a capire come mai prima di esso non vi era la perfezione, mentre dopo la stesura di questo libro enigmatico tale perfezione sia pervenuta all'umanità. La legge perfetta (téleion ), di cui parla Giacomo è quella che include tanto la fede quanto le opere; mentre l'imperfetta non le include entrambe. La legge o la « volontà» perfetta, secondo Giacomo e Paolo, non erano qualcosa di futuro ma era già esistente allora (anche se la lettera di Giacomo è uno dei primi scritti neotestamentari). Bastava solo accoglierla e ubbidirvi, senza attendere la stesura di tutto il Nuovo Testamento (Gc 1, 25; Rm 12, 2).

b) Di recente Mc Ray ha suggerito che la «perfezione» consisteva nel termine della missione di Paolo tra i gentili, chiamato appunto l'apostolo delle genti (10) Per mostrare che Paolo aveva ragione e che, di conseguenza, anche i gentili erano chiamati ad entrare nella chiesa, lo Spirito Santo elargiva solo i suoi doni carismatici. Dopo che tale fatto fu assicurato, Paolo poteva scrivere prima del suo martirio: «Ho finito la mia corsa  e ho tenuto fede al compito che mi è stato affidato» (2 Ti 6, 6ss). Allora giunse l'età perfetta per la chiesa, che perciò non aveva più bisogno dei doni carismatici. L'autore pensa di poter difendere la sua linea di pensiero con un interessante parallelismo della 1 Corinzi con la lettera agli Efesini, la lettera dell'unione dei gentili con i giudeo-cristiani (4, 7-16). Dopo aver insistito sull'ammissione dei non ebrei nella chiesa e dopo aver presentato tale fatto come un mistero tenuto nascosto fino a quando Dio lo ha voluto rivelare, Paolo, che ne fu proprio costituito banditore, passa a dire che i doni carismatici (apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri) sono destinati a far crescere il corpo di Cristo perché raggiunga il pieno sviluppo dell'uomo perfetto ( eis andra tèleion, 4, 13). Questo pieno sviluppo si avrebbe con l'accoglimento dei gentili nella chiesa. Tale perfezione era già raggiunta verso la fine del primo secolo, perché Clemente Romano nella sua lettera ai cristiani di Corinto, poteva chiamarli « gli eletti di Dio perfetti ( eteleionthesan) nell'amore» (1 Clem 49, 5) (11).

Mi riesce assai difficile accogliere tale ipotesi, perché il passo di Clemente Romano non indica che la perfezione è data dal fatto che o gentili sono stati accolti nella chiesa, ma perché nei credenti domina l'amore, che è l'elemento perfezionante. Ecco il passo completo:

« L'amore non ammette scisma, l'amore non crea sedizioni, l'amore fa tutto in concordia; per mezzo della carità tutti gli elementi sono perfetti, senza amore nulla è gradito a Dio. E' nell'amore che nostro Signore ci ha uniti» (I Clemente 49, 5s).

La perfezione non è data dal numero dei cristiani, dalla diffusione del cristianesimo tra i non ebrei, bensì dall'amore che vi domina. A guardare il passo clementino si dovrebbe anzi dedurre che coloro che sono stati eletti, scelti da Dio e innestati a Cristo con il battesimo, diventano perfetti mediante l'amore. E' l'amore che fa passare i singoli membri e le diverse comunità dallo stadio della fanciullezza a quello della maturità. Questo viene detto non perché i Corinzi siano già perfetti, ma perché lo diventino togliendo lo scisma, che li spingeva contro i propri vescovi, a scapito del vero amore. E' poi difficile stabilire quando l'unione ebrei/gentili si sia avverata nel cristianesimo: non potremmo dirla già esistente nell'anno 50 con la conversione di molti gentili e con l'accordo di Gerusalemme circa il loro inserimento nella chiesa senza l'obbligo della circoncisione e dell'osservanza di tutta la legge? Saremmo quindi in epoca anteriore alla stessa stesura della prima lettera ai Corinzi.

Inoltre l'insistenza dell'autore nel vedere al c. 4, 7-16 della lettera agli Efesini un richiamo al precedente passo riguardante l'ingresso dei gentili nella chiesa, mi sembra che non tenga nel dovuto conto la suddivisione della lettera. Con il c. 4 si apre infatti una nuova sezione nella lettera. Nella prima parte dommatica (1, 3 - 3, 21) Paolo presenta il piano divino per attuare la nostra salvezza, che consiste nell'unione di tutti — ebrei e gentili — in Cristo quale si compie nella chiesa. E' questo il mistero che è stato affidato in modo particolare a Paolo, e che lo fa uscire, a conclusione, in una stupenda dossologia conclusiva: «A lui sia la gloria nella chiesa e in Cristo Gesù in ogni tempo, nei secoli dei secoli. Amen» (3, 20s). Nella seconda parte parenetica e morale (4, 1 - 6, 20), Paolo trae le conseguenze pratiche: egli inculca particolarmente l'unità nell'amore non tra giudei e gentili convertiti, ma in ogni comunità cristiana e nelle varie situazioni familiari; propone poi l'immagine dell'armatura che il credente possiede in Cristo. Il voler rentrodurvi il tema dommatico dell'unione goideo-gentili mi sembra in contrasto con il progresso delle idee presenti nella lettera.

c) La perfezione corrisponde al grado di maturità dei credenti e delle chiese(12) .

Qualcosa di simile sostengono pure altri autori, quando pongono la perfezione nello sviluppo dell'amore, di cui Paolo parla nello stesso capitolo (13, 1-7.13), oppure nello stato di mancanza del peccato individuale: « Siate perfetti, come è perfetto ( téleios) il vostro padre in cielo» (Mt 5, 48). Perfetto è pure colui che sa dare via le proprie ricchezze per seguire Gesù (Mt 19, 21). Spesso la maturità della sapienza cristiana mostra che il credente è «perfetto »(13) «Perfetto è colui che tiene a freno la propria lingua», di ce Giacomo, anche se poi confessa che ciò è ben difficile (14) .

Questa considerazioni non sono altro che vari aspetti raggiungibili con lo sviluppo della propria maturità spirituale. Esse corrispondono al grado di conoscenza di Dio attuabile nella vita cristiana. I carismi esistono nella chiesa di Corinto per supplire alla carenza di perfezione loro propria, perché i suoi credenti sono rimasti allo stadio infantile. Ma con il loro progresso spirituale tali dono sono destinati inevitabilmente a scomparire.

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III. Il contesto della lettera

1. Ciò che è perfetto secondo la lettera ai Corinzi

Il modo migliore per capire il senso di una parola sta nell'esaminare il contesto in cui essa si trova. Ora è interessante notare come la lettera ai Corinzi parli spesso di «fanciulli » e di «perfetti ». Per cui sembra logico intendere anche « ciò che è perfetto» ( to téleion) del c. 13 nel senso di « maturità spirituale ».

Il vocabolo téleios è usato per indicare « completezza, pienezza, maturità ». Questo è suggerito tanto dall'esame dei passi in cui ricorre presso i LXX(15) i padri apostolici(16) e nel Nuovo Testamento. Negli scritti neotestamentari ricorre 17 delle quali 2 in Matteo (5, 48; 19, 21), una nella prima lettera di Giovanni (4, 18), quattro in Giacomo(17) e il resto nel corpo paolino inclusa la lettera agli Ebrei (18) Ora nella maggioranza dei casi téleios è in opposizione ai fanciulli(19) alla conoscenza imperfetta(20) incompleta(21) e parziale(22) .

Nella lettera agli Ebrei designa quasi sempre la completa ubbidienza al Padre, mostrata da Gesù nel sui compito sacerdotale(23) Per tale sua perfezione e completezza il suo sacrificio sta in contrasto con quelli imperfetti stabiliti da Mosè.

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2. La lettera ai Corinzi divide i cristiani in fanciulli e perfetti

Purtroppo o credenti di Corinto sono tuttora dei bambini incapaci per non aver ancora raggiunto l'età spiritualmente matura:

« Sinora fratelli, non ho potuto parlarvi come a uomini spirituali, ma come a uomini terreni, come a dei bambini (nèpioi )in Cristo. Vi ho nutrito di latte e non di cibo solido, perché non ne eravate capaci. E nemmeno adesso lo siete. Dal momento che vi sono in voi invidie e discordie ciò vuol dire che siete ancora di questa terra e che vi comportate in modo del tutto umano » (1 Co 3, 1s).

Il cibo dei perfetti sta nella «sapienza » (sofìa ), che non può essere data a quei di Corinto.

« Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza ( sofìa), ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo ...parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta... » (1 Co 2, 6).

Essa è la follia della croce, che solo gli uomini spirituali, guidati dallo stesso Spirito che è in Paolo («noi abbiamo il pensiero di Dio»), possono comprendere: essi infatti «scrutano ogni cosa, anche la profondità di Dio» (1 Co 2. 8.10). Ma i Corinzi, divisi tra loro in gruppi opposti, che utilizzano  perfino gli stessi doni carismatici per creare maggior confusione e con spirito fazioso, mostrano di non essere affatto all'altezza divina (1 Co cc. 1.14)

Essi si trovano di conseguenza nella identica situazione dei destinatari della lettera agli Ebrei:

« Voi che per il tempo dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che vi si istruisca sui primi elementi degli oracoli di Dio; siete bisognosi di latte e non di solido cibo... Ora chi si nutre ancora di latte, è ignaro della parola di giustizia, perché è un bambino, mentre il nutrimento solido è proprio degli adulti » (Eb 5, 12ss).

Coloro che sono maturi (téleioi ) devono pensare come Paolo. «ma se in qualcosa la pensate diversamente anche in questo Dio vi illuminerà. Solo dal punto in cui siamo giunti, dobbiamo procedere allineati per la stessa via» (Fl 4, 15). Vorrei qui sottolineare come, tramite la maturità cristiana, il credente possa conoscere Dio e i suoi segreti in modo più perfetto e come Dio stesso sia colui che illumina e parla ai perfetti. Tanto la fanciullezza come la maturità sono due stadi della vita cristiana su questa terra, e non uno terrestre e l'altro ultraterreno. Non si potrebbe pensare che qualcosa di simile sia suggerito anche nel brano della prima lettera ai Corinzi che stiamo esaminando?

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3. Dallo stato fanciullesco a quello maturo

I Corinzi che sono spiritualmente dei bambini, sono esortati a crescere e a maturare.

« Fratelli non siate fanciulli (paidìa ) in fatto di senno; siate pur bambini nella malizia, ma maturi ( téleioi) quanto a senno » (1 Co 14, 20).

Anche il paragone tratto da Paolo dalla vita umana, ci spinge in questa direzione: « Quand'ero fanciullo parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; divenuto adulto, ho smesso tutto ciò che è bambinesco » (13, 11). Si tratta quindi di un progresso normale da uno stadio infantile ad uno adulto (anér ), che gradatamente si sviluppa senza quasi rendersene conto. Lo stesso deve avvenire anche nella vita spirituale: l'introdurvi la morte o la parusìa del Cristo che si attuano indipendentemente da noi, con un intervento straordinario del Cristo, non sembra armonizzare con l'immagine usata.

Ora, nella situazione spiritualmente infantile dei Corinzi, essi avevano una conoscenza ( gnósis) limitata, ed una perfezione parziale (v. 9)(24) I mezzi che servivano loro in quanto fanciulli (lingue, scienze, profezie) erano destinate a scomparire. Esse supplivano quello che ancora mancava loro; ma quando essi avranno raggiunto la maturità, tali sostituti parziali non serviranno più. La conoscenza che i Corinzi hanno è ancora una conoscenza limitata, la quale, anzi, per la loro immaturità, causa più male che bene:

« Quanto poi alle carni sacrificate sappiamo tutti di avere conoscenza ( gnósis). La conoscenza gonfia, mentre l'amore edifica. Chi crede di sapere qualcosa, non sa ancora in che modo bisogna sapere. Se uno invece ama, è conosciuto ( égnostai) da lui » (8, 1s).

Anzi alcuni non hanno nemmeno la conoscenza (8, 7), per cui sono spinti al peccato « da chi ha conoscenza» ( gnósin), in quanto mangiano la carne sacrificata agli idoli per imitare gli altri, pur avendo il convincimento che tale atto sia peccaminoso (8, 10s). Hanno sì la profezia, proprio perché sono bambini, ne usano da bambini per mettersi in mostra, per creare disordini, giungendo persino, a quel che pare, a maledire in certi casi lo stesso Cristo, confondendo la vera con la falsa profezia (14, 26-33; 12, 3). Di qui il suggerimento che solo due o tre profeti parlino, mentre gli altri giudichino e di tacere quando a coloro che stanno ascoltando viene donata una qualche rivelazione (14, 29s). Come i bambini sono spinti ad agire bene con la promessa dei dolciumi e di premi oppure per la paura di castighi, così Dio agiva con quei di Corinto: li attira a sé con la dolcezza dei doni carismatici (profezia, scienza, glossolalia) e li allontana dal male con i castighi (11, 28-32). Ma quando saranno più maturi, allora non avranno più bisogno né di castighi né di allettamenti carismatici. E' verso questa maturità che devono tendere, utilizzando non i doni carismatici, bensì la guida degli apostoli, dei profeti, degli evangelisti e dei vescovi. Essi sono dati alla chiesa proprio per tale scopo:

« affinché noi tutti possiamo pervenire all'unità della fede e alla piena conoscenza (tês epignóseos toû uioû toû theoû) del figlio di Dio, allo stato di uomini perfetti ( eis ándra téleion) a quella maturità in cui si sia ricolmi di cristo, in modo da non essere più dei bambini (népioi )sballottati da ogni vento di dottrina» (Ef 4, 13s).

Ma in tal caso come si accorda il «vedere faccia a faccia » con la maturità cristiana?

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4. Oggetto della visione: non è Dio

Se ciò che è perfetto corrisponde alla maturità dei credenti, come si può spiegare il «vedere faccia a faccia » che sembra invece riferirsi alla visione del cielo (25) Dobbiamo premettere alcune considerazioni:

a) Anzitutto il testo non dice «vedere Dio faccia a faccia » (cf. Ga 4, 9), come generalmente si suppone. Il verbo « vedere» ( blépein) non presenta l'oggetto della visione e sta in parallelismo con «conoscere » (ginóskein ), pur esso senza oggetto specificato, per cui il « vedere» equivale praticamente a « conoscere». Non si parla di « visione» quale si ha in cielo con gli occhi, bensì con l'intelligenza.

Il « conoscere» equivale all'altra frase « avere la gnosi (= la conoscenza, gnósin ékein )» di 8, 2. La «conoscenza (gnosi) è una dei temi preferiti nella lettera ai Corinzi, i quali si gloriavano per la conoscenza (gnosi) che possedevano e che era dono di Dio» (1 Co 1, 5; 14, 6; 2 Co 6, 6; 8, 7; 11, 6; Rm 15, 14). La gnosi in Paolo è una conoscenza profonda dei misteri che si ha tramite la fede ma che, però, può anche condurre a comportamenti pratici erronei, in quanto gonfia il cristiano che la possiede (1 Co 8, 1-13). I cristiani di Corinto tendono a vedere, ossia a conoscere tutti i misteri e ad avere sempre maggiore conoscenza (gnósin )per potersene gloriare a scapito dell'amore (13, 2).

Questa conoscenza è già fin da ora (nûn ) posseduta dai Corinzi, ma ad essi manca qualcosa di più grande, riservato ai maturi. Ad essi manca una « super conoscenza » ( epí-gnósis ), che vede nella sua completezza tutti i misteri di Dio, la profondità stessa di Dio, e che è pur essa dono dello spirito di Dio, il quale conosce ogni cosa anche la stessa profondità divina (2, 10). la preposizione epì è un rafforzativo, che indica nel nostro caso una conoscenza più profonda di tutte le ricchezze che sono state rivelate da Dio tramite Gesù Cristo; conoscenza non astratta ma esistenziale, che crea una vita del tutto corrispondente al volere divino. Essa è conoscenza devota e riconoscente di Dio, della sua volontà, delle sue prerogative sovrane, che si attua nella vita del cristiano come continua ubbidienza e continua riflessione. Se si può parlare di una falsa gnosi (« conoscenza »), non si può affatto pensare ad una falsa epìgnosi (conoscenza profonda) (26) Questa epìgnosi o conoscenza superiore è la conoscenza di tutte le ricchezze della salvezza rivelate dal Padre al Figlio (27) è espressione d'amore tenero e infinito (28) è un abbracciare la volontà di Dio (Cl 1, 9s; Fi 6), è conoscenza più profonda del mistero cristiano (Fl 1, 9s).

Tale superconoscenza trasforma l'anima ad immagine di Dio e la fa conoscere come se fosse faccia a faccia; il credente, dopo essersi spogliato dell'uomo vecchio « si va rinnovando verso la piena conoscenza, a immagine di colui che l'ha creato». In tal modo più non vi è «greco o giudeo, circonciso o incirconciso, barbaro o scita, schiavo o libero ma solo Cristo che è tutto in tutti» (Cl 3, 10s). Per questa «piena conoscenza »(29) di Gesù Cristo il credente diviene « uomo perfetto e perde lo stato del bambino che viene sballottato qua e là dal vento» (Ef 4, 13s). E' lo Spirito di Dio che ci dà la profonda conoscenza dei doni e del piano divino, del suo volere e del suo amore. Quindi « mentre ora conosco in parte», « quando avrò questa conoscenza» vedrò profondamente ogni mistero così come ( kathòs) Dio mi ha conosciuto al momento della mia conversione(30) L'aoristo passivo («sono stato conosciuto ») è un modo biblico per indicare Dio senza nominarlo; il tempo indica qualcosa del passato, ormai già ultimato, e che si riferisce al momento della conversione.

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5. Dall'oscuro al chiaro

Il concetto precedente viene rafforzato con un altro simbolismo; quello dello specchio sostitutivo della visione o percezione «faccia a faccia ».

a) Lo specchio. Può presentare idee diverse, secondo il contesto(31) Esso può simboleggiare:

La chiarezza della visione, che qui è esclusa dal contesto, nel quale si oppone la visione più chiara di «faccia a faccia ».

La visione di se stesso: io non mi posso vedere se non attraverso uno specchio. Ma anche questa interpretazione non si adatta al contesto perché nel passo paolino manca il pronome riflessivo e non si parla di autovisione.

— Secondo S. A. Perry lo specchio sarebbe preso come simbolo dello Spirito Santo (32) ma questo è escluso dal fatto che la chiara visione (che ci dà lo Spirito) non è prodotta dallo specchio, ma da qualcosa d'altro. Lo specchio serve per vedere in modo enigmatico ( en ainígmati), mentre solo più tardi si riuscirà a vedere «faccia a faccia».

Specchio magico(33) Nell'ellenismo e anche nel giudaismo era usata la Katoptromanzia, o previsione del futuro tramite lo specchio magico. Secondo Gen. R. 91 (a Ge 42, 1), Giacobbe vide nello specchio che la sua speranza (ossia Giuseppe) era in Egitto. Vedere nello specchio significa quindi vedere profeticamente.
Tale interpretazione si può adattare al contesto, anche se non è così facile chiarire perché Paolo ricorra a pratiche magiche e come mai usi il nome ésoptros (specchio) anziché quello più naturale kátoptron, termine più appropriato per gli specchi magici.

— Ad ogni modo dal contesto risulta che il «vedere » la realtà in uno specchio equivale a conoscere « parzialmente» in modo « enigmatico» (en ainigmati) (34) adatto alla conoscenza di un fanciullo, che sarà poi sostituita da una conoscenza più chiara quale si ha nel comportamento di un adulto (35).

b) « Faccia a faccia» ( panîm el panîm). La frase è tratta dall'Antico Testamento, e, in realtà, significa conoscenza « chiara, intima, profonda ». In Es 33, 11 si legge che «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia », però si nota che di fatto Dio appariva tramite una nube che scendeva e restava all'ingresso della tenda. Il « faccia a faccia» riguarda quindi il parlare, non il «vedere ». Non vi è quindi contraddizione con il v. 20 nel quale si dice «che nessun uomo può vedermi e restare vivo... Tu vedrai le mie spalle perché il mio volto, non lo si può vedere» (Es 33, 20-22). Con la frase «faccia a faccia » la Bibbia vuol solo dire che Dio parlò direttamente a lui «come un uomo parla con un altro », anche se può rimanere nascosto senza farsi vedere (v. 11) (36).

E' vero che oltre al parlare la Bibbia ricorda per Mosè anche il vedere, ma il passo è molto incerto. Come ora si trova così suona:

« Bocca a bocca parlo con lui,
in visione e non con enigmi
ed egli intende l'immagine del Signore»

Anzitutto vi è quella «visione » che stona: infatti nel passo si vuole mostrare la superiorità di Mosè sugli altri profeti: a costoro Dio parla in visione ( mar'eh) e in sogno ( chalôm), non così invece a Mosè (v. 8).E' strano che poi si scriva come Dio parlasse a costui « (in) visione» ( mar'eh). L'assenza della preposizione « in», la mancanza della parola « visione» presso i LXX, Sam. Targ. ci fa pensare ad una maldestra glossa; passata poi nel testo. Inoltre il contesto mostra che Mosè non vide Dio (che non si può vedere), ma solo la sua «immagine » (temunah ) e, che la percepì intellettualmente ( nbt), non per visione diretta. Anche questo passo non afferma affatto che Mosè abbia visto Dio direttamente, ma solo che gli parlò in modo intimo, diretto e senza « enigmi», vale a dire in modo chiaro, comprensibile (37) Nulla di nuovo si deduce dal sommario della vita di Mosè « con il quale Dio parlava faccia a faccia», ma non necessariamente facendosi vedere, come lo farà nella visione del cielo (Dt 34, 10).

Ancora più chiaro il passo di Dt 5, 4 dove si legge «Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte del fuoco (dunque si vedeva il fuoco non Dio) mentre io (Mosè) stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti al monte ». Qui evidentemente il popolo non ebbe alcuna visione di Dio, ma solo sentì chiaramente la sua voce, la sua legge, la sua volontà. Segue infatti il decalogo pronunciato da Dio.

Lo stesso concetto — ancor più esasperato — si legge in Ezechiele:

« Vi farò uscire di mezzo ai popoli e vi radunerò da quei territori dove foste dispersi con mano forte, con braccio possente e con la mia ira traboccante. Vi condurrò nel deserto dei popoli, lì faccia a faccia vi giudicherò» (Ez 20, 24s).

Gli Israeliani saranno ricondotti nel deserto (e non a Gerusalemme) dai varo luoghi in cui si sono dispersi per incontrarsi con il loro Dio; ma tale incontro sarà un giudizio di separazione dei malvagi dai buoni. Così passeranno nuovamente sotto il giogo della divina alleanza. Evidentemente qui non si tratta affatto della visione di Dio, bensì di una loro diretta condanna da parte di Dio.

Ora, se al posto di Dio, che non è indicato da Paolo, sostituiamo la cognizione dei misteri divini — la cosiddetta epìgnosi della lettera ai Corinzi — comprendiamo che qui non si parla di visione divina quale si avrà in cielo, bensì della conoscenza diretta, chiara, comprensiva di ogni cosa, quale si avvera non nella semplice gnosi, che è parziale, limitata, fanciullesca, bensì nella epìgnosi o conoscenza di un credente maturo. Di conseguenza i fenomeni carismatici dati ai cristiani di Corinto, perché ancora bambini nella fede, saranno destinati a scomparire con il progresso della loro fede e del loro amore, con il loro passaggio allo stato di cristiani maturi.

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Conclusione

I carismi — lingue, profezie, gnosi — sono destinati a scomparire con il progresso e la maturità spirituale del cristiano. Il vedere « faccia a faccia» non allude alla visione diretta di Dio, ma riguarda la conoscenza profonda dell'amore che si gode nella maturità cristiana; indica il passaggio dalla posizione di fanciullo (3, 1; 13, 18) a quella di credente «maturo » (téleios 2, 6; 13, 10) quando egli non si lascia più guidare dalla sua psiche (psychicòs 2, 14), ma dallo spirito che lo trasforma ( pneumaticòs 2, 15). Ora « il frutto dello spirito è amore...» (Ga 5, 22). La moderna esaltazione dei doni carismatici rifiorenti presso le diverse chiese(38) —  lo dobbiamo dire chiaramente — anziché essere segno di maturità è piuttosto documentazione d'immaturità spirituale (39).


NOTE A MARGINE

1. Cf. Gerhard von Rad, Vie vorgeschitliche der Gattung von 1 Co 13, 4-7, in Gesammelte Studien zum A.T., München, Kaiser Verlag 1958, pp. 281-296 (cita il testo di Issachar 4 e Test. Beniamino 6); J.T. Sanders, First Corinthians 13. Its Interpretation since the First World War, in Interpretation 20 (1966) 159-181 (pp. 168 s); egli pone il c. 13 dopo 14, 40. Nils W. Lund, The Literary Structure of Paul's Hymn to Love, in Journ. Bibl. Lit. 50 (1931) 266-276. torna al testo

2. Su questo problema cf. Eric L. Titus, Did Paul write 1 Corinthians 13, In Journ. Bibl. Review 27 (1959 300 (presenta 9 ragioni per ritenere il capitolo una interpolazione non paolina). torna al testo

3. Cf. H. Conzelmann, Der erste Brief an die Korinther, Göttingen 1969 p. 257; Stephens Smally, Spiritual Gifts and 1 Corinthians 12-16, in Journ. Bibl. Lit. 87 (1968) 427-433 (1 Co 12-16 costituisce un'unità letteraria). Lo difende anche C.D. Osburn, That which is perfect, in Freedom in Christ, Abilene, Texas, USA 1976, pp. 138-171 (specialmente pp. 150-153). torna al testo

4. Aggiungere ai nomi già citati Bultmann (elpis in Grande Lessico 3, 545), Godet, Beet, Stanley; Moffatt, Hodge, Barnes, Clarke, Craig, Cambridge Greek Testament. Data la sua diffusione nell'antichità si potrebbe dirla un'interpretazione tradizionale. Per Clemente Alessandrino la perfezione si ha « nel vedere Dio» (Quis dives salvetur? 38); Origene, pur essendo inconsistente, pensa alla « vita futura quando tutti i nemici saranno debellati » (Sulla preghiera 25, 2). Egli è seguito su questo da Metodio (m. 311 Symposium 9, 3); La perfezione riguarda il momento in cui si attuerà «il regno dei cieli con la resurrezione ». Contro Manete, che pretendeva di essere il Paraclito, Egemonio (tra il 325 e il 348) osserva che solo Gesù « è il vero perfetto che con la sua venuta distruggerà profezie, lingue e l'insegnamento di questo mondo» (C.H. Beson, Hegemomius: Acta Archelai in GCS, 1906, XVI p. 60). Riferiscono «ciò che è perfetto » al cielo: Eusebio (m. 340) Comm. in Ps. 44, 14 PG 23, 404; Abrosiastro, Commentaria ad Epist. ad Corinth. primam 13 PL 17, 253; Atanasio (m 373) De Trinitate 3, 41 PG 39, 984; Gregorio di Nazianzo (m. 390) Oratio 28 PG 36, 52; Basilio il Grande (m. 379) Epist. 233, 2 PG 32, 868. Per Girolamo (m. 420, Ep. ad Pammachium 9 PL 23, 378) la perfezione « sta nel vedere Dio nell'al di là»; Agostino (m. 430, De Civitate Dei 22, 29) la identifica con la vita immortale; Giovanni Damasceno (circa il 730 De Fide ortodoxa 4, 23) giudica « perfetta» la natura umana « dopo il giorno della resurrezione». L'opinione tradizionale riappare nell'Imitazione di Cristo (4, 11), in Lutero (Prima lettera sui Salmi Sl 72, 7), in Calvino (Commentary on the Epistles to the Corinthians, tradotto dal latino, Grand Rapids, Eerdmans 1948 O p. 428); in Teodoro Beza, successore di Calvino, che nella tredicesima edizione del Novum Testamentum greco (Ginevra, Stephanus 1598 p. 150) annota: ciò che è perfetto si ha «quando tutti vedranno Dio personalmente». torna al testo

5. F. Lacan, Les trois qui demeurent, in Rech Sc. Rel. 46 (1958) 321.343. Contro cf. A. Feuillet, in New Test. Stud. 6 (1959/60) p. 53 e nota 22. torna al testo

6. E. Thrall, I and II Corinthians. The Cambridge Bible Commentary, Cambridge University Press, London 1965 p. 95. torna al testo

7. Fr. Dreyfus, Maintenant la foi, l'espérance et la charité demeurent toutes le trois (1 Co 13, 13), in Sacra Regina O, 403-412. torna al testo

8. S. Zedda, Prima lettura di Paolo, Brescia 1973, p. 279 e nota 26; Ceuppens, Quaestiones selectae ex epistulis S. Pauli, Torino Marietti 1951, p. 108. Sul valore di nun come eterno presente cf. N.A. Nissiotis, Fer pneumatologische Ansatz und die liturgische Verwircklichung des neutestamentlischen nun in Oikonomia (Festschrift O. Culmann), Hamburg, Reich 1967, 302-309; nunì temporale riguarda il tempo presente contro la vita del cielo cf. Rm 6, 27; 7, 6; 15, 23.25; 2 Co 5, 11; 8, 22; Ef 3, 13; Cl 1, 21; 3, 8. per il senso logico, nel quale si oppone la situazione attuale con un'altra opposta, cf. Rm 8, 17; 1 Co 5, 11; 12, 18; 15, 20. torna al testo

9. L'inizio di questa interpretazione risale forse ad A.R. Fausset (1 Corinthians. A Commentary ed. R. Jamieson, A.R. Fausset, D. Brown 1878, vol. III, p. 322) secondo il quale i doni della profezia e della conoscenza sarebbero dovuti scomparire con la stesura e la riunione di tutto il Nuovo Testamento. Così pure Thomas W. Phillips, The Chirch of Christ, Cincinnati, Ohio. Standard Publishing Company 1942, p. 156; Franck Pack, Tongues and the Holy Spirit, Abilene (Texas), Biblical Research Press 1972, pp. 10-45; A. Sidney Higgins, What the Bible Says, Abilene, Texas, The Chronicle Publishing Co., 1956, pp. 72-75; David Lipscomb, A Commentary on the New Testament. II, First Corinthians, Nashville, Gospel Advocate 1935, pp. 200-202, che ripete quanto aveva già scritto in Queries and Answers ed. J.W. Sheperd, Nashville, Mc Quiddy 1911, pp. 402-407; W.E. Vine, First Corinthians, London, Oliphants 1961, pp. 200s. torna al testo

10. John Mc Ray, To Teleion in 1 Corinthians 13, 10 In Restoration Quarterly 14 (1971) 168-183. torna al testo

11. La lettera fu composta sotto l'impero di Nerva (96-98), perché accenna a calamità ed avversità, sopravvenute, una dopo l'altra a Roma e che possono identificarsi con le persecuzioni di Domiziano (dal 94/95 al 96). torna al testo

12. Emanuel Miguens, 1 Co 13, 8-13 Reconsidered, in Cath. Bibl. Quart.. 37 (1975) 76-97. Faccio tesoro di questo studio nelle considerazioni che seguono. Cf. pure l'idea simile di F. Godet, Commentaire sur la Prémiére Epître aux Corinthiens, 2 vol., Neuchâtel, Delachaux 1887, vol. II, pp. 225s. Mi fa piacere constatare che anche Carroll D. Osburn, in un recente studio, che mi giunse troppo tardi e che quindi non ho potuto utilizzare nella stesura di questo articolo, raggiunga le medesime conclusioni, anche se pone l'enfasi sopra l'amore quale segno di maturità (That which is Perfect, in Freedom in Christ, Abilene Christian College Lectures 1976, pp. 138-171, con una buona bibliografia ed una lunga indagine patristica). Questa idea risale a Gregorio di Nissa (m. 394), forse il più erudito tra i cappadoci, il quale sosteneva che la perfezione, di cui parla Paolo, consiste nell'amore (De anima et resurectione PG 46, 96). Anche Origene (che altrove segue l'idea tradizionale) sembra accogliere questa opinione quando scrive che Gesù è la perla preziosa che, togliendo la nostra fede parziale e bambinesca, ci conduce alla perfezione, ossia « all'eccellente conoscenza di Cristo» (Fl 3, 8)(In Matth. 10. 9 SC 162 p. 174). Qualcosa di simile è sostenuto pure da Giovanni Crisostomo (m. 407) perché osserva che le profezie e le lingue « erano dei doni dati per stabilire la fede cristiana. Tuttavia quando essa si sarà diffusa, tali dono cesseranno ». Esse erano come dei pali usati per sostenere le piante deboli (Hom. ad Cor. 13, 8 PG 61, 2, 287). torna al testo

13. ! Co 5, 6; 14, 20; Fl 3, 15; Eb 5, 14; Gc 1, 25. torna al testo

14. I due passi non si contraddicono, infatti il v. 8 vuole solo dire che è ben difficile — impossibile secondo il linguaggio semita — dominare la propria lingua. Non si può accogliere il ragionamento di Mc Ray (a.c. p. 17) che distingue tre stadi nello sviluppo spirituale umano: 1. nel primo manca ogni capacità di frenare la propria lingua. 2. Téleios è lo stadio di colui che non pecca nel parlare (v. 2). 3. Ancora più elevato il verso che consiste nel dominare la propria lingua (ma sarebbe irraggiungibile su questa terra, v. 8). Di conseguenza, secondo lui, lo stato del téleios sarebbe inferiore all'ultimo stadio. Si tratta invece del medesimo stadio, di cui nel v. 8 si vogliono sottolineare le difficoltà nel pervenirvi. torna al testo

15. Faccio tesoro dei riferimenti tolti da Mc Ray (a.c. pp. 171s) anche se poi egli applica questa maturità all'ingresso dei gentili nella chiesa, mentre io la riferisco alla maturità dei cristiani e delle chiese. Sull'Antico Testamento cf. E. Hatck e H. Redpack, A Concordance to the Septuagint, 2° volume, Téleios (Graz, Austria, Akademische Druk-U. Verlaganstalt 1954) traduce l'ebraico tamin esholem. torna al testo

16. Erm. Sim. 5, 3. 6; Vis 1, 2, 1; Didachè 1, 4, 4; 6, 2; 1 Clem 1, 2; 44, 2.5; 55, 6; 56, 1; Barnaba 1, 5; 4, 3.11; 5, 11; 8, 1; 13, 7; Ignazio, Policarpo 1, 3; Efesini 15, 2; Smirnesi 10, 2; 11, 1.2.3; 4, 2; Filadelfi 1, 2. torna al testo

17. Gc 1, 4.17.25; 3, 2. torna al testo

18. Rm 12, 2; 1 Co 2, 6; 13, 10; 14, 20; Ef 4, 13; Fl 3, 15; Cl 1, 28; 4, 12; Eb 5, 14; 9, 11. torna al testo

19. nêpios, Eb 5, 14; 1 Co 13, 10; Ef 4, 13; paidiá 1 Co 14, 20. torna al testo

20. sofìa: 1 Co 2, 6s; Gc 1, 4s; fronéo 1 Co 14, 20; Fl 3, 15; gignosco-blépo 1 Co 13, 10. In Ef 4, 13 non è in opposizione ad epignosis , ma è parallelo (sinonimo) con questa conoscenza. torna al testo

21. hysterèmata C. 1, 24.28; nestero Mt 19, 21; leipomenoi Gc 1, 4. torna al testo

22. to ek mèrous 1 Co 13, 10. torna al testo

23. Eb 2, 10; 5, 9; 7, 19.28; 9, 9; 10, 1.14; 11, 40. Altri passi in Lc 2, 43; 13, 32; Gv  4, 34; 5, 36; 17, 4.23; 19, 28; At  20,   24; Fl  3, 12. torna al testo

24. Si noti come al v. 9 più non ricordino nemmeno le lingue che al v. 8 ha detto che sarebbero svanite. Sembra che esse non rechino nulla al credente mentre sono poste in primo piano dai movimenti pentecostaleggianti. torna al testo

25. In Ga 4, 9 l'oggetto Dio è indicato: « Ora però avete conosciuto Dio o piuttosto siete stati conosciuti da lui». torna al testo

26. Cf. M. Sullivan, Epignósis in the Epistles of St. Paul, in Studium Paulinorum congressus, Roma, Biblico 1963, vol. II, pp. 405-416. Cf J. Dupont, Gnosis, La connaissance religeuse dans les épitres de s. Paul, Bruges, Desclée 1949. torna al testo

27. Rm 1, 28; 20, 2; cf 1, 17; 1 Ti 2, 4.3; 2 Ti 3, 4-7; Tt 1, 1, torna al testo

28. Ef 1, 17 (cf v. 18; 3, 17s); 4, 13; Cl 2, 2; cf Rm 3, 20. torna al testo

29. Cf 1 Co 8, 3 «Se uno ama Dio è conosciuto da lui»; Ga 4, 9: l'uomo conosciuto da Dio è toccato dal suo amore. Per il kathòs cf K. Romaniuk, De usu particulae kathòs in epistulis paulinis, in Verb. Dom. 43 (1965) 74. torna al testo

30. Cf Chr. Wagner, Gotteserkenntnis im Spiegel und Gottesbild in den beiden Korintherbriefen, in Bijdragen 19 (1958) 370-381. torna al testo

31. A.S. Perry, 1 Corinthians 13, 12a: blepomen gar arti di 'esoptron en ainigmati, In Expos. Tim. 58 (1946/47) p. 279. torna al testo

32. Si veda l'articolo sopra citato (nota 31). torna al testo

33. Sulla magia speculare nell'antichità cf. Pauly Wissova, Real Enc. 11, 27; F. Pfister, Die Rel. der Griechen und Römen 1930, p. 317; J. Behm, in Reinhold-Seberg-Festchr 1 (1929) 314-342 su Co 13, 12; G. Kittel, ainigma, in Gamde lessico (Kittel) 1, 478-484; S. Krauss, Talmudische Archäologie, 1910, pp. 68-399. torna al testo

34. Non ci è motivo per eliminare queste parole come pura tautologia (così E. Preuschen, in Zeit. Neut. Wiss, 1, 1900, pp. 180s; vi inclina anche J. Weiss). Massimo, confessore, già si faceva la domanda: « Qual'è la differenza tra specchio ed enigma? » (Quaest ad Thaless. 46 PG 90, 420b). Non tutti gli specchi trasmettevano immagini confuse, ve n'erano anche dei buoni con immagini chiare (così ad esempio era quello usato per Mosè nel vedere Dio!); qui si vuole dire che nonostante l'uso dello specchio la realtà si vedeva « tramite enigmi» (lo en equivale al be ebraico, con il senso di « per mezzo». torna al testo

35. Cf. Samuel E. Basset, 1 Co 13, 12 blepomen gar arti di 'esoptron en ainigmati, on Journ. Bibl. Lit. 47 (1928) 232-236. torna al testo

36. Cf. pure Ge 32, 31 (Giacobbe vede Dio faccia a faccia, ma di fatto era un angelo); Gdg 6, 22 (Gedeone vide l'angelo del Signore faccia a faccia). torna al testo

37. Il N. Testamento sottolinea tale pensiero dicendo che non Dio, ma gli angeli presentarono le leggi a Mosè (At 4, 38.53; Eb 2, 2; Ga 3, 19) torna al testo

38. Zoe C. Hodges, The Purpose of Tongues, in Bibl. St. 120 (1963); W:G: Bellshaw, The Confusion of Tongues, ivi 120 (1963) 148-152 (servivano per autenticare il messaggio cristiano di fronte ai Giudei); S. Lewis Johnson jr. The Gift of Tongues and the Book of Acts, ivi 120 (1963) 390s. E' invece favorevole alle lingue G.T. Montagne, The Spirit and his Gifts, New York, Paulist Press 1974, pp. 18-29. torna al testo

39. F. Salvoni, Pentecostalismo cattolico, in Ric. Bibl. Rel. II (1976) 45-55. Qui non entro nel problema se siano da Dio o no; nella rassegna sopra citata ho messo i puntini sugli i circa una loro derivazione divina; si noti anzi che 1 Co 13, 9 non ricorda nemmeno più il dono delle lingue ricordato al verso 8, ma solo la profezia e la gnosi. Al v. 12 rimane solo la gnosi. Cf. Stanley D. Toussaint, First Corinthian Thirteen and the Tongues Question, in Bibl. st. 120 (1963).
Il dono delle lingue è inteso da alcuni come l'espressione di persone in preda all'estasi religiosa (Bleek, Reitzenstein, Bousset, Behm, Bultmann). Ma in At 2, 5-11 la parola glossa (lingua) si riferisce a linguaggi intelligibili (v. 11), a vari dialetti (dialektos v. 8). Nel giorno di Pentecoste, data la natura cosmopolita dell'uditorio (arabi, latini copti, ecc.), ognuno poteva capire gli apostoli nella propria lingua. In Corinto, dove dominava il greco, il parlare in altre lingue era un parlare senza senso (1 Co 14, 6-12. 16-18.23.27); occorreva chi lo potesse « interpretare » ( diermeneuo ), verbo usato dagli scrittori ellenisti con il senso di « tradurre », « interpretare » (Polibio, Filone). Ne usa Luca in At 9, 36: « Tabita che è tradotto Dorcas», anche se in Lc 24, 27 significa «interpretare, spiegare le profezie ». Nel caso di 1 Co 12, 10; 14, 27 è preferibile il senso di « tradurre » (come in At 9, 36). At 2, 4 aggiunge « parlare in altre lingue ». Per J.W. Roberts è il dono con cui uno parla miracolosamente una lingua non conosciuta (Was the gift of Tongues at Corinth Real?, in Firm Foundation n. 86, del 14.10.69, p. 644). Non riguarda le lingue di angeli o del cielo, come appare dall'ipotetico « se » quivi aggiunto (1 Co 13, 1). In 1 Co 14, 18 Paolo parla solo di lingue in genere « più in tutti voi » senza ricordare gli angeli. Il « parlare in lingue » sembra essere un'abbreviazione paolina del prepaolino « parlare in altre lingue». Cf Roy A. Harrisville. Speaking in Tongues: A Lexico-graphical Study, in Catt. Bibl. Quart. 38 (1976) 35-48 (specialmente pp. 37s), da F. Chr. Baur, Vorlesungen über neutestamentliche Theologie p. II, Gotha, Fr. A. Perthes 1892, pp. 131s; Blass Debrunner, Grammatik des neutestamentslichen griechische 10, Göttingen, Vandenholck - Ruprecht 1959, par. 480, 3). torna al testo