LA PRIMA LETTERA AI CORINZI
Gli idolòtiti
a cura di Dino Galiazzo - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 2, II Trimestre 1974 pp. 5-31

INDICE

Paolo e le influenze del mondo greco romano

a) Due influenze
b) Le situazioni ambientali in concreto
c) Sacrifici nel mondo greco romano. Significato, modalità. scopi sacrificatori nel culto contemporaneo e precedente al periodo paolino
d) Concetto ebraico della purità
La questione degli idolòtiti
a) Gli idoli non esistono (capitolo 8)
b) A banchetto con gli dèi pagani (cap. 10, 14-33)
c) Gli inviti a casa dei privati
Il problema di At 15, 21-29 e Ap 2, 14-20
Conclusione
Bibliografia

Paolo e le influenze del mondo greco romano

Benché ricevesse un'istruzione di tipo fondamentalmente rabbinico, che precludeva esperienze sincretistiche e accondiscendenze verso i pagani, Paolo deve aver avuto modo di conoscere, tramite le sue esperienze cosmopolitiche, l'aspirazione del mondo greco verso la redenzione dell'anima dal corpo attraverso le religioni misteriche che propugnavano l'ascetismo, onde vivere alla presenza di Dio.

Propagandisti iranici e anatolici passavano da Tarso nella Cilicia per raggiungere la Jonia. Di qui l'enfasi paolina nella liberazione del forze del male e la sua brama verso la futura era di pace e la diretta conoscenza di Dio, che dovevano affascinare gli animi dello stesso ambiente pagano (1) .

Anche se è assai discutibile che Paolo avesse una conoscenza diretta delle opere letterarie greche, con le sue lettere si inserisce in una tradizione antica, delle epistole come trattazione filosofica, che risale fino a Epicuro e Platone... (2) .

Su questa sua conoscenza profonda del mondo ellenico si fonda quella commistione e quell'uso di simbolismi propri delle religioni pagane, riadattati per trasfondere nel cristianesimo nascente ancora più forza e pregnanza.

Come dice Norbert Hugedé:

« Tout porte à croire que l'apôtre Paul, tel que nous pouvons maintenant le connaître, a voulu s'adapter au milieu paîen hellénisé. Elevé à Tarse où les initiés, comme il est normal dans un port, abondaient, il fut involontairement assez versé dans la connaissance des Mystères helléniques, pur s'en servir come d'une image propre à illustrer le mieux sa pensée »(3) .

Anche se è probabilmente esagerato dire che

« Paul was a theologian who corrupted the pure piety of Jesus into a speculative system of salvation» (4) . è purtuttavia presente in lui una serie di preconcetti che lo influenzano continuamente sul piano pratico e che non tengono conto di realtà diverse. Scrive Stephen Neill:

« We think of religion as an affair between the soul of man and God; but in the ancient world, it was a matter which lay, not between the soul and God, but between the individual and the state. Conscience had no place in it. Worship was an ancestral usage which the State sanctioned and enforced »(5) .

C'era inoltre una preoccupazione giustamente ossessiva che spingeva i primi cristiani a non coinvolgersi troppo in pratiche giornaliere che potessero intaccare la lucidità e la purezza del loro sentimento da così poco acquisito. A confronto con l'ambiente greco:

« the faith was regarded as standing in opposition to this environment, Threatened by its hostility, endangered by the penetrating influences which could produce heresy, but guarding its purity by loyalty to the faith once delivered to the saints» (6) .

Questa fede però non poteva confinare nella classica turris eburnea i nuovi adepti e disconoscere le situazioni storiche in cui questi si trovavano ad agire.

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a) Due influenze

Su quello che Paolo compie e dice per dirimere la difficoltà sollevata dai Corinzi a proposito dell'uso degli idolòtiti, si possono intravvedere due influenze: quella veterotestamentaria legata all'idea di purità legale e l'altra greco-cristiana della libertà come proprietà della natura dell'uomo. E' forse inesatto anche parlare di concezione greco-cristiana e sarebbe meglio indicarla come solamente cristiana: la libertà dei figli di Dio.

Qualcuno potrebbe obiettare, a ragione, che il concetto di figliolanza divina sia stato pur esso caro ai giudei e abbia determinato scelte capitali posteriori (Gesù stesso era un giudeo). Come dice Stan Lyonnet:

« Si vede subito, non soltanto quanta la libertà fosse una nozione cara ai giudei, ma ugualmente quanto essa sia radicalmente diversa dalla nozione greca di libertà. Innanzitutto, la libertà, di cui parlano i greci, è una proprietà della natura dell'uomo; la libertà dei giudei ha la sua origine nell'elezione gratuita di Dio che ha scelto Israele come suo figlio primogenito, preferendolo a tutti gli altri popoli, per fare di lui il proprio popolo. Inoltre, la nozione greca di libertà, se non afferma esplicitamente la totale autonomia dell'uomo anche di fronte a Dio, tende almeno ad affermarla. Invece, per i giudei, Israele è stato liberato dalla schiavitù degli uomini proprio per servire Dio: «Lascia partire mio figlio perché mi serva » (Es 4, 23).

Restano comunque fondamentali le istanze socio-culturali che hanno mosso Paolo e la sua equilibrata mediazione ci fa riconoscere come nel cristianesimo nascente ci fossero ormai definitivamente strutture e realtà nuove.

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b) Le situazioni ambientali in concreto

Corinto era una città con circa seicentomila abitanti di ogni provenienza, razza, condizione e religione. Anche se vi erano molti romani, la maggioranza era costituita da greci, egiziani e orientali, tra i quali erano numerosi i giudei, che vi avevano anche una sinagoga (At 18, 4). Naturalmente vi pullulavano le religioni più disparate: dal giudaismo alle religioni ellenistiche e orientali più strane, spesso a forte tendenza sincretica. Anche i dislivelli sociali erano molto accentuati, con schiavi e persone poverissime accanto a benestanti se non addirittura ricchi. Questo spiega la fama di «città del denaro e della lussuria». Vivere alla Corinto era diventato sinonimo di vivere scostumatamente. Senza dubbio tale situazione morale dipendeva in parte dalle condizioni sociali degli abitanti, dalla miseria e dal carattere portuale della città; tuttavia doveva essere pure notevolmente determinata dal turpe culto della dea Afrodite.

Sull'Acrocorinto sorgeva infatti il santuario della dea e là, a detta di Strabone, vivevano circa mille sacerdotesse o hierodùle, dedite alla prostituzione sacra. Non desta perciò meraviglia né il quadro che Paolo traccia della corruzione pagana (Rm 1, 18-32), né gli accenni che egli fa ai gravi disordini morali, verificatisi nella stessa città (1 Co 5, 1; 6, 9-20; 10, 8; 1 Co 7, 1) (7) .

La vitalità mondana e l'effervescenza cittadina contagiò anche la comunità cristiana locale in un malcelato impulso, forse, di rivalsa nei confronti dei giudei. Si potrebbe dire con Ernst Käsemann:

« che la comunità di Corinto viveva in una malintesa teologia della libertà» (8) .

I cristiani etnici vivevano con disordine la sicurezza della propria salvezza fidando nella resurrezione del Cristo e incentrando su questo fatto la loro speranza escatologica e la loro morale presente, sicché alla loro fede erano estranei quei vincoli morali sui quali dovrà ricondurli Paolo, come puledri focosi liberatisi dal morso, ma subito ricatturati.

Ma più importante o meglio più biasimevole era la non separazione con gli elementi marcatamente pagani sul piano cerimoniale, il loro non prestare attenzione all'eventuale commistione in pratiche inequivocabilmente pagane e idolatriche.

Partecipare personalmente o essere indirettamente coinvolti nei banchetti offerti agli idoli mangiandone la carne, non era cosa che il cristiano potesse liberamente fare, anche se, come dirà Paolo, virtualmente non c'erano motivi contrariamente categorici.

In che modo avveniva la partecipazione all'idolatria? Come potevano i cristiani di Corinto coinvolgersi nell'adorazione di dèi inesistenti se credevano solamente in Cristo? Mangiando appunto la carne che proveniva da banchetti o cerimonie sacrificali.

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c) Sacrifici nel mondo greco romano. Significato, modalità, scopi sacrificatori nel culto contemporaneo e precedente al periodo paolino

Al sacrificio, variamente inteso, è legata la genesi della religiosità. Le due manifestazioni infatti sono strettamente collegate, anche se si continua a discutere se quest'ultima fosse connessa con elementi concreti, quali il totemismo e la personificazione delle forze naturali, o all'adorazione tout court del cielo e delle stelle.

E' comunque indubitabile che su queste pratiche(9) si innesti l'idea della necessità di sacrificare cose, ma specialmente animali al dio o agli dèi presi in considerazione. Una spiegazione dell'origine del sacrificio, accettata comunemente, è che fosse all'inizio un modo di nutrire gli dèi, che pensava possedessero gli stessi desideri degli esseri umani (10) .

« Poiché gli dèi sono concepiti sotto forma umana, poiché il popolo vede in essi almeno degli esseri senza dubbio immortali e beati, ma non essenzialmente diversi dalla nostra specie, si pensa di incontrare il loro gradimento con l'offerta di un buon pasto. Tale è il sacrificio »(11) .

Da notare inoltre che fin dai primordi il pasto o banchetto in comune era stato un mezzo per cementare l'unione di un gruppo sociale o di un clan. Su questa sottintesa forza di unione si evolve pian piano il concetto di comunione uomo-Dio attraverso il sacrificio-pasto in comune.

Questo mangiare con gli dèi, o più propriamente, nutrire gli dèi , aveva forme diverse e dava luogo a cerimonie rituali che si svolgevano in vari modi e che si possono riassumere in tre tipi fondamentali:

1) il pasto o l'animale sacrificato veniva mangiato totalmente dai fedeli;

2) una parte veniva consumata dai fedeli e l'altra bruciata per Dio;

3) il banchetto in quanto tale non sussisteva più, lasciando il posto al rito propiziatorio consistente nella bruciatura totale degli alimenti o degli animali.

Risulta però che i più praticati fossero quelli appartenenti alla seconda categoria.

E' difficile inoltre stabilire quali e quanti tipi di riti sacri i vari popoli compissero, essendo in parte simili o confusi gli uni negli altri. Grosso modo si può suggerire che vi erano riti di purità o profilattici, d'esorcismo e di magia, riti di divinazione e oracoli (l'epatoscopìa che i latini avevano imparato probabilmente dagli etruschi), quelli connessi agli eventi antropici più salienti quali la nascita, la pubertà, il matrimonio, la gravidanza, le malattie, oltre a tutti i riti per i defunti.

La letteratura greca e latina ci ha lasciato testimonianze di riti propiziatori o conciliatori effettuati mediante l'uccisione e la bruciatura di animali o parti di essi, riti compiuti secondo la divinità cui si riferivano, di giorno o di notte, con musica e danze o con uno stretto silenzio, bruciando e mangiando interamente o parzialmente la vittima, seppellendola o gettandola nell'acqua. Presso i romani inoltre si ebbe la scomparsa quasi totale di riti sanguinari, venendo usato al posto del sangue il vino, considerato « sangue dell'uva».

L'elemento principale nella celebrazione era la precisione e la stretta esecuzione del cerimoniale previsto (liturgia), pena in caso di errore la ripetizione radicale di tutto il servizio.

In Grecia si celebravano varie divinità, alle quali si sacrificavano degli animali (non infrequenti delle mandrie intere donde il termine ecatombe) oltreché al nume tutelare della città e della corporazione, operazione che dava luogo alle famose feste locali, quali quelle di Efeso, di Magnesia, di Mileto.

Ma, oltre allo scopo già esaminato di dare da mangiare al dio bruciandogli la carne, la cui fragranza doveva bearlo e saziarlo, esisterebbe un secondo significato, soprattutto nella thisia dei greci, durante la quale si uccidevano solennemente e si cucinavano vari animali, che venivano poi consumati in comune. Durante la Bouphania la carne veniva addirittura mangiata cruda.

« Le fait de manger la chair crue ou d'y goûter seulement, dénote l'aspiration des mangeurs à s'approprier cette force et compenser aussi la finitude dont tous les hommes on conscience. De quelque manière qu'on l'interprète le geste d'atteler la peau de l'animal à la charrue a un rapport avec le désir de rattacher cette piussance à l'activité humaine et, une fois de plus, de compenser la finitude humaine» (12) .

« a) A la base du rite se trouvait le repas commun, commandé à l'origine par les nécessités matérielles de l'abattage, de la cuisson et de la consommation d'un gros animal. b) Très tôt, le raisonnement convainquit l'homme qu'en mangeant un animal il s'appropriait ses forces, c'est-a-dire qualitès particuléres qu'il possédait. c) Le desir de connaître l'avenir et, partant, d'avoir une indication précise qui l'aiderait à prendre des décisions, s'exprima par l'examen des splanchna, siège supposé de la force vitale »(13) .

Se da un lato ci siamo interessati dei sacrifici in ambiente greco (analogo più o meno a quel tempo a quello latino) è perché paolo si trovò a fondare delle chiese i cui componenti vivevano ed erano stati soggetti loro stessi di quegli atti di culto pagano. Anche il cerimoniale ebraico e le leggi numerose che vi erano connesse, può dare soprattutto la spiegazione dell'avversione paolina per il contatto con la carne proveniente dai festini idolatrici.

Per l'ebreo osservante infatti tale rifiuto è strettamente connesso alla prescrizioni per conservare la purità legale o gli atti di riparazione per cancellare l'eventuale contrazione dell'impurità.

Anche presso gli ebrei notiamo un lento evolversi del concetto espiatorio e sacrificatorio, nonché dello stesso rituale.

E' chiaro comunque che nella religione ebraica partecipano elementi cananei scaturiti dalla fusione di una civiltà semitica antica con civiltà indoeuropee, elementi semitici tardivi e elementi ricavati dalla fusione di popoli locali ove i giudei del sud ebbero il sopravvento. Inoltre alcune tradizioni trattano la questione del vero destinatario del culto; la lotta tra Yahvé e le divinità locali saldamente stabilite all'arrivo degli ebrei. Il nord sarà maggiormente colpevole di commistione idolatrica. Molti nomi di sacrifici innalzati agli dèi cananei vengono trasformati in riti dovuti al solo Yahvé, come molte feste pagane si trasformarono in feste cattoliche (Natale, Pasqua, S. Giovanni).

Les rites anciens sémetiques qu'on retrouve mentionnés dans l'Ancient Testament sont les suivants:

1 'Oolath, mentionnée une fois dans une inscription néopunique du II s. av. J.C.. L'analogie de ce vocable avec l'Hébreu 'olah ' est manifest, mais la seule mention du terme, non accompagnée d'une description du rite, ne permet aucune identification.

2. Kalil figure plus fréquemment, tant isolément que comme adjectif qualificatif dans la description d'autres rites. En dépit de son sens de «parfait» ou «complete», il ne désignait pas des sacrifices entiérement brûlés sur l'autel: les textes spécifient que certaines parties du sacrifice revenaint à ceux qui l'offraient.

3. Shélem, rite continué par les Hébreux, figure généralment associé au terme kalil et modifié par le sens de cedernier. Cela soulève le problème de savoir si les Cananéens connaissaient deux sortes de shélem.

4. Zévach est le rite le mieux connu, tant par l'épigraphie cananéenne que par les textes hébraïques. Beaucoup d'auteurs pensent que son sens s'approche de celui de «sacrifice en géneral», c'est-à-dire qu'il comprende tous les rites. En fait, le mot est strictment limité aux rites où une partie seule de la victime était brûlée.

5. Minchath, terme également repris par les Hébreux qui signe un rite où l'offrande ne consiste pas en un animal, mais un céreéales, crues ou préparées.

6. Balal était apparemment une variété de minchath.

(...)

8. So'ath peut avoir été un rite de priére quelconque.

9. Shasaf désigne un rite sur lequel nous n'avons aucune information.

E' stato definito (14) oltre all'antichità rituale dei sacrifici in Israele, ricavabile dal confronto con le altre religioni orientali, ove si ravvisano forme analoghe, che i riti praticati dagli ebrei erano estranei, fatta eccezione per alcuni aspetti analoghi e secondari, a quelli mesopotamici e arabi antichi, ma che avevano una considerevole somiglianza con quelli cananei. In particolare l'usanza di bruciare dal tutto o in parte la vittima animale sull'altare, nonché quella di immolare degli uomini (15) Uso questo che non era nemmeno estraneo a Israele, senza arrivare però agli eccessi tipici dei sacrifici a Moloch.

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d) Il concetto ebraico della purità

Pare sia lecito pensare, data l'ascendenza farisaica di Paolo, che bene o male doveva persistere in lui, anche dopo la sua radicale conversione, la repulsione a mescolarsi o ad avere a che fare con dèi o alimenti a loro dedicati. Come automatismo precedente o come inconscio terrore legalistico qualcosa lo teneva ancora legato al concetto dello stato di purità, e questo suo processo mentale potrebbe essere presente nelle istanze presentate ai Corinzi.

Gli Ebrei non potevano infatti avere contatto alcuno con oggetti, simulacri, paramenti di origine idolatrica(16) E' chiaro dall'episodio dell'efod di Gedeoone allestito con bottino saccheggiato ai madianiti (Gdc 8, 22-27). Anche nelle istruzioni sul luogo destinato ai sacrifici, si proibisce di offrirli agli idoli e si danno le prescrizioni relative per non cadere nello stato di impurità legale:

Lv 17, 3-7: « Se un uomo qualunque della casa d'Israele scanna un bue o un agnello o una capra entro il campo, o fuori del campo, e non lo mena all'ingresso della tenda di convegno per presentarlo come offerta all'Eterno davanti al tabernacolo dell'Eterno, sarà considerato come colpevole di delitto di sangue; ha sparso il sangue, e cotest'uomo sarà sterminato di fra il suo popolo, affinché i figlioli di Israele invece di immolare, come fanno, i loro sacrifici nei campi, li rechino all'Eterno presentandoli al sacerdote all'ingresso della tenda di convegno, e li offrano all'Eterno come sacrifici di azione di grazie. Il sacerdote ne spanderà il sangue sull'altare, all'ingresso della tenda di convegno e farà fumare il grasso come un profumo soave. Ed essi non offriranno più i loro sacrifizi ai demoni, ai quali sogliono prostituirsi. Questa sarà per loro una legge perpetua, di generazione in generazione ».

Lv 18, 21: « Non darai dei tuoi figlioli ad essere immolati a Moloch; e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono l'Eterno»

Lv 19, 4-8: « Non vi rivolgete agli idoli, e non vi fate degli dèi di getto. Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro. E quando offrirete un sacrificio di azioni di grazie all'Eterno, lo offrirete in modo da essere graditi. Lo si mangerà il giorno stesso che l'avrete immolato, e il giorno seguente; e se ne rimarrà il terzo giorno, sarà cosa abominevole; il sacrificio non sarà gradito e chiunque ne mangerà porterà la pena della sua iniquità, perché avrà profanato ciò che è sacro all'Eterno; e quel tale sarà sterminato di fra il suo popolo ».

Lv 22, 29: « Quando offrirete all'Eterno un sacrifizio di azioni di grazie, l'offrirete in modo da essere graditi. La vittima sarà mangiata il giorno stesso; non ne lascerete nulla fino al mattino. Io sono l'Eterno ».

Al tempo di Gesù la Torah aveva varie disposizioni per i giudei che vivevano sia in Palestina, con i Romani che al di fuori di essa a contatto diretto con i gentili. La soluzione unica possibile era il separatismo sistematico che creava però anche dei problemi.

« Quest'attenzione ad evitare tutti gli impuri, praticamente tutti i gentili, feriva ques'ultimi ed aveva per effetto di restringere eccessivamente, se non di sopprimere totalmente, i rapporti sociali con i pagani poiché non si voleva cooperare alla loro idolatria... e si temeva di essere vittima delle loro tendenze omicide e voluttuose» (17) .

Come potevano i Corinzi venire in contatto con carni che erano servite a pratiche sacrificali?

Secondo Wolgang Müller(18) era impossibile per un cristiano acquistare carne presente nei negozi e nei mercati di allora che non fosse contaminata « dato che nessun animale veniva macellato senza una previa consacrazione. La macellazione — sempre secondo lo studioso tedesco, che però non dà prove corroboranti — era congiunta con una cerimonia religioso-rituale ».

Anche Giuseppe Huby (19) dà per scontato che varie parti erano riservate ai sacerdoti, agli offerenti e che il resto era venduto sul mercato.

In realtà non sono riuscito a trovare dei dati che comprovino tali affermazioni. La soluzione che mi sembra più plausibile, visto che delle bestie offerte agli dèi oltre le porzioni che spettavano per legge ai sacerdoti r quelle che venivano consumate seduta stante dagli offerenti, il resto era completamente bruciato sull'altare, è quella che i sacerdoti vendessero la loro parte.

Il dizionario delle antichità classiche del Daremberg-Saglio (20) annovera tra i profitti ordinari dei preti in primo piano il ricavato della vendita delle parti delle offerte, generalmente animali, che erano loro assegnate, senza dare però alcun elemento bibliografico che suffraghi l'asserzione.

Anche Festugière (21) dice testualmente:

« Se dopo la partizione, merismos, resta ancora qualche cosa delle carni della vittima, il sacerdote ha diritto di venderle »

E più oltre:

« Accade pure che il sacerdote abbia il diritto di vendere al mercato tutta la carne. Le pelli delle vittime in genere erano vendute a vantaggio del clero e del tempio (22) »

L'unica difficoltà in tutto questo è che l'iscrizione, a cui si riferisce Festugière, non è completa e la parola «vendono» è stata reintegrata, ma potrebbe benissimo sopportare un qualsiasi altro significato (23) Analoghe affermazioni troviamo nel libro di Dauviller, secondo cui i sacerdoti e le sacerdotesse:

« avaient droit à certanis parts déterminées de la victime et faisaient vendre au marché ce qu'ils ne gardaient pas pour leur consommation. De même, si après le repas qui suivait le sacrifice, il restait quelque chose de la chair des victimes, les prêtres avaient droit aussi à la vendre» (24) .

Resta comunque in dubbio che sul mercato fossero presenti carni provenienti dai banchetti idolatrici, considerato l'avvertimento che Paolo dà ai cristiani di Corinto, qualunque fosse il modo e quali fossero le persone coinvolte.

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La questione degli idolòtiti (1 Co 8, 1-13; 10, 14-33)

La parola idolòtito indica propriamente la carne o i pezzi di animali che venivano usati per offrire un sacrificio ad una data divinità.

Deriva dal sostantivo eidolon, immagine, raffigurazione, copia, rappresentazione di qualcosa o qualcuno e quindi non solo come immagine di divinità ma molto in generale è usato anche per l'ombra prodotta dall'esposizione al sole e qualsiasi immagine riflessa sull'acqua. I LXX ne fanno uso, nella traduzione corrispondente, con riferimento specifico a dei e divinità, quindi con riferimento sacrilego.

Nel caso di Paolo la carne è considerata idolatrica in quanto servita per pratiche cultuali pagane.

I cristiani di Corinto erano in gran parte provenienti dal paganesimo. Luca racconta le difficoltà avute da Paolo con i suoi ex correligionari e le contestazioni sollevate contro di lui (At 18, 6) e quindi la decisione di lavorare soprattutto tra i pagani.

Come nella città, porto di mare, la popolazione era formata da gente di condizioni e origini diverse, per la maggior parte schiavi, liberti e persone d'umile stato, così questa eterogenea composizione si doveva ritrovare anche nella comunità fondata dall'apostolo.

Il passaggio dal paganesimo alla nuova religione era stato abbastanza facile, ma non altrettanto facile era stato per i Corinzi cambiare le loro antiche abitudini e la concezione della vita. E' in questo clima di libertà, di ricchezza spirituale ed anche di eccessi che sorgono dei problemi mirali, come quello dell'incestuoso, delle agapi turbolente e degli idolòtiti.

Abbiamo visto come tutta o quasi la carne del mercato, proveniente o no dal pubblico macellatoio, fosse «compromessa» con pratiche idolatriche. Si trattava di un problema pratico, non insolito in una grande città, dato che i cristiani, mescolati alla massa pagana, dovevano necessariamente frequentare i mercati o ricevere da parte di parenti o amici (che se pure pagani non potevano essere ignorati o con i quali non si poteva certamente rompere in un sol colpo tutte le relazioni) inviti a feste di famiglia, a banchetti sacri tra persone di una stessa corporazione, dopo atti sacrificatori ai loro dèi o ai loro eroi protettori.

Come si dovevano comportare i Corinzi? Potevano presenziare a questi banchetti, potevano mangiare senza scrupoli la carne acquistata, come o fino a quando si dovevano contenere dinanzi ai fratelli appena convertiti?

A questi interrogativi risponderà compiutamente Paolo nella sua lettera.

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a) Gli idoli non esistono (capitolo 8)

Paolo affronta la questione ponendo chiaramente i termini del problema: gli idolo non esistono (v. 4), ma qualcuno, non liberatosi ancora del vecchio uomo, potrebbe credere, mangiando quella carne, di contaminarsi con quello che crede sia attribuito all'idolo.

Se il cristianesimo ci libera attraverso la conoscenza, vediamo dunque di conoscere, di sapere esattamente come stanno le cose.

Questi Corinzi, che hanno l'esatta conoscenza(25) percepiscono, sia pure confusamente, che questa carne, anche se immolata, non è contaminata, proprio perché il nulla (l'idolo) non la può contaminare.

Anche se la conoscenza (gnosi) cristiana temperata dall'amore illumina il cristiano sulla nullità dell'immagine (eidolon ), bisogna fare i conti con la realtà del paganesimo.

« ma per San Paolo questo non è la realtà di esseri che posseggono veramente la natura divina, ma, nascosta dietro agli idoli, è la realtà dell'influenza dei demoni )1 Co 10, 20). Non c'è altro Dio che il Dio unico» (26)

Quindi si può mangiare tutta la carne che si vuole, in nome di quella libertà assoluta di cui gode il cristiano, purché questo gesto non provochi degli intoppi per i più deboli, quelli appena convertiti. I neofiti che erano impregnati di vecchie istituzioni e credenze ad esse legate, non erano in grado di liberarsi su due piedi da questi influssi.

Gli idoli conservavano ai loro occhi delle forze occulte, un qualche potere misterioso, tra il divino ed il demoniaco e quindi anche i cibi che erano stati in contatto con questo idolo, avevano un alcunché di soprannaturale. mangiarli significa dunque entrare in contatto con la divinità.

« Ils craignaient les forces occultes, dont leur imagination avait été remplie dés leur enfence. Ils Croyaient que par sa consécration à l'idole, l'idolothyte avait revêtu une qualité préternaturelle et magique, qui nuisait à ceux qui la mangeraient. Ils redoutaient en la consommant d'entrer en contact avec les puissances mauvaises » (27) .

Paolo dichiara quindi che «non è il cibo che ci rende accetti a Dio» (v. 9). Mangiandone o astenendocene non guadagniamo o perdiamo nulla. Se il gesto crea difficoltà ai più deboli, i Corinzi più maturi, che sanno che in se stesso l'idolo non è niente, saranno così amorevoli da astenersene almeno finché anche gli altri saranno assurti alla stessa statura.

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b) A banchetto con gli dèi dei pagani (cap. 10, 14-33)

Nell'intermezzo rappresentato dal capitolo 9, Paolo evidenzia la necessità di usare la libertà sotto ogni aspetto, anche con l'astuzia se necessario, per le buone sorti della diffusione della « buona notizia» di Gesù.

Al capitolo seguente dà la soluzione pratica della questione degli idolòtiti. « Tutto è lecito », dice ancora Paolo, «ma non tutto è utile. Tutto è lecito, ma non tutto edifica » (v. 23).

C'è quindi un caso particolare in cui è sconveniente, anzi un vero e proprio controsenso per un cristiano, essere spettatore e partecipante diretto: quello dei banchetti sacrificali consumati in onore di dèi pagani.

Anche se la separazione tra giudei e pagani era un fatto scontato (28) era possibile invece che i cristiani, che non dovevano subire le restrizioni della legge ebraica, potessero essere invitati a partecipare a uno di questi banchetti. Questi potevano essere imbanditi « sia all'interno stesso del tempio in cui venivano offerte le vittime, sia in casa di una persona particolare, ma in circostanze tali che il banchetto era offerto in onore di un dio e conservava un netto carattere cultuale » (29) .

A questo tipo di pranzo i Corinzi non potevano assolutamente partecipare, perché altrimenti cadrebbero in veri e propri atti di idolatria. « Quindi miei cari fuggite l'idolatria» (v. 14).

Su che cosa basa il rifiuto Paolo? Durante i sacrifici, è stato ampiamente dimostrato più indietro, sull'altare veniva bruciata la parte destinata al dio o alla dea evocata, e gli astanti altro non facevano che godere della comunione (koinonia ) con la divinità. Questa comunione con gli spiriti, per uno che spezzasse anche il pane e bevesse il vino durante il « pasto del Signore» è incompatibile con l'unione con Cristo, nell'anamnesi (vedi l'articolo di L. De Benetti su questo argomento) della sua morte e resurrezione.

Non si può dunque partecipare alla mensa del Signore e ai banchetti propiziatori dei pagani allo stesso tempo. La conoscenza invocata all'inizio del capitolo illumina sul fatto che gli idoli non sono niente. « Che intendo dunque dire? Che le carni sacrificate agli idoli siano qualche cosa? O che l'idolo sia qualche cosa? Tutt'altro ciò che i gentili sacrificano lo sacrificano ai demoni e non a Dio, e io non voglio che voi abbiate comunione coi demoni» (vv. 19.20), ma pretende anche che chi una volta si è riscattato dalle tenebre con la Parola di Dio, non ritorni più sul vecchio cammino.

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c) Gli inviti a casa dei privati

Poteva capire però che i cristiani d'allora ricevessero anche dei semplici inviti a casa di amici e conoscenti pagani per mangiare e bere. In questo caso non c'era niente di sacro o legato agli dèi locali. Quindi la carne o altri alimenti presenti sulla tavola erano di per sé indifferenti, non si trattava che di un pezzo di carne qualunque e quindi niente impediva che venisse liberamente mangiata senza porsi scrupoli di sorta. « Se qualche infedele vi invita a mangiare e volete andarci, mangiate tutto ciò che è imbandito senza indagare per motivo di coscienza » (v. 27).

Anche altrove Paolo dice: «Mangiate di tutto quello che si vende al macello senza indagare per motivo di coscienza, poiché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene » (v. 25).

Avendo intimamente superato, attraverso la fede, il legalismo giudaico, Paolo può permettere la commistione dell'eidolothiton purché non a fini cultuali (1 Co 14, 14-22) e purché non leda il dovere della carità verso i fratelli (8, 1-13) e può convalidare il proprio atteggiamento richiamando al Sl 24, 1 (10, 26) (30) .

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Il problema di At 15, 21-29 e Ap 2, 14-20

Una difficoltà, con quanto Paolo espone ai Corinzi, sembra sorgere nei libri dell'Apocalisse e di Atti. Secondo quanto avviene alla conferenza di Gerusalemme, durante la controversia tra i giudeo-cristiani e gli etnico-cristiani a proposito della circoncisione, tra le prescrizione dettate da Giacomo per questi ultimi, c'è l'astensione dal mangiare « carni immolate agli idoli» (At 15, 29).

Erano norme che avevano decisamente valore transitorio e che si applicavano a quelle comunità che erano a stretto contatto geografico con Gerusalemme, per non creare delle situazioni imbarazzanti nei giudeo-cristiani.

« Ces dernières prescriptions (della conferenza di Gerusalemme, n.d.r.) plus rigoureuses, sont dictées par le désir de ne pas choquer les juifs dans les communautés où ils constituent la majiorité ou une prtion appréciable des fidèles. Elles apparaissent comme une mesure de condenscendance, qui par sa nature même , a un caractère local et provisoire. Elles ne paraissent s'être appliquées que dans les communautés de la Palestine, d'Antioche, de Syrie et la Cilicie » (31) .

Anche secondo A. Wikenhauser, le clausole di Giacomo hanno il carattere di una normale dichiarazione relativa alla prassi da tenere, ma non vincolata o vincolante.

« Secondo questi due passi (v. 21 e 29) la fedele osservanza delle clausole è destinata ad assicurare pace ed armonia all'interno della comunità e non a rendere possibile il raggiungimento della salvezza ai pagani che si convertivano» (32) .

Le indicazione contenute in Ap 2, 14-20 condurrebbero a ritenere ad esempio che all'epoca della stesura dell'ultimo libro, delle quattro clausole giacomiane, ne siano rimaste solo due, la proibizione di mangiare idolòtiti e di avere pratiche fornicatorie, da intendere però queste ultime, in senso figurato (prostituzione della chiesa ad altre dottrine non cristiane). Questo fatto è ancora più rilevante se si considera che da quanto risulta oggi dall'archeologia, le chiese dell'Apocalisse erano in prevalenza giudeo-cristiane.

Sembra dunque si possa considerare facoltativo quanto deciso a Gerusalemme o perlomeno legato a località determinate visto il comportamento posteriore di Paolo e la tendenza a scomparire delle norme citate. La soluzione esatta però delle difficoltà sollevate dai due passi in questione non è ancora stata trovata.

« E' difficile dire, però, se quest'ordine di ammaestramenti facesse parte della normale catechesi. Si sa da At 15 che il problema fu affrontato alla conferenza di Gerusalemme in termini piuttosto generali, ma questo non contribuisce alla chiarezza: infatti che cos'era accaduto di questo decreto quando Paolo scrisse 1 Co? Perché mai la questione non si riaffaccia né in Paolo (a meno che non se ne abbia un'eco in Rm 14) né in 1 Pt? E' difficile immaginare che questa questione non fosse un problema in seno ad una comunità cristiana etnica, eppure le sole allusioni chiare sono At 15 e 1 Co 8-10, la prima alquanto generica, la seconda particolareggiata. La questione parallela circa le leggi dietarie (se cioè un cristiano dovesse osservare i tabù giudaici nei pasti consumati in compagnia di giudeo -  cristiani), viene trattato in At 15 e se ne trova qua e là (Ga 2, 11ss; Rm 14; Cl 2, 16) qualche accenno, ma non è altrimenti menzionata. Nemmeno in Ap 2, 20.24, che per molti rispetti ricorda il decreto in At 15. Forse si deve concludere che nella misura in cui i cristiani si distanziavano dal giudaismo e acquistavano sempre nuovi membri d'estrazione etnica, la questione cessava di essere attuale, diventava cioè sempre più raro che cristiani venissero a trovarsi a tavola con fratelli sensibili ancora alle tradizioni giudaiche» (33) .

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Conclusione

Nel capitolo 14 della lettera ai Romani troviamo un ulteriore accenno a difficoltà causate da prescrizioni dietarie; onnivori e vegetariani si contrastano e la soluzione è indicata da Paolo nella libertà di ognuno e nella doverosa astensione dal giudicare il proprio fratello: «Chi sei tu che fai da giudice al servo altrui?» (Rm 14, 4).

L'importanza della enunciazione è data dalla posta in gioco: o fondamenti dell'etica ecclesiale. La convivenza comunitaria è al di sopra di qualsiasi disputa, come lo è la necessità di essere uniti, pur nella diversità dei modi di intendere la fede e nella diversità della misura posseduta dalla fede stessa.

Su tutto comunque deve prevalere l'amore.

Le coscienze forti sono spessi tentate di irridere le coscienza deboli e viceversa. Questi deboli però, che potrebbero essere tentati di vedere « idolòtiti» in ogni angolo, che potrebbero essere tentati di invocare ad ogni piè sospinto il diritto alla pace della propria coscienza, il diritto di non venire scandalizzati, non devono giudicare il proprio fratello e tanto meno ripudiarlo.

Sulla tentazione di censurare qualcuno che, pienamente convinto, di comporti in maniera diversa, deve essere prioritario il senso della pace e della giustizia di Dio. Qualsiasi cosa si faccia, deve essere fatta con convinzione e non trascinati dall'imitazione altrui. Anche ai nostri giorni, la sensazione di mangiare idolòtiti, si deve vincere con la crescita nella gnosi della sana dottrina, che non serve per avallare roghi e processi ad eresiarchi, veri o pseudo tali, ma per costruire, per edificare, per fare tutto a gloria di Dio.

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Bibliografia

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Raffaele Cantarella, Letteratura greca, Società Ed. Dante Alighieri, Milano 1965, p. 743.
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J. Dauviller, Les temps apostoliques, 1 er siècle , Sirey, Paris, 1970, p. 744.
Gaston Deluz, La sagesse de Dieu, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1969, p. 294.
De Vaux, Le Istituzione dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, p. 607.
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A.J. Festugière - P. Fabre, Il mondo greco-romano al tempo di Gesù Cristo , S.E.I. Torino, 1955, p. 359.
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Giuseppe Huby, San Paolo prima epistola ai Corinzi, Ed. Studium, Roma 1963, p. 345.
Edmond Jacob, Théologie de l'Ancien Testament, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1968, p. 287.
Ernst Käsemann, Appello alla libertà, Claudiana, Torino 1972, p. 198
G. Kittel, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, III, col. 133, alla voce eidolothiton (F. Büchsel)
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George Eldon Ladd, The Pattern of New Testament, Truth, Eerdman, Grabd Rappids, Michigan 1968, p. 120.
Alfred Loisy, Le origini del cristianesimo, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 492
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C.Fr. D. Moule, Le origini del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 71, p. 328.

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NOTE A MARGINE

1. Salvoni, p. 10; cf. anche U.C. Kee - Fr.W. Young, Understanding the N.T., Prentice Hall, N.Y., 1963, pp. 205-210. torna al testo

2. Cantarella, p. 622. torna al testo

3. Hugedé, p. 150. torna al testo

4. Ladd, p. 88. torna al testo

5. Pagina 139. torna al testo

6. Ivi, p. 137. torna al testo

7. Käsemann, p. 81: «La comunità era formata quasi esclusivamente dal proletariato del porto di una città che si trovava al centro del commercio mondiale ed era famosa in tutto l'impero romano per i suoi numerosi templi e la sua proverbiale immoralità. Ogni forma di superstizione, magia, ogni manifestazione misterica trovava un terreno fertile...». torna al testo

8. Ivi, p.79. torna al testo

9. Yerkes, p. 31: «la religion a graduellement développé trois phases d'activité: l'adoration, la croyance et l'attitude religieuse — appelées respectivement le culte, la foi, et le comportement — auxquelles correspondent trois aspects de la nature humaine; l'affectivité, le raisonnement et la volition ». torna al testo

10. Ivi, p. 42: «Cette théorie part du principe que le culte et le sacrifice étaient des êtres personnidiés... Le Zeus des Grecs était, à l'origine, simplement le ciel; Il se peut qu'origenellement le Yhahvé hebreu ait été "celui qui abat", la force qui se manifeste dans les cataclysmes, les tempêtes, la foudre et les sèismes, phénomènes devant la force desquels le choses de la nature étaient impiussantes. La grande source de vie était la terre, surtout quand'elle s'unissait à la puissance du soleil. Les traces de cette conception primitive se trouvent dan tous les documents anciens». torna al testo

11. Festugière, p. 249. Al contrario Yerkes, p. 43: « Il n'est pas besoin de supposer que le desir d'alimenter les divinités ait été à l'origine su sacrifice; il se peut même que l'idées de nourrir des dieux n'ait été que l'interprétation tardive d'un rite dejà coureant, et qu'elle soit née après la personnification des divinités». Cf anche De Vaux, p. 435: «Altri autori rispondono a simili teorie: la realtà è molto più semplice. Il sacrificio è un pranzo offerto a Dio, il quale, concepito alla maniera umana, ha bisogno di mangiare e si rallegra del buon odore della carni. L'altare è "la tavola di Dio" , i pani d'oblazione i "pani di Dio" . E' per questo che il sacrificio è preparato come un pranzo: vi si unisce un'offerta di sale, di dolci, di vino. Gli autori stessi riconoscono che, nei testi del Levitico e nel culto postesilico, tali espressioni concrete non erano più che metafore, erano però i resti di un'antica concezione materialistica ed antropomorfica. Di fatto, presso popolazioni vicine ad Israele, in Mesopotamia, il sacrificio aveva un carattere molto accentuato di pasto del Dio; e i banchetti scambievoli degli dèi nei poemi di Ras Shamara indicano che i Cananei avevano, se non la stessa concezione sacrificale, almeno una medesima idea dei bisogni alimentari degli dei ». torna al testo

12. Yerkes, p. 101. torna al testo

13. Ivi, pp. 157-158. torna al testo

14. De Vaux, pp. 420-426. torna al testo

15. Secondo alcuni agli inizi si usava incondizionatamente immolare vittime umane. Tale uso si sarebbe via via modificato e gli animali adoperati on epoca posteriore non sarebbero che dei veri e propri sostituti degli uomini. Secondo questa teoria i riti svolti non sarebbero non sarebbero stati né più né meno che dei «sacrifici di sostituzione ». Cf. De Vaux, o.c., p. 428: « La teoria dei sacrifici umani, già fragile per gli altri ambienti orientali, è stata ciò nonostante estesa a Israele; e un certo numero di autori ammette non solo che gli Israeliti paganizzanti abbiano offerto simili sacrifici a divinità straniere, non solo che certuni di essi ne abbiano offerto a Yahvé, confuso con tali divinità, ma che anticamente e per assai lungo tempo il yahvismo ufficiale abbia conosciuto e addirittura positivamente prescritto i sacrifici umani. Sotto questa forma la teoria è criticamente insostenibile ». torna al testo

16. Anche i greci avevano su questo punto delle medesime restrizioni. « I culti dei misteri sono evidentemente interdetti ai non iniziati. Anche quelli che avevano diritto d'ingresso non potevano esercitarlo se non avessero soddisfatto le prescritte condizioni di purità rituale. Tali precetti non hanno affatto in origine un carattere morale. Essi dipendono essenzialmente dalla nozione di sacro, che indica una separazione dal profano. Per accostare il sacro, occorre porsi in uno stato di purità fisica: "A chi non è puro non è lecito toccare ciò che è puro", scrive Platone. Di qui la negazione del diritto d'ingresso a quanti non adempiono le condizioni di purezza. I motivi di impurità sono parecchi: la sporcizia propriamente detta o qualche difetto fisico; il sangue versato, sia che la morte sia stata volontaria o involontaria; la consumazione di determinati alimenti o vini; il rapporto sessuale tra congiunti o non congiunti; il contatto di un cadavere, sia che si tratti di un'acconciatura funeraria fatta ad un parente o di semplice assistenza ai funerali; il contatto con una donna durante il parto; per la donna la perdita delle verginità, le mestrue, il parto, l'aborto. per purificarsi deve trascorrere un intervallo più o meno lungo tra gli atti causanti l'impurità e l'ingresso nel santuario; si lava sia tutto il corpo sia solamente la parte macchiata immediatamente prima di entrare. Il portare una corona ha pure un valore catartico; perciò è spesso comandato come indossare certi vestiti. Infine in certi santuari bisogna entrare a piedi nudi e coi capelli sciolti o, se si trattava di uomini, a capo scoperto». Festugière, pp. 240-241. torna al testo

17. Bonsirven, p. 106. del resto tutta la casistica sulla Legge e sovrabbondante e petulante fino alla noia.. Cf. il trattato ottavo « Advodàh Zoràh» o « Dell' Idolatria» in Mishnaiot, trad. di Vittorio Castiglioni, ordine III-IV, pp. 246-276 e inoltre Bonsirven, Textes rabbiniques des deux premièrs sièscles chrétiens, B.I.B., Roma 1955, p. 603: «On peut user de la viande trouvée chez un goy, pas de celle d'un hérétique ou de celle qui sort d'un temple idôlatrique: car on dit que les hérétiques sacrifient aux idoles; leur pain est comme celui des samaritains, leur vin comme une libation, leurs fruits non décimés, leurs livres, livres de magie leurs fils bâtards» e a pag. 550: «Voici des choses appartenant à des idolâtres dont il est interdit de se servir en aucune façon: leur vin et leur vinaigre en face du coeur; R. Siméon b. Gamaliel les interdit quand le morçeau est rond, pas quand il est oblong; la chiar que le païen introduit chez lui est permis mais celle qu'il sort parce qu'elle est comme des sacrifices de morts, suivant R. Aqiba; on ne doit pas avoir de commerce avec ceux qui vont à l'infamie (rite idolâtrique), mais on le peut avec ceux qui en sortent ». torna al testo

18. Wolfang Müller. p. 277. torna al testo

19. Huby, p. 152. torna al testo

20. Daremberg - Saglio, IV 2^ parte, p. 941: «Parmi les profits ordinaires des prêtres, figurent en première ligne les portions des offrandres, notamment des victimes, qui leur étaient attribuées». torna al testo

21. Festugèere, in nota 29 a pag. 205. torna al testo

22. Ivi, p. 251. torna al testo

23. Dittemberger, III, p. 160, col. 1017 v. 15 «[pole]sei de kai ta sün[eitegmen[a] ex tou [m]erismos». Col. 1044 v. 45 «tas de kefalas kai tous podas autoi echonton, ta de koidia polounton en toi thiasoi kai tei deuterai». torna al testo

24. Dauviller, p. 673. torna al testo

25. Deluz, p. 119: «Ces Corinthiens son le premièrs "gnostiques". Ils ne se contantent pas de croire. Ils réfléchissent, raisonnent, spéculent. Ce sont de gens intelligents et éclairés qui on dépassé les stupides superstitions où se complaït le commun des mortals. Ils se sont affranchis des scrupules mesquins qui troublent la conscience des simples». torna al testo.

26. Huby, p. 156. torna al testo

27. Dauviller, p. 673. torna al testo

28. F. Büchsel in G.L.N.T., col. 134: « La carne dei sacrifici idolatrici era rigorosamente vietata ai giudei; non poteva essere mangiata e neppure essere oggetto di compravendita: il contatto con essa era fonte di impurità, allo stesso modo della coabitazione con un cadavere in ambiente chiuso. Costringere un giudeo a mangiare la carne riservata agli idoli significava costringerlo all'apostasia ». torna al testo

29. Huby, p. 185. torna al testo

30. F. Büchesel, col. 135. torna al testo

31. Dauviller, p. 674. torna al testo

32. Wikenhauser, p. 230. torna al testo

33. C.Fr.D. Moule, pp. 197-198. Il fenomeno sopra ricordato appare evidente anche nella tradizione manoscritta occidentale che è andata trasformando il decreto in consigli morali anziché legali (come hanno invece i manoscritti principali). torna al testo