DAL CRISTIANESIMO.....
      AL CATTOLICESIMO
di Fausto Salvoni

EXCURSUS 2
PRIMATO E COLLEGIALITA'


Indice pagina

1) Natura e origine del potere episcopale
2) Il Sinodo episcopale
a) tesi collegialista
b)Tesi papalista
c) Le conferenze episcopali
3) L'elezione del papa
4) Paolo VI e la collegialità
5) La collegialità biblica
6) La elezione papale


1) Natura e origine del potere episcopale

Nella chiesa cattolica sussistono tre opinioni circa l'origine del potere episcopale: due convergono sul fatto che la consacrazione conferisce al vescovo i tre classici poteri di santificazione (ordine), di insegnamento (magistero), e di governo (giurisdizione); discordano tuttavia nella conclusione, in quanto l'una dichiara che il papa può invalidarli mentre l'altra lo nega. Il Bertrams sostiene, a quel che mi pare, che tutti e tre i poteri episcopali possono essere resi invalidi dal papa, perché sino ai secoli 11° e 12° si pensò che le ordinazioni compiute da vescovi simoniaci non fossero valide.

All'opposto sta invece G. Philips, il quale inclina a pensare che la validità di tutti e tre i poteri episcopali sia intangibile anche da parte del papa; siccome essi sono direttamente conferiti dalla consacrazione, nessuno può renderli invalidi, così come non si possono invalidare le azioni sacramentali dei vescovi eretici o scismatici, compiute in forza della potestà di ordine.

Al contrario delle prime due sentenza i teologi e i canonisti cattolici nella loro maggioranza tengono una posizione intermedia tra le precedenti: con la consacrazione, secondo costoro, si otterrebbe solo il potere di ordine che la chiesa non può in alcun modo rendere invalido, mentre le due potestà di magistero e di giurisdizione, derivando dal sommo pontefice, possono essere da lui invalidate e revocate. E' la tesi sostenuta chiaramente da Pio XII nella sua enciclica Mystici Corporis , inviata ai cattolici di Cina nel giugno 1958 dove affermava che la potestà giurisdizionale dei vescovi deriva direttamente dal papa:

Ne consegue che vescovi non nominati né confermati dalla santa sede, e anzi scelti e consacrati contro le esplicite disposizioni di essa, non possono godere di alcun potere né di magistero né di giurisdizione; poiché la giurisdizione viene ai vescovi unicamente attraverso il Romano Pontefice... E gli atti della potestà di ordine, posti da tali ecclesiastici (non aventi il vincolo dell'unità) anche se validi – supposto che sia stata valida la consacrazione loro conferita – sono gravemente illeciti, cioè peccaminosi e sacrileghi.

Quindi le ordinazioni e i sacramenti effettuati da un vescovo staccato dal papa sono valide ma illecite e conseguentemente peccaminose, mentre gli atti di giurisdizione sono solo invalidi. La distinzione dei due poteri di ordine (sacramenti) e di giurisdizione (magistero e governo) deriva dal fatto che quest'ultima può essere conferita anche prima del potere di ordine: infatti il concilio di Lione (1274) permette a un cristiano anche prima d'essere consacrato vescovo di svolgere tutti gli atti di governo annessi a tale sua nuova dignità, ma non quelli collegati con l'ordine, il cui potere si trasmette solo con la consacrazione. La consacrazione episcopale, secondo Innocenzo III, nulla aggiunge al governo della chiesa. Come il battesimo ricollega i fratelli separati in modo imperfetto alla chiesa cattolica, così anche la consacrazione episcopale lega il vescovo al collegio episcopale conferendogli il diritto di appartenervi, benché tale appartenenza diventi completa solo con la giurisdizione papale.
Naturalmente i vescovi, pur ricevendo la giurisdizione dal papa, non vanno ritenuti suoi sudditi, in quanto l'autorità viene loro da Dio come « successori degli apostoli per istituzione divina ». Ancora più chiaramente ciò viene asserito dal Vaticano II:

Ai vescovi è pienamente affidato l'ufficio pastorale, ossia l'abituale e quotidiana cura del loro gregge, né devono essere considerati vicari dei romani pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti sovrintendenti dei popoli che governano.

Mi sembra doveroso aggiungere che tutte le precedenti discussioni sono superflue per chiunque voglia attenersi al Nuovo Testamento, perché secondo questo i vescovi dovrebbero essere scelti non dal papa bensì dalle singole comunità, che possono anche deporli qualora vengano meno al loro compito di servire la comunità locale. Sono i fedeli che devono giudicare chi tra i fratelli possieda tutte le condizioni elencate da Paolo nella sua prima lettera a Timoteo per chiunque aspiri all'episcopato (c. 3). L'attività di Timoteo e Tito non consistette nel conferire il potere ai vescovi, bensì nell'aiutare le comunità perché si scegliessero giudiziosamente i propri vescovi, che divenivano tali non per un'autorità ricevuta dalla chiesa ma per un carisma loro donato da Dio. Quando i cristiani di Corinto deposero i propri vescovi, non furono biasimati dalla chiesa di Roma per tale fatto, ma solo perché li avevano deposti senza ragione trattandosi di persone che avevano compiuto bene il proprio dovere. La distinzione poi tra potere di ordine e potere di giurisdizione è ingiustificata perché secondo la Bibbia i vescovi non detengono alcun potere sacerdotale superiore a quello dei semplici fedeli e non hanno nemmeno una vera giurisdizione sopra gli altri fratelli, ma solo una supremazia derivata dal fatto che essi si dedicano in modo del tutto particolare al servizio della comunità compiendo tuttavia delle azioni che in linea di massima sarebbero di competenza di tutti i fedeli.

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2) Il Sinodo episcopale

Nel 1967 alcuni vescovi furono chiamati a far parte dei vari dicasteri ecclesiastici della Curia romana affinché non vi mancasse il frutto della esperienza pastorale. Ma il papa Paolo VI ha pure voluto un sinodo episcopale nel quale i rappresentanti di tutti i vescovi gli potessero fornire il loro prezioso aiuto. Importante al riguardo fu quello dell'ottobre 1969 nel quale si studiò il tema della collegialità, vale a dire il rapporto che dovrebbe intercorrere tra il papa e i vescovi che sono i suoi più validi collaboratori. I cattolici, infatti, pur ammettendo da una parte il primato e l'autorità del papa sui vescovi, sostengono pure che i vescovi hanno una responsabilità che travalica la loro propria diocesi per estendersi a tutta la chiesa. Come ottenere che il primato del papa non torni a scapito dei vescovi e il potere episcopale non sminuisca il primato papale? Ecco il problema tuttora insoluto nella dottrina cattolica. Durante le riunioni sinodali due correnti si scontrarono tra loro, di cui una si potrebbe qualificare, grosso modo, come collegialista e l'altra come papalista.

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a) Tesi collegialista

Portavoce di questa corrente fu il cardinale Suenens che in un'intervista concessa alle Informations Catholiques Internationales tra l'altro già aveva così detto:

Occorre evitare qualunque presentazione della funzione del papa che lo isoli dal collegio dei vescovi di cui è capo. Quando si afferma che il papa ha diritto di agire e di parlare da solo, non si vuol dire che possa agire separatamente o isolatamente. Anche se il papa opera senza la collaborazione formale del corpo episcopale – come giuridicamente ne ha diritto – di fatto egli agisce pur sempre come suo capo. Il Cristo ha affidato la sua chiesa a Pietro e agli undici, diversamente ma indissolubilmente uniti da un duplice vincolo: quello che lega gli Undici a Pietro e quello che lega Pietro agli Undici e al popolo di Dio... Non si sottolineerà mai a sufficienza l'unità vitale del collegio apostolico. L'aiuto provvidenziale promesso a Pietro e ai suoi successori non prende la forma di un'ispirazione divina personale, ma quella di un'assistenza particolare nello svolgimento normale del ruolo della collegialità...Credo che sia di grande importanza psicologica, per assicurare l'accoglimento e l'adesione interiore del popolo di Dio, che le encicliche e i documenti maggiori emanati dalla Santa Sede appaiano agli occhi di tutti come il frutto di una vasta collaborazione tra Roma e le chiese particolari... Non che il Papa sia solo il portavoce della Chiesa, né che per convalidare i propri atti abbia bisogno del consenso giuridico di quelli. No, ma il Papa non è mai estrinseco al popolo di Dio; la testa non è mai staccata dal corpo.

Le idee del primate belga furono fatte proprie, anzi sottolineate ancor più, dal teologo svizzero Hans Küng, che proponendo una visione, secondo lui, più evangelica del papato, così scrisse:

Un papa del genere sarebbe penetrato da una concezione autenticamente evangelica della Chiesa e non mosso da un punto di vista giuridico, formalistico, statico e burocratico. Vedrebbe il mistero della Chiesa a partire dal Vangelo, alla luce del Nuovo testamento: non come unità amministrativa centralizzata in cui i vescovi sono soltanto i delegati e gli organi esecutivi del papa, ma come una chiesa che si realizza autenticamente nelle chiese locali... che dovunque, in quanto unica chiesa di Dio, costituiscono una sola comunione e che, in questo modo, sono legate alla chiesa di Roma come al centro della loro unità. Tale papa non vedrebbe nella decentralizzazione dei poteri il pericoloso preludio di un possibile scisma...

Si tratterebbe, cioè, di un papa che non è

al di sopra o al di fuori della Chiesa, ma nella chiesa. Niente isolamento né trionfalismo... ma unità del papa con la Chiesa, unità cercata e realizzata in modo nuovo per lui. Per tutti i documenti importanti e le decisioni gravi, si assicurerebbe la collaborazione dell'episcopato, dei migliori teologi e dei laici, e non li sconfesserebbe mai in seguito. Se egli può, e anche deve, agire 'da solo', non deve mai farlo 'a parte', 'separato' dalla Chiesa e dal suo collegio episcopale, ma in comunione di spirito e in indefettibile solidarietà con la chiesa universale. Concepirebbe l'assistenza promessa a Pietro non come una ispirazione personale, ma come un aiuto particolare che viene concesso nell'ambito della deliberazione e della cooperazione con la chiesa, alla totalità della quale è stato promesso lo Spirito.

Il teologo René Laurentin, assai moderato, vorrebbe che anche in occidente la Chiesa fosse vista un po' più nella prospettiva della chiese ortodosse, dove:

L'unità base è la chiesa locale, che realizza pienamente l'essenza della chiesa di Dio. La collegialità è il dialogo delle chiese che realizzano diversamente ma totalmente, in ogni luogo, la pienezza della Chiesa: una sola fede, un solo pane, un solo corpo, un solo spirito. Là è il fondamento dell'Unità. A questa comunione, che è dono di Dio, presiede sulla terra il successore di Pietro.

Nel vangelo Gesù, pur parlando particolarmente a Pietro « costituì i Dodici perché stessero con lui », lì istruì, li mandò assieme a predicare il Regno di Dio (cf. Mt 10, 1-42) e assegnò loro la funzione di giudici alla fine dei tempi (Mt 19, 28). Il vangelo conosce quindi una direzione collegiale della chiesa. I dodici vivono assieme nella capitale della Palestina, decidono assieme nell'assemblea di Gerusalemme circa il problema della circoncisione (At 15, 6-29); però quando sono separati possono sbagliare, come nel caso di Pietro, che ad Antiochia fu duramente rimproverato a Paolo (Ga 2, 11).

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b) Tesi papalista

Difesa da cardinali integralisti, come Charles Journet e Danielou, questa teoria propugna la superiorità del papa su tutti i vescovi e la sua assoluta indipendenza di fronte a loro. Gli Apostoli in quanto ai carismi puramente apostolici – come ispirazione e rivelazione – sono uguali fra loro, ma come «vescovi» non lo sono; Pietro è superiore agli altri apostoli in quanto ne è il capo. Perciò i singoli apostoli trasmettono ai loro successori – secondo Journet – una carisma diverso; minore nei successori dei vari apostoli, ma ben più grande nei successori di Pietro, resi vicari di Cristo e capi della chiesa. Quindi il papa, senza essere condizionato dagli altri vescovi, agisce indipendentemente da loro. Egli non è solo arbitro tra i vescovi, ma « conserva integralmente nel collegio la carica di vicario di cristo e di pastore della chiesa universale. Per darne un'immagine si pensi ad una luce che, senza nulla perdere della sua intensità, rende ancora più luminoso, attivo e vivificante tutto l'ambiente in cui si riflette ».
Anche il Danielou nota che è assurdo «chiamare repressione ogni esercizio di autorità » e osserva che nella chiesa « l'autorità è di istituzione divina », anche se viene accusata di « inquisizione ». Egli biasima ogni movimento che voglia « limitare il libero esercizio dell'autorità del sovrano pontefice ». E continua asserendo:

una grave confusione fa chi ritiene inammissibile che il Papa agisca da solo e chi afferma che il potere di Roma si può esercitare solo in dipendenza della collegialità dei vescovi. Il che è sbagliato dal punto di vista teologico, perché non è l'autorità personale del Pontefice che dipende dalla collegialità, ma, al contrario, è quella dei vescovi che dipende da essa.

Questa duplicità di corrente si scontrò pure nel sinodo straordinario dei vescovi del 1969, il quale stabilì di nulla decidere sul problema della collegialità, in quanto esso abbisognava di uno studio maggiormente approfondito da parte dei teologi esperti, e si limitò a questioni puramente pratiche.

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c) Le conferenze episcopali

Nei primi secoli della Chiesa sorsero concili provinciali per esaminare problemi locali, che si riunivano di tanto in tanto. Questo uso andò sempre più rarefacendosi sino al 18° secolo quando per lo sviluppo delle società civili e per determinati problemi nazionali, si sentì il bisogno di adeguare anche l'ordinamento ecclesiastico alle nuove esigenze. La prima nazione che ebbe i suoi statuti episcopali fu l'Irlanda (1882); seguì la Germania, che da un piccolo tentativo realizzatosi in Baviera ed elogiato dallo stesso Pio IX, andò sviluppando una sempre maggiore organizzazione. Altre nazioni (Belgio, Svizzera) seguirono gradatamente tale esempio; anche se il codice di diritto canonico non diede alcun impulso alle conferenze episcopali, Pio XI l'undici aprile 1926 ne regolò i rapporti con i nunzi e le definì un mezzo con cui « i sacri pastori di una data nazione esercitano congiuntamente il loro ministero ». Esse divennero definitivamente costituite con il decreto Christus Dominus del Concilio Vaticano II:

Si ritiene sommamente utile che in tutto il mondo i vescovi della stessa nazione o regione si adunino periodicamente tra di loro, affinché da uno scambio di esperienze e di pareri sgorghi una santa collaborazione per il bene comune.

Ad esse seguì il motu proprio Ecclesiae sanctae che chiarì meglio la natura e la funzione delle conferenze episcopali, le quali costituiscono « un decentramento giuridico» e favoriscono un certo «pluralismo di espressioni ecclesiali confacenti alla tradizione e all'indole della chiesa locale ».
Nel sinodo del '69 i vescovi si accontentarono di chiedere:

Più frequenti contatti personali con il Papa in occasione del sinodo o di eventuali viaggi a Roma.
Maggiore consultazione dei vescovi da parte del Papa nelle questioni più importanti per l'unità della fede e la disciplina della Chiesa universale. Il Papa avrà così: « Il conforto e il sostegno dell'episcopato... E' vero che il Papa può, con l'assistenza che gode da parte dello Spirito Santo... decidere da sé su qualsiasi questione e non è giuridicamente obbligato a interpellare i vescovi. Bisogna però vedere, se pastoralmente, nella situazione attuale, non sia più conveniente la ricerca di collaborazione da parte di tutti i vescovi ».
Cooperazione con i dicasteri romani, tramite una maggiore immissione di vescovi, che non siano soltanto giuristi, ma persone evangelicamente e pastoralmente più preparate.
Più celere scambio di notizie in modo che i vescovi non abbiano a conoscere spesso dai giornali le decisioni del papa.
Funzionamento regolare del sinodo ogni due anni senza lasciarlo all'arbitrio papale, con diritto di fissare i temi da svolgere.

Il papa ha accolto due desideri dei vescovi:
Il sinodo da organismo saltuario riceve la sua stabilità mediante una convocazione biennale.
Perché la sua attività sia più efficace ed effettiva, esso avrà una sua propria segreteria che funzionerà regolarmente e proporrà i temi che dovranno essere svolti nelle riunioni periodiche.
Le altre richieste dei vescovi che auspicavano un aumento del proprio potere con un decentramento maggiore, saranno studiate e meditate dal papa

nell'intimità della nostra coscienza – disse  lo stesso – e nel senso della nostra responsabilità di pastore supremo della Santa Chiesa di Dio, per esprimere la nostra sentenza al riguardo... Senza peraltro rinunciare mai, com'è ovvio, a nostra volta, a quei compiti e a quelle responsabilità specificate che il carisma del Primato, conferito da Cristo stesso a Pietro, di cui siamo umilissimi ma autentici successori, e il dovere più che il diritto del suo fedele esercizio, ci impongono. Il Papa deve essere un cuore per la Chiesa, allo scopo di far circolare la carità, che dal cuore parte e dal cuore viene come un carrefour della carità, che tutti riceve e tutti ama, perché come scrive S. Ambrogio: Cristo sul punto di salire al cielo, lasciò a noi Pietro, come il vicario del suo amore.

In complesso è prevalsa nel Sinodo episcopale la linea moderata tra i due estremi dei cardinali Suenens e Danielou. Si è devoluta ai teologi la discussione dell'equilibrio da stabilirsi tra il primato romano e la collegialità, pur ottenendo un maggior rilievo per il sinodo. Se domani esso potesse avere un voto deliberativo e non solo consultivo come oggi ha, tale potere non proverrebbe da un suo diritto bensì dal puro riconoscimento papale. Quello che si è ottenuto è l'indipendenza del sinodo dalla curia romana e la possibilità dei vescovi di poter stabilire per mezzo suo un contatto diretto con il papa senza dover passare come prima attraverso il diaframma curiale; si è in un certo senso stabilita una linea diretta tra le conferenze episcopali e la segreteria vaticana. Il sinodo servirà quindi ad attuare in modo più organico la collegialità di governo della chiesa di cui le generazioni cattoliche odierne sentono un bisogno sempre più impellente.

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3) L'elezione del papa

Alcuni prelati cattolici (Suenens, Baldassarri) troverebbero più conveniente alla situazione attuale che il papa venisse eletto non dai cardinali bensì dai vescovi, in armonia con la maggiore importanza da costoro acquisita, quale conseguenza della direzione collegiale ecclesiastica. In tale modo alla scelta papale collaborerebbe di fatto tutta la chiesa universale.
Le idee più progressive si sono fatte sentire al congresso di Bruxelles organizzato dal 12 al 17 settembre 1970 a cura della rivista Concilium in occasione del suo primo quinquennio. I problemi tuttora aperti sono stati espressi assai bene dal Card. Suenens nel suo discorso d'apertura:

Al capitolo II – egli disse – La Lumen Gentium pone in rilievo l'immagine di una chiesa dinamica, storica, concreta, escatologica, mentre al contrario il capitolo III evidenzia « l'immagine di una chiesa più statica, più giuridica, più piramidale che comunitaria: è un'ecclesiologia prevalentemente gerarchica e istituzionale...». « Noi soffriamo per il fatto che nel capitolo III i vescovi non appaiono sufficientemente in comunione con la chiesa locale... ». «La discussione – e Dio sa quanto fu calda! – non fu centrata innanzitutto sulla collegialità delle chiese, ma sulla collegialità dei vescovi in quanto tali, senza la loro connessione vitale e permanente con il loro presbiterio o con il loro popolo ». « Le relazioni tra il Papa, capo visibile della chiesa, e i vescovi non possono essere comprese appieno senza una precisazione preliminare del vincolo tra la chiesa universale e le chiese particolari. Parimenti una tale precisazione è ugualmente indispensabile se si vogliono precisare in maniera valida la natura e i limiti dell'unità necessaria alla chiesa nel rispetto delle diversità legittime ».

Bisogna che nella elezione del papa appaia quel « rapporto ecclesiale che, il più realisticamente possibile, esprimi e realizzi la comunione universale della chiesa. In una parola se c'è il caso in cui il collegio apostolico dev'essere chiamato in causa nella sua totalità, questo è proprio il caso dell'elezione papale ». La curia romana, pura esecutrice del potere papale, sede vacante , dovrebbe risultare – dicono costoro – automaticamente dimissionaria. Il corpo elettorale del papa è infatti nato per sviluppo storico del sistema della rappresentanza, dicono i sostenitori dell'auspicato rinnovamento. Dai cardinales romanae ecclesiae dell'epoca primitiva (donde il nome di cardinali e gli attuali titoli) si giunse ai gruppi per nationes dell'epoca moderna e ai principali metropoliti d'ogni continente nell'epoca contemporanea. La teoria della collegialità episcopale, secondo cui il vescovo è corresponsabile per la chiesa universale, dovrebbe far scattare immediatamente « il potere dell'episcopato universale sede romana vacante ».

Da tempo (almeno dal 1968) Paolo VI lavora al progetto di riforma del conclave, anche se per vati motivi la costituzione apostolica Praedecessoribus nostris («Ai nostri predecessori»: sono le identiche parole della costituzione emanata da Pio XII nel 1945) non è ancora stata promulgata. Essa inizia con un excursus storico che illustra sinteticamente l'istituto del conclave dai primi tempi quando clero e popolo di Roma si eleggevano il loro proprio vescovo, fino alla monopolizzazione di tale atto dal collegio cardinalizio. La seconda parte del documento – consegnato ad un ristretto numero di esperti – suggerisce che una rappresentanza di vescovi e di sacerdoti siano chiamati ad eleggere il papa. Nella terza parte, perché sia manifestata anche la voce del «popolo di Dio», si evidenzia l'utilità che vi partecipi anche un certo numero di laici nella misura non superiore al cinque per cento. Mai i problemi tuttora aperti fecero ritardare la promulgazione del documento. Infatti quali vescovi e preti devono partecipare? In quale misura? I laici devono essere maschi o anche femmine? Possono essere eletti anche loro oppure no? Sono tutti problemi che devono prima venire chiariti.

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4) Paolo VI e la collegialità

Paolo VI ammette che la collegialità è una saggia dottrina che contempera in parte la superiorità del vescovo romano e la sua infallibilità. Essa infatti fa guardare al papato con maggiore serenità che non in passato – afferma Paolo VI – in virtù del contemperamento insito nella collegialità sostenuta dal Vaticano II:

Ogni turbamento, che la definizione dogmatica del primato del romano pontefice e dell'infallibilità del suo solenne e qualificato insegnamento produsse allora (avversione, dubbio, timore, entusiasmo o altro), si è placato e si è invece tradotto nell'ammirazione di quelle dottrine cardinate nel contesto più organico e completo dell'ecclesiologia del Vaticano Secondo. La dottrina del primato resta, ma ad essa si aggiungono quella della collegialità episcopale. Due dottrine – ha detto il papa – che «si integrano» e si sostengono in una integrità dottrinale della quale toccherà a questa generazione e alle future fare la sintesi, scoprire l'armonia e godere i vantaggi.

Tuttavia, rivolgendosi all'assemblea sinodale del 1969, Paolo VI sottolineò in modo assai forte la struttura piramidale della gerarchia ecclesiastica:

Sia chiaro che il governo della Chiesa non deve assumere gli aspetti dei regimi temporali, oggi guidati da istituzioni democratiche, talvolta eccessive, ovvero da forme totalitarie contrarie alla dignità dell'uomo che vi è soggetto: il governo della chiesa ha una sua forma originale che mira a riflettere nelle sue espressioni la sapienza e la volontà del suo divino fondatore. Ed è a questo riguardo che noi dobbiamo ricordare la somma nostra responsabilità, che Cristo ci ha voluto affidare consegnando a Pietro le chiavi del Regno e facendo di lui la base dell'edificio ecclesiastico, a lui commettendo un delicatissimo carisma quello di confermare i Fratelli (Lc 22, 32)... Responsabilità che la tradizione e i sacri concili imputano al nostro specifico ministero di Vicario di Cristo, di capo del collegio apostolico, di Pastore universale e di Servi dei Servi di Dio, e che non potrà essere condizionata dalla autorità pur somma del collegio episcopale... Che tale non sarebbe se ad essa mancasse il nostro suffragio.

Appellandosi poi al vangelo il papa cercò di difendere il principio gerarchico dicendo:

Il vangelo non solo non abolisce l'autorità, ma la istituisce, la stabilisce. La pone al servizio del bene altrui, ma non perché e in quanto sia derivata dalla comunità quasi come sua serva, ma perché derivata dall'alto per governare e giudicare, originata da un positivo intervento della volontà del Signore. Infatti, Gesù ha voluto che il suo insegnamento non fosse soggetto alla libera interpretazione del singolo, ma affidato ad un potere qualificato; ha voluto che la sua comunità fosse strutturata e compaginata in unità, costituita da organi gerarchici; che fosse organismo sociale, spirituale e visibile, una sola complessa realtà risultante da un duplice elemento, umano e divino.

Come si vede dalle citazioni precedenti e da altre che si potrebbero addurre, Paolo VI, pur accettando il principio della collegialità, rimane fermo nella sua Nota praevia annessa alla costituzione della chiesa e tende a porre in risalto l'indipendenza del vertice papale dai vescovi e dalla chiesa, difendendo il diritto di poter agire anche da solo indipendentemente da chiunque altro. E' quanto del resto si è verificato nelle ultime encicliche riguardanti il celibato ecclesiastico ( Sacerdotalis coelibatus ) e il controllo delle nascita (Humanae vitae ), come gli venne obiettato da molti e specialmente dal cardinale Suenens.

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5) La collegialità biblica

Oggi la collegialità si intende a livello della chiesa universale, alla quale è preposto tutto l'episcopato in unione con il papa: non i vescovi da soli, non il papa da solo, ma tutti assieme dovrebbero decidere il comportamento della chiesa universale. La collegialità, anziché essere una mitigazione dell'autorità papale, consiste nell'esaltazione dei vescovi, che in qualche modo vengono a partecipare nel loro insieme al potere del papa. Ma la collegialità biblica è ben diversa: essa significa che ogni gruppo locale di credenti dev'essere diretto non da un vescovo solo, bensì da un gruppo di vescovi che congiuntamente dirigono la comunità alla quale sono preposti.

Tuttavia il Ballarini crede di scoprire « i precedenti della futura prassi (collegiale) della chiesa » in alcuni episodi del libro degli Atti. Il primo atto collegiale della comunità apostolica fu l'elezione di Mattia ancor prima della Pentecoste (At 1, 15-26). Pietro suggerisce l'elezione perché con Mattia gli undici tornino a divenire i Dodici, dei quali egli sarà il portavoce (2, 12 ss.14-36; 4, 8-12.19 s; 15, 7-11). Nella elezione dei diaconi ebbe maggior rilievo la collegialità dei Dodici, senza che Pietro prenda personalmente la parola. Sono infatti i Dodici a convocare la comunità per affidarle la designazione dei candidati.

In Atti (15, 6-29) il Ballarini distingue due incontri o due assemblee: la prima con i Giudeo-Cristiani di Gerusalemme ai quali Paolo e Barnaba comunicano quanto Dio stava operando nel mondo pagano provocando una discussione pubblica assai animata. La seconda consistette nell'incontro separato tra Paolo e Barnaba da una parte e i notabili della comunità (Ga 2, 2-20) nella quale la questione fu risolta in forma ufficiale dalla riunione degli anziani. In tale occasione – al dire del Ballarini – vi sarebbe stata una discussione collegiale sotto la guida autorevole di Pietro.

Vorrei qui sottolineare come, in questioni riguardanti tutta la cristianità, non solo gli anziani, non solo gli anziani, ma la comunità stessa (chiesa) vi prenda parte (6, 1-6; 1, 15-22); ora questo è ben diverso dalla collegialità attuale. Quanto poi alla direzione petrina nella riunione di Gerusalemme, si tratta di un fatto ben discutibile; è chiaro infatti dal testo biblico – come ho già dimostrato nel mio libro Da Pietro al Papato – che la direzione era nelle mani di Giacomo anziché di Pietro.

Dal Nuovo testamento si possono quindi dedurre le norme seguenti:

a) Direzione collegiale

Le singole chiese apostoliche e non l'insieme delle chiese avevano una direzione collegiale, in quanto ciascuna chiesa non aveva un solo vescovo, bensì un gruppo di vescovi che assieme (collegialmente) prendevano le decisioni e tenevano la presidenza (1 Ti 5, 17). Questi però non avevano, come mostriamo altrove, un'autorità gerarchica o giuridica quale si vuole concepire oggi, ma collaboravano assieme per servire i «santi», vale a dire i cristiani, per aiutarli ad essere fedeli alla loro vocazione con l'esortazione, l'insegnamento e il rimprovero.

b) Chiese indipendenti

Ogni gruppo o collegio di vescovi-presbiteri doveva curare solo il «gregge» affidatogli in sorte, senza interessarsi direttamente di quello affidato ad altri vescovi (At 20, 28; 1 Pt 5, 2 s). Giovanni, scrivendo alle sette chiese d'Asia Minore, le presenta indipendenti le une dalle altre, come sette fiaccole, non ricollegate tra loro da altro legame che non sia il gravitare attorno al medesimo Gesù (Ap 1, 9-20). Non appare nel Nuovo Testamento il concetto che i vescovi debbano «collegialmente» dirigere la chiesa universale; come non appare nemmeno l'esistenza di un capo per tutta la chiesa al di fuori di Cristo.

c) Unità nell'indipendenza

Il fatto che i vescovi limitavano la propria attività in seno alla loro chiesa locale o assemblea comunitaria, non significava disinteresse per le altre chiese o separazione da loro. L'unione delle chiese si attuava allora mediante l'accettazione della medesima fede, tramite l'adesione agli stessi insegnamenti apostolici, oggi conservati nel Nuovo Testamento e per mezzo del mutuo amore (Ef 4, 4).
Ecco quindi le chiese dei gentili interessarsi dei santi «poveri» di Gerusalemme tramite una «colletta» che non era imposta ma lasciata alla libera iniziativa delle chiese, le quali gareggiavano tra loro in questa opera «sacerdotale» (cf. 2 Co 8, 1-5). Ecco la chiesa di Filippi adoperarsi per i bisogni di Paolo al quale anche altre chiese avrebbero voluto provvedere., qualora l'apostolo l'avesse permesso (Fl 4, 15 s). Ecco lo scambio di scritti apostolici che favorivano legami e vincoli tra chiesa e chiesa (Cl 4, 16).

d) Inesistenza di un'autorità centralizzata

Non vi era al tempo apostolico un superorganismo che decidesse per tutte le chiese e che obbligasse ad osservare le decisioni, come si avvera nel sistema gerarchico cattolico. Tutto era compiuto all'insegna della libertà e dell'indipendenza. Si vedano le opposizioni di vescovi ad altri vescovi, le decisioni indipendenti e contrastanti con quelle di Roma da parte delle chiese africane (Cipriano), delle chiese gallicane (Arles) e iberiche (Toledo) e, incerti momenti, anche della chiesa milanese (Ambrogio). Fu solo il giuridismo posteriore che, per imporre una maggiore collaborazione ecclesiastica, creò i sinodi, i concili parziali ed ecumenici, alle cui decisioni gli imperatori diedero valore di legge, che veniva imposta da parte di funzionari statali. Andare contro le decisioni dei concili divenne così una violazione delle leggi civili. In tal modo gradatamente  si impose una uniformità, che è in contrasto con la varietà delle chiese iniziali e con la libertà loro concessa dall'apostolo Paolo (Ga 5, 1). Si osservi come lo stesso Paolo, in deroga alle decisioni dell'assemblea di Gerusalemme, quando non sussistevano i pericoli di scandalo, ammetta la possibilità di mangiare la carne afferta agli idoli, poiché le norme quivi sancite non erano per lui norme assolute (1 Co 8, 1-6; At 15, 20).
Conseguentemente lo studio della collegialità primitiva dovrebbe condurre alla pluralità di conduzione delle singole chiese locali, vale a dire alla pluralità dei vescovi in ognuna di esse, alla eliminazione di sovrastrutture gerarchiche con valore vincolante, alla collaborazione guidata dall'interiore tensione verso gli stessi ideali di fede e di carità, liberamente accolti. I vescovi all'origine erano intimamente ricollegati alla chiesa locale, di cui manifestavano l'unità. La teologia medievale conservava un ricordo di questo originale vincolo quando faceva del rapporto vescovo-diocesi qualcosa di simile al matrimonio indissolubile. Perfino la sopravvissuta consuetudine dei vescovi titolari, che pur non avendo una comunità, conservano comunque il titolo di una diocesi, è legata allo stesso principio.
Il recente rinnovamento della teologia episcopale tende invece a presentare il vescovo in senso universalistico: con l'imposizione delle mani entra a far parte del collegio apostolico, condividendo la responsabilità su tutta la chiesa, con e sotto il papa, il quale a sua volta è considerato più come capo del collegio, che come vescovo della chiesa di Roma. La chiesa universale è data dalla somma di tutte le chiese locali, che ne costituiscono solo una parte. Invece secondo la concezione cristiana primitiva, la chiesa «cattolica» non è data dalla somma delle chiese particolari, poiché ogni comunità locale è già tutta la «chiesa di Cristo». Come dice argutamente un teologo ortodosso:

Non si può applicare alla chiesa l'aritmetica di Euclide, poiché in ecclesiologia operiamo con quantità che non si possono addizionare. Nella nostra coscienza empirica siamo abituati a pensare che: uno più uno fa due; ma in materia di ecclesiologia: uno più uno fa uno: ogni chiesa lo9cale manifesta tutta la pienezza di Dio (N. Afanasieff, La Chiesa che presiede nell'amore, in «Il primato di Pietro», Bologna 1965, pp. 510 s).

Va bene discutere, fissare un'azione comune in seno ad ambienti culturali identici o simili, ma bisogna lasciare ad ogni chiesa locale la responsabilità della sua adesione cosciente e volontaria. L'unione fa la forza, ma soltanto se è un'unione libera e non forzata. Anche nei regimi totalitari vi è armonia, ma solo fino a quando essi si sostengono con la forza costrittiva; qualora siano allentate le redini tosto tale accordo si spezza e sorgono movimenti reazionari e dissolvitori. La Chiesa cattolica del dopo concilio, che ha cercato di rendere meno assoluto il potere centrale, ne è una prova evidente.

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6) La elezione papale

La elezione papale da parte dell'episcopato in modo da stabilirsi (Suenens, Baldassari) tende – a quel che mi pare – proprio a conferire al papa autorità maggiore di quella che al contrario i suoi sostenitori vorrebbero eliminare. In ciò mi associo, sia pure parzialmente, al pensiero espresso da A. Barolini sul Corriere della Sera: la elezione del papa da parte dei vescovi lo renderebbe automaticamente il «capo» dei vescovi. Occorre invece ristabilire anche a Roma l'originaria presenza di più vescovi, come esistette fin verso il 150 d.C., scelti dalla stessa chiesa locale, e ridare loro non l'autorità di capi della chiesa universale bensì la missione di sorveglianti che pascano la chiesa del luogo. Così anche i vescovi di Roma si reinserirebbero nella linea biblica, e diverrebbero «fratelli di altri fratelli» ai quali è affidata la sorveglianza del gregge a loro affidato. La collaborazione delle singole comunità, vere cellule viventi di cristianesimo, si attuerebbe all'insegna dell'amore fraterno e alla luce della identica parola di Dio. E' forse un chiedere troppo al genio organizzativo, ma sarebbe un affidarsi di più alla potenza divina, anziché burocratica dell'uomo. Se questo è semplicismo, è tuttavia un semplicismo divino; e va ricordato che la sapienza divina, anche se appare stoltezza alla mente umana (1 Co 1, 25), è pur sempre sapienza di Dio.

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