DAL CRISTIANESIMO.....
      AL CATTOLICESIMO
di Fausto Salvoni

CAPITOLO SECONDO
GERARCHIZZAZIONE PIRAMIDALE DELLA CHIESA


Indice pagina

1) Il presbiterio
2) Il vescovo capo del presbiterio
3) Il papato
4) La riforma moderna
5) I collaboratori papali
a) La curia
b) I cardinali
c) I nunzi
d) La legge della chiesa
e) Elezione dei vescovi
Conclusione


L'ambiente altamente gerarchizzato in cui si sviluppò la chiesa, costituì una perenne tentazione, alla quale essa finì per soccombere, dapprima in modo lento e quasi impercettibile, poi come sommersa da una valanga irrefrenabile che tutto travolge.

1) Il presbiterio

Durante il periodo apostolico – come si vedrà meglio nel capitolo apposito i dirigenti delle singole chiese, sempre più di uno, per ogni comunità locale, erano chiamati «anziani» (presbyteroi, presbiteri) o «sorveglianti» (episkopoi), termini allora sinonimi che si riferivano alle medesime persone insignite di un compito particolare di guida, alle quali si affiancavano i « diaconi». I primi costituirono un insieme detto « Presbiterio» (1 Ti 4, 14) che collegialmente (collegium) guidava le singole comunità cristiane ben presto chiamate con termini equivalenti: «diocesi» o « parrocchie» (paroikìai), vale a dire comunità di forestieri secondo l'etimologia di quest'ultimo vocabolo.

Abbiamo in seguito notizia di presbiteri nei villaggi d'Egitto e anche di vescovi di campagna, sui quali però l'autorità del vescovo cittadino rimaneva indiscussa.

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2) Il vescovo capo del presbiterio

All'inizio del 2° secolo Ignazio di Antiochia presentò in prospettiva teologica la prima strutturazione gerarchica, ponendo un unico vescovo al di sopra dei presbiteri; ogni chiesa deve raccogliersi attorno a un unico vescovo che rappresenta Cristo e simboleggia l'unità dei fedeli:

Là dove appare il vescovo, là sia la comunità, come là dove è il Cristo, vi è pure la Chiesa cattolica... E' bene riconoscere Dio e il vescovo. Colui che onora il vescovo è onorato da Dio; colui che fa qualcosa all'insaputa del vescovo serve il diavolo.

Tuttavia il vescovo è ancora la cetra che deve agire in stretta collaborazione con il presbiterio della quale questo costituisce le corde; né le corde né la cetra bastano da sole a creare una melodia. Infatti « il vescovo è l'immagine del Padre e i presbiteri sono il collegio degli apostoli. Senza di essi la chiesa non esiste» (Trall. 3, 1).

Abbiate cura di fare tutto nella concordia di Dio, sotto la presidenza del vescovo che tiene il posto di Dio, e dei suoi presbiteri, che stanno al posto del senato apostolico (Magn 6, 1). Seguite tutti il vescovo nella stessa maniera con cui Gesù Cristo seguì il Padre e seguite pure il presbiterio come gli apostoli; quanto ai diaconi rispettateli come la legge di Dio (Smirn 8, 1). Tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo (Trall 3, 1).

Secondo il più importante teologo del 2° secolo, Ireneo di Lione, il vescovo incarna la Tradizione ecclesiale ricevuta dagli apostoli, della quale egli è erede e garante. Nel 3° secolo il vescovo, sempre più rafforzato nel proprio potere, nomina i presbiteri e i diaconi, impone loro le mani senza intervento dei presbiteri, che passano sempre più in sottordine, riducendosi – almeno nelle chiese meno grandi a una funzione quasi esclusivamente onorifica. I fedeli sono perciò obbligati a devolvere le loro offerte al vescovo, mentre sono liberi di farlo a riguardo dei presbiteri. Cipriano, il teologo dell'episcopato, dice che:

La maestà di Dio ordina (il vescovo) al servizio della chiesa... la potenza e la bontà di Dio lo proteggono nel suo ministero... perché il Signore che si degna scegliersi i pontefici, li ricopre della sua protezione e li protegge con il suo soccorso (Ep 55, 9, 2; cf. 48, 4, 2).

Fu solo nel 4° e nel 5° secolo con la creazione delle parrocchie rurali affidate ai presbiteri, che costoro riacquistarono maggior importanza, sia pure sempre subordinata a quella del vescovo.

Girolamo per sostenere l'originaria parità del vescovo e del presbitero dovette faticare molto e assumere dei toni polemici contro coloro che credevano il suo pensiero una novità. Ecco ciò che egli scrive nel suo commento a Tt 1, 5:

Guardiamo diligentemente quello che l'apostolo dice: ti ho lasciato perché abbia a scegliere nella città dei presbiteri. Quale presbitero debba poi essere nominato, lo dice nella parte seguente, scrivendo: Se ve n'è uno che sia irreprensibile, marito di una sola moglie... eccetera. Poi aggiunge: bisogna infatti che il vescovo sia senza crimine, come economo di Dio. perciò è presbitero colui che è anche vescovo. prima che per istinto diabolico si creassero delle frazioni e si dicesse dal popolo: Io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa (1 Co 1, 12) le chiese erano governate dalla comune deliberazione dei presbiteri della chiesa. Dopo che ognuno credette suoi e non di Cristo coloro che egli aveva battezzato, si decise in tutta la Chiesa che uno dei presbiteri fosse eletto e sovrapposto agli altri, in modo che a lui fosse affidata la cura di tutta la chiesa e si avesse così a togliere il seme degli scismi. Chiunque pensasse che questo non è il pensiero della Scrittura, ma una mia opinione identificante il vescovo con il presbitero, i cui due nomi indicano rispettivamente l'ufficio o l'età, rilegga le parole dell'apostolo ai Filippesi: Paolo e Timoteo, servi di Gesù Cristo, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi con i vescovi e i diaconi, a voi grazia e pace. Filippi è una città della macedonia, e perciò non vi sarebbero potuti essere in una città più vescovi, come ora si chiamano.
Ma siccome in quel tempo i vescovi si chiamavano pure presbiteri, Paolo usa indifferentemente per loro i nomi di vescovi e di presbiteri. Il che sembrerà forse ancora ambiguo ad alcuni se non verrà comprovato da un'altra testimonianza biblica. Negli Atti degli apostoli sta scritto che l'apostolo, giunto a Mileto, mandò qualcuno ad Efeso per chiamare i presbiteri della Chiesa, ai quali poi tra le altre cose disse: Abbiate cura di voi e del gregge nel quale lo Spirito Santo vi ha posti quali vescovi per pascere la chiesa del Signore, che egli si è acquistata con il suo sangue (At 20, 28). Osservate attentamente come, dopo aver mandato a chiamare i presbiteri della sola città di Efeso, li abbia a chiamare poi vescovi. Chiunque accetta l'epistola inviata nel nome di Paolo agli Ebrei, vedrà come quivi la cura della chiesa sia parimenti divisa tra molti. Egli così dice infatti al popolo: Ubbidite ai vostri conduttori e siate loro sottoposti; essi infatti vigilano per le vostre anime, quasi ne dovessero rendere ragione e procurate che non lo facciano sospirando: questo infatti è utile a voi (Eb 13, 17). E Pietro, che ricevette tale nome per la fermezza della propria fede, nella sua lettera così scrive: Io scongiuro i presbiteri che sono tra voi, io che sono conpresbitero con loro, e testimone delle sofferenze di Cristo, e che sono socio della sua gloria quale si svelerà in futuro: pascete il gregge del Signore che è tra voi, non per necessità ma volontariamente (1 Pt 5, 1 s). Tutto ciò dimostra che presso gli antichi le stesse persone erano dette presbiteri e vescovi. Poi gradatamente per svellere ogni radice di contesa, la sollecitudine di tutta la chiesa fu affidata a uno solo. Sappiano pertanto che i presbiteri che è solo per consuetudine della chiesa che devono stare sottoposti a colui che è loro preposto; e i vescovi che è per consuetudine più che per disposizione del Signore che essi sono maggiori dei presbiteri e che quindi in comunione con loro devono reggere la chiesa.

Con la progressiva elevazione gerarchica del vescovo, molti compiti prima attuati da altri passarono in mano del vescovo: i laici e gli stessi presbiteri non ebbero più il diritto di predicare, poiché la predicazione e l'insegnamento a Roma, ad Alessandria e a Cartagine si riservò assolutamente al vescovo, il quale talvolta poteva delegare, come suoi sostituti, i presbiteri o altri membri del clero. Il vescovo doveva vigilare affinché i presbiteri incaricati non avessero a esprimere errori dottrinali. Siccome i beni ecclesiastici spettano di diritto alla chiesa locale, ne derivò che l'amministrazione di tale patrimonio passò in mano al vescovo, il quale ne usava con la massima libertà, in quanto ne era responsabile solo di fronte a Dio e non più ai membri della chiesa come prima. Naturalmente il vescovo poteva delegare dei chierici a tale gestione, ma il prete amministratore gli doveva anno per anno rendere conto di tutto.

Anche l'ufficio del diaconato andò gradatamente assorbendosi nell'episcopato e nel presbiterato: precedentemente fino alla metà del 3° secolo la funzione essenziale del diacono consisteva nell'attività caritativa e sociale. Come il vescovo testimoniava l'unità della chiesa, il diacono, che attualizzava il « servizio» di Cristo, curava le agapi o i pasti caritativi e l'aiuto dei poveri. Al vescovo spettava la predicazione, al secondo erano deferiti problemi sociali ed economici. Ma verso la fine del 3° secolo con l'esaltazione sempre più gerarchica del vescovo, al quale i presbiteri stavano ormai sottomessi, anche il diaconato si ridusse a pura supplenza del presbiterato, a una specie di grado provvisorio da percorrersi in attesa di divenire « preti». L'azione caritativa spetta a costoro, che dovevano amministrare la « decima», la quale, derivata dall'Antico Testamento, fu imposta anche nella chiesa.

Fu specialmente al 4° secolo con il concilio di Nicea, che mediante la gerarchizzazione delle diocesi ecclesiastiche, mutuata dalle province civili, i vescovi assunsero  una importanza più o meno grande secondo la grandezza della sede per la quale anzi fungevano da ufficiali dello stato.

Colui che più di tutti gli altri contribuì a stabilire le basi della gerarchia ecclesiastica fu il neoplatonico autore del De ecclesiastica Hierarchia (fino del V secolo). L'insieme degli scritti di questo anonimo, falsamente identificato fin dal 6° secolo con Dionigi l'aeropagita converti nel 1° secolo dall'apostolo Paolo, rappresenta uno dei più completi tentativi di teologia sistematica secondo schemi neoplatonici. Tali opere, credute autentiche e giudicate ortodosse da Massimo confessore, esercitarono un enorme influsso su tutta la teologia posteriore, attraverso la tradizione latina compiuta da Scoto Eriugena.

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3) Il papato

Tra i grandi patriarchi di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Roma, ammessi al concilio di Nicea, sopravvissero in seguito quello di Costantinopoli, che assorbì i primi tre, e quello di Roma; Roma andò poi gradatamente elevandosi al di sopra di tutte le altre chiese.

Già cinquant'anni fa il grande teologo Eric Peterson aveva rilevato la contaminazione ideologica nel cristianesimo dei primi secoli. In un articolo pubblicato in traduzione francese su « Dieu Vivant» (22, 1952) intitolato Le problème du nationalisme dans le christianisme des premiers siècles , egli faceva notare la visione cosmica del vescovo Eusebio, il famoso storico cortigiano dell'età costantiniana:

La fede in un Dio unico, in un monarca divino, si trasforma nella necessità interna di un impero unificato, retto da un monarca terrestre, reso immagine del monarca divino... Il monoteismo giudaico e non il Dio trinitario cristiano è preso come base teologica dell'impero romano, che viene per di più elevato alla dignità di regno escatologico divino (p. 94).

La forza determinante di tale concezione si fece sentire in modo particolare nelle legittimazioni del potere gerarchico della chiesa, come il primato di Pietro. Enorme a tale riguardo fu pure – come cercai di mostrare nel mio volume Da Pietro a Papato – l'influsso della Donazione di Costantino che riporta come storica la leggenda del noto imperatore il quale, dopo aver abdicato alla parte occidentale del suo impero, ne fece dono a papa Silvestro, che lo aveva battezzato e guarito dalla lebbra, permettendo a lui e ai suoi successori di decorarsi con le insegne imperiali: tiara, manto, tunica di porpora, sandali, e tenere un palazzo, una curia, un senato e dei legati. Gregorio VII affermò nei suoi famosi Dictatus Papae che « Solo il Papa può portare le insegne imperiali» (Dict 8). Il che è spiegato dai canonisti con il fatto che « solo il Papa può recare processionalmente il regno (tiara) e tutto il restante apparato imperiale » e Bruno da Segni riferisce tale privilegio alla Donazione di Costantino che permise di usare nelle processioni che gli permise di usare nelle processioni l'apparato « che prima si soleva fare per l'imperatore ». Pier Damiani (m. 1072), parlando dei cardinali, divenuti il senato della chiesa come lo era la curia per l'impero romano, commentava: « La chiesa romana che è sede degli apostoli, deve imitare l'antica curia dei Romani». Con l'uso di allegorie spirituali la parola di Dio si trasformò in un codice di diritto ecclesiastico. Il testo di Gr 1, 10: « Ecco, io ti costituisco oggi sopra nazioni e regni per sradicare e abbattere, per distruggere e demolire, per edificare e piantare», viene inteso come il supremo potere papale di creare e deporre dei re. Il passo paolino: « L'uomo spirituale giudica tutti, ma non può essere giudicato da alcuno » (1 Co 2, 15) e che si riferisce ad ogni cristiano, viene svisato e trasferito al solo clero e addotto per sostenere che nessuno può giudicare il papa.

Per questo Gregorio VII (m. 1085) nei già citati Dictatus Papae, pretese di avere il supremo potere spirituale su tutta la chiesa e sui vescovi, dei quali può disporre a piacimento. Innocenzo III (1198.1216) ottenne dai successori di Carlo Magno il titolo di Vicario di Dio, proclamandosi « inferiore a Dio, ma superiore all'uomo ».

Questa spaccatura della chiesa in sovrani e sudditi, ha portato a trasferire la sovranità di Cristo alla gerarchia, stabilizzatasi con atteggiamenti di marca imperiale tra la fine del 13° secolo e la meta del 14°, quando l'ecclesiologia dimenticò che le sue prime radici dovevano affondare nell'insegnamento biblico. Possiamo così leggere in Alvarez Pelayo, morto probabilmente nel 1353, che il «Papa non è soltanto un uomo, ma quasi Dio sulla terra» e che egli « tutto regge, dispone, ordina e giudica come gli piace» « anche togliendo ad uno il suo diritto, perché non vi è alcuno che gli possa chiedere perché faccia così». Siccome egli «attua questo come vicario di Dio, si può affermare che è lo stesso Dio a compierlo ».

Si giunge così a un livellamento uniformante, per cui la libertà gregoriana dal potere secolare, dalla simonia, dai concubinati fu conquistata al prezzo di una considerevole diminuzione della libertà nella chiesa, al prezzo di un allineamento delle chiese locali, che diventarono «come un'unica diocesi di Roma» (Miccoli, Chiesa Gregoriana, Firenze 1966, p. 15).

Leone IX, Nicolò II e Gregorio VII, per liberare la chiesa dall'ingerenza civile, estesero al massimo il potere papale. Nacque così la scienza canonica, ispirata dal papa e attuata da Pier Damiani, Ivo di Chartres e Rolando Bandinelli. Quest'ultimo giurista, asceso al trono papale, con il nome di Alessandro III, stabilì che da quel momento potesse venire eletto a papa solo un dottore « in utroque iure» (civile ed ecclesiastico).

L'ecclesiologia si trasformò così in un trattato di diritto ecclesiastico sui diritti, doveri e poteri della gerarchia. Da tale spirito furono dettati i « tituli» e la terminologia papale, che chiamarono il pontefice «Dominatio tua reverendissima», che denotano uno spirito servile e adulatorio e che documentano la pretesa assoluta autorità della gerarchia. A partire dalla seconda metà del 1400, proprio per reazione all'accentramento romano, si parlerà in Francia dei «diritti e libertà della chiesa gallicana» e Lutero scriverà un libro su Von der Freiheit eines christenmenschen (1520).

Il progressivo passaggio da chiesa-comunità a chiesa-gerarchia è nato da processi graduali, complessi, lentissimi, comprensibili dal punto di vista mondano e del quale non possiamo condannare le singole persone, ma che però allontanò sempre più la chiesa dallo spirito del Vangelo. Il concetto gerarchico pagano trionfò sul concetto di «servizio cristiano »; il «ministero» si trasformò in supremazia, la guida spirituale dei vescovi divenne dominio imperiale che si esercitò tanto nel mondo spirituale che civile. Questa struttura mondana impedì a lungo ogni accordo con il progresso del mondo. E.E.J. Hales, con felice intuizione storica, scrisse: « Dopo la crisi del 1860 il papa (e la curia) divenne un prigioniero del Vaticano in un senso più profondo di quello fisico; divenne prigioniero di una cultura ormai tramontata ». Quel prigioniero emanò il Sillabo degli errori nel 1864, nel quale si condannava tutto ciò che è moderno; più tardi respinse globalmente il modernismo e nel 1910 impose il giuramento antimodernistico. Anche le voci delle encicliche di Pio XI e Pio XII sono non di rado sfasate e contrarie alle novità. Perciò, mentre il papa si proclamava « Vicario di Cristo », la trasformazione protestante, iniziatasi già da Wicliff e da Hus (14° secolo), lo presentava al contrario come l'anticristo. Lutero scrisse infatti: « Il papa è davvero l'anticristo poiché ha collocato se stesso al posto di Cristo, ergendosi al di sopra e contro di lui ». Per Melantone «è chiaro che i papi con tutto il loro seguito cercano di mantenere e di attuare insegnamenti non divini e una devozione falsa. Infatti tutti i vizi che le profezie bibliche attribuiscono all'Anticristo si trovano nel regno del papa e nei suoi seguaci ». Esagerazione comprensibile nella situazione del tempo!

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4) La riforma moderna

Il sistema gerarchico autoritario continuò a svolgersi in modo sempre più coerente a se stesso, anche per la spinta dei cortigiani aulici. Sino a pochi anni or sono si potevano leggere a riguardo del papa frasi del genere, indice di una mentalità cortigianesca: « Riferiamo le parole come le abbiamo potuto raccogliere dalla augusta bocca » oppure « Il Santo Padre si è degnato accogliere la richiesta», come se il vescovo di Roma non fosse un uomo al pari di tutti gli altri.

Ma nel frattempo la società civile andava trasformandosi radicalmente, assumendo forme più democratiche, come notava Pio XII nel suo discorso del 24 dicembre 1944: « La tendenza democratica si diffonde tra i popoli e ottiene un largo suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società ».

Gli stati frattanto si erano incamminati verso una democrazia non più «governata » ma «governante», che crea i regimi politici «dialoganti » destinati a soppiantare quelli di tipo autoritario. Il pensiero moderno ebbe la sua ripercussione anche nel campo ecclesiastico, per cui si sentì il bisogno di un «aggiornamento », che spinse Giovanni XXIII a convocare il Concilio Vaticano II e a scrivere l'enciclica Mater et Magistra che con spirito rinnovato propugnava il servizio d'amore verso gli altri; in lui l'aspetto pastorale ebbe il sopravvento sul sistema giuridico e burocratico. Anche Paolo VI nel 1965 asserì che il massimo cambiamento conciliare stava nel « nostro modo di considerare la chiesa ».

In realtà Paolo VI, progressivo nel suo insegnamento sociale è rimasto conservativo, scolastico e integralista nella dottrina morale, teologica ed ecclesiologica. Nonostante il desiderio di democratizzare la chiesa, essa è pur sempre raffigurata come una gerarchia piramidale alla cui base stanno i laici e al vertice il papa. Anche se le parole mutano, la sostanza rimane identica. Ora non si scomunica più, come faceva il Concilio di Trento, chiunque affermi che «nella chiesa cattolica non esiste gerarchia istituita per disposizione divina e comprendente vescovi, sacerdoti e diaconi »; oggi si preferisce parlare di « dialogo », di «servizio », di « ministero» a favore degli altri, di « collegialità », di «uguaglianza sostanziale di tutti i credenti» anziché di gerarchia. Ma nonostante tutto la realtà «gerarchica » permane.

I laici, infatti, devono stare « sottoposti» ai vescovi i quali come rappresentanti di Cristo decidono da maestri nella chiesa. In tal modo i laici sono invitati a seguire «l'esempio di Cristo che si fece ubbidiente sino alla morte».

I preti (presbiteri, sacerdoti) rappresentano il vescovo nelle singole parrocchie e lo rendono presente dove egli non può recarsi di persona. I sacerdoti « esercitando con la loro parte di autorità l'ufficio di Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio, come una fraternità che ha un'anima sola e per mezzo di Cristo la conducono a Dio Padre » (Lumen Gentium 28). Tuttavia anche loro a motivo del « sacramento dell'ordine di cui godono i vescovi, venerino in essi l'autorità di Cristo, supremo pastore. Siano perciò uniti al proprio vescovo con carità e obbedienza» (Presbyterorum ordinis n. 7). Tuttavia, perché maggiore sia la collaborazione tra vescovi e presbiteri (preti) e perché l'autorità episcopale non divenga autoritarismo, il Vaticano II comanda che si crei «un consiglio o senato di sacerdoti, che rappresentino il presbiterio, il quale possa efficacemente aiutare il vescovo nel governo della diocesi con i suoi consigli » (Christus Dominus, n. 28). Salvo decisioni contrarie del vescovo, il suo voto dovrebbe essere puramente consultivo e non deliberativo. Il vescovo dovrà trattare i suoi presbiteri come figli ed essere « pronto ad ascoltare il parere anzi a consultarlo egli stesso e ad esaminare insieme con loro i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi» (ivi).

I vescovi reggono le chiese particolari «come vicari e ambasciatori di Cristo, con il consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà». Pur non dovendo agire da autocrati, hanno «il dovere di dare leggi ai propri sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato » (Cost. Chiesa n. 27).

«L'esercizio della potestà episcopale, però è sottoposto in ultima analisi al Romano Pontefice e può essere circoscritto entro certi limiti in vista del bene della chiesa e dei fedeli» (Istruzione per la evangelizzazione dei popoli, il 24 febb. 1969, n. 13; Cost. Chiesa (Lumen Gentium), n. 27; AAS 27 (1965), p. 32). Infatti al vertice supremo della gerarchia sta il papa, il cui primato fu stabilito dal Vaticano I con le seguenti parole:

Affinché l'episcopato fosse uno e non diviso, grazie all'unione stretta e reciproca dei pastori, l'intera moltitudine dei credenti fosse mantenuta nell'unità della fede e della comunione, Cristo Signore, mettendo Pietro al di sopra degli altri apostoli, ha stabilito il principio perpetuo, il fondamento visibile di questa doppia unità (Costituzione Pasto Aeternus del 18-7-1870).

In modo ancora più esplicito l'enciclica Mystici corporis di Pio XI disse: «E' necessario che vi sia un capo supremo, dal quale venga efficacemente diretta la cooperazione di tutti a favore di tutti per il conseguimento del fine proposto».
Il Vaticano II nulla detrae alle decisioni del I, perché nel decreto Christus Dominis così afferma:

In questa chiesa di Cristo il pontefice romano, come successore di Pietro, a cui Cristo affidò la missione di pascere le sue pecore e i suoi agnelli, è per divina istituzione rivestita di una potestà suprema, piena, immediata e universale a bene delle anime. Egli perciò, essendo stato costituito pastore di tutti i fedeli per promuovere sia il bene comune della Chiesa universale sia il bene delle singole chiese, detiene la suprema potestà ordinaria su tutte le chiese (Christus Dominis, n. 2).

Nella terza sessione del Vaticano, all'ultimo momento, per ordine di «una suprema autorità », vale a dire del papa, si introdussero degli emendamenti nella Costituzione della Chiesa e vi si premise una Nota praevia explicativa esaltante l'autorità pontificia, senza che più vi fosse tempo per una loro discussione. Vi si leggeva tra l'altro: « Il Romano pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della chiesa. Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della chiesa, può esercitare la sua priorità in ogni tempo a suo piacimento come richiesto dal suo stesso ufficio ».

Il papa, che più di ogni altro ha esaltato il primato pontificio, contro i recenti tentativi di sminuirne il potere, è Paolo VI, specialmente nel suo discorso rivolto il 28 gennaio del '71 ai componenti della S. Rota. Dopo aver ricordato che da parte di alcuni si accentua oggi «il carattere di servizio dell'autorità ecclesiale», il papa osserva che da questo concetto si possono trarre:

due pericolose conseguenze nella concezione costitutiva della Chiesa stessa: quella di assegnare una priorità alla comunità, riconoscendole poteri carismatici efficienti e propri, e quella di trascurare l'aspetto potestativo della Chiesa, con accentuato discredito delle funzioni canoniche della società ecclesiale: donde è derivata l'opinione di una libertà indiscriminata, d'un pluralismo autonomo, e un'accusa di giuridismo alla tradizione e alla prassi normativa della gerarchia. Queste interpretazioni, continua il papa, non corrispondono «al pensiero di Cristo e della Chiesa», infatti l'autorità « cioè il potere di coordinare i mezzi idonei per il raggiungimento del fine della società ecclesiale, non è contraria all'effusione dello Spirito nel Popolo di Dio, sì bene veicolo e custodia; essa è stata attribuita a Pietro e agli apostoli, come ai legittimi successori di Cristo stesso» (Mt 28, 18 s; 16, 18; Lc 10, 16 ecc.)Papa e vescovi, oltre al potere di magistero, possiedono pure quello di dare leggi, di giudicare, e quindi anche di punire.
Infatti si attribuisce invano al superiore l'autorità di dettare leggi, se egli poi non avesse il potere di farle osservare, anche ove trattasi di punire la trasgressione, oppure di dirimere liti e controversie...
L'apostolo Paolo – continua il papa – pur esaltando i carismi della chiesa, esercita con vigore il potere di giudicare (1 Co 5). Inoltre non tutti hanno gli stessi carismi e per la debolezza umana i carismi possono essere confusi con le proprie idee ed inclinazioni, non sempre ordinate. E' pertanto necessario giudicare e distinguere i carismi per controllarne l'autenticità, per coordinarli con criteri desunti dalla dottrina del Signore e secondo l'ordine che dev'essere osservato nella comunità ecclesiale. Tale ufficio spetta alla sacra gerarchia... E' purtroppo vero che la Chiesa ha derivato dalle legislazioni civili nei secoli passati anche gravi imperfezioni, anzi veri e propri metodi ingiusti... La commissione per la riforma del Codice sta lavorando... gli schemi già preparati contemplano, oltre a un notevole snellimento del processo canonico, una più manifesta tutela dei diritti personali dei fedeli... Non la legge per la legge, dunque, non il giudizio per il giudizio, ma legge e giudizio a servizio della verità, della giustizia, della pazienza e della carità , (Paolo VI, 28-1-71, Oss. Rom. 29-1-71, p. 1).

Paolo VI più volte si presentò come colui nel quale «Cristo, Pietro e la Chiesa » si sovrappongono in unità personale. Facendo leva sul sentimento, chiedeva ai suoi visitatori con parole toccanti:

Chi è il Papa? Non è forse il Vicario di Cristo? Non sarà forse possibile scorgere... nel ministero che in lui si personifica, il mistero di una particolare presenza di Cristo? Vedere il Papa non porta forse a intravvedere il Signore?

Mossi da tali sentimenti un gruppo di «ragazzi nuovi» in una veglia notturna, dopo l'udienza papale, pregavano: « Signore, il Papa ci ha parlato. Eri tu che ci parlavi... Fa che noi riusciamo sempre meglio e vedere in lui la Tua incarnazione... Noi ragazzi nuovi gli presteremo le nostre mani, le nostre braccia, i nostri piedi, e dove lui non arriverà, arriveremo noi!».

Dinanzi al consiglio ecumenico delle chiese a Ginevra il 10 giugno 1968 Paolo VI diceva:

Eccoci dunque in mezzo a voi. Il nostro nome è Pietro... Pietro è pescatore di uomini. Pietro è pastore. Per ciò che riguarda noi, siamo convinti che il Signore ci ha concesso, senza alcun merito da parte nostra, un ministero di comunione (Oss. Roma. 11-6-69).

E poggiando sull'interpretazione di «Petrus eni» (Pietro è qui) di una iscrizione rinvenuta nel cosiddetto loculo di Caio trovato in Vaticano, scriveva:

Questo Pietro, messo da cristo a fondamento del suo edificio della salvezza della sua Chiesa, quasi tormentandoci ed esaltandoci, ancor oggi batte alla nostra porta.
Nell'umiltà della mia persona, sia veduto, sia onorato colui (Pietro) che ha cura di tutti i pastori e di tutte le pecore a lui affidate e la cui dignità rimane anche in un indegno erede.

Quindi al Papa

compete la prima e somma responsabilità dell'apostolato, la prima e somma funzione pastorale, che fa d'un fratello la guida, il maestro, il distributore dei divini misteri per gli altri fratelli.

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5) I collaboratori del papa

Il papa non potendo dirigere da solo un organismo tanto vasto come la Chiesa cattolica, deve servirsi di vari collaboratori.

a) La curia

«Per esercitare la suprema potestà, il Romano Pontefice si serve dei dicasteri della curia Romana». Eretta in organismo nel 1588 dall'energico Sisto V con la bolla Immensa Aeterni Dei, divenne un valido strumento di dominio, che a poco a poco accentrò nelle sue varie congregazioni l'attività della chiesa universale. Essa perdurò senza variazioni di rilievo sino alla trasformazione che le impresse Paolo VI con il suo motu proprio Regimini Ecclesae Universae del 15 agosto 1967, che volle rendere le congregazioni più funzionali e più democratiche; l'inquisitoriale congregazione del « Santo Ufficio » divenne così la « Congregazione per la Dottrina e per la Fede» e la Propagande Fide si trasformò in « Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli». Nuova è la commissione centrale per coordinare il lavoro conciliare e interpretarne i decreti. Paolo VI ha poi cercato di internazionalizzare la Curia Romana, perché meglio rispecchiasse tutta la Chiesa. A questa curia il papa dettò delle norme preziose quando le raccomandava di non guardare a interessi economici, a privilegi acquisiti che interferiscano con quanto i vescovi possono compiere benissimo anche da soli, ma di guardare solo al bene delle anime:

Non sarà gelosa di prerogative di altri tempi; né di forme esteriori non più idonee ad esprimere e ad imprimere veri ed alti significati religiosi; né avara di sue facoltà che, senza ledere l'ordine ecclesiastico universale, oggi l'episcopato può da sé e localmente esercitare... Giammai scopi e vantaggi economici avranno peso sul suggerire qualche riserva e qualche accentramento da parte degli organi della Santa Sede, se ciò non sia richiesto dal bene dell'ordinamento ecclesiastico e dalla salute delle anime.

Peccato che alle parole e agli intenti non corrisponda sempre la realtà dei fatti, che spesso continuano dolorosamente a mantenersi come prima. Per snellire la Chiesa e renderne i dirigenti meno vecchi, il papa ha fissato in 70 anni il limite di età dei curiali (e anche dei vescovi) e stabilito il principio della provvisorietà delle cariche contro la precedente inamovibilità. Pur lasciando maggiore libertà d'azione ai vescovi, specialmente orientali, si è continuato a determinare con una minuziosità esasperante quanto essi possono personalmente fare e quanto devono invece chiedere a Roma.

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b) I cardinali

Derivati dai presbiteri incardinati (di qui il nome di «cardinali») nelle varie chiese titolari di Roma, divennero i collaboratori del papa. Nei primi secoli della chiesa il vescovo di Roma era scelto dai presbiteri in unione con i fedeli; più tardi di mezzo al popolo si elevarono i nobili, che alleandosi con i vari principi, si sceglievano i papi a loro favorevoli. Gli imperatori della casa Sassonia, e soprattutto Franconia, posero sulla sede romana parecchi pontefici, alcuni peraltro degnissimi come Leone IX nominato da Enrico III. Questo papa, con il monaco di Ildebrando degli Aldobrandeschi (il futuro Gregorio VII), pose le premesse per la riforma che Nicolò II attuò nel Sinodo romano del 13 aprile 1059. In esso si stabilì che i cardinali vescovi si scegliessero il papa, da proporre poi ai cardinali preti e infine al clero inferiore e al popolo perché vi dessero il loro consenso. I cardinali di quel tempo – nei tre ordini di vescovi, presbiteri e diaconi – avevano il privilegio di assistere il papa nelle principali celebrazioni liturgiche.

Con la riforma gregoriana perse valore la distinzione tra i tre ordini, in quanto fu riservata ai cardinali in genere la elezione del papa e la collaborazione del governo della chiesa romana. Da una funzione puramente liturgica si passò così al piano amministrativo, modificando profondamente, in tal modo, la struttura ecclesiale romana. A partire da Umberto da Silva Candida i « gregoriani» insistettero nell'identificare la ecclesia con il papa e con il collegio dei cardinali. I vescovi conservarono solo un ruolo puramente amministrativo, senza alcun potere d'intervento negli affari della chiesa universale.

Nei secoli 12° e 13° la posizione privilegiata del cardinalato si accentuò e si consolidò sempre di più. Con allusioni all'Antico Testamento i giuristi tentarono di legittimare il nuovo potere assunto dai cardinali: il papa equivale al Cristo, i cardinali ai discepoli di Gesù vivente, i vescovi ai discepoli dopo la Pentecoste. Il cardinalato si pone così nella linea di successione apostolica.

Nel 14° secolo si contestò la successione apostolica dei cardinali, che venne riservata ai vescovi. Con lo scisma d'Occidente il cardinalato fu messo ancor più in crisi, assieme alla decantata superiorità del papa sopra la chiesa. Con la successiva vittoria del papato contro il conciliarismo, i cardinali furono visti più come strumento di disturbo che di coesione. La polemica anticardinalizia raggiunse il culmine con J. Hus (sulla scia di Wyclif). Ma con il concilio di Basilea si aprì la controffensiva egemonica del papato, che ridusse a funzioni subalterne il cardinalato. I cardinali (senza alcuna distinzione tra vescovi, preti e diaconi) furono ammessi alla elezione del papa, mentre il consenso del popolo divenne sempre più formalistico sino a ridursi, com'è oggi, alla semplice acclamazione, che accoglie l'annuncio che il papa è stato scelto e che viene dato da parte del cardinale proto-diacono dalla loggia esterna della basilica vaticana.

Alla elezione cardinalizia alluse Paolo VI in una sua allocuzione ai cardinali, ai quali disse:

Essi (cardinali) sono poi uniti da un vincolo strettissimo con il primato del Romano Pontefice, perché per legge canonica stessa il loro principale diritto è di eleggere il successore di Pietro. Essi devono poi aiutare il Sommo Pontefice nello studio e nella conoscenza esatta dei problemi generali riguardanti l'intera chiesa, in vista delle decisioni da prendere del governo personale, universale e diretto, sempre in bonum Ecclesiae... La funzione del collegio cardinalizio è invece consultiva.

Volendo ringiovanire il senato cardinalizio, Paolo VI con il suo Motu Proprio Ingravescentem aetatem del 21 novembre 1970 ha esonerato dal diritto di eleggere il papa quei cardinali che abbiano oltrepassato gli ottant'anni.

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c) I nunzi

L'istituzione della nunziature risale al 16° secolo quando Gregorio XIII le rese permanenti mentre prima erano temporanee e di tanto in tanto alcuni inviati pontifici ricevevano l'incarico di particolari missioni politiche o religiose. Si deve ai nunzi di questo tempo la possibilità di indire il Concilio di Trento, poiché essi percorsero l'Europa per ristabilire la pace tra i sovrani e convincerli a inviare a Trento i prelati e i teologi dei loro stati. Durante questo periodo i nunzi curarono gli interessi temporali del vescovo di Roma come principe italiano, gli interessi delle singole cristianità locali e gli interessi religiosi del papa come capo della Chiesa e Vicario di Cristo. Così il nunzio di Bergamo Girolamo Ragazzoni, scelto da Gregorio XIII per la Francia, richiamò l'attenzione del re sul problema di Avignone, città che faceva parte dello stato della chiesa, si adoperò per conservare la pace tra Francia e Spagna, indusse il re Filippo II a sancire come leggi statali le decisioni del Concilio di Trento e incitò i vescovi a metterle spontaneamente in pratica. Egli svolse tanto bene la sua missione da meritarsi i più ampi elogi del clero francese che così scrisse nel 1585 a Sisto V:

Noi non possiamo negare di riconoscerci molto debitori al medesimo reverendissimo Signore, nunzio della Santità Vostra, per la sua pietà, la sua virtù, la sua fede, il suo zelo intrepido per la difesa della religione cattolica e l'onore della S. Sede Apostolica. Lo abbiamo accolto e lo lodiamo come un eccellente vescovo della Chiesa, che riteniamo meritevole degli onori più grandi.

Secondo le istruzioni impartite al vescovo di Cambrino, Innocenzo del Bufalo, rappresentante di Clemente VIII presso Enrico IV, doveva svolgere una missione analoga:

Attendere all'amplificazione della religione cattolica, alla riforma del clero e dei religiosi più che si può e introdur buoni costumi in essi et animarli ai studi... Cercherà di intendersi bene con l'arcivescovo e vescovi di quel regno... e li aiuterà continuamente nelle loro bisogne et gli andrà di mano in mano ricordando et soggerendo quelle cose che possono giovare alla riforma delle loro diocesi in tutte le cose spirituali et particolarmente nella collatione dei beneficii, nella quale materia è in quel regno molto abuso.

Egli dovrà pure insistere perché le norme del Concilio di Trento, emanate già da quarant'anni, vengano applicate da Enrico IV o almeno dai vescovi e insistere perché i prelati «riformino i loro cleri et diocesi, esortarli particolarmente a far visite et celebrare i sinodi diocesani et provinciali, et fare seminarii».

Solo nel 17° e nel 18° secolo tra i legati francesi sorse l'idea che il nunzio fosse l'ambasciatore di un principe straniero. Tuttavia in generale l'attività dei nunzi era ancora prevalentemente religiosa, come lo prova l'istruzione consegnata nel 1606 al nunzio di Fiandra:

La maggior parte dei negozii di questa carica sono spirituali... Il fine al quale lei ha da indirizzare tutte le sue azioni abbraccia tre cose: La conservazione della religione cattolica, la libertà ecclesiastica,  l'unione dei S.mi arciduca e Infanta con la sede apostolica.

Nel 1591, con la Bolla Onus Apostolicae Servitutis, Gregorio XIV ordinava che l'inchiesta per la scelta dei candidati alle sedi vescovili fosse affidata al legati e ai nunzi della S. Sede, e l'istruzione della Congregazione Concistoriale del 1627 prescriveva le norme da seguirsi: interrogare separatamente e sotto il vincolo del giuramento, testimoni che non fossero né parenti, né amici né nemici del candidato, e che riferissero sulla sua persona, sulla sua famiglia ed età, sul modo con cui assolveva il suo ministero ecclesiastico, sulla sua purità di fede e sulla sua capacità di governare una diocesi. Mentre sino al 1631, in caso di assenza del Nunzio, tale ricerca spettava ai vescovi più vicini, con un provvedimento d'urgenza di quello stesso anno, la Concistoriale fece sapere ai nunzi che solo a loro spettava il processo sui vescovi da promuoversi. Sui nunzi apostolici il papa ha pubblicato di recente il Motu Proprio Sollecitudo omnium Ecclesiarum, il quale insiste sui tre uffici che hanno i nunzi: diplomatico con i governi per regolare i rapporti tra Chiesa e Stato; religioso per collaborare con i vescovi, aiutarli, porli in contatto con il papa, conoscerne meglio le decisioni e le necessità; individuare le persone che sono più adatte a divenire vescovi. Parlando ai nunzi dell'Asia riuniti a Manila nelle Filippine, Paolo VI suggeriva loro di presentarsi come un « segno di comunione presso le gerarchie locali ». E continuava:

La funzione dei Nunzi è anch'essa in evoluzione. Fino ad ora il Nunzio non era altro che il rappresentante del Papa presso i governi e le chiese. La sua azione presso di queste era soprattutto di ordine gerarchico e amministrativo, ed egli rimaneva, in qualche modo, come un corpo estraneo alla Chiesa locale. Oggi, invece, il Nunzio deve imprimere alla sua azione un più spiccato accento pastorale, perché anch'egli è a servizio del Regno di Dio che progredisce nel rispettivo paese... Partecipando al carisma particolare di Pietro, voi rappresentate in maniera privilegiata le esigenze dell'unità nell'auspicata diversità espressiva della medesima fede.

L'influsso papale si fa oggi sentire attraverso sessantadue nunziature accreditate presso gli stati, dirette da nunzi o da pronunzi. Il nunzio esiste in quelle nazioni dove gli è riconosciuto il diritto di precedenza, e perciò di decananza in seno al corpo diplomatico presso il rispettivo governo. Dove tale diritto non viene riconosciuto, si pone a capo della nunziatura un pro-nunzio, che ha lo stesso rango del nunzio, ma per il quale, posta la funzione suppletoria indicata chiaramente da tale denominazione, non si insiste nel chiedere la precedenza. Il pro-nunzio introdotto nel 1965, si trova ora presso ventisette governi di scarsa popolazione cattolica, i quali troverebbero difficile concedere la precedenza al rappresentante del papa. Vi sono inoltre sedici delegazioni apostoliche, che svolgono la loro funzione solo presso chiese locali i cui rappresentanti prendono il nome di delegati apostolici. Se si aggiungono ai precedenti gli osservatori inviati presso le varie organizzazioni internazionali, si può vedere la rete capillare mediante la quale la presenza del papa per tutto il mondo viene resa attuale.

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d) La legge della chiesa

Diverse legislazioni si sono succedute nel corso dei secoli: dalla libertà biblica si è passati ai primi tentativi di legislazione subapostolica per giungere a quella costantiniano - giustiniana. Al successivo Decreto di Graziano si sono susseguite le Decretali, il Tridentino, il codice Piano-Benedettino. Ora la chiesa cattolica è in un periodo di crisi, in quanto pur sussistendo ancora il Codex Juris Canonici, questo non è stato ancora aggiornato alle direttive dell'ultimo concilio.

Nel cattolicesimo odierno dominano due tendenze: vi sono coloro che appellandosi al Vaticano II, hanno messo da parte completamente il Codice di Diritto Canonico e si orientano secondo i loro personali convincimenti. Costoro, al dire di altri teologi, non risolvono il problema, ma lo saltano, calpestando la natura della Chiesa che per ordinamento divino è gerarchica. Dimenticano – continuano gli oppositori – che vi è una Pontificia Commissione d'indole internazionale, che lavora indefessamente alla revisione del predetto codice.

Altri, invece, richiamandosi al fatto che questo codice non è stato abrogato, si appellano testualmente alle sue norme, dimenticando che esse sussistono, a meno che « il Concilio Ecumenico Vaticano II non le abbia direttamente abrogate o il diritto le abbia in parte abrogate o derogate».

Il problema è quindi aperto e la soluzione sta nel giusto mezzo: In medio stat virtus – dicono i cattolici. Per costoro occorre rifarsi alla funzione della Santa Sede che con facoltà e dispense attua i principi programmatici del Concilio e a quella dei consigli Pastorali o Presbiteriali che cercano di sciogliere il problema sul piano locale.

Paolo Vi ha rilevato che il Concilio, «approfondendo la dottrina della Chiesa, ha messo in rilievo l'aspetto mistico che le è proprio, ed ha perciò obbligato il canonista a ricercare più profondamente nella Sacra Scrittura e nella Teologia le ragioni della propria dottrina».

Nel diritto canonico i fedeli non devono vedere

un'espressione di potere autocratico, un iussum dispotico e arbitrario, ma piuttosto una norma che tende massimamente a interpretare una duplice legge, quella superiore divina, e quella interiore della coscienza, e perciò norma promovente e proteggente umana – dei diritti e dei correlativi doveri, della libertà e della responsabilità, della dignità della persona e nel contempo della sovrana esigenza del bene e – ciò che è proprio della Chiesa – della immutabile sua costituzione unitaria e della sua versatile adattabilità nelle attività contingenti e di costume alle peculiari esigenze della varie civiltà e della peculiari condizioni storiche dell'umano consorzio.

Contro la tendenza odierna, contraria al diritto ecclesiastico, Paolo VI afferma che:

una comunità senza legge, lungi dall'essere o dal poter essere, in questo mondo, la comunità della carità, non è mai stata e non sarà mai altro che la comunità dell'arbitrio (L. Bonger, L'Eglise de Dieu, p. 596). E non si osserva poi il fatto che mai, forse, come al nostro tempo... si è pronunciata una tendenza proliferatrice legislativa ad ogni livello ecclesiale... che non ci lascia senza apprensione per le possibili incoerenze, di queste novità giuridiche, con la Dottrina e con la norma vigente nell'insegnamento della chiesa... L'uomo senza legge non è più uomo! E la legge, senza un'autorità che la insegni, la interpreti e la imponga, facilmente si oscura, infastidisce e svanisce (Paolo VI alla Sacra Rota il 28-1-72, Oss. Roma., 29-1-71, p. 1).

Finora è stato pubblicato il progetto di Lex ecclesiae fundamentalis per la riforma del Codice di diritto canonico, che, pur citando le fonti conciliari, spesso le devia dal loro contesto, alterandone il significato fondamentale. Ad esempio il fatto che tutti i fedeli «sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa », si trasforma in « professare tutte le verità rivelate da Cristo Signore e che hanno ricevuto attraverso la Chiesa». La fede si frantuma quindi nelle singole verità da credere. L'espressione della Dignitatis humanae : «Tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, soprattutto in quelle cose che riguardano Dio e la sua chiesa, e ad abbracciarla e custodirla, una volta conosciuta» è preceduta da quanto segue:

Tutti gli uomini sono tenuti dalla stessa legge divina a entrare nella vera Chiesa (= cattolica), purché la conoscano (lex fundamentalis, can. 5 n. 1).

Il diritto individuale alla libertà, immune da coercizione, si trasforma in «Tutti gli uomini devono liberamente accedere alla Chiesa di Cristo, avendo il diritto... di essere immuni da ogni coercizione...» (lex  fund., can. 5, n. 5). Ciò che nella Dignitatis humanae è detto della società civile, la Lex fundamentalis lo riscrisse per la « autorità ecclesiastica» che deve sorvegliare « sorvegliare l'esercizio dei diritti del fedele o anche restringerlo con leggi irritanti o inabilitanti» (can. 19).

Il progetto precedente proviene dal pensiero di Paolo VI per il quale il diritto canonico rientra nei principi costitutivi, a differenza di Giovanni XXIII, che gli attribuiva invece un valore esclusivamente pastorale da adeguarsi alla mutevole situazione ecclesiastica.

Vi sono molte cose che possono essere corrette e modificate nella vita cattolica... molte norme che possono essere semplificate ed adattate ai bisogni del nostro tempo; ma due cose specialmente non possono essere messe in discussione: la verità della fede, autorevolmente sancita dalla tradizione e dal magistero ecclesiastico, e le leggi costituzionali della chiesa.
Noi sappiamo bene che da molte parti si guarda con antipatia all'attività legiferante della chiesa, come se fosse opposta alla libertà dei figli di Dio, antitetica allo spirito del Vangelo, imbarazzante le spontanee espressioni dei carismi propri del popolo di Dio... Ma non vediamo come la Chiesa Cattolica, se vuol essere fedele ai principi costitutivi del suo divino fondatore, possa prescindere dal dare a se stessa un «diritto canonico ».

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c) Elezione dei vescovi

Nei primi secoli della chiesa, come abbiamo già visto, il vescovo era scelto da tutta la comunità, popolo compreso. Ma con la continua crescente dignità episcopale si andò sempre più riducendo l'importanza del popolo nella sua elezione, e l'episcopus finì per essere scelto dagli altri vescovi a lui vicini. Scrivendo a quei di Calabria e di Puglia il vescovo romano Celestino raccomandava che nella elezione episcopale si ammaestrasse il popolo anziché seguirlo. I vescovi «viciniori» che lo dovevano consacrare acquistano in tal modo una voce sempre più forte del clero e del popolo locale. Si va riconoscendo sempre più l'importanza della comunione con la chiesa romana sia mediante le « lettere di comunione di pace» sia mediante l'inserzione del nome del suo vescovo nei dittici delle celebrazioni liturgiche.

Con la libertà della chiesa al tempo di Costantino (4° secolo) e con i vari sinodi, l'autorità metropolita in unione con i vescovi della stessa provincia diviene sempre più importante, specialmente in Oriente, a scapito del popolo al quale spetta solo l'acclamazione. L'ingerenza dell'imperatore o di un suo rappresentante, sia che fosse richiesta sia che fosse imposta, si fa sentire in ,odo rilevante. Spesso il potere civile dispone a piacimento delle nomine episcopali, per cui si arriva a considerare il vescovo come un signore feudale alla cui scelta (provvista delle diocesi) pensa il potere civile dal quale viene direttamente investito.

Al tempo della riforma gregoriana, assieme ai ricorsi sempre più frequenti alla sede apostolica (libertas romana), appaiono le direttive emanate da Roma e lo sforzo dei capitoli cattedrali di monopolizzare le nomine dei vescovi. Tuttavia il concordato di Worms (1122) attribuì al potere laico, sia pure come semplice privilegio, il diritto di intervenire alla nomina dei vescovi e alla provvista delle diocesi. Durante le aspre controversie che ne seguirono con i vari capitoli, gli appelli al papa divennero sempre più frequenti e nei secoli 13° e 14° la Santa Sede finì con il devolvere a se stessa la scelta dei vescovi. Durante il periodo avignonese le varie monarchie nazionali allora nascenti presero il sopravvento e la nomina ai vescovadi divenne da allora un'importante «moneta di scambio» nelle trattative con il papa e i vari sovrani europei. Tale sistema concordatario si sviluppò negli stati europei e nelle colonie degli spagnoli e dei portoghesi. Con la laicizzazione degli stati il papa andò riacquistando il potere di scegliersi i suoi vescovi, come fu definitivamente sancito nel 1917 dal «Codice di Diritto Canonico»: «Il Papa nomina liberamente i vescovi » (can. 326, n. 2-3).

Il Vaticano II volle che le conferenze episcopali «secondo le norme stabilite o da stabilirsi » trattino in segreto quali persone siano eleggibili « fermo restando il diritto del Romano Pontefice di nominare i vescovi e di conferire loro l'ufficio», almeno per quanto riguarda la chiesa occidentale. Le norme suggerite dal concilio vennero emanate definitivamente da Paolo VI in una lettera al cardinale Villot il 25 marzo 1972 (Oss. Rom. 12/13-5-72). In esse si afferma che le assemblee regionali o nazionali devono presentare alla S. Sede i nomi dei candidati, fermo restando il diritto del papa di nominare soggetti anche per altra via (a. XI). Il Romano Pontefice prima di scegliere il candidato tra la terna proposta, compie una diligente indagine tramite il suo rappresentante, il quale potrà interpellare con apposito questionario non solo gli ecclesiastici, ma anche alcuni « laici prudenti e degni di fiducia, i quali posseggano sul candidato notizie utili a conoscersi » (a. XII). Sui bisogni della diocesi il rappresentante pontificio interrogherà non solo il clero ma anche il laicato e i religiosi (a. XIII).

Nonostante l'attuale maggiore considerazione del clero e del laicato locale, siamo pur sempre ben lontani dal ritorno alla vera e propria designazione popolare, auspicata da alcuni recenti teologi, tra cui Hans Küng. Il papato rimane sempre nella sua posizione di supremo vertice gerarchico di tutta la chiesa cattolica.

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Conclusione

Mi sia permesso concludere questo capitolo con una citazione del teologo laico cattolico Jacques Flamand, docente all'università di Ottawa:

Dal punto di vista del ministero e della maniera di concepire la scelta e la funzione, ogni tipo di ecclesiologia implica una concezione peculiare assai differente. Se si pone l'accento sulla chiesa universale (e questo è ancora il caso del Vaticano II nonostante il tentativo di riequilibrare e dosare le cose), il ministro (e si tratta soprattutto del prete sacerdos) è considerato partendo dalla hierarchia e visto come delegato e rappresentante. E' nominato dalle autorità ecclesiastiche per ricoprire tale funzione, senza consultazione dei principali interessi, cioè i membri della comunità locale che è chiamato a dirigere. Se invece si pone l'accento sulla linea locale, stanno in prima linea i bisogni reali della comunità locale.. Questa non solo è consultata dall'autorità ecclesiastica, ma essa stessa sceglie i suoi ministri in funzione dei suoi bisogni e delle persone nelle quali essa ha riconosciuto il carisma dato dallo spirito per il servizio di tutti.

Quale delle due visioni risponde meglio agli scritti del Nuovo Testamento? E' ciò che ci resta da vedere.

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