DAL CRISTIANESIMO.....
      AL CATTOLICESIMO
di Fausto Salvoni

EXCURSUS 1
DISTINZIONE VISIBILE TRA CLERO E LAICI:
CELIBATO SACERDOTALE


Indice pagina

1) Abiti ecclesiastici
2) Titoli
3) Posto riservato nel tempio
4) Il celibato ecclesiastico
a) Sua storia
b) Ragioni addotte a favore del celibato
1) Il celibato è conveniente per chi si accosta a Dio
2) Imitazione di Gesù
3) L'esempio dei dodici
4) Maggior libertà nel campo di lavoro
5) Testimonianza sacerdotale
6) Efficacia sacerdotale
7) Preannunzio profetico
5) Alcune valutazioni finali
a) Non minimizzare il celibato
b) Vescovi e celibato


Il gruppo dei « chierici» distinto nelle chiese locali dai « laici», costituì sempre una esiguità numerica di fronte alla masse dei fedeli. Intorno alla metà del 3° secolo a Roma il clero risultava di 112 membri suddivisi in vari ordini ecclesiastici e nel 5° secolo di quasi 300 persone; la chiesa di Cartagine durante la dominazione vandala aveva quasi 500 chierici. In altre città non metropolitane il numero era assai piccolo. A Smirne, in Pannonia, che era pure una residenza imperiale, nel 366 vivevano solo una dozzina di chierici.

Questo gruppo esiguo di cristiani andò sempre più separandosi dai laici mediante abiti speciali e titoli nobiliari e un luogo particolare ad essi riservato nel tempio, detto « presbiterio»; infine furono obbligati al celibato. Mentre i primi tre elementi distintivi attualmente vanno sempre più cadendo in disuso per il lento ma progressivo reinserimento del clero nella società odierna, il celibato contestato da molti, almeno per il suo carattere vincolante, è tuttora posto in enfasi dalla gerarchia ecclesiastica.

1) Abiti ecclesiastici

Speciali abiti provenienti da vesti nobiliari del tempo passato o da vesti sacerdotali giudaiche o pagane (mitra, croce pettorale) entrarono per presto in uso non solo nella liturgia cristiana, ma anche nella vita quotidiana. Nei primi secoli della Chiesa gli abiti del clero e dei laici non si distinguevano tra loro, ma a partire dal 5° secolo, quando incominciarono a divenire di moda gli abiti corti introdotti dai barbari, gli ecclesiastici continuarono a portare i precedenti abiti lunghi « purché fossero modesti » e senza ornamenti superflui, ordinava nell' 816 il Concilio di Aix-la-Chapelle (can. 124). Il colore nero importato dai benedettini divenne obbligatorio solo al tempo del concilio di Trento. Sisto V prescrisse per tutti l'abito talare, detto « sottana », perché si portava sotto i paramenti liturgici.

A Roma, nella seconda metà del 5° secolo, fu introdotta anche la tonsura o taglio circolare dei capelli – che tra i Celti era però semicircolare in quanto lasciava alcuni capelli sul davanti verso la fronte – a significare la vittoria dei cristiani sul male e l'unione del clero con Cristo.

Nell'impero bizantino al vescovo furono attribuiti un rango, delle insegne e altri privilegi pubblici prima riservati all'imperatore e ai funzionari statali, come torcia, incenso, trono, sandali, manipolo, pallio, ritratti ufficiali. In questi ultimi anni tali abiti anacronistici ed eccessivamente costosi, persero molto del loro fascino e si andarono sempre più semplificando; scomparvero così per i cardinali l'ermellino, i diamanti assai preziosi dell'anello e della croce pettorale, lo strascico della coda si accorciò di molto. Paolo VI, dopo aver sostituito il proprio con un anello aureo molto semplice, ne fece dono di simili ai padri conciliari, che ben difficilmente oseranno in futuro portarne uno più vistoso di quello papale. Adesso il clero, cercando di uniformarsi il più possibile al popolo, tende ad abolire l'abito sacerdotale, che al contrario lo distingue. Per ora si accontenta di indossare abiti particolari durante il culto, benché molti bramerebbero, penso, far scomparire anche quelli ricordando che i primi cristiani non ne usavano affatto. Lo stesso clergyman, o abito nero con colletto bianco, non è accolto da tutti benevolmente. La tonsura è stata abolita da Paolo VI con la lettera apostolica Ministeria quaedam del 15-8-72 (Oss. Rom. 15-9-72).

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2) Titoli

La ricerca della gloria umana indusse gli ecclesiastici ad accogliere molti titoli nobiliari della corte bizantina: i cardinali furono detti «eminentissimi », come gli ufficiali dalla corte di Bisanzio, e i vescovi « illustrissimi» più ancora dei senatori romani che si chiamavano «illustri». Ancora al tempo di Mussolini ricevettero il titolo di « Eccellenza» con un decreto della Congregazione del Cerimoniale, per non essere da meno dei prefetti dell'epoca (AAS 1931, p. 22). Al vocabolo «papa», antico titolo greco per « padre», si è pure congiunto l'epiteto di « Santo», per cui il «papa» è pure chiamato « Sua Santità », quale rappresentante del Cristo sulla terra. Il papa – seguito poi dai vescovi – si appropriò pure il titolo di « pontefice » (pontifex maximus) riservato al capo della religione romana.

Ma anche gli ecclesiastici di rango minore adottarono titoli nobiliare , come Monsignore (= Mio Signore), Don abbreviazione spagnola per Dominus «Signore», Padre. Questi titolo vanno gradatamente scomparendo, per cui li adottano solo pochi aulici, che cercano di cattivarsi in tal modo la simpatia dei loro superiori.

Dal messaggio di Cristo appare che tutti i credenti dovrebbero agire da «fratelli», eliminando ogni senso di superiorità, riservando il titolo di «padre» solo a Dio e quello di Maestro o Guida unicamente a Gesù. Il «tu» della fratellanza dovrebbe essere il linguaggio dei membri della nuova famiglia di Dio, ad esclusione del «lei» che presuppone un certo distacco e una nota di inferiorità nei riguardi di colui al quale si parla.

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3) Posto riservato nel tempio

Mentre all'origine i cristiani si radunavano in case private, ben presto con la cristianizzazione dell'impero andarono adottando le basiliche e i templi pagani. Nella navata principale si riservò allora al clero un posto particolare detto presbiterio, posto più in alto del restante suolo e collocato immediatamente di fronte all'altare, recinto da una balaustra perché i laici non potessero averne accesso. Quando l'imperatore Teodosio volle prendere posto accanto all'altare, Ambrogio lo rimandò nella navata, tra i fedeli. Talvolta però vi furono ammessi eccezionalmente i nobili e, in occasione di nozze, anche gli altri laici della plebe. Secondo il concilio di Laodicea del 365 (can. 4) tale luogo inaccessibile ai fedeli, detto presbiterio, doveva essere separato da tende, inferriate e cancelli. Quivi, accanto all'altare, si ergeva la cattedra del vescovo, costituita da un trono nobiliare sormontato da un baldacchino, dove solo il vescovo poteva sedere, calzando durante il culto speciali pantofole proprie della nobiltà. Non vi era alcuna differenza tra i troni episcopali e quelli eretti nelle varie corti per i capi di stato e per i principi. Nell'architettura ecclesiastica postconciliare anche il presbiterio va scomparendo, per cui il clero ora non ha più un posto esclusivamente riservato a se stesso; la parte centrale del tempio è oggi occupata dalla mensa su cui celebrare la Santa Messa.. La scomparsa della balaustra dovrebbe segnare la fine della distinzione tra clero e laicato.

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4) Il celibato ecclesiastico

a) Sua storia

Al tempo apostolico i vescovi erano scelti tra gente matura, sposata, con figli credenti, onde avessero l'esperienza sufficiente per meglio guidare la chiesa di Dio; Paolo raccomanda loro che siano tuttavia fedeli alla propria moglie (1 Ti 3, 1 ss). Ma poi, per influsso degli gnostici e dei farisei, che ritenevano indecoroso il matrimonio, per il dualismo neoplatonico e neopitagorico che riteneva la nascita un imprigionamento dell'anima nel carcere del corpo, per la dottrina stoica che condannava il desiderio e la ricerca del piacere, legittimando l'unione sessuale solo in funzione della procreazione, per la legge veterotestamentaria che imponeva ai sacerdoti ebraici di astenersi da ogni contatto matrimoniale durante l'esercizio delle loro funzioni sacre, sorse l'idea che i vescovi, i presbiteri e i diaconi dovessero vivere da celibi.

Era infatti idea condivisa da quasi tutte le religioni, che occorresse astenersi da contatti coniugali prima di partecipare al culto, per cui la continenza dei sacerdoti durante la loro funzione era «una delle esigenze più antiche e più radicate nell'intimo dell'umanità» (E. Fehrle). Verso l'inizio del 3° secolo – afferma A. Plé – il vocabolario del sacro invase il campo del ministero ecclesiastico e la funzione dei vescovi/presbiteri divenne allora più servizio dell'altare e del sacrificio, che servizio della parola e del popolo. Tale esercizio passò allora sotto la categoria del puro e dell'impuro, e non si ritenne più compatibile con la sessualità e il matrimonio, ai quali l'ambiente del tempo non era favorevole per un pessimismo assai diffuso (gruppi gnostici, encratiti, montanisti, Origene, Clemente Alessandrino, Tertulliano).

Tuttavia al 3° secolo – nonostante il consiglio del celibato – i presbiteri potevano ancora sposarsi e vivere coniugalmente con la propria moglie: «I sacerdoti e i dottori possono nella chiesa generare dei figli», commentava Origene (Hom. Lev. 6, 6 GCS 29, 368 s). In Africa era normale che i presbiteri fossero sposati: Numidio, già unito in matrimonio prima di venire incardinato nella chiesa di Cartagine, fu preparato al battesimo da Ceciliano, il quale prima di morire martire gli affidò la propria moglie e i suoi figli (Ponzio, Vita 4). Il sacerdote Antonino di Abotina soffrì il martirio sotto Diocleziano con i quattro suoi figli. Novato fu biasimato da Cipriano non perché era sposato, ma perché maltrattava la propria moglie (Cipriano, Ep 52, 2).

Gli stessi presupposti condussero all'idea che la verginità fosse superiore al matrimonio provocando il sorgere di anacoreti, monaci e suore che rifiutavano le nozze per poter vivere più uniti al Signore. Tale concezione verso il 4é secolo creò l'idea, poi dogmatizzata, che Maria fosse stata sempre vergine (aeiparthénos) convivendo con Giuseppe quale sorella; e che i « fratelli» di Gesù fossero, secondo gli orientali, dei suoi fratellastri nati da un matrimonio di Giuseppe precedente a quello di Maria, oppure, secondo gli occidentali, dei semplici « cugini». La precedente valutazione dell'atto coniugale indusse a pensare che esso impedisse di accostarsi alla comunione.

«Colui che subito dopo l'atto coniugale e la sua contaminazione si presenta a ricevere il Pane Eucaristico, disonora e profana la cosa santa» (Origene, Select. in Ezech. 7 PG 13, 793 B). Gregorio Magno spiega che i rapporti coniugali devono essere voluti «solo per ottenere un figlio », ma anche in tal caso il coniuge potrà entrare in chiesa « solo dopo essersi lavato con acqua e nemmeno subito dopo la sua abluzione ».

In seguito fu proibito anche questo e non si permise la comunione ai coniugi, se non fossero intercorsi – si diceva sino al 13° secolo – parecchi giorni dopo il loro rapporto. Anche le domeniche e i giorni festivi non dovevano essere profanati dalla unione sessuale.. Questo non era altro che l'esasperazione di una idea già diffusa anche prima, come ce ne fa fede Cesario di Arles (+ 542):

Ogni volta, che in giorno di festa, vi recate in chiesa e volete ricevere i sacramenti, osservate la castità parecchi giorni prima, affinché possiate accostarvi all'altare di Dio con coscienza tranquilla... Chi è buon cristiano, non solo osserva la castità parecchi giorni prima della comunione, ma ha rapporti con sua moglie solo per desiderio di un figlio, perché la moglie si ha per procreare figli, non per la propria libidine.

Verso la fine del 5° secolo, quando gli atti di culto presero a divenire quotidiani, si finì per l'imporre il celibato ai preti non sposati e la astinenza dei rapporti coniugali per i già sposati (R. Gryson)., In una raccolta di leggi, risalente all' 8° o al 9° secolo, conservata in un codice vaticano, due canoni, attribuiti l'uno al presbitero Girolamo e l'altro a un decreto di papa Innocenzo (can 36), impongono il celibato e l'astinenza totale a motivo del culto giornaliero. Il can. 35 così afferma:

Se si ordina al laico, per amore della preghiera, di astenersi dai rapporti con la sposa, cosa si deve pensare del sacerdote che quotidianamente deve offrire a Dio la vittima immacolata per i suoi stessi peccati e per quelli del popolo...? I sacerdoti e i leviti non devono avere rapporti sessuali con donne (can. 36).

Stando ai documenti che possediamo, il primo tentativo per imporre ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi il celibato o almeno la completa astensione dai rapporti coniugali (abstinere se a coniugibus suis) risale al concilio spagnolo di Elvira (= Granada) del 306, sotto minaccia di espellere dallo stato clericale chiunque non osservasse tale legge.

Canone 18: Ai vescovi, ai preti e ai diaconi che vengono trovati colpevoli di incontinenza durante il periodo del loro ministero non si deve nemmeno permettere di ricevere la comunione prima della morte, dato lo scandalo di una colpa così palese.
Canone 27: Il vescovo o un qualsiasi altro chierico tenga nella propria casa solamente una sorella o una figlia e solamente se questa è vergine e promessa al Signore.
Canone 33: I vescovi, i preti e in generale tutti i chierici, che devono compiere un servizio all'altare, devono astenersi dai rapporti coniugali con le loro mogli e non è loro permesso generare dei figli. Se contravvengono a quanto detto, essi perdono il diritto alla loro posizione gerarchica.

I vescovi di Roma Damaso (m. 384) e Siricio (m. 398), poggiando sulla necessità che i vescovi, i sacerdoti e i diaconi fossero degni dei sacri ministeri che celebrano, esigettero il celibato in modo così rigido che alcuni li riconoscono i veri creatori della legge del celibato. Siricio, ad esempio, scrivendo nel 385 al vescovo Imerio di Terragona, affermava che già nell'Antico Testamento dovevano:

Abitare nel tempio durante l'anno della loro funzione (anno vicis suae)... affinché non potessero avere alcun contatto matrimoniale con la propria moglie e, così rifulgendo per l'integrità della loro coscienza, potessero offrire un sacrificio accettevole a Dio... Perciò obblighiamo con legge insolubile tutti i sacerdoti e i leviti, affinché dal giorno della nostra ordinazione, abbiano a consacrare alla sobrietà e alla pudicizia i nostri cuori e i nostri corpi, in modo di piacere totalmente al nostro Dio nei sacrifici che quotidianamente gli offriamo. Infatti coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio (Rm 8, 8).

Egli si appella alla tradizione e la difende contro chiunque vuole sottrarvisi adducendo la scusa dei sacerdoti veterotestamentari; siamo quindi in un particolare periodo di lotta in cui si vuole imporre il celibato agli anticelibatari. Di fatto vivevano allora dei vescovi sposati: citiamo, ad esempio, Gregorio illuminatore dell'Armenia; Gregorio, l'antico padre di Gregorio Nazianzo; Gregorio di Nissa. In occidente possiamo nominare, tra gli altri, Ilario di Poitiers, Sidonio Apollinare, Euchero di Lione. Ma dal 5° secolo s'affermò l'obbligo della continenza per i vescovi, senza però farne una regola imposta ovunque.

All'inizio del 5° secolo Girolamo, in un testo piuttosto discusso, afferma essere consuetudine dell'antico Egitto e della sede apostolica (Roma) quella di ordinare come diaconi o presbiteri solo uomini decisi a conservare la castità (aut virgines aut continentes), oppure disposti a rinunziare alle proprie mogli (aut... mariti esse desistunt). Anche i concili particolari di Arles (Arelatense I del 314) e dell'Africa (dal 390 in poi) non fanno che richiamare l'obbligo della continenza per il clero già sposato, quindi la proibizione di sposarsi per gli ordinati. Ne derivarono alcune logiche conseguenze: l'ordinazione del clero non poteva avvenire senza il consenso delle mogli le quali dovevano essere mantenute dalla chiesa dopo il distacco dal marito; si dovevano poi ricercare giovani pronti a farsi sacerdoti pur rimanendo celibi. Il concilio di Tours (a. 461), per ristabilire « i precetti evangelici e la dottrina degli apostoli» (!?), sostenne che chiunque non fosse stato fedele alla continenza, dovesse cessare dal sacro ministero (deposizione), senza però venire scomunicato. La ragione sta nel fatto che i sacerdoti « possono essere chiamati ad una funzione sacra ». Leone I (m. 461) in un lettera ad Anastasio di Tessalonica estese la continenza anche ai suddiaconi, ma in seguito tale obbligo fu considerato dubbio sino a quando si impose con certezza che anche esso era un ordine sacro, mentre prima se ne dubitava.

Nonostante le leggi precedenti il celibato andò praticamente in disuso anche in occidente, per cui dovette essere reintrodotto, talora anche con le armi (specialmente a Milano ad opera di Arialdo ed Erlembardo), al tempo di Gregorio VII, che lo impose nel sinodo romano del 1073. Si giunse persino a vendere schiave le mogli e i bambini dei chierici e di appropriarsi così del denaro ottenuto, per l'estensione del regno di Dio sulla terra. Ecco una citazione dello Pflieger che è altamente drammatica:

Il sinodo di Pavia (1081) si spinse oltre nel seguire tali disposizioni (di Gregorio VII) e con un tono aspro, che oggi offende la nostra sensibilità ancor più di quanto lo fosse allora, dichiarò che i figli dei sacerdoti erano schiavi della chiesa! Il papa tedesco s. Leone IX incluse in tale disposizione anche le mogli dei sacerdoti (1049)... Il sinodo di Melfi (1081, Italia meridionale) diede ai principi il potere di fare schiave le mogli e le donne del clero (canoni 9.12.14). I loro figli venivano dichiarati illegittimi, ma si concedeva loro il diritto di entrare in monastero o in canonicato. Ci fu anche un nuovo canone che dichiarava scomunicati tutti coloro che avessero ascoltato la messa da un prete vivente in concubinato. La caccia alle streghe per le donne dei preti, che fu la spiacevole conseguenza di tale legislazione, risultò ripugnante anche a coloro che avevano appoggiato la riforma... Il sinodo di Szaloles (Ungheria, alla fine dell'undicesimo secolo) escluse il matrimonio dei preti come se ciò fosse una cosa scontata e decretò: Ogni prete che vive con una ragazza come se ne fosse il marito, deve consegnarla perché sia venduta schiava. Il ricavato di questa vendita deve andare al vescovo! (can. 2).
Tuttavia perdurò a lungo una certa libertà come appare dalla relazione amorosa tra Abelardo (+1142) ed Eloisa, il cui carteggio sentimentale è apparso nel 1971 con i tipi dell'editore Rusconi. Il grande maestro di dialettica che si batté in nome della filosofia e della ragione contro le aberrazioni della fede, fu conquistato da Eloisa, nipote del canonico di Notre Dame Fulberto, la quale pur non essendo bella, possedeva un raro fascino e una rarissima cultura. Divenuto precettore di questa giovane, che aveva vent'anni meno di lui, i sensi di Abelardo, dopo un così lungo digiuno, esplosero e lo travolsero. «Aprivamo i libri – scrive Abelardo – ma si parlava più d'amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani invece di sfogliare i libri, correvano al suo seno. L'amore si rifletteva nei nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse nei libri ». Un giorno Eloisa scoprì di essere incinta e ne informa raggiante Abelardo, che per paura di uno scandalo la rapì e la portò in Bretagna a casa della sorella. Fulberto minacciò fulmini ed Abelardo propose di sposare la giovane di nascosto per non perdere la sua carriera di canonico. Ma tale segreto fu tradito, per cui Abelardo persa la testa rinchiuse la moglie nel convento di Argenteuil. Lo zio della tradita di vendicò nel modo più orribile: « Una notte – narra Abelardo – dopo aver corrotto un mio servo con denaro, mi sorpresero mentre riposavo tranquillamente in una stanza appartata di casa mia e mi punirono con la più crudele ed infamante delle vendette, che tutti appresero con immenso stupore: mi tagliarono cioè la parte del corpo con cui avevo commesso ciò di cui essi si lamentavano ».
Perduta la virilità con l'evirazione, Abelardo ritrovò la passione per lo studio, per la dialettica e per la teologia. Ma dimenticò del tutto Eloisa che nel frattempo ebbe un bimbo, a cui fu dato il nome di Astrolabio. Eloisa, una vera eroina rimasta fedele al marito, si lamentava dei suoi silenzi: « Perché hai cominciato a trascurarmi tanto e a dimenticarti tanto di me, al punto che né mi vieni a trovare, né mi scrivi? Rispondimi, ti prego, se puoi, altrimenti sarò costretta a dire quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l'affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio s'è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d'affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni».
Abelardo si difese goffamente, tessendo l'elogio della castità, che ora a lui costa così poco; egli cita a man bassa gli apostoli, i padri della chiesa e il filosofo Origene che, per sottrarsi alle seduzioni dei sensi, attuò con le proprie mani quello che Fulberto e complici fecero a lui mentre dormiva. Tanto Eloisa è altruista e disinteressata, tanto Abelardo è egoista, meschino e sentimentalmente arido. Ad ogni modo ciò dimostra come l'opinione pubblica legittimasse il matrimonio di Abelardo e fosse comprensiva nonostante il suo sacerdozio.
Il precetto del celibato fu ripetuto da vari concili: il Lateranense I (a. 1123, can. 21) e, più esplicitamente, il Lateranense II (a 1139, can. 7) hanno dichiarato nulli i matrimoni contratti dai chierici in sacris, creando in tal modo l'impedimento dirimente dell'ordine sacro. Il Lateranense III (a. 1179, can. 11) e IV (a. 1215, can. 14) codificarono la legge già esistente della continenza. A tutti i chierici (anche a quelli ammessi solo agli ordini minori) venne tolto dalle Decretali qualsiasi beneficio ecclesiastico da loro posseduto nel caso fossero passati a nozze, per impedire in tal modo che i beni ecclesiastici avessero a trasformarsi in fondi per mantenere le proprie famiglie, come era avvenuto prima della riforma gregoriana. Con l'istituzione dei seminari al tempo del concilio di Trento (can. 132, n. 1) si giunse alla preparazione di un clero praticamente celibatario, cosicché il conferimento degli ordini a persone coniugate divenne una vera rarità (can. 132, n. 3).

In Oriente la situazione fu però alquanto diversa. Quando si cercò di imporre il celibato nel concilio di Nicea, la legge fu bloccata anche per intervento di Pafnuzio, vescovo di una città dell'alta Tebaide, che nel tempo della persecuzione aveva perduto un occhio. Ecco la relazione che di tale fatto dà lo storico Socrate, il quale dice d'averlo appreso da un vecchio monaco che a sua volta da giovane lo aveva sentito al concilio di Nicea:

Capitò che i vescovi stessero per introdurre una nuova legge nella chiesa: che tutti gli ecclesiastici, cioè i vescovi stessi, i presbiteri e i diaconi, dovessero astenersi dal rapporto sessuale con le loro mogli, sposate quando essi erano ancora laici. Ma quando tutti i presenti furono interrogati su questa questione, Pafnuzio, alzandosi nel mezzo dell'assemblea dei vescovi, protestò energicamente: perché, egli disse,  il matrimonio è degno d'onore, i rapporti sessuali sono puri e non si devono causare gravi danni alla chiesa procedendo con eccessiva severità, poiché non tutti sono in grado di seguire la disciplina di una continenza così stretta e ne sarebbe potuto derivare che la castità delle loro stesse spose non fosse protetta. Inoltre egli chiamò castità l'unione del marito con la sua legittima sposa. Secondo un'antica tradizione della chiesa è sufficiente che coloro che sono già iscritti nelle liste del clero non si sposino più; ma non è possibile che alcuno sia separato da colei che ha legittimamente sposato in antecedenza, quando era ancora laico... Quindi, terminando la discussione su questo argomento, essi lasciarono alla discrezione dei singoli l'astenersi dai rapporti sessuali con le loro spose, nel caso che lo desiderassero. E questa è invero la storia di Pafnuzio.

Verso la fine del quarto secolo, un presbitero quando era scelto a vescovo, poteva mandare la propria moglie che entrava in un monastero, oppure tenersela con sé e provvedere al suo sostentamento, come fece ad esempio il vescovo Sinesio, noto poeta e filosofo,, che continuò a vivere in matrimonio anche dopo la sua consacrazione nella città natale di Tolemaide.. Nel 5° secolo sembra che nella maggior parte dei paesi orientali molti membri del clero fossero sposati: in Egitto la maggior parte era celibe; in Tessaglia, in Macedonia e in Grecia molti sacerdoti già sposati convivevano con le proprie mogli, però senza avere rapporti coniugali (come fratello e sorella) e ciò spontaneamente senza una legge ecclesiastica vincolante. La prima decisione canonica si ebbe con l'imperatore Giustiniano, che in un decreto del 528 escludeva dalla dignità episcopale tutti coloro che avessero figli o nipoti, ma non precludeva la elezione agli sposati senza figli. Nel 535 decise che tutti: suddiaconi, diaconi, presbiteri e vescovi che prendessero moglie o una concubina, sia pubblicamente sia in segreto, dovevano venire deposti e perdere tutti i privilegi ecclesiastici.

La posizione ufficiale adottata dalla cristianità orientale fu espressa nelle decisioni del concilio tenuto a Costantinopoli nel 692 che va sotto il nome di Quinisextus in Trullo o semplicemente Trullano, che dagli orientali è ritenuto un concilio ecumenico, ma dagli occidentali uno provinciale e scismatico. Esso decise che quando un prete sposato viene consacrato vescovo, il matrimonio deve terminare per mutuo consenso e la moglie entrare in convento. Ma i presbiteri, i diaconi e i suddiaconi possono continuare a vivere nel matrimonio celebrato prima della loro ordinazione, astenendosi dai rapporti coniugali solo nel giorno del loro servizio sacro, mentre negli altri giorni possono convivere come marito e moglie con la propria sposa. I preti, i diaconi e i suddiaconi che avessero congedato le loro mogli per motivi di devozione dovevano essere deposti qualora avessero perseverato nel loro comportamento. Dopo l'ordinazione al suddiaconato ogni celebrazione matrimoniale deve essere annullata e l'ecclesiastico che la tenta deposto. E' la legislazione tuttora vigente presso le chiese orientali.

In questi ultimi decenni i sacerdoti sentirono più acuto il peso del loro celibato, per cui molti ne propugnarono l'abolizione o almeno il carattere facoltativo. Siccome gli stessi vescovi erano divisi su questo ultimo punto, in quanto molti ne avrebbero voluto difendere la libera scelta, Giovanni XXIII e Paolo VI ne vietarono la discussione al Vaticano II, onde evitare una frattura nell'episcopato. Il Vaticano II, pur ammettendo che il celibato non è indissolubilmente connesso con il sacerdozio e che fu imposto per legge ecclesiastica della chiesa latina, ne ribadì l'obbligatorietà. Le speranze di molti sacerdoti in un mutamento di rotta crollarono con l'enciclica Sacerdotalis coelibatus del 24 giugno 1967, nella quale Paolo VI riaffermò decisamente l'obbligatorietà del celibato sacerdotale, suscitando in molti ambienti forti reazioni (Olanda) e vivi consensi in altri.

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b) Ragioni addotte a favore del celibato

Ecco le ragioni addotte fino ad oggi per difendere l'utilità del celibato sacerdotale:

1. Il celibato è conveniente per chi si accosta a Dio. Già i pagani avevano questa convinzione, in quanto circondavano i templi di ragazze nubili, come le vestali nel santuario della dea Vesta, alle quali in Roma si erigevano delle statue durante la loro stessa vita. A una di queste, eretta in favore di una vestale divenuta poi infedele, il senato, come si vede tuttora nel Foro Romano, decretò l'abrasione del nome. Orazio poteva quindi dire che la virginitas est primus virtutis honor . I sacerdoti ebraici durante l'esercizio del loro culto dovevano astenersi da qualsiasi contatto con le proprie mogli (Lv 22, 4). Davide per poter mangiare i pani consacrati si dichiara puro da donne:

Non ho sottomano pane comune – gli dice Abimelec – v'è solo del pane sacro a condizione però che i giovani si siano astenuti almeno dalle donne. Davide rispose: – certo, poiché la donna è proibita per noi! Come sempre, quando mi metto in via, il sesso dei giovani è in stato di purità, sebbene si tratti di un viaggio profano. Quanto più oggi costoro sono puri nel sesso (1 Sm 21, 5-6).

Anche il profeta Geremia ricevette da Jahvé il comando di non sposarsi:

Mi fu ricolta la parola di Jahvé: Non prendere moglie, non avere figli né figlie in questo luogo (Gr 16, 1).

I Qumraniti, un gruppo di Esseni nei pressi del Mar Morto, osservavano il celibato, per potersi così meglio preparare alla imminente venuta del regno messianico. Ne segue che i sacerdoti cattolici, dovendo essere di continui in contatto con Dio e fungendo da rappresentanti di Cristo, devono essere celibi.

Che valore hanno i fatti addotti? Essi vanno chiariti con l'ambiente in cui sorsero. I pagani esaltavano la verginità in quanto essi ne stimavano la forza d'animo necessaria, l'eroismo che ne è insito; lo storico Orazio la chiama appunto una « virtus», vale a dire un atto eroico. Il contatto con Dio non aveva valore per essi che attribuivano alle loro divinità gli stessi vizi umani, come appare dall'amore dei loro dèi e delle loro dee.

I sacerdoti ebraici non erano celibi; se dovevano astenersi da contatti con donne (al pari di Davide per nutrirsi di cibi sacri), ciò derivava dal fatto che l'emissione del seme li avrebbe resi legalmente impuri e quindi inabili ad esercitare azioni sacre.

Geremia si astenne dal Matrimonio, ma solo per meglio preannunziare con la sua condotta la prossima distruzione di Gerusalemme, durante la quale sarebbero stati più fortunati i celibi che non gli sposati con figli (Gr 16, 3 s; cf. Mt 24, 19; 1 Co 7, 28-31).

Gli Esseni – ma non tutti – si astenevano dal matrimonio perché si ritenevano l'accampamento di Dio, che era in guerra santa contro il male, e si preparavano alla venuta del Messia; ora chi è in guerra deve astenersi da contatti matrimoniali (cf. 2 Sm 11, 11 caso di Uria).

Anche i Padri della Chiesa, come vedemmo, insistettero sulla necessità del celibato, poiché ritenevano l'atto matrimoniale un qualcosa di indecoroso e peccaminoso che rendeva inadatto a ricevere la comunione. Ma ora, dopo che Pio XI ha eliminato con un energico tratto di penna questa esigenza di purezza corporale prima di ricevere l'eucarestia, la ragione precedente non ha più motivo di essere nemmeno per i cattolici. Tale esigenza è ancor meno valida, oggi, dopo che il Vaticano II ha esaltato la funzione sacra e spirituale dell'atto coniugale, eliminandone tutti i tabù precedenti. Per chi, poi, vuole seguire la Bibbia appare che l'atto sessuale vi è visto nel suo aspetto naturale assai positivo, del tutto in armonia con il volere divino, per nulla affatto inferiore alla verginità e quindi privo di ogni impronta peccaminosa e indecente (Ge 2). Il celibe non è superiore al coniugato, ma tanto l'uno che l'altro hanno un diverso dono divino da sviluppare e da esaltare.

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2. Imitazione di Gesù. Il Salvatore – dicono i celibatari – pur avendo lodato e santificato il matrimonio con la sua partecipazione alle nozze di Cana (Gv 2, 1 ss), pur avendone esaltata l'indissolubilità (Mt 19, 4-9), di fatto non si sposò per mostrare in tal modo la sua appartenenza al Padre (Lc 2, 49; Gv 4, 34) e alla Chiesa per la quale donò la sua vita in un supremo atto d'amore (Gv 15, 13; 1 Gv 4, 10; Ef 5, 22 s.29). Egli ha anzi esaltato coloro che si sono resi « eunuchi a motivo del regno dei cieli» (Mt 19, 10 ss). E' quindi giusto – si dice – che anche i sacerdoti a sua imitazione si astengano dalle nozze:

Preso da Cristo Gesù (Fl 3, 12) fino all'abbandono totale di sé stesso a lui, il sacerdote si configura perfettamente a Cristo, anche nell'amore con il quale l'eterno Sacerdote ha amato la Chiesa... La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l'amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio (Paolo VI, Enc. sul Celibato sacerdotale 24-6-67).

P. Loew in un corso di esercizi al Vaticano ricorda un sacerdote brasiliano di trentotto anni che in una riunione di confratelli scoprì improvvisamente di aver scelto il mestiere di prete, ma di non aver mai deciso di seguire Gesù. « Ben si comprende allora – continua il Loew – che il celibato si poneva per questo prete press'a poco negli stessi termini che per le Hostess dell'aria, le quali un tempo per contratto non avevano diritto di sposarsi e che, non senza ragione, dicevano: Io non vedo veramente perché voi mi impediate di sposarmi; ciò non riguarda che mio marito e me, se egli accetta che io voli».

Va tuttavia notato che matrimonio e celibato sono doni divini, e che Gesù, sposo della Chiesa, doveva naturalmente dedicarsi alla sua sublime missione di annunciare il regno di Dio, senza alcun'altra preoccupazione. L'elogio di Gesù per gli « eunuchi» resisi tali a motivo del regno è al passato e non al futuro, riguarda quindi un gruppo di persone che già avevano rinunciato a tutto per meglio prepararsi al regno, e quindi si riferisce a se stesso, al Battista e agli apostoli che tutto avevano lasciato per seguire Lui (Mt 19, 27). Tuttavia questo comportamento non è presentato da Gesù come un obbligo, bensì come una situazione che può essere compresa solo da coloro che ne hanno ricevuto il dono: « Non tutti comprendono tale discorso, ma solo coloro ai quali è dato... Chi può capire, capisca» (Mt 19, 11 s).

In tal caso il ragionamento di Gesù coincide con le altre sue parole che suggeriscono la necessità di preferire il Regno dei cieli a tutti gli altri beni personali: famiglia, genitori, ricchezze e la stessa vita (Mt 19, 37 ss; 19, 21-24). Esso coincide pure con quanto avrebbe poi insegnato Paolo, ossia che il celibe e la nubile hanno più tempo da consacrare al Signore (1 Co 7, 32 ss); così capirono gli apostoli che lasciarono la propria famiglia per seguire Gesù, essendo impossibile compiere tale missione stando legati alla propria moglie, anche se poi la ripresero e la condussero con loro nell'opera missionaria.

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3. L'esempio dei dodici. E' un fatto che i Dodici tutto abbandonarono per seguire il Maestro, come in modo assai chiaro attestò Pietro con le sue parole: «Noi abbiamo abbandonato tutto per seguirti » (Mt 19, 27). Tra questo «tutto » è inclusa anche la propria moglie, ricordata espressamente da Luca nel suo vangelo:

In verità vi dico, non vi è alcuno che abbia lasciato casa, sposa, fratelli, genitori o figli, per il regno di Dio e non riceva assai di più in questo mondo e nel mondo a venire la vita eterna.

In questa circostanza non si promulga però il celibato, ma solo il fatto che il lavoro per il « regno di Dio» deve passare in prima linea, al di sopra degli stessi vincoli familiari (cf. Mt 10, 37). per seguire Gesù nei suoi continui spostamenti in Palestina, occorreva che gli apostoli abbandonassero sia pure temporaneamente la stessa famiglia. Che l'abbandono fosse temporaneo risulta dal fatto che i Dodici ripresero poi la propria moglie con sé, come risulta dall'affermazione paolina che essi – Pietro compreso – conducevano seco una sorella-moglie (adelfé guné). Sarebbe ridicolo tradurre queste due parole con « sorella-donna », poiché è evidente che una « sorella » in fede non può essere altro che una donna. La frase può quindi solo voler dire che la sorella in questione era la rispettiva « moglie» dell'apostolo. Paolo, che non si sposò, vorrebbe che tutti gli uomini (e non solo un gruppo speciale di credenti) fossero celibi come lui, ma onestamente riconosce che ciò non è possibile in quanto ognuno possiede il suo dono, uno in un modo e l'altro in un altro, per cui è meglio « sposarsi che ardere dalla brama» (1 Co 7, 7-9).

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4. Maggior libertà nel campo di lavoro. E' evidente che il celibe ha più tempo da dedicare al Signore, non avendo la famiglia a cui attendere:

Chi non è ammogliato ha cura delle cose del Signore, del come potrebbe piacere al Signore, ma colui che è ammogliato, ha cura delle cose del mondo, del come potrebbe piacere alla moglie... La non maritata ha cura delle cose del Signore, per essere santa di corpo e di spirito; ma la maritata ha cura delle cose del mondo, del come potrebbe piacere al marito... Questo dico per l'utile vostro... affinché possiate consacrarvi al Signore senza distrazioni (1 Co 7, 32-35).

Agostino scrisse ad alcune vergini: «Poiché avete rinunciato a sposare un figlio degli uomini, amate con tutto il vostro cuore il più bello dei figli degli uomini. Voi ne avete tutto l'agio, poiché il vostro cuore è libero dal vincolo del matrimonio» (De Sancta virginitate 55). Fu forse per essere più libero da preoccupazioni familiari che Mosè rimandò moglie e figli al suocero Jetro, prima di presentarsi al Faraone per liberare il suo popolo (Es 18, 2-44).

E' un fatto che talvolta il dovere spirituale impone dei sacrifici alla propria famiglia, ma sono sacrifici a cui si sottopongono anche medici, capi di stato, lavoratori che vanno a cercare lavoro lungi dalla propria famiglia. Dovrebbero tutti per questo rimanere celibi? I suggerimenti paolini, che riguardavano tanti cristiani e non soltanto un gruppo di essi, sono motivati anche dalla previsione di una imminente calamità nella quale è meglio essere privi di figli che essere padri di famiglia (1 Co 7, 28 ss).

Va poi notato che l'esistenza di una famiglia può essere di esempio agli altri, può ottenere dei collaboratori nel lavoro missionario, in quanto dove non arriva l'uomo può giungere l'intuizione della donna, e la moglie accompagnando il marito in certe visite a donne può eliminare la fonte di tanti pettegolezzi ambigui.

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5. Testimonianza sacerdotale. «Il celibato come testimonianza – si dice – è particolarmente necessario oggi, quando l'ondata del pansessualismo inonda il mondo e il sesso diventa l'idolo al quale si sacrifica la giovinezza, il vero amore, la gioia della pura coscienza e la vita stessa. L'egoismo del sesso è quello di sottovalutare di più l'uomo; uccide molti valori nell'umanità e infine può causare la morte di molti popoli. Il sale non deve diventare insipido ». Paolo VI, parlando ai parroci di Roma il 9 febbraio 1970, osservava: «La presentazione della vita sacerdotale, vissuta nella pienezza dell'immolazione, col sacro celibato ch'essa comporta, all'unica dilezione di Gesù e alla esclusiva sua sequela nel servizio pastorale del popolo di Dio, esercita maggiore attrattiva ad abbracciare lo stato ecclesiastico, che non una formula più naturale e apparentemente più facile ». E in un recente messaggio per la giornata mondiale delle vocazioni l' 8 aprile 1970, affermava:

Non è rendendo più facile il sacerdozio – liberandolo, per esempio, da ciò che la chiesa latina considera da secoli suo sommo onore: il celibato – che si renderà più desiderato l'accesso al sacerdozio stesso. I giovani si sentiranno attirati ancor meno da un ideale di vita sacerdotale meno generosa. Del resto, laddove la preparazione al sacerdozio si svolge in un'atmosfera satura di preghiera, di carità, di mortificazione, il problema del celibato neppure si pone.

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6. Efficacia sacerdotale . Il celibato – dicono ancora i celibatari – rende più efficace l'attività dei sacerdoti in quanto li rende un esempio vivo di forza d'animo, di dominio e di autocontrollo in un ambiente dove i piaceri carnali sono dominanti.

Tuttavia ciò rientra nel dono di Dio e non può essere attuato senza di esso, per cui sembra illogico ricollegarlo a una professione quando ignoriamo se tutti gli adepti ne siano provvisti o meno. Da ciò deriva spesso l'infedeltà di molti, che accolsero la vocazione sacerdotale nell'entusiasmo della gioventù, per esperimentarne poi la difficoltà al momento della prova.

La recente Ratio fundamentalis per la formazione dei seminaristi, emanata dalla Sacra Congregazione per l'Educazione cattolica, ha di certo molti dati positivi in quanto esige nella formazione di questi giovani maggior apertura verso il mondo e suggerisce di impartire loro una « adeguata educazione sessuale». Gli educatori devono sforzarsi di presentare ai giovani il celibato «come una scelta pienamente libera, fatta con la piena coscienza della gravità che l'obbligo comporta». Il documento, più che sull'aspetto negativo di evitare il peccato, insiste sul dovere di formare i seminaristi «a un casto amore... che permetta loro di superare la solitudine del cuore».

Ma se il celibato è un dono divino non concesso a tutti, non basta più – come raccomanda il documento – «impetrarlo da Dio come un dono». Se è dono, la sua concessione dipende da Dio e non dal richiedente; la preghiera – come documenta l'esperienza di tanti sacerdoti – non basta per ottenerlo. E' Dio che lo distribuisce secondo il suo beneplacito e la sua imperscrutabile volontà.

E' interessante leggere il dialogo tra Liselotte Görres e il Card. Höffner. « Dove attinge il vescovo il suo diritto di esigere da colui che si sente chiamato al sacerdozio, anche il carisma del celibato?», chiede l'intervistatrice. E il cardinale risponde: « Dall'autocoscienza della chiesa. La chiesa confida che il Signore conceda sufficienti vocazioni al sacerdozio connesso a un esercizio ministeriale celibatario. Questa è oggi l'autocoscienza della chiesa». (Leo Waltermann, Ueber den Zölibat der Priester. Nieder schrift einer Diskussion, Köln 1970, p. 52). «Nell'argomentazione del card. Höffner, la prova biblica tradizionale è sostituita dal concetto filosofico di 'autocoscienza' e naturalmente per 'chiesa' s'intende semplicemente e soltanto la gerarchia ecclesiastica. Non si tiene in nessun conto, tuttavia, che nemmeno l'atteggiamento uniforme dell'episcopato mondiale, su una questione che non tocchi affatto la fede della chiesa, può essere considerato 'autocoscienza ecclesiale'. Con indifferenza qui si manipola il concetto stesso di chiesa» (O. Loretz, Chiesa e scienze bibliche in «Concilium», 1971/10 pp. 95-105, citazione a p. 104).

La moderna tendenza verso il celibato opzionale era già stata proposta dal Panormitano (Nicolò de' tedeschi m. 1453), assai eminente tra gli interpreti del diritto canonico, che nel commento a un decretale di Gregorio IX, riteneva che l'impegno per il celibato dovrebbe essere lasciato alla libera scelta degli ordinati.

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7. Preannunzio profetico . Molti teologi cattolici affermano poi che il celibato preannunzia profeticamente la vita ultraterrena , nella quale il matrimonio cesserà d'esistere perché tutti dimoreranno in cielo come angeli di Dio (Mt 22, 30). Didimo di Alessandria scriveva che « la verginità è una cosa divina » e Giovanni Damasceno che essa è « un modo di vita angelico, prerogativa di ogni natura incorporea ».

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5) Alcune valutazioni finali

a) Non minimizzare il celibato

Penso che il celibato, spesso minimizzato tra i protestanti, meriti una giusta rivalutazione, non per farne uno stato superiore a quello matrimoniale, ma per renderlo una situazione vitale, difficile ma pur possibile, al cristiano che ne abbia il dono. Ci ne manca, si sposi. Quindi celibato facoltativo e non obbligatorio, mai vincolato a una speciale categoria di credenti. Esso, come in genere ogni altro voto ora imposto ai religiosi, deve provenire da una spinta interna, avere un tempo limitato, estendersi a tutti i cristiani ed essere frutto di maturità spirituale.

Il Fr. Schültz al concilio pastorale olandese asseriva: «Nella loro volontà di raggiungere l'uomo, alcuni non accolgono più l'appello evangelico al celibato. Lo mettono in questione in nome di un umanesimo integrale, come se non fosse possibile una piena umanità nell'appello evangelico al celibato vissuto a causa di Cristo e del Vangelo, per essere fratello di tutti. Non sono interamente uomini, sono meno umani coloro che attraverso il celibato vissuto per Cristo e per lui solo, sono chiamati a una apertura senza limiti, a una comprensione estremamente umana di ciascuna situazione, di ogni prossimo?» (Documentazione cattolica 15-2-70).

Infatti la Bibbia, pur esaltando il celibato, non lo presenta mai come un dono legato a una determinata categoria di cristiani, ma come qualcosa concesso da Dio a singoli credenti. A tutti Paolo ricorda però che è meglio sposarsi, anziché ardere per la bramosia dei sensi. Stato matrimoniale e stato celibatario non sono due vie, delle quali una sia superiore all'altra, bensì due situazioni, buone entrambe e possibili entrambe per uno speciale dono elargito da Dio.

Tutti i cristiani sono infatti al medesimo modo vicino a Dio, poiché tutti sono sacerdoti nel medesimo grado; l'unica differenza sta nel fatto che qualcuno più di altri si dedica, secondo la vocazione avuta, al servizio dei fratelli. L'unione con Dio è qualcosa di intimo che spetta a tutti i cristiani allo stesso modo, per cui non vi sono uffici che più intimamente vincolino a Dio, ma solo una maggiore o minore uniformità del nostro volere alla volontà divina. Di per sé il vescovo non è più unito a Dio, ma lo è solo colui che può ripetere, con maggiore verità, le parole paoline: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Ga 2, 20).

Secondo me ha centrato bene il problema Ms. Delleport, rettore del seminario europeo di Maastricht, quando nel simposio di Coira, tra l'altro ha detto:

La motivazione teologica del celibato non appare del tutto soddisfacente... Tutti apprezzano il celibato come un carisma, come segno essenziale della vocazione escatologica della Chiesa e condizione di piena disponibilità per il ministero. Alcuni (vescovi) sostengono però che, lasciando libero il sacerdote di abbracciare o meno il celibato, si conferirebbe a questo tutta la sua profondità e ricchezza... Se il celibato è veramente un carisma con carattere funzionale, i giovani dovrebbero essere liberi di abbracciarlo. Solo così si resterebbe aderenti alla realtà senza pretendere di conservare determinate strutture non del tutto valide.

Possiamo quindi concludere che non sarà certo la proibizione papale che eliminerà l'attuale fermento anticelibatario: «Si è mai potuto impedire ad una caldaia di esplodere, semplicemente avvitandone meglio il coperchio? ».

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b) Vescovi e celibato

Sia ben chiaro che i celibi possono lavorare seriamente per la chiesa e la salvezza delle persone come evangelisti, al pari di Tito e Timoteo, e prodigarsi in tutto il tempo loro disponibile alla conversione della gente. Ma possono i celibi divenire «vescovi o anziani»? Mi sembra che sia più sicuro concludere per la negatività, in quanto Paolo esige che il vescovo sia sposato, sia fedele alla propria moglie, abbia dei figli cresciuti nella fede, perché utilizzando la propria esperienza familiare, possa meglio dirigere la chiesa di Dio (1 Ti 3, 1 ss). Non è indispensabile, secondo me, che abbia parecchi figli – se ne ha più di uno tanto meglio – ma che ne abbia almeno uno. Il plurale « figli» è un plurale di categoria per dire che non sia privo di figli; Paolo più che sul numero insiste sulla loro qualità «di credenti sottomessi» al padre (Tt 1, 6).

La ragione sta nel fatto che l'aver educato bene i propri figli è una garanzia perché i cristiani scelgano tale padre di famiglia a guida della chiesa, che è pur essa un'altra famiglia spirituale da dirigersi giustamente. Chi sa dirigere bene la propria famiglia naturale presenta una certa garanzia di saper guidare meglio anche l'assemblea di Dio (1 Ti 3, 4 s). Per tale motivo il vescovo era pure chiamato «anziano», parola che allora significava un padre di famiglia maturo negli anni. Per tale motivo Gesù che è pure chiamato nella Bibbia pastore, vescovo e profeta non è mai detto «anziano», in quanto non raggiunse l'età matura e rimase celibe. Possiamo quindi concludere che il gruppo dei vescovi, ai quali è affidata una comunità locale, deve essere sposato, onde poter utilizzare a vantaggio della famiglia ecclesiale l'esperienza procuratasi nella direzione della propria famiglia terrena. Quindi il celibato, suggerito per gli altri cristiani, non è adatto ai vescovi, che devono essere i padri della famiglia di Dio.

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