DAL CRISTIANESIMO.....
      AL CATTOLICESIMO
di Fausto Salvoni

CAPITOLO PRIMO
LA CHIESA E' IL NUOVO POPOLO DI DIO


Indice pagina

1) Il popolo nella chiesa di Dio durante il corso dei secoli
a) Il laicato nei primi secoli della chiesa
b) Storia del laicato nel Medioevo
c) Dal protestantesimo all'epoca moderna
1) Reazione protestante
2) Innovazione moderna
d) Doveri dei laici
2) Il popolo di Dio nella Bibbia


1) Il popolo nella chiesa di Dio durante il corso dei secoli

a) Il laicato nei primi secoli della chiesa

Nel periodo subapostolico la chiesa appariva una «comunione di fratelli », i quali avevano però diversi compiti da svolgere come si ha in ogni corpo (cf. 1 Co 12, 12-31).

1. Tutto il popolo partecipava all'elezione dei suoi vescovi o del suo vescovo, quando all'inizio del 2° secolo cominciò a realizzarsi l'episcopato monarchico. La Didaché comandava: « Costituitevi dunque vescovi e diaconi degni del Signore».

Ippolito Romano nella sua Tradizione apostolica dichiarava: « Si ordini vescovo colui che è stato eletto da tutto il popolo ». Cipriano, il teologo dell'episcopato, in occasione di una polemica locale, così scriveva: «Si ordini all'episcopato che viene scelto dal popolo... La comunità ha diritto di scegliersi i sacerdoti (e i vescovi) degni e di rifiutare gli indegni ». Anzi, secondo Cipriano, sarebbe stato di origine divina l'obbligo di eleggere il vescovo «in presenza del popolo, alla vista di tutti, affinché sia approvato da tutti come degno e idoneo per giudizio e testimonianza pubblica ».

Anche secondo Origene «per ordinare un vescovo si richiede la presenza del popolo, affinché tutti lo sappiano e affinché siano sicuri di aver scelto al sacerdozio il migliore del popolo, il più dotto, il più santo, che tutti supera con le sue virtù, e stia in presenza del popolo, affinché non vi sia luogo a resistenza e ad opposizione da parte di qualcuno».

In Italia la modalità per l'elezione dei vescovi mostra l'importanza che vi aveva il laicato. Clemente Romano dà questa norma per l'elezione dei vescovi presentandola addirittura come apostolica.

Coloro che furono stabiliti dagli apostoli, oppure in seguito da altri uomini distinti con l'approvazione di tutta la Chiesa, che hanno servito in modo irreprensibile il gregge di Cristo con umiltà, calma e senza volgarità, e che hanno ottenuto una buona testimonianza da parte di tutti e per molto, non crediamo che sia giusto scacciarli dal ministero (1 Corinzi 44, 3-5).

Nella più lunga lettera scritta da Ambrogio, quella ai cristiani di Vercelli (Ep 63), il vescovo milanese asseriva che l'elezione canonica di un vescovo esige due parti attive: i fedeli della città e i vescovi della provincia. O erano i vescovi a «ratificare» l'elezione del popolo o era il popolo ad approvare la proposta dei vescovi. Una regola, confermata anche da leone I negli anni 458-459, esigeva che il vescovo fosse scelto dal clero, richiesto dal popolo e consacrato dagli altri vescovi della provincia dopo il parere positivo del metropolita. Nel 366 a Roma le diatribe popolari per la scelta del vescovo sfociarono addirittura nel sangue e pare che il numero dei morti superasse il centinaio. Ancora nel 5° secolo a Roma Celestino I (+432) scriveva: « A nessuno si dia un vescovo che non vuole; si esiga il desiderio e il consenso del clero e del popolo», il che fu ribadito poco dopo da Leone M. con le sue note parole: « Colui che deve presiedere a tutti, sia scelto da tutti ».La stessa domanda tuttora usata nella elezione papale: « Accetti le elezione che noi abbiamo fatta? », mostra come all'origine fosse l'assemblea a scegliersi il proprio vescovo.

La elezione di un vescovo è un fatto eminente nella vita della chiesa, un momento privilegiato in cui la comunità si esprime nella sua unità e nella sua diversità e testimonia perciò dello Spirito di cui è depositaria (...), (è) un fatto che, per gli elementi che la costituiscono, lascia intravvedere come sfondo una preminenza della concezione carismatica su quella autoritativa. (In Cipriano e Origene) la chiesa è vista come l'assemblea del popolo di Dio (...). Il popolo è chiamato de divina auctoritate ad essere testimone col clero dell'istituzione del sommo sacerdote (...). Da questo momento in avanti assistiamo a un lento scadere di questo tema da un piano più spirituale ad uno più giuridico. Le consacrazioni episcopali saranno d'ora in poi oggetto di discussioni in cui saranno più manifeste preoccupazioni di carattere giuridico o disciplinare.

2. Il popolo di una chiesa poteva criticare e giudicare i suoi ministri, quando non agivano rettamente: «Ognuno che venga nel nome del Signore sia accolto, poi dopo averlo approvato, lo conoscerete, perché avete capacità di distinguere la destra dalla sinistra ».

L'assemblea dei credenti poteva anche rimuovere gli indegni, come appare dal fatto che Clemente Romano non rimprovera quei di Corinto per aver rimosso i vescovi, ma per aver tolto da tale compito persone « degne » della massima fiducia.

Anche dopo la susseguente esaltazione del vescovo, la comunità conservò a lungo coscienza della propria importanza. Eusebio riporta una lettera di Dionigi di Corinto: «scritta da lui e dalla chiesa da lui governata a Sisto e alla chiesa di Roma ». Il vescovo è solo il presidente della « celebrazione» comunitaria, per cui Cipriano scrive al suo presbitero di non voler « fare nulla privatamente senza il vostro consiglio e senza il consenso della chiesa». I problemi della chiesa – egli dice – «devono essere trattati non solo con i miei colleghi, ma con tutto il popolo ». Per Cipriano la chiesa locale è « un popolo adunato con il sacerdote, un gregge aderente al suo pastore. Devi quindi sapere che il vescovo è nella chiesa e la chiesa nel vescovo ».

Agostino usa espressioni fortemente comunitarie: «Per voi sono vescovo, ma con voi sono cristiano». « I cristiani sono per noi, i vescovi per voi »; i cristiani sono « servi » e « discepoli », il vescovo « conservo » e « condiscepolo ». Egli discute i problemi più importanti con i suoi fratelli affinché anch'essi siano consapevoli delle decisioni da prendere.

3. Sino al 4° secolo i laici partecipavano alla amministrazione dei beni ecclesiastici, come appare dalle chiese africane nelle quali si conservarono più a lungo le antiche tradizioni: quivi i seniores laici scelti dalla comunità cristiana curavano le proprietà, determinavano l'entità delle rendite e sorvegliavano la manutenzione dei templi e degli edifici ecclesiastici. Ai laici si richiese anche il finanziamento dei nuovi templi sui possedimenti dei «signori » (potentiores), ma verso la fine del 4° secolo, per impedire che costoro si ritenessero padroni indiscussi delle costruzioni compiute sulla loro proprietà e si scegliessero un « curato» tra la gente del contado, i concili rivendicarono l'autorità del vescovo, al quale soltanto spettava la nomina del presbitero incaricato.

4. La storia dottrinale dei secoli 4° e 5° mostra come anche i laici si appassionassero alle dispute cristologiche. Ario ebbe per primo l'idea di divulgare la sua teologia con canzoni popolari, che viaggiatori, marinai e scaricatori del porto di Alessandria canticchiavano durante il loro lavoro; alle terme e dal droghiere si discuteva se il Figlio fosse inferiore al Padre o uguale a lui. Fu specialmente in Oriente – ma anche a Milano al tempo di Ambrogio – che i laici applicarono al cristianesimo la loro passione dialettica. Tali discussioni degenerarono talora, specialmente nelle grandi città, in sommosse popolari, anche d'intonazione politica. Tuttavia già da quel tempo il clero non concesse ai laici una responsabilità giuridica effettiva nei concili ecumenici o nei sinodi provinciali. La determinazione delle regole della fede divenne monopolio del vescovo. Siccome tutte le responsabilità spirituali passarono gradatamente in mano al clero, ne seguì che i laici migliori per dedicarsi alla vita dello spirito, lasciavano ad altri i problemi temporali e si ritiravano dal mondo scegliendo una vita di povertà, i ubbidienza e di preghiera. Così entro i due gruppi opposti di laici e di clero, mosso questo solo da amore per le realtà celesti, si introdusse ben presto una élite di laici: monaci, vergini e vedove, che furono gerarchizzati e posti al di sopra dei semplici fedeli.

Nacque in tal modo l'ordine delle vedove, incaricate di preparare al battesimo, di curare gli ammalati, di servire i poveri, di pregare per la comunità che dava loro da vivere.

5. Il popolo partecipava pure ai sinodi e alle assemblee pubbliche. Durante una disputa di Origene con un certo Candido era presente anche il popolo; durante un sinodo dell'Arabia tutti i fedeli ascoltarono Origene. In una sua discussione con Eraclio egli parlò dinanzi al suo popolo e alla presenza di esso i vescovi firmarono gli atti conciliari.

Poggiano sull'Apocalisse, Nipote aveva sostenuto che alla fine del mondo vi sarebbe stato un regno millenario materiale ed edonistico, suscitando in tal modo un buon numero di seguaci. Dionigi di Alessandria, giunto ad Arsinoe, decise di discutere tale problema:

Trovandomi ad Arsinoe – narra Dionigi – convocai i presbiteri, i dottori e dei fratelli che sono nei villaggi. In presenza di tutti i fratelli che lo volevano, proposi di fare pubblicamente l'esame dell'opera (scritta da Nipote). Quando mi ebbero portato il libro, come un'arma e una muraglia inespugnabile, io sedetti con loro per tre giorni di seguito, da mattino a sera, e mi sforzai di correggere ciò che vi stava scritto. Ammirai molto l'equilibrio, l'amore per la verità, la facilità a seguire il ragionamento, l'intelligenza dei fratelli, quando ponevano con ordine e moderazione le loro questioni, le difficoltà e i loro assensi.

Ma più tardi, ai pochi fedeli che assistevano alle assise conciliari come puri testimoni, non fu più permesso di parlare e si lasciò loro unicamente il privilegio di acclamare con il loro Amen le decisioni episcopali già complete.

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b) Storia del laicato nel Medioevo

Nel Medioevo la società era concepita come un'entità giuridica in forma piramidale, sullo stile dell'impero romano con a capo l'imperatore e l'urbe (Roma). Solo i nobili avevano importanza, mentre gli altri servivano ai primi come schiavi, soldati, contadini o come membri delle varie corporazioni: fornai, tessitori od altro.

Gli schiavi che non avevano libertà individuale, non potevano unirsi nemmeno in associazioni; legati com'erano al patrimonio, si vendevano con i campi e le case che occupavano. I sudditi non avevano diritto di possedere idee proprie, ma erano obbligati a seguire le stesse idee religiose del principe, secondo l'assurdo assioma cuius regio eius et religio , stabilito a Münster nel 1648 dopo la guerra dei Trent'anni, per il quale in ogni regione doveva regnare soltanto la religione del sovrano. La conversione del capo portava seco la conversione di tutto il suo popolo: quando la regina Teodolinda a Agilulfo, re dei Longobardi, si fecero cristiani, tale divenne anche tutto il popolo.

Una simile mentalità entrò pure nella chiesa, e fece ritenere essenziali ad essa solo i vescovi e i sacerdoti, mentre i semplici credenti vennero ridotti a persone sottoposte in tutto ai primi, pronte solo a ricevere l'indirizzo dei «principi della chiesa». Un passo paolino servì di prova ai vescovi per spiegare che il fanciullo (parvulus) era il popolo e i «tutori» erano i re e i sacerdoti.

Nell'elezione episcopale solo la forma ricordava la partecipazione del clero e del popolo, mentre la volontà regale era decisiva. La presenza del popolo si riduceva all'affermazione del diritto di non sentirsi assolutamente costretti ad accettare un capo indesiderato.

La chiesa divenne così un enorme impero, con Roma al vertice, la cui città ricevette un nuovo fulgore ad opera del papa, successori dei principi degli apostoli Pietro e Paolo, come predicava a suo tempo Leone Magno. Anche l'insegnamento religioso, che prima era in gran parte in mano ai laici, andò gradatamente divenendo monopolio del clero.

E' vero che Nicolò I, scrivendo nell' 865 all'imperatore Michele, pur sostenendo un netto dualismo di poteri tra Chiesa e Stato, ammise di fatto la possibilità di inviare ai concili anche i laici:

Dove avete letto che i vostri predecessori nell'impero siano intervenuti nei concili, se non forse in quelli in cui si trattò di problemi riguardanti la fede, che, perciò, appartengono non solo ai chierici, ma anche ai laici e quindi a tutti i cristiani.

Ma usualmente i laici nella loro totalità erano considerati una massa ignorante, priva di qualsiasi voce in capitolo.

Nei secoli 11° e 12° rifiorì un'intensa attività laicale, in reazione alla taciturnità del clero, di solito molto ignorante e corrotto. Sorsero così i movimenti Valdesi e Francescani (all'inizio prevalentemente laici) che volevano tornare all'ideale evangelico e diffondere una più intima spiritualità. Fu il tempo nel quale molti laici venivano invitati a entrare nei monasteri come « conversi », per trascorrervi una vita tranquilla d'umiltà, di lavoro e di preghiera.

La riforma di Gregorio VII fu affiancata da movimenti laici, come quello della «pataria» milanese, che lo sostenne, con armi in pugno quand'era necessario, nella sua lotta contro il clero simoniaco e sposato. Tutto il popolo sotto la spinta del papa e dei monaci, insorse e reagì in massa contro il clero « licenzioso ». Sulla guida del grande canonista Graziano e di un rescritto di Innocenzo III, il glossatore ordinario delle Decretali di Gregorio IX affermava che ai semplici fedeli non è permesso partecipare ai concili, a meno che non vi siano utilmente invitati quando vi si agitino problemi di fede, questioni matrimoniali o decisioni che direttamente li riguardino.

Ma nonostante ciò i laici erano ritenuti una massa manovrabile dai vescovi, la cui funzione consisteva nell'ubbidire ciecamente alla gerarchia, come le pecore ubbidiscono ai loro pastori. «Le pecore sono animali privi di ragione, e perciò non possono avere parte alcuna nel governo della chiesa» diceva il generale dei gesuiti Lainer al concilio di Trento. I laici venivano chiamati « idioti » (idiòtai), vale a dire ignoranti e illetterati; oppure « mondani » (biòtikoi) in quanto legati al mondo. « L'antichità – affermava Bonifacio VIII – mostra all'evidenza che i laici furono frequentemente opposti al clero »

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c) Dal protestantesimo all'epoca moderna

1. Reazione protestante . La reazione protestante nel 16° secolo andò discoprendo nei laici il medesimo sacerdozio esistente nei vescovi e di conseguenza esaltò la dignità personale dei singoli cristiani, come risulta da inequivocabili asserzioni di Lutero, scritte nel 1523:

Hanno avuto... la trovata di chiamare ecclesiastici i papi, i vescovi, i preti e gli abitatori dei conventi, laici invece i principi, i signori, i commercianti e i contadini.
Ma i cristiani appartengono tutti allo stato ecclesiastico, né esiste tra loro differenza alcuna, se non quella dell'ufficio proprio di ciascuno. Infatti tutti siamo consacrati dal Battesimo...
Nessuno può negare che ogni cristiano possieda la parola di Dio e che da Dio sia ammaestrato e unto sacerdote... Se hanno la parola di Dio e da lui sono consacrati, hanno pure il dovere di confessare questa parola, d'insegnarla e diffonderla.

Ma in campo cattolico, per conservare la posizione autoritaria acquistata dai vescovi nel corso dei secoli, si continuò ad insegnare che i « laici» devono accogliere la dottrina cattolica dai «vescovi » i quali sono i soli «competenti » (periti) in campo religioso e per questo sono insigniti del carisma dello Spirito Santo. Il culto si tenne in latino, anche se era conosciuto quasi solo dai sacerdoti, senza curarsi del fatto che esso era incomprensibile alla maggioranza dei laici. A giustificazione di tale atteggiamento si andava spulciando la Bibbia per raccogliervi quei passi che parlavano di ubbidienza e di sottomissione ai vescovi: « Siate ubbidienti ai vostri conduttori e siate loro sottomessi, poiché essi vigilano per le vostre persone, come coloro che ne dovranno rendere conto » (Eb 13, 17). E con un passaggio indebito applicavano ai vescovi e ai preti frasi che Gesù aveva rivolto ai suoi settanta o settantadue discepoli nell'inviarli in una particolare missione temporanea: « Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me, e chi sprezza me sprezza il Padre che mi ha mandato» (Lc 10, 16).

Siccome tale studio era compiuto ad usum delphini , si dimenticavano le altre espressioni bibliche che presentano la Chiesa come il «popolo di Dio », come la comunità dei credenti, come fratelli sotto la guida di un unico pastore (Mt 23, 7 ss).

Si giunse in tal modo all'affermazione del Card. Umberto di Silva Candida (m. 1061): « I laici dispongano e provvedano ai loro propri affari secolari, mentre il clero attenda ai suoi propri, vale a dire a quelli ecclesiastici ».

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2. Innovazione moderna. In questi ultimi due secoli un'enorme trasformazione si realizzava nella società: ogni essere umano andò acquistando una sua personalità e dignità che nessun altro uomo può annientare. La massa divenne una forza potente con la quale bisognava discutere e che non è riducibile a un puro mezzo strumentale per il benessere di pochi. Le masse operai acquistarono una loro propria forza d'urto, con la quale governo e potenti dovevano trattare e discutere.

In un primo tempo i vescovi cercarono di opporsi a tali idee e Pio XII continuò a presentare la Chiesa come una società gerarchica, i cui dirigenti hanno il potere di dettare leggi, di punire i trasgressori con la scomunica o con altre sanzioni canoniche. Tuttavia le masse, divenute ormai indifferenti alle scomuniche, vedendosi trattate come gente ignorante destinata a subire il volere di chi comanda, disertarono il culto, ridottosi anche presso molti fedeli a un fenomeno puramente tradizionale, e divennero del tutto indifferenti al fattore religioso, salvo rare eccezioni, come il laicato francescano, i Knights of Columbus «Cavalieri di Colombo» in America, l'Opus Dei nel mondo, i Focolarini e le ACLI in Italia.

Si giunse così da parte dei teologi a un vero capovolgimento di idee, con la rivalutazione del «popolo di Dio » nella Chiesa, in accordo con il valore sempre più forte della massa nelle società civili odierne. All'antico Israele subentrò con il Cristo il nuovo «popolo di Dio », senza del quale non vi può essere la Chiesa, mentre prima si diceva che essa non può sussistere « senza il vescovo» (Ignazio).

La chiesa non si può considerare realmente costituita, non vive in maniera piena, non è segno perfetto della presenza di Cristo tra gli uomini, se alla gerarchia non si affianca e non collabora un laicato autenticamente e consapevolmente cattolico. Senza la presenza dinamica dei laici, infatti, il Vangelo non può penetrare bene addentro nella mentalità, nel costume e nell'attività di un popolo.

I laici sono ora posti su di un piano di vera uguaglianza « riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo». Essi non sono più presentati come sudditi, come dei « carnales », in quanto « dopo la loro incorporazione a Cristo con il Battesimo sono costituiti Popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, e per la parte che loro compete, compiono nella chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano ».

La Chiesa così concepita «ha per capo Cristo... ha per condizione la libertà e la dignità dei figli di Dio, nei cuori dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati ». I fedeli, il cui «sensus fidei » è infallibile, sono esortati a manifestare

le loro necessità e i loro desideri, con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza, la competenza e il prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa... con verità, fortezza e prudenza, con riverenza e carità... I pastori riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e campo di agire, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di loro iniziativa...

La religione professata dalla Chiesa costituisce una comunità, una comunione di pensiero e di costume, genera un popolo, il popolo di Dio (Oss. Rom. 11-11-71).

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d) Doveri dei laici

Duplice è la missione dei laici, corrispondente al fatto che essi appartengono tanto alla Chiesa quanto alla società civile.

I laici appartengono insieme al popolo di Dio (Chiesa) e alla società civile. Alla prima nazione, e cioè alla società civile appartengono in forza della nascita, dell'educazione ricevuta, del patrimonio culturale che portano con sé, delle relazioni sociali che mantengono, della professione che esercitano, la quale contribuisce allo sviluppo della stessa società. Al popolo di Dio, e cioè alla Chiesa e al Cristo, essi appartengono attraverso la fede e il battesimo che hanno innestato in loro una nuova vita, ben più sublime della terrena; la vita soprannaturale della grazia li ha rinnovati completamente unendoli a Cristo e, per mezzo di lui, a Dio.

1. I laici nel mondo, che è propriamente il loro campo d'azione, devono parlare di Dio ad altri uomini.

Noi avvertiamo – diceva Paolo VI – l'enorme difficoltà che oggi la gente incontra nel parlare di Dio. Il senso religioso oggi si è come affievolito, spento, svanito. Il fatto è grave, estremamente complesso, anche se si presenta in pratica così semplice, e invade le masse, trova propaganda e adesione nella cultura e nel costume, arriva dappertutto come fosse una conquista del pensiero e del progresso; sembra caratterizzare l'epoca nuova, senza religione, senza fede, senza Dio, come se l'umanità fosse emancipata da una condizione superflua e oppressiva. Ecco allora la necessità di una terapia che rialzi l'uomo: il silenzio, l'amicizia, l'amore domestico, il contatto con la natura, l'esercizio del pensiero e del bene. E soprattutto la preghiera.
I laici con l'esempio e la parola devono quindi presentarsi come i profeti di un mondo invisibile ma reale, quello della vita imperitura donataci da Cristo. Così anche il mondo scristianizzato potrà nuovamente venire riconsacrato a Dio.

Nella chiesa, poi, i laici devono supplire al clero dov'esso è insufficiente, « mettendosi al servizio di Cristo e della Chiesa », come maestri di religione e come strumenti di opere caritatevoli. A Modena è sorta nel villaggio artigiano la parrocchia di S. Giuseppe, retta da due sacerdoti e da un laico, ex seminarista, che lavorando come operai, dedica il suo tempo libero al lavoro parrocchiale.

Con la propria esperienza i laici possono essere dei validi collaboratori dei sacerdoti anche mediante i loro suggerimenti: ecco perciò sorgere i consigli parrocchiali, episcopali e, al di sopra di tutti, il consiglio generale dei laici per affiancare lo stesso papa.

Naturalmente, per ben adempiere tale missione, i laici devono prepararsi con una vita interiore profonda, in continua comunione con il Cristo.

Ciascuno di voi – fisse Paolo VI – deve poter dire: Vivo non più io, ma vive in me il Cristo (Ga 2, 20). Questo senso di comunione interiore con Cristo, di convivenza personale con lui, d'inabitazione di Lui nella nostra anima (Ef 3, 17) dovrebbe ardere sempre come una lampada accesa dentro di noi, dovrebbe modificare assai quella coscienza di noi stessi che chiamano la nostra personalità, senza per questo inceppare la nostra spontaneità, né esprimersi in bigotteria.

Solo il laico che attuerà in pieno il suggerimento giovanneo: « Chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio in lui », potrà collaborare con il clero nella riforma della Chiesa.

2. Ma non basta la pura preparazione spirituale interiore; occorre che il laico conosca i problemi teologici che deve trattare, di qui i vari corsi di teologia per laici da frequentarsi personalmente o da seguire per corrispondenza, i quali permetteranno loro di insegnare nelle scuole, lasciando liberi i sacerdoti per altri impegni.

Se davvero il laicato... vorrà rispondere alla vocazione propria di tutto il popolo di Dio, la quale gli riconosce la dignità e la funzione del comune sacerdozio battesimale, lo destina alla perfezione cristiana, lo unisce organicamente al corpo ecclesiale, lo chiama autorevolmente alla diffusione del regno di Cristo e all'esercizio attivo dell'apostolato, lo impegna all'obbedienza e alla collaborazione con i Pastori responsabili della guida dei fedeli, allora la Chiesa vedrà tempi nuovi. La sacra gerarchia ha infaticabilmente obbedito al precetto del Signore e affinché la verità rivelata si potesse più facilmente diffondere, ha affidato tale compito anche ai laici.

3. Possono i laici predicare? Purtroppo nel corso dei secoli si crearono delle difficoltà sempre più dure alla predicazione dei laici, fino a proibirla definitivamente. E' facile tuttavia vedere che tali restrizioni si spiegano con ragioni di prudenza, più che con esigenze dottrinali, anche se si è tentato di giustificarne l'esclusione con motivi teologici.

Pio XII ha sostenuto in un testo che l'incarico di predicare può essere affidato anche ai laici: «I sacerdoti e anche i laici possono ricevere tale compito, che, secondo i casi, può essere lo stesso per entrambi». Egli tuttavia vi aggiungeva subito: «Si distinguono tuttavia per il fatto che essendo uno sacerdote a l'altro laico, anche il loro apostolato (di predicazione) è rispettivamente sacerdotale e laico (!) ». Oggi, pur senza smentire tali parole, i teologi pensano che anche ai laici si possa delegare il compito della predicazione:

Se si tratta di predicazione per delega, il sacerdote è senza dubbio immediatamente destinato ad esserne incaricato, per la sua consacrazione a collaboratore del vescovo, Mai il laico, per il suo battesimo e la sua cresima, può lui pure essere invitato... Non sembra che al nostro tempo si debba proibire ai laici, in determinate condizioni, la missione di annunciare a nome della chiesa la parola di Dio.

Possiamo anche fare nostre – in gran parte – le seguenti parola di Paolo VI:

Se la Chiesa è comunione, ella comporta una base di uguaglianza, la dignità personale, la fratellanza comune; comporta una progressiva solidarietà (Ga 6, 2); comporta una obbedienza disciplinata e una collaborazione leale; comporta una relativa corresponsabilità nella promozione del bene comune. Ma essa non comporta una eguaglianza di funzioni; che anzi queste sono bene distinte nella comunione ecclesiale.

La democratizzazione della chiesa in pratica si manifesta in questo modo.

Lo strato clericale di funzionari ecclesiastici in diminuzione quantitativa cede una parte del suo potere ai «laici » ottenendo in cambio l'adeguamento laicale al proprio pensiero e comportamento. Nascono così i funzionari laici impegnati a pieno tempo.

Si introducono anche nella chiesa – sia pure in ritardo come al solito – elementi democratici, come consigli di laici, consulte, liberalizzazione della stampa ecclesiastica, codificazione più razionale sistemi elettorali più rappresentativi, miraggio della proporzionale garanzia contro i processi curiali.

Si tende alla modernità attraverso metodi tipici dell'economia e delle grandi aziende: ricerche di mercato, indagini sociologiche, psicologiche, uso della televisione, radio e di una stampa più moderna, tecniche public-relations, metodo più efficientistico delle istituzioni culturali e caritative. Così si spera di recuperare il terreno che il latente oscurantismo del passato aveva fatto perdere.

I laici – dei quali una parte fondamentale è costituita dall'Azione cattolica, dopo la sconfessione delle Acli – devono costantemente collaborare in stretta sottomissione con la gerarchia, i vescovi e il papa. L'apostolato laico dev'essere: « più che tutto coordinato con quello della gerarchia... ecco il distintivo decisivo del vostro apostolato di laici cattolici ».

Durante l'ultimo sinodo dei vescovi Paolo VI nell'usuale adunanza del mercoledì soggiungeva:

E' vero... Vescovi e fedeli sono un solo Popolo di Dio. Siamo tutti appartenenti ad una medesima famiglia religiosa, che si chiama la Chiesa... E' bene che abbiamo questo senso comunitario, questo senso della Chiesa, una, solidale, favorita dalla medesima vocazione alla parola e alla sequela di Cristo, partecipe della medesima grazia, obbligata a difendere e a diffondere il medesimo Vangelo, destinata alla medesima salvezza. Siamo una cosa sola, come Cristo ha voluto. Siamo una comunione. Un corpo.

E fin qui va bene. Ma poi egli soggiunge:

La comunione, di cui risulta la Chiesa, è organica... La funzione che meglio caratterizza questa complessa unità è quella gerarchica... quella che Gesù stesso ha distinto dalla moltitudine e che Egli stesso ha incaricato di dirigerla pastoralmente in suo nome, di convocarla, e poi di istruirla, di santificarla, di assisterla. Ecco perché i Vescovi, successori degli apostoli, sono oggi localmente distinti da questa assemblea... Il nostro senso sociale moderno dovrebbe essere molto riguardoso di questo aspetto organico e gerarchico della Chiesa, nel quale si rispecchia in forme sensibili ed umane l'economia misteriosa del disegno provvidenziale del Regno di Dio, e col quale è caratterizzata in modo originale la compagine comunitaria del Popolo di Dio.

La limitazione dei laici proviene dal fatto che essi, pur essendo sacerdoti, non lo sono nel medesimo grado di altri:

Un aspetto negativo limita la fisionomia del laico, perché questi non è qualificato dall'ordinazione sacramentale, che fa del cristiano, cioè del laico, un ministro insignito di particolare potestà, diaconale o sacerdotale..., il laico non è un prete, il laico non è un religioso... è un cittadino del popolo di Dio, un membro della Chiesa, un fedele, un cristiano... E' dedicato al culto divino e alla santificazione propria e del mondo, formato e governato da un sacerdozio più pienamente partecipe a quello di Cristo e dotato di proprie facoltà sovrumane e specifiche per il ministero dei fratelli... Rimane formula classica quella che stabilisce rapporti stretti e organici fra l'attività dei Laici e la Gerarchia ecclesiastica.

Naturalmente non mancano teologi, quali lo svizzero Hans Küng, il bavarese G.B. Metz, il belga Antoine Vergote che vedono in modo diverso la chiesa del duemila. Quest'ultimo parlando nel 1970 al congresso dei teologi « progressisti» di Bruxelles, vide il futuro popolato di piccole comunità cristiane di base e di gruppi spontanei; ammette un nuovo tipo di prete, anche ammogliato e lavoratore; accetta le teorie freudiane sulla sessualità e trasforma il tabù del sesso in un valore positivo; auspica la fine della parrocchia tradizionale; riduce o elimina la pratica rituale facendo tabula rasa della precettistica; elimina dal suo vocabolario le parole « eresia » e « scisma », perché riconosce il cemento dei fedeli solo nella fede in Cristo e nella ricerca di Dio; concepisce il Credo come un complesso di verità riformulabili a misura dell'uomo contemporaneo. Anche se queste affermazioni vanno rivedute alla luce del Vangelo, vi è di certo un notevole progresso (talora anzi eccessivo). Ma nonostante il vantato « popolo di Dio », la chiesa ufficiale continua nell'impostazione gerarchica della chiesa di Cristo.

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2) Il popolo di Dio nella Bibbia

Chiunque conosce anche solo un poco la Bibbia, sa che la presentazione della Chiesa quale popolo di Dio è perfettamente biblica. Tale espressione ricorre non di rado nell'Antico Testamento, per designare la nazione di Israele:

Voi siete i figli del Signore, vostro Dio... Tu sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio. Te ha scelto il Signore per essergli un popolo prediletto tra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra (Dt 14, 1 s).
Tu sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio. Te ha scelto il Signore, tuo Dio, per essergli un popolo prediletto tra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra (Dt 7, 6).

Perciò Amos poteva ripetere a nome di Dio: «Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le famiglie della terra», dove il verbo conoscere ha il senso biblico di svolgere verso di lui una speciale provvidenza benefattrice o punitrice secondo che il popolo era fedele o meno alle leggi divine (Am 3, 2).

Il salmo 135 canta i prodigi che Javé ha compiuto, distruggendo interi popoli, per dare la terra palestinese in «eredità a Israele suo popolo » (v. 12).

La scelta di Israele da parte di Dio non è stata motivata da una sua potenza numerica oppure dalla sua capacità intellettuale o inventiva e nemmeno dalla sua obbedienza, ma esclusivamente dall'amore:

Non è per l'essere voi più numerosi di tutti i popoli, che il Signore si è compiaciuto di voi e vi ha scelto, anzi siete il meno numeroso di tutti i popoli; ma per l'amore del Signore verso di voi e per custodire il giuramento che fece ai vostri padri (Dt 7, 7 s).
Riconoscerai dunque che non per la tua giustizia il Signore, il tuo Dio, ti dà questa buona terra per prenderne possesso, perché tu sei un popolo di dura cervice (Dt 9, 6).
Ecco appartengono al Signore, tuo Dio, i cieli e i cieli dei cieli, la terra e tutto ciò che è in essa: eppure solo i tuoi padri il Signore predilesse e amò e scelse la loro discendenza dopo di loro, voi, fra tutti i popoli (Dt 10, 14 s).

Tuttavia il popolo ebraico non ha adempiuto alla sua propria missione come li accusa Paolo:

Persuaso come sei di essere guida dei ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti e maestro dei fanciulli, in quanto hai nella legge la formula della conoscenza e della verità, come mai ti che istruisci gli altri non istruisce te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici che non si deve commettere adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne spogli i templi? Tu che ti vanti della legge, disonori Dio con il violarla? Infatti sta scritto: Per colpa vostra il nome di Dio è bestemmiato tra i gentili (Rm 2, 19-24).

Per questo motivo Dio diceva per bocca di Osea: «Voi non siete più il mio popolo e io non sono più Javé per voi» (Os 1, 9). Di loro solo «un resto» accoglierà il Messia mentre gli altri lo ripudieranno, per cui Dio si stabilirà un nuovo popolo di Dio, costituito in gran parte da gentili che formeranno così la sua chiesa.

A questo nuovo popolo di Dio Paolo applica delle parole che originariamente riguardavano Israele: « Abiterò e camminerà fra loro, sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (2 Corinzi 6, 17 da Lv 26, 12)Tale popolo è esaltato da Pietro in termini meravigliosi, mutuati in gran parte da titoli onorifici vetero-testamentari riguardanti Israele:

Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo di acquisto... Voi che un tempo eravate non popolo, ma ora siete il popolo di Dio; voi già esclusi dalla misericordia, siete ora invece figli di misericordia (1 Pt 2, 9-10 che si richiama a Es 19, 6; Is 43, 20 e Os 2, 23).

Presso il Signore tutti i credenti sono «laici», in quanto appartengono tutti al «popolo» (greco: laòs) di Dio. La distinzione tra laici e clero, oggi dominante in tante chiese, non rispecchia la presentazione biblica della Chiesa, i cui membri appartengono tutti alla nazione santa, al popolo che Dio si è acquistato. Tutti i cristiani hanno quindi agli occhi di Dio il medesimo valore fondamentale, distinguere un gruppo da un altro è fare torto al messaggio biblico.

Non si deve dimenticare che la religione cristiana nei primi secoli

non fu propagata solo da vescovi e sacerdoti, ma dai magistrati, dai soldati e dai privati cittadini che la recavano lungo le vie consolari. Molte miglia di fedeli, di cui si ignora il nome, spinti dal desiderio di estendere la fede, novellamente ricevuta, s'industriavano in ogni modo di aprire il cammino alla verità evangelica: talché dopo un secolo soltanto il nome di cristiano era giunto alle principali città dell'impero romano.

I discepoli, dispersi dalla persecuzione scoppiata in Gerusalemme, recarono il vangelo in diverse città della Palestina, della Siria e di altre province romane: essi « andavano di luogo in luogo annunziando la parola» (At 8, 4). Ad Antiochia il nucleo iniziale divenne tanto numeroso che i suoi membri furono chiamati per la prima volta «cristiani » (At 11, 26). Nuclei di fedeli si costituirono in varie città e Paolo ne trovò a Roma presso il Foro Appio e le tre taverne dove si erano recati a incontrarlo (At 28, 15).

Collaboratori e cooperatori sono ricordati nelle lettere di Paolo, come Febe «diaconessa di Cencrea», Prisca (Priscilla) e Aquila « miei collaboratori nel Signore Gesù»; Maria « che tanto si è affaticata per voi»; Trifena e Trifosa «che faticano nel Signore»; Andronico e Giunia «miei parenti e compagni di prigionia »; «la cara Perside che si è molto affaticata nel Signore» (Rm 16, 1-15). Nella lettera ai Filippesi Paolo esorta «Evodia e Sintiche a essere concordi nel Signore», e prega « il fedele Sizigo di aiutarle, perché esse hanno combattuto con me per la buona notizia (vangelo), assieme a Clemente e agli altri collaboratori » (Fl 4, 2 s). Nella prima ai Corinzi l'apostolo richiama l'attenzione dei fedeli alla «famiglia di Stefana, primizia dell'Acaia » i cui membri «si sono messi a disposizione per il servizio dei santi». Vuole che i cristiani del luogo siano «sottomessi a tali persone e a chiunque insieme con loro collabora e si affatica » (1 Co 16, 15 s).

Anche dopo il periodo apostolico i laici si impegnarono attivamente all'evangelizzazione; i brani del pagano Celso, che Origene cita per confutarlo, mostrano come ogni cristiano si ritenesse un apostolo della fede e ne zelasse di continuo la diffusione. Anche le persone incolte, che di solito non ardivano aprire bocca dinanzi ai ricchi e ai nobili, sulle piazze allontanavano le persone dalle dottrine pagane; calzolai e cappellai insegnavano la perfezione nei loro negozi e gli schiavi cercavano di guadagnare al cristianesimo i figli dei loro padroni.

Tutti i cristiani senza distinzione rea laici e clero, comprendevano la doverosità dinanzi a Dio di evangelizzare. Era tutta la chiesa in blocco che si sentiva missionaria e responsabile dinanzi al Signore di annunziare la buona notizia ad ogni creatura.

Gli attuali sforzi del magistero cattolico per democratizzare la chiesa si muovono pur sempre su dati periferici, tendono verso obiettivi trascurabili e comunque non qualificanti. Molti cattolici «adulti» avanzano con entusiasmo verso conquiste e «aggiornamenti », che modificano solo la cornice pur lasciando intatto il quadro. Fino a quando non si capirà che tutti i cristiani sono fratelli e « figli della donna libera» (Ga 4, 31), con uguali doveri e privilegi presso Dio, che il primato cristiano è un primato di servizio e non di governo, non si ristabilirà mai il « popolo di Dio» voluto da cristo e proclamato dagli apostoli. Seguendo la liberalizzazione cattolica odierna si andrà creando un gruppo di laici privilegiati, che gradatamente costituiranno una nuova burocrazia intermedia da aggiungere ai quadri ecclesiastici già esistenti.

Perché la chiesa torni ad essere il vero popolo di Dio, occorre che la gerarchia ecclesiastica lasci il posto al primato di Cristo, il magistero infallibile dei vescovi uniti al papa ceda il passo alla normalità della Parola di Dio e il sacerdozio ministeriale scompaia di fronte al sacerdozio di tutti i fedeli. Solo così si ristabilirà l'originario popolo di Dio che in comune fraternità si sottopone al Cristo quale unico mediatore tra Dio e gli uomini (1 Ti 2, 5).

La parola di Dio è spesso ipostatizzata nel Nuovo Testamento, quasi per indicare che la persona del predicatore svanisce dinanzi ad essa: «La Parola del Signore cresceva » (At 6, 7; 12, 24 ecc.), « si spandeva » (At 13, 49). « Io vi affido a Dio e alla parola della grazia, che ha potenza di costruire l'edificio e di procurarvi l'eredità con tutti i santificati », diceva Paolo ai presbiteri/vescovi di Efeso (At20, 32). Anche quando questa stessa  parola è attribuita al predicatore, è sempre detto che è parola di Dio e non del predicatore: « La parola di Dio che vi abbiamo fatto intendere, voi l'avete accolta non come parola umana, ma, come essa veramente è, quale parola di Dio » (1 Te 2, 13). Dunque ogni credente può trasmettere questa parola che ha valore in sé e non per colui che la predica: occorre infatti che « la parola della verità compia il suo corso» (2 Te 3, 1).

Che vi siano nella chiesa, corpo di Cristo, delle funzioni diverse è chiaro dagli scritti degli apostoli (1 Co 12; Rm 12, 4-8; Ef 4, 11-14). Che ai « conduttori della chiesa», vale a dire ai vescovi, che collegialmente dovrebbero dirigere ogni comunità locale di cristiani, si debba ubbidienza, è pur esso chiaro (Eb 13, 17). Ma l'obbedienza è dovuta a loro non perché capi e superiori agli altri credenti, non perché agiscano a nome di Cristo per un potere vicariale da lui ricevuto, bensì per il loro zelo, per la loro dedizione che attira rispetto e obbedienza da parte dei fratelli. In caso contrario gli stessi fratelli, come facevano i primi cristiani, li devono rimuovere dalla loro missione.

Se tutti i fedeli costituiscono la Chiesa di Dio o di Cristo, ne deriva che essa non è costituita primariamente da un gruppo di persone o da una casta posta al di sopra degli altri credenti. Diviene pure impossibile separare il clero dai laici, quasi che costoro non fossero il popolo di Dio nel senso pieno della parola.

Questo sarebbe un fraintendimento clericale della Chiesa, con cui si identifica direttamente o indirettamente la Chiesa, forse non tanto a proposito dei doveri quanto a proposito dei diritti e privilegi. Ora non è forse sorprendente che da una parte il termine laòs, nel senso di popolo di Dio, è usato così spesso per la comunità cristiana, mentre la parola laikos (laico), sia nel significato pagano di "massa non istruita", sia nel significato di uomo che non è né sacerdote né levita, è del tutto assente nel Nuovo Testamento?... Il termine laòs... significa l'unità di tutti in un'unica comunità – popolo.

La chiesa inoltre non è una libera associazione di persone che si uniscono per raggiungere un ideale unico, ma è costituita da Dio stesso che chiama gli uomini con la sua grazia misericordiosa. Tutti gli eletti che ubbidiscono a tale chiamata divina, lo vogliano o non lo vogliano, sono innestati nella sua chiesa, in quanto non sono chiamati a trascorrere una vita cristiana individuale, ma ad essere membri di un organismo che è il corpo di Cristo, la chiesa di Dio.

Dio stesso raduna il suo popolo attorno a sé, da ogni razza e situazione sociale, da ogni città e villaggio. Dio stesso ha l'iniziativa... Perciò la chiesa non è semplicemente una istituzione, ma rimane l'istituzione di Dio.

Quindi la chiesa, essendo costituita da uomini chiamati da Dio all'obbedienza della fede, non è diretta da una superentità gerarchica posta al di sopra dei credenti. I cristiani sono chiamati e devono dire sì: Amen, all'appello divino, seguendo l'esempio di Abramo il padre dei credenti. Tale «sì», come vedremo, si incarna nel battesimo. Con esso vengono innestati alla Chiesa, che non è quindi un'entità a sé stante, posta tra Dio e gli uomini, ma è formata dagli uomini che accettano l'invito divino. Noi che abbiamo creduto ed ubbidito, siamo la chiesa. « Senza di noi, fiori o sopra di noi, la Chiesa non ha alcuna realtà... Questa comunità di credenti, identificata con il popolo di Dio, costituisce la struttura fondamentale della chiesa» (Hans Küng), che per essere costituita da uomini tuttora in fase di cammino verso la meta non ancora raggiunta, porta seco l'impronta delle miserie umane: si pensi alla chiesa di Corinto del tempo apostolico. La chiesa, quindi, con umiltà di spirito deve di continuo riformare se stessa e purificarsi fino a quando «nel giorno delle nozze con l'agnello » più non avrà né macchia né ruga (Ef 5, 25; Ap 19, 7).