DAL CRISTIANESIMO.....
      AL CATTOLICESIMO
di Fausto Salvoni

CAPITOLO TERZO
GERARCHIA E BIBBIA


Indice pagina

1) Cristo è il capo della chiesa
2) Sviluppo organizzativo
3) Episcopato monarchico?
4) Conferma filologica: assenza dei termini autoritari
a) Non vocaboli di autorità
b) il concetto di «servizio»
5) L'insegnamento di Gesù
6) Gesù è rappresentato dai poveri
7) L'autorità ultima risiede nella chiesa?
8) Non leggi umane a nome di Dio
9) Richiami patristici alla visione biblica


1) Cristo è il capo della chiesa

Nel Nuovo Testamento solo Gesù Cristo è il Signore, che come capo della chiesa, la dirige mediante lo Spirito Santo. Egli ha un «potere» assoluto (exousìa), sia nell'insegnare che nell'operare (Mc 1, 22; Mt 7, 29; Lc 4, 32 e Mt 9, 8). In Gesù è il regno di Dio che viene con potenza (Mc 1, 27-45; 2, 12) per vincere la morte, la malattia e il peccato. Superiore alle massime figure del passato, siano esse Salomone o Mosè (Gv 8, 58; Mt 12, 41 s), è padrone del sabato (Mc 2, 28) e può dire alla sua chiesa: «Ogni potere mi è stato conferito in cielo e sulla terra» (Mt 28, 17).
Più e più volte Gesù è presentato da Paolo come il «capo» della chiesa, che il marito deve imitare nei riguardi della moglie (Ef 5, 22 s). E' lui che distribuisce i vari ministeri o servizi nella chiesa affinché

noi possiamo crescere in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo. Da lui tutto il corpo, ben collegato e ben connesso mediante l'aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore d'ogni singola parte, per edificare se stesso nell'amore (Ef 4, 15 s).

Gesù Cristo, secondo la condizione sociale del tempo, è presentato come re e come il Signore della sua chiesa, al quale essa deve prestare obbedienza assoluta. Tale obbedienza egli se l'è meritata non con la prepotenza, ma con l'amore, dando la sua stessa vita: « Non v'è migliore forma d'amore che dare la propria vita per gli amici » (Gv 15, 13). Tutti gli altri, invece – apostoli compresi – sono dei fratelli posti sotto un unico maestro, Cristo Gesù, senza titoli onorifici, che sono riservati solo a Cristo o al Padre (Mt 23, 8-10). Gli apostoli sono mandati da Gesù, come Dio stesso ha inviato il Cristo, ma con questa differenza: il Cristo perché domini e debelli tutti i suoi nemici, gli apostoli perché con la loro predicazione suscitino la fede nel Cristo vittorioso al quale l'universo deve essere sottoposto (1 Co 15, 25 s; Rm 10, 14-17).

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2) Sviluppo organizzativo

Hans Küng, seguito da Hasenhüttl, pensa che l'organizzazione visibile nelle pastorali, sia dovuta alla riduzione dei carismi anteriori, i quali andarono gradatamente spegnendosi per essere sostituiti dal ministero gerarchico, la cui fedele trasmissione del «deposito » viene garantita dall'imposizione delle mani e consiste nella dottrina pura. L'eclisse del carismatico, divenuta quasi totale al tempo dei padri apostolici, avrebbe favorito l'organizzazione gerarchica successiva. La chiesa, che all'inizio era carismatica, si sarebbe andata gradualmente trasformando in gerarchica. Non credo tuttavia che tale distinzione sia così netta come di solito si pensa.

Va anzitutto notato che la lettera ai Corinzi non tratta espressamente dell'organizzazione comunitaria, ma vuole solo richiamare i cristiani del luogo ad evitare gli abusi relativi ai carismi. Che l'idea di un gruppo di persone dedite al servizio della chiesa locale non sia del tutto assente, appare dai seguenti indizi. Paolo suppone l'esistenza di persone dotate dei « doni di governo» (kybernéseis 1 Co 12, 28), vale a dire del carisma di guidare altri fratelli, come indica la parola greca sia presso i classici che presso i LXX (Pr 1, 5; 11, 14; 24, 6). Costoro sono in prima linea gli apostoli che, dopo aver creato delle chiese, le dirigono e le guidano, ma lo sono pure tutti coloro che presiedono (proistàmenoi) alle singole comunità locali. Scrivendo a quei di Tessalonica, Paolo così raccomanda loro:

Noi vi domandiamo, fratelli, di aver riguardi per coloro che si affaticano e sono alla vostra guida nel Signore (prostaménous ymôn en Kyrìô) e che vi ammoniscono. Dimostrate loro un amore tutto speciale, a motivo della loro fatica (1 Te 5, 12 s).

Verso queste persone che si affaticano per gli altri, che « vegliano» perdendo anche del sonno e del riposo per gli altri, è giusto che i credenti mostrino obbedienza riconoscente:

Siate ubbidienti a quelli che tra voi dirigono e siate (loro) sottomessi, perché vegliano per le vostre persone, come coloro che ne dovranno rendere conto, affinché facciano ciò con gioia e senza sospiri, in quanto questo sarebbe dannoso per voi (Eb 13, 17).

La ragione della ubbidienza non sta dunque nel fatto che «i presidenti» sono dei «capi», superiori agli altri, ma nel fatto che essi più degli altri servono la chiesa; siccome si umiliano e si affaticano per gli altri è giusto che gli altri li abbiano ad esaltare. Se non riuscissero più a lavorare come prima per la ribellione altrui, ne verrebbe un danno a tutta la chiesa (compreso lo stesso disubbidiente), che rimarrebbe senza operai e più non godrebbe dell'aiuto prestato da fratelli così meravigliosi. E' il concetto ribadito da Paolo in riferimento alla famiglia di Stefana, una delle primizie, ossia una delle prime convertite nell'Acaia: siccome « costoro si sono sottomessi al servizio dei santi », bisogna pure che « anche voi continuiate a sottomettervi (ypotàsso) a persone di tal genere e a ognuno che opera e fatica » (1 Co 16, 15 ss).

Queste guide delle chiese locali si devono identificare con i « vescovi e diaconi» ricordati nel saluto ai Filippesi, lettera da tutti riconosciuta per paolina (Fl 1, 1). Secondo Myles M. Bourke al tempo delle lettere pastorali si pensava che l'ordinazione a «presbitero» (anziano) avvenisse con la imposizione delle mani di Paolo, e che per tale mezzo una parte del «potere» proprio dell'apostolo avesse così a passare nell'ordinato. « Il carisma presbiteriale è mediato attraverso l'imposizione delle mani, un rito che ha la sua radice nell'Antico Testamento mediante l'ordinazione di Giosuè, quale successore di Mosè ». Si pensi alla raccomandazione paolina: « Ti ricordo di ravvivare il carisma che è in te mediante l'imposizione delle mani». Non riesco tuttavia a comprendere come mai M.M. Bourke nell'articolo citato ritenga che qui Timoteo sia stato ordinato «presbitero» con una sfumatura di vescovo monarchico, dal momento che per la sua giovinezza mancava di una delle doti richieste da Paolo nella stessa lettera, vale a dire «l'anzianità» (1 Ti 3, 1 ss e 4, 11) e che il carisma proprio di Timoteo è chiaramente specificato come un dono di evangelizzazione (2 Ti 4, 5). Il fatto che Timoteo fu considerato vescovo nella tradizione successiva dipende dal fatto che egli più tardi potè divenire tale o che, in seguito, dopo l'affermarsi dell'episcopato monarchico si retroproiettò tale situazione anche su Timoteo. Di più la successione dei vescovi dagli apostoli tramite persone precedentemente ordinate e quindi superiori per grado gerarchico ai semplici cristiani non appare affatto nelle prime testimonianze del periodo apostolico e sub-apostolico, come cerco di dimostrare altrove (cf. Excursus 2).

E' desiderabile divenire vescovi – afferma Paolo – ma non per ottenere una carica onorifica, bensì per compiere un «lavoro» buono, perché con esso il cristiano si prodiga a vantaggio dei propri fratelli. Non onore, ma onere! I vescovi-presbiteri (anziani) devono quindi lavorare con zelo: « Colui che presiede lo faccia con zelo, senza voler signoreggiare come i dignitari del mondo e senza essere mossi da avidità per un vile stipendio, cercando al contrario di precedere tutti con il buon esempio » (Rm 12, 8; 1 Pt 5, 1 ss; 1 Ti 5, 17).

Che dire dei cristiani itineranti? Il Testa in un interessante articolo vi vede dei cristiani dotati di doni carismatici profetici e inviati dagli apostoli come loro rappresentanti quali ispettori delle singole chiese. Essi avrebbero quindi goduto di una certa autorità delegata, in quanto rappresentanti degli apostoli, quasi fossero i precursori dei nunzi attuali del papa. Il Testa cerca inoltre di mostrare come essi raffigurassero diversamente nelle quattro correnti cristiane del periodo apostolico e sub-apostolico, vale a dire la giacobita, la petrina, la paolina e la giovannea. E' ben difficile accogliere la giustificazione del dotto francescano in quanto non sempre i passi citati si riferiscono a queste persone itineranti, potendo benissimo riferirsi al vescovi-presbiteri. Di più non di rado le persone citate, più che messi dell'apostolo, sono dei semplici suoi collaboratori.

Personalmente penso che l'uso di inviare tali messi fosse in vigore presso la chiesa giacobita ad imitazione del Sinedrio ebraico che inviava i suoi «apostoli» o «messi». Noi sappiamo infatti che Pietro fu intimorito dall'avvento di alcuni cristiani «provenienti da Giacomo » (Ga 2, 12) per esplorare la habdalah, ossia la separazione degli ebrei, anche cristiani, dai gentili; per sostenere la necessità della circoncisione (At 15, 1), delle pratiche mosaiche (At 15, 5) e della purezza dei cibi (Ga 2, 12). Non è detto che costoro fossero proprio inviati da Giacomo o che non avessero oltrepassato i limiti imposti da Giacomo, per il fatto che molti di costoro erano « pseudo-profeti, operai subdoli, che si trasfiguravano da apostoli (o inviati) di Cristo mentre in realtà erano solo dei ministri di Satana » (2 Co 11, 13) e che da Gerusalemme non avevano ricevuto alcun mandato di sorta. Ma la loro pretesa di essere inviati da Giacomo si giustifica meglio se di fatto Giacomo avesse avuto l'uso di inviare dei sorveglianti nelle singole chiese.

Questi predicatori o inviati (= apostoli), seguendo l'uso biblico o rabbinico, non portavano seco cibi o vesti inutili, ma se ne andavano quasi senza cosa alcuna, affiancandosi così agli Esseni che « quando viaggiavano non portavano nulla, esclusa la spada per paura dei ladri e vivevano di carità » (G. Flavio, Guerra Giudaica, 2,8,4). Ad essi si applicava il comando di Cristo: « Avete ricevuto gratuitamente, date pure gratuitamente » (Mt 10, 8).

E' invece ben difficile – almeno mi pare – trovare degli inviati da parte di Pietro o di Giovanni: le persone che quest'ultimo ricorda e che hanno parlato bene di Gaio, non necessariamente sono state inviate da lui per sorvegliare le chiese; si tratta piuttosto di profeti che passavano di luogo in luogo per evangelizzare le città o per aiutare le chiese. Giovanni raccomanda di provvedere loro del cibo e quanto era necessario per il viaggio di questi evangelizzatori itineranti (3 Gv 6 ss.). Più che di un obbligo dovuto ai rappresentanti dell'apostolo, si tratta dell'aiuto caritatevole per il pellegrino, fratello in fede, e dell'esercizio dell'ospitalità così sacro per gli orientali.

Paolo, che già lui pure era stato inviato dal Sinedrio, mandò Timoteo e Tito, due evangelisti come suoi rappresentanti, ma con lo scopo precipuo di aiutare le chiese ancora incapaci di badare a se stesse perché vi creassero dei vescovi-presbiteri e dei diaconi; dopo di ché le chiese più non avrebbero avuto bisogno del rappresentante paolino.

Ad ogni modo non si tratta affatto di capi inviati con autorità nelle chiese, ma di fratelli più esperti, più spirituali, dotati di speciali doni carismatici che aiutavano le chiese a risolvere i loro problemi affinché esse potessero divenire autosufficienti. La strutturalizzazione di un tale sistema, che li considera come membri del clero, separati e distinti dagli altri cristiani per la loro autorità, non farebbe altro che perpetuare nella chiesa uno stato d'infanzia che dovrebbe invece venire superato. Essi poi, dotati com'erano di doni carismatici, si dedicavano al servizio dei fratelli, in quanto il carisma non eleva chi lo possiede, ma pone una persona al servizio della chiesa.

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3) Episcopato monarchico?

Proprio perché una persona non si esaltasse al di sopra della chiesa, nella Scrittura non vi è alcun accenno all'episcopato monarchico, a una superiorità del vescovo al di sopra dei presbiteri. Le comunità cristiane – specialmente di origine giudaica – si organizzarono ben presto come gli ebrei, che avevano degli «anziani» (presbiteri) alla direzione delle città, delle sinagoghe e del Sinedrio, dove agivano accanto ai sacerdoti e ai dottori delle legge. Gli «anziani» appaiono a Gerusalemme come rappresentanti della comunità locale per ricevere la colletta a favore dei poveri (At 11, 30) e con Giacomo accolgono Paolo e discutono con lui (At 21, 18). Accanto agli apostoli decidono ciò che dovevano compiere i gentili per divenire cristiani (At 15; 16, 4). L'ex-fariseo Paolo, adottando, secondo il libro degli Atti, la medesima organizzazione per le chiese della gentilità, stabilì degli « anziani » per ogni chiesa con l'aiuto della comunità locale (At 14, 23). Gli anziani (o presbiteri) nel Nuovo Testamento appaiono sempre al plurale attestando in tal modo la direzione collegiale delle singole comunità cristiane.

La stessa conclusione si può trarre dal termine «vescovi » (epìscopoi) che nelle sue prime attestazioni appare al plurale, confermando l'originaria direzione collegiale delle singole chiese (At 20, 28; Fl 1, 1). I vescovi, come indica il nome d'origine ellenistica, erano degli «ispettori» che «sovrintendevano» al buon andamento della chiesa e al retto insegnamento della dottrina apostolica.

I due vocaboli (presbiteri e vescovi) designano le identiche persone, come appare dal fatto che non si trovano mai entrambi contemporaneamente nel Nuovo Testamento. Per esempio le stesse persone prima dette «anziani» sono poi chiamate «vescovi» da Paolo nella sua esortazione al gruppo dirigente di Efeso convocato a Mileto (At 20, 17.20). E così l'autore della lettera a Tito, dopo aver elencato le doti indispensabili per i presbiteri, continua dicendo: «bisogna infatti (gar) che il vescovo sia... » (Tt 1, 5.7).

E' vero che molti autori, ad esempio C. Spicq, insistono un po' troppo sul fatto che nelle lettere pastorali la parola «vescovo» ricorre sempre al singolare (1 Ti 3, 2; Tt 1, 7) per concludere affrettatamente che vi si nota il passaggio dal precedente presbiterio collegiale all'episcopato monarchico, sottolineando che «la principale funzione attribuita da tali lettere al vescovo è quella della presidenza » (C. Spicq, Les Epitres pastorales, Etudes Bibliques, I e II, Gabalda, Paris 1969, cap. IV dell'introduzione e specialmente a p. 443). Con molto buon senso J. Murphy-O'Connor, pur esso cattolico, afferma – come già scrissi io pure – che il singolare «vescovo» va inteso, a motivo del contesto, per un termine generico, per un singolare di categoria, come se io dicessi: «I soldati devono avere vent'anni di età, poiché il milite deve sopportare dure fatiche». Al vedere un certo Diotrefe che ambisce il comando e l'autorità di capo («primato»), che scaccia dalla chiesa chiunque non s'accorda con lui, che rifiuta lo stesso Giovanni arrogandosi in tal modo il «primato», l'apostolo protesta fermamente: « Ho scritto qualcosa alla chiesa, ma Diotrefe che brama primeggiare tra loro non ci riceve. Perciò se vengo ricorderò le opere che fa, cianciando contro di noi con parole maligne e, non contento di questo, non solo non accoglie i fratelli ma impedisce di accoglierli persino a quanti lo vorrebbero e li scaccia dalla chiesa » (3 Gv 9 s).

Si noti come l'apostolo non gli opponga un altro vescovo che al contrario sarebbe il vero «capo» o il vero «sorvegliante» della chiesa. Per Giovanni è male «ambire al primato» come fa Diotrefe, mentre è bene essere ospitali e camminare nella verità come fatto Gaio e Demetrio per il cui amore la chiesa dona la sua testimonianza alla verità. Quindi non esisteva allora una direzione monarchica bensì collegiale; la bramosia del primato non deve corrompere le chiese, ma l'ardente brama di un servizio umile e generoso a favore dei fratelli deve vivificarle.

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4) Conferma filologica: assenza di termini autoritari

Nel Nuovo testamento ai vescovi-anziani non si applicano mai vocaboli indicanti autorità, bensì solo parole riferentesi al servizio

a) Non vocaboli di autorità

In greco esistevano vari termini per designare i capi, i sovrani, i leaders dei vati stati preposti ai sudditi, ma essi nel Nuovo Testamento non sono mai applicati a un qualsiasi gruppo di cristiani. Tale fatto, assai significativo, attesta l'inesistenza di capi nella chiesa, i quali siano in autorità sopra gli altri. Basti la rapida rassegna seguente:

1. Archè e àrchon. Sono vocaboli tra loro affini con il senso di primato temporale (Mt 24, 8 arché odìnôn o inizio dei dolori) o gerarchico. Sotto quest'ultimo aspetto troviamo i seguenti dati biblici:

a) Arché: si usa per designare le potenze angeliche tanto le buone quanto le malvage, che i cristiani devono combattere (Ef 6, 12) e che il Cristo, ad esse superiore (Cl 2, 10), ha debellato una volta per sempre aggiogandole al suo carro trionfale, come solevano fare i vincitori romani (Cl 2, 15; 1, 6; Ef 3, 10; 1, 21 ecc.). Applicato ad uomini il vocabolo designa nell'Antico testamento il Sommo Sacerdote, detto appunto «archi-iereus» (sacerdote capo da arché), il custode delle porte, i dignitari della corte egizia. Nel Nuovo Testamento indica le autorità pagane o giudaiche (Lc 12, 11; Tt 3, 1), ma non si applica mai ai vescovi o ai presbiteri.

b) 'Árchon: lo stesso fenomeno si rinviene per questo vocabolo sinonimo del precedente: esso designa in senso malvagio Satana presentato come «capo» dei demoni (Mt 9, 34) e in senso buono il Cristo che è il «principe» dei re della terra (Ap 1, 5). Tra gli uomini è usato per indicare un re, un magistrato giudaico o pagano (Lc 23, 13; At 16, 19; cf. pure Rm 13, 13), ma non si attribuisce mai alle persone preposte quali vescovi alla direzione delle chiese.

2. Timè: etimologicamente significa : «paga, salario, denaro», per cui si legge nel Nuovo Testamento che i cristiani sono stati «comprati a gran prezzo (timè)», vale a dire con il sangue di Cristo ( 1 Co 6, 20). In questo senso, come risulta dalle citazioni aggiunte, va inteso il 1 Ti 5, 17 dove si suggerisce di dare agli anziani, che si prodigano nella predicazione, un doppio «onorario». Chi ha denaro è più stimato degli altri che ne sono privi, per cui la parola assume pure il senso di «onore» o «stima»; leggiamo quindi che il matrimonio dev'essere onorato (timiòs, Eb 13, 4).
Chi ha denaro con più facilità ottiene una posizione di comando sugli altri: di qui il senso derivato di autorità: nel Nuovo Testamento la parola timè ricorre solo due volte in questo senso, ma per essere applicato solo al sommo sacerdote giudaico (Eb 5, 4) e a Gesù Cristo (2 Pt 1, 17), ma giammai ai vescovi o anziani preposti alla comunità.

3. Tàxis (cf. il nostro sin-tassi) significa ordine, regola, successione, autorità. Questa parola usata dieci volte nel Nuovo Testamento, non è mai applicata alla Chiesa. E' Attribuita al Cristo che è sacerdote secondo «l'autorità» di Melchisedec (Eb 5, 6.10; 6, 20; 7, 11.17). L'autorità di Gesù non è infatti identica a quella di Aronne, ma di Melchisedec, del quale Abramo riconobbe la superiorità per sé e per i suoi discendenti levitici offrendo a lui le decime (Ge 14, 7-20; Eb 7, 1-17). Ma ancora una volta tale parola non è mai riferita ad altri membri della Chiesa.

4. 'Exousìa: la parola ricorre 95 volte nel Nuovo Testamento per indicare il potere che una persona gode. Dio ha la suprema exousìa sull'universo intero da lui creato (Gd 25), alla quale partecipano le potenze celesti (Cl 1, 16 Dominazioni); in modo particolare il Cristo ha tale potere sulla malattia (Mt 9, 6) e sull'universo (Mt 28, 18). Applicata agli uomini indica l'autorità del centurione sui propri soldati (Mt 8, 9), di Pilato che può uccidere o liberare i suoi sudditi (Gv 19, 10), degli apostoli che hanno «potere» di scacciare i demoni (Mt 10, 1), di Paolo che avrebbe potuto farsi nutrire da chi evangelizzava, ma che non lo ha mai voluto attuare per lasciare così un esempio (2 Te 3, 9), dello stesso che avrebbe avuto il diritto di condurre seco una sorella moglie (1 Co 9, 5). Tale parola invece non è mai applicata ai vescovi o ai presbiteri.

5. Télos: indica propriamente: «fine, termine, scopo, resto», ma anche «pienezza di potere»; l'espressione oi on télei designa «gli uomini di potere». Mai si usa in tal senso nel Nuovo Testamento, dove indi solo la «fine» del mondo (1 Co 15, 23), il pagamento dell'imposta (téles cf. Mt 17, 25). Da quest'ultimo senso deriva la parola «telònes» o gabelliere, esattore da tèlos e onè «acquisto l'imposta».

A conclusione risulta evidente che ogni vocabolo indicante autorità è rigorosamente evitato nell'organizzazione cristiana. Anche la parola «gerarchia» non appare nel Nuovo Testamento e nemmeno nei primi scritti cristiani, essendo stata coniata verso il 5° secolo dallo pseudo-Dionigi l'aereopagita. Di più essa all'inizio non indicava, come ora, il clero preposto agli altri credenti, bensì la chiesa tutta presentata come un «sacro regno», ripartito in vari ordini a somiglianza della celeste gerarchia angelica. Fu solo più tardi che i «gerarchi» divennero sinonimi di coloro che presiedono le chiese: vescovi, presbiteri e diaconi.

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b) Il concetto di «servizio»

Molti sono i termini usati nel Nuovo Testamento per indicare il servizio, tra essi domina la parola «diakonìa» (servizio) e meno frequentemente il vocabolo oikonomia. L'apostolo è un servo, uno schiavo, un servitore; questa terminologia accentua il carattere di servizio verso Dio, verso Cristo, verso gli uomini: Epafra è un « fedele servitore di Cristo per noi». Sono così esclusi titoli onorifici, mentre si accentua l'umiltà di questi operai di Cristo. Il concetto di servizio cristiano si sintetizza in una sentenza unica: «Chi vuol essere primo sia l'ultimo di tutti e lo schiavo di tutti » (Mt 9, 33 s).

Il passaggio dal concetto di servizio a quello di autorità fu influenzato dal fatto che il termine greco «diakonìa » venne tradotto in latino con « ministerium», anziché con « servitium ». Mentre quest'ultimo vocabolo indicava piuttosto lo stato di soggezione, il servizio che si rende, il termine « ministerium » si riferiva invece al mestiere, all'attività, alla funzione svolta e che si doveva determinare con ulteriori precisazioni ( ministerium servorum, arenae, sacerdotale, scribarum, regium) . Mentre il servitium era esclusivo degli schiavi e dei servi, il ministerium poteva essere svolto anche da un re. Ministerio fungi , in buon latino, significa «esercitare una carica». In italiano la parola « ministero » mette in rilievo, più che il servire, il fatto che si agisce in nome, per autorità e in forza del superiore, di cui si è ministro. Il ministero – spiega Tommaseo – « è la facoltà e il dovere di operare in nome, in vece di un altro, e sempre di un superiore, il quale imponendo un dovere, concede parte dei propri diritti per adempierlo». Così l'originario «servire » dello schiavo, voluto da Cristo, divenne un servizio qualificato, autorizzato, potenziato sia dalla funzione (sacra, sacerdotale, pubblica) sia dalla persona o amministrazione cui si serve o nel cui nome si agisce.

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5) L'insegnamento di Gesù

« Sapete che coloro che hanno fama di guidare i popoli li tiranneggiano e i loro grandi li opprimono. Ma tra voi non è così: chi vuole diventare grande tra voi sia il vostro schiavo, e chi vuole diventare primo tra voi, sia lo schiavo di tutti: poiché anche il Figlio dell'Uomo non venne per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto di molti» (Mc 10, 42-45).

Il cristiano, sia pure colto e sapiente, non può poggiare sulla propria competenza e dignità per ergersi al di sopra degli altri, come i rabbini del giudaismo, e così assidersi in cattedra:

Sulla cattedra di Mosè si sono assisi i dottori e i farisei... i quali amano il primo posto nei banchetti e i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti nelle piazze ed essere chiamati dagli uomini «rabbi», vale a dire Rabbino, Maestro. Voi non vi fate chiamare Rabbi, perché uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratelli... Non chiamate alcuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il vostro Padre, quello celeste. E non fatevi chiamare neppure precettore, perché uno solo è il vostro precettore, il Cristo: chi è più grande di voi sia vostro servo. Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia, sarà esaltato (Mt 23, 2-12).
La libertà e l'uguaglianza dei fratelli cristiani scalzano dalle fondamenta ogni paternalismo, ogni rivendicazione di poteri, ogni pretesa di coltivare l'immaturità dei membri e di legittimare un'autorità paterna (ammantata di spiritualità); nella chiesa di Gesù non v'è posto per il patriarca, ma soltanto per la volontà di Dio, per il suo dominio, che in Gesù Cristo ci è stato rivelato nella forma dell'amore per i fratelli, della disposizione al servizio. L'unica autorità legittima nella chiesa è quella che interamente s'ispira al servizio per i fratelli; non c'è più posto per padri clericali-autoritari (R. Pesch, Nuovo Testamento e Democrazia, in «Concilium» 1971, n. 3, 61).

Il cristiano è «per gli altri » perché, come ben disse in Concilio il card. Lienard, « Gesù è venuto a presentare una nuova concezione dell'autorità, che non è potere, ma servizio comune ». Concetto assai duro agli antichi – e non solo a loro – per i quali lavorare per gli altri era qualcosa di infamante, proprio dello schiavo, ma indecoroso a un essere libero. Anche gli ebrei, che non erano così assolutisti come i gentili, preferivano essere serviti che servire per cui doveva suonare assurda la frase di Gesù: « Il più grande fra voi sia come il minore e chi comanda come chi serve. Infatti chi è più grande? Colui che siede a tavola o colui che serve? Non è forse colui che si siede a tavola? Eppure io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Mt 22, 26). Si può esplicare il «servizio» cristiano in varie maniere:

a) Venendo incontro ai bisogni materiali del prossimo come, ad esempio, facevano coloro che servivano gli altri a tavola. Questo, anzi, è il senso originario del termine diakonéo , da cui proviene la parola «diacono » (diàkonos) e servizio (diakonìa); di conseguenza «diaconi» erano quei cristiani che si dedicavano con zelo a preparare il pranzo per le vedove cristiane non palestinesi (At 6). Marta «serve» (diakònei) Gesù, così come fece la suocera di Pietro e come lo schiavo suole fare nei riguardi del proprio padrone (Gv 12, 2; Lc 17, 8; Mt 8, 15).

b) Gesù serve gli apostoli lavando loro i piedi durante l'ultima sua cena pasquale, dando così un esempio imitabile dai suoi seguaci:

Capite bene cosa v'ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque ho lavato i vostri piedi io, il Signore, e il Maestro, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri; infatti vi ho dato l'esempio, affinché come ho fatto io a voi, anche voi lo facciate. In verità, in verità vi dico: il servo non è maggiore del suo Signore, né il messo maggiore di colui che lo ha mandato. Se sapete queste cose beati voi se le attuate (Gv 13, 12-17).

La lavanda dei piedi, servizio di schiavi, preannuncia che il Cristo è lo « schiavo del Signore» pronto a dare la sua stessa vita per gli altri. «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20, 28). Gesù, l'inviato messianico di Dio, secondo la concezione umana, dovrebbe sedere a mensa e farsi servire; invece si presenta ai suoi discepoli come «lo schiavo del Signore », che sacrifica se stesso per la salvezza degli altri, collegando in tal modo il servizio con il sacrificio e il sacrificio con la salvezza.

c) Il servizio cristiano per eccellenza è un servizio di «parola», di predicazione che fu conferito specialmente agli apostoli. Al posto di Giuda che era «del nostro numero e fu sorteggiato per questo servizio» (At 1, 17), dopo una preghiera per la sua elezione, fu scelto Mattia: « Tu, o Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale dei due scegli a prendere questo servizio e apostolato » (At 1, 24 s).

Gli apostoli si sentono quasi in colpa se perdono del tempo che non sia al «servizio» della parola: «Non è bene che trascuriamo la parola di Dio, per servire alle mense... noi ci dedichiamo all'orazione e al servizio (diakonìa) della parola » (At 6, 2).

d) Non basta servire materialmente gli altri e predicare loro, occorre pure che tutte le nostre risorse, tutti i doni ricevuti da Dio siano usati al servizio degli altri, per il bene altrui.

Usate al servizio altrui il dono (carisma) che ciascuno ha ricevuto, come buoni amministratori della multiforme giustizia di Dio (1 Pt 4, 10 s).

Per questo insegnamento di Pietro diventa inaccettabile la distinzione di Paolo VI, il quale pur ammettendo che «l'autorità della chiesa è per il servizio dei fratelli » nega che sia «al servizio altrui » (Paolo VI il 12-11-69, Oss. Rom. 13-11-69, p. 1). No! I cristiani sono al servizio degli altri, vivono per gli altri, sono per gli altri; gli altri diventano in un certo senso i lori superiori. Il sofisma di Paolo VI vuole introdurre quasi di soppiatto l'esistenza dell'autorità, alla quale gli altri credenti devono stare sottoposti, anche se questa autorità dovrebbe curare non gli interessi propri bensì il vantaggio degli altri cristiani. Ma tale non è affatto la concezione biblica: i cristiani non sono sottoposti in campo religioso ad alcun altro uomo – Gesù ci ha affrancati e resi liberi una volta per sempre – ma sono sottoposti solo al Cristo e tramite il Cristo a Dio (1 Co 3, 20 s).

Il vivere per gli altri è così inconcepibile agli uomini, che può essere compreso solo quando l'amore di Dio e del prossimo trasforma l'animo umano. Non senza ragione Giovanni, prima di presentare Gesù che lava i piedi ai discepoli, afferma che egli, avendo amato i suoi, che erano nel mondo, «li amò sino alla fine » (Gv 13, 1 s). Dove manca l'amore è inconcepibile trovare anime dedicate al servizio altrui.

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6) Gesù e rappresentato dai poveri

A sostegno della gerarchia si è introdotto nella chiesa il concetto « vicariale»: la gerarchia ha valore perché rappresenta Gesù Cristo e di conseguenza partecipa alla sua autorità. Già Ignazio di Antiochia verso il 108, presentava i vescovi quali luogotenenti di Dio:

Vi esorto a sforzarvi di compiere ogni azione conformemente ai voleri divini, considerando come capo, al posto di Dio, il vescovo, e i presbiteri al posto del collegio degli apostoli e i diaconi, a me carissimi: ad essi fu affidato il ministero (diakonìa) di Gesù Cristo.

Anche Cipriano scriveva: «Il sacerdote funge da vero vicario di Cristo, quando imita ciò che Cristo fece ».
Tale però non è affatto l'insegnamento biblico. Gesù mai si identifica con i vescovi o con i dirigenti della futura comunità: suoi rappresentanti sono i poveri, i sofferenti, gli ammalati, gli imprigionati, i piccoli fanciulli, non ipotetici gerarchi della chiesa:

Ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui forestiero e mi accoglieste; fui ingudo e mi rivestiste; fui infermo e mi visitaste, fui in prigione e veniste a trovarmi... in verità bi dico che quanto avete fatto a uno di questi minimi fratelli, l'avete fatto a me (Mt 25, 35.40). Chiunque riceve un tal piccolo fanciullo nel nome mio, riceve me (Mt 18, 5; Mc 9, 37).

Gesù è pure rappresentato da chiunque predica la buona notizia dell'evangelo, come, ad esempio, i settanta (o settantadue) discepoli inviati in missione temporanea da Gesù (Lc 10, 16). Chiunque predica l'evangelo di Dio, sia vescovo o semplice credente, è ambasciatore di Cristo e quindi suo rappresentante; in lui è Gesù che supplica per bocca sua (2 Co 5, 20). Gesù è presente dove due o tre sono riuniti nel suo nome, anche senza la presenza di vescovi o anziani (Mt 18, 20).

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7) L'autorità ultima risiede nella chiesa?

Paolo con un paradosso suggerisce di scegliere per giudici non i vescovi, bensì i credenti meno stimati per dirimere le questioni tra i fratelli, ricordando che tutti i cristiani dovranno «condannare » perfino gli angeli ribelli (1 Co 6, 4). I credenti possono elevare accuse contro gli stessi vescovi che non abbiano a comportarsi bene (1 Ti 5, 19). Nonostante l'esistenza dei vescovi la comunità conserva la sua importanza. Ancora verso il 70-80 Matteo, rivolgendosi alle chiese del suo tempo, ripresenta come normativo il detto di Gesù che per espellere un fratello occorre procedere per gradi: prima un cristiano solo, poi un gruppo di fratelli spirituali tenteranno di convertire l'errante; se egli non vorrà prestare loro ascolto tutta la chiesa deve compiere l'estremo tentativo per la sua conversione; solo in caso della sua persistenza nell'errore, nonostante tale appello collettivo, egli dovrà essere ritenuto un non cristiano (Mt 18, 15-18). Paolo si rivolge a tutta la chiesa di Corinto – e non ai suoi dirigenti – per rimproverarli della loro silente connivenza con l'incestuoso da essi tollerato. E solo a motivo del loro silenzio e in vista del potere apostolico che possedeva, egli lo dà corporalmente in balia di Satana, perché sia torturato con malattie, ma sia salvo nel giorno finale (1 Co 5, 1-5). Quindi la chiesa locale è la suprema corte d'appello nei problemi di rilievo che possono sorgere in seno ad essa, conservando una piena indipendenza riguardo alle altre.

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8) Non leggi umane a nome di Dio

Se non vi è una vera gerarchia, ne segue che nella chiesa non si possono imporre leggi umane a nome di Dio, ma solo richiamare quelle divine che sono già contenute nella Bibbia, secondo il principio paolino che nessuno può limitare arbitrariamente la libertà dei figli di Dio. Non vedo nel Nuovo Testamento una chiesa con il potere di dettare leggi obbligatorie, vincolanti, con l'autorità di punire i trasgressori. Tale autorità compete solo agli apostoli, i quali, in quanto testimoni di Cristo, hanno il potere di presentare il volere di Dio sotto la guida dello Spirito Santo. Qui non intendo parlare di leggi sociali dettate da governi terreni, le quali si potranno discutere e modificare tramite i parlamenti; qui intendo parlare di leggi religiose imposte all'uomo in nome di Dio, sotto pena di peccato. Quando i giudeo-cristiani volevano obbligare i cristiani del gentilesimo all'osservanza delle norme ebraiche che pure avevano il suggello divino dell'Antico Testamento, Paolo vi si oppone energicamente:

Per tale libertà Cristo ci ha resi liberi; state quindi saldi e non vi lasciate imporre di nuovo un giogo di schiavitù... poiché riguardo a Gesù Cristo né la circoncisione è di alcun valore né l'incirconcisione, ma la fede operante per mezzo dell'amore (Ga 5, 1-6)

Perciò nessuno vi condanni riguardo al mangiare, al bere, a feste, a osservanza di novilunio, o a sabati; queste cose sono l'ombra di quanto doveva avvenire, ma la realtà appartiene a Cristo (Cl 2, 16 s). Perché vi sottomettete ancora a precetti come: non prendere, non assaggiare, non toccare... secondo i comandi e gli insegnamenti degli uomini? (Cl 2, 21 s) .

Gesù stesso si oppose energicamente a tutte le tradizioni rabbiniche, che i dottori della legge (rabbini) avevano aggiunto alla Scrittura con parole assai dure quando disse:

Ipocriti! Ben profetizzò Isaia di voi quando disse: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il cuor loro è lontano da me; invano mi rendono il loro culto insegnando dottrine che sono precetti umani (Mt 5, 17 ss da Is 29, 15; Mc 7, 6 s).

Quante norme ecclesiastiche, simili a quelle dei rabbini, sono state imposte dai capi ecclesiastici e per di più sono state mutate nel corso dei secoli, cosicché quanto costituiva una colpa in passato ora non lo è più! In passato era colpa bere anche solo un po' di acqua prima di accostarsi alla comunione, prendere con mani l'ostia consacrata da parte dei laici, mangiare carne di venerdì; era colpa per il sacerdote tralasciare alcuni determinati gesti (mani elevate, segni di croce, fissati dalla liturgia); era vietato ai laici e specialmente alle donne parlare in chiesa; ora tutto ciò è permesso e non costituisce più peccato alcuno. Si tratta di mutabile tradizione umana che non può mettersi al posto della parola di Dio che permane in eterno. Quindi non leggi umane, ma solo norme bibliche!

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9) Richiami patristici alla visione biblica

Non mancarono, è vero, delle voci isolate che richiamarono la chiesa alla sua alterità dal mondo (non sempre però in modo esatto); ma queste furono purtroppo soffocate dalla pressione mondana, che sempre tentò la Chiesa, e perciò furono ridotte al silenzio dal sistema gerarchico.
L'autore anonimo della Lettera a Diogneto afferma che i cristiani sparsi nelle città greche e barbare vivono secondo «le leggi straordinarie e veramente paradossali della loro repubblica spirituale ». Probo, prefetto del pretorio, inviando Ambrogio ad amministrare Milano, gli suggeriva: «Va, agisci non come giudice ma come vescovo! (Vade, age non ut iudex sed ut episcopus)». L'ufficio episcopale, scriverà più tardi Ambrogio, è un « servizio » (obsequium miniterium): Anche la remissione dei peccati non è un potere autoritativo, ma, al di più, un potere d'intercessione. Atanasio raccomanda di non « confondere la giurisdizione della Chiesa con quella dell'impero romano ». Girolamo scrivendo all'amico Eliodoro, vescovo di Altium, segnala la profonda differenza tra l'autorità del vescovo e del re:

Il vescovo è come il re o meglio è diverso: il re domina sugli uomini che a lui si sottomettono contro voglia; il vescovo regna invece su coloro che gli si sottopongono volonterosamente; il re assoggetta con il terrore; il vescovo è capo mettendosi al servizio del popolo, Al re incombe la guardia del corpo per la morte, il vescovo ha la guardia del corpo delle anime per la vita.

Gregorio Magno, pur essendo l'organizzatore del patrimonio di Pietro e del futuro progressivo affermarsi del potere papale, nella sua Regula Pastoralis sostenne di fatto che la sua sovranità doveva esercitarsi come atto di amore secondo l'esigenza evangelica. Vi si legge ad esempio:

Il sommo potere viene esercitato quando si domina sui vizi più che sui fratelli. Gesù rifiutò di essere nominato re perché si era incarnato per redimerci con la sua sofferenza e istruirci con la sua vita... Rifiutò il potere offertogli e desiderò una morte obbrobriosa, perché noi, sue membra, imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere minacce, a preferire avversità causate dall'amore per la verità e a diffidare, nel timore, dalle situazioni favorevoli.

Bernardo di Chiaravalle nel suo De consideratione condannò nettamente ogni trasformazione dell'autorità in « dominio » (dominatio): « E' chiaro che agli apostoli è proibita ogni dominazione... La forma apostolica è questa: proibire il dominio, ma asserire il servizio ». Egli protesta pure contro Innocenzo II a riguardo del progressivo svuotamento dell'autorità episcopale assorbita dal papato. Sono voci che testimoniano il progressivo allontanamento della chiesa dalla originale fraternità dei cristiani, i cui dirigenti erano tali solo per la dedizione con cui si consacravano al servizio delle singole chiese e non per una autorità vicaria ereditata dal Cristo.

Mantengono quindi tutto il valore le parole di Lutero:

Nessun vescovo osa oggi chiamare il papa: Fratello mio, come avveniva un tempo. Oggi anche i vescovi, i re e gli imperatori lo devono chiamare loro grazioso sovrano! E questo non lo vogliamo, né lo debbiamo, né lo possiamo in coscienza approvare. Lo faccia chi vuole, ma non lo faremo noi!

La gerarchia piramidale che pone i vescovi sopra i laici e il papa sopra i vescovi, non rispecchia più l'originario pensiero di Cristo per il quale tutti i cristiani sono fratelli, per cui suonano lugubri, ma vere, le parole di Calvino a commento di Ef 4, 15:

Che cosa è mai dunque il papato se non una gobba deforme, che deturpa totalmente la simmetria della Chiesa, per cui un uomo che si opponga al capo viene automaticamente escluso dal numero dei membri?

Mi sia permesso concludere questo capitolo citando il seguente brano di un autore cattolico contemporaneo:

L'episcopato monarchico è un'acquisizione relativamente posteriore (al Nuovo Testamento). Un papa nel senso odierno del termine non esisteva agli inizi della chiesa. Non si può dimostrare storicamente che dopo la morte di Pietro qualcuno abbia avanzato il diritto di essere il suo rappresentante nel ministero. Inoltre si deve sottolineare che alcuni detti di Gesù, dai quali la primitiva ecclesiologia dedusse le strutture della chiesa attuale, non possono essere sempre dimostrati senza obiezione come della parole storiche di Gesù. Tuttavia anche se li si considera come storici, ci si deve pur chiedere se il modo tradizionale di deduzione non chieda al testo più di quanto possa dire il senso letterale. Le cose potrebbero invece essersi svolte semplicemente così: Gesù avrebbe voluto una comunità, ma avrebbe lasciata aperta la questione di dettagli delle strutture concrete che essa avrebbe dovuto assumere. Il metodo preferito di leggere i testi del Nuovo Testamento alla luce dell'organizzazione attuale della Chiesa, vale a dire di fare eisegesi invece di esegesi, è certamente comprensibile apologeticamente, ma tuttavia obiettivamente inaccettabile.

Anche se lo sviluppo della chiesa nel corso dei secoli si può legittimamente spiegare sotto l'influsso sociologico del tempo, rimane pur sempre da vedere se non sarebbe stato meglio conservare la semplicità e la libertà della chiesa apostolica.. La chiesa non è una società nel senso giuridico del termine; i cristiani sono un gruppo di cellule cristiane viventi, guidate da vescovi posti al loro servizio per aiutarli a vivere più spiritualmente e che li precedono con il buon esempio. In tal modo avremmo una chiesa adattabile a tutti i tempi. « Lo possiamo dedurre da uno sguardo al giudaismo e a quelle chiese protestanti che sono le più semplicemente organizzate ». Più del cattolicesimo seppero adattarsi al tempo e resistere meglio di esso ad ogni opposizione e violenza esteriore.

Il Nuovo Testamento distingue tra «potere» (exousìa) e «forza» (dynamis, da cui il vocabolo dinamite); il primo è una tecnica di comando, la seconda la capacità di attuare il proprio ideale. Sin dal principio sorse nella comunità degli apostoli la tentazione del potere, ma contro il loro desiderio di essere « più grandi», Gesù suggerì che «il più vecchio (maggiore per età) fosse come il più giovane e chi comanda come colui che serve », lasciando il potere ai dominatori di questa terra. In altre parole egli fece conoscere ai suoi discepoli che la «forza» della comunità ecclesiale è in ragione inversa del «potere». Quando il potere abbaglia la chiesa, allora questa perde automaticamente la sua dinamicità e la sua forza dirompente contro le potenze della malvagità terrena.

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