DAL CRISTIANESIMO.....
      AL CATTOLICESIMO
di Fausto Salvoni

CAPITOLO QUARTO
IL MAGISTERO DELLA CHIESA


Indice pagina

1) Progressivo scostamento dalla Bibbia
a) Dalla fede al credo
b) La tradizione
c) Reazione cattolica: proibizione della Bibbia
2) Attuale ritorno alla Bibbia
3) Chiesa docente e magistero
4) Gli strumenti del magistero
a) Espressione solenne ed infallibile (ex cathedra)
b) Insegnamento ordinario fallibile
5) Aggiornamento fedele al suo passato
a) Non rigido attaccamento al passato
b) Aderenza alla tradizione
c) Obbedienza al magistero
d) Infallibilità



Dopo un progressivo continuo allontanamento dalla Bibbia,, la Chiesa Cattolica postconciliare tende a ritornare ad essa, ma anziché accoglierla come norma suprema per correggere i propri errori, la pone in braccio alla tradizione guidata dal magistero, il quale diviene così la norma suprema per la fede cristiana. Essa dimentica che la Sacra Scrittura «non dovrebbe conoscere altro canone (per la sua interpretazione), se non il canone della Bibbia stessa » (N. Lohfink, Esegesi e teologia sistematica, in «Rassegna di Teologia» 10 (1969) pp. 42-45; la citazione si legge a pag. 45, nota 1).

1) Progressivo scostamento dalla Bibbia

Al tempo apostolico i cristiani si rifacevano continuamente all 'Antico Testamento (cf. 2 Ti 3, 14 ss), del quale conoscevano a memoria alcuni libri. Nei campi di Betlemme, ancora al tempo di Girolamo (+ 420), si udivano i contadini cantare i Salmi mentre raccoglievano il grano, per cui i credenti di quel tempo non vollero accoglierne la nuova versione preparata sull'ebraico da quel valente esegeta, perché troppo difforme da quanto essi già sapevano a memoria. Sin dal tempo apostolico i cristiani attribuirono agli scritti apostolici, letti nelle loro assemblee (Cl 4, 16), un valore pari a quello dei libri sacri veterotestamentari (2 Pt 3, 15 s). Quando alcuni eretici a difesa delle proprie dottrine erronee, iniziarono a scrivere delle opere e per dare ad esse maggior credito le attribuirono falsamente agli apostoli, le chiese verso il 180 d.C. fissarono la prima lista degli scritti veramente apostolici e che per tale ragione dovevano servire di «norma» (canone) per la fede e la morale.. I credenti di quel tempo, fossero vescovi o semplici cristiani, si rifacevano di continuo alla Bibbia, tradotta nei vari idiomi parlati, perché la loro dottrina non si scostasse dall'insegnamento divino.

Le ragioni che indussero a un progressivo allontanamento dalla Bibbia furono le seguenti:

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a) Dalla fede al credo

Le professioni bibliche della fede parlano di morte e resurrezione del Cristo più che della sua essenza divina, parlano della missione da lui compiuta più che della sua intima natura e dei suoi rapporti essenziali con il Padre. Questi dati teorici e astratti lasciavano indifferente lo scrittore biblico, al quale interessava ben più l'azione divina, la quale, dopo aver salvato il suo popolo dalla schiavitù egizia, continua a salvare l'uomo dalla schiavitù del peccato e della malvagità (cf. Dt 26, 5-6). Nel Nuovo Testamento non vi era alcuna scomunica per le diverse opinioni riguardanti il Cristo, purché non se ne negasse la realtà; l'allontanamento avveniva più per una condotta personale immorale e peccaminosa, che non per idee differenti. Gli apostoli non sentirono affatto il bisogno di creare una formula di fede unica per tutti i credenti, un simbolo nel senso successivo della parola.

Ma con il passar dei secoli la fede, da «fiducia nella promessa divina», si trasformò nell'accettazione di una dottrina astrattamente formulata (credo, simbolo). Nel 3° secolo la «trascuratezza» apostolica verso le formule teoriche cominciò a sembrare strana ai cristiani, i quali colmarono tali lacune componendo un simbolo apostolico, i cui dodici articoli, secondo la leggenda sorta nel 6° secolo, sarebbero risaliti ciascuno ad uno dei dodici apostoli. Fu solo nel secolo scorso che tale leggenda potè essere definitivamente sfatata.

Al 4° secolo, mentre la chiesa si stava organizzando in modo unitario, il Credo anziché essere una professione di fede nel Cristo, divenne norma di dottrina (norma doctrinae) e misura della ortodossia (norma orthodoxiae), ossia una regola dottrina fissa, che tutti i cristiani dovevano accogliere. Il vescovo consegnava al catecumeno un testo di professione di fede (traditio symboli) che, dopo averlo imparato a memoria, lo ridonava al vescovo alcune settimane più tardi (redditio symboli). Dagli imperatori orientali, e più tardi anche dagli occidentali, il credo fu spesso usato come mezzo politico per fondare e conservare l'unità dell'impero. La storia mostra un parallelismo tra i tentativi centralizzatori della chiesa e dell'impero dopo il 313 e la cresciuta uniformità del credo di fronte alle precedenti diverse confessioni di fede. L'originaria accettazione esistenziale del cristo, si trasformò così nell'accoglimento di una dottrina imposta come legge imperiale e accolta, ad esempio, nel codice giustinaneo. L'intellettualizzazione dei simboli e l'introduzione in essi della terminologia teologica giunsero al divieto del Concilio di Trento e del Catechismo romano di usare altre professioni di fede, diverse da quella tridentina. Anche all'inaugurazione del Vaticano II, benché ne fosse prevista una versione semplificata, di fatto si ripetè letteralmente la professione di fede del Concilio di Trento. E' vero che l'idea biblica di fede non scomparve del tutto, dal momento che il Vaticano II ha detto: «A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede, con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero» (Dei Verbum 3). Tuttavia in questo « abbandono a Dio» è pure inclusa, secondo il cattolicesimo, la accettazione teorica di tutto quanto la chiesa di Roma va continuamente scoprendo nel dato rivelato, tramite l'indagine teologica, accolta dal magistero ecclesiastico. La adesione a Dio include quindi anche l'adesione all'insegnamento ecclesiastico.

E' evidente che trasformando la fede da dedizione esistenziale ad adesione dottrinaria, si dovette creare una base per decidere sicuramente tra le diverse opinioni emesse sopra un determinato argomento teorico. Di qui l'esaltazione del magistero ecclesiastico fatto risiedere nel gruppo dei vescovi, sotto la guida infallibile del vescovo di Roma, che da solo ha autorità di decidere in merito.

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b) La tradizione

Un altro motivo che condusse alla eliminazione della Bibbia nella lettura del popolo di Dio stette nel fatto che essa divenne sempre più incomprensibile perché trasmessa in linguaggi non più intelligibili. Dal 6° secolo, a motivo dell'invasione barbarica, la cultura sopravvisse solo presso gli ecclesiastici, che si dedicarono a sottili discussioni filosofiche e teologiche, comprensibili solo agli iniziati, ma del tutto aliene al popolo. La Bibbia e la liturgia continuarono ad essere lette in latino, anche quando il popolo più non capiva tale lingua, Di più le opere dei precedenti scrittori ecclesiastici divennero fonte di studio erudito, per cui accanto alla Bibbia sorse una tradizione poggiante su tali scritti teologici. Inconsapevolmente questa andò sempre più sviluppandosi fino a scostarsi totalmente dall'insegnamento primitivo e ad entrare in contrasto con la «parola di Dio».

Lo studio teologico finì per diventare patrimonio esclusivo di specialisti che vi si dedicarono nelle università e nei cenobi, mentre la stragrande maggioranza degli stessi ecclesiastici non lo conosceva affatto. Ne seguì che, quando nel 12° secolo alcuni laici – per reazione al clero in gran parte ignorante, taciturno e pieno di vizi – volle tornare alla Bibbia (Valdesi o poveri di Lione) e diffonderla con traduzione preparate nella lingua del popolo («volgare»), si accorsero dell'enorme differenza esistente tra l'insegnamento biblico e la dottrina tradizionale della chiesa cattolica. Quando costoro presero a impugnare con la Bibbia la tradizione ecclesiastica, i vescovi e i papi, gelosi della propria dottrina e dei privilegi conquistati nel corso dei secoli, reagirono duramente proibendo, sotto pena di scomunica, la lettura della Bibbia in volgare; da tale comportamento nacque l'idea che la Scrittura fosse un libro proibito ai fedeli.

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c) Reazione cattolica: proibizione della Bibbia

Ecco alcuni documenti più significativi emessi dal magistero ecclesiastico nel corso dei secoli. In occasione della lotta contro gli Albigesi, il concilio provinciale di Tolosa nel 1229 proibì ai fedeli la lettura della Bibbia sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, ad eccezione del Salterio da leggersi tuttavia in lingua latina e ordinò di distruggere

interamente le case, i più umili ripari o anche i rifugi sotterranei delle persone che fossero trovate in possesso delle Sacre Scritture. Si perseguitino tali persone fino nelle foreste e negli antri della terra. Si punisca severamente chiunque dia loro asilo.

Il sinodo di Terragona (a. 1234) ordinò che tutte le versioni dell'Antico e del Nuovo Testamento in lingua parlata fossero consegnate entro otto giorni al vescovo che doveva bruciarle; neppure ai chierici era permesso possederne una copia.

Il sinodo di Oxford VI (Oxoniensis a. 1408) scomunicò chiunque possedesse una versione della Bibbia in inglese, che non fosse approvata dalla Chiesa cattolica.

La quarta regola dell'elenco dei libri proibiti pubblicata da Paolo IV per volere del Concilio di Trento, così suona:

Siccome è stato dimostrato dall'esperienza che, se la Bibbia fosse tradotta in lingua parlata e indifferentemente permessa a tutti, a motivo della temerità umana provocherebbe più danno che vantaggi, vogliamo che il vescovo o l'inquisitore, dopo aver sentito il parere del parroco o del confessore, secondo il proprio giudizio conceda il permesso di leggere la Bibbia, tradotta da autori cattolici nelle lingue parlate, solo a coloro che essi stimeranno capaci di leggerla senza alcun danno personale anzi con profitto e con aumento della propria fede e pietà. Bisognerà tuttavia che rilascino tale permesso per iscritto. Chiunque osasse leggere la Bibbia o tenerne una copia a casa senza il dovuto permesso, non potrà ottenere l'assoluzione se non avrà prima consegnato tale Bibbia al proprio vescovo.

All'inizio del 19° secolo le prime società bibliche furono biasimate come un gravissimo pericolo per la fede in una lettera indirizzata al vescovo polacco di Gnesen da Pio VII (29 giugno 1816), nella quale si legge che:

La diffusione della Bibbia nelle lingue parlate è la più maligna delle invenzioni umane; una vera peste, la distruzione della fede, il pericolo più grande in cui possono incorrere le anima, una nuova specie di zizzania seminata dal maligno, un'empia macchinazione dei protestanti, una rovina inesorabile della sacrosante religione – Dopo aver detto di provare «orrore» per tutte le Società Bibliche che, pur essendo sorte con l'intento di diffondere la Bibbia, in realtà non fanno altro che rovesciare la religione cristiana dalle sue basi, ordinava di – « distruggere questa peste con tutti i mezzi possibili, di svelare le empie macchinazioni dei protestanti e di prevenire il popolo contro tali insidie le quali tendono solo a farlo precipitare nella rovina eterna »

Lo stesso papa il 3 settembre 1816, scrivendo al vescovo di Mohilev (Mohiolovense, Russia), che sosteneva la Società Biblica sorta a St. Petersburg, biasimava gli eretici che

pubblicano Bibbie in volgare (tra loro varie e divergenti) diffondendo i propri errori quasi fossero sanciti dalla parola divina.

E, richiamandosi a Innocenzo III, continuava:

Perciò fu scritto che ogni bestia, la quale osasse toccare il monte sacro, doveva essere lapidata (Eb 12, 20; Es 19, 12 s) per insegnare che « nessuna persona semplice e indotta avesse a presumere di toccare la sublimità della Sacra Scrittura e predicarla ad altri».

Leone XII (+ 1829) ribadì la medesima condanna rimproverando l'impudenza di tali società che osano perfino regalare copie della S. Scrittura.

Non ignorate certo, venerabili fratelli, che una società nota come biblica, si va diffondendo con audacia per tutto il mondo. Talora essa vende le proprie Bibbie e talaltra per meglio accalappiare i semplici, con perfida liberalità si compiace perfino di distribuirle gratuitamente... Si può a ragione temere che qualcuno, con la sua interpretazione perversa, non vi trovi l'evangelo di Cristo, ma l'evangelo dell'uomo o peggio ancora l'evangelo di Satana... Noi vi esortiamo a non risparmiarvi fatica per distogliere il vostro gregge da simili pascoli mortiferi.

Gregorio XVI (+ 1846) con la sua enciclica del 6 maggio 1844 si scagliò contro la Società Biblica Americana, dicendo tra l'altro:

Si lascia l'interpretazione della Scrittura ai balbettamenti della donnetta, ai farfugliamenti del vecchio decrepito, alla verbosità del sofista, a ogni individuo, qualunque ne sia la condizione, purché sappia leggere. E, cosa inaudita, non si rifiuta tale comprensione agli stessi popolo infedeli... Perciò in forza della nostra autorità apostolica, condanniamo un'altra volta tutte le predette società bibliche, già da tempo condannate dai nostri predecessori.

Anche Pio IX nel suo Sillabo (1864), assieme ai movimenti sociali del tempo quali il socialismo, il comunismo, la massoneria, il movimento liberale, condannava anche le società bibliche, presentate come vera «peste» per il popolo cattolico. Il Codice di diritto canonico (CJC a, 1919) proibì ogni edizione della Bibbia curata da acattolici e qualunque testo sia del Nuovo che dell'Antico Testamento pubblicato nella lingua parlata del popolo che non fosse corredato di note. Nella lettura liturgica bisogna leggere solo una traduzione che sia approvata dalla chiesa.

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2) Attuale ritorno alla Bibbia

Il Vaticano II parlò frequentemente della Bibbia, in vari documenti dedicati alla chiesa, alla liturgia, all'ecumenismo, ma specialmente nella Costituzione dommatica sulla Divina Rivelazione che dalle sue parole iniziali si intitola appunto Dei Verbum. Vi si legge che:

Nei Libri Sacri il Padre che è nei cieli, viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e conversa con loro (Dei Verbum 21). « Cristo è presente nella sua parola giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la parola di Dio» (CL 7a). Le Divine Scritture «ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, impartiscono immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare la voce dello Spirito Santo nelle parole dei profeti e degli apostoli » (Dei Verbum 21).

Perciò Paolo VI raccomanda ai fedeli che vogliono «essere discepoli attenti e osservanti del Concilio» di « dare nuova e grande importanza alla S. Scrittura, alla sua ascoltazione». Ma «ascoltare non basta, bisogna meditare, cioè assimilare. Perciò è necessaria la lettura della S. Scrittura, è necessario lo studio... cercando la guida dei bravi esegeti, guidati dalla Chiesa ». Si deve infatti ripetere con Girolamo che « l'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo».

Rifacendosi a un'immagine dell'apostolo Pietro, papa Montini paragona la Bibbia a una luce:

Se uno cammina nelle tenebre non sa dove va. Occorre che si accenda una luce. E questa luce è la fede, è la nostra religione, è la parola di Cristo che ci dice donde veniamo, dove andiamo e perché esistiamo. Il segreto della nostra esistenza è in questa rivelazione che ci è data da Cristo, dal suo vangelo... Quando in un ambiente oscuro, nella notte, si accende una luce, gli occhi vedono le cose. Le cose acquistano un posto, una figura, un senso.
Ebbene, ciò che dà senso alla nostra vita è la luce centrale della fede (Oss. Rom., 20/21, 3-72, p. 1).

A tale scopo deve servire la liturgia nella quale vanno aperti ai fedeli «i tesori della Bibbia», leggendone le parti più importanti.

Massima infatti è l'importanza della S. Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa si attingono le letture da spiegare poi nell'Omelia e nei Salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le azioni e i gesti liturgici (CL 24).

E' poi necessario che

la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura... Nella Parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza da essere sostengo e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza nella fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale.

Si consigliano quindi delle nuove traduzioni dall'originale ebraico o greco in lingua popolare in modo che possano riuscire comprensibili a tutti, da attuarsi possibilmente con la cooperazione delle società bibliche protestanti, ora non più bandite.

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3) Chiesa docente e magistero ecclesiastico

Dinanzi a questa esaltazione della Bibbia sembrerebbe logico e naturale che ogni cristiano possa e debba riferirsi ad essa nella ricerca della verità e nel dirigersi sulla via della salvezza. Ma tale non è il pensiero cattolico, che ha esaltato l'importanza del magistero ecclesiastico, perché ogni generazione possa risolvere i problemi che di continuo vengono a rinascere. Di questa storia, insieme altamente drammatica e affascinante, dello sviluppo dei dommi ha parlato con senso di alta poesia Paul Claudel nella pagina che qui riporto:

Quando nella Chiesa del mio villaggio io sento il credo, un articolo dopo l'altro, recitato dall'aspra voce del cantore alla quale risponde l'argentino accento delle ragazze, un intimo entusiasmo mi fa trasalire e mi pare di assistere alla creazione del mondo. Ognuna di quelle formule, ognuna di quelle espressioni date all'eterna verità io so che cosa sono costate, a prezzo di quante convulsioni, di quanti strazi del cielo e della terra, di quanti torrenti di sangue, di quanto sforzi, di quanti parti della mente e di quanti effusioni della grazia sono venute alla luce. Vedo questi grandi continenti emergere e delinearsi dinanzi a me uno dopo l'altro, vedo l'umanità nelle doglie del parto che, finalmente riesce a strapparsi dal cuore la definizione definitiva. E' come una cattedrale che è ad un tempo immobile e in cammino con tutti i suoi pilastri dal portico al coro.
Gesù passa facendo del bene, ma dietro di lui ha lasciato, come una processione di testimoni che van l'uno dietro l'altro, quelle parole che non passeranno mai.

Al tempo del Concilio di Trento tali dommi si deducevano dalla rivelazione apostolica presentata non solo nella Bibbia (ritenuta incompleta) ma anche nella Tradizione orale, vale a dire nell'insegnamento apostolico trasmesso a voce e più tardi messo in iscritto senza che fosse incluso negli scritti neotestamentari. Perciò lo schema della rivelazione secondo il Concilio di Trento si può tracciare nel modo seguente:
 

 
Rivelazione apostolica

Bibbia
(Tradizione scritta)

Tradizione
(non scritta nella Bibbia

Insegnamento odierno

Questa interpretazione fu di certo sostenuta dal card. Bellarmino (+ 1621) che così scrisse: « La Scrittura è una regola di fede non totale, ma parziale. La regola di fede è la parola di Dio, ossia la rivelazione di Dio fatta alla Chiesa: essa si divide in due regole parziali, la Scrittura e la Tradizione... La Scrittura, essendo regola di fede non totale ma parziale, non comprende tutto, vi sono elementi di fede che non vi sono contenuti ». Gran parte dei più recenti dommi cattolici deriverebbero dalla tradizione «tramandata di mano in mano » ad opera dei vescovi.

Questa situazione doveva prolungarsi fino ai nostri tempi, anche se già nel 19° secolo una nuova corrente, apparsa in campo cattolico e sostenuta principalmente dal teologo tedesco Moehler (1796-1838), aveva asserito l'inseparabilità della tradizione dalla S. Scrittura: la tradizione non è che un mezzo per meglio chiarire la Bibbia. L'esame degli atti del Concilio di Trento mostra che i vescovi presenti non intesero decidere l'esatto rapporto tra Bibbia e Tradizione, tant'è vero che nel decreto finale eliminarono il « partim» esistente nello schema iniziale: « La rivelazione ci viene trasmessa in parte dalle S. Scritture e in parte dalla tradizione ».

Si comprende quindi come mai i Padri e i teologi medievali avessero sempre asserito la sufficienza della S. Scrittura, riducendo la tradizione a un'interpretazione di quella.

Il Vaticano II, pur nell'ambiguità espressiva che gli è propria, sembra aderire alla nuova presentazione. Dopo aver detto che Scrittura e Tradizione sono tra loro strettamente unite, le mette poi entrambe, a quel che pare, su di un piano di parità, quando afferma che devono essere accolte con «pari pietà e riverenza» (Dei Verbum 9). La frase, come si vede dal contesto, vi fu inserita dietro richiesta della minoranza e a prezzo di negoziazioni assai laboriose. In complesso sembra però che il Concilio ponga la Scrittura in una posizione unica: ispirata da Dio « è norma suprema della propria fede», e questo malgrado l'aggiunta, del tutto fuori contesto, di un «assieme alla tradizione (Dei Verbum 21). La Tradizione non fa che «trasmettere integralmente la Parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli e ai loro successori» (ivi 9). I successori degli apostoli costituiscono quindi la guida della tradizione, per cui si può dire che

La sacra Tradizione e la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter sussistere indipendentemente.

Il rapporto Bibbia-Tradizione si può quindi sintetizzare nello schema seguente:

Tradizione apostolica
(Bibbia: N.T.)
|
Tradizione ecclesiastica
|
Magistero ecclesiastico
(Papa e vescovi assieme)

Accogliendo questo schema, la Bibbia si può ritenere come la Magna Charta della Chiesa, paragonabile alla Costituzione degli Stati Uniti. Né la Bibbia né la Costituzione americana hanno l'autorità di obbligare chiunque non lo desideri a sottostare alla loro verità. Membri di altre confessioni religiose non sono retti dalla Bibbia, come i cittadini di altre nazioni non sono guidati dalla Costituzione degli Stati Uniti. Tuttavia tanto la Chiesa Cattolica quanto i cittadini dell'America settentrionale si sottopongo rispettivamente all'autorità normativa della Bibbia e della loro Costituzione. Quest'ultima, rispettato documento del passato, è resa continuamente attuale attraverso le varie legislazioni che determinano la vita quotidiana dei cittadini e superano l'originaria intenzione dei redattori della Costituzione. La Corte Suprema ha l'incarico e il potere di interpretarla autoritativamente, perché si adegui ai casi particolari del presente. Senza questa Corte Suprema e i suoi continui interventi la Costituzione sarebbe un semplice documento del passato.

Anche la Bibbia è una raccolta di azioni, di parole, di interventi divini che preparano e creano la Chiesa. La Bibbia continua ad essere attuale attraverso la Chiesa: essa, sostenendo la Chiesa, è a sua volta sorretta dall'autorità ecclesiastica (magistero), che con i suoi interventi adegua la Bibbia alle esigenze del tempo in continuo mutamento. Be deriva in pratica che è il magistero della Chiesa a controllare la testimonianza della Bibbia e ad esaltarne l'autorità. Essa è costituita dal Papa e dai vescovi nel loro insieme che siano in comunione con il papa, perché ad essi fu affidato il compito

di insegnare, di diffondere il suo messaggio (di salvezza) e di custodire il deposito della fede, quanto più gravi e più numerosi sono i pericoli che oggi lo minacciano.

Tocca a loro decidere « se le nuove dottrine e le soluzioni proposte per risolvere i problemi nuovi » siano conformi alla Rivelazione e « proporre con autorità i nuovi approfondimenti e le nuove applicazioni della dottrina rivelata che esso (magistero), nella luce dello Spirito Santo di cui dispone, trova conformi alla dottrina di Cristo».

La Chiesa nasce dalla Chiesa docente... La Chiesa possiede un sé un organo che la istruisce, che le garantisce la genuina espressione della Parola di Dio, un Magistero gerarchico, generatore del popolo cristiano – Polo VI adduce il fatto che l'apostolo di Tarso non si presentò quale semplice precettore, come tanti altri – bensì come un padre che tramite l'evangelo genera i propri figli (1 Co 4, 15; Ga 4, 19). Dunque fra Cristo e i cristiani si inserisce una potestà docente, il magistero gerarchico.

Quindi Magistero e parola di Dio si identificano tra loro:

In un mondo in via di secolarizzazione, la chiesa riscopre la sua missione profetica di messaggera della buona novella della salvezza. Così il filo tagliente della spada della parola non potrà giammai smussarsi (cf. Eb 4, 12; Ap 1, 16; 2, 6)... E' la Parola di Dio che dobbiamo trasmettere, non già una parola umana, e questa parola ci è offerta dalla Chiesa (io direi dalla Bibbia) il cui magistero ce ne garantisce l'autenticità.

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4) Gli strumenti del magistero

Il vertice supremo del magistero – come abbiamo già visto – sta nel vescovo di Roma, il Papa, per cui si può dire che la

tradizione è un fiume che passa per Roma, anzi un fiume che dalla Roma di Pietro trae la sua principale sorgente... Qui passa Cristo fatto uomo e fatto pastore di uomini, passa la sua tradizione autentica... La Tradizione è stabilità e movimento nella fede e movimento nelle sue forme storiche, contingenti, umane. Cioè verità sempre uguale e sempre viva. Questa è la tradizione e questa è la prerogativa di cui Roma ha, per via di Pietro e per volere di Cristo, il primato [Paolo VI il 28-6-71 (Oss. Rom. 30/1-6/7-70, p. 1)].

Nella teologia cattolica non è stato ancora chiarito in modo teorico il rapporto tra magistero romano e Bibbia, dal momento che la dottrina stessa del magistero è pur sempre allo stato fluido. Dopo il Vaticano II vi è la tendenza a lasciare maggior libertà agli esegeti e ai teologi. Tuttavia una certa tensione appare dalle seguenti parole del Vaticano II:

L'ufficio di interpretare in modo autentico la parola di Dio, sia essa stata scritta o trasmessa oralmente, è stato affidato esclusivamente al magistero vivente della Chiesa (soli vivo Ecclesiae Magisterio concreditum est), la cui autorità è esercitata in nome di Gesù Cristo. Questo magistero non è al di sopra della parola di Dio, ma serve ad essa, la custodisce scrupolosamente, la spiega fedelmente per mandato divino e con l'aiuto dello Spirito Santo (Dei Verbum 2, 10). Tutto ciò che è detto circa il modo di interpretare la Scrittura è sottomesso infine al giudizio della Chiesa che svolge il comando e il ministero divino di custodire e interpretare la parola di Dio (ivi 3, 12).

Vi è quindi tensione tra il magistero e la parola di Dio: «Storicamente la chiesa è riuscita ed ha insieme fallito nel suo scopo, per cui con tutta probabilità essa avrà sempre un successo misto a insuccesso » (R.E. Murphy, The Roll of the Bible in Roman Catholic Theology, in «Interpretation», 24 (1971), p. 83).

Il diritto della chiesa a interpretare la Bibbia secondo i concili di Trento e dei Vaticano I e II è « esclusivo» (soli magisterio) e « finale» (ecclesiae judicio ultimo subsunt). Lo Hans Kümmeringer pensa che tale diritto consista nel decidere se una data interpretazione sia contraria o no al pensiero della Chiesa (Conc. di Trento). Allo stesso modo si dovrebbe ricondurre anche l'asserzione del Vaticano I che affida al magistero il compito di determinare il senso della Bibbia (is pro vero sensu... habendus sit), in quanto si può pensare che questo concilio non intendeva superare i limiti imposti dal tridentino. Il Vaticano II sembra aver migliorato tale situazione quando esorta gli esegeti a lavorare per la retta interpretazione biblica in modo da far maturare il giudizio della Chiesa su tale materia.

Circa l'organizzazione della Chiesa si pensa oggi da molti esegeti cattolici che la Bibbia non può essere una norma sicura dal momento che in essa – secondo lo Schillebeeckx – appare un pluralismo di ministero e non un modo unico di organizzare la famiglia di Dio. Al contrario, afferma lo Hans Küng, la Bibbia dovrebbe essere normativa nel senso che dovrebbe impedire alla chiesa di identificare l'organizzazione ecclesiastica con una qualsiasi di quelle ora esistenti. Altri pensano che la Bibbia possa essere una norma in quanto presenta delle direttive e delinea degli elementi costitutivi i quali devono dirigere il futuro sviluppo della chiesa.

Paolo VI, richiamandosi al Vaticano I, sostiene che:

Dio ha affidato la S. Scrittura alla sua chiesa e non al giudizio dei dotti e che pertanto essa deve essere interpretata secondo le norme della tradizione e della ermeneutica cristiana, sotto la guida della custodia del magistero ecclesiastico (Sess. III, c. II).

Con la lettera apostolica Sedula cura del 27 giugno 1971 (Oss. Rom. 9-7-71, p. 2) egli ha pure riorganizzato la commissione biblica, i cui membri devono essere nominati per un quinquennio dallo stesso papa in numero non superiore a venti. Il suo segretario è automaticamente annoverato, durante la propria carica, tra i consultori della S. Congregazione per la Dottrina della Fede (Ex: Uffizio). Le conclusioni alle quali la commissione giunge circa i quesiti ad essa sottoposti, saranno poi sottomesse al giudizio del romano pontefice.

Al dire di Hubert Jedin, il rapporto tra l'attività teologica scientifica e il magistero è oggi quanto mai problematico; occorre che chiesa e magistero cooperino insieme in quanto sono tra loro interdipendenti. Nell'alto e basso medioevo la carenza dei vescovi in tale campo fece passare tutto in mano delle facoltà teologiche che, soprattutto nei concili della riforma, cercarono di appropriarsi il carisma del magistero. «Teologia e magistero si condizionano a vicenda e solo con la reciproca armonica cooperazione di entrambi la chiesa può assolvere la sua missione. Se quest'ordine, che è a un tempo tensione, viene turbato, le crisi seguono inevitabilmente » (H. Jedin, Teologia e magistero, in Oss. Rom. 13-1-73, p. 5).

Ad ogni modo si sostiene usualmente che duplice è l'azione del papa nello sviluppo della tradizione, una solenne e quindi infallibile e un'altra non solenne e conseguentemente fallibile.

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a) Espressione solenne ed infallibile (ex cathedra)

Si ha quando il papa emana un insegnamento di fede e morale vincolante l'intera chiesa (ex cathedra). Così ne parla il Vaticano I:

Il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando definisce, come Pastore e Maestro di tutti i cristiani, una dottrina intorno alla fede e ai costumi, da tenersi da tutta la chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona di Pietro, gode di quella infallibilità che il divin Redentore ha voluto dare alla sua Chiesa; e pertanto queste definizioni del Romano Pontefice, sono irreformabili per se stesse, senza il consenso della Chiesa (Vaticano I, Costit. Pastor Aeternus del 18 luglio 1870, cap. IV, Denz. Sch. 3074 (1839), 3075).

Anche il Vaticano II ha confermato la precedente definizione quando disse:

la predetta dottrina il Santo Concilio la propone a tutti i fedeli perché sia fermamente creduta (Lumen gentium, 18 b).

L'infallibilità papale, diceva lo stesso Paolo VI:

tocca un punto decisivo della vita della Chiesa, di tutti i cristiani e del mondo, quella della verità rivelata. Tutti, oggi più che mai, vi sono interessati. Tale dogma, ben compreso... non è uno scoglio, contro il quale urta dentro e fuori della Chiesa il pensiero moderno, ma il faro benefico che lo orienta alla sua irrinunciabile conquista: la verità della salvezza [Paolo VI, Allocuzione del 10-12-70 (Oss. Rom. 11-12-70, p. 1)].

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b) Insegnamento ordinario fallibile

Il Vaticano I ha pure affermato che si devono ritenere di fede divina e cattolica anche tutte le altre verità proposte a credere, come divinamente rivelate, dall' insegnamento ordinario di tutto l'episcopato unito al Romano Pontefice . Va anzi detto che ben di rado il papa interviene in modo solenne; usualmente non si impegna come maestro supremo, per cui la sua infallibilità di solito non entra in gioco. L'indagine teologica o le decisioni ecclesiastiche finora non hanno definito il comportamento del cristiano a tale riguardo, benché il Vaticano II abbia chiaramente asserito:

Al magistero autentico del Romano Pontefice anche quando non parla ex cathedra è dovuto a titolo speciale, religioso ossequio dell'intelletto e della volontà; tale, cioè, che il supremo magistero sia rispettosamente ammesso e sia data adesione sincera ai giudizi da lui pronunciati.

E' lui infatti – dicono i teologi – che dirige e guida il magistero ordinario dei vescovi, preparando la suprema formulazione ex cathedra. E' l'autorità del papa che forma la retta coscienza degli stessi vescovi. Anche se di solito il papa presenta solo ciò che usualmente è già stato ammesso dai vescovi e dalla chiesa, talora egli può anche seguire la sua via a costo di divenire impopolare.

Oggi si tende a spiegare l'ubbidienza a tale magistero ordinario come la sottomissione alle decisioni di un perito, le quali vanno accolte nel medesimo modo in cui si accolgono quelle dei medici, avvocati e ingegneri, veri specialisti in materia, anche se non infallibile. Il papa è uno specialista in campo religioso che, per di più, è anche illuminato dallo Spirito Santo. Vasta è la gamma espressiva con cui il sommo pontefice può esercitare il suo magistero ordinario: ne occupa il primo posto la Professione di fede della quale fu esempio cospicuo quella letta da Paolo VI il 30 giugno 1968, che pur non essendo una definizione dommatica, è una ferma testimonianza al cattolicesimo tradizionale lasciato integro e inalterato, mostrando l'aspetto statico di questo credo. Seguono le Encicliche o « circolari» inviate ai vescovi di tutto il mondo, così chiamate a partire dall'enciclica Ubi primus di Benedetto XIV (3 dicembre 1740). Vengono poi i radiomessaggi e da ultimo i discorsi di vario genere rivolti a gruppi ristretti di persone, che, pur essendo di tono esortativo contengono spesso un voluto insegnamento religioso. Occorre quindi – dicono i teologi cattolici – evitare a loro riguardo i due estremi di sopravvalutarne il valore quasi fossero infallibili, ma anche di sminuirne l'importanza indulgendo a ostruzionismi precostituiti. « Il cattolico è credente perché accetta tutte le verità proposte a credere, ma le accetta e le vive perché è credente » (Umberto Betti, Il Magistero del Romano Pontefice, in Oss. Rom. 4-4-70, p. 1 s; citazione a p. 2).

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5) Aggiornamento della fede al suo passato

In virtù dell'assistenza che lo Spirito Santo concede al magiestro «la chiesa cattolica di oggi non può essere accusata di sostanziale infedeltà al pensiero del suo divino fondatore» (Paolo VI in Oss. Rom., 6/7-12-65, p. 1), né di aver «deformato e tradito il deposito affidatole, nel quale essa pure ha invece scoperto « tesori di verità e di vita ai quali sarebbe infedeltà rinunciare » (Paolo VI, in Oss. Rom 30-9-63, p. 3).

Oh, non è orgoglio, non è presunzione, non è ostinazione, non è follia, ma luminosa certezza... d'essere autentici eredi del Vangelo di Cristo, d'essere rettamente i continuatori degli apostoli, d'avere in noi, nel grande patrimonio di verità e di costumi, che caratterizzano la chiesa cattolica... l'eredità intatta e viva della originaria tradizione apostolica (Paolo VI, Ecclesiam Suam n. 23).

Dai pensieri sopra riferiti, ne derivano tre necessarie conseguenze: non rigido attaccamento al passato, non eccessivo allontanamento dalla tradizione precedente e obbedienza al magistero ecclesiastico.

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a) Non rigido attaccamento al passato

Giovanni XXIII, pur asserendo che non si può distogliere lo sguardo dal passato, disse che la chiesa deve rivolgersi

ai tempi presenti, che comportano nuove situazioni, nuove forme di vita, ed aprono nuove vie all'apostolato cattolico... Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere rispettata fedelmente, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca. In effetti, altro è il deposito della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra veritiera dottrina, e altro è la forma secondo la quale queste verità sono enunciate conservando loro tuttavia lo stesso senso e la stessa portata (Giovanni XXIII, Discorso inaugurale del Vaticano II l'8-12-62).

Contro il rigidismo di taluni Paolo VI vuole che «la adesione alla verità da noi ricevuta da Cristo, evoluta e fissata nel Magistero della Chiesa, convalidata da Pietro, non sia statica e immobile, nel suo linguaggio storico e sociale da precludere la comunicazione agli altri, e agli altri l'accessibilità » (Allocuzione di Paolo VI il 29-6-69). Per tale ragione ha voluto creare una Commissione teologica internazionale , poiché «allo stato odierno delle cose è necessario provvedere all'incremento delle ricerche e degli studi teologi, specialmente in ordine alle nuove questioni, che lo sviluppo delle scienze e le tendenze della mentalità odierna pongono alla retta comprensione e alla migliore esposizione della dottrina cattolica » (Oss. Rom. 29-4-69).

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b) Aderenza alla Tradizione

Contro gli oppositori della tradizione Paolo VI ricorda che non aspetta al singolo compiere l'inventario di ciò che è caduco e che il cosiddetto spirito profetico attuale non deve far dimenticare il bene del passato:

Questo inventario del retaggio antico esige competenza e autorità; in una comunione com'è la Chiesa, nessun privato lo può fare da sé; né tanto meno, fatto l'inventario, può di proprio arbitrio, dichiarare la scelta di ciò che deve rimanere da ciò che può lasciare decadere. La Chiesa, nei suoi organi autorizzati, in seguito al Concilio, sta facendo questo inventario; e chi le è fedele non deve arrogarsi la licenza d'anticiparne il giudizio. Nulla nella Chiesa è come un concerto musicale; nemmeno uno strumento aristocratico può suonare in una orchestra come e ciò che gli piace (Allocuzione 5-11-69; Oss. Rom. 6-11-69).

Circa il carisma profetico ora tanto esaltato e che vorrebbe polverizzare tutto il passato, Paolo VI afferma che i carismi dello Spirito Santo, pur essendo concessi a tutto il popolo di Dio, anche al semplice fedele, nella «loro verifica di esercizio sono soggetti all'autorità del ministero gerarchico ». Il papa conclude poi dicendo: « Forse che la tradizione, l'aspetto oggi più diffamato della nostra Chiesa, non risplende di uomini e di opere grandi? Forse che ella non ci dà tutt'oggi esempi di sapienza e di santità? Amare la Chiesa! Ecco il bisogno di oggi, ecco il nostro dovere!» (Allocuzione di Paolo VI il 24-9-69 in Oss. Rom. 25-9-69).

«Nessuno può desiderare la novità nella chiesa, là dove la novità significa tradimento alla norma delle fede; la fede non si inventa né si manipola; si riceve, si custodisce, si vive » (Oss. Rom. 13/14-3-72).

Possiamo noi supporre che la gerarchia sia libera di insegnare nella sfera religiosa quello che le piace? O quello che può piacere a certe correnti dottrinali o meglio adottrinali della opinione moderna?... Il Cristianesimo non può cambiare le sue dottrine costituzionali. I vescovi sono coloro che più di ogni altro devono custodire il "Deposito della fede"... Il credo rimane. Sotto questo aspetto la Chiesa è tenacemente conservatrice, perciò non invecchia (Oss. Rom. 7-10-71, p. 1).

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c) Obbedienza al magistero

E' vero, disse Paolo VI, che « non vi può essere collisione tra il primato della scienza e della autorità», ma chi impugna il magistero ecclesiastico

attenta alla Chiesa unica e vera, indebolisce la sua virtù apostolica, favorisce non già l'integrazione ecumenica nella verità e nella carità, ma purtroppo la dispersione del gregge di Cristo e contrae perciò un grave debito verso le anime che hanno, ovvero cercano la fede, e incontra responsabilità di fronte al giudizio di Dio (Allocuzione del 6-10-69 Oss. Rom. 7-10-70).

Già nella enciclica Ecclesiam Suam Paolo VI osservava che quando delle opinioni individuali si fanno passare per magisteriali, non v'è dialogo in pienezza di fede, di carità e di opere. Occorre quindi obbedire!

Per obbedienza intendiamo l'osservanza delle norme canoniche e l'ossequio al governo del legittimo superiore... Lo spirito di indipendenza, di critica, di ribellione male si accorda con la carità animatrice della solidarietà, della concordia, della pace nella Chiesa, e trasforma facilmente il dialogo in discussione (Enciclica Ecclesiam Suam nn. 118 s).

Anche se un insegnamento non appare chiaro al credente occorre accettarlo ugualmente, perché solo il magistero ha la vista acuta per scoprirlo, per cui alla norma luterana: « sola Scriptura» si può ora sostituire il nuovo assioma «magisterium solum». Ignazio di Loyola arrivò ad affermare in una delle sue sentenze: « Se qualcosa appare bianco ai nostri occhi, ma l'autorità della chiesa lo definisce nero, dobbiamo affermare senza alcun dubbio che è nero, e lo è certamente» (Riportato dal V. Levi nel suo articolo Infallibile in Oss. Rom. 24-7-70, p. 1).

Se dai fedeli si esige obbedienza, dal papa si richiede coraggio nel tracciare la via, anche contro le opinioni contrastanti assai diffuse:

Per noi che per divina misericordia possediamo questo scutum fidei, lo scudo della fede (Ef 6, 16), cioè una verità difesa, sicura e capace di sostenere l'urto delle opinioni impetuose del mondo moderno (cf. Ef  4, 14), una seconda questione si pone, quella del coraggio... esso è domandato principalmente a chi della verità è maestro e vindice, riguarda anche tutti i cristiani... ed è oggi servizio grande al mondo moderno, che forse, più che noi non supponiamo, attende da ciascuno di noi questa benefica testimonianza (Paolo VI Discorso del 20-5-70; Oss. Rom. 21-5-70).

I teologi cattolici in generale si trovano quindi d'accordo con lo stesso Bertrand Russell, quando affermò che una società sana esige sia il controllo centrale che l'iniziativa individuale. «Senza il controllo c'è l'anarchia, senza l'iniziativa c'è il ristagno» (B. Russel, Authority and the Individual, The Reith Lectures, Beacon Press 1960). Non basta appellarsi alla propria coscienza, perché l'autorità del Sommo Pontefice è in questo norma sicura per fornire la retta coscienza anche ai vescovi. Perciò Paolo VI parlando della predicazione affermò che « in questo processo di riforma del linguaggio religioso non si alteri, non si disperda il contenuto divino e immutabile affidato da Cristo alla Chiesa, e presidiato dal suo magistero provvidenziale e responsabile della perenne fedeltà al verbo rivelato» (Discorso di Paolo VI il 6-5-70; Oss. Rom. 7-5-70, p. 1).

Infatti:

La coscienza da sola, non illuminata da principi trascendenti e non guidata da un magistero competente, non può essere arbitra infallibile della moralità dell'azione: è un occhio che ha bisogno di luce.
Benché il magistero ecclesiastico si avvalga della contemplazione, della condotta e della ricerca dei fedeli, il suo ufficio non si riduce, tuttavia, alla ratifica del loro consenso, ma esso può prevenire ed esigere tale consenso per quanto concerne l'interpretazione e la spiegazione della parola di Dio, sia scritta che trasmessa.
Di questo intervento il popolo di Dio ha particolarmente bisogno, quando sorgono e si diffondono dissensi interni su di una dottrina che deve essere creduta o ritenuta...
Gesù Cristo nell'affidare ai pastori (vescovi) l'incarico di insegnare il Vangelo a tutto il suo popolo e all'intera famiglia umana, volle dotare il loro magistero di un adeguato carisma di infallibilità... Nell'esercizio della loro funzione i pastori della Chiesa sono convenientemente assistiti dallo Spirito Santo; e questa assistenza raggiunge il vertice quando ammaestrano il popolo di Dio in modo tale... che il loro insegnamento è necessariamente immune da errore.
Questo si verifica quando i vescovi dispersi nel mondo, ma in comunione con il successore di Pietro, convergono in un'unica sentenza da ritenersi definitiva. I vescovi con un atto collegiale (come nel caso dei concili ecumenici) unitamente al loro Capo visibile definiscono che una dottrina deve essere ritenuta. Si verifica pure quando il romano pontefice «parla ex cathedra, quando cioè, nell'adempimento dell'ufficio di pastore e dottore di tutti i cristiani con la sua suprema potestà apostolica definisce che una dottrina sulla fede e i costumi deve essere accolta dalla chiesa universale» (Vaticano I, Dei Filius, 3).
Secondo la dottrina cattolica l'infallibilità del Magistero si estende non solo al deposito della fede, ma anche a tutto ciò che è necessario perché esso possa venire custodito ed esposto come si deve... (Paolo VI, 7-10-70; Oss. Rom. 8-10-70).

Data questa impostazione dell'infallibilità episcopale e pontificia, va quindi eliminata ogni concezione che ritenga i dogmi come delle formulazioni provvisorie atte ad esprimere in modo indefinito ciò che essi contengono. Non si tratta di approssimazione ma di verità, che non si possono alterare senza cadere nel relativismo dommatico.

Il motivo di tale presa di posizione è presentato dalla esortazione apostolica Quinque iam annos, nella quale Paolo VI nel quinto anniversario del termine del concilio, ha riaffermato la necessità del magistero: spetta ai vescovi dire ai fedeli, teologi compresi, ciò che Dio chiede loro di credere, perché essi e non altri furono abilitati dallo Spirito Santo a reggere la chiesa (cf. At 20, 28). Solo tramite il magistero è concesso ai credenti di comprendere nel suo giusto senso la parola di Dio. Vescovi e papi non possono impedire l'insorgere di errori, ma devono denunziali con chiarezza e fierezza. Paolo VI deplora che oggi perfino i dommi più fondamentali del cristianesimo siano messi a tacere o travisati. E' dissolto il domma trinitario: non più tre persone uguali e distinte, ma tre diverse rappresentazioni di Dio in quanto egli è creatore, redentore e santificatore. E' demolito il domma cristologico, non più centrato sull'unione ipostatica, ma piuttosto sul fatto che l'uomo Cristo si eleva sino a divenire la suprema manifestazione di Dio. E' svuotato il domma eucaristico, in quanto la presenza del Signore non è più legata al sostanziale cambiamento del pane e del vino fino a che ne durino le apparenze, ma rientra solo nel regno del simbolo e della presenza nel cuore di chi si comunica. La chiesa non è più presentata come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale è posto in dubbio, l'indissolubilità del matrimonio è negata e se ne toglie il suo rapporto primario con la generazione della vita e la sua conservazione, dopo averla generata.

Tutto ciò soltanto perché, sottraendo alla suprema istanza del magistero ecclesiastico, si prende a norma esclusiva della fede la Bibbia, che per di più si sottopone a una radicale demitizzazione, ora di moda. Quindi, partendo proprio dalla Bibbia, si farebbe strage della fede. Ecco di conseguenza la necessità che il popolo di Dio si affidi al magistero, sapendo che chi si sottrae alla comunione con il vescovo e con gli altri capi del collegio episcopale, si separa da tutta la chiesa.

Contro tali errori la congregazione per la dottrina della Fede (il 9 marzo 1972), pur senza anatemi, aveva già fatto sentire la sua voce contro « recenti errori » riguardanti i misteri della incarnazione e della Trinità. Si tratta di teologi per i quali:

Non sarebbe rivelato e noto che il Figlio di Dio sussiste ab aeterno, nel mistero di Dio, distinto dal Padre e dallo Spirito Santo... sarebbe da abbandonare la nozione di unica persona di Gesù Cristo, nata prima dei secoli dal Padre e nel tempo da Maria vergine...; l'umanità di Gesù Cristo esisterebbe, non come assunta nella persona eterna del Figlio di Dio, ma piuttosto in se stessa come persona umana... Il mistero di Gesù cristo consisterebbe nel fatto che Dio che si rivela sarebbe sommamente presente nella persona di Gesù (Oss. Rom. 10-3-72).

Paolo VI lo ha definito « un atto rilevante del magistero eccelsiastico» ricordando come «questi misteri principali della nostra religione » (divinità di Cristo e Trinità) sono stati « qua e là non rettamente interpretati da diversi autori, con grave pericolo di irriverenza verso i misteri stessi e di deformazione della nostra fede».

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d) Infallibilità

La presentazione della dottrina cattolica non piace a tutti gli studiosi: P. Sesboüé, ad esempio, lamenta il fatto che la dommatica attuale sia in funzione del dogma; si parte infatti dalla definizione dommatica per difenderla con citazioni tratte dalla Bibbia e da testi di tradizione, mentre si dovrebbe tornare alle origini per rivedere il dogma attuale. Anche W. Capler Casper sostiene che « la teologia dommatica non può essere una semplice esegesi delle definizioni dogmatiche date dal Denzinger e nemmeno una semplice loro difesa. Essa è un'attività della chiesa che di continuo deve rinnovellare il proprio senso dommatico alle sue sorgenti (che sono le Sacre Scritture) e svolgerlo in funzione della sua attuale missione, che è quella della predicazione missionaria ».

Di fronte ai tentativi di moderni teologi i quali si allontanano sempre più dalle antiche formulazioni dommatiche con la scusa che bisogna dare loro, in base al continuo progresso della scienza, un senso diverso da quello che la chiesa ha sempre inteso, la S. Congregazione della Fede (ex S. Uffizio) il 24 giugno 1973 ha emanato un documento circa la dottrina cattolica nel quale si esalta l'infallibilità pontificia posta in dubbio, tra l'altro, da teologi come Hans Küng e da vescovi come F. Simons. In tale documento, dopo aver asserito che unica dev'essere la Chiesa di Cristo, si riafferma che « Dio, l'assolutamente infallibile, ha voluto dotare il suo popolo nuovo, che è la Chiesa, di una infallibilità partecipata, circoscritta alle realtà riguardanti la fede e i costumi». Tuttavia lo « Spirito Santo illumina... il popolo di Dio, solo quando è unito in comunione gerarchica», vale a dire è ricollegato ai vescovi e al papa.

Per istituzione divina, ammaestrare i fedeli autenticamente, ossia con l'autorità di Cristo loro comunicata in grado diverso, spetta esclusivamente ai vescovi (pastori) successori di Pietro e degli altri apostoli. I fedeli quindi, anziché limitarsi soltanto ad ascoltare, sono tenuti anche ad accogliere l'insegnamento che da loro viene impartito a nome di Cristo, in proporzione all'autorità che essi detengono e che intendono esercitare...

Come si vede siamo rientrati nella linea della piena ortodossia del Vaticano I e sono sconfessati tutti i tentativi di mitigare alquanto l'infallibilità pontificia. Si è solo messo maggiormente in risalto come tutta la chiesa partecipi alla infallibilità divina, sia pure in misura diversa secondo la scala gerarchica: fedeli, vescovi e papa. Ma è proprio questo il pensiero biblico? Si tratta di un vero dono elargito alla chiesa o alla usurpazione di un privilegio divino?

Questa assolutezza sconcerta molti cattolici: il p. François Rfeoulé riporta la seguente lettera di una svedese convertita al cattolicesimo:

C'è una quantità di cose nel cattolicesimo, che mi restano estranee e mi sembrano indifferenti (e false, ma questo non tocca l'essenziale). Io non credo a tutte le cerimonie esterne della Chiesa Cattolica. Credo in Maria, ma la ragione mette in dubbio il suo posto enorme nella Chiesa... Non credo a tutta questa gerarchia di angeli, di spiriti e di demoni, di cui la Chiesa parla con tanta sicurezza. Non credo alla resurrezione della carne, al ritorno di Cristo, alla retribuzione, ecc. Di tutto questo, nessuno sa niente. Neanche i primi cristiani, gli apostoli, neanche Gesù. La sola cosa che possiamo fare è di confidare in Dio, senza speculare si 'come ciò sarà in seguito'... Forse, tutto in questo mondo soprannaturale è come dice la Chiesa. Forse, è altrimenti. Solo Dio lo sa... Ciò che mi spaventa nella Chiesa cattolica è che essa s'immagina di aver risolto tutte le questioni, di poter dare una risposta a tutto.

Per questo occorre rifarci più propriamente alla Bibbia e vedere la risposta che essa ci dà.

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