DANIELE 8

VISIONE DEL MONTONE E DEL CAPRO

Introduzione

Nell'introduzione generale avevamo detto che il libro di Daniele è stato scritto in due lingue:
ebraico - dal cap. 1 fino al 2, 4a
aramaico - dal 2, 4 fino al 7, 28
ebraico - dal cap. 8 al cap. 12

Nel cap. 8 viene quindi ripresa nuovamente la lingua ebraica che viene mantenuta fino alla fine del libro e cioè fino al cap. 12.

Se questo cambiamento di lingua possa aver avuto qualche significato particolare nell' intenzione dell'autore del libro di Daniele, è difficile dirlo. Noi ci limitiamo semplicemente a prenderne nota.

Il cap. 8 non va comunque considerato come una semplice aggiunta al cap. 7 , nel senso che vengono ripetute le stesse situazioni, ma come un' integrazione nella quale ci si sofferma in modo particolare su due dei quattro regni, il secondo ed il terzo regno, quello Medo-Persiano e quello Greco, sui quali nel capitolo 7 si era sorvolato. Nel capitolo 8, infatti, questi due regni vengono messi a fuoco con un abbondanza di particolari che non abbiamo trovato nel capitolo 7.

Come al solito il capitolo 8 viene diviso in due parti:
– Nella prima parte, che va dal v. 1 al v. 14, abbiamo la descrizione della visione da parte di Daniele.
– Nella seconda, dal v. 15 al v. 27, abbiamo l'interpretazione della visione da parte dell'angelo Gabriele.

Da una visione universale della storia si passa, nel capitolo 8, ad una visione particolare che ha interessato in maniera diretta il popolo ebraico in uno dei momenti più difficili della sua sopravvivenza come nazione eletta di Di.

PREMESSA STORICA

Per comprendere bene la natura di questa visione in tutte le sue implicazione e conseguenze per il popolo ebraico è necessario fare una premessa storica, almeno nelle sue linee fondamentali.
La storia di uno dei due protagonisti della visione di Daniele, l'impero Medo-Persiano, l'abbiamo già esaminata, quando abbiamo parlato della dinastia degli Achemenidi, iniziata da Ciro e continuata dai suoi successori fino a Dario III che viene sconfitto da Alessandro Magno, prima a Isso nel 333 a.C. e poi definitivamente a Gaugamela nel 331. Un anno dopo questa sconfitta, Dario III muore e con lui si estingue definitivamente l'impero Medo Persiano.

L'altro protagonista della visione è l'impero Greco, che, nella persona di Alessandro il Macedone, subentra all'impero Medo Persiano nel governo universale del mondo allora conosciuto.

Ci aiuta in questa premessa storica anche il libro dei Maccabei che inizia proprio con una descrizione sommaria delle imprese di Alessandro Magno. In 1 Mac cap. 1, 1-8 leggiamo: «Queste cose avvennero dopo che Alessandro il Macedone, figlio di Filippo, uscito dalla regione dei Kittim(1) sconfisse Dario, re dei Persiani e dei Medi, e regnò nel suo posto, cominciando dalla Grecia. Intraprese molte guerre, si impadronì di fortezze e uccise i re della terra; arrivò fino ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra si ridusse in silenzio davanti a lui; il suo cuore si esaltò e si gonfiò di orgoglio. Radunò forze ingenti e conquistò regioni, popoli e principi, che divennero suoi tributari. Dopo questo cadde ammalato e comprese che stava per morire. Allora chiamò i suoi luogotenenti più importanti, che erano cresciuti con lui fin dalla giovinezza e mentre era ancora vivo divise tra loro il suo impero. Regnò dunque Alessandro dodici anni e morì. I suoi subalterni assunsero il potere, ognuno nella sua regione; dopo la sua morte tutti cinsero il diadema e dopo di loro i loro figli per molti anni e si moltiplicarono i mali sulla terra ».

L'epopea di Alessandro Magno

Con queste parole il libro dei Maccabei riassume la folgorante, drammatica fortuna di Alessandro Magno. Esaltato come uno dei più celebri conquistatori della storia, Alessandro si limitò a rasentare le alture fortificate del territorio di Giuda durante la sua marcia verso l'Egitto, eppure il suo breve passaggio cambiò per sempre il corso della storia ebraica.

La spettacolare ascesa al potere di Alessandro ebbe inizio nel 336 a.C., quando all'età di vent'anni succedette sul trono della Macedonia al padre Filippo II, che aveva perso la vita in un attentato. Egli rivelò subito le sue brillanti doti militari sottomettendo i numerosi staterelli della Grecia in perenne lotta tra loro.

Assicuratasi l'egemonia della Grecia, egli condusse il suo esercito in Asia Minore con l'intenzione di respingere i Persiani da questa regione. A Isso, nel 333 a.C., si scontrò con le armate di Dario III riportando una clamorosa vittoria nonostante che i nemici disponessero di forze tre volte superiori. Così Alessandro era arrivato al cuore dell'impero medo persiano, ma prima di proseguire ulteriormente la sua campagna di conquista dell' intera Asia, egli voleva assicurarsi da possibili sorprese di attacchi da parte delle truppe persiane in Egitto e, perciò, condusse il suo esercito verso quella regione.

Per annientare il controllo dei Persiani sul Mediterraneo orientale, Alessandro pensò di impadronirsi della principale base navale nemica che si trovava nella roccaforte della città di Tiro. Questa città-fortezza consisteva in due agglomerati urbani ben distinti, uno situato nella terraferma e l'altro su un isolotto, a meno di un chilometro dalla costa. L'eccellente reputazione militare di Alessandro è dovuta principalmente alle innovazioni da lui introdotte nell'impiego strategico delle poderose falangi di fanteria e della rapida azione della cavalleria, ma la situazione che ora gli si presentava di fronte nella città fortezza di Tiro stimolò ulteriormente il suo talento nel campo dell'ingegneria militare.

Non possedendo una flotta navale in grado di attaccare l'isolotto fortificato dalla parte del mare, Alessandro concepì l'idea geniale di costruire un immenso molo, una sorta di terrapieno, che consentisse ai suoi soldati di giungere fino alla roccaforte superando così il braccio di mare che separava l'isoletta dalla costa. Come prima cosa si preoccupò di conquistare la città sulla terra ferma e di raderla al suolo in modo da ottenere i detriti necessari per la costruzione del molo. Venne fatto venire appositamente il legname dalle foreste del Libano e si scavarono cave di pietra per fornire dell'altro materiale. Mentre fervevano i lavori di costruzione di questo molo, largo una sessantina di metri, e la costruzione avanzava sul mare in direzione della cittadella fortificata, i difensori della fortezza attaccarono con le catapulte, tempestando gli assalitori macedoni di pietre, piombo fuso e sabbia ardente, ma le truppe di Alessandro, per nulla scoraggiate da questa strenua resistenza, procedevano inesorabilmente nella costruzione del molo avvicinandosi sempre più alle mura fortificate. Una volta completato il gigantesco molo i Macedoni si scagliarono contro le mura massicce della roccaforte con le loro grandi catapulte da assedio e gli arieti, ma ottennero scarsi risultati. L'assedio si trascinava ormai da sei mesi, quando Alessandro, che nel frattempo aveva allestito una flotta navale, progettò un assalto combinato su vasta scala. Mentre le falangi con l'appoggio delle macchine da guerra, attaccarono dalla parte del terrapieno, le forze navali cercarono di aprirsi un varco ai lati. Nel corso di feroci combattimenti, l'esercito di Alessandro riuscì finalmente a fare una breccia nelle mura. Ricorrendo anche a passerelle sospese, simili a quelle oggi usate dai mezzi di sbarco, i rinforzi si riversarono nella cittadella. Ne seguirono aspri combattimenti nelle strade di Tiro, ma ben presto i Macedoni ebbero la meglio. Si calcola che circa 8.000 difensori della cittadella furono uccisi durante il combattimenti e altri 2.000, fatti prigionieri, furono passati per le armi, mentre il resto della popolazione fu ridotta in schiavitù. Tutta la cittadella fu rasa al suolo in modo da eliminare ogni possibilità che Tiro tornasse ad essere una base navale della flotta persiana.

Una volta superato il grande ostacolo di Tiro, le truppe proseguirono la loro marcia in direzione dell'Egitto lungo la costa, conquistando Acco e deviando verso l'interno solo all'altezza della Torre di Stratone, dove i reparti di cavalleria sedarono qualsiasi tentativo di insurrezione negli altipiani centrali. Poi i Macedoni fecero ritorno alla strada costiera e conquistarono Azoto e Ascalon. A Gaza, storica porta di ingresso all'Egitto, l'avanzata trionfale dei Macedoni si scontrò con un ostacolo imprevisto. Batis, il comandante persiano di quella fortezza, tentò con ogni mezzo di arrestare la marcia dei Macedoni, sperando nei rinforzi che gli dovevano giungere dall'Egitto a sud o da Dario ad oriente.

Come Tiro, anche Gaza rappresentava un ostacolo a prima vista insormontabile. La fortezza infatti era protetta da alte mura e per di più era situata sulla cima di un'altura ripida e scoscesa che la rendeva invulnerabile alla tattica di assedio in uso in quei tempi. Questa tattica consisteva nell'impiego di torri di legno che venivano sospinte verso le mura in modo da attaccare gli assediati alla loro stessa altezza. Il genio militare di Alessandro non si scoraggiò neppure di fronte a questo nuovo ostacolo. Egli concepì l'idea di costruire una specie di grande rampa capace di fare arrivare le macchine belliche allo stesso livello della fortezza. Ben presto arieti, magli e catapulte furono in condizione di tempestare le mura, ancora più indebolite dall'opera di un reparto speciale, che, nel frattempo, scavava una galleria a livello delle sue fondamenta. Alla fine venne aperta una breccia e le truppe macedoni di fanteria, servendosi anche di scale aeree per arrampicarsi sulle macerie, si riversarono nella città. Batis e le sue truppe caddero fino all'ultimo uomo e la città fu abbandonata alla devastazione e al saccheggio.

Secondo la tradizione, subito dopo la caduta di Gaza, Alessandro si recò a Gerusalemme per incontrarsi con il sommo sacerdote. Non si sa con certezza se si tratti di realtà o di leggenda, ma, sta di fatto che Gerusalemme venne in pratica sottomessa all'autorità di Alessandro. Verso la fine del 332, il conquistatore condusse la sua invincibile armata in Egitto. I Persiani a questo punto si videro costretti a rinunciare a quel remoto caposaldo del loro impero senza più opporre alcuna resistenza. Quindi Alessandro giunto fino a Siva si proclamò faraone  per diritto divino. Egli era precedentemente passato nell'antica città di Rakotis, sulla riva del Mediterraneo, dove aveva fondato Alessandria curandone personalmente la disposizione urbanistica. Questa nuova città sarebbe stata destinata a diventare uno dei maggiori centri della cultura ellenistica ed una delle città più celebri del mondo antico. Alla fine Alessandro avrebbe fondato più di una decina di città che portavano il suo nome, secondo l'ambizioso piano di irradiare la cultura greca fra le popolazioni a lui sottomesse.

La conquista di Tiro e di Gaza e l'occupazione dell'Egitto diedero ad Alessandro la sicurezza che da quella parte del suo impero non avrebbe più avuto alcun fastidio. Ormai rassicurato da questo punto di vista, riprese la sua marcia di invasione e di conquista verso l'oriente dove Dario III stava cercando di rimettere in piedi i suoi eserciti nella valle del Tigri. Nella primavera del 331 l'armata Macedone risalì lungo il litorale del Mediterraneo orientale. Durante l'assenza del conquistatore, impegnato in Egitto, i Samaritani si erano ribellati contro il loro governatore ed Alessandro per rappresaglia ordinò la distruzione della città di Samaria. Forse nello stesso periodo una spedizione macedone di avanscoperta  si era spinta fino alla città di Gerico.

Giunto a Tiro Alessandro condusse il suo esercito a nord-est spingendosi fino agli estremi confini della terra. L'incredibile percorso di conquista seguito da Alessandro non ha alcun precedente nella storia dell'antichità. Questo percorso lo condusse per ben 22.000  chilometri fino alla lontanissima India. Prima di raggiungere questo estremo limite del mondo allora conosciuto, si scontrò nuovamente con l'esercito di Dario III a Gaugamela sconfiggendolo e dando il colpo di grazia alla potenza ormai vacillante dell'impero Persiano. Per rafforzare questa vittoria prese possesso delle capitali dell'impero persiano: Babilonia, Susa e Persepoli dove si impadronì dell'immenso tesoro, rimasto intatto, e diede alle fiamme il grandioso palazzo di Dario.

Completamente soggiogato dalle sue ambizioni di conquista. Alessandro riprese instancabile la campagna a oriente. Nel 326 sulle sponde del fiume Idapse sconfisse quello che forse fu il suo nemico più scaltro, Poro, re dell'India. Alla fine, cedendo alle sempre più pressanti richieste dei suoi soldati, stremati da tante peripezie e combattimenti, Alessandro mise fine alla sua odissea e riprese la via del ritorno, dopo aver esteso il suo dominio a gran parte dell'Asia, ma non avrebbe mai raggiunto il suo paese natale. A Babilonia infatti nel 323 si ammalò e morì a soli 32 anni. Con lui si spense anche quell'ideale ambizioso di un impero universale che lo aveva portato alla conquista del mondo.

L'epoca dei Diàdochi

Alla scomparsa di Alessandro, i generali macedoni si affrettarono a dividersi l'immenso impero. I protagonisti principali di questa divisione furono:

– Tolomeo che si prese l'Egitto
– Antigono, L'Asia Minore
– Seleuco, la Mesopotamia
– Filippo, la Grecia

Ancora una volta ci viene in aiuto il libro dei Maccabei il quale dice nel 1° capitolo al v. 9: «Dopo la sua morte (quella di Alessandro) tutti cinsero il diadema e dopo di loro i figli per molti anni e si moltiplicarono i mali della terra ».

Naturalmente la divisione dell'impero non avvenne in maniera pacifica. In particolar modo Tolomeo e Seleuco si resero conto dell'importanza strategica di quella striscia di territorio che andava dalla Siria meridionale fino ai confini dell'Egitto. Questi territori divennero, pertanto, teatro di aspre contese fra i due generali ed i loro discendenti (Tolomei e Seleucidi). Fra il 320 ed il 301 questa striscia di terra cambiò di mano per ben cinque volte in quanto sovrani rivali si contendevano i porti strategici che potevano assicurare loro il dominio del Mediterraneo orientale.

Il primo ad impossessarsi di questa regione fu Tolomeo I, ma venne ben presto osteggiato dal suo compagno d'armi Antigono che si spinse dall'Asia Minore verso sud scendendo lungo la costa fino all'Egitto. Il conflitto fra Antigono e Tolomeo si protrasse fra alterne vicende fino al 301, quando Tolomeo, alleatosi con Seleuco, sconfisse definitivamente Antigono che conservò l'Asia Minore ed uscì definitivamente dalla scena dei conflitti per il possesso dei territori fra la Siria e i confini con l'Egitto.

Epoca dei Tolomei

A questo punto i protagonisti principali rimasero i Tolomei ed i Seleucidi. In un primo tempo ebbero il sopravvento i Tolomei che si impossessarano per quasi un secolo della zona. La provincia di Tolomeo, denominata "Siria e Fenicia", conobbe quasi un secolo di prosperità, malgrado i conflitti che non tardarono a divampare tra i successori di Tolomeo e di Seleuco.

Il governo dei Tolomei, la cui sede amministrativa era ad Alessandria, trasformò la provincia in una zona difensiva, organizzata secondo i sistemi ellenistici: si stabilirono guarnigioni nelle località e nei crocevia strategici, e la frontiera fu disseminata di presidi militari.

I tempi stavano cambiando, e alle antiche città venne imposto un nome greco, secondo la politica iniziata da Alessandro per la diffusione della cultura ellenica fra le popolazioni sottomesse. Così, ad esempio Acco divenne Tolemaide, Bet-Sean divenne Scitopoli, Rabba divenne Filadelfia. La pianura costiera, di interesse particolare per i Tolomei, venne organizzata in piccoli distretti amministrativi. Le navi da guerra proteggevano le rotte lungo le quali, a ritmo sempre crescente, si svolgeva il traffico commerciale via mare.

La fortezza di Samaria continuò a svolgere il suo ruolo di sede amministrativa per gli altipiani centrali, mentre Gerusalemme restò il punto focale della provincia di Giudea. In quella città, il sommo sacerdote aveva anche una certa autorità civile sotto i funzionari di Tolomeo: probabilmente era tenuto a versare un tributo annuale per un simile privilegio.

Tuttavia, da parte dei governanti egiziani (Tolomei), non venne messa in atto alcuna strategia politica per alterare il sistema di vita o per influenzare le pratiche religiose degli Ebrei della Giudea. Purché le tasse venissero regolarmente pagate (e queste tasse erano piuttosto salate) e le condizioni sociali e politiche mantenute inalterate, i Tolomei si mostravano soddisfatti. Nel 219, però si verificò uno sconvolgimento radicale nel paese.

Epoca dei Seleucidi

I successori di Seleuco non erano rimasti passivi come lui nell'accettare il controllo di Tolomeo sulla Siria e la Fenicia. Dopo vari tentativi di attacchi, più o meno riusciti, alla fine Antioco III nel 198 riuscì a debellare definitivamente ogni resistenza dei Tolomei sconfiggendo il famoso generale Scopas nella battaglia di Paneas, ai piedi del Monte Ermon.

I Seleucidi imposero alla provincia conquistata il nuovo nome di "Celesiria e Fenicia". Cele significa "scavato" o "cavo", in riferimento alla grande depressione della Siria meridionale, compresa tra il Monte Ermon e la catena costiera.

Non ci sono notizie particolareggiate sugli effetti che tante guerre e battaglie ebbero sul territorio e sulla popolazione; si sa però, che villaggi e città dovettero affrontare enormi disagi e danni incalcolabili e che l'economia della regione venne pressoché distrutta. A Gerusalemme si erano formati, nel frattempo, due partiti: da una parte c'erano i sostenitori dei Tolomei e dall'altra quelli dei Seleucidi. Gerusalemme ed il Tempio furono anch'essi danneggiati dalla guerra, quando i Tolomei difesero la città e scoppiarono tumulti nelle strade fra i sostenitori dei Tolomei e quelli dei Seleucidi. Alcuni membri del partito ebraico dei Tobiadi restarono fedeli ai Tolomei, e l'ultimo rappresentante della casa dei Tobiadi, Ircano, sarebbe poi morto suicida durante il regno di Antioco IV.

Malgrado il secolo di relativa prosperità sotto il dominio dei Tolomei, tra gli Ebrei di Gerusalemme era rimasta accesa una forte simpatia per i Seleucidi. Nel 198, Antioco III aveva emanato un decreto nel quale stabiliva che i materiali necessari per la ricostruzione del Tempio potevano essere introdotti in Giudea esenti dai normali dazi doganali. Vennero sospesi i tributi che erano stati imposti dai Tolomei al sommo sacerdote e ad altri funzionari della città, mentre i comuni cittadini furono esonerati dal pagamento delle tasse per tre anni.

Fra gli altri benefici concessi agli Ebrei, vi era il diritto "di instaurare una forma di governo in conformità alle leggi del paese". Per i Seleucidi si trattava di una semplice formalità concessa ai popoli del loro impero. Essi, rispettando i costumi e le tradizioni locali, incoraggiavano la fedeltà dei loro sudditi. Per gli Ebrei, invece, un simile atteggiamento significava molto di più, anche una riconferma del sommo sacerdote come capo della comunità, dotato di un certo numero di poteri politici, anche se non bene definiti; toccò, infatti, al sommo sacerdote il compito di ricostruire la città di Gerusalemme ed il Tempio.

Per trent'anni gli Ebrei prosperarono sotto il dominio dei Seleucidi, ma intanto venivano sparsi i semi della discordia che avrebbe avuto gravi conseguenze in seguito. Siccome la posizione del sommo sacerdote era stata considerevolmente rafforzata, fiorirono diverse interpretazioni sul significato di tale carica in termini politici. Inoltre sarebbero ben presto esplosi altri conflitti per la politica di ellenizzazione perseguita dai dominatori Seleucidi, che si ritenevano gli eredi spirituali di Alessandro Magno e, quindi investiti della missione di riunire tutti i popoli in un unico impero permeato della cultura greca. Una simile politica era destinata a provocare aperte ostilità tra gli Ebrei e i Seleucidi della generazione successiva.

Nel frattempo l'impero Seleucida stava allargando sempre più i propri confini. Dopo aver sottomesso gran parte dell'Asia Minore, nel 192, sei anni dopo la conquista della Celesiria, Antioco III passò in Grecia. Ma commise un errore tattico fondamentale alleandosi con Annibale di Cartagine, acerrimo nemico della potenza emergente di Roma e delle sue temibili legioni.

Roma si era assicurata il controllo del Mediterraneo occidentale in seguito alla vittoria riportata nella Seconda Guerra Punica contro Cartagine, ed ora rivolgeva lo sguardo verso oriente. Il Senato romano dichiarò guerra ad Antioco III nel 190 a.C. e Publio Cornelio Scipione, detto l'Africano, il celeberrimo vincitore di Annibale, annientò l'esercito Seleucida nella battaglia di Magnesia, in Asia Minore.

I Romani imposero ad Antioco III delle condizioni di straordinaria durezza, obbligandolo a disarmare quasi tutte le forze militari che gli restavano, ad abbandonare i territori dell'Asia Minore ed a versare un tributo esorbitante. Il vasto impero Seleucida cominciava a scricchiolare e mostrava già i segni di tensioni interne che minacciavano di dissolverlo. La sconfitta di Magnesia non fece altro che accelerare il suo declino. Ma prima del crollo finale vi fu ancora un tentativo di occupare l'Egitto e, di conseguenza, una guerra contro gli Ebrei di Giuda. È proprio a questo punto che il libro dei Maccabei ci offre una sua interessante documentazione storica che troviamo in 1 Mac 1, 10 ss.

I trent'anni di pace che seguirono la battaglia di Paneas del 198 a.C. vennero interrotti bruscamente nel 167 dallo scoppio di violente persecuzioni religiose a Gerusalemme. Il nuovo monarca Seleucida Antioco IV , detto Epifane, che regnò dal 175 al 164, tentò di realizzare le ambizioni paterne sull'Egitto, ma venne bloccato dall'intervento dei Romani. Allora incollerito si volse verso la Giudea che era uno dei suoi vassalli più irrequieti. Dopo aver saccheggiato il Tempio, Antioco IV abolì il giudaismo, forse per istigazione del partito filoellenista della città, i cui esponenti l'avevano convinto che il popolo avrebbe accettato il suo editto.

Vennero così proibite pratiche ebraiche come la circoncisione dei maschi, l'osservanza del sabato e le varie prescrizioni alimentari. Nel Tempio, il culto di Zeus Olimpico prese il posto dell'adorazione del Dio di Israele. Ci troviamo quindi in presenza dell' « abominio della desolazione » di cui parla Daniele e che verrà poi ripresa anche da Gesù per riferirla alla grande tribolazione che precederà il ritorno del Figlio dell'uomo (Mt 24, 15). Il comportamento di Antioco nella persecuzione degli Ebrei fedeli diventa quindi il comportamento tipico dell'Anticristo che continuerà nel corso della storia a perseguitare il popolo dei santi siano essi Ebrei o fedeli al Cristo risorto.

Ogni villaggio del territorio ricevette l'ordine di adorare le divinità straniere. A Gerusalemme venne eretta una nuova fortezza, chiamata Acra, che fu adibita a caposaldo Seleucida allorché si scatenarono le rivolte ebraiche nel successivo quarto di secolo.

Gli Ebrei che si rifiutarono di abbandonare la loro fede tradizionale, vennero giustiziati oppure venduti come schiavi. Tanti cercarono scampo nella fuga, nascondendosi nelle montagne o nel deserto; ma quelli che restarono furono vittime di una sanguinosa persecuzione.

Un giorno a Modin, ad una trentina di chilometri da Gerusalemme, un sacerdote ebraico di nome Mattatia Asmoneo provocò un incidente che fu la scintilla dalla quale nacque la rivolta dei Maccabei. Questa rivolta ebbe successo e venne quindi instaurata la dinastia degli Asmonei che governò la Palestina fino a poco tempo prima della nascita di Gesù, quando Erode prese il potere e la Palestina cadde sotto l'influenza dell'Impero romano.

LA VISIONE DI DANIELE

Dopo questa pagina di storia che va dal 333 a.C. al 164 a.C., sarà ora più facile comprendere il linguaggio figurato della visione di Daniele. Possiamo quindi ora leggere questo capitolo 8 e cercare di collegarlo con gli avvenimenti storici che abbiamo esaminato.

V. 1:« Nel terzo anno di regno del re Belshatsar, io, Daniele, ebbi una visione, dopo quella avuta all'inizio del regno »

Daniele precisa anche qui la circostanza in cui avviene la visione: « nel terzo anno del regno del re Belshatsar . . . dopo quella avuta all'inizio del regno » cioè due anni dopo la prima visione. Essendo avvenuta sempre sotto lo stesso re, ma due anni dopo, questa visione sembra collegata alla prima, ma come vedremo più avanti in questa visione viene fatto una specie di zoom soltanto su due animali, anziché sui quattro della prima visione. Vengono lasciati fuori dalla visione il primo ed il quarto animale, mentre tutta l'attenzione si concentra in modo particolare e con un'abbondante dovizia di particolari sul secondo e sul terzo animale, sui quali nella prima visione si era sorvolato. A differenza della prima visione che viene introdotta con la terza persona, qui Daniele parla in prima persona: « io, Daniele », « ebbi una visione »: La visione questa volta non avviene in sogno come la prima volta, ma mentre è sveglio.

V. 2: «Or vidi in visione e, mentre guardavo, mi avvenne di trovarmi nella cittadella di Susa, che è nella provincia di Elam; nella visione mi resi conto di essere presso il fiume Ulai »

Non dobbiamo pensare che Daniele ebbe questa visione mentre si trovava nella cittadella di Susa e presso il fiume Ulai. Daniele non si sposta da Babilonia, dove svolgeva il suo servizio per conto del re. L'indicazione della località fa parte della visione stessa. Daniele in visione si trova nella cittadella di Susa e presso il fiume Ulai. Susa è l'antica capitale dell'Elam, nella quale si trovava la corte della dinastia achemenide. La città ed il suo rango vengono menzionati varie volte nella Sacra Scrittura con l'aggiunta, in alcuni casi, che i Giudei abitavano in essa (Ne 1, 1; Est 1, 2.5; 2, 3.5.8, ecc.). La città era conosciuta fin dalla II dinastia di Ur, e fu convertita in capitale dell'impero Elamita e più tardi dai neoelamiti.

Assurbanipal la saccheggiò nella metà del VII sec. a,C., e ne distrusse tutti gli edifici più importanti. Alcuni deportati di Susa scrissero da Samaria contro i Giudei dell'epoca di Esdra (4, 9). I Persiani le ridonarono il suo antico splendore, a cominciare da Dario I, che edificò una grande palazzo ed altre costruzioni; un grande incendio, sotto Artaserse I, distrusse alcuni edifici importanti, che poi furono restaurati da Artaserse II. Nelle vicinanze si trova un modesto corso d'acqua, l'Ulai, che attraversa la provincia di Susa per confluire nel ramo unico del Tigri e dell'Eufrate prima di sfociare nel Golfo Persico. L'ubicazione topografica in cui si trova Daniele nella visione, ha evidentemente un valore simbolico, in quanto l'animale che viene poi descritto nel successivo versetto 3 stava in piedi davanti al fiume in una località che era stata la sede dei re Persiani.

V. 3: «Alzai gli occhi e guardai, ed ecco, in piedi davanti al fiume un montone che aveva due corna; le due corna erano alte, ma un corno era più alto dell'altro, anche se il più alto era spuntato per ultimo»

« Alzai gli occhi e guardai» è una tipica espressione usata nelle visioni della Bibbia per indicare l'attenzione verso l'oggetto concreto della visione. L'oggetto concreto della visione in questo caso era un montone, il maschio della pecora, che stava in piedi davanti al fiume e che aveva due corna. Abbiamo già detto circa il valore simbolico del fatto che questo montone stesse in piedi presso il fiume Ulai nella provincia di Susa, che era stata la sede degli imperatori persiani. Il fatto che avesse due corna è normale per il montone, ma la simbologia qui si spinge oltre precisando che un corno era più alto dell'altro, benché quello più alto fosse spuntato per ultimo. L'allusione all'impero Medo-Persiano è fuori dubbio. L'impero Medo-Persiamo, infatti era stato iniziato dai Medi, ma successivamente erano stati i Persiani con Ciro a portare questo impero al suo massimo splendore. Del resto se ci fosse ancora qualche incertezza sull'identificazione di questo animale con l'impero dei Medi e dei Persiani, il versetto 20 dello stesso capitolo ci toglie ogni dubbio. L'angelo Gabriele precisa: « Il montone con due corna, che tu hai visto, rappresenta i re di Media e di Persia ». Abbiamo già detto in precedenza che il corno è un simbolo per indicare un re o un regno. Il fatto che le due corna appartengano ad un unico animale, il montone, sta ad indicare che si tratta di un unico impero, quello Medo-Persiano, che viene iniziato da Medi, ma poi ampliato dai Persiani. Non regge quindi l'interpretazione di coloro che vorrebbero dividere questo impero in due, affermando che nel capitolo 7 l'orso rappresenta il regno dei Medi ed il leopardo quello dei Persiani, mentre la quarta bestia, non meglio identificata, sarebbe l'impero greco e non quello romano.
Questa interpretazione mi sembra che abbia parecchie difficoltà per essere sostenuta.

V. 4: «Vidi il montone che cozzava a ovest, a nord e a sud; nessuna bestia gli poteva resistere, né alcuno poteva liberare dal suo potere; così fece quel che volle e diventò grande»

Il versetto 4 ci fornisce un'ulteriore immagine dell'attività di questo animale, che ci conferma ancora di più la sua identificazione con l'impero Medo-Persiano.
Questo impero, infatti, per opera specialmente dei sovrani Persiani, nelle sue conquiste partì dall' Est verso l' Ovest, tanto in direzione Sud che Nord riunendo in un unico impero in maniera fulminea, specialmente sotto Ciro, tutti i popoli delle regioni che vanno dalla Persia fino al Mediterraneo.

« Nessuna bestia gli poteva resistere, né alcuno poteva liberare dal suo potere». Restando sempre nella prospettiva simbolica, gli animali che non possono resistere al cozzare del montone indicano tutti i re assoggettati da questo impero: Babilonia, l'Egitto e la Cilicia, ma anche tutti gli altri territori circostanti.

« Così fece quel che volle». È l'espressione che indica il dominio assoluto e sovrano della potenza Medo-Persiana.

« E diventò grande» Si tratta della grandezza e della gloria che furono il frutto delle conquiste e delle ingenti ricchezze accumulate.

Fin qui abbiamo la descrizione del montone, alla quale vengono dedicati due versetti: il 3 ed il 4. Abbiamo capito che questo nuovo animale, in questa ulteriore visione di Daniele, corrisponde all'altro animale simile ad un orso della precedente visione del capitolo 7, versetto 5 ed al petto e alle braccia d'argento della statua di Nabucodonosor del capitolo 2, versetto 32. Tutte queste diverse immagini sono la raffigurazione simbolica dell'impero Medo-Persiano che si impose nella scena del mondo come seconda potenza universale dopo quella Babilonese.

Dai versetti 5 fino al 12 abbiamo la descrizione del secondo animale, il capro. Questa descrizione è più complessa ed articolata della precedente relativa al montone, segno evidente dell'interesse particolare dell'autore nei suoi confronti soprattutto per quanto riguarda gli sviluppi diversi che questo animale assume sul piano storico.

V. 5: «Mentre consideravo questo, ecco venire dall'ovest un capro, che percorreva tutta la superficie della terra senza toccare il suolo; il capro aveva un corno cospicuo fra i suoi occhi »

« Mentre consideravo questo». Daniele stava ancora riflettendo sul possibile significato della precedente visione relativa al montone, soprattutto alla sua forma ed alle sue azioni, quando « ecco spuntare dall'ovest un capro ». La parola ebraica usata qui per indicare il capro, sapîr, non è molto frequente nella Bibbia. La troviamo soltanto in alcuni passaggi come ad es. 2 Cr 29, 21 e Ed 8, 35, dove i capri sono elencati assieme ad altri animali che venivano offerti in sacrificio. Più usata invece è la parola ebraica 'attûd, che si adopera anche metaforicamente per indicare principi, re e coloro in genere che dominano (Zc 10, 3), Ricordiamo a tal proposito anche la divisione che viene fatta da Gesù in Mt 25, 32 fra pecore e capri, dove i capri vengono messi alla sua sinistra per essere condannati. I capri di Ez 34, 17 raffigurano coloro che hanno spadroneggiato nel gregge del popolo di Dio e saranno alla fine giudicati.

La venuta di questa capro dall' Ovest, non soltanto indica il luogo di provenienza, ma anche una provenienza diversa da tutte le precedenti. I conquistatori finora erano sempre provenuti dall' Est (Babilonia e impero Medo-Persiano), ma questa volta il conquistatore viene dall'Ovest.

« Che percorreva tutta la superficie della terra senza toccare il suolo ». Si tratta di un'espressione iperbolica per indicare la vastità delle conquiste di questo nuovo principe e la rapidità delle sue imprese. Era talmente veloce che sembrava sfiorare il suolo senza toccarlo.

« Il capro aveva un corno cospicuo fra i suoi occhi ». Questa ulteriore precisazione delle caratteristiche di questo animale e l'originalità della sua figura risveglia in noi l'idea del suo significato simbolico. Se nel capro che viene dall'ovest possiamo vedere un nuovo impero che si avanza e conquista rapidamente tutta la terra, nel suo unico corno cospicuo abbiamo l'immagine del personaggio da cui è rappresentato questo nuovo impero, almeno nel suo primo ingresso nella scena mondiale.

La premessa storica che abbiamo fatto all'inizio ci aiuta senz'altro ad identificare questo capro nell'impero Greco che, al suo primo apparire nella scena mondiale, è rappresentato nella persona di Alessandro Magno. La conferma di questa identificazione l'abbiamo nell'interpretazione che viene data di questa immagine al v. 21 dello stesso capitolo: « Il capro peloso è il re di Javan; e il grande corno che era in mezzo ai suoi occhi, è il primo re». Abbiamo già visto che Javan in questo contesto rappresenta la Grecia.

V. 6: «Giunse fino al montone dalle due corna, che avevo visto in piedi davanti al fiume, e gli si avventò contro nel furore della sua forza»

Caratteristica dunque del capro è anche quella di attaccare violentemente gli altri animali, ma nella cornice simbolica in cui è inserita questa immagine del capro bellicoso, l'espressione indica la caratteristica bellicosa di colui che il capro rappresenta. L'agilità che dimostra nell'avventarsi contro il montone è congiunta ad una sua straordinaria vigoria combattiva. Esaminando questa immagine non possiamo fare a meno di pensare alle imprese di Alessandro Magno, alla sua prima vittoria ad Isso nel 333 a.C. sulle truppe di Dario III, nonostante che queste truppe fossero tre volte superiori alle sue.

V. 7: «Lo vidi avvicinarsi e montare in collera contro di lui; cozzò quindi contro il montone e frantumò le sue due corna, senza che il montone avesse forza per resistergli; così lo gettò a terra e lo calpestò, e nessuno poté liberare il montone dal suo potere»

Anche questo versetto prosegue nella descrizione simbolica delle imprese del capro. Si avvicina al montone pieno di collera e cozza contro di lui spezzandogli le due corna. Siccome le due corna, abbiamo visto prima, rappresentano i re della Media e della Persia, il fatto che vengano spezzate significa che il personaggio rappresentato dal capro ha il sopravvento su di loro, ma questo sopravvento è definitivo in quanto il montone viene gettato a terra e calpestato e nessuno potrà più liberarlo dal dominio completo che il capro avrà su di lui. Anche in questo caso l'identificazione con le imprese di Alessandro Magno sono molto evidenti. Dopo la battaglia vittoriosa di Isso, Alessandro indirizza le sue truppe in una rapida marcia verso l'Egitto, durante la quale sbaraglia ogni resistenza, prima a Tiro e poi a Gaza, impadronendosi vittoriosamente di tutto l'Egitto. Nella marcia di ritorno verso Nord-Est, due soli anni dopo la prima battaglia vittoriosa di Isso, nel 331 a.C. a Gaugamela, sconfigge definitivamente Dario III ponendo fine all'impero Medo-Persiano.

V. 8: «Il capro diventò molto grande; ma, quando fu potente, il suo grande corno si spezzò; al suo posto spuntarono quattro corna cospicue, verso i quattro venti del cielo »

Anche qui l'allusione ad Alessandro Magno è molto evidente. Il suo regno ebbe una breve durata. Aveva iniziato la sua ascesa a soli 20 anni, quando aveva ereditato il trono della Macedonia dal padre Filippo II, e all'età di 32 anni si trovava ad essere il sovrano incontrastato di un vastissimo impero che andava dalla Grecia fino agli estremi confini dell'India, ma proprio nel momento della sua massima potenza venne improvvisamente stroncato da una malattia e le sue ambizioni di gloria e di potere morirono con lui.

Notate che non si dice che il capro morì, ma che semplicemente il corno fu spezzato ed al suo posto spuntarono altre quattro corna cospicue verso i quattro venti del cielo. Questo ci dà l'idea di uno sviluppo progressivo nel tempo dell'attività del capro che viene divisa in varie fasi storiche, come era avvenuto nel capitolo 7 per la quarta bestia che rappresentava il potere romano nelle sue diverse manifestazioni storiche.

Con lo spezzarsi del primo corno si conclude la fase storica che vide come protagonista Alessandro Magno, ma il potere del capro non si estingue con la sua morte. Questo potere continua nelle quattro corna che rappresentano quattro diversi re o quattro regni che subentrano al regno precedente di Alessandro Magno, anche se non riuscirono mai ad uguagliare la potenza del loro predecessore. Precisa infatti il v. 22: « ma non con la stessa sua potenza».

V. 9: «Da uno di questi uscì un piccolo corno, che diventò molto grande verso sud, verso est e verso il paese glorioso»

Con questo versetto inizia una nuova fase della visione che rappresenta in un certo senso lo sviluppo naturale della precedente. Questa nuova fase rappresenta l'elemento centrale di tutta la visione. Per questo motivo viene descritta la potenza politica del piccolo corno, ma ancora più viene messa in evidenza la sua figura religiosa e morale.

Nella premessa storica abbiamo visto come l'impero conquistato da Alessandro Magno, alla sua morte, venne diviso fra i suoi generali. Questi assunsero il titolo di re e trasmisero ai loro successori i rispettivi regni. La divisione avvenne tra Tolomeo, Seleuco, Antigono e Filippo che si suddivisero l'impero greco in quattro zone ben precise.

A Tolomeo andò l'Egitto, a Seleuco la Mesopotamia, ad Antigono l'Asia Minore, a Filippo la Grecia. La loro convivenza comunque non fu quasi mai pacifica. A parte Filippo relegato nella Grecia, gli altri tre si contesero aspramente i territori strategici che vanno dalla Siria meridionale fino ai confini dell'Egitto.

 Dopo alterne vicende alla fine prevalsero i discendenti di Seleuco, i Seleucidi, che riuscirono ad allargare la loro influenza in un vastissimo territorio «verso sud, verso est e verso il paese glorioso». Il paese glorioso è naturalmente, nel linguaggio di Daniele, la Palestina ed in particolar modo Gerusalemme e la Giudea. Verso nord e verso ovest l'avanzata dei Seleucidi fu arrestata invece dall'emergente potenza romana che controllava la zona settentrionale del Mediterraneo.

V. 10: «Si ingrandì fino a giungere all'esercito del cielo, fece cadere in terra parte dell'esercito e delle stelle e le calpestò ».

Non possiamo prendere alla lettera questo versetto, perché altrimenti dovremmo pensare che la grandezza del piccolo corno giunse a tal punto da insidiare perfino l'esercito del cielo, cioè gli angeli stessi e di farne cadere una parte in terra per essere da lui calpestati. Quasi certamente qui l'autore vuole alludere all'atto blasfemo compiuto da Antioco IV Epifane, uno degli ultimi discendenti della dinastia dei Seleucidi, che, nell'intento di instaurare le leggi e le usanze elleniche a Gerusalemme e nella Giudea, osò abolire il sacerdozio levitico facendo uccidere tutti quei sacerdoti che si opponevano ai suoi voleri.

V. 11: «Si innalzò addirittura fino al capo dell'esercito, gli tolse il sacrificio continuo e il luogo del suo santuario fu abbattuto»

L'escalation dell'empio piccolo corno qui viene presentata nel suo più alto grado, perché in effetti il suo comportamento è un attentato contro Dio stesso ed il suo culto. Anche se il testo originale non è completamente sicuro, il senso generale sembra abbastanza chiaro. Il capo dell'esercito è senz'altro Dio stesso, non tanto perché è il capo dell'esercito celeste, quanto perché è anche il capo dell'esercito cultuale, cioè dei sacerdoti levitici che, come viene detto in Nm 3, 21, appartengono a Dio. La sfrontatezza del piccolo corno arriva al punto da farsi lui stesso capo di questo esercito cultuale e di togliergli addirittura il sacrificio continuo. Il sacrificio continuo o perpetuo era quel sacrificio che quotidianamente si offriva mattina e sera nel tempio di Gerusalemme (Es 29, 42; Nm 28 1-10). Quindi non si può immaginare un gesto più sacrilego di questo, in quanto il sacrificio è l'atto più solenne del culto, che esprime anche la perennità della presenza di Dio in mezzo al popolo e quindi è anche il simbolo della purezza e della fedeltà del popolo di Dio. Il luogo del suo santuario viene abbattuto nel senso che viene adibito ad un culto profano, contrario a Dio. In 2 Mac 6, 1-11 si dice addirittura che il tempio di Gerusalemme venne dedicato a Giove Olimpico, mentre quello Samaritano, sul monte Garizim venne dedicato a Giove Ospitale.

V. 12: «L'esercito gli fu dato in mano assieme al sacrificio continuo, a motivo della trasgressione; egli gettò a terra la verità; fece tutto questo e prosperò »

Forse la traduzione qui non rende molto bene quello che effettivamente voleva dire l'autore. Sembra infatti che a causa della trasgressione compiuta con la rimozione del sacrificio perpetuo, ci sia stato anche un cambiamento nel personale adibito al culto: l'esercito levitico fedele al Signore viene sostituito da un nuovo esercito profanatore. In questo senso la verità viene gettata a terra in quanto avviene una profanazione dell'unico culto legittimo. Nonostante che si comportasse in questo modo il corno continuò a prosperare, il suo trionfo non venne meno. La prosperità dell'empio è uno dei temi sviluppati dalla letteratura sapienziale, specialmente dopo l'esilio (Sl 10 e 73). Essa è motivo di prova e di tentazione per il giusto che però deve avere fiducia in Dio e nella sua giustizia.

V. 13: «Poi udii un santo che parlava, e un altro santo disse a quello che parlava: "Fino a quando durerà la visione del sacrificio continuo e la trasgressione della desolazione, che abbandona il luogo santo e l'esercito ad essere calpestati?" »

Il « santo» che parlava è uno che fa parte della corte celeste, un angelo molto probabilmente, se confrontiamo quanto viene detto anche in Dn. 4, 13. Dal momento che parlava, si tratta di un angelo incaricato di rivelare i misteri delle visioni come avviene in Zc 1, 8-17. La domanda dell'altro santo, cioè di Daniele stesso (v. 14), nasce dalla vista di una realtà inconcepibile e dolorosa, simboleggiata dalla visione di cui si chiede la ragione e quindi la fine. La trasgressione della desolazione, potrebbe anche essere tradotta con l'abominazione della desolazione di cui parla anche Gesù in Mt 24, 15 nel suo discorso sulla fine di Gerusalemme. Per se stessa è qualche cosa o qualche azione che suscita la collera divina e quindi distrugge tutto, anche il popolo innocente in mezzo al quale questa empietà viene compiuta. Potrebbe essere un allusione al nuovo culto sacrificale sacrilego istituito dal piccolo corno, ma molto probabilmente qui si allude alla statua della divinità che Antioco IV eresse nel tempio al posto dell'altare dei sacrifici. L'esercito che viene calpestato è, come abbiamo già detto, non gli angeli del cielo, ma l'insieme dei sacerdoti adibiti al culto legittimo del tempio.

V. 14: «Egli mi disse: Fino a 2300 giorni; poi il santuario sarà purificato»

Siamo di nuovo in presenza di una cifra simbolica, volutamente imprecisa, per indicare una durata limitata, dopo di ché la prova cesserà e nel santuario torneranno a svolgersi nuovamente gli atti di culto in armonia con la volontà divina.

Il fatto che questa seconda visione di Daniele non si concluda con un giudizio divino e con la definitiva consegna del regno nelle mani dei santi, come era avvenuto nella visione del capitolo 7, ci fa pensare che in questo caso il piccolo corno, non sia lo stesso di quello del capitolo 7. Ci risulta difficile identificare il capro con la quarta bestia della visione del cap. 7. Certamente il piccolo corno del capro è l'esempio di come può agire Satana, ma certamente non è ancora l'azione dell'Anticristo. Dopo Antioco IV il culto fu di nuovo ripristinato fino a quando sarebbe giunto il Messia predetto dalle profezie.

INTERPRETAZIONE DELLA VISIONE

Dal versetto 15 al 27 abbiamo la spiegazione della visione che viene fatta da Gabriele (nei vv. 20-25) a Daniele. Questa spiegazione è accompagnata da alcuni elementi che meglio precisano sul piano storico il significato della visione stessa.

L'invio di Gabriele da parte di Dio (vv. 15-19) per spiegare il significato della visione ci fornisce nuove indicazioni  su quelle che erano le credenze religiose d'Israele intorno al mondo degli angeli. Vedremo meglio più avanti chi era questo Gabriele quando esamineremo il v. 16. Per il momento accontentiamoci di procedere con ordine versetto per versetto.

V. 15: «Ora, mentre io, Daniele consideravo la visione e cercavo di intenderla, ecco stare davanti a me uno dall'aspetto d'uomo»

Procedendo sempre in prima persona, come dall'inizio del capitolo 8 (nella visione del cap. 7 era stata usata invece la terza persona, Dn 7, 1), Daniele ci racconta che stava riflettendo sulla visione, appena avuta e che era ancora tutta presente nella sua memoria, ma non riusciva a comprenderne il significato. Mentre stava ancora immerso in questa riflessione, ecco apparire davanti a lui un essere (uno) che aveva l'aspetto di un uomo. La precisazione sull'aspetto umano di tale essere, ci fa intuire come Daniele fosse convinto di trovarsi in presenza di un essere spirituale che tuttavia si presentava a lui in sembianze umane. La stessa espressione viene anche usata dal profeta Ezechiele (Ez 1, 26-28) nel descrivere la visione della gloria di Dio.

V. 16: «Udii quindi in mezzo al fiume Ulai la voce di un uomo, che gridava e diceva: Gabriele, spiega a costui la visione »

A questo punto, mentre si trovava in presenza di questo essere spirituale dall'aspetto umano, Daniele ode la voce di un uomo in mezzo al fiume Ulai. Qui non è ben chiaro se questa voce umana appartenesse all'essere spirituale che si era presentato a lui in forma umana o fosse invece una voce fuori campo che sembrava provenire dal fiume Ulai e rivolgersi all'essere spirituale.

Da come è costruita la frase ed il fatto che tale voce umana non fosse diretta a Daniele, sembra indicarci come più logica la seconda ipotesi: questa voce umana udita da Daniele, era un voce fuori campo e veniva indirizzata all'essere spirituale che si era presentato a Daniele in forma umana.
Il fatto che qui si faccia ancora menzione del fiume Ulai, ci fa capire che Daniele si trovava ancora immerso nella visione, quando ne riceve la spiegazione. Nel versetto 2 abbiamo visto che Daniele non si reca materialmente da Babilonia a Susa, ma è in visione che si rende conto di trovarsi in quella città e nei pressi del fiume Ulai. La visione quindi continua anche durante la spiegazione. Dopo il montone ed il capro è sempre in visione che Daniele si trova in presenza dell'essere spirituale in sembianze umane e ode la voce umana.

L'aspetto umano dell'essere spirituale che si presenta a Daniele e la voce d'uomo che ode ci offrono ancora degli spunti di riflessione su come Dio si rivela e comunica con gli esseri umani. Dio nel rivelarsi all'umanità per mezzo della Sua Parola, contenuta nella Bibbia, non ha usato un linguaggio incomprensibile per gli uomini, non ha usato il linguaggio degli angeli, ma si è servito della parola umana perché voleva che questa sua rivelazione fosse ben compresa da tutti gli uomini. Questo concetto viene bene espresso in Dt 30, 11-14.

La voce umana udita da Daniele «gridava e diceva: Gabriele, spiega a costui la visione ». Abbiamo detto che questa voce proveniva fuori campo e, non essendo rivolta a Daniele, non poteva che essere rivolta all'essere spirituale dall'aspetto d'uomo che stava davanti a Daniele. Questo essere spirituale dunque  che viene interpellato con il nome di Gabriele era certamente un angelo. Il nome Gabriele significa "forza di Dio " ed appare qui per la prima volta. Si tratta sempre dello stesso essere che appare anche in Dn 9, 21, inviato da Dio a Daniele per spiegargli il significato di una profezia di Geremia sulla quale Daniele stava riflettendo e pregando. Al di fuori di questi due passi di Daniele, non lo ritroviamo più nell'Antico Testamento, ma soltanto nella letteratura apocalittica successiva che non è stata inclusa fra i libri sacri dagli Ebrei. Lo troviamo ancora nel N.T. in Luca 1, 11-20, dove appare a Zaccaria a destra dell'altare dell'incenso, per annunciargli la nascita di Giovanni Battista, e in Luca 1, 26-38 per annunciare a Maria la nascita di Gesù.

Abbiamo già parlato degli angeli quando abbiamo esaminato il Vangelo dell'Infanzia di Gesù in Mt 1. Il termine angelo, in ebr. mal'âk ed in greco 'anghelos, ha il significato di messaggero, inviato. Gli angeli sono creature celesti e spirituali che vengono di solito usati da Dio come messaggeri. Fra gli angeli c'è un diverso grado di gerarchia e di dignità; così, oltre agli angeli, come Gabriele, ci sono gli arcangeli (o angeli principali) come l'arcangelo Michele che viene menzionato in Gd 9 ed il Ap 12, 7, ma anche in Dn 10, 13.21; Dn 12, 1. Gli angeli sembrano essere simili ai cherubini ed ai serafini perché si tratta sempre di esseri spirituali e celesti, ma nello stesso tempo sono distinti da loro per la diversa funzione che svolgono di fronte a Dio. Mentre gli angeli sono per lo più adibiti come messaggeri, inviati da Dio, i cherubini e i serafini sono associati alla gloria ed alla santità di Dio (Ez 10, 1-4) ed hanno la funzione di impedire che l'uomo peccatore si avvicini a Dio, perché santo e sorgente di vita (Ge 3, 24; Es 26, 31-33). Nella Scrittura troviamo inoltre che alcuni giudizi inflitti da Dio agli uomini, come peste, mortalità ed altre piaghe, vengono eseguiti per mezzo degli angeli (2 Sm 24 16; Ap 15, 1.6-7). Gli angeli sono anche accampati attorno a coloro che temono il Signore e confidano in lui per liberarli e custodirli (Sl 34, 7; 91, 11-12; Dn 6, 22; At 12, 7-11) e sono mandati a servire (Mt 4, 11; Lc 22, 42-44; Eb 1, 14).

V. 17-18: «Egli si avvicinò al luogo dove mi trovavo e, quando giunse, io ebbi paura e caddi sulla mia faccia. Ma egli mi disse: Intendi bene, o figlio d'uomo, perché questa visione riguarda il tempo della fine.
Mentre egli parlava con me, caddi in un profondo sonno con la faccia a terra, ma egli mi toccò e mi fece stare in piedi nel luogo dove mi trovavo »

L'essere spirituale dall'aspetto umano stava davanti a Daniele (ci viene detto al v. 15), ma evidentemente non era vicino a lui. Ora quindi si mette in movimento e si avvicina a Daniele. Al suo giungere Daniele viene preso da paura, come accade quasi sempre nelle descrizioni della Bibbia quando l'uomo viene in contatto con il divino. Dallo stesso timore viene colto anche Abramo in Gn 15, 12 quando viene sfiorato dalla potenza di Dio il quale stabilisce con lui un patto. Anche in Gb 4, 12-16 ci vengono descritti gli stessi sintomi psichici che di solito accompagnano nelle visioni il contatto fra l'uomo e la divinità. Alla comparsa dell'angelo Gabriele, anche Zaccaria (Lc 1, 12) e Maria (Lc 1, 29) vengono colti dalla stessa paura, ma l'angelo li rassicura dicendo loro di non temere.

Nel caso di Daniele questa rassicurazione non c'è, ma c'è invece l'esortazione a comprendere bene il significato della visione in quanto essa riguarda il tempo della fine. Nel successivo v. 19 verrà meglio precisato che cosa si vuole intendere con il tempo della fine. Il tema del tempo della fine ricorre in quasi tutte le visioni di Daniele ed è l'arco di tempo che precederà l'avvento definitivo del regno escatoligico di Dio, quando il Figlio dell'uomo (il Messia) ritornerà nella sua gloria e regnerà per sempre con i santi dell'Altissimo. Del tempo della fine parlerà anche Gesù nel suo famoso sermone profetico che troviamo in Mt 24, 6-14.

Nel caso del capitolo 8 il tempo della fine riguardava un arco di tempo che andava dal sorgere della potenza macedone nella persona di Alessandro fino alle imprese di Antioco IV Epifane, che aveva rappresentato per il popolo ebraico una serie minaccia per la sua stessa sopravvivenza come popolo eletto di Dio.

L'espressione «figlio d'uomo », con la quale l'angelo si rivolge a Daniele, viene usata con il significato di appartenente alla stirpe umana ed il suo significato è certamente individuale in quanto rivolto direttamente a Daniele.

In seguito alla paura provocata in Lui dal contatto ravvicinato con l'angelo, Daniele cade a terra con la faccia in giù ed in questa posizione viene colto da un sonno profondo, ma l'angelo lo tocca e lo fa stare in piedi affinché egli possa essere in grado di ascoltare la spiegazione del significato della visione.

V. 19: «E disse: Ecco io ti faccio conoscere ciò che avverrà nell'ultimo tempo dell'indignazione, perché riguarda il tempo fissato della fine»

L'angelo vuole far conoscere a Daniele ciò che avverrà nell'ultimo tempo dell'indignazione. Che cos'è questo « ultimo tempo dell'indignazione»? Con questa espressione ci si riferisce normalmente all'ira di Dio verso il suo popolo peccatore, punito da qualche calamità e in questo caso in modo particolare da una persecuzione. Dello stesso tempo dell'indignazione divina (ira o collera di Dio) si parla in Is. 10, 24-25, dove lo strumento dell'ira divina verso il popolo è l'Assiria. Tale indignazione divina la ritroviamo anche in Is. 26, 20, dove se parla però in senso più generale, ed in 1 Mac 1. 64, dove si riferisce in modo particolare alla persecuzione di Antioco IV Epifane. La persuasione che la persecuzione sia causata dall'infedeltà del popolo è una caratteristica delle credenza religiosa ebraica post-esilica. Tale persuasione la ritroviamo anche espressa nei libri di Esdra e Nehemia, ma anche nel successivo capitolo 9 di Daniele, nella supplica che Daniele stesso rivolge a Dio (v. 11).

La visione riguarda dunque il tempo fissato della fine di questa persecuzione, che, come vedremo nei successivi versetti, raggiungerà il suo culmine massimo con Antioco IV Epifane, discendente della dinastia dei Seleucidi. Con il versetto 19 dunque ci si riferisce allo stesso tema già anticipato nei versetti 13-14, dove un santo che parlava (un angelo incaricato della rivelazione) stabilisce un termine indefinito (2300 giorni) dopo il quale tale persecuzione cesserà e verrà ristabilito nel tempio il culto legittimo.

Con i versetti dal 20 al 25 si entra nella spiegazione vera e propria. Nei versetto da 20 a 22 viene spiegato brevemente in prosa il simbolismo del montone e del capro e in modo particolare il significato dell'unico corno del capro e delle successiva quattro corna. Più a lungo, invece, ed in poesia, abbiamo la spiegazione del piccolo corno dal versetto 23 al v. 25. La spiegazione, come vedremo, è abbastanza facile dal momento che viene designato con un nome storico il simbolismo delle due bestie. Per il simbolismo del piccolo corno (nella visione interessa i vv. da 9 a 12; nella spiegazione i vv. da 23 a 25), invece, non viene fatta nessuna identificazione storica, ma tale identificazione risulta abbastanza facile da intuire dopo quella che è stata fatta delle due bestie.

V. 20: «Il montone con due corna, che tu hai visto, rappresenta i re di Media e di Persia »

Notiamo dunque che il regno dei Medi e dei Persiani vengono qui rappresentati come un'unica identità: il montone con due corna. Le due corna (Medi e Persiani) appartengono allo stesso animale: il montone. Tale unica identità rappresenta una difficoltà insormontabile per coloro che nelle precedenti visioni, quella della statua (cap. 2) e quella delle quattro bestie (cap. 7), hanno voluto identificare il regno dei Medi e dei Persiani come due regni distinti, indicando, nella visione della statua, i Medi con il petto e le braccia d'argento ed i Persiani con il ventre e le cosce di bronzo, mentre le gambe di ferro ed i sui piedi in parte di ferro e in parte di argilla sarebbe naturalmente l'impero macedone iniziato da Alessandro e portato avanti dai suoi successori (diàdochi). Nella visione delle quattro bestie del cap. 7, invece, secondo questi interpreti, i Medi sarebbero rappresentati dalla bestia simile ad un orso, mentre i Persiani sarebbero rappresentati dal leopardo con quattro teste e quattro ali. La quarta bestia, non identificata con alcun animale esistente, sarebbe invece l'impero greco nel suo sviluppo storico.

Questa interpretazione è in contrasto con la visione del cap. 8 che raffigura il regno dei Medi e dei Persiani come un'unica identità, quella del montone con le due corna.

Come abbiamo già detto prima, nella visione della statua (cap. 2) ed in quella delle quattro bestie (cap. 7), abbiamo una visione universale della storia che si concluderà con il giudizio universale di Dio e con l'istituzione definitiva del regno eterno dei santi dell'Altissimo che durerà per sempre e non sarà mai più sostituito da nessun altro regno umano. Nella visione del cap. 8, invece, abbiamo una visione particolare della storia umana, concentrata in modo particolare sulle vicende del popolo ebraico, in uno dei momenti più difficili della sua storia, in cui sembra addirittura compromessa la sua stessa sopravvivenza come popolo eletto di Dio ed erede delle promesse divine.

Siamo dunque in presenza di una specie di zoom storico dove l'interesse è concentrato nelle vicende dell'impero Medo-Persiano, ma soprattutto in quello della Grecia. L'impero Medo-Persiano, in questo caso, rappresenta per l'autore un punto di partenza della storia, dopo il quale prende il sopravvento l'impero Greco. La grandezza di questi due imperi, la loro potenza ed il loro predominio nel mondo vengono presentati come elementi di una potenza diabolica che si oppone a Dio, che vuole sovvertire il suo piano di redenzione dell'umanità, colpendo in modo particolare proprio quel popolo eletto dal quale doveva nascere il Messia.

V. 21: «Il capro peloso è il re di Javan; e il grande corno che era in mezzo ai suoi occhi è il primo re »

In questo versetto abbiamo la spiegazione del simbolismo del capro che viene identificato con il re di Javan. Javan è la trascrizione ebraica del nome greco Ionia, regione della Grecia, ma in questo caso viene identificato con la Grecia stessa, come in Gn 10, 2-4 dove Javan è uno dei sette figli di Iafet e padre fra gli altri di Kittim, di cui abbiamo già visto l'origine nella precedente nota n. 1 a pag. 2. In tutta la Bibbia quando si fa riferimento a Javan, si vuole sempre indicare la Grecia. L'animale in se stesso non rappresenta un re specifico, ma in senso collettivo rappresenta tutti i monarchi dell'era nella quale durò l'impero ellenistico fondato da Alessandro Magno e proseguito nei suoi successori.

Il grande corno che si trova in mezzo agli occhi dell'animale e che viene indicato come il primo re di questo impero non può essere altri che Alessandro Magno, il cui nome è stato legato nel corso dei secoli alla grandezza delle sue imprese.

V. 22: «Il corno spezzato e le quattro corna che sono sorte al suo posto sono quattro regni che sorgeranno da questa nazione, ma non con la stessa potenza»

Il corno spezzato allude evidentemente alla prematura scomparsa di Alessandro Magno, colpito a Babilonia, a soli 32 anni, da una malattia mortale, che interruppe improvvisamente le sue ambiziose intenzioni di dominio universale. Al suo posto spuntarono altre quattro corna di cui ora viene data la spiegazione. È fin troppo facile intuire che esse rappresentano i quattro successori o Diàdochi che si spartirono il grande regno di Alessandro Magno e quindi costituirono il secondo momento della storia simboleggiata nella seconda bestia. Più che alle persone sembra che qui si accenni alla quadruplice monarchia che continuò le sorti del mondo ellenistico, dopo la scomparsa di Alessandro Magno e che, abbracciando tutto il mondo politico di allora, è sempre considerata quadruplice, anche se in realtà in seguito gli eredi principali si ridussero ad essere sostanzialmente i Seleucidi di Siria ed i Tolomei o Lagidi di Egitto. Non dimentichiamo quanto viene detto al v. 8 dove si parla di quattro corna cospicue verso i quattro venti del cielo, espressione che indica appunto la totalità del mondo politico di quel tempo.

Nei versetti da 23 a 25 abbiamo la spiegazione in forma poetica della simbologia del piccolo corno. Anche in questo caso come nel precedente capitolo 7, tale spiegazione è misteriosa, ma carica di drammaticità. Si tratta della storia del dramma della persecuzione di Antioco IV Epifane contro la comunità santa di Gerusalemme.

V. 23:  «Alla fine del loro regno,
quando i ribelli avranno colmato la misura,
sorgerà un re dall'aspetto feroce
ed esperto in stratagemmi»

La « fine del loro regno » allude evidentemente all'ultimo stadio del regno che storicamente va identificato con le ultime imprese dei Seleucidi. In particolare qui con le mire espansive di Antioco III che vengono però frenate dall'emergente potenza romana.

« Quando i ribelli avranno colmato la misura ». Rispetto alla prima strofa si tratta di un parallelismo simmetrico. La fine viene segnata dall'aver raggiunto il colmo della misura. È un espressione che allude alla disubbidienza a Dio. Quando questa disubbidienza a Dio sarà così grande e così estesa da raggiungere limiti insopportabili, allora la giustizia di Dio non potrà più tollerarla e sarà costretta ad intervenire. Di questa intollerabilità dell'ingiustizia che giunge ad un colmo oltre il quale Dio non può fare a meno di intervenire, si parla anche in Ge 15, 16 a proposito degli Amorei che occupavano il suolo della Palestina dove avrebbero dovuto stabilirsi i discendenti di Abramo. Poiché l'iniquità degli Amorei non era ancora giunta al colmo, gli Ebrei nel frattempo sarebbero stati costretti ad abitare come stranieri in altri paesi. Della intollerabilità dell'ingiustizia da parte di Dio, quando questa ingiustizia supera un certo limite, ne parla anche l'apostolo Paolo in 1 Te 2, 14-16.

Ma di quali ribelli, di quali iniquità, di quale disubbidienza sta parlando qui l'autore del libro di Daniele? Non sembra che qui si alluda, come al v. 19, ai peccati del popolo di Dio che hanno provocato la persecuzione. In questo caso sono i peccati di Antioco che ora vengono descritti e che raggiungono il colmo per cui obbligano Dio ad intervenire col castigo e con la liberazione degli oppressi.

« sorgerà un re dall'aspetto feroce». Nell'Ecclesiaste troviamo un detto che spiega abbastanza il significato di questa espressione. Al cap. 8, v. 1 di questo libro leggiamo che « la sapienza dell'uomo fa risplendere il suo volto e ne cambia la durezza del volto». I sentimenti interni a volte influenzano i tratti somatici di una persona. Così come la sapienza illumina il volto di un uomo e ne mitiga la durezza del volto, altrettanto la crudeltà indurisce il suo aspetto esteriore. La crudeltà del piccolo corno si riferisce per lo più alla sua ferocia bellica e questa immagine di persona crudele si conviene perfettamente ad Antioco IV, che con la sua ferocia sembrò quasi iniziare un nuovo corso della storia, come possiamo leggere in 1 Mac 1, 16-19. Non soltanto l'Egitto fu oggetto della ferocia bellica di Antioco IV, ma anche la Giudea stessa, come ci viene narrato in 2 Mac 5, 11-21.

« esperto in stratagemmi» (parallelismo simmetrico). In due brevi concetti espressi in strofe, viene delineata la fisionomia caratteristica del piccolo corno in cui la ferocia si accompagna agli espedienti strategici. Qui viene descritta l'abilità di Antioco nell'ordire intrighi per riuscire nei suoi intenti. Due anni dopo aver invaso Gerusalemme ed averne saccheggiato il santuario, Antioco mandò alle città della Giudea un suo sovrintendente per riscuotere i tributi. Costui si presentò a Gerusalemme con ingenti forze, ma con parole di pace in modo da guadagnarsi la fiducia degli abitanti. Una volta guadagnata la loro fiducia ne approfittò per colpire improvvisamente la città con ferocia e crudeltà inaudite (1 Mac 1, 29-36; cfr anche 2 Mc 5, 24-26).

V. 24:  «La sua potenza crescerà,
ma non per la sua propria forza;
compirà sorprendenti rovine,
prospererà nelle sue imprese
e distruggerà i potenti
e il popolo dei santi»

In questo versetto abbiamo un crescendo della potenza del piccolo corno che viene espresso in forma poetica con il parallelismo simmetrico ed antitetico e si sviluppa in un primo tempo soprattutto dal punto di vista politico e sociale: « La sua potenza crescerà, ma non per la sua forza » (parallelismo antitetico). L'autore vuole affermare che la potenza di Antioco, sempre crescente, è soprattutto frutto della volontà divina che si serve di lui per mettere alla prova il suo popolo. « compirà sorprendenti rovine, prospererà nelle sue imprese » (parallelismo simmetrico). La presenza di Dio appare evidente specialmente nel successo delle sua imprese che rasentano il prodigioso. « distruggerà i potenti e il popolo dei santi » (parallelismo simmetrico). Il risultato di questa crescente potenza è la distruzione dei potenti, specialmente dell'Egitto, e del popolo dei santi che viene ridotto all'impotenza e viene privato della sua indipendenza e della sua libertà.

V. 25:  «Per la sua astuzia
farà prosperare la frode nelle sue mani;
si innalzerà nel suo cuore
e distruggerà molti che stanno al sicuro;
insorgerà contro il Principe dei principi,
ma sarà infranto senza mano d'uomo»

In questo versetto l'azione del piccolo corno si estende, oltre che nel campo politico e sociale, anche in quello religioso.

« Per la sua astuzia, farà prosperare la frode nelle sue mani » Parallelismo simmetrico in cui all'astuzia si accompagna la frode. Con questo crescendo poetico molto probabilmente si allude ai mezzi astuti con i quali Antioco IV riuscì a far penetrare l'Ellenismo in Palestina (1 Mc 1, 10-15). Usando infatti spesso dei mezzi ingannevoli, come ad esempio quelli che abbiamo già visto in 1 Mc 1, 30 e 2 Mc 5, 24-26, riuscì a guadagnarsi la stima ed il sostengo anche di molti abitanti di Gerusalemme che si schierarono dalla sua parte violando in tal modo la legge di Dio.

« si innalzerà nel suo cuore e distruggerà molti che stanno al sicuro». Parallelismo simmetrico in cui l'orgoglio del piccolo corno causa la distruzione di molti. L'espressione indica chiaramente l'orgoglio che spinge i nemici di Dio a porsi al suo stesso livello trascinando nella loro disubbidienza molti che vengono da lui attratti con l'astuzia, con l'inganno e con la violenza. Con l'espressione « molti che stanno al sicuro », molto probabilmente si allude a tutti quei giudei che erano garantiti dalla legge divina, ma che ora, cadendo sotto l'influenza del piccolo corno, sono destinati alla distruzione. Questa è la caratteristica principale dell'azione costante di Antioco IV nel suo agire con astuzia, trame, inganni e violenze. Il risultato di questa azione di Antioco è la distruzione di molti giudei che vengono da lui attratti con lusinghe e persecuzioni come viene ampiamente documentato in 1 Mac 1,41-61 e 2 Mac 6, 1-11. È interessante a questo proposito leggere l'annotazione che viene fatta tra parentesi dallo scrittore della 2 Mac al cap. 6 dal v. 12 al v. 17. Israele con Antioco IV sta subendo una persecuzione senza precedenti che potrebbe fare pensare ad una sua scomparsa definitiva dalla scena della storia. Ma non è così, nonostante le persecuzioni feroci di Antioco c'erano alcuni che ancora resistevano, come ci viene detto in 2 Mac 1, 62. L'annotazione di 2 Mac 6, 12-17 vuole quindi rassicurare il lettore affermando che tutti questi castighi che stanno piovendo sul capo del popolo ebraico per colpa di Antioco IV Epifane non vengono per la distruzione del popolo, ma per la sua correzione. Quando alla fine anche Antioco IV sarà giunto al colmo della sua iniquità anche lui steso sarà punito da Dio e cesserà la sua persecuzione.

« insorgerà contro il Principe dei Principi, ma sarà infranto senza mano d'uomo». Il colmo dell'iniquità di Antioco IV giunge al colmo quando la sua azione arriva fino al Principe dei Principi, cioè a Dio stesso. Viene fatto cessare il sacrificio continuo ed il tempio di Gerusalemme viene adibito a tempio di divinità pagane. Non c'è atto più profano e sacrilego di questo in quanto il tempio, come abbiamo detto, rappresentava la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. La conseguenza inevitabile di questa azione perversa e sacrilega oltre ogni misura, è la caduta del persecutore. Questa è la sorte comune di tutti i persecutori di Dio e del suo popolo e di tutte le potenze che rappresentano il tipo degli avversari di Dio lungo il corso della storia. Antioco IV sarà infranto senza mano d'uomo, dice il testo, e con questa espressione si vuole alludere molto probabilmente alla morte incruenta, ma ignominiosa, per malattia depressiva, di Antioco IV Epifane che viene descritta in 1 Mac 6, 1-16 e 2 Mac 9.

Come si può vedere qui la fine del piccolo corno non è seguita immediatamente dal Giudizio di Dio e dalla instaurazione del regno eterno del Figlio dell'Uomo o dei Santi dell'Altissimo, come avviene per il piccolo corno della quarta bestia del cap. 7. La storia continua: il popolo ebraico sembra ritrovare un momento di relativa gloria sotto la guida della dinastia Asmonea, ma i tempi stavano maturando per la venuta del Messia che segnerà il punto centrale della storia umana. Il popolo dei santi non sarà più ristretto al solo popolo ebraico, ma comprenderà tutti coloro che si riconosceranno nel Messia. Nel suo nome verrà predicata a tutti i popoli la misericordia di Dio. Nel frattempo una nuova potenza umana stava emergendo dalle acque agitate del mare in tempesta. Questa potenza, come quelle precedenti, avrebbe perseguitato il nuovo popolo dei santi, poi sarebbe venuta la fine definitiva dei regni umani e l'instaurazione del regno eterno di Dio.

Con i versetti 26-27, la spiegazione della visione è finita. L'angelo garantisce a Daniele la verità di questa visione e Daniele ci fa sapere in quale stato d'animo  è stato lasciato dalla spiegazione dell'angelo.

V. 26: «La visione delle sere e delle mattine, di cui è stato parlato, è vera. Tu tieni segreta la visione, perché riguarda cose che avverranno fra molto tempo »

« La visione delle sere e delle mattine». La visione è così chiamata perché la durata della persecuzione di Antioco IV è indicata dal numero dei giorni (2300 v. 14) espressi mediante una formula piuttosto enigmatica. Questa visione è « verace », cioè corrisponde al vero. Si tratta di un termine piuttosto comune nella letteratura apocalittica che verrà usato molto spesso anche da Giovanni nell'Apocalisse (19, 9; 21, 5; 22, 6). Questa rappresenta una risposta al bisogno dell'uomo di essere sicuro di aver capito il significato di quanto è stato spiegato e che solo Dio può dare.

« Ma tu tieni segreta la visione» Daniele viene invitato a conservare in segreto questa visione per l'importanza delle cose che in essa sono state rivelate. Ma la ragione vera per cui non dovrà essere subito palesata agli altri viene data subito dopo: « perché riguarda cose che avverranno fra molto tempo ». La sua realizzazione non è immediata. Infatti l'autore ne fa depositario Daniele che la riceve al tempo di Belshatsar, mentre la sua realizzazione storica si compirà molti secoli dopo, al tempo di Antioco IV. Per alcuni critici, che sostengono la datazione posteriore del libro di Daniele collocandolo alla metà del II secolo a.C. in piena rivolta maccabaica, si tratta di semplice finzione, propria della letteratura apocalittica per dare l'impronta della rivelazione profetica ai fatti della storia contemporanea. Se tale ipotesi sia vera o meno è difficile dirlo. Altri studiosi infatti sostengono la datazione anteriore del libro di Daniele collocandolo nel periodo post esilico ed hanno altrettante buone ragioni per sostenere questa tesi.

Certamente il libro di Daniele presenta degli scritti che sono molto antichi, ma questo capitolo per la precisione delle circostanze e dei riferimenti storici potrebbe indurci a pensare che sia stato composto dopo il verificarsi degli avvenimenti. La questione è ancora tutta da chiarire e poiché la sua ispirazione non viene comunque messa in dubbio, è meglio attendere gli ulteriori sviluppi della ricerca biblica. Nel frattempo noi ci atteniamo alle parole di Gesù il quale ha riconosciuto in Daniele un profeta le cui profezie, pur avendo avuto riscontro nella storia del popolo ebraico, continuano a trovare anche nel futuro una loro realizzazione. L' « abominazione della desolazione posta in luogo santo » (Mt 24, 15) può senz'altro riferirsi alla profanazione compiuta da Antioco IV nel tempio di Gerusalemme, ma potrebbe, nelle parole di Gesù, riferirsi alla profanazione del tempio compiuta dai Romani, oppure in un futuro più remoto, prima del ritorno definitivo di Cristo, all'azione blasfema dell'Anticristo, quando questa azione avrà raggiunto il colmo della misura e si renderà nuovamente necessario un ulteriore e definitivo intervento di Dio.

V. 27: «E io, Daniele, mi sentii sfinito e fui malato per vari giorni; poi mi alzai e sbrigai gli affari del re. Io ero stupito della visionre, ma nessuno se ne avvide »

Daniele rimase sfinito a causa molto probabilmente del significato doloroso di questa visione. Questa sfinitezza lo costrinse a letto per parecchi giorni, ma poi rimessosi continuò ad occuparsi delle sue normali mansioni di funzionario della corte babilonese. Non dimentichiamo che soltanto in visione egli si era trovato nella provincia di Susa, sulle rive del fiume Ulai. Nella realtà egli si trovava ancora alla corte babilonese al servizio del re. L'angoscia di Daniele potrebbe anche essere stata causata dal fatto che tanto la visione quanto la sua spiegazione sono espresse in maniera tale da risultare pienamente comprensibili soltanto quando i fatti si sarebbero concretamente svolti sotto gli occhi.


NOTE A MARGINE

(1) Il traduttore ha trascritto tale e quale il pl. ebr. Kittim, i Kitioni. Questo nome designò primitivamente gli abitanti di Kition, nell'isola di Cipro. Sembra essere derivato da Citium, una città appartenente a un'antica colonia di Fenici, situata sulla costa meridionale di Cipro. Tale nome in seguito si estese all'insieme delle isole e delle coste, specialmente quelle della Grecia, comprese quelle più lontane dell'Italia. Abbiamo una testimonianza di questo nome nella tavola dei popoli in Gn 10, 4, dove Kittim viene indicato come un discendente di Javan, che è uno dei sette figli di Jafet. In Is 66, 19 Javan è associato con Tarshish, Pul e Lud. e ancora più da vicino con Tubal e le isole lontane, che unitamente rappresentano il mondo gentile. In Dn 8, 21 si parla del re della Grecia come del capo di Javan. In questo contesto Javan è ovviamente la Grecia. torna al testo