Non dobbiamo meravigliarci
se questa sezione, che inizia in Gen. 2, 4b, sia profondamente
diversa dalla precedente sia nello stile che nel contenuto. La precedente
sezione, infatti, attribuita alla tradizione sacerdotale, rimane isolata
come un poema a sé stante. Questa sezione invece, che insieme
al cap. 3 forma una sola unità letteraria, abbonda di antropomorfismi,
ha un carattere narrativo colorito e drammatico, è popolare nell'espressione,
ma profonda per intuizione psicologica e per i problemi trattati. Si
comprende quindi come questa sezione, attribuita alla tradizione jahvista,
torni su alcuni punti già trattati nella precedente sezione,
sviluppandoli in modo più dettagliato ed in forma diversa.
Questi punti sono principalmente: la creazione dell'uomo e della donna
(Ge 1, 26 s; Cfr 2, 7. 21 s.), a cui si connettono la destinazione
dei vegetali (Ge 1, 29; Cfr 2, 16), la superiorità sugli animali
(Ge 1, 28; Cfr. 2, 29 s), la finalità della vita coniugale (Ge
1, 28; Cfr 2, 24).
Diverso è anche
lo scenario delle due narrazioni: nella prima la vastità
dell'universo, nella seconda un tratto di terra, limitato da un
orizzonte ristretto.
La narrazione incomincia
dall'origine di tutte le cose per narrare poi in particolare ciò
che più la interessa. Il momento in cui inizia la creazione
qui è il «giorno», un punto indeterminato nel tempo,
nel quale «Jahvé fece la terra e il cielo».
Si noti qui come l'autore usi il termine «fece» anziché
«creò». La terra inoltre messa al primo posto rivela
l'interesse limitato della narrazione, che tralascia quanto riguarda
il cielo.
Dio è chiamato
costantemente Jahvé Elohim; si pensa che il secondo nome sia
redazionale: nella composizione definitiva del libro della Genesi
si è voluto mettere in evidenza che Jahvé, il Dio d'Israele,
soggetto di questa narrazione, è il medesimo soggetto che opera
nella prima sezione. Ma forse già l'antico narratore aveva evitato
per rispetto il nome di Jahvé, sostituendovi il più generico
Elohim ad esempio nel dialogo tra Eva e il serpente (Ge 2, 1-5).
La terra è
descritta priva di vegetazione perché mancava la pioggia e
non c'era l'uomo che lavorasse il suolo. Le categorie di vegetali sono
due: l'arbusto della campagna, che cresce spontaneamente, senza il lavoro
dell'uomo, purché vi sia la pioggia e l'erba della campagna,
cioè i cereali, che non cresce senza l'aiuto dell'agricoltura.
Se la narrazione è completa allora questo accenno alla vegetazione
deve essere connesso con 3, 18 e si ottiene questa successione: prima
dell'uomo non esistono i cespugli (corrispondenti a spine e cardi di
3,18), né i cereali (come in 3,18). Poi vengono fatti spuntare
direttamente da Dio gli alberi da frutto (2, 9) che danno un nutrimento
facile e gradito. Soltanto dopo il peccato la terra maledetta produrrà
da sé solo la vegetazione non commestibile (cespugli cardi, spine)
e potrà produrre anche i vegetali commestibili, ma solo a prezzo
di grandi fatiche da parte dell'uomo.
Il v. 6, nel quale
ci viene detto che «dalla terra saliva un vapore che irrigava
tutta la superficie del suolo», rappresenta una difficoltà
per l'interpretazione del brano. Sarebbe infatti un controsenso se
si affermasse la mancanza di vegetazione per causa dell'assenza di
piogge, e contemporaneamente si presentasse la terra irrigata in un
altro modo. Si deve perciò trovare una soluzione interpretativa
che dia al brano un senso logico. Il termine usato, tradotto abitualmente
come vapore o nube, viene tradotto da altri come fonte o fiume (LXX,
Vulgata e Siriaca). In tal modo il fiume o la fonte sarebbe un'anticipazione
della notizia data al v. 10 sul fiume di Eden. Non esisteva l'irrigazione
come non esisteva la pioggia, ma non è detto che non esistessero
i fiumi. Ma anche così il discorso non quadra del tutto. Infatti
non si può concepire una terra totalmente arida, priva di vegetazione,
che sia solcata da un fiume. Il versetto 6 quindi non dipende da quanto
detto al precedente v. 5, ma rappresenta soltanto un'anticipazione temporale
di quanto avviene poi effettivamente al v. 10 in cui vengono creati i
fiumi. Tale modo di intendere il v. 6 è confortato dal fatto che
nella sintassi ebraica il v. 6 non può rappresentare un'azione
successiva al v. 5. Inoltre un tale modo di esprimersi è simile
ad altri documenti contemporanei, come ad esempio l'inizio dell'Enûma
Elîsh.
Jahvé fa esistere
l'uomo mediante una duplice azione. La prima azione è espressa
da un verbo proprio dell'azione del vasaio «formò
o plasmò». Il termine «uomo», nome comune
che indica una collettività, qui è usato in senso individuale.
L'elemento che serve da materia prima per formare l'uomo è tolto
dal suolo, il cui termine in ebraico (ha adamâ) è simile
al corrispondente termine ebraico per indicare l'uomo. Viene quindi
stabilita una parentela tra la parola ebraica che indica il suolo,
il terreno, e quella che indica l'uomo, come per dare implicitamente
l'etimologia del nome «uomo» prima di dare quello della
donna al v. 23. Dal terreno è presa la parte più fine,
la polvere. Lo stesso termine è richiamato anche in Ge 3,19 e
in Gb. 10, 9.
La seconda azione
è espressa da un verbo che indica: soffiare. Jahvé
soffia nelle narici dell'uomo l'alito vitale, cioè comunica
all'uomo quello per cui esso respira. Effetto di questa effusione è
che l'uomo diventa un essere vivente, letteralmente un'anima viva. Dove
però anima non indica la parte spirituale dell'uomo, ma tutto
l'essere umano individuale. L'antico autore non ha termini filosofici
corrispondenti al concetto di sostanza spirituale. Tale concetto sarà
chiaro soltanto più tardi, ai tempi di Gesù (Mt 10, 28).
Qui per ora abbiamo soltanto l'indizio che questo soffio vitale dell'uomo
è tale da renderlo superiore agli animali, i quali al v. 19 sono
si plasmati come lui dal suolo, ma senza che si accenni al soffio vitale
da parte di DIO. Tutto questo brano che rappresenta Dio come un vasaio
onnipotente, capace di infondere la vita nella materia, è fortemente
antropomorfico. Pertanto può essere interpretato variamente, a seconda
del punto in cui si fa terminare l'antropomorfismo ed incominciare la realtà
oggettiva.
Eden è trattato
qui come il nome proprio di una regione imprecisabile, ma forse
in origine esso indicava soltanto, come il sumerico edin, una regione
coltivabile. In questa regione Jahvé ha piantato un giardino,
cioè fece spuntare degli alberi, il cui principale scopo era l'alimentazione.
Come abbiamo notato, se la narrazione non è frammentaria né
vi sono sottintesi, questa è la prima creazione delle piante, la
quale verrebbe indicata a questo punto per far notare che la vegetazione
è al servizio dell'uomo. La parola giardino, in ebraico gan, parola
antichissima di origine sumerica, fu tradotta dai LXX col greco paradisos,
nella Vulgata paradisus in latino, parola di origine persiana che indicava
un parco cintato. In mezzo al giardino stava l'albero della vita che cioè
avrebbe fatto vivere per sempre, allontanando indefinitamente la morte,
chi ne avesse mangiato i frutti, come risulta da Ge 3, 23. Intendendo poi
l'espressione «in mezzo» in senso largo, cioè nell'ambito
della parte centrale, evitiamo la contraddizione con Ge 3, 2 dove l'altro
albero, quello proibito, è designato come esistente nel mezzo del
giardino.
L'albero della conoscenza
del bene e del male, con questo nome che sa di simbolismo,
ha reso possibile molte spiegazioni , riducibili e tre classi:
a) Si tratta di un albero comune ma che era fatto oggetto di libero arbitrio; per volontà divina l'astenersene avrebbe fatto conoscere il bene della sottomissione a Dio, l'usarne avrebbe fatto conoscere sperimentalmente il male della ribellione e delle sue tristi conseguenze; in tal caso le parole del tentatore (Ge 3, 5) sfruttano l'ambiguità dell'espressione, dandole un altro senso.
b) Si tratta di un albero straordinario, i cui frutti davano una conoscenza speciale che i progenitori non avevano ancora, conoscenza da essi veramente acquistata (Cfr Ge 3, 7.11.22), ma che non era tale da renderli felici.
c) La conoscenza del bene e del male significa una conoscenza universale, qual'è la conoscenza divina (Cfr Ge 3, 5): male e bene sono due termini estremi per indicare tutta la gamma delle cose conoscibili, di uso analogo al binomio grande piccolo. Questo uso è attestato anche altrove nella Bibbia (Ge 24, 50; 31, 24.29; 2 Sm. 13, 22), specialmente in 2 Sm. 14, 17 dove vi è come qui il confronto con la conoscenza degli esseri superiori, ed in più appare l'equivalenza di queste due espressioni: «come un angelo di DIO nel discernere il bene e il male» (v. 17) «ma il mio signore ha la stessa sapienza di un angelo di Dio per capire tutto ciò che avviene sulla terra» (v. 20). Dunque l'albero della sapienza avrebbe dato la conoscenza universale propria di Dio; ma siccome questo è impossibile, ed in realtà l'albero non diede ai progenitori questa scienza, bisogna ammettere che qui si tratti di un simbolo letterario: l'albero è questa stessa scienza preclusa agli uomini, e la violazione dell'albero sarebbe la pretesa d'usurpare questa scienza divina.
Vedremo comunque di approfondire l'argomento più avanti in occasione del primo peccato.
Nella regione di Eden
scaturiva un fiume tanto ricco di acque che, dopo aver percorso il
giardino per irrigarlo, usciva di lì e si divideva in quattro
corsi d'acqua, gli inizi di quattro grandi fiumi. Il primo chiamato
Pishon che circonda e delimita ad occidente nel suo ampio corso tutta
la terra di Havilah con il cui nome si indica sempre una regione dell'Arabia
(Ge 10, 29; 25,18; Cfr. Ge 10, 7). Questo meraviglioso paese è
caratterizzato dall'abbondanza dell'oro (si ricordi la frequente menzione
dell'oro di Ofir 1 Cr 29, 4; Gb 28, 16; Sl 45, 10; Is 13, 12, paese
sconosciuto, ma che in Ge 10, 29 è elencato tra Saba e Havilah),
dalla presenza degli incensi (bdelio indica una gomma aromatica) e delle
pietre preziose (onice è la traduzione del termine ebraico che
indica più probabilmente la cornalina).
Il secondo fiume chiamato
Ghihon, cioè scaturente, è lo stesso nome della sorgente
esistente a Gerusalemme (1 Re 1, 33.38.45), gira più a occidente
ma anche più a sud, delimitando il paese di Cush, tradotto
abitualmente dai LXX e dalla Vulgata con Etiopia e che indica la Nubia:
in Gen. 10, 6 è elencata con Missayim, l'Egitto.
Il terzo fiume, noto
col nome di Tigri, aveva sulla sua riva destra la città di Assur
che fu capitale dell'Assiria fino a ca. il 1300 a. C.
L'Eufrate, il più
occidentale dei quattro fiumi, è elencato senza ulteriori
precisazioni perché ben noto ai primi lettori del libro della
Genesi.
I vv. 10-14 pongono
il problema dell'ubicazione del giardino di Eden che noi chiamiamo paradiso
terrestre. L'opinione più semplice è quella che considera
le idee geografiche qui presupposte non necessariamente più
esatte delle idee cosmologiche supposte nal cap. 1. La geografia è
una scienza affine alla cosmografia. Si può pensare che l'autore
avesse di mira anzitutto di esaltare le acque abbondanti di quel luogo
fortunato e di conseguenza lo ponesse nella regione nord orientale,
dove supponesse essere la comune sorgente del Tigri e dell'Eufrate.
Gli altri due fiumi che l'autore sapeva esservi più a oriente
del Tigri potrebbero essere il Choaspes (oggi Kerchâ) e l'Eulaeus
(oggi Kârûn), dei quali egli supponeva la comune origine
con gli altri due, ed immaginava un percorso che aggirasse l'estremo
sud. E' infatti assodato che l'Arabia e l'Etiopia erano considerate
dagli antichi come formanti un unico territorio senza soluzione di continuità
che delimitava la parte più meridionale del mondo.
Le altre opinioni
si possono dividere in due classi, secondo che la parola «capi»
viene intesa per inizi o foci. Se si intende per inizi, ci si porta
verso le sorgenti dell'Eufrate e del Tigri, nell'Armenia ed in tal caso
gli altri due fiumi sarebbero Il Phasis nella Colchide (rapporto del
Pishon con la terra dell'oro) o l'aurifero Tsörökh, L'Araxes
nella regione del Caspio (rassomiglianza con Cush?). Per sostenere il
valore oggettivo della descrizione biblica bisogna tuttavia supporre
che in quell'epoca remotissima i quattro fiumi si incrociassero in qualche
punto.
Se si intende invece
capi per foci, allora le quattro foci sono quelle dell'Eufrate, del Tigri,
del Choaspes e dell'Eulaeus, e il fiume che si divide in quattro
foci potrebbe essere lo stesso Eufrate oppure il fiume che oggi
irriga l'isola di Dilmun (oggi Bahrain), o la costa vicina, e che
gettandosi nel golfo Persico aveva davanti a sé le quattro
foci; Dilmun era infatti per i Sumeri la terra dei beati.
Dopo la perentesi geografica,
la narrazione, rialacciandosi ai vv. 8 e 9, riprende a parlare dell'uomo
che è presentato come creato fuori dal giardino e poi introdottovi
da Dio stesso.
In quel luogo di delizie
l'uomo non doveva rimanere ozioso, Dio infatti pone l'uomo nel giardino
con lo scopo di lavorarlo e di custodirlo per migliorare cioè
piacevolmente il prodotto spontaneo e per conservare il giardino
per sé e per i suoi discendenti.
L'uomo riceve da Dio
il permesso di mangiare i frutti di tutti gli alberi del giardino fuorché
quelli dell'albero della conoscenza del bene e del male. Viene dunque
implicitamente permesso all'uomo di mangiare anche i frutti dell'albero
della vita mettendo così a sua disposizione l'immortalità.
«Per certo morrai»
è la pena che segue il comando di Dio in caso di trasgressione.
Non è detto che l'esecuzione di questa pena dovesse necessariamente
avvenire subito nel momento stesso della trasgressione; il testo
può essere inteso, ed il contesto lo conferma, che nel momento
della trasgressione l'uomo sarebbe divenuto soggetto all'inelluttabile
necessità di morire.
La creazione degli
animali è inserita dopo un proposito divino che in realtà si
riferisce alla creazione della donna: «
Non è bene che l'uomo sia solo; io gli farò un aiuto
conveniente a lui ». E' la forma
letteraria della deliberazione analoga a Ge 1, 26 (la LXX e la Vulgata
hanno anche il plurale), che mira a mettere in grande evidenza, come nella
prima sezione, l'importanza di questa nuova creatura che doveva essere
per l'uomo « un aiuto conveniente
». La traduzione letterale di questa espressione «
conforme al suo dirimpetto» indica
la parità di natura e la complementarità della donna rispetto
all'uomo.
Prima però
di compiere quanto ha deliberato, Jahvé vuole che l'uomo si convinca
di ciò che deve essere per lui la donna e per questo fa intervenire
gli animali, quasi fossero un primo tentativo di dare all'uomo una
compagnia conforme alle sue esigenze.
Vengono nominati soltanto
gli animali terrestri ed i volatili in quanto la creazione dei pesci
è sottintesa. Se il testo ha conservato integra la narrazione
primitiva, questa, come nel caso delle piante al v. 9, appare come
la prima creazione degli animali. L'insistenza sul fatto che Dio condusse
questi animali dall'uomo per vedere come li avrebbe chiamati e che tale
nome sarebbe stato accettato da Dio qualunque esso fosse, è forse
un'espressione polemica contro la pretesa forza magica insita nei nomi
secondo le concezioni dell'antico Oriente. Dare il nome significa, comunque,
penetrare l'essenza di una cosa e farla quindi entrare dell'ordine delle
realtà intellegibili. L'uomo, pur non assistendo alla creazione
diretta degli animali che rimane avvolta nel mistero, dimostra la sua
intelligenza comprendendo la natura degli animali ed inoltre, fissandone
il nome, esercita su di loro un atto di superiorità.
L'esame degli animali
si conclude con una delusione da parte dell'uomo ed acuisce in lui
il desiderio per la creatura che Dio sta per donargli. Questo rappresenta
un'ulteriore dimostrazione della superiorità dell'uomo sugli
esseri non ragionevoli.
Il sonno profondo durante
il quale avviene la formazione della donna dalla costola del primo
uomo non ha lo scopo di non fargli sentire il dolore dell'intervento,
ma di impedirgli di essere testimone della misteriosa azione di Dio.
Questo sonno particolare, simile a quello di Abramo in Ge 15, 12, ,
nella mente dell'autore biblico potrebbe aver avuto qualcosa di
profetico. In questo modo si spiegherebbe l'espressione del v. 23 dove
l'uomo si mostra internamente illuminato per comprendere il rapporto
fra l'uomo e la donna. La costola ha talora un valore figurato, ma nel
contesto non può avere altro che il significato di una delle costole.
Questa costola diventa il materiale primo con il quale Jahvé forma
la donna che conduce poi dall'uomo, come un padre conduce la sposa allo
sposo e ne sanziona l'unione. Viene quindi ancora ribadita l'idea che
l'uomo non ha assistito alla formazione della sua compagna.
«Ossa delle
mie ossa e carne della mia carne» sono parole proverbiali che
esprimono uno stretto legame di parentela per il fatto di una comue
origine. Qui in modo particolare si riferisce anche al fatto che la
donna è stata formata con una parte di ossa e di carne presa
dall'uomo.
«Sarà
chiamata donna perché è stata tratta dall'uomo».
Nella traduzione non viene reso il senso originario dell'espressione.
In ebraico infatti «'issâ», donna, moglie, è
simile a «'îs», uomo, marito, e forse è
della stessa radice. Il rapporto tra queste due parole esprime il
rapporto di origine della donna dall'uomo. Così l'uomo impone
alla donna il nome che le conviene e riconosce in lei l'aiuto a sé
corrispondente. Il v 24 proclama solennemente la legge del matrimonio:
«Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie, e saranno una sola carne». Questa riflessione
non è del primo uomo, ma dell'autore sacro; Gesù la cita
attribuendola a Dio (Mt 19, 5) in quanto è divinamente ispirata
ed esprime una dottrina rivelata.
L'espressione «perciò»
sembra mettere questa verità in stretta relazione col modo
di formazione del corpo della donna: siccome è stata staccata
dal corpo dell'uomo, vi è nell'uomo come un'intima esigenza
a riunirsi a lei; la riunione avviene nel matrimonio per il quale
l'uomo e la donna ridiventano una sola carne. La formazione della
donna dalla costola dell'uomo sembra richiamare alla lontana il cosiddetto
«mito dell'androgino» che nella forma sumero-accadica ci
è stato trasmesso da Beroso nel IV secolo a. C. e che Platone
rese celebre nel Convivio. Secondo tale mito, che vuole spiegare l'attrazione
dei sessi, all'inizio della storia umana esisteva un unico essere
a forma di palla che racchiudeva in sé stesso i due sessi. Gli
dei per punizione divisero in due questo essere. Le due parti così
divise si sentono attratte l'una verso l'altra per riunirsi e formare
così nuovamente un unico essere.
Ritornando al racconto
biblico, notiamo che il legame che unisce l'uomo e la donna è
così forte da far passare in seconda linea i vincoli indistruttibili
che legano l'uomo a coloro da cui ha ricevuto la vita del corpo.
In questo modo viene insegnata l'indissolubilità dal matrimonio,
che Gesù metterà in chiaro aggiungendo alle parole
di Genesi questo commento: «E così non sono più
due, ma una sola carne; quello dunque che Dio ha unito insieme, l'uomo
non lo separi« (Mt 19, 6).
In questo passo, cioè
al v. 24 del cap. 2 di Genesi, è pure contenuta la monogamia
in quanto vengono presentati uno solo uomo ed una sola donna come
risultato della prima creazione e come contraenti del primo matrimonio.
L'autore dimostra grande
profondità psicologica nell'ultima frase della narrazione:
«E l'uomo e sua moglie erano ambedue nudi e non ne provavano
vergogna». Questa osservazione getta uno sprazzo di luce sulla
condizione dei progenitori prima del peccato. Ricordando l'esperienza
dell'età infantile, nota in loro l'assenza della vergogna, non
come un difetto, ma come un pregio. L'insorgere del pudore istintivo
sarà segnalato dopo (Ge 3, 7) come conseguenza del peccato in
un contesto di delusione e di paura. Generalmente si confonde il pudore
con la percezione di un pericolo di eccitazione sessuale e si conclude
che i progenitori, non avvertendo tale pericolo, dimostravano di avere
una sessualità perfettamente equilibrata e totalmente sottomessa
alla ragione; in altre parole essi possedevano l'integrità originale
e più precisamente assenza di concupiscenza, intendendo con il
termine concupiscenza i moti istintivi e incontrollati che insorgono
e talora persistono a dispetto della volontà.
Anche se la conclusione
è esatta, la concezione che ha spinto l'autore biblico a
fare questa constatazione non è stata la percezione di un
pericolo di eccitazione e quindi di peccato, ma il profondo disagio
che si avverte nel fatto di non poter mettere la propria intimità
al riparo di fronte a chi è sentito come un estraneo, se non
addirittura ostile, o curioso, o petulante. Tale concezione, infatti,
è suffragata dall'ambiente biblico in cui la nudità è
sempre vista come un segno di miseria (Es 28, 48; EZ 18, 7), un segno
dell'età infantile (Ez 6, 16 ss.), un segno di schiavitù
e prigionia (Is 20, 2.4), un segno di rovina e di caduta (Is 47, 2; Lm
1, 8), un segno di castigo per l'adultera (Os 2, 3), un segno di castigo
per la nazione superba (Lm 4, 21; Na 3, 5; ); mentre come mezzo di esibizione
e di adescamento sono menzionate le vesti sfarzose ed i gioielli (Ez 16,
10-16). L'accenno ad una situazione di disagio e di vergogna si ha in
relazione a personaggi di rilievo, la cui nudità prende l'aspetto
di menomazione della propria onorabilità (Ge 9, 21; Es 20, 26;
2 Sm 6, 20).
L'assenza di questa
emozione istintiva nella condizione di innocenza dei progenitori indica
uno stato di completa confidenza reciproca, nella quale anche la realtà
sessuale è una manifestazione dell'intima comunione spirituale,
e nella quale non c'è il pericolo di sentirsi considerato da
estranei come un essere estraneo, oggetto di concupiscenza o di curiosità.
In tal modo l'uomo non aveva bisogno di sentirsi geloso della propria
vita intima, né poteva temere di svelarne i segni più
concreti. Questo equivale certaente all'assenza della concupiscenza,
ma vi si aggiunge in maniera più positiva anche una profonda ed
intima comunione spirituale con il prossimo e con Dio.
Il brano del cap. 2
della Genesi può essere interpretato in due modi: In senso
storico-realistico, cioè in senso letterale, oppure in senso
storico-ideale. L'interpretazione storico-realistica parte dal presupposto
che le espressioni bibliche vanno prese, per quanto possibile, alla
lettera; scartando ovviamente tutte quelle rappresentazioni del testo
che fanno uso di antropomorfismi. Così ad esempio per quanto
riguarda la formazione del corpo dell'uomo si deve escludere che Dio abbia
impastato e modellato l'argilla alla maniera del vasaio. Si deve escludere
che abbia formato il corpo umano in due tempi: prima come statua d'argilla
e poi come vero e proprio corpo umano. A che scopo infatti avrebbe dovuto
servire la statua? Dunque si dovrà dire che Dio con una atto della
sua volontà ha fatto sì che una parte di materia preesistente
si organizzasse in un corpo umano. Ma ci si chiede un corpo morto o un corpo
vivo? Per quale motivo Dio dovrebbe aver fatto un cadavere? Anche la formazione
in due tempi, dunque, dell'uomo, corpo materiale e soffio che gli dà
la vita, appartiene all'immagine antropomorfica. Siccome Dio non soffia
e l'anima non è un soffio, di tutta questa scena plastica rimane
il fatto che Dio in un determinato momento volle che dalla materia preesistente
(polvere della terra) si formasse un corpo umano che contemporaneamente
egli rese vivo mediante l'infusione dell'anima razionale.
Si noti bene che questa
interpretazione non potrebbe essere più letterale e più
realistica di così senza scadere nel ridicolo e nell'assurdo.
Ciò che caratterizza questa interpretazione, distinguendola dall'altra
che esporremo, è l'adesione al passaggio diretto dalla materia
inorganica (polvere della terra) al corpo del primo uomo come una verità
oggettiva, come un fatto realmente accaduto ed insegnato dalla Scrittura.
Ben si comprende quindi che questa interpretazione è incompatibile
con l'ipotesi evoluzionistica che esamineremo più avanti.
Lo stesso discorso
vale per la formazione del corpo della donna. Scartando tutti gli antropomorfismi
rimane il fatto che Dio si è servito di una costola del primo
uomo per formare il corpo della donna. Tuttavia alcuni ammettono
che non abbia molta importanza il fatto che si tratti di una costola
piuttosto che di un'altra parte del corpo e di conseguenza considerano
l'immagine della costola come una rappresentazione plastica.
L'interpretazione storico
ideale si basa sul presupposto che l'autore sacro si serve,
non solo di antropomorfismi, ma di tutta una scenografia familiare
al suo ambiente o da lui escogitata, come adatta al fine di insegnare
le verità fondamentali sulla natura dell'uomo. Questa maniera
concreta di presentare i fatti, simile a quella della parabola (pur
non trattandosi qui del genere letterario della parabola), non è
l'oggetto dell'insegnamento, ma è soltanto il mezzo di cui l'autore
si è servito per dare tale insegnamento. Così ad esempio,
nel caso del primo uomo, l'oggetto dell'insegnamento è la sua dipendenza
da Dio come creatura dal Creatore. Egli è composto non solo di un
corpo materiale come gli animali, ma anche di un elemento proveniente direttamente
da Dio che lo rende superiore agli animali. Il mezzo di cui si è
servito l'autore per insegnare questa verità è l'immagine
di un vasaio onnipotente che non solo modella l'argilla con somma facilità,
ma sa pure rendere viva la sua opera. Questa naturalmente è tutta
un'immagine, un espressione fittizia, un espediente, un antropomorfismo,
senza irrigidirsi sulla menzione della polvere del suolo come se questa
fosse un elemento oggettivo. Tale interpretazione è compatibile
con l'ipotesi evoluzionistica.
Più complesso
si presenta il problema della formazione della donna. L'oggetto dell'insegnamento
in questo caso è assai ricco: la donna è della stessa
natura dell'uomo, ma l'uomo è il primo, quindi a lui tocca
il comando; la donna è il complemento dell'uomo: l'unione coniugale
corrisponde ad un disegno divino, è monogamica ed indissolubile.
Il mezzo per esprime concretamente tale insegnamento è l'immagine
della costola sottratta all'uomo, che Dio costruisce formandone una
donna. Questa immagine è rappresentata plasticamente dal rapporto
esistente fra le parole «'îs» e «'îssa».
A questo punto però si presenta un problema: la provenienza
del corpo della donna dall'uomo è una realtà oggettiva
o è tutto un modo di dire? Generalmente si ritiene che qui è
una realtà oggettiva, benché non si possa dire in che cosa
precisamente consista. Il corpo della donna è fisicamente imparentato
con quello dell'uomo per ragione della sua origine, e questo sarebbe
un fatto che non solo esprime ma dà il fondamento oggettivo dell'insegnamento
qui inteso. Vi si può trovare un'analogia con quanto riguarda
la formazione dell'uomo; la presentazione è tutta ideale, però
rimane il fatto che il corpo umano è formato di materia preesistente;
così anche qui: il modo di formazione della donna è un
mistero e la sua presentazione è ideale, però rimane il
fatto che la donna è formata con materia umana preesistente,
o qualcosa di simile.
Alcuni di conseguenza
ritengono, che tutta la presentazione plastica della dottrina qui
intesa sia puramente ideale, e che anche l'origine della donna dall'uomo
sia solo un mezzo per esprimere la dottrina. Questa soluzione esegetica
sembra nel complesso più probabile della prima. La ragione principale
sta nel fatto che, trattandosi di un contesto così largamente
antropomorfico, non si può stabilire con certezza il punto di
confine tra la figura e la realtà oggettiva. Un'altra ragione
è data dal confronto con la creazione del cap. 1, nella quale
abbiamo la creazione, non solo dell'uomo, ma anche delle piante e
degli animali. L'ordine in cui si succedono le opere nelle due creazioni
è molto diverso:
2° Creazione (2, 4b-25) | 1° Creazione (1, 1-2, 4a) |
Cielo e terra | II° e III° opera |
Uomo | VIII° opera |
Piante | IV° opera |
Assegnazione delle piante all'uomo | VIII° opera |
Animali terrestri e volatili | VII° e VI° opera |
Dominio sugli animali | VIII° opera |
Creazione della donna | VIII° opera |
Sorprende specialmente nella 2° versione la creazione dell'uomo prima e successivamente quella della donna, mentre nella 1° versione la coppia è presentata come simultanea. Questo vuol dire che il 1° ed il 2° capitolo presentano i loro insegnamenti servendosi di mezzi diversi, conformi ad un diverso punto di vista, e che di conseguenza non si contraddicono, appunto perché la diversa presentazione non rappresenta l'oggetto dell'insegnamento, ma soltanto il mezzo o la forma di espressione. Se è evidente che il 1° capitolo segue dei criteri artistici, è anche evidente che il 2° capitolo segue invece un criterio psicologico e didattico, il quale è tale da imporre un diverso ordine in cui vengono presentate le successive opere.
E' la teoria scientifica,
detta anche trasformismo, secondo la quale tutte le specie viventi
e vissute sulla terra derivano da una o più specie originarie
di struttura semplicissima, le quali in successive generazioni andarono
trasformandosi, evolvendosi fino a formare la specie di struttura
più complessa e perfetta.. Anche la specie umana sarebbe il risultato
di questa linea ascendente evolutiva. A seconda dei presupposti filosofici
con i quali viene combinata, la teoria dell'evoluzione biologica si presenta
sotto due forme: materialista oppure spiritualista o teista.
Secondo l'evoluzionismo
materialista, la materia è eterna; i primi viventi derivano
direttamente dalla materia inorganica per generazione spontanea;
i viventi superiori, di struttura cioè più complessa,
sono derivati dagli inferiori per gioco di cause fisico-chimiche;
il corpo umano deriva da quello degli animali e l'anima umana, pure
materiale, è un perfezionamento dell'anima degli animali.
Secondo l'evoluzionismo
spiritualista, la materia è creata da Dio; i primi viventi
(o il primo vivente) derivano dalla materia o in forza di un atto creativo
di Dio che ha introdotto nel mondo la vita come qualcosa di nuovo,
oppure per generazione spontanea, in quanto la materia ha ricevuto
da Dio all'inizio la forza di produrre degli esseri viventi; i viventi
superiori derivano dagli inferiori secondo una tendenza finalistica,
che rivela la guida di una Intelligenza superiore; il corpo umano deriva
dagli animali come vertice sommo di questo finalismo; l'anima umana
è creata da Dio.
Si nota facilmente
che l'evoluzionismo materialista è contrario, non solo alla
Bibbia, ma a tutto l'insegnamento cristiano. Ma non è questo
il luogo per dimostrare il carattere arbitrario di questa ipotesi e
la difficoltà di poterla conciliare con i fatti scientificamente
accertati. L'evoluzionismo spiritualista del quale ci occuperemo è
invece più conciliabile con l'insegnamento cristiano, anche
se permangono delle difficoltà sull'infusione dell'anima in
un corpo animale adulto o in uno zigote (ovulo fecondato) animale al momento
del concepimento. Ma tali problemi vanno trattati in altra sede. Qui
ci limiteremo ad esaminare brevemente fino a che punto tale teoria si
fondi su fatti accertati, prima di passare all'aspetto biblico della
questione.
Per la maggior parte
degli scienziati la fondatezza della teoria evoluzionistica non può
essere messa in discussione. Alcuni di essi tuttavia ammettono che
gli argomenti a favore di essa non siano così decisivi e preferiscono
ritenere l'evoluzionismo un ipotesi di lavoro che si suppone vera,
in mancanza di meglio per poter proseguire nelle ricerche e per dare
una spiegazione ai fatti. In realtà la convergenza degli indizi
è assai seducente, per persuadere che una evoluzione sia veramente
avvenuta almeno negli animali. Anche se ancora non si è trovato
una spiegazione sufficiente del modo e delle cause dell'evoluzione,
il fatto sembra innegabile. Ma quando si passa all'origine dell'uomo
gli argomenti si riducono a due: anzitutto essendo l'uomo strutturalmente
affine agli altri animali, si deve presumere che sia un risultato della
stessa linea evolutiva; in secondo luogo ci sono i dati della paleoantropologia,
dello studio cioè delle primitive razze umane conservate allo stato
di fossili. Il primo argomento, essendo una presunzione, deve cedere di
fronte alla realtà: l'uomo potrebbe cioè fare eccezione.
Il secondo argomento merita un attento esame. La paleoantropologia ci dimostra
che esistettero razze umane con caratteri un pò più simili
alle scimmie di quanto non presentino le razze attuali. Tali caratteri li
dividono in tre classi: Protantropi , con maggiore proporione
di alcuni caratteri scimmieschi (visiera sopraorbitaria, fronte e mento
sfuggenti, mandibola robusta, ecc.); Paleantropi, con minor proporzione
di caratteri scimmieschi ma in complesso più rozzi dell'uomo attuale;
Fanerantropi
, appartenenti a razze assai diverse fra loro ma tutte simili all'uomo
attuale.
L'argomento avrebbe
molto valore se si potesse dimostrare che l'ordine di perfezione strutturale
(Protantropi, Paleantropi, Fanerantropi) corrispondesse esattamente
all'ordine cronologico, così da far pensare che il Paleantropo,
venendo dopo, sia un'evoluzione del Protantropo, e così il Fanerantropo
sia un ulteriore perfezionamento del Paleantropo. Invece i fatti sono
molto complicati: I Fanerantropi sembrano essere esistiti nelle epoche
più remote, e non derivare dalla stessa linea dei Paleantropi;
inoltre i primati infraumani che si ritengono costituire la linea da
cui sarebbe derivato l'uomo, hanno certi caratteri più umani
che non i Paleantropi, così da far pensare che non ci sia un
chiaro parallelismo tra i caratteri somatici e l'appartenenza alla specie
umana. Ma questi problemi particolari, pur essendo affascinanti, non
possono essere trattati in sede di esegesi biblica.
La Bibbia come risulta
dall'esegesi dei capp. 1 e seguenti non contiene nulla che possa
farci pensare all'evoluzionismo. Questa teoria era evidentemente sconosciuta
agli autori dei racconti biblici della creazione. Secondo tali autori
Dio è il creatore di tutte le specie animali, ed in particolare
è il creatore dell'uomo; inoltre tale creazione si presenta
come diretta, sebbene non dal nulla. Se non che spesso nel linguaggio
biblico si attribuisce a Dio direttamente quello che egli opera attraverso
le cause seconde: così ad esempio la formazione del corpo del
bambino nell'organismo moderno (Sl 139, 13). In Gb 10, 9 si attribuisce
all'origine di ogni singolo uomo quanto è narrato in Ge 2, 7 a
proposito dell'origine del primo uomo.
Comunque noi sappiamo
che ci sono due linee possibili e legittime di esegesi. Nella prima
linea (storico-realistica) si suppone narrato il modo di formazione
dei progenitori, ed il modo è tale da escludere l'evoluzionismo.
Nella seconda linea esegetica (storico-ideale) invece si intendono
questi particolari solo come in mezzo di presentazione della dottrina
e del fatto della creazione, e pertanto si può concludere che
la Bibbia non insegna nulla circa il modo di formazione dei progenitori.
In tal caso la Bibbia non esclude la teoria dell'evoluzionismo. Rimane
però la questione della formazione della prima donna. Naturalmente
l'evoluzionismo non può fermarsi a spiegare solo l'origine del
corpo maschile, escludendo il corpo della donna dalla linea evolutiva.
Ma l'interpretazione storico-ideale si limita ad asserire una dipendenza
o anche solo una mutua pertinenza dei corpi del primo uomo e della prima
donna, senza precisare nulla quanto alle modalità di questo fatto;
e siccome l'evoluzionismo non è in grado di precisare di più
su questo particolare, non si può ricorrere alla narrazione biblica
per negare la legittimità della teoria evoluzionistica. Inoltre
non è improbabile che il passo biblico debba interpretarsi tutto
come una narrazione fittizia a scopo dottrinale, come abbiamo visto.
Non è questa un'interpretazione da prendersi ad occhi chiusi. Però
basta questa possibilità perché il passo non debba essere
utilizzato a scopo polemico contro l'evoluzionismo.
Concludendo si può
dire che se si tratta dell'origine dei progenitori, la Bibbia ha
un insegnamento profondo e sempre attuale; se invece si tratta
del modo con cui hanno avuto origine dei primi corpi umani, non è
chiaro che la Bibbia contenga un insegnamento speciale. E siccome non
è chiaro che altri punti di dottrina si oppongano all'evoluzionismo,
ne viene di conseguenza che sarà lecito allo scienziato, senza
andare contro alla fede, di mettere la teoria evoluzionistica nel campo
delle ipotesi possibili e fare delle ricerche in merito ed anche di ritenerla
vera.
Dal punto di vista
letterario il prologo della creazione dell'uomo (2, 4b-6) presenta notevole
affinità con l'inizio delle cosmogonie babilonesi e di certe composizioni
sumeriche, che, per descrivere l'inizio della civiltà, incominciano
con l'elenco delle cose che non c'erano. Inoltre nel capitolo 2 troviamo
dei nomi sumerici, rarissimi altrove nelle Bibbia: Gan (giardino); Eden (pianura
fertile; Ed (canale), insieme con la menzione del Tigri e dell'Eufrate, che
pure compaiono in alcuni testi cosmogonici babilonesi.
Tutto questo fa pensare
ad una certa dipendenza, sia pure indiretta, dalle composizioni
babilonesi ricalcate su prototipi sumerici. L'autore ispirato volle
dare una cosmogonia vera al suo popolo, ma si attenne pure a qualche
elemento stilistico e a qualche luogo comune letterario ormai consacrato
dall'uso.
Dal punto di vista
concettuale troviamo specialmente l'idea dell'uomo formato dalla terra.
Si tratta di un'idea che nasce spontaneamente dall'osservazione della
natura e si trova diffusa anche tra i primitivi di regioni assai lontane
tra loro.
Presso i Babilonesi
troviamo tre concezioni riguardo alla materia di cui fu formato il corpo
umano: il sangue di un Dio ucciso; tale sangue mescolato all'argilla
(è forse un modo grossolano per esprimere l'idea che nell'uomo
c'è un elemento divino); argilla soltanto.
Già abbiamo
notato la presenza di una consulta prima della creazione dell'umanità
in Ge 1, 26 e per quanto riguarda la donna in Ge 2, 18. Tale consulto
è un luogo comune nelle cosmogonie babilonesi. Questo significa
che l'autore del libro della Genesi con tutta probabilità si
ispirò ad una concezione preesistente, già familiare ai
suoi uditori, quando presentò la creazione del primo uomo come
la plasmazione dalla polvere del suolo. Per quanto invece riguarda l'origine
della donna dall'uomo, se escludiamo il mito dell'androgino, non troviamo
nulla di simile nei testi babilonesi, né in quelli egiziani e ugaritici.
L'affinità
dei mezzi espressivi usati dall'autore sacro con le cosmogonie dei
popoli del vicino antico Oriente è un'ulteriore prova che il
modo di esprimersi nei racconti biblici della creazione rappresenta
soltanto il mezzo e non l'oggetto dell'insegnamento che possiamo ricavare
da questi brani.
Dalla rubrica "Corrispondenza con i lettori" della rivista "La Buona Notizia", edita a cura della Chiesa di Cristo di Bologna, riportiamo la domanda di un lettore e la relativa risposta del prof. italo Minestroni:
Domanda :
"Nella Bibbia è scritto che «Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza». Sappiamo anche che è provato scientificamente che nei millenni passati, l'uomo era molto simile alla scimmia, anzichè all'attuale sembiante. Come si spiega questo controsenso?" (G.M. - Foggia)
Risposta :
Caro amico, nel primo capitolo della Genesi si legge che Dio – quando si trattò di chiamare all'esistenza le cose inanimate – fece semplicemente uso della Sua Parola creatrice. Cosi sono venuti all'esistenza la luce (vs.3), il cielo, la terra e i mari (vss. 6-10), il sole, la luna e le stelle (vss. 16-18).
Ma quando si trattò di chiamare all'esistenza le creature aventi un principio di vita – sia quelle del regno vegetale (verdura, erbe e piante: vvs 11-12) che quelle del regno animale (pesci, grandi animali acquatici: vvs 20-21; il bestiame, i rettili e gli animali selvatici vvs 24-25) – Dio disse rispettivamente « producano le acque » (vs 20) e « produca la terra » (vvs 11 e 24). Ed esse, ubbidienti al volere di Dio, « produssero » per un potere che Dio aveva immesso in loro, quello che Dio aveva ordinato. Perciò è detto che Dio « li creò » (vs 21) o « fece » (v5 25).
Quindi la Bibbia, Rivelazione Divina, ci insegna chiaramente che è stato Dio a creare gli elementi per cui esistono tutti gli esseri inanimati ed animati.
Sebbene il primo capitolo della Genesi descriva un certo procedimento di formazione della terra e dell'universo, tuttavia non possiamo sapere da essa COME ed il QUANDO ciò sia avvenuto, perché le parole del Testo Sacro non hanno valore scientifico e l'agiografo non intese fare una lezione di Geologia e Biologia. Egli volle solo insegnare questa altissima verità e cioè che tutte le cose sono state chiamate all'esistenza da Dio e che dipendono da Lui, unico Signore del Cosmo e supremo Legislatore della Natura. Nei passi poi di Genesi 1, 26-27 e 2, 7 si giunge al fastigio dell'azione creatrice di Dio con la creazione dell'uomo; ed allora il racconto biblico assume un tono particolarmente di verso.
Infatti:
a) invece del semplice ordine di Dio: «sia, siano, produca, producano , ecc.» si ha il coortativo «facciamo » (vs. 26) per indicare una deliberazione divina: « Facciamo l'uomo a nostra immagine secondo la nostra somiglianza... E Dio creò l'uomo a sua immagine: lo creò ad immagine di Dio; li creò maschio e femmina » (Genesi 1,26-27).
Ora, dove esiste nell'uomo questa «immagine, somiglianza » di Dio? Siccome « Dio è Spirito» (Giovanni 4, 24), esse esistono e non possono aversi altrove che nella parte spirituale dell'essere umano.
b) Il corpo umano fu formato per opera di Dio, perché è detto: « L'Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere (argilla) della terra » (Genesi 2, 7) e lo fu per opera diretta di Dio.
Ma in che senso va intesa questa «opera diretta »? Nel senso che Iddio Stesso abbia plasmato con l'argilla una statua nelle cui narici poi « soffiò in alito vitale» che fece divenire la statua «un essere vivente »? Non può essere stato così, perché Dio non ha bisogno di queste azioni e gesti come gli esseri umani per produrre le Sue opere, perché ha il potere di produrle con la sola Sua volontà.
Perciò le parole del libro della Genesi che descrivono la formazione dell'uomo, non possono avere altro valore che quello di un significato in parte allegorico, metaforico, antropomorfico per insegnarci che l'origine dell'uomo è dovuta ad un atto creativo del volere di Dio.
La Bibbia perciò non entra nei problemi sollevati dalla Paleontologia, dalla Biologia e dalla Morfologia perché l'autore sacro non ha inteso fare una trattazione scientifica dell'origine degli esseri viventi e dell'uomo.
Quello che scrittore sacro vuole mettere in evidenza è che tutto il creato proviene da Dio, il Quale ha dimostrato un amorevole interessamento nel concepire e nel creare l'uomo. L'uomo quindi appartiene ad un ordine umano distinto dal resto della creazione e che ha avuto vita in maniera immediata e diretta di Dio.
Del resto la Scienza non è riuscita a dimostrare a tutt'oggi che quelli che gli Evoluzionisti chiamano "i naturali germi della vita " siano venuti all'esistenza per mezzo di processi naturali e che, mediante loro, le specie più basse di animali e di piante si siano trasformate in specie più elevate. Inoltre non è mai stata scoperta la minima prova che un qualsiasi animale abbia finora raggiunto od abbia la possibilità di raggiungere – lentamente o celermente – un grado così elevato da possedere un corpo umano, un'anima umana, una mente umana. Per cui, nessuna delle grandi scimmie a noi note ed oggi esistenti, può essere proposta come diretto capostipite dell'uomo secondo il corpo.
Sono troppe le diversità tra l'uomo e l'altra, a cominciare dal cranio, la cui diversità è immensa. Fino ad oggi non si sono trovate specie intermedie tra la scimmia e l'uomo, con le quali colmare l'abisso di differenziazione tra i due. Oggi nessuno studioso serio afferma che l'uomo deriva dalla scimmia antropomorfa, in quanto questa non si troverebbe sulla linea evolutiva che avrebbe portato all'uomo.
D'altronde, nelle ipotesi e nelle teorie evoluzioniste ci sono troppi punti oscuri, troppi misteri circa l'origine della vita e dell'uomo, che tali ipotesi e teorie non riescono a spiegare.
Perciò possiamo concludere che la Bibbia – pur lasciando la Scienza libera di fare i suoi studi e le sue ricerche e pur non volendo essere un libro scientifico – rende esitanti e molto inclini alla riflessione tanti scienziati e studiosi sul tema della formazione del corpo umano come risultato finale di un lungo processo evolutivo.