GENESI - LA STORIA DELLE ORIGINI (Ge 1,1 - 3, 24)

L'intero brano da Ge 1, 1 a 3, 25 può essere articolato in tre quadri:


INDICE
1) La creazione in sei giorni (Ge 1, 1 - Ge 2, 4a)
2) I progenitori nel giardino (Ge 2, 4b - 25 )
3) Il peccato di Adamo ed Eva (Ge 3, 1-24

La creazione in sei giorni (Ge 1, 1 - Ge 2, 4a)

I l racconto di Genesi, che va da 1, 1 fino a 2,1-4a, forma il prologo del Pentateuco ed è una delle pagine più belle e maestose di tutto l'Antico Testamento.

Non si può dire che sia stato scritto in un linguaggio strettamemte poetico perché il suo scopo è prevalentemente didattico. Allo stesso tempo però non ha lo stile della prosa ordinaria, ma ogni sua singola parte è stata studiata per armonizzarsi con tutto l'insieme. In  questo modo il complesso del brano acquista una struttura del tutto particolare, sia per essere facilmente ricordato a memoria, sia per raggiungere determinati effetti.

L'artificio consiste, anzitutto, nel fatto che il processo creativo, preceduto da un'introduzione (1,1 s.) e seguito da una conclusione (2, 1-4a), è presentato in otto quadri. Se si trattasse di una poesia, dovrebbero chiamarsi strofe o stanze, descriventi ciascuna un'opera della creazione in termini simili alle altre.

La narrazione delle otto opere è fatta mediante alcune formule che si ripetono in maniera costante in quasi tutte le opere, mentre varia la parte che descrive l'opera particolare di ogni quadro. Ma anche questa parte variabile è suddivisa in ciascun quadro in due tempi: comando ed esecuzione, in modo che l'esecuzione ripeta da vicino i termini del comando.

Questo susseguirsi di otto opere con le stesse formule sembra costruito apposta per mettere in grande risalto l'opera finale e cioè la creazione dell'uomo. In quest'ultima, infatti, risulta evidente uno svolgimento più ampio ed elevato nel quale il linguaggio, a cui l'orecchio si era abituato, si stacca notevolmente dal precedente.

In secondo luogo l'artificio consiste nel disporre le otto opere in due serie parallele di quattro ciascuna, in modo che le opere della prima serie presentino la creazione degli spazi, mentre le opere della seconda serie descrivino la creazione degli esseri che vengono collocati in questi spazi. Le opere si corrispondono e si richiamano a due a due in questo modo: I-V; II-VI; III-VII; IV-VIII; L'ultima corrspondenza esiste, come si vedrà nel commento, ma non è perfetta, essedo l'ultima opera, la creazione dell'uomo, qualcosa di totalmente nuovo e straordinario.

Dal seguente schema si può comprendere meglio quanto detto sopra:

I Opera: la Luce
V
Opera: gli astri
II
Opera: separazione delle acque
VI
Opera: i pesci e gli uccelli
III
Opera: separazione della terra dalle acque
VII
Opera: gli animali
IV
Opera: la vegetazione
VIII
Opera: l'uomo (maschio e femmina)

Un terzo artificio consiste nel distribuire le otto opere in sei giorni, una per ogni giorno, ma due nel terzo e, parallelamente, nel sesto. Il settimo giorno si trova nella conclusione:

1° giorno 1° opera
2° giorno 2° opera
3° giorno
3° opera
4° opera
4° giorno 5° opera
5° giorno 6° opera
6° giorno 7° opera
8° opera
7° giorno riposo
Vediamo ora più da vicino le varie fasi della creazione:

INDICE
Il cosiddetto Caos (v. 2)
Primo giorno, prima opera (vv. 3 ss.)
Secondo giorno, seconda opera (vv. 6 ss.)
Terzo giorno, terza opera (vv. 9 ss.)
Quarta opera (vv. 11 ss.)
Quarto giorno, quinta opera (vv. 14-19)
Quinto giorno, sesta opera (vv. 20-23)
Sesto giorno, settima opera (vv. 24 s.)
Ottava opera, l'uomo (vv. 26-31)
Conclusione, il settimo giorno (v. 2, 1 s. )
Nota Redazionale 2, 4a
Contenuto dottrinale
Elementi artistici
Rapporti con la cosmogonia babilonese
L'Enûma Elish
La lotta del Creatore

Introduzione (v 1,1)

« Nel principio DIO (Elohim) creò il cielo e la terra » .

La parola« principio» ha riferimento a quanto segue poi dal versetto 3 al versetto 31 e significa « in primo luogo ».

Che in questo versetto significhi l'inizio del tempo lo si deduce con il ragionamento (senso conseguente), perché il tempo è la misura del movimento e quindi il tempo non esiste prime delle cose che si muovono; ma la nozione filosofica del rapporto tra tempo ed eternità qui non è espressa.

«Dio », in ebraico, Elohim , plurale maiestatico, esprime l'idea della « Divinità », mentre Jahvè , non viene mai usato in questo capitolo, è un nome personale della divinità, quando entra in rapporto con gli uomini.

«Creò », ebraico barà, è il verbo che si usa esclusivamente parlando di un'azione divina, che ha per effetto qualcosa di nuovo e di straordinario. Per sé il verbo non indica il concetto di creazione dal nulla: nessuna lingua può avere un vocabolo così specializzato. Ma la creazione dal nulla si può dedurre dal contesto, dal fatto che Dio ha formato il cielo e la terra, cioè tutto il mondo visibile con tutti i suoi componenti, mentre d'altra parte  non si menziona alcun elemento preesistente alla creazione.

L'oggetto di questa creazione è il cielo e la terra cioè l'universo visibile, espresso mediante le due parti di cui risulta. La lingua ebraica non offriva altra possibilità per esprimere l'idea dell'universo, e d'altra parte il binomio terra e cielo si trova  con lo stesso significato nei documenti sumerici e babilonesi. E' così che, senza contraddizione, si può capire come in questo cielo-terra verrà distinta al v. 8 una parte che sarà chiamata cielo, e al v. 10 una parte che si chiamerà terra.

Il cosiddetto caos (v. 2)

La terra era un deserto (tohu) e un vuoto (bohu). Si tratta di due parole usate raramente, la seconda solo in Gr 4, 23 (con tohu) e in Is 34, 11; l'applicazione del termine tohu a una regione deserta (Dt 32,10; Sl. 107, 40; Gb 6,18; 12, 24) è probabilmente derivata, e non obbliga ad intendere questo passo come una descrizione della terra deserta, ma piuttosto come un'affermazione della sua totale privazione di ciò che poi (nei vv. 9-13 e 24-28) verrà a determinarla e riempirla. Si tratta comunque non di ciò che chiamiamo il pianeta terra, ma della sua parte solida. Siccome in certi casi il senso di tohu si avvicina a quello di niente (Is. 41, 29; 44, 9; 49, 4), alcuni sono del parere che qui non si parli di uno stato provvisorio (che noi chiamiamo con la parola greca caos) conseguente alla prima creazione, ma del punto di partenza stesso della creazione, in cui gli elementi che poi esisteranno sono descritti in modo da indicare la loro non esistenza.

Abisso è la parola tradizionale in cui si suole tradurre il termine ebraico tehom , che indica la raccolta di acqua distesa sotto la terra, donde scaturiscono le sorgenti e i fiumi(come in Ge 7, 11; 8, 2; 49, 25; Dt 8, 7; 33, 13).

Questo abisso acquatico è posto in diretto contatto con le tenebre , il che significa che non si trova al suo posto sotto terra ma sopra. La terra è dunque sommersa. come è confermato alla fine del v. 2, dove lo Spirito aleggia sulla superficie . Le tenebre sono un elemento negativo, che viene a completare la descrizione di ciò che ancora non era la terra in quella prima sua condizione. A questa deficienza rimedierà al v. 3 la creazione della luce. Lo Spirito di Dio (ruah Elohim) che aleggia sulle acque, cioè sulla superficie del tehom avvolto dalle tenebre, è la forza creatrice di Dio che si accinge amorosamente ad operare sull'universo ancora caotico. Per questa interpretazione dello spirito si veda lo stesso concetto espresso nel Sl 33, 6: « Con la parola di Jahvè sono stati fatti i cieli e con lo spirito della sua bocca tutto il loro esercito », dove lo spirito è parallelo alla parola creatrice . Nel verbo aleggiava (merahefet) si esprime un paragone poetico con l'azione dell'aquila, la quale muove le ali rimanendo librata sul proprio nido: paragone sviluppato in Dt 32, 11.

Meno probabili sono le altre spiegazioni dello spirito come di un vento impetuoso mandato da Dio, oppure come di un vento caotico, cioè senza direzione, che soffia rimanendo sempre nello stesso punto. Quest'ultima interpretazione è connessa con tutto il modo di intendere il v. 2 come una descrizione pittoresca del nulla: la terra era un vuoto, il mare era tenebre, il vento non si spostava da un luogo all'altro, e dunque non era un vento.

La difficoltà del v. 2, che rende possibile la precedente interpretazione e l'altra simile citata a proposito di tohu wabohu , è data dal fatto che la parola tehom e ruah (Spirito) non ritornano in seguito nelle opere dei sei giorni. E' forse meglio fare l'ipotesi che tutto il capitolo non sia perfettamente unitario. Nel v. 2 si sarebbero gli elementi di una storia della creazione più vicina alle cosmogonie antiche, ma che è rimasta troncata, e in tale stato di frammento, in un nuovo contesto, ha cambiato il senso originario.

Inoltre l'opera dei sei giorni mostra gli indizi della composizione di due sistemi non omogenei: le opere sono otto, ma i giorni sei; inoltre alle espressioni più teologiche Dio disse si alternano quelle più arcaiche Dio fece (1,7.16.25.26; 2,2s.). Fatta questa ipotesi, possiamo rendere ragione in un modo o nell'altro delle anomalie, ricercando l'eventuale senso originario, ma nello stesso tempo affermiamo che il senso biblico definitivo è quello che le parole prendono nell'attuale contesto.

Riassumendo: nel versetto 1 s. si narra la creazione prima, in seguito alla quale il mondo, non ha il suo aspetto definitivo, ma vi si presentano come tre zone dall'alto in basso; la zona delle tenebre, la zona delle acque e quella della terra. L'azione divina si eserciterà successivamente su ciascuna di queste tre zone.

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Primo Giorno, prima opera (vv. 3 ss.)

Si tratta della creazione della luce. Dio disse (lieve antropomorfismo): il comando di Dio è espresso da una locuzione; noi oggi diremmo: Dio volle che ad un certo momento esistesse un effetto creato. L'espressione Dio disse è la formula di introduzione a ciascuna delle otto opere. « Vi sia luce! ». E vi fu luce ; la luce non è di per sé legata al sole: esistono infatti altri corpi luminosi, e può essere considerata come distinta dai corpi stessi, la cui creazione è riferita ai vv. 14-19. Così Giobbe 38, 12 s. 19 s. descrive la luce come raccolta in magaz­zini celesti, donde viene emessa all'inizio del giorno.

C'è da notare come in questa prima opera comando ed esecuzione siano brevissimi e quasi corrispondano l'uno all'altro. L'espressione usata per l'esecuzione sostituisce la formula « E così avvenne » che viene impiegata poi sempre nelle opere successive.

Dio vide che la luce era buona (o era un bene) è la formula di approvazione: esprime che l'effetto dell'opera creatrice corrisponde esattamente all'idea divina e che questa idea è un bene.

Dio separò la luce dalle tenebre , vuole indicare che Dio stabilì che la luce e le tenebre si avvicendassero regolarmente formando così una successione di tempi luminosi e di tempi oscuri.

Dio chiamo la luce giorno e chiamò le tenebre notte : è la formula   di imposizione del nome. Si tratta di un antropomorfismo da intendersi secondo le concezioni dell'antico Oriente: il nome rappresenta l'essenza della cosa; per cui imporre il nome significa stabilire anzitutto un atto di sovranità (vediamo un esempio in 2 Re 24,17 dove il re di Babilonia cambia il nome al nuovo re da lui imposto a Giuda da Mattaniah a Sedekia per stabilire così la sua sovranità su quel regno) e poi anche, trattandosi in un primo nome di un essere appena creato, determi­nare la sua essenza.

Questo giorno e questa notte corrispondono al tempo della luce e al tempo delle tenebre , prescindendo dalla funzione del sole. Si tratta dunque qui del giorno di 12 ore.

E venne sera, poi fu mattina : un giorno : la successione di luce e di tenebre, stabilita da Dio appena creata la luce (v. 4), incomincia a funzionare. Così dopo un certo tempo dalla creazione della luce viene sera e quindi si fa notte fin quando comincia ad albeggiare. Si ha così la prima coppia giorno-notte e cioè il primo giorno di 24 ore. Giorno ha quindi significati diversi: qui 24 ore ed al v. 5 12 ore. Si noti inoltre come il sistema di computare i giorni sia qui da una mattina all'altra e non dal tramonto, come avviene invece nei testi liturgici (Es 12, 18; Lv  23, 32; Nm 13, 19) .

Secondo giorno, seconda opera (vv. 6 ss.)

La creazione del firmamento separa il mare dal cielo. Firmamento vuol significare qui uno strato solido. Il termine ebraico indica qualcosa come una lamina, e i LXX, non avendo altra parola, tradussero con il termine greco steréoma che significa solidità , punto di appoggio e che Gerolamo nella Vulgata tradusse fedelmente con il termine latino Firmamentum , che in latino classico significa solo fermezza e sostegno, e mai serve ad indicare il cielo. Questo termine fu adottato invece nelle lingue neolatine per indicare la volta celeste, il cielo.

Il firmamento è dunque concepito come una lamina che trattiene al di sopra si sé le acque superiori, quelle che precipitano talvolta sulla terra in forma di pioggia (Gen. 7, 11). Sembra dunque dire che dapprima nella massa delle acque si formò una lamina, la quale poi innalzandosi sollevò con sé le acque che stavano sopra.

L'imposizione del nome, che significa l'ingresso di questa creatura nella realtà delle cose esistenti, sottolinea che solo a questo punto comincia ad esistere un cielo distinto dal mare.

Si noti che la formula di esecuzione così fu si trova nel Testo Masoretico alla fine del v. 7, ma i critici, seguendo in questo la versione dei LXX, preferiscono porla alla fine del v. 6, per analogia con   i vv. 9, 11, 15, 24, 30. A differenza delle altre opere manca poi la formula e Dio vide che questo era buono

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Terzo giorno, terza opera (vv. 9 ss.)

Divisione dell'acqua dalla terra asciutta: Qui ab­biamo alcune divergenze fra il Testo Masoretico e la traduzione dei LXX. Per il Testo Masoretico, seguito dalla Vulgata di Gerolamo, le acque si raccolgono in un unico luogo , mentre per i LXX, le acque si raccolgono in una sola massa (in greco sinagoghé), in accordo anche con il v. 10 che parla appunto di raccolta delle acque. Questo fatto non cambia molto il senso del passo. Per la precisione aggiungiamo che le acque marine sono considerate una sola massa (congregazione per usare il termine greco dei LXX) in quanto sono comunicanti fra loro, mentre la terra ferma ne emerge come un'isola. Dopo la formula e così fu , la versione dei LXX riporta la descrizione dell'esecuzione che molti critici inseriscono nel testo: « Le acque che sono sotto il cielo si ammassarono nelle loro masse (congregazioni) ed apparve l'asciutto ».

Nell'imposizione del nome il mare è al plurale « mari », che alcuni traducono anche « il grande mare » (Ge 49, 13) indica con questo nome il Mediterraneo) in contrapposizione ai laghi pure chiamati con il nome di « mare » (cfr. il mare di Galilea, Mt. 4, 18).

In questa terza opera manca la formula conclusiva, perché prima che finisca il terzo giorno viene eseguita un'altra opera.

Quarta opera (vv.11 ss.)

La creazione della vegetazione è presentata come operata dalla terra per ordine di Dio: Poi Dio disse: « Faccia la terra germogliare la verdura.... » (v. 11) E la terra produsse verdura..... . Ciò però indica piuttosto il luogo che non l'elemento costitutivo o la causa efficiente, come appare dal confronto col v. 20 s., dove un'espressione simile si usa per le acque, le quali producono un brulichio di esseri viventi che tuttavia sono detti esplicitamente creati da Dio: « Così Dio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono, di cui brulicano le acque ».

La vegetazione è distinta in tre categorie: La verdura o erba dei campi, di cui non appare evidente la semenza, le erbe produttrici di semenza, cioè i cereali tanto utili per l'alimentazione, e gli alberi da frutto. L'autore ispirato classifica i vegetali dal punto di vista dell'alimentazione che verrà poi presa in considerazione nei vv. 29 e 30.

La versione della Vulgata non ha molto chiara questa divisione perché identifica le prime due categorie di erbe; la divisione tripartita si basa sull'accentuazione del Testo Masoretico e sul confronto con i vv. 29 e 30, dove la prima categoria è considerata come nutrimento degli animali, mentre la seconda, assieme agli alberi da frutto, è considerata l'alimento degli uomini.

Con questa quarta opera viene terminata la prima fase della creazione in cui vengono preparati gli spazi o meglio gli ambienti in cui verranno collocate le creature semoventi della seconda fase.

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Quarto giorno, quinta opera (vv. 14-19)

S i tratta del completamento della prima opera a cui questa è parallela: negli spazi della luce e delle tenebre si collocano rispettivamente gli oggetti luminosi del giorno e della notte.

« Vi siano dei luminari nel firmamento dei cieli per separare il giorno dalla notte ». Essendo già avvenuta la separazione del giorno dalla notte nella prima opera, l'autore con l'espressione " separare il giorno dalla notte " intende che gli astri relativi contraddistinguono il tempo luminoso dal tempo tenebroso. Infatti aggiunge subito « siano per segni per stagioni, e per giorni e per anni ». Solo all'ultimo mette la funzione che dovrebbe essere quella principale « e servano da luminari nel firmamento dei cieli per far luce sulla terra ». Forse per la concezione che il succedersi della luce e delle tenebre non è fatto dipendere dalla luce solare.

Da notare che il sole è designato come « Il luminare maggiore » e non con il suo nome proprio perché corrispondente al nome della relativa divinità   pagana. A scanso di equivoci si tratta di un fanale e non di un dio! Allo stesso modo « Il luminare minore », cioè la luna, il cui nome è evitato per non confonderlo con il dio Luna.

Le espressioni « per governare il giorno » « per governare la notte » sono delle metafore evidenti per indicare la posizione preminente di questi astri nel tempo a loro assegnato

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Quinto giorno, sesta opera (vv, 20-23)

Si tratta di procurare gli abitanti al regno delle acque: gli uccelli per le acque superiori i i pesci per le acque inferiori. Questa è dunque un'opera parallela alla seconda. « I grandi animali acquatici e tutti gli esseri che si muovono, di cui brulicano le acque »: non si tratta soltanto dei pesci, ma comprende tutta   la svariata fauna marina. Con il termine « ogni volatile » si indicano non solo gli uccelli, ma tutti i vertebrati e gli insetti provvisti di ali.

L'accenno alla « specie » non significa necessariamente che Dio abbia fatto esistere già distinte all'inizio tutte queste specie, ma semplicemente che tutte le specie nella loro varietà sono opera di Dio.

Notiamo che in questa sesta opera si usa per la seconda il termine « barà » ( =creò ). L'autore ha coscienza che l'introduzione della vita nel mondo è qualcosa di nuovo e di meraviglioso. Lo esprime infatti con quanto segue: « E Dio li benedisse dicendo: -siate fruttiferi, moltiplicate e riempite.... ». La benedizione degli esseri viventi è un prolungamento della creazione. La formula di benedizione sta al posto della formula di imposizione del nome e contraddistingue con la sua novità il progresso dell'opera creatrice .

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Sesto giorno, settima opera (vv. 24 ss.)

In corrispondenza della terza opera che aveva messo allo scoperto la terra asciutta, ora si fornisce la terra di abitanti: gli animali terrestri, per i quali non si ripete la benedizione, perché a questo punto i viventi non sono più una novità. Con l'espressione « la terra produca » non sembra che si alluda alla terra come elemento materiale da cui furono tratti gli animali, come in Gen. 2, 19, perché un'espressione simile viene detta anche a proposito delle acque al versetto 20.

Gli animali terrestri sono divisi in tre categorie: Bestiame, cioè animali domestici, come indica il termine ebraico; i rettili, cioè tutti gli animali che strisciano o anche camminano rasente terra, come gli insetti ed i piccoli mammiferi; le fiere della terra, cioè gli animali selvatici e feroci. Non si tratta di una classificazione scientifica, ma di una classificazione che bada più all'utilità degli animali ed al loro comportamento esteriore.

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Ottava opera, l'uomo (vv. 26-31)

Come dopo la terza opera, anche qui manca la formula conclusiva perché, prima che termini il giorno, avrà luogo l'ultima e la più splendida creazione.

A differenza di quanto è avvenuto finora, l'autore presenta Dio che prima di creare l'uomo si consulta con sé stesso e in un certo senso invita sé stesso a compiere quest'opera. In una narrazione così uniformemente schematica ogni piccola variazione prende grande rilievo. Il lettore o colui che ascolta questa narrazione, abituato all'uniformità degli schematismi delle formule che si ripetevano da un'opera all'altra, viene scosso dal variare del ritmo e la sua attenzione viene maggiormente impegnata. L'autore, consapevole dell'importanza del messaggio che sta per dire, rompe volutamente il ritmo della narrazione per attrarre maggiormente l'attenzione ed allo stesso tempo per sottolineare la grandiosità dell'opera che sta per compiersi. In quest'opera infatti le variazione sono molteplici e significative.

« Facciamo l'uomo ». La forma plurale del verbo in prima persona nella bocca di Dio appare solo qui e in Ge 3, 22; 11, 7; Is. 6,8; in tutti questi casi si tratta di un plurale deliberativo, esprimente il fatto psicologico che una persona nell'atto di prendere una decisione si sdoppia mentalmente in due, una che dà il consiglio o l'esortazione e l'altra che lo r­ceve.

« L'uomo » (adàm) è qui come un collettivo esprimente il genere umano. L'uomo deve essere creato a « nostra immagine » e cioè l'essere risultante da questa nuova creazione sarà una immagine, una statua vivente della Divinità.

L'espressione « a nostra somiglianza », a differenza della precedente vuol significare il rapporto intimo ed astratto che deve sussistere tra l'immagine ed il modello perché l'immagine sia veramente tale. In cosa consiste questo rapporto di somiglianza fra l'uomo e Dio? La spiegazione più naturale sembra quella di identificare questa somiglianza con la natura spirituale dell'uomo. Poiché gli antichi Israeliti non avevano un vocabolario adatto per esprimere il concetto di questa spiritualità, essi avevano la possibilità di farlo solo attraverso gli effetti. La somiglianza con Dio è quindi quella tal cosa che è nell'uomo, per cui egli è superiore agli animali, ha diritto a dominarli, e, diversamente da loro, ha diritto all'inviolabilità della propria vita (Ge 9, 6). Il testo che segue immediatamente dopo ne è una esplicita conferma: « abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutta la terra, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra ». Nella versione dei LXX ed in quella Siriaca, in accordo con la precedente divisione degli animali, troviamo: « su tutte le fiere della terra » al posto della generica espressione « su tutta le terra ».

A questo punto la narrazione si stacca nettamente dal solito stile e prende un andamento poetico e solenne che si manifesta in tre parti, in ognuna delle quali ricorre per la terza volta il termine " barà " (=creò): « Così creò l'uomo a sua immagine, lo creò ad immagine di Dio, li creò maschio e femmina. ». Poiché l'uomo è un collettivo, non è necessario tradurre « un maschio e una femmina ». Questo concetto risulta chiara­mente dal cap. 2, ma qui la narrazione si mantiene sulle generali e vuol significare che la differenza dei sessi nella specie umana è opera di Dio e corrisponde al suo disegno. Viene così introdotta la successiva benedizione del genere umano: « E Dio li benedisse, e Dio disse loro: - Siate fruttiferi e moltiplicatevi, riempite la terra ». L'espressione è del tutto simile a quella del v. 22 per la benedizione delle prime creature viventi: i pesci e gli uccelli. Come non è pensabile che Dio abbia parlato ai pesci ed ai volatili, così non è altrettanto necessario intendere che Dio si sia rivolto direttamente agli uomini con questa locuzione. Si tratta piuttosto della benedizione nuziale data a tutto il genere umano per mezzo della quale si ha la conservazione della specie attraverso la generazione che in definitiva altro non è che un prolungamento della creazione stessa.. Tuttavia, il genere umano, a differenza degli animali che se­guono il loro istinto, è stato reso consapevole dei disegni di Dio in virtù della sua somiglianza con Lui.

All'uomo viene assegnato il nutrimento: si tratta della seconda e terza categoria dei vegetali ricordati nell'opera quarta (v. 11 s.), in quanto i frutti e specialmente i cereali sono un cibo appropriato per l'uomo. C'è da notare che in questo accenno al cibo degli uomini ed anche in quello successivo, al cibo degli animali, viene stabilito un chiaro parallelo concettuale fra la quarta e l'ottava opera. Nella quarta opera vengono creati i vegetali, mentre nell'ottava ne viene fissata la destinazione. A tutti gli animali invece viene assegnata come cibo la prima categoria di vegetali: l'erba   verde che sembra apparentemente non avere seme.

Abbiamo qui anche una presentazione vegetariana dei viventi all'inizio della creazione che costituisce un tratto caratteristico della visione paradisiaca del mondo in cui non esiste ne male ne violenza. L'assenza del male morale viene espressa mediante l'assenza del male fisico, come avviene nella descrizione simbolica di Is. 11, 6 s. « Il lupo abiterà con l'agnello e il leopardo giacerà con il capretto....e il leone si nutrirà di paglia come il bue....Non si farà ne male ne distruzione ». Se noi ammettiamo che il male abbia trasformato profondamente anche il mondo fisico che non ha rapporti diretti con l'uomo, come ci viene descritto da Paolo in Rom 8, 20-22, , si comprende come l'autore di Ge 1 ci presenti qui un quadro simbolico del mondo non ancora contaminato dal male, come farà Isaia per il mondo governato dal Messia.

La narrazione termina con la solita formula: « Allora Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono ». La piccola variante "molto" è molto significativa se si pensa che l'autore ha nella mente in primo luogo la creazione dell'uomo.

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Conclusione, il settimo giorno (v. 2, 1 s)

« Così furono terminati i cieli e la terra, e tutto il loro esercito » La parola " esercito " viene resa dalla Vulgata con il termine latino " ornatus " che indica si l'ornamento degli spazi celesti e terrestri, ma sopratutto vuole me­tere in ev­denza che si tratta di qua­che cosa che vi si sposta dentro,, che guizza, vola, striscia o cammina.

« Pertanto il settimo giorno , Dio terminò l'opera che aveva fatto ». Il termine ebraico " settimo ", reso dalla Vulgata con " septimo " non sembrava esatto, per cui il testo Samaritano, i LXX e la versione Siriaca lo sostituiscono con " sesto ", seguiti in questo anche da molti critici moderni. Ma il giorno "sesto" è già stato eliminato in 1, 31, mentre l'idea del completamento dell'universo si trova espressa in 2, 1. Ormai si tratta del giorno settimo in quanto non è senza motivo che viene data un'enfasi particolare a questa espressione ripetendola per ben tre volte. Si può quindi intendere la frase che Dio ha terminato la sua opera nel settimo giorno in senso dichiarativo: Dio dichiarò terminato il suo lavoro. Con ciò si vuol dire che il mondo era stato si terminato nel sesto giorno, ma non era stata esaurita la potenza di Dio, il quale nel settimo giorno giudicò di non volere creare più oltre. Il testo infatti continua dicendo: « e nel settimo giorno si riposò da tutta l'opera che aveva fatto » (v. 2, 2). Se si considera che l'idea del verbo ebraico " sabat " non è quella del riposo, ma della cessazione, si comprende come il testo su menzionato dovrebbe correttamente essere tradotto: « cessò da tutta l'opera che aveva fatto ». Infatti Dio non continuò più a creare. In Es. 20, 11: « L'Eterno (Jahvé) ....riposò nel settimo giorno » è espressa in modo antropomorfico l'idea del riposo divino, presentato come modello del riposo umano.

« E Dio benedisse il settimo giorno », lo rese cioè un giorno pieno di favori divini « E lo consacrò » cioè lo separò dagli altri giorni dandogli una destinazione sacra.

La legge del riposo festivo qui non è esplicitamente proposta, ma ne viene posto soltanto il fondamento

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Nota redazionale 2, 4a

« Queste sono le origini dei cieli e della terra quando furono creati ». Come è stato già spiegato, la Genesi è divisa in 10 Toledot (cioè 10 genealogie) di cui questa è la prima. Qui il termine ha soltanto un'analogia con gli altri casi, perché a proposito del cielo e della terra, non si può parlare ne di generazioni, ne di discendenza. Va considerata quindi riferita all'opera dei sei giorni come un titolo che invece di essere stato posto all'inizio è stato posto alla fine. Il motivo potrebbe essere stato quello di non iniziare il racconto con un titolo banale che avrebbe rovinato l'effetto solenne delle parole che segnano il confine tra l'eternità ed il tempo: « In principio Dio creò il cielo e la terra ». Tuttavia nella redazione definitiva del libro della Genesi, il v. 4a si presenta come il titolo della versione seguente (2, 4b-4, 25), contenente la storia di Adamo, Eva e Caino, i quali, essendo i primi essere umani apparsi sulla terra si possono in un certo senso chiamare i discendenti, la progenitura dell'universo.

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Contenuto dottrinale

Il contenuto di Gen. 1, 1 -   2, 4a , dal punto di vista letterario, è di natura storico-artistica. Storica in quanto, pur non rappresentando degli avvenimenti umani, espone una dottrina attraverso dei fatti che si sono svolti nel tempo. Artistica in quanto si serve di una determinata forma per presentare questa dottrina. L'elelento artistico non rappresenta quindi l'oggetto della dottrina, ma ne è semplicemente il mezzo.

L'elemento dottrinale consiste nei seguenti punti:

1.     Dio esiste prima e al difuori del tempo

2.     Il mondo in tutti i suoi aspetti è creato da Dio, pertanto non è una parte di Dio, e nessuna cosa creata può avere dignità divina, non il sole e la luna, adorati dai Babilonesi, non gli animali sacri agli Egiziani.

3.     Il monoteismo è espresso in modo equivalente, perché riferendo l'origine di tutte le cose, l'autore sacro non accenna a nessun concorrente o aiutante o avversario del Creatore. Forse è per rendere più semplice l'esposizione del monoteismo che l'autore non parla esplicitamente della creazione degli angeli. Ciò può tuttavia spiegarsi per il fatto che qui si intende parlare solo del mondo visibile.

4.     La creazione operata col solo comando della parola, senza sforzo, esprime l'infinita potenza di Dio.

5.     L'ordine della creazione esprima la sapienza di Dio.

6.     Tutte le crature sono b u o n e, in quanto corrispondono al disegno divino che è la norma del bene. E' così escluso in antecedenza l'errore del dualismo dei Manichei e di altre sette; la materia non si contrappone a Dio come un male.

7.     L'uomo è la più sublime delle creature visibili, in quanto in lui risiede una somiglianza con Dio, che lo rende immagine vivente della divinità.

8.     Per questo l'uomo è il sovrano della terra e di quanto essa contiene; egli ha il diritto di disporne per la sua necessità.

9.     La distinzione dei sessi è opera di Dio; e la generazione è l'adempimento di un disegno stabilito da Dio per la moltiplicazione degli esseri umani.

10.L'assestamento del mondo creato è avvenuta progressivamente, secondo l'ordine richiesto dalla sapienza divina. Anche il fatto, scientificamente certo,   che l'uomo è apparso per ultimo, è insegnato qui da un punto di vista reli­gioso, piuttosto che storico scientifico: tutte le altre creature precedono l'uomo, affinché venendo egli non trovi nulla mancante di quello che gli deve servire. In questa visione religiosa dell'universo, gli stessi astri sono al servizio dell'uomo.

11.L'azione creatrice di Dio, in quanto nel tempo ha avuto un effetto di una certa durata, deve essere il modello sublime del lavoro umano; come pure la cessazione dell'apparire di nuovi effetti creati, presentata antropomorficamente come la cessazione dell'azione divina, deve essere il modello del riposo sabatico.

12.La creazione è l'inizio della storia della salvezza. Questo punto essenziale, messo forse poco in evidenza dagli studiosi fino ad epoca recente, si fonda sul contesto e su altri passi biblici che collegano strettamente il concetto di Dio creatore e di Dio salvatore. Questo secondo concetto apparve per primo nella coscienza religiosa di Isarele, perché rivelato attraverso l'esperienza della storia: la liberazione dall'Egitto principalmente, e, in epoca di maggiore riflessione teologica, l'improvvisa cessazione dell'esilio babilonese. Questa liberazione, che si trova trasfigurata con i colori della salvezza operata nel passato e della futura era messianica, si trova altresì congiunta con la menzione del Dio creatore, come per esprimere che ogni salvezza operata nella storia è come l'inizio di una nuova creazione, e che l'antica creazione è da considerarsi come il primo atto della volontà divina di portare il popolo di Dio alla salvezza definitiva (Cfr. Is. 40, 12-31;41, 4; 44, 24-28; 45, 11-14; ecc). Il fatto che alla stessa epoca di riflessione teologica si trovi all'inizio della storia sacerdotale una così grandiosa composizione sulla creazione del mondo e dell'uomo, ci assicura che tale è appunto il significato che le si voleva attribuire. Del resto anche la più antica storia jahvista aveva già collegato l'origine dell'umanità (Ge 2, 4b ss.) con il filo d'oro delle promesse divine di salvezza.

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Elementi artistici

La forma artistica che è semplice­mente il mezzo od il modo di espressione non va assolutamente confusa con l'insegnamento dottrinale contenuto nel brano di Ge 1, 1 - 2, 4a.. Questa forma artistica consiste in:

1.     La concezione ideale del mondo fisico. L'autore ispirato descrive il mondo secondo l'immagine ideale che ne avevano i suoi contemporanei: la terra pianeggiante posta sopra l'abisso acquatico e circondata dal mare, sormontata da una volta o cupola solida che sostiene le acqua celesti; lungo la volta celeste si spostano i corpi luminosi,la cui grandezza è giudicata da quanto appare agli occhi.

2.     La disposizione schematica delle otto opere , la quale corrisponde ad un criterio artistico e quindi non oggettivo. Il criterio, come abbiamo già detto, è di disporre le opere in due serie parallele il cui principio distintivo è quello della stasi e del movimento: una serie che costituisce lo scenario fisso e un'altra serie che comprende gli esseri che si muovono in tale scenario. Questa ragione di simmetria è l'unico motivo della inserzione dei vegetali prima degli astri. Se noi consideriamo le otto opere come otto strofe di un poema scritto per esaltare la creazione, non ci meraviglieremo di trovare tra le opere un ordine e un nesso ideale, poetico, rispondente ad esigenze d'arte e di espressione. Vi è qui qualcosa di simile, pur non trattandosi versi ritmati.

3.     La menzione dei sei giorni più il settimo . Questo modo di presentare l'azione e il riposo divino ha lo scopo di insegnare il fondamento della settimana, con la sua alternanza di sei giorni lavorativi e di un giorno festivo. Anche se in realtà Dio non ha portao a termine la creazione in sei giorni o periodi, rimane pur sempre l'insegnamento sul fondamento della settimana. Non si può qui prendere alla lettera questa distribuzione del lavoro divino. Si tratta evidentemente di un antropomorfismo in quanto tutto l'insegnamento biblico sta ad insegnare che Dio non agisce come l'uomo. Contro una tale interpretazione troppo materiale del riposo divino nel settimo giorno sta anche l'espressione di Gesù, accusato di guarire il giorno di Sabato: « Il Padre mio opera fino ad ora, ed anch'io opero » (Gv. 5, 17). In conclusione Dio ha voluto che la terra assumesse ad un certo punto un aspetto definitivo, e quindi, dal punto di vista della terra, che non apparissero nuovi generi di creature. Inoltre Dio ha voluto che fosse il settimo giorno quello che gli uomini dovevano dedicare al riposo. Per questo ha voluto che l'autore umano del libro della Genesi presenta l'inscrutabile azione divina come divisa in sei giorni, seguiti da una cessazione nel settimo.

Clemente Alessandrino (m. ca. nel 215) introdusse il concetto che la creazione fu istantanea, ma la parola divina la descrive come successiva, per motivi didattici.

Perfino Agostino nella sua opera "De Genesi ad litteram", che mira a dare delle interpretazioni il più possibile aderenti alla lettera, sostiene che la successione e la disposizione delle opere in sei giorni va intesa in senso allegorico. Con lui è d'accordo anche Tommaso d'Aquino.

Osserviamo inoltre che l'intezione didattica e legistativa dell'autore ispirato ha suggerito uno schema di sei giorni che non coincide con lo schema delle otto opere richiesto dalla diversità delle opere stesse. Quindi la successione dei sei giorni più un settimo ha esclusivamente una motivazione artistica.

4.     Alcuni antropomorfismi , già segnalati più sopra, appartengono al modo di espressione e non alla realtà oggettiva in se stessa, che, essendo una realtà divina, non può essere espressa in modo adeguato. Essi sono le espressioni: « Dio disse »; « Dio vide che era un bene »;« Dio chiamò... »;« Dio benedisse dicendo »; così pure il co­sulto con se stesso prima della creazione dell'uomo (Ge 1, 26) e l'immagine di una cessazione nel settimo giorno (Ge 2, 2).

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Rapporti con la cosmogonia babilonese

Il fatto che l'autore abbia preso a prestito dalla cosmogonia babilonese preesistente qualche elemento secondario non compromette l'ispirazione dello scritto sacro, in quanto, come abbiamo visto più sopra, si tratta del mezzo espressivo e non del contenuto della sua opera.

Anzitutto vi è la stessa concezione della struttura dell'universo: Questo significa soltanto che tale concezione, essendo un fatto comune all'epoca dello scrittore, fu usata tanto da lui che dai Babilonesi

Altri punti di convergenza li troviamo: nell'imposizione del nome; nella fissazione del destino delle singole creature (nel racconto biblico, però, non si parla di un fatto magico, ma di una semplice destinazione o scopo); nel consulto prima della creazione dell'uomo; nell'idea dell'acqua primordiale, espressa con la stessa parola " Tehom " con la differenza, però, che nella cosmogonia babilonese la " Tiâmat " era considerata una dea femminile, mentre nella Bibbia la " tehom ", pure femminile, significa solo l'acqua sotterranea.

Accanto a queste piccole convergenze c'è un'enorme differenza delle concezioni religiose. A parte il politeismo di cui sono permeate le cosmogonie babilonesi, esse fanno derivare l'universo dagli stessi progenitori degli dei. Tali progenitori da vivi generano gli dei e da morti servono da materiale per la costruzione dell'universo.

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L'Enûma Elish

La più importante cosmogonia babilonese è chiamata Enûma elîsh (=Quando in alto) dalle parole con cui inizia. Essa fu scoperta nel 1876, tra i documenti dissepolti (1846-1851) nella biblioteca di Assurbanipal (669-626 a.C:) e gettò molto scalpore tra i biblisti che vi videro il modello da cui poteva dipendere il racconto biblico. In realtà se esaminiamo anche solo un breve riassunto di quest'opera ci rendiamo subito conto dell'abissale differenza che esiste rispetto allo scritto sacro del l­bro della Genesi.

Il racconto dell'Enûma elîsh si può brevemente riassumere così: Quando ancora non esistevano il cielo e la terra, due esseri divini, Apsû (l'abisso, l'oceano sotterraneo) e Tiâmat (il mare, principio femminile) si congiunsero e da questa unione nacquero successivamente tutti gli altri dei. Siccome costoro disturbavano il sono di Apsû, il progenitore decise di distruggerli tutti. Se non che il sapiente Ea, che sapeva ogni cosa, essendo venuto a conoscenza delle intenzioni di Apsû, lo addormentò con formule magiche e lo uccise. Con il suo corpo costruì l'Apsû, cioè il mondo sotterraneo con l'oceano di acque dolci; così Ea divenne la divinità del sottosuolo, delle fonti e dei fiumi. Tiâmat, da parte sua, per vendicare il marito, genera un esercito di mostri. che spaventa gli dei, i quali dopo molte discussioni eleggono come loro eroe e difensore Marduk, figlio di Ea. Costui accetta l'incarico purché gli vengano conferite tutte le prerogative degli altri Dei, il che venne fatto con grande solennità. Così il poema celebra in modo mitico il colpo di stato del Dio Marduk, il quale, da protettore della città di Babilonia, salì al vertice del pantheon sumero-accadico, quando la prima dinastia di Babilonia ebbe acquistato l'egemonia di tutto il paese. Marduk, armato di tutto punto, prende Tiâmat in una rete, le spacca il cranio con la sua picca, poi. fendendone il cadavere in due parti come un'ostrica, con la parte superiore forma il cielo, mettendo dei chiavistelli per trattenere le acque. Si tratta del mare celeste, che sembra far riscontro al mare terrestre qui non nominato.

Ciò fatto Marduk forma gli astri e le altre creature che non si possono specificare, data la grande lacuna che vi è nel testo. Le circostanze della creazione dell'umanità sono queste: gli dei partigiani di Tiâmat dovrebbero essere schiavi degli altri, ma in un consesso gli dei vittoriosi decidono di sacrificarne uno, il loro condottiero Qingu. Lo uccidono e con il suo sangue Marduk costruisce l'umanità, alla quale impone il servizio degli dei al posto dei vinti. Dopo di che gli dei, per riconoscenza verso il loro sovrano, gli costruiscono una Babilonia celeste con un tempio per la sua abitazione. Il poema termina con la celebrazione dei cinquanta nomi di Marduk.

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La lotta del creatore

Alcune reminiscenze della lotta del Dio Creatore con l'elemento acquatico, totalmente assente nel racconto della creazione di Genesi 1, le troviamo in alcuni passi poetici della Bibbia a dimostrazione di come i saggi ed i profeti di Israele abbiano partico­larmente ap­prezzato la forza che tiene il mare entro i suoi limiti e gli impedisce di sommergere la terra. Abbiamo queste reminiscenze ad esempio nel Sal. 104: 6-9, dove non troviamo tuttavia la personificazione degli elementi acquatici, come invece av­viene in Sal. 74, 13 s., e, in un contesto escatologico anche in Is. 27, 1. In Giob. 38, 8-11 la personificazione del mare è quella di una creatura che nasce, riceve da Dio le cu­re di un neonato e l'ordine di non oltrepassare il limite. Come appare evidente dal loro contesto queste espressioni non vanno intese in senso mitologico. Si tratta qui di espressioni prese dalla mitologia per celebrare in maniera poetica la potenza del Dio Creatore.

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