GENESI - LA STORIA DELLE ORIGINI (Ge 1,1 - 3, 24)

Il peccato di Adamo ed Eva (Gen. 3, 1-25)

INDICE
Introduzione
Il peccato (vv. 1-7)
L'inchiesta (vv. 8-13)
Il castigo del serpente e il proto evangelo (vv. 14 ss.)
Il castigo della donna (v. 16)
Il castigo dell'uomo (vv. 17 ss.)
Cacciata dal giardino (vv. 20-24)
Interpretazione storico-relistica
Interpretazione storico-simbolica
Interpretazione messianica del v. 15
Il poligenismo
Paralleli extra-biblici

Introduzione

Il presente brano costituisce un solo racconto con il brano precedente che contiene le premesse indispensabili per comprendere la nuova narrazione, in particolare la menzione dei due alberi del giardino (Gen. 2, 9) e la proibizione di mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male (2, 17). Tuttavia esso ha una sua propria caratteristica letteraria. Dopo aver introdotto il nuovo personaggio. il serpente, la narrazione passa a parlare della donna, che cede alla tentazione, poi si ferma sull'uomo, dichiarando gli effetti immediati del peccato. A questa prima terna (3, 1-7), che possiamo chiamare del peccato, segue la terna dell'inchiesta (3, 8-13), che procede in senso inverso: dall'uomo l'inchiesta passa alla donna e da questa al serpente. Segue poi la terna della sentenza di castigo, rovesciando di nuovo l'ordine: Prima è pronunciata la sentenza contro il serpente, poi contro la donna, da ultimo contro l'uomo (3, 14-19), riproducendo così l'ordine della terna del peccato. Quanto segue è l'esecuzione della sentenza nella sua immediata applicazione: la cacciata dal giardino (3, 20-24) che fa da triste e oscuro contrasto con l'idilliaca narrazione dell'uomo creato e introdotto nel giardino e della donna da lui ricevuta come dono graditissimo dalla mano di Dio.


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Il peccato ( vv. 1-7)

Il serpente, che appare improvvisamente come tentatore, è dall'autore collegato con la creazione degli animali di Ge 2, 19: esso è una delle fiere dei campi che dovevano far compagnia all'uomo e che da lui avevano ricevuto il nome. Di queste fiere è la più astuta. L'idea generalmente diffusa dell'astuzia del serpente proviene dal suo modo di avanzare tortuoso e insinuante. La diffusione di tale idea è provata anche dal passo di Matteo, 10, 16, dove Gesù stesso accenna al serpente come ad un animale  prudente e quindi astuto. Poiché questo serpente parla dobbiamo pure tenere presente l'antica persuasione semitica, secondo la quale il serpente aveva un particolare legame con la magia, con cui si prevedeva l'avvenire e si comunicavano i segreti. L'autore comunque si preoccupa di presentare questo serpente come una semplice creatura di Dio per allontanare dal lettore l'idea, assai diffusa nell'antico Oriente, che si trattasse di una divinità in competizione con lo stesso Jahvé.

Noi sappiamo dalla rivelazione posteriore che questo serpente sta ad indicare il diavolo, accusatore e calunniatore, che per invidia ha introdotto nel mondo la morte e che Gesù chiama " omicida fin dal principio"  e " padre della menzogna " (Gv. 8, 44). L'Apocalisse è ancora più esplicita definendolo "il gran dragone, il serpente antico che è chiamato diavolo e Satana, che seduce tutto il mondo (12, 9). In che modo il serpente potesse personificare il diavolo può essere inteso in due modi: Un serpente reale o anche apparente è stato lo strumento di cui il diavolo si è servito; oppure l'autore vuole presentarci il diavolo con il simbolo letterario del serpente. La scelta tra l'una o l'altra di queste spiegazioni dipende dall'interpretazione che, come vedremo, può essere data all'intero brano.

L'astuzia del serpente viene subito esercitata nel porre la domanda alla donna: "Ha Dio veramente detto...? " che ha lo scopo di provocare una risposta da parte delle donna e nello stesso tempo di insinuare in lei la tentazione. Nella risposta della donna, che riferisce la proibizione di Dio (Ge 2, 16 s.), l'albero non è chiamato col suo nome, ma genericamente come " l'albero che è in mezzo al giardino". Nella risposta c'è inoltre un'esagerazione, quasi per accentuare la proibizione. Di questo albero, non solo non si potevano mangiare i frutti, ma non lo si doveva neppure toccare: "Non ne mangiate e non lo toccate". Questa esagerazione, più che un'accentuazione della proibizione si deve considerare una particolarità di stile secondo la quale quando si riferiva un discorso due volte, nel discorso ripetuto si usava mettere qualcosa di nuovo. Un esempio di tale procedimento stilistico lo possiamo ad esempio trovare in Es. 16, 4.16) in cui il particolare aggiunto è "un omer a testa".

La risposta del serpente contiene una triplice tentazione. La prima al v. 4 è contro la fede: nell'energica negazione con cui ribatte l'ultima affermazione di Dio riferita dalla donna: "altrimenti morrete "......" Non morrete affatto ". La seconda tentazione al v. 5a è contro la bontà di Dio: Egli sarebbe geloso delle sue prerogative e vorrebbe tenere gli uomini nell'ignoranza: La terza tentazione al v. 5b insinua il miraggio di una parità con Dio mediante l'acquisto di una scienza sovrumana " sarete come Dio conoscendo il bene ed il male ".
Il v. 6 ci presenta la progressiva, ma rapida penetrazione della tentazione nel cuore della donna: il frutto dell'albero era "
buono da mangiare " " piacevole agli occhi " " desiderabile per acquistare intelligenza ". Questo triplice aspetto progressivo della tentazione ci viene anche riferito in 1° Gv. 2, 16 "la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita ". In Giacomo 1, 16 abbiamo invece la descrizione degli effetti devastanti prodotti dalla tentazione "Poi, quando la concupiscenza ha concepito, partorisce il peccato e il pecca-to, quando è consumato, genera la morte". Il fatto che il frutto sia stato mangiato anche dall'uomo fa supporre che anche l'uomo abbia accettato l'insinuazione del tentatore, che abbia perduto la fede nella parola di Dio, abbia negato la bontà divina ed abbia preteso di arrivare, a dispetto di Dio, ad una dignità sovrumana.

Il v. 7 descrive l'immediato effetto della disobbedienza, l'insorgere del pudore. Questo passo contiene certamente una sfumatura di ironia; infatti alla promessa del tentatore "gli occhi vostri si apriranno " corrisponde una realizzazione che incomincia con le stesse parole: " si apersero gli occhi di ambedue ", ma si conclude in maniera ben diversa. Non può certamente essere questo nuovo strano imbarazzo, questa scoperta della necessità del pudore, la scienza sovrumana promessa dal serpente.

Le foglie di fico sono particolarmente adatte a coprire per la loro grandezza. Le cinture, così chiamate perché fermate attorno alla vita, sono dei perizomi per coprire la regione genitale. Si tratta quindi di un pudore sessuale che tuttavia implica una più generalizzata sensazione di estraneità vicendevole, di vulnerabilità di fronte a chiunque, fosse pure " ossa delle mie ossa o carne della mia carne " o addirittura Dio stesso.

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L'inchiesta (vv. 8-13)

La scena dell'arrivo di Jahvé nel giardino sembra presupporre altre visite simili a questa. Il rumore dei passi del Creatore è già noto ai nostri progenitori; essi lo distinguono subito, ma anziché corrergli incontro gioiosi, come hanno fatto altre volte, corrono a nascondersi in preda alla paura. La paura un nuovo sentimento che il peccato ha scatenato dopo il pudore. Per comprendere il forte antropomorfismo (o più semplicemente il fatto che Dio assumesse atteggiamenti simili al comportamento umano) dobbiamo sapere che in Palestina, anche nei giorni afosi della lunga estate, nel pomeriggio inoltrato spira l'aria fresca che viene dal mare che risveglia la gente dal torpore ed invita a passeggiare o a riprendere il lavoro con più alacrità. Jahvé dunque era solito venire nel suo giardino ed a trattenersi piacevolmente con le sue creature umane.
L'inchiesta è descritta con grande abilità psicologica. Jahvé parla come se non fosse al corrente del fatto, ma in realtà vuole provocare una confessione. La prima risposta dell'uomo è un pretesto per spiegare la stranezza del suo comportamento: il senso di pudore che si è sentito nascere dopo la disobbedienza, gli fa apparire sconveniente presentarsi in quello stato  (v. 10). Ma portando questo motivo l'uomo si tradisce, perché come risulta dalla seconda domanda di Jahvé, egli non avrebbe dovuto sapere di essere nudo. Implicitamente gli rivela di aver disobbedito (v. 11). La sua seconda risposta già fa intravedere l'egoismo che incomincia ad avvelenare l'amore coniugale: l'uomo per scusare sé stesso accusa la donna ed indirettamente Dio stesso che gliel'ha data come compagna (v. 12).

La donna a sua volta fa cadere la volpa sul serpente (v. 13). Dalle sue parole: " il serpente mi ha sedotta" (cioè mi ha ingannata), risulta che il senso dato dal serpente alla conoscenza del bene e del male non era quello che in realtà voleva significare il nome dell'albero. A questo punto ci si aspetterebbe l'interrogatorio del serpente a cui ormai Jahvé si rivolge, ma invece della conclusione dell'inchiesta si ha subito la sentenza di catigo. Se dunque non si ha qui una discussione della causa, non si cercano delle attenuanti, ciò vuol dire che il serpente è un essere speciale che non è necessario convincere della sua colpa né perfino interrogare sui motivi di un'azione così maligna.

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Il castigo del serpente e il proto evangelo (vv. 14 ss.)

La maledizione del serpente (v. 14) che lo inchioda all'infimo posto nell'ordine degli animali, come segno esterno di questa maledizione, lo strisciare sul ventre ed il mangiare polvere, si adatta allo strumento (o al simbolo) di Satana. Riferite allo spirito tentatore le stesse parole hanno senso metaforico: esse si usano comunemente per designare l'estrema umiliazione e la sconfitta (Sl 72, 9; Mi 7, 17). E' questa la prima maledizione che appare nella Bibbia dopo le benedizioni della creazione (Ge 1, 22.28), ed è in realtà il pronunciamento di un giudizio che non crea il male ma lo rivela e ne dichiara le estreme conseguenze. Ma la maledizione nella storia della salvezza non è mai riferita per sé stessa: essa fa da contraltare e da eco invertita della benedizione, alla parola di Dio che crea e che salva. Anche questa prima e perentoria maledizione, infatti, si risolve in realtà in una promessa di redenzione per l'uomo. Si noti che il serpente è maledetto, ma all'uomo viene evitata una maledizione diretta: sarà il suolo ad essere maledetto a causa dell'uomo (v. 17). Nel presente contesto Dio, più che vendicare il proprio onore, prende le parti dell'umanità per vendicarne la sventura sul seduttore che l'ha coscientemente e tragicamente provocata.

Nel contesto del castigo per il serpente troviamo al v. 15 la promessa della sconfitta finale del tentatore. Questo passo, chiamato appunto Protovangelo, è il primo annunzio di una redenzione futura dell'uomo.
Nella prima parte di questa sentenza-oracolo si esprime chiaramente l'inizio di una ostilità che Dio stesso fa sussistere e farà durare per un'epoca indefinita perché i protagonisti della lotta non sono soltanto la donna ed il serpente, ma anche il seme dell'uno e dell'altra e cioè i discendenti o la razza del serpente da una parte e i discendenti della donna dall'altra.

Nel testo ebraico è fuori dubbio che il soggetto di "schiaccerà " è "il seme " ripreso per mezzo di un pronome maschile. E' pertanto errata la traduzione della Vulgata che usa il pronome "ipsa" al posto di "ipse", ed è quindi priva di fondamento la costruzione del dogma mariano basata su questa traduzione inesatta.

L'immagine qui evocata è quella di un serpente che sta per scagliarsi contro il piede di un passante, ma questo lo previene e gli schiaccia la testa con il tallone.. Oppure è quella di un serpente che mentre viene colpito alla testa si avvinghia con la coda attorno al piede che lo calpesta.
La lotta avrà termine quando il tentatore sarà schiacciato, mentre non sarà riuscito che a danneggiare lievemente il seme della donna.

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Il castigo della donna (v. 16)

Nella persona della donna colpevole vengono accomunate nelle conseguenze dolorose del primo peccato tutte le donne in genere. La donna deve soffrire anzitutto nella sua condizione di madre: " Io moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e le tue gravidanze ". A queste si aggiungono i dolori del parto: " con doglie partorirai figli". Questi dolori come gli altri, sono bensì un fatto naturale, ma le sarebbero stati risparmiati se fosse rimasta fedele a Dio.

La donna dovrà inoltre soffrire anche come sposa. Il subentrare delle passioni farà sì che le relazioni coniugali, descritte in modo idilliaco al cap. 2 vv. 23 e ss., siano guastate dall'egoismo. Così la donna tenderà irresistibilmente ad appoggiarsi all'uomo  e si sentirà da lui brutalmente dominata.

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Il castigo dell'uomo (vv. 17 ss.)

L'uomo, già benedetto all'inizio della creazione (Ge 1, 28), non è maledetto direttamente, ma Dio proclama maledetta la terra per causa dell'uomo: " il suolo sarà maledetto per causa tua ".E' maledetto proprio quel suolo dal quale l'uomo deve trarre il suo nutrimento: " ne mangerai il frutto con fatica tutti i giorni della tua vita ". Così per l'umanità incomincia la lotta per soggiogare la natura, lotta che si protrarrà per tutta l'esistenza umana non senza sconfitte né senza sangue. Il v. 18 sembra contenere un'opposizione tra spine e cardi da una parte e l'erba della campagna dall'altra. Tutto ci porta a credere che questa erba indichi sempre l'erba che fa seme (Ge 1, 29 e 2, 5), cioè i cereali e i legumi che sono il nutrimento adatto per l'uomo. Il senso dunque è questo: il suolo così maledetto non produrrà spontaneamente che spine e cardi, mentre tu dovrai cibarti dei cereali. Di conseguenza soltanto " con il sudore del tuo volto mangerai il pane " (v. 19). Effettivamente non conosciamo nessun posto dove i cereali crescano spontaneamente: originari da qualche ignota pianura dell'Asia, essi sono stati portati dappertutto dalla coltura umana.. Sebbene l'autore sacro abbia trasmesso al suo popolo espressioni che sembrano indicare nell'agricoltura l'occupazione principale dell'uomo, le parole di Dio hanno una portata più vasta riferendosi in generale alla lotta per la vita.
Il castigo estremo che racchiude tutti gli altri è la morte, già stabilita al cap. 2, 17 in caso di trasgressione del comandamento: "
finché tu ritorni alla terra perché da essa fosti tratto; poiché tu sei polvere e in polvere ritornerai ". Questa espressione contiene certamente l'idea che la morte è un fatto naturale ed inevitabile per l'uomo: è un ritorno degli elementi corporei alla loro comune fonte, la terra. Tuttavia essendo qui queste parole in un contesto di castigo, si deve dedurre che l'uomo aveva in antecedenza il privilegio di poter non morire, per cui la morte acquista ora valore di pena.
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Cacciata dal giardino (vv. 20-24)

Il v. 20 ci presenta l'uomo che impone un nuovo mome alla sua donna: Havvâ, forma arcaica analoga a hayyâ, essere vivente. La grafia Eva deriva dai LXX che tuttavia in questo contesto traducono Zoé (=vita). Il nuovo nome non caratterizza più la donna in genere come al cap. 2, 23, ma questa determinata donna che è la prima madre dell'umanità: " perché lei fu la madre di tutti i viventi ". Questo versetto sorprende in questo punto della narrazione, tuttavia non vi sono ragioni convincenti per trasportarlo altrove.

Le tuniche di pelli sono un particolare archeologico interessante: così appaiono vestiti i più antichi re sumeri di cui ci sia giunta la raffigurazione. C'è chi tuttavia intende tuniche per la pelle, cioé per il corpo nudo. L'azione di Dio che fabbrica le tuniche è un ennesimo antropomorfismo, ma è inutile cercare che cosa Dio abbia fatto per aiutare quegli uomini inermi nelle prime lotte per la vita. Forse questa scena di rivestimento è in relazione alle parole che seguono e potrebbe servire a spiegarne l'oscurità. Nell'antico Oriente, dove, a differenza del-l'arte ellenica, solo i bambini e talvolta gli schiavi sono rappresentati senza veste, l'abito era un segno di onore e di distinzione. Dopo aver rivestito i progenitori Jahvé osserva, non senza una punta di ironia, che l'uomo è avanzato in grado, è divenuto un essere superiore come aveva desiderato.

Comunque la difficoltà dell'espressione: "Ecco l'uomo è divenuto come uno di noi, perché conosce il bene ed il male ", deriva dal fatto che in realtà l'uomo non è diventato come Dio. La spiegazione più semplice è che qui si tratti di una sottile ironia, forse, ma non necessariamente, per un accostamento tra l'attesa della conoscenza superiore e la necessità repentina di mettere riparo al pudore come al v. 7. Gli uomini hanno imparato a conoscere qualcosa di molto triste: volevano avere la scienza divina, ecco che vi sono riusciti! Non è un'ironia crudele, essa nasce dalle circostanze stesse e comunque si trova in un contesto di antropomorfismi. Il plurale " come uno di noi " è forse deliberativo, come al cap. 1, 26, dato che Jahvé sta prendendo la decisione di scacciare i progenitori dal giardino. Secondo alcuni si alluderebbe alla corte che accompagna Dio: infatti al v. 24 si menzionano i Cherubini come custodi dell'albero della vita.

Pure diffile è l'espressione: "Ed ora non bisogna permettergli di stendere la sua mano per prendere anche dell'albero della vita perché mangiandone, viva per sempre." Essa farebbe infatti supporre che quell'albero sia concepito con una virtù magica, tale da operare anche a dispetto di Dio. Ma ciò è contrario a tutta la concezione biblica avversa alla magia e tale da sottolineare l'irresistibile volontà di Dio, come in realtà avviene anche nella presente narrazione. Si ha pittosto qui un modo semplice e drammatico, per esplicitare in forma di dialogo o di monologo il concetto che l'uomo deve essere allontanato dall'albero della vita perché non merita più di usarne. Un simile monologo in cui Jahvé esprime la sua preoccupazione per il successo dell'impresa di Babele si ha in Gen. 11, 6.

Il v. 23 ricorda che l'uomo fu formato fuori dell'Eden e poi trasportato nel giardino (Ge 2, 8.15). Ora Dio scaccia l'uomo fuori del giardino per lavorare penosamente quella stessa adamâ da cui era stato tratto (Cfr. v. 19). Il v. 24 insinua che l'ingresso del giardino era ad oriente, il che, aggiunto alla notizia che lo stesso giardino era ad oriente, indicherebbe che per l'autore biblico l'umanità si è propagata ad oriente del corso superiore dell'Eufrate e del Tigri (Cfr. Ge 2, 10-14).

" Ad oriente del giardino di Eden..., per custodire la via dell'albero della vita", cioé per rendere impossibili agli uomini l'accesso a quella fonte di immortalità, Jahvé pose di guardia i Cherubini (Kerubim  plurale di Kerub). Questi esseri superiori all'uomo sono presentati come creature dipendenti da Dio; anch Ez 28, 13 s. allude ad un Kerub posto nel giardino di Dio, sul monte santo di Dio.. Risulta che i Cherubini erano rappresentati con le ali (Es 25, 18-21; 1 Re 6, 23 ss.), mentre nella visione di Ezechiele appaiono con una struttura composita, in parte umana e in parte animale (Ez 10, 14; Cfr anche Ez 1, 5-14) ed hanno l'incarico di portare il trono del Signore. Connessa con queste rappresentazioni è l'espressione non rara di Jahvé che siede sui Cherubini (1 Sm 4, 4; 2Sm 6, 2; 2 Re 19, 15).

La spada fiammeggiante e roteante indica un guizzo di fuoco che si dirige ora qui ora là, oppure a zig zag come la folgore, alla quale appunto si riferisce in Gb 37, 12 lo stesso verbo qui usato. Può trattarsi appunto di una rappresentazione concreta della folgore. Da notare infatti che nell'originale ebraico questa spada non è impugnata dai Cherubini, ma costituisce un impedimento distinto che vieta l'accesso all'albero della vita.

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Interpretazione storico-relistica

Nell'interpretazione storico-realistica si presuppone che Dio abbia voluto farci conoscere le modalità concrete del primo peccato nel suo reale svolgimento e perciò le abbia rivelate all'autore ispirato o ai suoi più antichi informatori così come si sono svolte nella realtà; oppure Dio avrebbe vegliato perché attraverso i secoli si fosse conservato il ricordo di quel fatto. Ciò ammesso , il racconto biblico viene interpretato come una pagina di storia scritta alla nostra maniera. Gli antropomorfismi non intralciano tale racconto, perché il Signore qui appare ai progenitori in forma umana. . Vi sono tuttavia alcune difficoltà che vengono risolte come segue. Il serpente che parla è un vero animale che serve da strumento a Satana, oppure un'apparizione, cioè l'aspetto esteriore che assume Satana per rendersi sensibile. L'albero della vita ha la sua virtù preternaturale in grazia di una disposizione divina.  L'albero della conoscenza del bene e del male è un albero qualunque, proibito per volontà divina positiva e così chiamato perché il comportamento dell'uomo a suo riguardo avrebbe fatto conoscere sperimentalmente il bene dell'ubbidienza ed il male derivante dalla trasgressione. Il peccato consiste essenzialmente nell'atteggiamento interiore: perdita della fede, superbia, ribellione, ma si concretizza esternamente nel mangiare il frutto proibito.

Non deve sembrare indegno di Dio l'aver proibito un oggetto di così poca importanza perché in uno stato di vita così semplice non dovevano esserci altri oggetti degni di interesse da parte dei primi uomini e perché d'altra parte quanto più è indifferente la cosa proibita tanto più manifesto è l'ossequio di chi ubbidisce, non per la cosa in sé, ma per l'amore di colui che ha dato il comando.

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Interpretazione storico-simbolica

Già all'epoca patristica, accanto all'interpretazione letterale, erano stati fatti dei tentativi per spiegare in maniera allegorica la narrazione del paradiso terrestre e della caduta dei progenitori. Oggi i continuatori ideali della corrente allegorista non usano più il termine allegoria, ma piuttosto quello di involucro letterario, di rivestimento concreto o simili. Non essendo stata fissata una terminologia sicura, si può scegliere il termine di simbolo letterario che più sembra adatto ad esprimere il concetto.

Nell'interpretazione storico-simbolica si suppone che l'autore ispirato non conoscesse le modalità precise del primo peccato, ma, avendo ricevuto dalla rivelazione (diretta o indiretta) o anche avendo lui stesso intuito, in forza dell'ispirazione, la conoscenza della dottrina riguardante il fatto della caduta e delle sue conseguenze, abbia comunicato ai suoi contemporanei questa dottrina, rivestendola di particolari concreti, sia da lui escogitati come adatti allo scopo,  sia presi da narrazioni preesistenti, come elementi sparsi, con i quali avrebbe costruito un racconto nuovo e corrispondente alla verità rivelata. Si tratta dunque della narrazione di fatti veramente accaduti ma espressi mediante simboli letterari, aventi cioè un'esistenza puramente ideale, e insieme adatti a significare una realtà oggettiva.

Il paragone che più si avvicina a questo genere letterario storico-simbolico è quello delle composizioni profetico-simboliche in cui la realtà futura, ignota al profeta nella sua modalità propria, viene presentata attraverso simboli. Un altro confronto utile è con le parabole storiche, per esempio con la parabola dei vignaioli ribelli in Mt 21, 33-44, dove si ha la tragica storia della infedeltà di Israele tradotta in linguaggio di parabola. La realtà storica, cioè, pur essendo ben nota nei suoi particolari, per una ragione speciale viene espressa mediante una vicenda fittizia, o, meglio mediante un travestimento fittizio di particolari. La differenza si ha nel fatto che nella parabola storica tutti i personaggi sono travestiti, mentre nel racconto della caduta tanto i progenitori quanto il Creatore sono presentati nella loro realtà storica, e quindi non si può parlare di una parabola del peccato. Travestito è il personaggio di Satana che appare solo in veste di serpente; travestito è il fatto del diritto all'immortalità, concretizzato nell'uso lecito dell'albero della vita; travestita è l'alternativa posta davanti alla decisione dei progenitori: astenersi da un frutto per ossequio a Dio o usarne per raggiungere un miraggio di grandezza; così che l'atto stesso del peccato, chiarissimo nei suoi motivi interni e nella sua gravità, viene velato dal simbolo quanto alla sua esecuzione materiale. Col simbolo dell'albero della vita restano pure connesse le scene dell'allontanamento da esso e dei guardiani che ne impediscono l'uso. All'esigenza di una presentazione concreta, rapida, semplificata d'una realtà forse più complessa può appartenere la descrizione del comportamento dei progenitori, l'insorgere così repentino del pudore e l'immediato rimedio fornito dalle foglie e dalle pelli. Così pure si dica del linguaggio progredito proprio di un grado elevato di civiltà agricola, con cui si esprime la sentenza contro l'uomo.

I motivi che favoriscono questa linea esegetica sono:

a)    L'impossibilità che la tradizione abbia conservato attraverso i millenni della preistoria il ricordo dettagliato della prima caduta.

b)    la connessione stretta del c. 3 col c. 2, la cui interpretazione realistica è impossibile.

c)    L'inverosimiglianza che il complesso dei cc. 2 e 3 sia una rivelazione diretta sulle modalità dei fatti, dato appunto il linguaggio ricco di antropomorfismi.

d)    Il carattere letterario della narrazione è tale da non accordarsi con una rivelazione su questi fatti avvenuta a modo di dettatura o di suggerimento.

e)    Se si pensa ad una rivelazione avuta per visione, si ricade nel carattere simbolico che spesso hanno le visioni.

f)    Si trovano in questa narrazione alcuni elementi che sembrano presi in prestito da concezioni preesistenti, come il caso dell'albero della vita, dei Cherubini e del serpente.
Questa linea di esegesi, accolta da quasi tutti gli esegeti moderni, lascia adito però ad un ulteriore problema. Di cosa è simbolo l'albero della conoscenza del bene e del male, e di conseguenza in che cosa poté consistere l'atto peccaminoso dei progenitori?
I più si limitano a vedervi simboleggiato soltanto l'aspetto formale del peccato, ritenendo impossibile sapere la forma concreta in cui il peccato si è manifestato. Altri azzardano alcune spiegazioni. Ecco le principali interpretazioni:


1)    La conoscenza del bene e del male è la conoscenza universale propria di Dio. L'astensione da tale conoscenza significa la fede; l'aver Dio concesso l'uso dell'albero della vita ma non della conoscenza universale, significa che Dio ha messo l'uomo nella condizione di chi deve credere a Dio, rinunciando a saper tutto, a conoscere direttamente la veridicità delle affermazioni divine riguardanti il proprio destino eterno; solo a prezzo di questa sottomissione l'uomo potrà godere di una felicità che non finirà mai. Il peccato dei progenitori, in quanto fu un tentativo per avere la conoscenza divina a dispetto di Dio, fu, in sostanza, il rifiuto di ammettere i propri limiti nel campo conoscitivo, un rifiuto di prestar fede a Dio e di ricevere da lui solo la propria felicità.

2)    La conoscenza del bene e del male è la facoltà di decidere personalmente ciò che è bene e ciò che è male e di agire secondo questa decisione. Questo potere è riservato a Dio.  L'uomo non lo esercitava prima del peccato e lo esercita mediante il peccato, essendo essenziale ad ogni peccato un'inversione del bene e del male.

3)    Altri intendono la conoscenza del bene e del male come un'esperienza sessuale. Naturalmente nessuno afferma che l'uso del matrimonio fosse un peccato per se stesso; tale affermazione sarebbe contraria all'insegnamento di Ge 1, 27 s.; 2,24. Ma si poté trattare di un abuso per il fine o le circostanze.

Ecco alcune posizioni:

a)    Dio avrebbe interdetto l'uso del matrimonio perché i progenitori erano troppo giovani, oltre che per metterli alla prova.

b)    Uno studioso, P. Mayzhofer ne vide invece la ragione nel valore quasi sacramentale attribuito alla consumazione del matrimonio. Questo, nel pensiero divino, includeva come un duplice elemento:

b1)    atto generativo  destinato a procreare il corpo;

b2)    causa sacramentale con cui si attirava la grazia santificante nel nascituro
Per far comprendere ai progenitori questo secondo aspetto, quasi sacramentale, l'uso del matrimonio sarebbe stato temporaneamente limitato. Ma avendone costoro usato contro il volere divino, eliminando all'atto matrimoniale il valore di "quasi sacramento", esso servì solo a procreare uomini senza attirare la grazia divina. E' questo il peccato originale che si ripete ad ogni generazione.

c)    Essendo il serpente un simbolo delle divinità preposte alla vegetazione ed alla fecondità, l'autore del libro della Genesi l'avrebbe introdotto per descrivere, a modo suo, la trasgressione dei progenitori. Costoro avrebbero iniziato la loro vita coniugale mettendola sotto la protezione delle false divinità che i Cananei adoravano con atti di culto di carattere sessuale. L'autore ispirato voleva lottare contro questo culto, che esercitava un fascino assai grande sugli Israeliti, e per questo, narrando il primo peccato lo avrebbe descritto sotto questo aspetto. Il simbolo del serpente sarebbe la chiave per intendere questo linguaggio velato, che procede per sottintesi. Questa interpretazione, che è di J. Coppens, tratta più del modo con cui l'autore sacro ha pensato il peccato che non della modalità oggettiva del peccato stesso.

Tutti questi tentativi devono essere presi con cautela. Secondo l'insegnamento cristiano, è proprio la dignità altissima della facoltà di trasmettere la vita, intesa a collaborare con l'attività creatrice di Dio, che ne rende biasimevole ogni abuso. Identificare il peccato dei progenitori in una trasgressione sessuale è una interpretazione gratuita, non favorita dal testo. L'espressione "conoscere il bene e il male"  solo due volte può avere significato sessuale (Dt 1, 39; 2 Sm 19, 35), ma anche in questi due casi può avere un altro senso. Il simbolismo del serpente è molteplice e non sempre coerente. In Ge 1, 28 e 2, 24 non c'è il minimo accenno ad una interdizione transitoria della vita coniugale. Inoltre nel testo biblico non c'è alcuna indicazione che lasci trapelare una proibizione solo temporanea del frutto proibito. Il comando di Dio è così assoluto da non consentirne, almeno, a prima vista un uso successivo. E' bensì vero che tra le conseguenze del peccato si nota ripetutamente l'insorgere del pudore, si accenna ai dolori del parto e alle difficoltà della convivenza coniugale, ma la conseguenza nulla dice, per sé, sulla natura del peccato; basti pensare che la conseguenza più evidente è la necessità di morire, la quale evidentemente non ha alcun rapporto con la natura della colpa.

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Interpretazione messianica del v. 15

L'interpretazione messianica del protovangelo (v. 15), già presente nella tradizione ebraica, come risulta dai LXX, dal Targum di Jonatan e da quello di Gerusalemme, è fondata sulla testimonianza di Apocalisse 12 e dei  Padri più antichi. Inoltre è universalmente riconosciuta nell'ambito del cristianesimo. Essa risulta chiaramente anche dal testo una volta che si sia ammessa l'identificazione del serpente con Satana. Siamo infatti in un contesto ostile al serpente: si tratta del suo castigo che deve essere più grande di quello degli uomini, in quanto il Signore considera qui l'umanità come vittima dell'inganno diabolico.. Ci si aspetta una sconfitta del serpente, perché l'inimicizia,  lo stato di ostilità non è un castigo; sembra anzi essere già presente all'inizio come movente del suo inganno omicida. Questa sconfitta dovrà provenire dalla parte dell'umnaità come indica il termine: " seme della donna ". Si pone qui la questione se "il seme " indichi, con forza il collettivo, la stirpe umana,  o se indichi direttamente il Messia. Questa distinzione però non è adeguata perché da una parte il Messia non è estraneo all'umanità. Il Messia dunque è oggettivamente non solo incluso nel " seme" (senso inclusivo o implicito), ma anche particolarmente inteso (senso eminente). Non è necessario dire che l'autore abbia avuto di mira questo individuo, perché in ogni caso il senso divino delle profezie (senso pieno) è più profondo di quanto abbia inteso l'autore umano (senso meno pieno); tuttavia ciò è probabile sia a priori, perché l'autore umano sapeva benissimo che una collettività non agisce se non per mezzo degli individui, sia a posteriori, esaminando le espressioni scelte dall'autore. Egli infatti esprime la lotta a tre riprese: nella prima sono in campo  il serpente e la donna; nella seconda due collettività: il seme del serpente, cioè l'insieme dei demoni, e il seme della donna. cioè l'umanità; questo significa la partecipazione dell'umanità alla lotta: l'umanità odierà Satana e vorrà vincerlo; nella terza sono in campo ancora il serpente, cioè quel demone individuale che ha compiuto il primo inganno omicida, ed il seme, ripreso da un pronome maschile singolare, "esso " o " egli ". Ora non è senza motivo che, mentre è normale  che il seme in senso collettivo sia ripreso da un pronome plurale (Ge 3, 15; 17, 8.9), qui ,invece, trattandosi dell'azione conclusiva della lotta si usa il pronome al singolare.
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Il poligenismo

E' quell'ipotesi scientifica secondo la quale i gruppi umani attualmente esistenti e i tipi umani risultanti dai dati della paleontologia sarebbero stati originati da gruppi animali tra loro distinti, per cui l'umanità non troverebbe il punto di partenza unitario al livello umano, ma molto più indietro,  al livello dei primati infraumani con caratteri umanoidi. Siccome la terminologia degli scienziati non coincide con quella dei teologi, è necessario anzitutto spiegare l'uso diverso dei termini monogensmo e poligenismo.


Astrattamente parlando, le possibilità riguardo all'inizio del genere umano sono tre:

1)    L'umanità deriva da diversi gruppi iniziali, sorti indipendentemente in località diverse. i quali poi nel corso dei secoli, per varie cause, andarono differenziandosi nelle varie razze e con caratteri diversi. Questa ipotesi è chiamata poligenismo sia dagli scienziati che dai teologi. Volendo precisare ed evitare ambiguità si usi il termine polifiletismo.

2)    L'umanità deriva da un unico gruppo iniziale, formato da molti individui dalle caratteristiche uniformi, le quali poi nel corso dei secoli, per varie cause,  andarono differenziandosi nelle varie razze. Questa ipotesi è chiamata monogenismo dagli scienziati, ma dai teologi è considerata come poligenismo. Si usi il termine monofiletismo.

3)    L'umanità deriva da un'unica coppia iniziale, da cui provengono tutte le razze per successivo differenziamento. Questa ipotesi è la sola che i teologi chiamano monogenismo. Naturalmente anche gli scienziati chiamerebbero monogenismo una tale supposizione, ma essi non la prendono in particolare considerazione. Infatti la scienza non può stabilire se l'unico gruppo iniziale fosse formato da una sola o più coppie. Agli scienziati monogenisti basta arrivare alla constatazione che tutta l'umanità discenda da un ceppo solo. Un'ulteriore precisazione è impossibile.

La maggior parte degli scienziati si pronuncia in favore del monogenismo (monofiletismo) in seguito a diversi indizi, che tuttavia non sono tali da dare la certezza assoluta. Notiamo inoltre che il poligenismo non è connesso con l'evoluzionismo in sé considerato, ma con una certa maniera di spiegare l'avvenuta evoluzione.. Ora, mentre gli scienziati si accordano nell'accettare l'evoluzione, non è finora stata trovata una dottrina soddisfacente per spiegare il modo dell'evoluzione ed in particolare di quell'evoluzione che avrebbe fatto sorgere il genere umano. Per questo i teologi non hanno motivo di porsi il problema se il poligenismo sia o meno contrario alla verità rivelata.

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Paralleli extra-biblici

Gli studi etnografici hanno rivelato che un pò dappertutto, anche presso i popoli di civiltà primitiva, è diffusa l'idea di un'età primordiale paradisiaca, venuta poi a cessare per causa di qualche peccato. Questo fatto può avere due spiegazioni:  o tutte queste tradizioni risalgono ad un'unica antichissima tradizione comune (cosa difficile da accettare, dati i millenni della preistoria), oppure i di versi gruppi umani, riflettendo sulla realtà del male e sul concetto della provvidenza divina, ricostruirono la realtà storica primordiale, ed in questa ricostruzione colpirono più o meno nel segno.

Per quanto riguarda il racconto biblico sarebbe interessante studiare se alla base vi sia qualche prototipo più antico.. Siccome tutte le altre tradizioni appartengono a popoli troppo lontani o sono attestate in epoca troppo recente, il campo di ricerca deve essere limitato all'antico Oriente.

Due miti babilonesi, di origine sumerica, vengono principalmente presi in considerazione: il mito di Adapa narra che questo uomo (non si tratta del primo uomo) ricevette dal suo protettore, il dio Ea, la scienza dei segreti del cielo e della terra, ma non ricevette il dono della vita eterna. Una volta, avendo spezzato le ali del vento del sud, venne chiamato a rendiconto dal dio supremo Anu. Ea, preoccupato della sorte del suo protetto, lo avvertì di non mangiare e di non bere nulla di quanto gli sarebbe stato offerto. Se non che Anu, in considerazione della scienza di Adapa, eccessiva per un essere mortale, aveva pensato di dargli il cibo e la bevanda dell'immortalità per annoverarlo così tra gli Dei. Ma Adapa ubbidendo ai consigli del suo protettore rifiutò il cibo e la bevanda, e così restò un povero mortale.

Il poema di Gilganesh ci presenta questo eroe, re di Uruk, che, dopo la perdita dell'amico Enkidu, è ossessionato dall'idea della morte. Per sfuggire al destino della morte intraprende un lungo viaggio e riesce a trovare il suo antenato Uunapistim, il Noé babilonese, al di là delle misteriose acque della morte. L'antenato gli indica un arbusto che cresce sul fondo di quel mare e che si chiama  "il vecchio ridiventa giovane ". Ma la gioia di Gilgamesh è di breve durata. Durante la navigazione sulla via del ritorno un serpente esce dall'acqua, rapisce dalla barca dell'eroe l'erba preziosa e scompare. Il poema ripetutamente suona critica amara contro gli dei, tanto che il racconto della Genesi, paragonato a questo poema, si può definire un'apologia di Dio.

Dal confronto con questi testi, e con altri meno significativi, possiamo trarre le seguenti conclusioni:

1)    Anzitutto i Sumeri ed i Babilonesi si posero il problema del destino doloroso dell'uomo, ed usarono talvolta l'immagine dell'erba o del cibo della vita.

2)    La risposta data a questo problema è totalmente diversa da quella che appare nella Bibbia. Sono gli dei che hanno riservato per sé la vita eterna, se la tengono gelosamente, e agli uomini hanno assegnato un destino di morte. Di un destino primordiale migliore perduto per una colpa, nessuna traccia.

3)    Di conseguenza, la narrazione biblica spicca per la sua originalità in mezzo alle altre correnti di pensiero che più furono vicine al mondo ebraico. Solo qualche elemento secondario appare preso in prestito dalla narrazione biblica: l'immagine dell'albero della vita; forse la funzione attribuita al serpente; l'alternativa onniscienza e vita eterna, che si trova nel mito di Adapa; l'immagine dei Cherubini e della fiamma guizzante, che tuttavia non ha nulla a che fare con il problema del male.

L'impressione che si riceve dal confronto di tutti i documenti letterari che hanno qualche analogia col racconto biblico è che quest'ultimo sia stato composto da una persona d'intelligenza assai penetrante, la quale servendosi di qualche elemento figurativo preesistente, ha costruito qualcosa di completamente nuovo e ha dato al problema una risposta netta, semplice e profonda, che tiene conto non solo del male fisico ma anche dell'esistenza del male morale.

Ciò che ci sorprende e che per ora ci lascia senza risposta è il fatto che il racconto biblico per le sue idee e per il suo spirito assomiglia di più alle tradizioni di certi popoli primitivi lontanissimi che non alle narrazioni dei vicini mesopotamici, a cui gli israeliti erano legati da tanti vincoli diretti e indiretti.

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