Il racconto del diluvio, vero e proprio, è
preceduto da una introduzione nella quale viene sottolineata la progressiva
corruzione del genere umano. Per fare questo l'autore si serve di un'antica
tradizione sull'origine dei giganti dovuti all'unione di esseri sovrumani
con donne della stirpe umana. Si tratta però di una rielaborazione
radicale del testo antico, tale da modificarne completamente il senso
originario. Qualunque sia stato il senso originario di questa antica tradizione,
quello che a noi interessa è il significato che l'autore sacro
ha voluto attribuire a questo racconto, così rielaborato, e pervenuto
a noi nelle pagine del libro della Genesi. In altre parole a noi interessa
più che altro il senso biblico del racconto al di là del
significato mitico che poteva avere in origine.
Se consideriamo che ancora oggi gli studiosi sono
discordi sul significato da attribuire all'espressione "figli di Dio" riportata
al v. 1, sorprende la sicurezza con la quale un studioso come G. Von Rad
liquida la questione: "La domanda, posta dagli
inizi della chiesa fino ai nostri giorni, se i 'figli di Dio' debbano essere
intesi come esseri angelici o come uomini, cioè come dei membri della
'migliore società setita, può essere considerata definitivamente
risolta, i 'figli di Dio' - qui del resto chiaramente opposti alle 'figlie
degli uomini' - sono esseri del mondo celeste
." (A.T. Commento di Genesi pag. 143). Anche se questa soluzione fosse
alla fine più accettabile di altre ci sembra preferibile assumere
un atteggiamento più cauto, esaminando, prima di arrivare a conclusioni
definitive, gli aspetti negativi e positivi delle varie ipotesi che sono
state avanzate nel corso degli anni dai vari studiosi.
: 1° ipotesi: i figli di Dio sono gli angeli
Gli argomenti che si possono addurre sono molteplici e di carattere
sia biblico che tradizionale. Nella Bibbia l'espressione "
figli di Dio", quando ricorre al plurale
come nel v. 1 del cap. 6, (benê hâ
'Elôhim), indica quasi sempre esseri
di natura superiore all'umana e più vicini perciò a Dio, ossia
gli angeli. Tale è il caso ad es. di Gb 1, 6; 2, 1. C'è inoltre
da aggiungere che nella versione dei LXX i figli di Dio di Ge 6, 1 è
stato tradotto direttamente con il temine di angeli. Questo fatto ha naturalmente
influenzato il parere sopratutto degli studiosi dei primi secoli, i cosiddetti
"padri della
Chiesa" i quali nella stragrande maggioranza hanno accolto la tesi dei
rapporti intervenuti fra le donne del genere umano ed esseri di natura divina.
Secondo questa ipotesi inoltre Giuda 6 sembrerebbe alludere ad una colpa
carnale degli angeli. Lo stesso dicasi di 2 Pietro 2, 4. Per quanto riguarda
poi la tradizione, va detto che il libro apocrifo di Enok ha inteso il passo
come un peccato carnale degli angeli che avrebbe dato origine ai giganti.
2° ipotesi: I figli di Dio sono i magnati (i membri delle
famiglie aristocratiche)
Un'esegesi rabbinica alquanto diffusa ha identificato "i figli di
Dio" con i membri delle famiglie aristocratiche, i quali si sarebbero
uniti con donne plebee. Contro tale opinione sorgono difficoltà
insormontabili. Non c'è infatti nel testo biblico alcuna distinzione
fra gente aristocratica e plebea. Non fu mai proibito agli israeliti il
matrimonio tra aristocratici e plebei. Non si capisce inoltre in cosa
sarebbe consistita la colpa nel caso che tali unioni fossero avvenute.
Abramo e Giacobbe sposarono le loro serve assieme ad altre donne. Davide
e Salomone si unirono pure a figlie del popolo, senza per questo riceverne
biasimo.
3° ipotesi: I figli di Dio sono i Setiti e le figlie dell'uomo
sono le cainite.
Con questa ipotesi entriamo nell'interpretazione morale dei due termini
biblici. L'esegesi fu proposta per la prima volta da Giulio africano nel
II° secolo. Agostino dapprima incerto, aderì poi decisamente
a questa idea. A partire dal IV° secolo parecchi "
Padri" si opposero energicamente alla caduta
sensuale di una parte degli angeli, per cui a poco a poco l'equazione angelica
fu quasi totalmente abbandonata. Fra questi ricordiamo Crisostomo, Cirillo
Alessandrino e Teodoreto.
Dopo che Tommaso d'Aquino ebbe sostenuto l'identificazione dei figli
di Dio con i Setiti e le figlie dell'uomo con le Cainite, tale esegesi si
impose ai grandi commentatori del secolo XV° - XVII° ed anche alla
quasi totalità degli esegeti moderni. Tra loro ricordiamo
Lutero e Calvino.
Questa esegesi si basa sui seguenti elementi rivenuti nel testo:
a) Il libro della Genesi riallaccia in modo particolare
la discendenza di Set ad Adamo ("a sua immagine
") e per mezzo di costui a Dio (" ad immagine
e somiglianza di Dio"). I Setiti potevano dunque
a buon diritto chiamarsi " figli di Dio
" in modo tutto speciale.
b) Nel libro della Genesi si sottolinea più
volte la bontà e la pietà dei Setiti (Enos, Enok, Noè),
mentre si ricorda la boriosa alterigia e la rissosa crudeltà dei
Cainiti (Lamek).
c) Le donne cainite vengono ricordate con nomi che
ne esaltano la leggiadra beltà: Ada, la vezzosa, Silla, la bruna
e Naama, la graziosa.
Ci troviamo però di fronte ad una difficoltà insormontabile
nell'attribuire, senza alcuna ragione plausibile, al termine "uomo" dell'espressione
"le figlie dell'uomo
" un senso ristretto, cioè discendenti di Caino, mentre questo
stesso termine è sempre stato usato per indicare in generale tutta
l'umanità, Setiti e Cainiti compresi
4° ipotesi: I figlio di Dio sono il complesso
del sesso maschile e le figlie dell'uomo il complesso del sesso femminile
Questa ipotesi si basa sul fatto che Adamo fu creato direttamente
d Dio, mentre Eva fu tratta dal corpo dell'uomo: E' però ben difficile
sostenere che le due espressioni indichino una pura differenza sessuale
in quanto mai altrove nella Bibbia troviamo delle espressioni che legittimino
tale distinzione. Inoltre Eva, tratta da Dio stesso dal corpo di Adamo,
essendo un alter ego del primo uomo, veniva a ricopiare la identica immagine
divina scolpita in esso dalla divinità. Se tale ipotesi può
trovare un addentellato nella prima coppia (Adamo ed Eva) non può
di fatto applicarsi ai loro successori, poiché tanto i figli che le
figlie ricopiano la medesima somiglianza con i loro genitori. Infatti nella
generazione setita tra le benedizioni divine ricorda che i patriarchi generarono
figli e figlie.
5° ipotesi: I figli di Dio sono i buoni,
le figlie dell'uomo sono le cattive siano esse Cainite o Setite
Interpretando il rapporto con Dio nella bontà degli uomini,
questa ipotesi identifica i figli di Dio con tutti i buoni, siano essi
Setiti o Cainiti e le figlie dell'uomo con le donne cattive, siano esse Cainite
o Setite. In prima linea figurano tra i buoni i Setiti, ma non soltanto
loro, come in prima linea figurano le Cainite, ma non soltanto loro.. Questa
opinione, senza sicuro argomento, desunto dal libro della Genesi, ha anche
il torto di collocare in prima linea nella prospettiva biblica l'aspetto
individuale della bontà ("i singoli individui buoni") che è
solo un frutto della recente letteratura. Nei libri antichi della Bibbia
prevale l'aspetto collettivo su quello individuale; quello che conta è
essere membro del popolo eletto. Nei lombi di Abramo sta racchiuso tutto
l'intero popolo di Dio, in questo sta tutta l'importanza del patriarca.
Seth ha valore perché da lui deriva la stirpe destinata a trasmettere
la rivelazione. Noé è il secondo padre dell'umanità
poiché da lui proviene il genere umano postdiluviano che con Dio
strinse il nuovo passo dell'alleanza. Anche qui nel controverso passo biblico
non sono tanto gli individui ad essere presi in considerazione, bensì
tutto il complesso, tutto un gruppo organico ben delimitato in cui le caratteristiche
morali dei singoli passano in seconda linea.
Conclusione
Risulta ben difficile stabilire con certezza chi siano in realtà
i "figli di Dio
" del v. 1: angeli o uomini? Per capire veramente quale significato l'autore
ha voluto dare a questa espressione che all'origine indicava indubbiamente
degli essere divini, dobbiamo fissare la nostra attenzione anzitutto sul
contesto in cui è stata inserita. Risulta chiaro e fuori di dubbio
che l'autore in questo brano ci vuole descrivere l'ulteriore e progressiva
corruzione del genere umano che causò poi il Diluvio. Essendo il Diluvio
un castigo per gli uomini (Ge 6, 5.7.13) ne deriva per conseguenza che il
peccato qui raccontato fu commesso da uomini. Abbiamo già visto in
precedenza come l'autore sacro si sia servito nei suoi racconti di elementi
preesistenti modificandoli e rielaborandoli in base al significato che egli
voleva comunicare nel testo biblico. Questo, ad esempio, è avvenuto
nel racconto della disputa fra Caino e Abele, nella genealogia dei Cainiti
e nella genealogia dei Setiti, in cui sono stati utilizzati dei racconti
preesistenti che l'autore, dopo averli spogliati del loro significato originale
e mitico ha adattato al racconto biblico. Lo stesso è avvenuto per
i "figli di Dio
" che originariamente indicavano degli esseri divini, ma che l'autore ha
liberamente utilizzato per applicarlo al genere umano. A conferma di ciò
si veda anche la menzione dei "giganti" (v. 4) che nell'originale racconto
vengono indicati come il risultato del connubio fra gli esseri divini ed il
genere umano, mentre nel testo biblico sono menzionati incidentalmente come
apparsi in quell'occasione, e non soltanto in quell'occasione, ma
anche in seguito, quindi non direttamente legati al peccato del v. 1.
Chi possono essere dunque questi "figli
di Dio"? Nel libro deuterocanonico della
Sapienza 5, 5 i figli di Dio sono in parallelo con i giusti, e in questo
significato o in quello più generico di popolo eletto si trova più
volte nelle forme figli miei e figlio tuoi dove il pronome si riferisce a
Dio (Sl 73, 15; Is 1, 2; 30, 1-9; Gr 3, 14-19; Os 11, 1 ecc). L'espressione
analoga: "Voi siete Dei, siete tutti figli
dell'Altissimo" del Salmo 82, 6 indica i maggiorenti
del popolo in funzione di giudici. Questo passo viene ripreso da Gesù
stesso in Gv 10, 34 in difesa contro i Giudei che lo accusavano di bestemmia
in quanto secondo loro si era indebitamente appropriato del titolo di Figlio
di Dio.
I figli di Dio che ebbero delle relazioni con le figlie degli uomini
non possono essere degli angeli in quanto Gesù stesso afferma che
essi sono degli esseri essenzialmente spirituali come lo saranno gli uomini
dopo la resurrezione (Mt 22, 30).
L'autore del libro della Genesi vuole dunque designare con questa
espressione, presa in prestito dall'antica tradizione, la parte più
nobile dell'umanità, quella che costituiva il popolo eletto di
quei tempi, la porzione dell'umanità che meglio conosceva Dio e
che Dio particolarmente seguiva con la sua Provvidenza. Le figlie degli
uomini sono semplicemente le giovani donne. Ci si potrebbe chiedere a
questo punto in cosa consista veramente il peccato e la degenerazione
di queste unioni. Che male c'è se questi uomini eccelsi e giusti
si univano con delle donne? Non potevano essi esercitare liberamente il
loro diritto derivante dalla benedizione di Dio :
Crescete e moltiplicatevi? Evidentemente
l'autore ha qui scelto di proposito l'espressione "
figli di Dio" che in origine era riferita
a connubi contro natura (rapporti tra esseri divini e stirpe umana) per sottolineare
che questi rapporti non rientravano più nella norma dei rapporti tesi
alla procreazione, ma erano degenerati in rapporti ispirati da una concezione
totalmente edonistica del matrimonio, in cui l'alta idea della donna, quale
risultava da Ge 2, 23, era andata totalmente smarrita. Di conseguenza si ebbe
il dilagare della poligamia e forse la generalizzazione di rapporti instabili.
Se dunque persino i prediletti da Dio, oltre i Cainiti, erano arrivati
a tal punto di corruzione, ormai la misura era giunta al colmo, cioè
ad punto tale che nessuno della razza umana poteva salvarsi da questa progressiva
degenerazione. Fino a questo momento la malvagità dei Cainiti era
stata compensata dal comportamento giusto dei prediletti da Dio, i Setiti.
Ma ora anche costoro erano stati raggiunti e sopraffatti dal male. Questo
stato di cose viene mirabilmente riassunto dall'autore biblico nel versetto
5 dove l'amara constatazione di Jahvé ci offre uno squallido e desolante
quadro della situazione: " Ora Jahvé
vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che
tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in
ogni tempo". In questo quadro ormai non si
salva più nessuno. L'umanità ha raggiunto il punto più
fondo della sua corruzione. Questa corruzione non si limitava naturalmente
ad una degenerazione sessuale come ci viene prospettato all'inizio del brano
(v. 1), ma si estende a macchia d'olio su tutta la condotta degli uomini
implicando anche la prevaricazione e la violenza come ci informa l'autore
ai vv. 11-13.
In questo quadro decisamente negativo alla fine però compare
una luce di speranza. La lotta fra il seme del serpente ed il seme della
donna, che rimane pur sempre il filo conduttore dello svilupparsi degli
eventi, non si è definitivamente conclusa a favore del serpente
e la finale vittoria del bene sul male ha ancora una prospettiva reale
nella figura di Noé che "trovò
grazia agli occhi dell'Eterno" (v. 8).
Di fronte alla dilagante corruzione Dio pronuncia
il suo giudizio: l'uomo non è che carne. La carne nell'A.T. non è
mai considerata un male. Non dobbiamo quindi dare a questa espressione
il significato che a noi sembrerebbe ovvio: L'uomo si è lasciato
dominare dagli istinti carnali. In questo passo la "
carne" è da Dio contrapposta allo
" spirito". Senza
questo spirito l'uomo non è che polvere.
Insieme al giudizio Dio pronuncia anche la sentenza: Il mio spirito
non durerà per sempre nell'uomo.... i suoi giorni saranno quindi
centoventi anni. Siccome lo spirito di Dio (rûah) è quello
che rende vivo ogni essere vivente (Sl 104, 29 s.), si ha qui una condanna
a morte: L'uomo, cioè il genere umano, dovrà perire fra
centoventi anni. In questo contesto è fuori dubbio che tale termine
di scadenza si riferisca al Diluvio. Esso fu da molti inteso come un tempo
di misericordia, una dilazione per rendere possibile il ravvedimento.
Se si considerasse il brano di Ge 6, 1-4 come un frammento isolato dal
contesto, allora si potrebbe intendere che d'ora in poi la vita umana non
durerà più di centoventi anni. In confronto alla longevità
dei patriarchi, questo limite di età segnerebbe un'improvvisa decadenza
della stirpe umana. Così è stato interpretato da alcuni questo
passo. Tale interpretazione però è in contrasto con la lista
che troviamo successivamente in Gen. 11, 10-32 e neppure si accorderebbe
con la longevità di Abramo (175 anni , Ge 25, 7), di Isacco (180
anni, Ge 35, 28) e Giacobbe (147 anni, Ge 47, 28). Per quanti dicono che
in questo caso ci sarebbe stata un'eccezione per i discendenti degli eletti,
ricordiamo che non rientra nei limiti dei 120 anni neppure Ismaele (137
anni, Ge 25, 17)
L'ebraico Nefilim, di etimologia incerta, tradotto
dai LXX con giganti, si trova anche in Nm 13, 33 ed indica, in quel contesto,
una razza speciale di uomini di alta statura che abitavano nella terra
di Canaan. Lo stesso risulta da altri passi riferentesi sempre alla
stessa razza (Dt 1, 28; 2, 10-11; 9, 2). Abbiamo già visto che il
testo attuale evita di affermare che i giganti nacquero dalle unioni biasimate
nel v. 2. Di loro si affermano tre cose:
a) I giganti esistevano in quei tempi, quando i
figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini e queste generarono loro
dei figli. Molto probabilmente il testo, nella sua fase primitiva orale
o scritta, ma non ancora biblica, affermava che le donne dopo quelle unioni
partorirono i giganti. Ma non è senza motivo che ora il testo,
in sede biblica, è stato modificato.+
b) I giganti esistettero anche dopo di allora, quindi,
dato il contesto, anche dopo il diluvio. Si tratta senz'altro di una precisazione
dell'autore sacro, che da una parte allude alla tradizione di Nm 13, 33,
ma d'altra parte vuole ridimensionare quegli antichi esseri, togliendoli
dal mito per situarli in una storia ragionevole.
c) I giganti sono equiparati ai gibbôrîm,
cioè agli eroi forti nel combattimento, di cui vi sono tanti esempi
nella storia (Gs 1, 14; 8, 3; 1 Sm 17, 51; 2 Sm. 23, 8; 2 Re 24, 14; ecc).
Così viene ribadito il loro carattere umano e non mitologico. Inoltre
si precisa che sono uomini famosi del tempo antico; con ciò l'autore
allude a quegli eroi (come Ghilgamesh) che dalle leggende orientali sono
ritenuti semidivini o divinizzati, per affermare i loro limiti umani e
la loro impotenza di fronte all'imminente castigo divino. Tali appunto
si intendono le allusioni a questi giganti in Ez. 32, 27.
Il nome di Noé (Nöah) deriva forse
da una radice semitica (conservata in etiopico) significante protrarsi;
in tal modo Noé sarebbe un appellativo che nell'ambiente semitico
fu dato all'eroe del diluvio e significherebbe colui che ha prolungato
la sua esistenza e cioè il sopravvissuto al diluvio.
In Ge 6, 14-16 troviamo la descrizione dell'arca. Questo nome, che
si trova solo nel racconto del diluvio e in Es 2, 3.5 per indicare la cesta
galleggiante in cui fu esposto Mosé bambino, non esprime l'idea
di una nave, ma di una cassa. Si tratta di un galleggiante di legno resinoso
(legno di göfer, forse il cipresso o un'altra specie di conifera)
reso impermeabile dal bitume, sopraelevato in forma di edificio a tre piani:
inferiore , medio e superiore. Si fa menzione anche di una finestra e di
una porta sul fianco. Tenendo presente che un cubito corrisponde a 0,50
cm., le dimensioni dell'arca in metri sono: lunghezza 150 mt., larghezza
25 mt. e altezza mt. 15. Si notino le piccole proporzioni della larghezza
e dell'altezza rispetto alla lunghezza, il che corrisponde alle difficoltà
di coprire di travi una superficie troppo larga e di elevare l'edificio
più in su dell'altezza ordinaria dei tronchi di cipresso o di abete.
La contraddizione che appare in 6,19 e 7, 2, se non è dovuta
a due fonti diverse, si può spiegare osservando che in 6,19 dai
LXX e dalla Siriaca la parola indicante due è stata raddoppiata,
il che indica non due di ogni specie, ma a due a due, cioè animali
presi da ogni specie e a coppie. Il numero delle coppie sarebbe poi stato
precisato in 7, 2. Il numero maggiore delle coppie di animali puri è
richiesto da 8, 20, dove Noé offre un grande sacrificio prendendo
le vittime da tutti gli animali e da tutti gli uccelli puri, senza per questo
estinguerne la specie.
La versione della Vulgata in 8, 4 è esattissima: l'arca si
fermò sui monti dell'Armenia. L'ebraico Arärät non è
il nome di un monte, ma di una regione, che è appunto l'Armenia
(dal babilonese Urartu). L'identificazione di un preteso monte Ararat
con il Massis (oggi Aghri-Dagh, m. 5156) è postbiblica, e deriva
dal fatto che questo è il più alto monte della regione.