Alle genealogie dei figli di Noé appartiene
anche questo racconto della costruzione del-la torre e della città
di Babele. Con esso il redattore, ammiratore dell'ideale del Deserto, vuol
dimostrare che pure Dio, che aveva più volte comandato all'umanità
di "moltiplicarsi
", diffondersi e riempire la terra (Gen. 1, 28; 9, 1), aveva condannato
l'idea di un impero centralizzato intorno ad una città capitale all'ombra
di una torre gigantesca che servisse, con il suo nome, di richiamo "
per non essere dispersi su tutta la faccia della terra
" (v. 4).
Ge 11, 1-9 dunque vuol essere il giudizio punitore
di Dio contro il superbo piano dell'uomo di costituire un unico regno mondiale.
Esegesi della pericope
Applicando il metodo di eliminazione, come nel resto
del libro della Genesi, l'autore sacro in Ge 11, 1-9 sviluppa la storia
dei figli di Sem, avendo definitivamente eliminato i Jafiti ed i Camiti
in Gen. 10, 1-20. L'autore, infatti, ricollegandosi con Ge 10, 25 (in cui
a proposito di Peleg ci informa che fu chiamato così "
perché ai suoi giorni la terra fu divisa
"), vuole ora con il racconto della torre e della città di Babele
sviluppare il tema della"
divisione".
Certamente i nomadi Semiti dovettero rimanere impressionati
dagli imponenti monumenti della civiltà babilonese. Soltanto un'umanità
ancora unita poteva innalzare simili monumenti così maestosi. Guardando
la torre di Etemenanki, dilapidata e rovinata, essi non poterono fare
a meno di pensare ad un castigo divino contro la superbia e la dittatura
dei sedentari, traditori della vita nomade. Ed è appunto a nomadi,
traditori dell'ideale del deserto, che l'autore attribuisce la costruzione
della città e della torre di Babele.
I deboli Benê hã 'ãdãm,
benché uniti in un unico sentimento, nel loro vagabondare, spostandosi
verso Sud, si stabilirono nella pianura di Scinar, appartenente allora
all'Assiria, e decisero di "non essere dispersi
sulla faccia di tutta la terra" (v. 4 b).
Si vollero perciò urbanizzare accingendosi a fabbricare una città
con la torre. Divennero un grande popolo, unico, potente, capace di qualunque
impresa (v. 6). Di questo popolo il profeta Isaia dirà: "
Ecco il paese dei Caldei: questo popolo non esisteva neppure; l'Assiro
lo fondò per le bestie del deserto. Es-si hanno innalzato le loro
torri, hanno distrutto i palazzi di Tiro e l'hanno ridotto ad un cumolo
di rovine " (Is 23, 13). Sono dunque diventati
crudeli come gli altri sedentari assimilandosi fanaticamente ai nemici del
Deserto.
Non fabbricano più, come nel paese d'origine
e come nel paese dell'autore, con pietre e calce, ma, adattandosi all'uso
della terra di Cam, di Babilonia, con mattoni cotti e con bitume. Si esortano
con la stessa frase in uso fra i Babilonesi: "
Orsù facciamoci dei mattoni e cuociamoli col fuoco
" (v. 4 a), e come i Babilonesi si vogliono costruire una città
con la immancabile ziqqurat. In Mesopotamia infatti la costruzione di
una città implicava anche la costruzione di una torre, detta appunto
ziqqurat, e non poteva in alcun modo prescindere da essa. La cima di questa
torre, secondo l'intenzione dei costruttori, doveva giungere "
fino alla cima del cielo" (v. 4 a). Era
infatti un concetto teologico comune tra i Babilonesi che la ziqqurat
fosse un legame tra la terra ed il cielo. Questo concetto veniva evidenziato
dai nomi stessi dati a queste torri che venivano appunto chiamate come
la ziqqurat di Eninnu
" la luce che riempie il mondo del suo chiarore", "
la grande casa che svetta fino al cielo".
Oppure come la ziqqurat di Larsa "legame del
cielo e della terra ", o di Eridu "
fondamento del cielo e della terra", o addirittura
come quella di Babele"
la porta di Dio ". In questo modo quei
nomadi traditori avevano pensato di trasformare la terra di Scinar, terra
del maledetto Nimrod, in terra santa. Nello stesso tempo costruendo quella
città con quella torre, essi avevano creduto di essersi assicurato
un " nome "
eterno, una fama che nel corso dei secoli non sarebbe mai svanita. Nello
stesso tempo essi erano convinti che, costruendo quel monumento, avrebbero
neutralizzato la capacità centrifuga della benedizione divina. Essi
infatti si esortarono a vicenda dicendo: "
Orsù costruiamoci una città e una torre.... e facciamoci un
nome, per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra
" (v. 4). Era infatti convinzione comune tra i Babilonesi che la ziqqurat,
oltre che un talismano che santifica la città (attirando il cielo
sulla terra) è anche una bandiera, una specie di calamita che attrae
i vari popoli dell'Universo per formare un unico impero mondiale.
Per questo motivo i costruttori "
sono un solo popolo e hanno tutti la medesima lingua"
(v. 6; cfr v. 1). Anche questa frase prese in bocca ai semiti traditori,
il significato corrente fra i sedentari babilonesi.
Quando, per esempio, Sargon di Agade, il semita
traditore anche lui, "fece sedentaria
la società nomadica", e costituì
il primo impero mondiale, afferma di aver fatto dell'universo un sol labbro
(=una medesima lingua). Una cronaca babilonese dice la stessa cosa per
il suo undicesimo anno: "Egli attraverso il
Mare dell'Est e da se stesso egli conquistò il paese dell'Ovest,
per tutta la sua estensione, nell'undicesimo anno. Egli vi stabilì
un governo centrale (lett. egli fece il suo
labbro unico).Tiglat-Pileser I nei primi cinque
anni del suo regno dominò ben quarantadue popoli dallo Zab Inferior
e all'Eufrate, dal Hatti al Mare superiore, e tutti sottopose ad un unico
impero (Lett. un solo labbro li fece essere)
" .
Dunque la frase " un
solo labbro", "
una sola bocca", "
una sola parola", "
una medesima lingua" furono frasi idiomatiche
usate dai sedentari per esprimere non tanto l'uso di una
lingua propria comune quanto piuttosto l'unione politica, morale e religiosa
di vari popoli sotto un unico capo, in un'unica città capitale e
all'ombra di una sola ziqqurat.
L'autore sacro quindi, rivestendo la pericope della
città e della torre di babele, con un fraseggiare di indole locale,
comune ai Babilonesi, vuol dire che al tempo di Peleg, cioè alla
quinta generazione dopo il Diluvio, i Semiti dell'Oriente si sedentarizzarono
nella regione di Scinar, e costituirono un'unione politica, morale e religiosa,
con capitale Babele e all'ombra della sua ziqqurat.
Come si pone l'autore sacro di fronte a questo fatto
umanamente grandioso?
L'autore sacro, ammiratore dell'ideale del Deserto,
si colloca in un angolo visuale estremamente polemico.
I sedentari erano convinti che la Divinità, dinnanzi alla ziqqurat,
fosse obbligata a scendere per abitare con gli uomini. Questa discesa aveva
due tappe obbligatorie: a) prima il Dio doveva riposarsi nel santuario
superiore che incoronava la ziqqurat; b) poi doveva scendere per apparire
nel santuario basso che, di solito, si ergeva ai piedi, più o meno
distante dalla ziqqurat.
Questa duplice discesa era creduta ricca di benedizioni e di vita,
pegni sicuro di dominio universale per la città.
Lo scrittore invece assicura che la prima discesa di Jahvé
(v. 5) fu una constatazione della triste realtà: i deboli figli
degli uomini sono diventati un'unità politica, sono ormai capaci
di ogni impresa, nessuna forza al mondo potrà impedire il loro
disegno. La seconda discesa (v. 7) fu invece disastrosa: Dio confuse "
l a loro lingua, affinché l'uno non comprenda
più il parlare dell'altro ". La frase
" non comprendere più le labbra
di uno " è un espressione idiomatica
che in babilonese significa ribellarsi. Assurbanipal racconta "
Nella mia terza campagna io marciai contro Ba'il, re di Tiro, che vive
in mezzo al mare, perché egli non ascoltò più il mio
ordine regale, non volle più comprendere i comandi delle mie labbra
". Anche in ebraico le labbra che non si capiscono
denotano i barbari, gli stranieri, i nemici (Gr 5, 15; Dt 28, 49; Is 28,
11; 33, 19). Quindi non si trattò qui di una pura e semplice confusione
dei linguaggi, ma piuttosto di ribellioni, di inimicizie intestine, che
fecero cessare la costruzione della città e causarono la dispersione
degli uomini sulla faccia della terra.
Hammurabi, nell'epilogo del suo codice, aveva scritto:
"Se un tale uomo non avrà ascoltato
le mie parole...Enlil con la sua grave bocca comandi la distruzione della
sua città, la dispersione del suo popolo, la sottrazione del suo regno;
e il suo nome e la sua memoria non sussista nel suo paese
".
Dunque non ascoltare significa ribellarsi, e come
conseguenza comporta la distruzione della propria città e la dispersione
e la dimenticanza del proprio nome. E ciò perché, come assicura
Assurbanipal, distruggere lo ziqqurat equivale a portare prigioniero il
Dio protettore, il Dio che dispensa i destini: e un popolo senza il suo
protettore Divino come potrà resistere alla tendenza naturale all'anarchia
e alla dispersione?
Fu per questa ragione, commenta il nostro autore
di provenienza aramaica, che quella città funesta fu chiamata Babel:
in essa infatti Dio "confuse la lingua di
tutta la terra" (v. 9), cioè immise
lo spirito di ribellione, sicché gli uomini, in lotta fra loro,
si dispersero nel mondo.
Possiamo dunque concludere che Ge 11, 1-9 fu concepito
da un unico autore che polemizza contro la civiltà centralizzatrice
di Babilonia. Questo autore è uno jahvista per cui ama l'aneddoto,
di stile drammatico, l'etimologia popolare; è uno che parla l'aramaico,
sicché spiega Babele con la contrazione di Balbel, forma inesistente
in ebraico, ma comune in aramaico; è finalmente un palestinese,
infatti si meraviglia che gli abitanti di Scinar non costruiscano con pietre
e con calce (v. 3 b). E' però un conoscitore profondo dei costumi
dei Babilonesi, di cui tramanda l'indole locale, le frasi idiomatiche,
le credenza; è un fanatico assertore dell'ideale del Deserto. Costui,
come nota M. Cassuto, ha organizzato la pericope in due parti perfettamente
parallele fra loro e rispondentisi fra loro: a) 1-4 l'opera centralizzatrice
degli uomini; b) 5-9 il giudizio severo di Dio.
Non si può negare però che il fatto,
benché visto e giudicato da un palestinese, o almeno da un arameo,
che polemizza contro i fratelli considerati traditori (un arameo occidentale
contro i Caldei del Sud?), abbia avuto un'origine remota dalla Mesopotamia.
Ci si potrebbe anche chiedere se fosse anche originariamente così
unitario come compare nella nostra redazione occidentale o abbia invece
avuto una preistoria non unitaria.
Molti critici, sia protestanti che cattolici, sono
concordi nell'ammettere che la pericope di Ge 11, 1-9 si trova in un contesto
poco armonizzato.
1. Sarebbe in contraddizione con notizie già
date nelle varie pericopi precedenti, appartenenti alla stessa fonte J.
in Ge 4, 17 Caino costruisce la prima città
chiamandola con il nome del figlio Enok; qui Babel sembra essere anch'essa
la prima città.
In Ge 10, 6 Nimrod regna già in Babel,
mentre qui si dice che ne fu interrotta la fondazione.
Nella "Tavola delle Nazioni
" (10, 5. 20.31. 32) la dispersione dei popoli ha l'aria che si compia
naturalmente, qui invece (v. 9 b) pare che avvenga in seguito ad un castigo
divino a causa di una colpa collettiva.
Si ha perciò l'impressione che il redattore
Jahvista abbia raccolto delle tradizioni nate in ambienti diversi e che
le abbia riprodotte senza preoccuparsi di armonizzarle.
2. Ma la nostra pericope sarebbe
in contrasto specialmente con il cap. 10. Così affermano la maggior
parte degli esegeti che hanno considerato il fatto della città
e della torre come una differente spiegazione della diversità dei
popoli e della differenza delle lingue, di quella data dalla "
Tavola delle Nazioni". Inoltre pare che le due pericopi abbiano
un'origine diversa: mentre il cap. 10 è inquadrato nella storia
del " dopo diluvio"", 11, 1-9 pare unito con
i popoli primitivi che si trovano ancora in Oriente, cioè nella regione
del Paradiso terrestre (cfr Ge 2, 8).
3. Finalmente i critici trovano nello stesso racconto
della città e della torre di Babele la presenza di doppioni.
Nei vv. 5. 7 si parla di due discese del Signore
dal cielo alla terra, nel v. 5 per vedere e nel v. 7 per confondere.
Nel v. 6 Dio è già sulla terra
e ne ha già constatato le condizioni di vita, nel v. 7 deve ancora
lasciare la corte celeste con la quale parla esortandola a scendere assieme.
In alcuni vv. (4. 5) si parla di una città
e di una torre, poi nel v. 8 b si afferma che gli uomini, confusi, cessarono
di edificare la città, e si tace assolutamente della sorte della
torre.
Due sono i fini che i costruttori si sono prefissi:
farsi un nome e impedire la loro dispersione sulla terra (v. 4 b)
Due sono anche i castighi: la confusione della
lingua (vv. 7. 9 a) e la dispersione (vv. 8. 9 b).
A causa di queste constatazioni, alcuni autori hanno
parlato di due recensioni della stessa fonte J: la recensione fondamentale
che parlava della costruzione della città e la recensione della costruzione
della torre. Il Redattore finale le avrebbe armonizzate ritoccando qualche
versetto e tralasciando nella recensione secondaria della torre qualche
frase qua e là.
Il valore oggettivo di questa critica è però messo in
dubbio da alcuni. studiosi per i seguenti motivi:
1) Mentre in Ge 4, 17 si parla della fondazione della
prima città prediluviana in senso assoluto su tutta la terra, qui
si tratta della fondazione della capitale della regione di Scinar e, secondo
il contesto prossimo, di una città postdiluviana.
2) Nei riguardi della dispersione, mentre in Ge 10,
5. 20. 31. 32 si parla della dispersione voluta da Dio per tutta l'umanità,
in Ge 11, 9 b, si parla della dispersione soltanto degli uomini peccatori
della regione di Scinar.
3) Mentre in Ge 10, 1 ss. si parla veramente della
differenza delle lingue secondo le varie nazioni del mondo intero, in
Ge 11, 1 ss. si parla dell'unanimità di sentimento politico, civile
e religioso (Cfr. frase idiomatica "un solo labbro
").
4) La menzione della città e della torre era
richiesto dal fatto che in Babilonia città e ziqqurat erano due elementi
inscindibili fra loro.
5) Le due discese sono richieste dai concetti teologici
babilonesi nei riguardi delle due tappe obbligatorie della venuta del
Dio, nel santuario alto prima e nel santuario basso dopo.
6) I due fini sono strettamente legati l'uno all'altro.
Solo se i sedentari possono legare il loro nome con la ziqqurat avranno
la sicurezza di essere aggrappati ad essa.
7) Anche i castighi devono necessariamente essere
due. Gli uomini non possono essere dispersi finché non si confondono
le loro labbra, cioè finché essi non si mettono in lotta
fra loro.
Sicché se un autore qualunque avesse voluto parlare di una ziqqurat,
avrebbe dovuto necessariamente parlare anche della relativa città.
La sorte dell'una doveva necessariamente essere legata alla sorte dell'altra.
Erano due temi per forza paralleli. Difatti è la legge del parallelismo
A B che ci spiega in Ge 11, 1 ss., la presenza ora dell'uno ora dell'altro
tema.
Rimane qualche perplessità per il silenzio sulla sorte della
torre e sulla costruzione di Babele che è detta già esistente
nel regno di Nimrod. Alla prima si potrebbe rispondere che la corrispondente
frase ebraica non significa "una città e una
torre ", ma "una città con una torre
"; sicché distrutta una è sottinteso che lo sia anche l'altra.
Rimane il dubbio per quanto riguarda la costruzione della Babele con la
torre nei rapporti con la Babele di Nimrod. A meno che l'autore che ha unito
la divisione della terra (Ge 10, 25) con Peleg, che è il quinto anello
della genealogia di Sem, non lo consideri precedente a Nimrod che è
l'ultimo della genealogia di Cus.
Punto di congiunzione tra preistoria biblica e storia
della salvezza
Un'altra spiegazione potrebbe essere quella che l'autore
sacro ha scelto fra tante ziqqurat proprio quella di Babele che fu il simbolo
della città santa per eccellenza dei babilonesi e rimase per parecchio
tempo distrutta e incompleta, come ci informa Nabopolassar. Essa dunque
si prestava molto bene all'autore sacro come il tipo del castigo divino
e della decentralizzazione del potere umano.
La storia della costruzione della torre di Babele è la chiave
di volta della storia Jahvista. Ora dobbiamo riconsiderare brevemente la
strada che il nostro autore ci ha fatto percorrere. Questo esame è
tanto più importante, in quanto lo schema dello Jahvista ha dato l'impronta
alla stessa preistoria, quale risultò più tardi, combinandovi
insieme la redazione sacerdotale. Il narratore jahvista ha costruito una storia
dei rapporti di Dio con l'umanità fin dai suoi inizi, e questa storia
è per parte umana caratterizzata da una crescita vertiginosa del peccato.
Peccato dei primi uomini, Caino, Lamec, Figli di Dio, costruzione della torre,
altrettante tappe su quella strada che ha condotto l'uomo sempre più
lontano da Dio. Il succedersi di questi racconti denuncia un abisso che si
sta spalancando sempre più tra l'uomo e il Creatore. Ma Dio reagisce
a questo erompere del peccato con severi giudizi. Grave fu la punizione dei
primi uomini; più grave ancora quella di Caino; segue il diluvio e
alla fine la dispersione, la dissoluzione dell'unità della famiglia.
Così alla fine della preistoria sorge una grave domanda: quale sarà
d'ora innanzi l'atteggiamento di Dio verso l'umanità ribelle, ora
ridotta in frantumi? La catastrofe di Ge 11, 1-9 è definitiva?
Ma il narratore Jahvista, oltre alla serie dei castighi divini, parla
di qualcos'altro. Ai primi uomini, nonostante la minaccia in contrario (Ge
2, 17), era rimasta la vita. Dio li aveva persino rivestiti; così,
pur nell'afflizione del castigo, s'era manifestata immediatamente la provvida
e soccorritrice azione di Dio. Caino era stato maledetto da Dio, e il suo
rapporto con la terra era profondamente sconvolto, ma la storia terminava
sottolineando un misterioso atteggiamento di protezione da parte di Dio
nei suoi confronti. Egli si allontana dal volto di Jahvé, ma non
è abbandonato da lui, bensì vegliato e difeso contro i colpi
di un'umanità degenere. Nella storia del diluvio, alla fine, questa
volontà provvidente di Dio si rivela in maniera particolarmente chiara.
Dio ricomincia da capo con l'umanità. Abbiamo visto che questo era
quasi un cedere; in ogni caso Dio colloca l'uomo, nonostante la sua insanabile
corruzione (Ge 8, 21), in modo rinnovato e solennemente garantito nella
stabilità dei suoi ritmi naturali. Ogni volta quindi, già
nella preistoria, si manifesta da parte di Dio nel castigo e dietro il castigo,
una volontà salvifica che protegge e perdona; e con il crescere del
peccato, diventa anche più potente la grazia (Rm 5, 20). Tutto ciò
non è naturalmente formulato con concetti teologici; invano cerchiamo
termini come " salvezza", "
grazia ", " perdono"; vengono solo narrati
dei fatti, che le parole della pazienza divina hanno determinato.
Siamo dunque di fronte ad una storia di Dio con gli uomini che è
storia di una sempre rinnovata punizione, e insieme di una protezione di
grazia; storia di una via caratterizzata da crescenti castighi di Dio, ma
che senza l'aiuto continuo di Dio non avrebbe mai potuto essere percorsa dall'uomo.
In un punto però manca questa consolante assistenza, quella misteriosa
volontà di grazia da parte di Dio non si rivela: è alla fine
della preistoria che: La storia della costruzione della torre termina con
un giudizio inesorabile di Dio sull'umanità. Così l'intera preistoria
sembra chiudersi con una stridente dissonanza, e la domanda già formulata
si ripropone ancora più insistentemente: il rapporto di Dio con i
popoli è ora definitivamente infranto? La gratuita pazienza di Dio
è ormai esaurita? Ha egli per sempre, nella sua ira, ripudiato i popoli?
Ecco la grave domanda che si impone ad un attento lettore del cap. 11. Si
può dire che il nostro autore, mediante l'intera orditura della sua
preistoria, miri proprio a porre questa questione e a farla emergere in tutta
la sua portata. Solo allora il lettore può essere preparato ad accogliere
la straordinaria novità che fa seguito alla desolante storia della
costruzione delle torre, cioè l'elezione e la promessa di benedizione
rivolta ad Abramo. Ci troviamo, quindi, nel punto in cui preistoria
e storia della salvezza si incastrano l'una nell'altra, e perciò in
uno dei passi più importanti di tutto l'A. T.. La preistoria aveva
mostrato una crescente scompaginatura del rapporto fra l'umanità e
Dio ed era sfociata in una condanna emessa da Dio sui popoli. Il problema
della loro universale salvezza rimane così aperto, e neppure nella
preistoria può trovare una risposta.
Il nostro autore però una risposta la dà, e precisamente
nel punto in cui si inserisce e prende inizio la storia della salvezza.
Qui, nella promessa rivolta ad Abramo, si parla nuovamente della volontà
salvifica divina, e proprio di una salvezza che supera i confini del popolo
dell'alleanza, per raggiungere "tutte le famiglie
della terra " (Ge 12, 3). Il passaggio dalla preistoria alla storia
della salvezza avviene in 12, 1-3 improvviso e sorprendente. D'un colpo
la prospettiva universale si restringe, il mondo e l'umanità, tutta
la vasta ecumene scompaiono e l'interesse si concentra su un solo uomo.
Prima si aveva l'umano in genere, la creazione e la natura dell'uomo, la
donna, il peccato, il dolore, l'umanità, i popoli: soltanto temi
universali; in 12, 1 avviene una svolta e si introduce il particolarismo
dell'elezione. Di mezzo a tutti i popoli, Dio sceglie un uomo, lo libera
dai suoi vincoli ancestrali e lo fa capostipite di un nuovo popolo e destinatario
di grandi promesse di salvezza. Ma ciò che viene promesso ad Abramo
andrà molto al di là di Israele; ha un significato universale,
per tutte le stirpi della terra. In tal modo trova risposta quella difficile
questione sul rapporto di Dio con i popoli; e la trova là dove meno
ci si aspettava. All'inizio di una via che introduce un rapporto marcatamente
esclusivo, c'è già una parola che riguarda la fine di questa
stessa via; abbiano cioè un accenno all'estensione finale, a tutti
gli uomini, della salvezza promessa ad Abramo. E' il caso di dire che non
fu certamente la carne ed il sangue ad ispirare questa visione che supera
Israele e il suo rapporto di salvezza con Dio. In questo stretto aggancio
fra preistoria e storia della salvezza lo Jahvista accenna in certo modo
al significato e allo scopo ultimo del rapporto di salvezza che Dio ha offerto
a Israele. Pertanto non è del tutto esatto veder conclusa la preistoria
al cap. 11 perché le verrebbe dato un valore troppo indipendente ed
isolato. La sua conclusione si trova, piuttosto, in Ge 12, 1-3; anzi c'è
qui la sua stessa chiave. Infatti, solo partendo da qui questo preambolo
universalistico della storia della salvezza, qual'è la preistoria,
diventa comprensibile nel suo significato teologico.
E' meraviglioso vedere come lo Jahvista, coordinando un numero relativamente
piccolo di narrazioni di genere molto diverso, sia riuscito a marcare dal
punto di vista tematico, con dei segnavia così plastici, un tratto
di strada percorsa dall'umanità. Questa visione della preistoria
umana non va tuttavia attribuita direttamente allo Jahvista, come finora
si è ammesso: Lo schema: creazione - epoca primordiale - diluvio -
fondazione nuova della storia dell'uomo è già documentata in
testi sumerici, cioè dell'antica Mesopotamia. Non sappiamo come e
attraverso quali intermediari questa dottrina che al più tardi intorno
al 2000 doveva già essere fissata, abbia potuto arrivare in Israele
e a conoscenza dello Jahvista. Comunque in Israele essa ricevette un'accentuazione
teologica completamente nuova. L'antico abbozzo non conosceva affatto il
peccato dei primi progenitori, del fratricidio e della costruzione della
torre. D'altra parte oggi si interpreta meglio la pericope inserita in Gen.
8, 21 s. poiché la fine della storia del diluvio segnava l'inizio
della storia dell'umanità e questo continua a valere anche per la
preistoria Jahvista. Solo che quella storia che interessa allo Jahvista non
comincia con la storia dell'umanità, ma con un avvenimento che succede
all'interno di tale storia, ed è la vocazione di Abramo.
L'aggancio genealogico formale della preistoria (Sem) con l'iniziatore
della storia della salvezza (Abramo) ci è stata conservata solo
nella redazione sacerdotale (Ge 11, 10-27). Probabilmente anche lo Jahvista
tracciò una linea di congiunzione tra la tavola dei popoli e Terah-Abramo;
forse era molto concisa, e siccome di fatto doveva strettamente armonizzarsi
con i nomi della genealogia sacerdotale, il redattore finale dette la precedenza
alla tavola dei Semiti di P, formalmente più sviluppata. Il filo
della narrazione Jahvista ricompare nuovamente in Ge 11, 28-30.