GENESI - LA PREISTORIA BIBLICA (Ge 4,1 - 11, 26)

LA TORRE E LA CITTA' DI BABELE (Ge 11, 1-9)
INDICE
Introduzione
Esegesi della pericope
Critica delle fonti
Punto di congiunzione tra preistoria biblica e storia della salvezza

Introduzione

Alle genealogie dei figli di Noé appartiene anche questo racconto della costruzione del-la torre e della città di Babele. Con esso il redattore, ammiratore dell'ideale del Deserto, vuol dimostrare che pure Dio, che aveva più volte comandato all'umanità di "moltiplicarsi ", diffondersi e riempire la terra (Gen. 1, 28; 9, 1), aveva condannato l'idea di un impero centralizzato intorno ad una città capitale all'ombra di una torre gigantesca che servisse, con il suo nome, di richiamo " per non essere dispersi su tutta la faccia della terra " (v. 4).

Ge 11, 1-9 dunque vuol essere il giudizio punitore di Dio contro il superbo piano dell'uomo di costituire un unico regno mondiale.

Esegesi della pericope

Applicando il metodo di eliminazione, come nel resto del libro della Genesi, l'autore sacro in Ge 11, 1-9 sviluppa la storia dei figli di Sem, avendo definitivamente eliminato i Jafiti ed i Camiti in Gen. 10, 1-20. L'autore, infatti, ricollegandosi con Ge 10, 25 (in cui a proposito di Peleg ci informa che fu chiamato così " perché ai suoi giorni la terra fu divisa "), vuole ora con il racconto della torre e della città di Babele sviluppare il tema della" divisione".

Certamente i nomadi Semiti dovettero rimanere impressionati dagli imponenti monumenti della civiltà babilonese. Soltanto un'umanità ancora unita poteva innalzare simili monumenti così maestosi. Guardando la torre di Etemenanki, dilapidata e rovinata, essi non poterono fare a meno di pensare ad un castigo divino contro la superbia e la dittatura dei sedentari, traditori della vita nomade. Ed è appunto a nomadi, traditori dell'ideale del deserto, che l'autore attribuisce la costruzione della città e della torre di Babele.

I deboli Benê hã 'ãdãm, benché uniti in un unico sentimento, nel loro vagabondare, spostandosi verso Sud, si stabilirono nella pianura di Scinar, appartenente allora all'Assiria, e decisero di "non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra" (v. 4 b). Si vollero perciò urbanizzare accingendosi a fabbricare una città con la torre. Divennero un grande popolo, unico, potente, capace di qualunque impresa (v. 6). Di questo popolo il profeta Isaia dirà: " Ecco il paese dei Caldei: questo popolo non esisteva neppure; l'Assiro lo fondò per le bestie del deserto. Es-si hanno innalzato le loro torri, hanno distrutto i palazzi di Tiro e l'hanno ridotto ad un cumolo di rovine " (Is 23, 13). Sono dunque diventati crudeli come gli altri sedentari assimilandosi fanaticamente ai nemici del Deserto.

Non fabbricano più, come nel paese d'origine e come nel paese dell'autore, con pietre e calce, ma, adattandosi all'uso della terra di Cam, di Babilonia, con mattoni cotti e con bitume. Si esortano con la stessa frase in uso fra i Babilonesi: " Orsù facciamoci dei mattoni e cuociamoli col fuoco " (v. 4 a), e come i Babilonesi si vogliono costruire una città con la immancabile ziqqurat. In Mesopotamia infatti la costruzione di una città implicava anche la costruzione di una torre, detta appunto ziqqurat, e non poteva in alcun modo prescindere da essa. La cima di questa torre, secondo l'intenzione dei costruttori, doveva giungere " fino alla cima del cielo" (v. 4 a). Era infatti un concetto teologico comune tra i Babilonesi che la ziqqurat fosse un legame tra la terra ed il cielo. Questo concetto veniva evidenziato dai nomi stessi dati a queste torri che venivano appunto chiamate come la ziqqurat di Eninnu " la luce che riempie il mondo del suo chiarore", " la grande casa che svetta fino al cielo". Oppure come la ziqqurat di Larsa "legame del cielo e della terra ", o di Eridu " fondamento del cielo e della terra", o addirittura come quella di Babele" la porta di Dio ". In questo modo quei nomadi traditori avevano pensato di trasformare la terra di Scinar, terra del maledetto Nimrod, in terra santa. Nello stesso tempo costruendo quella città con quella torre, essi avevano creduto di essersi assicurato un " nome " eterno, una fama che nel corso dei secoli non sarebbe mai svanita. Nello stesso tempo essi erano convinti che, costruendo quel monumento, avrebbero neutralizzato la capacità centrifuga della benedizione divina. Essi infatti si esortarono a vicenda dicendo: " Orsù costruiamoci una città e una torre.... e facciamoci un nome, per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra " (v. 4). Era infatti convinzione comune tra i Babilonesi che la ziqqurat, oltre che un talismano che santifica la città (attirando il cielo sulla terra) è anche una bandiera, una specie di calamita che attrae i vari popoli dell'Universo per formare un unico impero mondiale.

Per questo motivo i costruttori " sono un solo popolo  e hanno tutti la medesima lingua" (v. 6; cfr v. 1). Anche questa frase prese in bocca ai semiti traditori, il significato corrente fra i sedentari babilonesi.

Quando, per esempio, Sargon di Agade, il semita traditore anche lui,  "fece sedentaria la società nomadica", e costituì il primo impero mondiale, afferma di aver fatto dell'universo un sol labbro (=una medesima lingua). Una cronaca babilonese dice la stessa cosa per il suo undicesimo anno: "Egli attraverso il Mare dell'Est e da se stesso egli conquistò il paese dell'Ovest, per tutta la sua estensione, nell'undicesimo anno. Egli vi stabilì un governo centrale (lett. egli fece il suo labbro unico).Tiglat-Pileser I nei primi cinque anni del suo regno dominò ben quarantadue popoli dallo Zab Inferior e all'Eufrate, dal Hatti al Mare superiore, e tutti sottopose ad un unico impero (Lett. un solo labbro li fece essere) " .

Dunque la frase " un solo labbro", " una sola bocca", " una sola parola", " una medesima lingua" furono frasi idiomatiche usate dai sedentari per esprimere non tanto l'uso di una lingua propria comune quanto piuttosto l'unione politica, morale e religiosa di vari popoli sotto un unico capo, in un'unica città capitale e all'ombra di una sola ziqqurat.

L'autore sacro quindi, rivestendo la pericope della città e della torre di babele, con un fraseggiare di indole locale, comune ai Babilonesi, vuol dire che al tempo di Peleg, cioè alla quinta generazione dopo il Diluvio, i Semiti dell'Oriente si sedentarizzarono nella regione di Scinar, e costituirono un'unione politica, morale e religiosa, con capitale Babele e all'ombra della sua ziqqurat.

Come si pone l'autore sacro di fronte a questo fatto umanamente grandioso?

L'autore sacro, ammiratore dell'ideale del Deserto, si colloca in un angolo visuale estremamente polemico.
I sedentari erano convinti che la Divinità, dinnanzi alla ziqqurat, fosse obbligata a scendere per abitare con gli uomini. Questa discesa aveva due tappe obbligatorie: a) prima il Dio doveva riposarsi nel santuario superiore che incoronava la ziqqurat; b) poi doveva scendere per apparire nel santuario basso che, di solito, si ergeva ai piedi, più o meno distante dalla ziqqurat.

Questa duplice discesa era creduta ricca di benedizioni e di vita, pegni sicuro di dominio universale per la città.
Lo scrittore invece assicura che la prima discesa di Jahvé (v. 5) fu una constatazione della triste realtà: i deboli figli degli uomini sono diventati un'unità politica, sono ormai capaci di ogni impresa, nessuna forza al mondo potrà impedire il loro disegno. La seconda discesa (v. 7) fu invece disastrosa: Dio confuse "
l a loro lingua, affinché l'uno non comprenda più il parlare dell'altro ". La frase " non comprendere più le labbra di uno " è un espressione idiomatica che in babilonese significa ribellarsi. Assurbanipal racconta " Nella mia terza campagna io marciai contro Ba'il, re di Tiro, che vive in mezzo al mare, perché egli non ascoltò più il mio ordine regale, non volle più comprendere i comandi delle mie labbra ". Anche in ebraico le labbra che non si capiscono denotano i barbari, gli stranieri, i nemici (Gr 5, 15; Dt 28, 49; Is 28, 11; 33, 19). Quindi non si trattò qui di una pura e semplice confusione dei linguaggi, ma piuttosto di ribellioni, di inimicizie intestine, che fecero cessare la costruzione della città e causarono la dispersione degli uomini sulla faccia della terra.

Hammurabi, nell'epilogo del suo codice, aveva scritto: "Se un tale uomo non avrà ascoltato le mie parole...Enlil con la sua grave bocca comandi la distruzione della sua città, la dispersione del suo popolo, la sottrazione del suo regno; e il suo nome e la sua memoria non sussista nel suo paese ".

Dunque non ascoltare significa ribellarsi, e come conseguenza comporta la distruzione della propria città e la dispersione e la dimenticanza del proprio nome. E ciò perché, come assicura Assurbanipal, distruggere lo ziqqurat equivale a portare prigioniero il Dio protettore, il Dio che dispensa i destini: e un popolo senza il suo protettore Divino come potrà resistere alla tendenza naturale all'anarchia e alla dispersione?

Fu per questa ragione, commenta il nostro autore di provenienza aramaica, che quella città funesta fu chiamata Babel: in essa infatti Dio "confuse la lingua di tutta la terra" (v. 9), cioè immise lo spirito di ribellione, sicché gli uomini, in lotta fra loro, si dispersero nel mondo.

Possiamo dunque concludere che Ge 11, 1-9 fu concepito da un unico autore che polemizza contro la civiltà centralizzatrice di Babilonia. Questo autore è uno jahvista per cui ama l'aneddoto, di stile drammatico, l'etimologia popolare; è uno che parla l'aramaico, sicché spiega Babele con la contrazione di Balbel, forma inesistente in ebraico, ma comune in aramaico; è finalmente un palestinese, infatti si meraviglia che gli abitanti di Scinar non costruiscano con pietre e con calce (v. 3 b). E' però un conoscitore profondo dei costumi dei Babilonesi, di cui tramanda l'indole locale, le frasi idiomatiche, le credenza; è un fanatico assertore dell'ideale del Deserto. Costui, come nota M. Cassuto, ha organizzato la pericope in due parti perfettamente parallele fra loro e rispondentisi fra loro: a) 1-4 l'opera centralizzatrice degli uomini; b) 5-9 il giudizio severo di Dio.

Non si può negare però che il fatto, benché visto e giudicato da un palestinese, o almeno da un arameo, che polemizza contro i fratelli considerati traditori (un arameo occidentale contro i Caldei del Sud?), abbia avuto un'origine remota dalla Mesopotamia. Ci si potrebbe anche chiedere se fosse anche originariamente così unitario come compare nella nostra redazione occidentale o abbia invece avuto una preistoria non unitaria.

torna all'indice
Critica delle fonti

Molti critici, sia protestanti che cattolici, sono concordi nell'ammettere che la pericope di Ge 11, 1-9 si trova in un contesto poco armonizzato.

1.    Sarebbe in contraddizione con notizie già date nelle varie pericopi precedenti, appartenenti alla stessa fonte J.
2.    Ma la nostra pericope sarebbe in contrasto specialmente con il cap. 10. Così affermano la maggior parte degli esegeti che hanno considerato il fatto della città e della torre come una differente spiegazione della diversità dei popoli e della differenza delle lingue, di quella data dalla " Tavola delle Nazioni". Inoltre pare che le due pericopi abbiano un'origine diversa: mentre il cap. 10 è inquadrato nella storia del " dopo diluvio"", 11, 1-9 pare unito con i popoli primitivi che si trovano ancora in Oriente, cioè nella regione del Paradiso terrestre (cfr Ge 2, 8).
3.    Finalmente i critici trovano nello stesso racconto della città e della torre di Babele la presenza di doppioni.

A causa di queste constatazioni, alcuni autori hanno parlato di due recensioni della stessa fonte J: la recensione fondamentale che parlava della costruzione della città e la recensione della costruzione della torre. Il Redattore finale le avrebbe armonizzate ritoccando qualche versetto e tralasciando nella recensione secondaria della torre qualche frase qua e là.

Il valore oggettivo di questa critica è però messo in dubbio da alcuni. studiosi per i seguenti motivi:

1)    Mentre in Ge 4, 17 si parla della fondazione della prima città prediluviana in senso assoluto su tutta la terra, qui si tratta della fondazione della capitale della regione di Scinar e, secondo il contesto prossimo, di una città postdiluviana.

2)    Nei riguardi della dispersione, mentre in Ge 10, 5. 20. 31. 32 si parla della dispersione voluta da Dio per tutta l'umanità, in Ge 11, 9 b, si parla della dispersione soltanto degli uomini peccatori della regione di Scinar.

3)    Mentre in Ge 10, 1 ss. si parla veramente della differenza delle lingue secondo le varie nazioni del mondo intero, in Ge 11, 1 ss. si parla dell'unanimità di sentimento politico, civile e religioso (Cfr. frase idiomatica "un solo labbro ").

4)    La menzione della città e della torre era richiesto dal fatto che in Babilonia città e ziqqurat erano due elementi inscindibili fra loro.

5)    Le due discese sono richieste dai concetti teologici babilonesi nei riguardi delle due tappe obbligatorie della venuta del Dio, nel santuario alto prima e nel santuario basso dopo.

6)    I due fini sono strettamente legati l'uno all'altro. Solo se i sedentari possono legare il loro nome con la ziqqurat avranno la sicurezza di essere aggrappati ad essa.

7)    Anche i castighi devono necessariamente essere due. Gli uomini non possono essere dispersi finché non si confondono le loro labbra, cioè finché essi non si mettono in lotta fra loro.

Sicché se un autore qualunque avesse voluto parlare di una ziqqurat, avrebbe dovuto necessariamente parlare anche della relativa città. La sorte dell'una doveva necessariamente essere legata alla sorte dell'altra. Erano due temi per forza paralleli. Difatti è la legge del parallelismo A B che ci spiega in Ge 11, 1 ss., la presenza ora dell'uno ora dell'altro tema.

Rimane qualche perplessità per il silenzio sulla sorte della torre e sulla costruzione di Babele che è detta già esistente nel regno di Nimrod. Alla prima si potrebbe rispondere che la corrispondente frase ebraica non significa "una città e una torre ", ma "una città con una torre "; sicché distrutta una è sottinteso che lo sia anche l'altra. Rimane il dubbio per quanto riguarda la costruzione della Babele con la torre nei rapporti con la Babele di Nimrod. A meno che l'autore che ha unito la divisione della terra (Ge 10, 25) con Peleg, che è il quinto anello della genealogia di Sem, non lo consideri precedente a Nimrod che è l'ultimo della genealogia di Cus.
torna all'indice
Punto di congiunzione tra preistoria biblica e storia della salvezza

Un'altra spiegazione potrebbe essere quella che l'autore sacro ha scelto fra tante ziqqurat proprio quella di Babele che fu il simbolo della città santa per eccellenza dei babilonesi e rimase per parecchio tempo distrutta e incompleta, come ci informa Nabopolassar. Essa dunque si prestava molto bene all'autore sacro come il tipo del castigo divino e della decentralizzazione del potere umano.

La storia della costruzione della torre di Babele è la chiave di volta della storia Jahvista. Ora dobbiamo riconsiderare brevemente la strada che il nostro autore ci ha fatto percorrere. Questo esame è tanto più importante, in quanto lo schema dello Jahvista ha dato l'impronta alla stessa preistoria, quale risultò più tardi, combinandovi insieme la redazione sacerdotale. Il narratore jahvista ha costruito una storia dei rapporti di Dio con l'umanità fin dai suoi inizi, e questa storia è per parte umana caratterizzata da una crescita vertiginosa del peccato. Peccato dei primi uomini, Caino, Lamec, Figli di Dio, costruzione della torre, altrettante tappe su quella strada che ha condotto l'uomo sempre più lontano da Dio. Il succedersi di questi racconti denuncia un abisso che si sta spalancando sempre più tra l'uomo e il Creatore. Ma Dio reagisce a questo erompere del peccato con severi giudizi. Grave fu la punizione dei primi uomini; più grave ancora quella di Caino; segue il diluvio e alla fine la dispersione, la dissoluzione dell'unità della famiglia. Così alla fine della preistoria sorge una grave domanda: quale sarà d'ora innanzi l'atteggiamento di Dio verso l'umanità ribelle, ora ridotta in frantumi? La catastrofe di Ge 11, 1-9 è definitiva?

Ma il narratore Jahvista, oltre alla serie dei castighi divini, parla di qualcos'altro. Ai primi uomini, nonostante la minaccia in contrario (Ge 2, 17), era rimasta la vita. Dio li aveva persino rivestiti; così, pur nell'afflizione del castigo, s'era manifestata immediatamente la provvida e soccorritrice azione di Dio. Caino era stato maledetto da Dio, e il suo rapporto con la terra era profondamente sconvolto, ma la storia terminava sottolineando un misterioso atteggiamento di protezione da parte di Dio nei suoi confronti. Egli si allontana dal volto di Jahvé, ma non è abbandonato da lui, bensì vegliato e difeso contro i colpi di un'umanità degenere. Nella storia del diluvio, alla fine, questa volontà provvidente di Dio si rivela in maniera particolarmente chiara. Dio ricomincia da capo con l'umanità. Abbiamo visto che questo era quasi un cedere; in ogni caso Dio colloca l'uomo, nonostante la sua insanabile corruzione (Ge 8, 21), in modo rinnovato e solennemente garantito nella stabilità dei suoi ritmi naturali. Ogni volta quindi, già nella preistoria, si manifesta da parte di Dio nel castigo e dietro il castigo, una volontà salvifica che protegge e perdona; e con il crescere del peccato, diventa anche più potente la grazia (Rm 5, 20). Tutto ciò non è naturalmente formulato con concetti teologici; invano cerchiamo termini come " salvezza", " grazia ", " perdono"; vengono solo narrati dei fatti, che le parole della pazienza divina hanno determinato.

Siamo dunque di fronte ad una storia di Dio con gli uomini che è storia di una sempre rinnovata punizione, e insieme di una protezione di grazia; storia di una via caratterizzata da crescenti castighi di Dio, ma che senza l'aiuto continuo di Dio non avrebbe mai potuto essere percorsa dall'uomo. In un punto però manca questa consolante assistenza, quella misteriosa volontà di grazia da parte di Dio non si rivela: è alla fine della preistoria che: La storia della costruzione della torre termina con un giudizio inesorabile di Dio sull'umanità. Così l'intera preistoria sembra chiudersi con una stridente dissonanza, e la domanda già formulata si ripropone ancora più insistentemente: il rapporto di Dio con i popoli è ora definitivamente infranto? La gratuita pazienza di Dio è ormai esaurita? Ha egli per sempre, nella sua ira, ripudiato i popoli? Ecco la grave domanda che si impone ad un attento lettore del cap. 11. Si può dire che il nostro autore, mediante l'intera orditura della sua preistoria, miri proprio a porre questa questione e a farla emergere in tutta la sua portata. Solo allora il lettore può essere preparato ad accogliere la straordinaria novità che fa seguito alla desolante storia della costruzione delle torre, cioè l'elezione e la promessa di benedizione rivolta ad Abramo. Ci troviamo, quindi,  nel punto in cui preistoria e storia della salvezza si incastrano l'una nell'altra, e perciò in uno dei passi più importanti di tutto l'A. T.. La preistoria aveva mostrato una crescente scompaginatura del rapporto fra l'umanità e Dio ed era sfociata in una condanna emessa da Dio sui popoli. Il problema della loro universale salvezza rimane così aperto, e neppure nella preistoria può trovare una risposta.

Il nostro autore però una risposta la dà, e precisamente nel punto in cui si inserisce e prende inizio la storia della salvezza. Qui, nella promessa rivolta ad Abramo, si parla nuovamente della volontà salvifica divina, e proprio di una salvezza che supera i confini del popolo dell'alleanza, per raggiungere "tutte le famiglie della terra " (Ge 12, 3). Il passaggio dalla preistoria alla storia della salvezza avviene in 12, 1-3 improvviso e sorprendente. D'un colpo la prospettiva universale si restringe, il mondo e l'umanità, tutta la vasta ecumene scompaiono e l'interesse si concentra su un solo uomo. Prima si aveva l'umano in genere, la creazione e la natura dell'uomo, la donna, il peccato, il dolore, l'umanità, i popoli: soltanto temi universali; in 12, 1 avviene una svolta e si introduce il particolarismo dell'elezione. Di mezzo a tutti i popoli, Dio sceglie un uomo, lo libera dai suoi vincoli ancestrali e lo fa capostipite di un nuovo popolo e destinatario di grandi promesse di salvezza. Ma ciò che viene promesso ad Abramo andrà molto al di là di Israele; ha un significato universale, per tutte le stirpi della terra. In tal modo trova risposta quella difficile questione sul rapporto di Dio con i popoli; e la trova là dove meno ci si aspettava. All'inizio di una via che introduce un rapporto marcatamente esclusivo, c'è già una parola che riguarda la fine di questa stessa via; abbiano cioè un accenno all'estensione finale, a tutti gli uomini, della salvezza promessa ad Abramo. E' il caso di dire che non fu certamente la carne ed il sangue ad ispirare questa visione che supera Israele e il suo rapporto di salvezza con Dio. In questo stretto aggancio fra preistoria e storia della salvezza lo Jahvista accenna in certo modo al significato e allo scopo ultimo del rapporto di salvezza che Dio ha offerto a Israele. Pertanto non è del tutto esatto veder conclusa la preistoria al cap. 11 perché le verrebbe dato un valore troppo indipendente ed isolato. La sua conclusione si trova, piuttosto, in Ge 12, 1-3; anzi c'è qui la sua stessa chiave. Infatti, solo partendo da qui questo preambolo universalistico della storia della salvezza, qual'è la preistoria, diventa comprensibile nel suo significato teologico.

E' meraviglioso vedere come lo Jahvista, coordinando un numero relativamente piccolo di narrazioni di genere molto diverso, sia riuscito a marcare dal punto di vista tematico, con dei segnavia così plastici, un tratto di strada percorsa dall'umanità. Questa visione della preistoria umana non va tuttavia attribuita direttamente allo Jahvista, come finora si è ammesso: Lo schema: creazione - epoca primordiale - diluvio - fondazione nuova della storia dell'uomo è già documentata in testi sumerici, cioè dell'antica Mesopotamia. Non sappiamo come e attraverso quali intermediari questa dottrina che al più tardi intorno al 2000 doveva già essere fissata, abbia potuto arrivare in Israele e a conoscenza dello Jahvista. Comunque in Israele essa ricevette un'accentuazione teologica completamente nuova. L'antico abbozzo non conosceva affatto il peccato dei primi progenitori, del fratricidio e della costruzione della torre. D'altra parte oggi si interpreta meglio la pericope inserita in Gen. 8, 21 s. poiché la fine della storia del diluvio segnava l'inizio della storia dell'umanità e questo continua a valere anche per la preistoria Jahvista. Solo che quella storia che interessa allo Jahvista non comincia con la storia dell'umanità, ma con un avvenimento che succede all'interno di tale storia, ed è la vocazione di Abramo.

L'aggancio genealogico formale della preistoria (Sem) con l'iniziatore della storia della salvezza (Abramo) ci è stata conservata solo nella redazione sacerdotale (Ge 11, 10-27). Probabilmente anche lo Jahvista tracciò una linea di congiunzione tra la tavola dei popoli e Terah-Abramo; forse era molto concisa, e siccome di fatto doveva strettamente armonizzarsi con i nomi della genealogia sacerdotale, il redattore finale dette la precedenza alla tavola dei Semiti di P, formalmente più sviluppata. Il filo della narrazione Jahvista ricompare nuovamente in Ge 11, 28-30.
torna allindice