I VANGELI DELL'INFANZIA
IL VANGELO DELL’INFANZIA SECONDO MATTEO
(aspetti introduttivi)

1. Prospettiva teologica del Vangelo di Matteo

Il vangelo dell’infanzia di Matteo è formato chiaramente da un prologo o introduzione costituita dalla genealogia (Mt 1, 1-17) e da cinque episodi strettamente collegati tra loro e commentati ciascuno da una profezia messianica dell’Antico Testamento: l’annuncio a Giuseppe (Mt 1, 18-25), la visita dei magi (Mt 2, 1-12), la fuga in Egitto (Mt 2, 13-15), la strage dei bambini di Betlemme (Mt 2, 16-18) e il ritorno nella terra di Israele (Mt 2, 19-23).

Dal punto di vista formale siamo in presenza di un dittico (2 stichi). Nel primo stico di questo dittico abbiamo la carta di identità umana di Gesù costituita dalla genealogia e la carta di identità divina costituita dall’annuncio a Giuseppe. Nel secondo stico ci sono quattro quadri, tra loro collegati, che richiamano ciascuno l’attuazione di una profezia messianica. Con questi stichi, riportati nei primi due capitoli del Vangelo, Matteo si propone di presentarci Gesù: chi era, da dove veniva ed a quale missione egli era destinato.

Per comprendere bene questo vangelo dell’infanzia è necessario collocarlo nel contesto più ampio di tutto il Vangelo di Matteo di cui questi primi due capitoli costituiscono in un certo senso la prefazione.

Comunità giudeo-cristiana perseguitata

Il vangelo di Matteo fu scritto per una comunità consapevole che Gesù, risorgendo, non si è allontanato dalla sua chiesa, ma che invece, ricevuto in cielo ogni potere dal Padre, è continuamente in mezzo ad essa: « Or ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dell’età presente » (Mt 28, 20), per regolarla moralmente con le sue parole (Mt 7, 24-29) e per assisterla nell’opera di aggregazione di tutti i popoli a Lui, quale Kyrios-Signore (Mt 28, 18-20).

Sono evidenti in Matteo, da una parte, testi che suppongono tradizioni e predilezioni giudeo-cristiane (Mt 5, 18s.21s.27s; 6, 1-8; 10, 5; 15, 24; 18, 15-17; 23, 1ss.) e dall’altra tradizioni e sottolineature di grande apertura verso tutti gli uomini, care ai pagano-cristiani (Mt 8, 10-12; 12, 18-21; 21, 43; 28, 19s). La comunità quindi per cui Matteo scrive, verso l’85 ca., il vangelo giunto fino ai nostri giorni, doveva essere formata da giudeo-cristiani e da pagano-cristiani. Uno degli scopi che Matteo si ripropone nello scrivere il suo vangelo, è anche quello di favorire l’armonia fra i due gruppi. Questo intento appare fin dall’inizio nel vangelo dell’infanzia con l’episodio dei magi.

La comunità di Matteo ha già assistito alla distruzione di Gerusalemme del 70 e l’ha interpretata come la punizione di Dio contro quegli invitati che avevano rifiutato la chiamata alle nozze messianiche. Questo appare in maniera evidente nella parabola delle nozze (Mt 22, 1-14), in modo particolare in Mt 22, 7. Questa comunità si considera la coltivatrice della vigna del Signore, da Lui incaricata di portar frutto a tempo debito, dopo che gli agricoltori precedenti avevano ucciso il Figlio di Dio, come appare nella parabola dei malvagi vignaioli (Mt 21, 33-43), in modo particolare in Mt 21, 41.43. Essa si trova perciò perseguitata e scomunicata da quelle autorità religiose ufficiali dell’epoca, rappresentate dai capi dei Farisei, che erano rimasti alla guida del popolo ebraico dopo la distruzione di Gerusalemme dell’anno 70 (Mt 10, 17: 23, 34). In questo clima, non ci deve quindi meravigliare più di tanto che certe espressioni dure di Gesù contro gli scribi ed i farisei abbiano trovato nel vangelo di Matteo un così forte riscontro (Mt 23, 1-39) e non ci deve neppure meravigliare il fatto che ci sia stato tramandato il ricordo di un Gesù che fin dall’infanzia aveva dovuto subire persecuzioni e perfino l’esilio.

La comunità cristiana stessa al suo interno soffriva qualche difficoltà: era traballante come un barca sballottata sulle onde, con poca fede (Mt 8, 23-27); la carità cominciava a raffreddarsi anche per il sorgere di falsi profeti (Mt 7, 15-20; 24, 11 ss). A sostegno della fede e della vita comunitaria, Matteo raccoglie tradizioni e fonti relative al Gesù terreno per dimostrare che già durante la sua vita terrena si erano manifestati in Lui i segni inconfondibili del Signore-Kyrios.

Messia, Figlio di Dio e dell’uomo in modo inatteso

Matteo presenta anzitutto con chiarezza Gesù come il Messia atteso da Israele. Egli tiene presente in modo speciale la situazione del giudaismo contemporaneo in cui, dopo il 70, si era tornati ad attendere ardentemente un Messia di tipo nazionalistico e dominatore (Mt 24, 4s). Qualche decennio dopo il rabbì Aquiba, maestro incontrastato all’epoca di Matteo, indicherà il Messia nella persona di Bar Kokeba, colui che aveva iniziato la rivolta armata contro Roma del 132-5.

Per questo motivo Matteo attribuisce a Gesù, accentuando le sue fonti, i titoli messianici ufficiali di Cristo (Mt 16, 16.20; 23, 10; 26, 68; 27, 17.22), Figlio di Davide (Mt 21, 9.15), Re (Mt 2, 2; 21, 5; 27, 11.29.37.42). Però specifica anche che Gesù sarà un Messia-Re pacifico e mansueto, seduto sopra un asinello nell’ingresso a Gerusalemme (questo aspetto Matteo – al cap. 21, 5 – lo mette in rilievo più degli altri Sinottici, citando espressamente Zac 9, 9). Un Messia che salva dai peccati, come sottolinea spiegando il nome di Gesù (Mt 1, 21). Un Messia servitore di Jahwèh che non fa chiasso (Mt 12, 18-21) e che toglie le malattie e le infermità (Mt 8, 16-17; cf Is 53, 4).

Alla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo, che in Marco e Luca suonava:  « Tu sei il Cristo», Matteo aggiunge, esprimendo ormai la consapevolezza di fede della sua comunità alla luce dei fatti riguardanti la sua morte e la sua risurrezione: « Tu sei il Cristo, Il Figlio di Dio vivente» (Mt 16, 16; cf 14, 33); specificando però che questa verità non poteva essere frutto di una mente umana, ma proveniva direttamente da una rivelazione divina (Mt 16, 17).

Matteo inoltre mette in risalto l’azione coordinata del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19). La divinità di Gesù non viene presentata da Matteo con formule filosofiche riguardanti la stessa sostanza della sua natura con quella del Padre (consustanzialità), come fecero i teologi del Concilio di Nicea nel 325, tradendo in tal modo la semplicità e la genuinità evangelica, ma piuttosto in maniera dinamica, in quanto Gesù è venuto dal Padre (Mt 5, 17; 9, 13; 10, 34) ed ha ricevuto tutto dal Padre (Mt 11, 27), in modo speciale egli ha ricevuto dal Padre il potere (Mt 7, 29; 9, 8; 28, 18). Quindi i cristiani nel battesimo sono consacrati a Lui, allo stesso modo con cui sono consacrati al Padre e allo Spirito Santo (Mt 28, 19).

Per Matteo Gesù è inoltre Il «Figlio dell’Uomo » che ritornerà come giudice e salvatore alla fine dei tempi (parusia). Questa verrà «dopo molto tempo» (Mt 25, 19): nel frattempo bisogna essere prudenti e operare (Mt 24, 45 ss). Il Figlio dell’uomo verrà come giudice di tutti i popoli della terra (Mt 25, 32); il criterio del giudizio sarà quello del rapporto degli uomini con lui nella persona dei fratelli più piccoli e cioè i bisognosi, gli emarginati e i peccatori della comunità (Mt 25, 31-46).

Nel Vangelo dell’infanzia possiamo constatare che già affiorano, tra questi vari titoli, quelli di Messia e di Emmanuele-Figlio di Dio.

Il nuovo Mosè, superiore all’antico

Matteo si compiace di presentare Gesù come un rabbi’-maestro o meglio come il nuovo Mosè, che perfeziona per i cristiani la Torah o legge ebraica. Egli schematizza perciò i racconti della tradizione precedente, ma raccoglie con abbondanza i "detti" di Gesù, raggruppandoli in cinque grandi discorsi.

Ci si pone quindi il problema: qual è il rapporto tra il Vangelo di Gesù e la Legge mosaica secondo Matteo? Matteo lo esprime nel brano 5, 17-19, dove al v. 17 Gesù dichiara di non essere venuto ad abolire la Legge ed i Profeti, ma a compierli o completarli.

Tale compimento o completamento può intendersi in vari modi:

a) nel senso delle sei antitesi esplicative immediatamente seguenti (Mt 5, 21-47);

b) nel senso della regola d’oro: «tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro, perché questa è la legge e i profeti» (Mt 7, 12);

c) nel senso del detto di Mt 23, 23: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché calcolate la decima della mente, dell’aneto e del comino, e trascurate le cose più importanti della legge: il giudizio, la misericordia e la fede; queste cose bisogna praticare senza trascurare le altre»;

d) nel senso della frase del profeta Osea: «Io voglio misericordia e non sacrificio» (Mt 9, 13; 12, 7; cf Os 6, 6) ad indicare che l’amore misericordioso verso il prossimo era un culto più gradito a Dio di quello sabatico e di quello della separazione dai peccatori;

e) soprattutto in base al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Mt 22, 34-40), che Gesù pone esplicitamente come fondamento o punto d’appoggio di tutta la legge e i profeti: «da questi due comandamenti dipende tutta la legge ed i profeti» (Mt 22, 40).

Per Matteo quindi e per la sua comunità l’Antico Testamento ha ancora tutto il suo valore, ma deve essere interpretato in base ai perfezionamenti di Gesù che con la sua autorità divina (Mt 7, 29) ne ha colto l’originale intenzione e volontà divina, togliendo imperfezioni e intolleranze, insistendo sull’interiorità (Mt 6, 1-18) e soprattutto ponendo l’amore praticato verso Dio e verso il prossimo, anche se nemico (Mt 5, 43-48), come cardine della "giustizia" migliore dei cristiani rispetto a quella dei farisei (Mt 5, 20). I cristiani perciò devono ascoltare d’ora in poi solo Gesù, indicato come Maestro anche da Mosè e da Elia (Mt 17, 5).

Matteo anticipa già nell’infanzia questa caratteristica di Gesù, ponendolo sulla scia della vita di Israele e di Mosè.

L’evangelista esistenziale

Il Vangelo di Matteo attualizza gli insegnamenti ed i fatti di Gesù, in modo che siano una norma viva per la comunità. Non a caso il Vangelo di Matteo è detto il Vangelo della Chiesa. Così, per esempio i poveri, gli affamati e gli oppressi che sono proclamati beati da Gesù da Luca, perché insieme con il messaggio di salvezza era arrivata la loro liberazione; da Matteo sono proclamati beati se sono poveri « in spirito» e se aspirano alla « giustizia» (Mt 5, 3.6). Matteo inoltre aggiunge alla parabola delle nozze, che riguardava l’invito del Padre rivolto dapprima agli Ebrei e poi ai pagani, il particolare della veste nuziale per significare che chi ha accolto l’invito deve, per esserne degno, rivestirsi delle giuste disposizioni interiori, in special modo deve rivestirsi della fede e dell’amore (Mt 22, 11-14).

Considerata quindi questa caratteristica di Matteo di attualizzare i fatti e gli insegnamenti di Gesù, non può meravigliare il fatto che egli ricalchi certe tinte e certe prospettive anche nel personaggio di Gesù ancora bambino.

2. Genere letterario storico midrashico

Dopo aver esaminato gli aspetti teologici del Vangelo di Matteo, non è possibile procedere oltre senza parlare del genere letterario da lui usato nel primi due capitoli del suo vangelo.

Dobbiamo anzitutto premettere che il significato che noi diamo oggi al concetto di "storicità" di un’opera letteraria non è lo stesso che veniva dato dagli antichi, i quali spesso reinterpretavano la storia attualizzandola secondo le necessità del momento. Gli studi compiuti in questi ultimi anni hanno messo in risalto che il genere letterario usato da Matteo nei primi due capitoli è il genere letterario midrashico.

Il midrash è un’arte le cui prime origini le possiamo trovare già nel libro biblico delle Cronache, il quale non è considerato dagli Ebrei un libro storico nel senso che noi oggi diamo a questo termine, ma fa parte degli altri scritti o Ketuvim. Non si tratta infatti di semplice cronaca, ma di una storia reinterpretata alla luce della fede in Dio.

Il Midrash fiorì tra gli Ebrei già dal II sec. a.C., anche se la fissazione scritta dei "midrashin", giunti a noi, avvenne solo dal V sec. d.C.

Midrash (plurale midrashin) è un sostantivo aramaico derivato dal verbo darash che significa investigare, e corrisponde al nostro commento o interpretazione: con tale termine si abbraccia una letteratura ebraica, talvolta indefinita, nata da una riflessione sulla Scrittura.

Con questo sistema si cercava di attualizzare un testo o un fatto biblico del passato arricchendolo e rimaneggiandolo allo scopo di renderlo attuale per la situazione presente: lo si abbelliva quindi con ricordi, con tradizioni e con dissertazioni esortative.

Tutta questa attualizzazione veniva fatta perché si era convinti che la Scrittura, come Parola di Dio, contenesse una risposta per ogni problema e perciò si sentiva il bisogno di illuminare o correggere la situazione presente ricorrendo alla Bibbia.
Il midrash rispondeva alla questione: "Che cosa vuol dire la Scrittura per la vita odierna?"; nessuno sforzo era risparmiato per dare una risposta a questa domanda, anche a costo di usare metodi strani per la nostra mentalità occidentale che richiede molto rigore scientifico nella interpretazione di un testo: la connessione con il testo alle volte poteva essere anche convincente, altre volte invece era un po’ forzata; l’importante era che in qualche modo questa connessione ci fosse.

Esistevano naturalmente diverse sottospecie di midrash:

a) i l midrash aggadico o storico narrativo, che amplificava e attualizzava i fatti storici e la vita dei grandi personaggi di Israele, per esempio, Abramo, Giacobbe, Mosè;

b) il midrash halakhico o morale, che attualizzava gli insegnamenti etici;

c) il midrash, didattico, allegorico, apocalittico ;

d) il midrash piyyut o canto liturgico.

A Qumrân infine si è trovato un tipo speciale di midrash, detto pesher (che significa "interpretazione"). Le principali caratteristiche di questo midrash, secondo lo studioso M. Black sarebbero:

a) la Scrittura ha sempre un velato senso escatologico-messianico;

b) questo senso lo si può trovare anche attraverso la costruzione forzata o anormale del testo biblico, ad esempio interpretando le varianti testuali, ricomponendo le lettere di una parola con i relativi numeri, combinando testi diversi, ecc.;

c) il senso ottenuto può essere applicato ad avvenimenti o circostanze presenti nel quale il testo si compie.

Il midrash cristiano

A questo punto viene naturale chiedersi se anche i primi cristiani abbiano usato questo metodo interpretativo. Non dobbiamo dimenticare che primi cristiani e gran parte degli autori del Nuovo Testamento erano di origine giudaica e quindi erano a conoscenza dei metodi interpretativi usati dagli Ebrei. Essi infatti, come appare dagli scritti del Nuovo Testamento, hanno usato il midrash nel suo complesso e con le stesse tecniche di quello giudaico, consapevoli che l’Antico Testamento era un messaggio divino che aveva una riposta attuale anche per loro; per giunta essi hanno usato l’Antico Testamento così come era allora interpretato nella forma midrashica orale.

Sia gli ebrei che i primi cristiani facevano quindi di fatto un’ermeneutica esistenziale del testo biblico ancora prima che essa venisse ufficializzata scientificamente dai teorici della "nuova ermeneutica"; la Parola di Dio doveva essere attualizzata e vissuta, solo in questo modo poteva raggiungere il suo scopo e poteva dirsi veramente efficace.

Va tuttavia osservato che il midrash cristiano, pur essendo nato nello stesso ambiente e pur usando le stesse tecniche, presenta fin dall’inizio una radicale diversità rispetto a quello giudaico sia nell’impostazione che nelle prospettive. Non si trattava soltanto di applicare la Scrittura alle necessità del presente, ma ora il centro di interesse si sposta dalla Scrittura per sé stessa alla figura di Cristo. Per questo motivo le Scritture dell’Antico Testamento sono ora illuminate dalla luce di questa nuova realtà, e cioè dalla novità rappresentata da Cristo con le sue azioni ed il suo messaggio.

Questo naturalmente vale tanto per i racconti della vita pubblica quanto per i racconti dell’infanzia. Se viene usato dai cristiani lo stile midrashico, è chiaro quindi che si tratta di un midrash non identico, ma solo analogo, cioè in parte simile e in parte diverso. La realtà sulla quale ci si sofferma a riflettere ora non è più principalmente la Scrittura ebraica, ma Cristo stesso. Si chiede pertanto a questa Scrittura dell’antico popolo di Dio di illustrare e di confermare la fede in Cristo.
Il racconto dell’infanzia di Gesù in Matteo è precisamente un midrash di tale specie; l’evangelista infatti attinge alle tradizioni orali, che egli aveva raccolto sull’infanzia di Gesù, e quindi le approfondisce e le abbellisce con le Scritture dell’Antico Testamento nello stesso modo in cui venivano sviluppati i midrashin dell’epoca.

Si può osservare infatti che Matteo, non solo racconta la sua storia commentandola con profezie prese di sana pianta dalla Scrittura precedente, ma anche la illustra con particolari con cui venivano raccontati in essa alcuni fatti riguardanti alcuni grandi personaggi biblici, come Abramo, Israele e Mosè. L’evangelista quindi non solo comprova le sue affermazioni su Gesù con testi e riferimenti scritturistici, ma soprattutto ricalca modelli e situazioni della storia precedente attualizzandoli nella persona di Gesù.

I fatti di Gesù alla luce della storia precedente

Il racconto di Matteo è quindi una meditazione sui reali avvenimenti della prima età di Gesù, alla luce della storia antica e delle relative tradizioni orali, secondo il metodo letterario e teologico dell’epoca. Tutto questo egli l’ha fatto per ridare al Messia di Israele ed al Figlio di Dio quella missione e gloria che i suoi connazionali non avevano saputo riconoscergli e tributargli adeguatamente nella grotta di Betlemme e nell’umile dimora di Nazareth. Matteo, esaltando le prerogative messianiche di Gesù sin dai primi momenti della sua infanzia, non ha fatto altro che esprimere quel patrimonio di fede e di piena convinzione che ormai da decenni albergava nel suo cuore ed in quello della sua comunità.

Matteo pertanto si compiace di presentare i fatti di Gesù bambino, non tanto con parole ed immagini sue, quanto con quelle degli antichi personaggi fissate nei libri sacri e sviluppate dai midrashin. Quindi più che insistere sulla esattezza della cronaca, noi dobbiamo saper cogliere nel suo vangelo la dottrina teologica che egli ha voluto trasmetterci usando un certo metodo di esprimersi di quell’epoca, a lui familiare. Possiamo trovare un accostamento di questo metodo pensando ad esempio che Hitler è stato il faraone o l’Erode dei tempi moderni nel compiere la strage di tanti innocenti e che viceversa Ben Gurion, il primo capo del nuovo stato di Israele, è stato il Mosè Salvatore del suo popolo. Se io metto nella bocca di questi personaggi del nostro tempo le parole degli antichi personaggi biblici, il lettore non si soffermerà tanto sulla mia finzione storica, quanto piuttosto sul motivo dottrinale che mi ha spinto ad usare una tale analogia.

Se quanto abbiamo detto finora risulterà vero, alla fine della nostra analisi esegetica, i primi due capitoli di Matteo si dimostreranno ricchi di riflessioni teologiche. Le dottrine infatti si possono esporre sia con fatti reali, ma anche solo sostanzialmente reali e perfino con fatti fittizi.

Non dimentichiamo che lo stesso Matteo nella vita pubblica illustra Gesù come pienezza e centro della storia salvifica precedente con ben quattro generi letterari diversi:

a) con una sentenza di Gesù (Mt 5, 17);

b) con gli episodi storici della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo e della trasfigurazione;

c) con l’episodio – che potrebbe essere solo sostanzialmente storico – delle tentazioni di Gesù nel deserto, come il nuovo Mosè ed il nuovo Israele;

d) con la parabola dei vignaioli omicidi.

Potremo aggiungere che molto probabilmente Matteo ha compiuto nei primi due capitoli del sue vangelo le stesse riflessioni teologiche sulla futura vita, passione e risurrezione di Gesù che Giovanni ha fatto nel prologo. Mentre Giovanni si è espresso mediante concetti provenienti da una tradizione ragionante più familiare al pensiero occidentale, in Matteo gli stessi concetti prendono forma di racconti tratti dalla tradizione orale secondo il modo di procedere tipicamente semitico. Del resto la stessa cosa è pure avvenuta nei racconti della storia universale dei primi 11 capitoli di Genesi, dove i concetti teologici sono espressi non con un ragionamento, ma con racconti.

Il decidere il grado di storicità del vangelo dell’infanzia di Gesù non ha alcuna importanza per il suo contenuto dottrinale, ne ha invece per la ricostruzione dei fatti reali della vita di Gesù e degli interventi soprannaturali di Dio nei suoi riguardi. Il problema delicato è appunto decidere fino a che punto Matteo 1-2 è storia o storicizzazione e fino a che punto si può attenuare la sua storicità senza intaccare la storicità dei vangeli della vita pubblica e di Gesù stesso.

Da un confronto fra la tradizione di Matteo e Luca, possiamo dire che le linee essenziali della storia sono salve. Entrambi infatti fanno risalire la nascita di Gesù a Maria e Giuseppe, la nascita avviene a Betlemme, città davidica durante il regno di Erode, noto per l’efferata crudeltà nel difendere le sue prerogative regali. È credibile quindi la strage degli innocenti e la conseguente fuga della famiglia di Gesù in Egitto per sfuggire alle ire del sovrano. È credibile, dopo la morte di Erode, che Giuseppe ritorni in Palestina, ma decida di non fermarsi in Giudea e di proseguire oltre fino a Nazareth, perché l’avevano avvisato che il successore di Erode, Archelao, era altrettanto crudele del suo predecessore. A Nazareth infatti Gesù abiterà nei trent’anni oscuri della sua vita terrena, prima di apparire pubblicamente nelle rive del Giordano. Per il resto, l’annuncio dell’angelo a Giuseppe, la concezione verginale di Gesù per opera dello Spirito Santo, fa parte del nostro bagaglio di fede. Se noi crediamo in Gesù Cristo, nella sua morte redentrice e nella sua risurrezione gloriosa, non dovremmo avere difficoltà a credere anche negli interventi soprannaturali di Dio fin dalla sua infanzia.

L’importante in questi casi è di non assumere atteggiamenti estremistici sia in un senso che in un altro, ma di trovare il giusto equilibro. Possiamo quindi condividere quanto viene scritto dallo studioso E. Peretto il quale afferma: « Alla luce della critica più attenta, le soluzioni estreme appaiono le meno probabili, tanto più che su alcuni dati fondamentali, anche la storia profana dà il suo contributo, la quale storia non può essere accusata di tendenziosità e di perseguire finalità religiose. Nella valutazione storica è necessario distinguere la realtà sulla quale l’autore chiede di essere ascoltato, e le modalità della descrizione o addirittura le interpretazioni della realtà ».

Questa impostazione mi sembra giusta in quanto impedirà che la preistoria del Bambino di Betlemme venga considerata una "storia per bambini", ma la farà invece apparire come la meditazione di una comunità adulta sul significato profondo dell’invio nel mondo da parte di Dio Padre del Messia Salvatore.