L'ISPIRAZIONE
DELLA BIBBIA
di Fausto Salvoni
CAPITOLO VII

PSICOLOGIA DELL'ISPIRAZIONE

I. Essenza dell'ispirazione

a) Spesso l'artista vorrebbe dipingere, scolpire, scrivere libri, ma non ci riesce. Nonostante i suoi sforzi compie delle opere indegne del suo talento, che finisce per distruggere lui stesso. Ma quando d'improvviso gli giunge l'ispirazione, ecco che tutto diviene facile; scrive e nascono opere immortali le cui parole scorrono fluenti dalla sua mente; dipinge e sorgono capolavori meravigliosi; costruisce case e il loro stile si impone per sobrietà, eleganza e linee architettoniche stupende. Sembra che qualcosa di potente lo spinga ad agire. E' giunta l'ispirazione, l'estro. In un lampo di genio che sgorga d'improvviso – come nel caso della leggendaria mela di Newton – si concentrano nella mente dello scienziato i vari dati empirici che prima gli riuscivano inspiegabili e nasce così una legge, ad esempio, quella della gravità. Per una ispirazione madame Curie intuì che i raggi Röngen possono curare alcune malattie e mostrarci l'interno dell'organismo; Pasteur comprese che la vaccinazione può salvare uomini invasi dagli stessi microbi, che ogni vivente viene da esseri viventi; il barone Joseph Lister (m. 1912) intuì dagli studi del Pasteur l'importanza dell'asepsi per impedire alle infezioni postoperatorie di diffondersi pericolosamente. Donde viene questa illuminazione? Dal subcosciente! L'idea lasciata riposare nell'individuo matura finchè esplode con tutta la sua efficacia. Questa ispirazione di indole naturale si esplica diversamente secondo l'inclinazione e le capacità dell'individuo: spinge un Leonardo a dipingere o a comporre i suoi schizzi per inventare oggetti allora fantastici; muove un Michelangelo a costruire la cupola di S. Pietro; Dante a comporre la Divina Commedia. Per compiere i loro capolavori o le loro scoperte gli artisti o gli scienziati devono usare i mezzi espressivi del loro tempo: la volta per il Buonarroti, i colori deperibili per il Leonardo, le risorse praticamente illimitate del cemento per gli artisti odierni. Nonostante il suo genio l'artista è pur sempre legato al materiale dell'epoca: il Galileo potè utilizzare il telescopio del suo tempo che vedeva ben poco, anzichè quello potente del monte Palomar.

b) I mistici. Vi furono (e vi sono) delle persone che concentrando il proprio pensiero in Dio, riescono ad intuire che egli muove l'universo cosmico. Al di là delle esperienze sensibili scoprono, con l'occhio del cuore,  l'esistenza di un essere usualmente invisibile all'uomo ancorato nell'esperienza dei sensi e perfino agli stessi teologi della morte di Dio. Essi intuiscono che « in lui (Dio) viviamo, ci moviamo e siamo, come anche alcuni dei vostri poeti (greci) hanno detto: Perchè siamo anche sua progenie » (At 17, 28). Si possono leggere pagine meravigliose di Giovanni della Croce o di Teresa d'Avila, di G. Tauler o di J. Ruysbroeck che descrivono il cammino di ascesa per mezzo della quale si perviene alla percezione di Dio, ignoto alla maggioranza della gente immersa com'è nel campo puramente terreno e materiale. Da tale contatto con il divino tutta la vita del mistico è mutata in quanto egli la vive alla luce del Dio da lui intuito. Tuttavia questo contatto mistico avviene (di solito) in seguito ad uno sforzo personale iniziale ed è pur sempre un tentativo umano di salire a Dio, è un utilizzare l'occhio interno e più profondo del nostro io per entrarre in contatto con il Dio che lo ha creato. Ma la sua esperienza – anche se può presentare molto (o poco) di vero –  è pur sempre congiunta con l'attività umana interiore, è il massimo sforzo umano per salire a Dio e così scoprire il Creatore. E' una contemplazione del creato o del proprio essere per scoprirvi l'orma di colui che lo ha fatto (cf At 17, 26s; Rm 1, 20). In questa attività umana si possono anche intromettere molte idee false, poiché è sempre l'uomo fallibile che tenta di salire a Dio (1)

c) Il profeta. Supponiamo ora, per ipotesi, che Dio stesso si manifesti in qualche modo ad un uomo, gli faccia sperimentare il suo amore, gli comunichi il suo modo di vedere e di dirigere il mondo. Si deve trattare di una esperienza così meravigliosa della quale egli non riuscirà mai a scordarsi e per la quale tutta la sua vita rimarrà indelebilmente sconvolta, tutto il suo modo di agire influenzato. Se il contatto con una persona superiore può rivoluzionare un uomo, quanto più lo farà il contatto con Dio. Alla luce di quella esperienza tutte le valutazioni di prima sono cambiate; quell'uomo – divenuto ormai profeta – tutto giudica, tutto valuta alla luce dell'esperienza divina da lui goduta. La sua parola mossa da quella comunicazione diviene parola di Dio, poiché esprime non più il suo pensiero, ma il pensiero di Dio:

– « Non possiamo tacere» egli dice (At 4, 20)
– « Guai a me se non evangelizzo!» conferma Paolo (1 Co 9, 16)
– « V'è come un fuoco ardente nel mio cuore e racchiuso nelle mie ossa, mi sforzo di contenerlo, ma non posso » conferma Geremia (Gr 20, 9).

Da quel momento egli vede tutto con gli occhi di Dio, e tutto quanto osserva è trasformato dalla luce divina sperimentata dal profeta. Essa diviene come un corpo radioattivo che rende radioattive tutte le realtà con cui viene a contatto. Il profeta esprime con oracoli quello che ha goduto, valuta ogni cosa alla luce di quella rivelazione, prevede gli effetti salvifici o distruttivi dell'amore o della giustizia divina. Tutto quanto quell'uomo compie – sia parlando sia scrivendo – diviene ispirato in quanto consegue necessariamente a quella prima intuizione. Dal "mistero" rivelato a Paolo sgorgano le epistole paoline nelle quali, mediante la potenza dello Spirito che viene in lui, egli vede come Dio chiama a salvezza tutti gli uomini siano essi gentili od Ebrei perché formino una umanità nuova (Ef 3, 5s). Alla luce della gloria di Gesù da lui contemplata (Gv 1, 14), Giovanni vede il Cristo quale via, verità e vita e comprende che la morte di Gesù è la sua "ora", vale a dire il momento non della umiliazione, ma del suo trionfo che esige in contraccambio l'amore riconoscente dell'uomo ravveduto e pronto a sacrificarsi per i propri fratelli (1 Gv 4, 10s).

L'esperienza (o rivelazione) goduta dagli scrittori sacri, è come un filtro attraverso il quale passano tutti gli eventi della storia umana, che appaiono così alla luce dell'amore di Dio onniponte e giusto.

Agli uomini privi di tale esperienza umana gli scrittori sacri possono sembrare degli infatuati, delle persone dalle idee fisse, ma ciò si avvera solo perché noi manchiamo della loro esperienza religiosa. Essi sono nella verità e noi nell'errore. E' possibile questa ipotesi? E' l'esperienza che i profeti dichiarano di aver avuto e non vi è motivo di dubitare della loro sincerità (2) Mosè fornisce perfino un mezzo per distinguere il vero dal falso profeta: l'attuarsi immancabile di quanto è stato predetto ne mostra la provenienza divina (Dt 18, 21s). Tanto più che talora questa esperinza annuncia cose sgradite, contrarie alla aspettativa comune, e compare d'improvviso quando il profeta meno ci pensa, quando attende ad altro lavoro, come accadde, per esempio, al bovaro Amos (7, 14). Se fosse possibile sintetizzare i gradi di queste esperienze e la loro origine, potremmo trarre (sia pure in modo esageratamente schematico) le seguenti coclusioni:

a) Il genio trae la sua ispirazione dal subcosciente dell'individuo.
b) Il mistico la deduce dal proprio spirito interiore che con la meditazione cerca di risalire a Dio.
c) Il profeta deriva la propria ispirazione dallo spirito interiore preso, mosso e illuminato dalla Spirito di Dio.

Che l'iniziativa della profezia venga d Dio e non dalle creature era una dottrina ammessa anche dai pagani. Plutarco narra il fatto di una Pizia che per assecondare le richieste dei fedeli volle profetizzare senza aver ricevuto la profezia, ma, colta all'istante da terrore, fu tratta moribonda dal suo speco e poco dopo morì (3) Senza chiedersi qui donde veniva tale profezia, è sufficiente richiamare che la profezia (e ispirazione) biblica, veniva da Jhwh, il Dio del popolo ebraico, anzi l'unico Dio dell'umanità intera.

II. Tutto è ispirato

E' evidente che processo successivo alla ispirazione è il medesimo in ogni tipo di ispirazione.

1. Nell'ispirazione di un genio questi agisce con tutto l'entusiasmo di cui il proprio essere è capace, utilizzando i mezzi espressivi e le possibilità culturali dell'epoca per sviluppare concretamente la sua intuizione geniale. Potrà riuscirvi più o meno bene, ma tutta la sua attività resta pur sempre illuminata dal suo genio creativo sia nella letteratura, sia nell'arte plastica o pittorica, o architettonica. Ma tutto ciò rimane pur sempre una attività puramente umana, in quanto è stata mossa da una ispirazione solo umana.

2. Il mistico cerca di riprodurre con termini, con paragoni vari e secondo le possibilità espressive della sua personalità e della sua epoca, l'intuizione di Dio che egli ha ottenuto. Ma anche qui, come vedemmo, è lo spirito umano che agisce, per cui assieme a sprazzi di verità possono intromettersi ombre d'errore. Per questo la Scrittura ci ammonisce di non credere ad ogni spirito. Può infatti venire anche da Satana, che si ammanta da angelo di luce, come può provenire da supposte visioni umane (1 Gv 4, 1; Cl 2, 18; 1 Co 14, 29 "gli altri giudichino").

3. Anche il profeta, sotto l'impulso del suo essere mosso e illuminato dalla potenza dello Spirito Santo, si esprime secondo le proprie capacità, secondo le possibilità linguistiche della lingua da lui posseduta e le cognizioni culturali del suo tempo, sia pure alla luce della visione divina e sotto l'impulso divino. Tutto quello che egli compie con la sua attività – predicando o scrivendo – , non è solo sua attività, ma è anche attività divina perché originata dall'impulso della sua esperienza divina. Siccome Dio ha ispirato questo individuo e siccome Dio conosce come questo individuo avrebbe risposto alla sua ispirazione, egli vuole pure l'effetto realizzato da quel profeta, altrimenti ne avrebbe scelto un altro che, in conseguenza di tale esperienza illuminata, avrebbe risposto in modo diverso. Se io, conoscendo l'effetto di un circuito,  vi innesto corrente, voglio pure indirettamente tutto quello che ne deriva. Se vado da un calligrafo che sa scrivere delle pergamene in un dato modo, se vado da Picasso per ordinare un quadro, pur conoscendo che esso sarà diverso da un Raffello, è segno che voglio una pergamena o un quadro composto così. Se utilizzo una macchina fotografica che in tre minuti mi fa una fotografia, voglio logicamente quello che ne verrà fuori. Altrimenti andrei da un artista che mi procurerebbe un'opera artistica. Dio, ispirando una persona che, per il suo ambiente e secondo le proprie capacità, risponderà in un dato modo, vuole pure l'opera così come avverrà, comprese le stesse parole da lui usate. Anche queste sono la logica conseguenza della ispirazione a lui concessa. Non vi può essere un'idea senza parole, ma la stessa idea psicologicamente si colora con determinate parole corrispondenti alla capacità dell'autore ispirato. Alla luce della psicologia odierna non si può parlare di ispirazione soltanto delle idee, come sosteneva il Lessio (4) e nemmeno di una ispirazione verbale diretta, come voleva Bañez(5) ma solo di una comunicazione divina che automaticamente si riveste di idee e di parole secondo le capacità individuali (ispirazione indiretta).

E' ispirato tutto il libro? Si, tutto il processo con cui l'autore si esprime è ispirato, poiché vibra alla luce della rivelazione o della intuizione primordiale che l'autore ricevette da Dio in una esperienza religiosa indimenticabile. Il libro è ispirato perché raccoglie ed esprime queste esperienze divine, non perché fu direttamente dettato o curato da Dio, sia pure con il concorso umano. L'uomo agisce per conto suo – forse il redattore non fu nemmeno ispirato nel raccogliere gli scritti o i detti profetici – ma il suo libro lo è perché contiene il messaggio profetico. Anche Luca fece delle ricerche personali sia per il Vangelo sia per gli Atti, ma il suo libro è ispirato sia perché questa ricerca fu compiuta alla luce della intuizione divina a lui comunicata che guidò così tutto il suo lavoro (Atti-Vangelo), sia perché raccolse il messaggio degli apostoli ispirati, codificato nella loro tradizione orale. Le indicazioni precedenti sono solo un tentativo per chiarire il fenomeno ispirativo della Bibbia; esso però è pur sempre una valutazione personale umana che può essere accolta, respinta o modificata secondo la propria meditazione sulla Bibbia. Quello che conta è la realtà dell'ispirazione divina attestata dalla Bibbia, il resto è pura ipotesi umana che è sempre infinatamente al di sotto della realtà.

III. L'uomo è attivo sotto l'ispirazione divina

L'uomo ispirato non è trasformato in un robot, ma agisce secondo la propria mentalità, capacità e possibilità espressive. Ecco alcune conseguenze evidenti a chiunque voglia riflettere.

La verità divina è sempre infinitamente superiore alle possibilità espressive umane.

Il profeta cercherà di esprimersi come può, di moltiplicare le sue immagini, i suoi paragoni, ma dovrà constatare di essere inferiore alla realtà che desidera presentare. Paolo lo dice chiaramente quando, ricordando la propria esperienza, vale a dire la rivelazione ricevuta, scrive: « Un uomo fu rapito in paradiso (= 3° cielo) e udì parole ineffabili che non è possibile all'uomo proferire» (2 Co 12, 4). Anche se il prologo del quarto vengelo è sublime, « Giovanni non vi espresse la realtà così com'è – scrive Agostino – ma solo come potè lui stesso, in quanto fu un uomo che parlò di Dio. Anche se ispirato, rimase pur sempre un uomo. In quanto ispirato disse qualcosa, se non fosse stato ispirato non avrebbe detto nulla del tutto » (6) .

Proprio perché ha utilizzato un uomo, che si sarebbe espresso in modo umano, Dio ha potuto «parlare mediante un uomo alla maniera di uomini» (7) Avendo una capacità espressivia inadeguata lo scrittore sacro presenterà la realtà in modo parziale e limitato, rivestendola, come disse Bonaventura, di "pannolini" umani:

« Come Cristo fu avvolto di pannolini, così la sapienza di Dio fu avvolta nella Scrittura in certe umili figure » (8) .

« Esplorando la Scrittura tu troverai – scriveva Lutero – quella divina sapienza che Dio pone qui semplicemente e umilmente dinanzi ai nostri occhi, per calmare ogni orgoglio. Tu vedrai le fasce e la mangiatoia dove Cristo riposa, e di cui gli angeli e i pastori ti indicano il cammino. Semplici e povere fasce, ma prezioso è il tesoro, Cristo, che ivi riposa » (9) .

Ecco le limitazioni nelle quali dovette essere imbrigliata l'esperienza divina goduta dal profeta e la susseguente parola di Dio.

A. Stile personale

Lo stile è l'uomo; non può essere cambiato, per cui ciascun uomo si esprime in modo ben differente da un altro. E' attraverso l'analisi dello stile che si può difendere o combattere l'autenticità di un brano letterario tramandatoci dal passato. Per esprimere un medesimo concetto sono ben diverse le parole usate da un filosofo, da un commerciante o da un contadino. Tramite la Genesi, scritta da un teologo e non da uno scienziato, Dio non ci poteva presentare un racconto scientifico circa l'origine del mondo. Mediante l'autore delle Cronache, uno scrittore mediocre privo di immaginazione e di stile, ma profondamente credente, Dio non ci può presentare una narrazione affascinante. Per fare questo avrebbe dovuto ispirare un letterato, quale fu, ad esempio, Isaia.

Girolamo che ben conosceva gli scrittori sacri, per la lunga familiarità avuta con essi, ben sapeva che ogni autore vi si esprime in modo personale:

« Isaia ha un linguaggio privo di espressioni rustiche, in quanto era cittadino nobile . . . Geremia a motivo del suo luogo di nascita, fu un uomo rozzo; veniva infatti da Anatot, un povero villaggio a tre miglia da Gerusalemme . . . Lo stesso dicasi di Amos che, essendo un pastore vissuto in un luogo culturalmente limitato e nel vasto deserto dove ruggisce il leone, usa espressioni dal suo lavoro e presenta la terribile voce del Signore come il ruggito e il fremito del leone » (10) .

Perciò nella Bibbia, accanto alla voce letterata dell'aristocratico Isaia, cittadino di Gerusalemme, si ode il linguaggio popolare del bovaro Amos, coltivatore di sicomori; il lamento del borghese Geremia; l'occhio riflessivo dello speculatore Matteo e l'afflato artistico del medico Luca. Quest'ultimo parla di « grande febbre » secondo la classificazione delle febbri data da Galeno , anzichè di semplice « febbre » come gli altri sinottici (Lc 4, 38); di « lago » ( limné ) anzichè di « mare » per il lago di Galilea (Lc 5, 1); di « lettuccio » ( klinidion ) anzichè usare i nomi più impropri usati dagli altri evangelisti (11) chiama Gesù «maestro » (didàscalos) al posto dell'aramaico originale (Rabbi ). Troviamo così un greco discreto nel vangelo di Giovanni, buono nel medico Luca, pessimo nell'Apocalisse giovannea che è un'aperta sfida alla grammatica e alla sintassi greca (12) La lettera agli Ebrei al contrario è vergata « dal migliore stilista tra gli scritti del Nuovo Testamento », vergata forse dal letterato Apollo (cf At 18, 24) (13)

In passato alcuni, specialmente i protestanti, desiderosi di esaltare la Sola Scriptura, dicevano che Dio stesso, accondiscendendo alla diversa mentalità del profeta, aveva dettato lo scritto adattandosi alle capacità dei singoli scrittori umani. Secondo alcuni Luterani del 17° secolo, Dio avrebbe rivelato in visione il libro sacro agli apostoli ispirati che si accontentarono di copiarlo: esso è quindi ispirato nelle idee, nelle singole parole e perfino nelle sue stessa vocali (14) La professione di fede della convenzione elvetica (1675) minacciava multe, carcere ed esilio a chiunque non ammettesse l'ispirazione delle vocali del testo ebraico, senza pensare che queste erano state aggiunte dai Masoreti molti secoli dopo Cristo (6° o 7°), seguendo la tradizione orale dei rabbini. Questa formula fu abolita solo nel 1725. Tuttavia tale concezione esaltava indebitamente l'attività divina riducendo l'uomo a un puro ripetitore meccanico in modo da non potersi più considerare autore del libro. E' al contrario più logico attribuire le variazioni stilistiche all'uomo anzichè a Dio, così come la scrittura più o meno grossa è attribuita alla punta più o meno sottile del pennino o della biro, anzichè allo scrivano. Del resto la Scrittura stessa parla dell'autore umano di qualche libro sacro: così essa attribuisce dei Salmi a Davide, dei Proverbi a Salomone, delle lettere a Paolo (1 Pt 3, 5). L'ispirato Luca ricorda a Teofilo la propria ricerca personale presso i vari testimoni, onde poter scrivere un racconto attendibile a sostegno della fede cristiana (Lc 1, 1-4). Siamo ben lungi da una ispirazione meccanica, da una semplice dettatura. E' molto più logico pensare che, donando l'ispirazione (o rivelazione secondo i casi) ai singoli profeti, li lasciò parlare (e scrivere) secondo il loro proprio modo personale. Come io posso pregare Dio anche con espressioni sgrammaticate, così Dio ci può parlare anche tramite errori grammaticali e sintattici dovuti allo scrittore umano da lui scelto. Quello che conta è l'insegnamento, non la forma letteraria. Dio è anzi solito usare ciò che sembra stolto per umiliare i dotti:

« Ciò che è stolto per il mondo Dio lo scelse per confondere i sapienti e ciò che è debole per il mondo Dio lo adoperò per confondere quello che è forte; scelse ciò che per il mondo non ha nobiltà, ciò che non esiste per ridurre al nulla ciò che esiste, affinché nessuna creatura possa vantarsi dinanzi a Dio » (1 Cor 1, 26-29).

Qindi le espressioni e le parole vengono direttamente dall'uomo, ma anche da Dio, per il semplice fatto che l'uomo agisce sotto l'ispirazione divina.

B. Intuizione di Plutarco

Possiamo applicare alla Scrittura ciò che a suo tempo scriveva Plutarco a proposito della Pizia di Delfo(15) Alcuni obiettavano che questa, presentando gli oracoli di Apollo il dio della musica, dell'arte e della letteratura, avrebbe dovuto esprimersi in modo superiore a quello dei poeti, mentre al contrario gli oracoli di Delfo valevano ben poco sotto l'aspetto letterario. Al che egli risponde:

« Anche se i versi della Pizia non fossero meno belli di quelli omerici, non crediamo affatto che sia stato dio a comporli, ma che egli ha dato l'impulso (ten archen ) del movimento, che ciascuna delle profetesse ha ricevuto secondo la sua natura . Infatti se fosse stato necessario scrivere gli oracoli, invece di pronunciarli a viva voce, non crederemmo che le lettere stesse ( ta grammata , ossia i caratteri ) siano opera del dio, né gli rimprovererebbero di averli scritti meno bene degli editti regali. Non sono infatti del dio la voce, il suono, il metro, ma delle donne. Il dio provoca solo le immagini e fa luce nell'animo circa le cose future: questo significa infatti l'entusiasmo che non è affatto un racchiudere dio in un corpo mortale. Come il corpo dispone di numerosi strumenti ( orgànois = le membra ) e l'anima a sua volta dispone del corpo e delle parti di esso, così l'anima diviene strumento ( òrganon ) del dio. Ora benchè il pregio di uno strumento stia nel conformarsi il più possibile all'agente che se ne serve secondo le sue naturali qualità, così da realizzare l'opera dell'intelligenza che per esso si manifesta, avverrà tuttavia che questa opera non si mostrerà mai tale e quale è nell'artefice, pura, integra e irreprensibile, bensì mescolata a molto di suo. Infatti il pensiero ignoto a noi in se stesso è inaccessibile, manifestandosi iper mezzo di un altro essere, si contamina della natura di lui ».

Come la luce solare riflessa dalla luna arriva a noi con raggi offuscati e attenuati che si possono guardare, così Apollo « deve servirsi della Pizia per far pervenire il suo pensiero alle nostre orecchie allo stesso modo che la luce del sole deve riflettersi sulla luna per raggiungere i nostri occhi. Quindi ciò che egli mostra e manifesta sono i suoi pensieri, ma contaminati attraverso un corpo mortale e un'anima umana. Questa poi, incapace di restare passiva e di offrirsi immobile e tranquilla a colui che la muove, è scossa dai movimenti e dalle passioni che si agitano nel suo fondo . . . Sicchè il cosiddetto entusiasmo sembra essere la mescolanza di due movimenti, di quello subìto dall'anima e del suo naturale». Non si può muovere un cilindro come una sfera, o un cono come un cubo . «Siccome si tratta di un essere animato, dotato di mobilità, di attività e di ragione propria, lo si potrebbe forse utilizzare altrimenti che seguendo le disposizioni e le facoltà preesistenti della sua natura? ».

« Ora, in quale condizione si trova la Pizia che svolge ai nostri giorni il suo ufficio presso Dio? Ella nasce sì da una delle famiglie più oneste e rispettabili del posto ed è sempre stata di una condotta irreprensibile; ma, allevata in casa di poveri contadini, non porta con sé, entrando nel recinto profetico, alcun elemento artistico, o altre conoscenze e talenti . . . l'inesperienza e l'ignoranza di lei sono quasi totali, sicchè s'accosta al dio con anima veramente vergine. E ciò nonostante noi pretendiamo che la sua voce e le sue parole si presentino come le esclamazioni che si odono in teatro . . . che non siano sgradevoli, né meschine, ma ritmicamente cadenzate, ariose, ornate d'artefici di stile e accompagnamento di flauto!»

C. Mentalità semitica

Gli orientali, a cui appartengono gli Ebrei, hanno dei gusti ben diversi da quelli occidentali che si rivelano nei loro scritti nonostante l'ispirazione divina (16)

1) Descrizione concrete, talora urtanti la nostra mentalità, spesso falsate

Dio è paragonato ad un ubriaco che si risveglia dal vino (Sl 78, 65); le donne ricche di Gerusalemme alla vacche di Basan, le migliori del paese (Am 4, 1); Israele al panno sporco di una donna durante il suo mestruo (Is 64, 6), ad una procace meretrice (Ez 16, 15-34); le due nazioni separate assomigliano a due sorelle adultere (Ez 23, 1-49) dall'ombelico reciso (Ez 14, 4).

2) Esagerazioni iperboliche(17)

Per rafforzare un'idea gli Ebrei presentano dei confronti per noi esagerati o di scarso buon gusto. Nel Cantico dei Cantici il collo dell'amato è paragonato a una torre d'avorio, dalla quale pendono degli scudi; i denti a greggi di pecore ciascuna delle quali ha il suo compagno, ecc. . (18)

Per indicare gli umili inizi della chiesa in confronto al suo futuro sviluppo, Gesù la paragona al «granello di senape », il più piccolo delle sementi (il che non è vero), con l'albero futuro (il che pure non è vero in quanto la senape rimane pur sempre un arbusto e non diviena mai un albero). La pianta vista da Nabucodonosor in sogno era tanto alta da giungere fino al cielo ed era visibile da tutta la terra (Dn 4, 17). La torre di Babele doveva arrivare sino al cielo (Ge 11, 4). Per il salmista i flutti s'innalzano al cielo e scendono negli abissi (Sl 106, 26). Si tratta di espressioni iperboliche, da non prendersi alla lettera (Mt 13, 31). Anche quando Saul paragona la tribù di Beniamino alla più insignificante tribù di Giacobbe, non fa una statistica, ma usa l'iperbole orientale (1 Sm 9, 21). Alla battaglia di Merom partecipò una quantità sterminata di soldati pari alla rena del lido marino con cavalli e carri numerosissimi (Gs 11, 14). Oloferne guidò nella sua spedizione una moltitudine pari per numero alle cavallette e ai granelli di sabbia sulla terra (Giud 2, 20 deuterocanonico). Accampati nella pianura essi erano numerosi come le locuste e possedevano cavalli innumerevoli, pari alla sabbia del lido marino (Gdc 6, 5).

La sabbia e la pietra pesano meno del fastidio procurato da uno stolto (Pr 27, 3); questo infatti pesa più del piombo, della sabbia, del sale e di una massa di ferro (Sir 22, 14s deuterocanonico). Con una iperbole Davide si paragona ad una pulce o a un cane morto (1 Sm 24, 15) e Dio promette ad Abramo una posterità innumerevole come l'arena del mare (Ge 13, 6). Quando lo scrittore parla di un argomento divenuto comune come le pietre usa un'iperbole (1 Re 10, 27). Anche Gesù parla di un cammello (o di una grossa fune kàmillos ) che passa per la cruna di un ago, o per un portello aperto in un portone più grosso che sta chiuso (Mc 10, 25). Vi rientrano i suggerimenti di Gesù a mozzarsi una mano, a tagliarsi un piede o a cavarsi un occhio (Mt 5, 29). Non bisogna osservare « la pagliuzza nell'occhio del fratello » e non badare alla « trave che è nel proprio occhio» (Mt 7, 3). Per Giovanni il mondo intero non potrebbe contenere tutti i libri che si potrebbero scrivere su quello che Gesù ha compiuto durante la sua vita terrena (Gv 21, 25). Bisogna pregare senza interruzione (1 Te 5, 17; 1 Co 10, 31) e « meditare giorno e notte la legge del Signore » (Sl 1, 2) (19) Per iperbole Gesù dice che chi prega Dio con fede può perfino trasportare un monte (Mt 21, 21 ; cf 1 Gv 5, 14s).

Origène, facendosi evirare, non capì che con tali iperbole Gesù non intendeva insegnarci l'autolesionismo, bensì la superiorità del regno dei cieli su tutto il resto (Mt 19, 12). Allo stesso principio si rifà l'assenza di certe sfumature di contrasto, per cui secondo la Bibbia o si ama o si odia, o si fa o non si fa, non esistendo la sfumatura di amare meno e di permettere. Si spiegano così le espressioni di Paolo: « Dio amò Giacobbe, ma odiò Esaù » (Rm 9, 13); di Gesù: « Se uno viene a me e non odia padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle anzi la sua stessa vita, non può essere mio discepolo » (Lc 9, 13). Forse che Dio insegna l'odio? E' il profeta che si esprime secondo le categorie mentali dell'epoca, secondo le quali « odiare» può anche semplicemente indicare "trascurare, non prediliggere ". «Giacobbe si unì a Rachele e amò Rachele più di Lia . . . Ora il Signore vide che Lia era odiata» (Ge 29, 30-33). Matteo, riportando il medesimo testo di Luca, ne presenta il senso quando scrive con più chiarezza: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me » (Mt 10, 37). A questo modo di esprimersi semitico si ricollega il gusto degli schemi fissi, retorici che non si possono affatto prendere alla lettera. Babilonia fu conquistata nottetempo senza colpo ferire (cf. Dn 5, 30), eppure Isaia ne profetizza la distruzione e la caduta come Sodoma e Gomorra e parla di stelle che cadono dal cielo per piangerne la rovina (Is 13, 10.13.22). Si tratta di un formulario fisso, che può servirci a chiarire espressioni simili del discorso escatologico di Gesù, che anzichè essere applicato alla fine del mondo, possono riguardare anche semplicemente la rovina di Gerusalemme (Mt 24, 29s).

3) Carenza di sintesi

Il gusto di mettere a fuoco i singoli particolari del problema crea delle presunte contraddizioni secondo il nostro gusto occidentale, amante di sintesi panoramiche. Così nel presentare la giustizia divina gli scrittori sacri sembrano dimenticare l'amore, ma quando parlano dell'amore di Dio, sembrano affermare che in lui non vi sia giustizia alcuna. Talora Dio è presentato come padrone assoluto di tutti cosicché nessuno gli può dire: cosa fai? per cui l'uomo sembra perdere tutta la sua libertà. Ma altrove sembra che tutto dipenda dall'uomo e che Dio possa ricevere da lui uno scacco matto. La fede ci giustifica senza le opere, dice Paolo (Rm 4, 1-12); ma la fede, senza le opere dettate dalla legge, è sterile e vana, afferma Giacomo (2, 14-19). I due autori si accordano quando si pensa che trattano due aspetti dello stesso problema: a chi esaltava troppo le opere Paolo presenta la fede come se tutto dipendesse da essa; a chi invece insiste sulla pura fede, Giacomo presenta la necessità delle opere come le uniche realtà necessarie.

4) Antropomorfismi biblici

Senofane di Colofone criticava nel VI secolo a.C. i miti pagani perché gli uomini supponevano che gli «dei abbiano . . . voce e corpo simili a loro . .  »

« E gli Etiopi dicono che i loro dei sono neri e camusi, e i Traci che hanno occhi azzurri e capelli rossi». « E se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani e sapessero disegnare e compiere sculture come gli uomini, i cavalli farebbero i loro dei simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi e ne rappresenterebbero il corpo simile al loro » (20)

Ora anche la Bibbia presenta Dio come un uomo: egli ha mani e dita; pianta un giardino nell'Eden, modella un uomo di creta; chiude la porta dell'arca dove stavano Noè e gli animali; scende a vedere la torre di Babele. Egli vede, fiuta, parla, grida, fischia, soffia; è soggetto all'ira, ama ed odia, gioisce e si addolora.

Queste espressioni hanno lo scopo di rendere Dio un essere vivo e concreto, che si interessa al mondo da lui creato e ne partecipa alla vita. Tali espressioni mostrano la bontà di Dio, il pentimento, la misericordia, la gelosia, l'unicità divina, l'ira, l'odio, la punizione, la giustizia sia pure a scopo salvifico, Ma, altrove, nonostante tali espressioni umane, Dio è presentato come un essere totalmente diverso dall'uomo:

« Io sono Dio e non un uomo» (Os 11, 9).
« Hai tu forse occhi di carne o vedi tu come vede un uomo? » (Gb 10, 4).
« La gloria di Dio (ossia Dio) non mente né muta; non è un uomo lui perché possa mutare» (1 Sm 15, 28).

5) Cultura dell'epoca

Gli scrittori sacri danno suggerimenti pratici tratti dall'esperienza e dall'uso del tempo. Paolo suggerisce a Timoteo di bere un po' di vino – la medicina del tempo –  per il suo stomaco (1 Ti 5, 23); Giacomo ricorda agli anziani – i padri della famiglia cristiana – di non dimenticare le unzioni con olio (il corroborante del tempo) per gli ammalati (Gc 5, 16; Mc 6, 13; Lc 10, 34; Is 1, 6).

Paolo non contesta il regime sociale dell'epoca, compresa la schiavitù (1 Co 7, 20.24), ma vi introduce solo uno spirito nuovo: quello della fraternità, almeno tra i cristiani (Filemone). Lo stesso presenta i capelli delle donne quasi fossero un velo e ne deduce l'obbligo di tenere il capo velato quando pregano o profetizzano nelle assemblee, per mostrare in tal modo (secondo l'uso dell'epoca) la propria sottomissione al marito (1 Co 11, 6; 1 Ti 2, 11-14). La cultura dell'epoca appare anche dall'uso di scritti allora noti e chiamati con i nomi delle persone a cui si attribuivano. Non fa meraviglia quindi che Giuda parli della profezia di Enoc, anche se costui non ne fu l'autore (Gd 14s), che siano citati brani di scritti sacri con il nome di Mosè, o di Davide, anche se forse quel preciso brano non era stato composto proprio da Mosè o da Davide, ma fu introdotto posteriormente nei lori scritti. Per indicare tali testi si dovevano ben adoperare i nomi con cui essi erano noti, alla stessa maniera con cui oggi noi parliamo di Omero, di Shakespeare, senza per questo voler decidere se tali brani siano proprio di questo o di quell'autore. Con allusioni al noto dramma pirandelliano, Mac Kenzie dice argutamente che per la Bibbia si potrebbe parlare di sessantasei libri in cerca di autore (21) E' infatti molto lontana dalla verità l'opinione talmudica che assegna i trentanove libri protocanonici a Mosè, Giosuè, Samuele, Davide, Geremia, Esdra, Nehemia, oltre agli uomini del re Ezechia e della grande sinagoga(22) Perciò quando la Bibbia parla di questi autori non fa che adattarsi alla concezione comune. Non ci si può comprendere se non chiamando un libro con il nome con cui era solitamente nominato e conosciuto. Così non fa meraviglia che, secondo il pensiero generale, si possa attribuire il libro di Daniele a questo profeta, anche se esso parla di Daniele anzichè presentarsi come uno scritto composto da lui e si possa ritenere come storia reale ciò che probabilmente era solo una parabola (Giona). Anche noi, per esempio, parliamo del buon samaritano, del figlio prodigo, del ricco crapulone, di lazzaro il mendico, come se fossero una realtà, mentre essi sono solo persone fittizie, ad eccezione, forse, di Lazzaro indicato per nome. Gli scrittori non fanno della critica biblica, ma si esprimono secondo le convinzioni generali dei contemporanei, per farsi comprendere e accogliere da loro.

6) Progresso delle idee secondo la situazione sociologica del momento

L'ambiente nel quale il libro fu scritto, lascia le sue impronte anche nel modo con cui una dottrina vi è presentata. Basti esaminare la concezione messianica. Essa di volta in volta è descritta come un nuovo esodo (Is 40-41), come una nuova attraversata del deserto (Ez 20, 35), come un nuovo patto (Ger 31, 31-34), una nuova divisione palestinese (Ez 48) la cui capitale Gerusalemme sarà chiamata con un nome nuovo (Is 62, 4).

Tre figure dominano nella storia di Israele: il re, il profeta e il sacerdote e tutti e tre servono nel corso dei secoli per presentare il Messia: egli è il re davidico (Is 7, 14; 9, 1-6; 11, 1-5), il « germoglio di Davide» (Gr 23, 5), anzi lo stesso Davide redivivo (Ez 34, 23s; 37, 24s). Al tempo dell'esilio i profeti stanno in primo piano per cui anche il Messia viene presentato come un profeta nei carmi di Jhwh (Deuteroisaia). Il sommo sacerdote della restaurazione serve per presentare il Messia in quel tempo (Sl 110, 4). Il culto messianico riproduce il pensiero del tempo: Jhwh tornerà sul monte Sion (Ez 43, 1-9; Is 52, 8), nel tempio che non sarà mai distrutto (Ez 37, 26), con i sacerdoti presi tra i d-scendenti di Aronne, per offrire sacrifici di animali (Gr 33, 19) e durante le usuali feste israelitiche (Is 66, 23; Zc 14, 16-19). In un ambiente con strutture politiche, civili e culturali diverse, ben diversa sarebbe risultata anche la presentazione del messianismo.

Membri di una società che concepisce la natura come inseparabilmente legata alla vita dei suoi abitanti e insozzata dei peccati degli uomini, gli scrittori ispirati la fanno punire o premiare insieme con i suoi abitanti. Perciò anche per Paolo il peccato di Adamo e la redenzione di Cristo hanno risonanze cosmiche (Rm 8, 19-22). La natura prende parte attiva alla punizione degli empi, come Sisera (Gdc 5, 20; cf Ha 2, 11; Gb 20, 27; Ez 36, 16), alla gioiosa liberazione di Israele (Is 44, 23) e all'inizio dell'era messianica (Sal 98, 7s).

7) Cognizioni personali dell'agiografo

I sentimenti, i dubbi, le opinioni e l'ignoranza che esistevano nella mente dello scrittore sono presenti anche nella Bibbia. Lo scrittore ispirato ignora il futuro, per cui se non ne riceve una speciale rivelazione, deve solo mostrare la sua ignoranza. Paolo non sa se manderà Timoteo o no (Fl 2, 19), se sarà salvo o perirà in carcere (Fl 1, 23-25); afferma che non avrà più occasione di vedere quei di Mileto, mentre li rivedrà ancora (At 20, 37; cf 2 Ti 4, 20: «ho lasciato Trofimo a Mileto»). Paolo non si ricorda se, oltre alla famiglia di Stefana, abbia battezzato qualcun altro a Corinto (1 Co 1, 14-16); se sia stato rapito al terzo cielo « con il corpo o senza corpo» (2 Cor 12, 2-3). Giovanni ignora se le idrie per le abluzioni contenessero « due o tre metrete» (23) se gli apostoli avessero remato 4 o 5 chilometri (venticinque o tranta stadi; ogni stadio misurava 185 metri) prima di incontrarsi con il Cristo che camminava sulle acque (Gv 6, 19). Gli apostoli riferiscono con imprecisione i detti di Gesù, il quale secondo Matteo proibisce l'uso dei calzari e del bastone, mentre secondo Marco, li permette (Mt 10, 9-10; Mc 6, 8s) (24) .

Talora l'autore umano può anche esprimere delle sue opinioni, come quando credeva che fosse vicino il ritorno di Cristo(25) prima della sua morte (2 Co 5, 2-4). Negli scritti posteriori tale convinzione va scomparendo. Dio non comunica ai suoi profeti tutto in una sola volta, ma secondo le circostanze realizza un progresso sotto la guida dello Spirito Santo, anima della chiesa, specialmente primitiva.

Per la presenza di leggende si confronti il capitolo sui generi letterari e specialmente sul Midrash.

Conclusione

Gli autori sacri sapevano di essere ispirati? Si e no! Tutti sapevano di avere un'esperienza, un'idea da comunicare. I profeti poi, erano consci di parlare a nome di Dio:

« Lo Spirito del Signore ha parlato per mezzo mio, e la sua parola è espressa dalla mia lingua» dice Davide (2 Sm 23, 2-4).

Lo sapevano i profeti quando enunciavano gli oracoli del Signore: « Così dice il Signore». Lo sapeva Giovanni scrivendo la sua Apocalisse che viene da lui presentata come una profezia alla quale nulla si può aggiungere e nulla si può togliere (Ap 1, 1-3; 22, 16-20). Non sembra invece che lo sapesse l'evangelista Luca il quale dice di aver fatto studi e ricerche (come li facciamo noi) per rendere più sicura la fede del suo Teofilo (Lc 1, 1-4). Non lo sapeva l'autore dell'Ecclesiaste (Qoelet) o dei Proverbi che presentano semplicemente la loro esperienza di saggi. Ma in tale lavoro questi scrittori erano pur sempre aiutati da Dio che intimamente li guidava senza eliminare affatto la loro personale libertà d'espressione.


NOTE A MARGINE

1. Molti mistici si trovano in condizioni più felici quando utilizzano la Scrittura nelle loro intuizioni (come Giovanni della Croce, Teresa d'Avila, ecc), ma purtroppo non la fanno mai regola assoluta della loro vita, introducendovi pure le idee dell'ambiente in cui vivono. torna al testo

2. Cf Fr. A. Schaeffer, Il Dio che è là, Guanda, Parma 1970, pp. 119ss. torna al testo

3. Plutarco, De Delf. oraculo, 50. torna la testo

4. Lessio nelle sue Theses Theologicae del 1586, condannate dalla Chiesa Cattolica il 9 settembre 1587. torna al testo

5. D. Bañez (m. 1604), In primam partem Summae Theologicae q. 1 n. 8. Lo stesso fu sostenuto dal Suarez e dal Billuard; Suarez, De Fide , disp. 5, 3; Charles René Billuard (m. 1757), Summa S. Thomae hodiernis Acaderniarum moribus accomodata, De Virtutibus theol., De regulis fidei diss. I ad 2 (Liegi 1740-1751, 19 volumi è tutta la Somma). torna al testo

6. Agostino, In Joan. Tract. 1, 1 P L 35, 1379s. torna al testo

7. Agostino, De civitate Dei 17, 6 2 P L 41, 537. torna al testo

8. Bonaventura, Breviloquium prof. par. 4 (Quaracchi 1891 vol. V pag 204); cf 1 Cor 13, 9-12. torna al testo

9. Lutero, Vorrede zum Alten Testament, vol IV, p. 3 (Calwer Verlag). torna al testo

10. Girolamo, In Is. praef. P L 28, 771; Jer. Prol. P L 28, 847; In Amos praef. P L 25, 990.993; Praef. in duodaim prophetas P L 28, 1015. torna al testo

11. Lc 5, 24; Mt 9, 6 klinèn; Mc 2, 11 krabàtton. torna al testo

12. Cf Lancellotti, Sintassi ebraica nel greco dell'Apocalisse I. Uso delle forme verbali , Assisi 1964. torna al testo

13. E. Norden, Agnostos Theòs, Berlin 1929, p. 386. torna al testo

14. A. Tostat, In Matth Praef. 9, 5; Estius, in II Tim 3, 16; C.R. Billuard, De reg. fidei, d. 1 q. 2; fu l'opinione di luterani (ortodossi) e calvinisti (J.A. Quensstedt , Theol. didactico-polemica a. 1 c. 4 Th. 3; B. Turretin , Défense de la fidelité des traduct. de la S.B. faites à Genève. Abbandota alla fine del secolo XVIII, riacquisto favore al secolo XIX con un risveglio effimero dovuto agli sforzi di L. Gaussen , Théopneustiè ou inspiration pléndère des Ecritures (p. 1849). Anche il cattolico Bañez pensava che Dio avesse dettato le parole della Bibbia per evitare che le idee fossero deturpate. torna al testo

15. Plutarco, nato a Cheronea nella Beozia nel 50 d.C. ca., vi morì nel 120 d.C. ca.. Scrisse sugli oracoli della Pizia; cf Frangipane , Alcuni problemi di ispirazione biblica , in "Riv. Bibl." 7 (1959), pp. 17-24. torna al testo

16. Cf Th. Varga, De modis exporrendi locutiones tropicas S. Scripturae , in "Verb. Dom." 19 (1938), pp. 21-26.215.218. torna al testo

17. Cf A. Quacquarelli, Note sull'iperbole nella Sacra Scrittura e nei Padri , in "Vetera Chri-stianorum"" 8 (1971), pp. 5-26. torna al testo

18. Cf F. Salvoni, I libri poetici della Bibbia, Milano, Facoltà Biblica, Via del Bollo 5 Milano, pp. 20-23. torna al testo

19. Agostino connette questo versetto con la preghiera interiore che fa l'uomo virtuoso, la cui vita si trasforma così in preghiera continua (Tract. in Ps. 1, 12, A Zingerle CSEL 22, 27). torna al testo

20. Senofane, Frammenti 14. 16.15. torna al testo

21. Mc Kenzie, Some Problems in the Field of Inspiration, in "Cath. Bibl. Quart" 20 (1958) 2. torna al testo

22. Talmud B., Baba Bathra 14d. torna al testo

23. Gv 2, 6. Ogni metreta misurava 38-40 litri (ca 100 litri per idria). torna al testo

24. Forse Matteo scrivendo per semiti accentua con tale espressione la fiducia che si deve avere in Dio quando si predica l'evangelo; Marco permette ciò che è indispensabile (sandali, bastone, tunica di ricambio). torna al testo

25. Cf A. Moretti, De Scripturarum duerrantia et de bragis graphis opinantibus , in "Div.us Thomas" 62 (1959), pp 34-68. Cf Gesù III (dispense della Facoltà). torna al testo