La parabola
delle nozze, riportata da Matteo al cap. 22, vv. 11-14, che segue a
quella del “vignaioli malvagi”, la ritroviamo anche in Luca al cap. 14
vv. 16-24 in una versione però alquanto diversa, ma sostanzialmente
uguale per quanto riguarda l’insegnamento che Gesù ci vuole dare.
È chiaro che in entrambe queste parabole si narra lo stesso
avvenimento:
In Matteo si parla di un re che
prepara le nozze del proprio figlio e, per festeggiare l’avvenimento,
rivolge per mezzo dei suoi servi un invito a partecipare al pranzo che
si terrà in quell’occasione. In Luca, invece, si parla soltanto
di un generico invito a cena rivolto da un uomo non meglio identificato.
I servi portano l’invito, ma gli invitati della prima ora lo
respingono, perché sono distratti dai loro affari personali
ed allora il re rivolge lo stesso invito a degli estranei e manda i suoi
servi agli incroci delle strade per invitare al pranzo di nozze chiunque
trovassero.
Almeno fino a questo punto l’insegnamento è molto chiaro:
Dio viene paragonato ad un re ed il suo regno ad un banchetto, alle
nozze eterne.
In Matteo il re manda due volte
i suoi servi (vv. 3 e 4), una volta per invitare semplicemente alle
nozze, l’altra per avvisare che tutto era pronto. In Luca questo duplice invito
si ha solo alla fine della parabola: poiché i primi invitati
hanno respinto l’invito, questo stesso invito viene ripetuto due volte
agli estranei perché i servi comunicano che c’era ancora posto
nella casa (Lc 14, 22-23).
Matteo inoltre inserisce nella sua parabola alcuni tratti che
precisano ancora meglio il significato della stessa. Gli invitati, non
solo respingono l’invito, ma alcuni di loro uccidono addirittura i suoi
servi, proprio come avevano fatto i vignaioli malvagi nella parabola precedente.
A questo punto il re manda il suo esercito e dà fuoco
alla città degli assassini. Il riferimento ad Israele che ha
respinto ed ucciso i profeti inviati da Dio è molto chiaro; il
riferimento a Gerusalemme distrutta dagli eserciti romani è molto
evidente e ci richiama le parole di Gesù che troviamo in più
avanti al cap. 23, vv 37 e 38.
Abbiamo parlato delle immagini del re e del banchetto che richiamano
esplicitamente la figura di Dio e del banchetto messianico, ma possiamo
anche parlare dell’invito o della convocazione che caratterizzano queste
parabole del gran convitto.
Anche l'apostolo Paolo usa gli stessi termini per descrivere
l’effetto e la potenza del Vangelo. Il Vangelo infatti è sostanzialmente
un invito, una chiamata ad entrare nel regno di Dio nel quale abbiamo
la vita e la salvezza eterna (2 Tes 2, 13-14).
Il concetto di chiamata, però, quale appello di Dio alla
salvezza degli uomini, è molto più antico di Paolo e risale
addirittura al profeta Isaia nel quale la chiamata di Dio, ignorata dal
popolo ebraico, viene rivolta a tutte le nazioni (Is 65, 1-2.11-12; 55,
1-5).
Il Dio di cui parla il Nuovo Testamento è certamente quello
in cui il regno si identifica nella parola e nell’azione di Gesù
e l’invito si realizza proprio per mezzo di questa Parola che si fa
carne (Gv 1). L’accenno ricorrente nelle due parabole ai servi di Dio
inviati, per rivolgere ai primi ed ai secondi invitati l’invito al banchetto,
è un esplicito riferimento ai profeti dell’Antico Testamento.
Forse Luca usando il singolare (il servo) pensa a Gesù
stesso, mentre il plurale usato da Matteo (i servi), anche dopo la distruzione
della città nemica, ci fa pensare agli apostoli che continuano
la loro opera di evangelizzazione in tutto il mondo, anche dopo la distruzione
di Gerusalemme.
I vv 8-10 significano certamente che l’appello di Dio, rivolto
in un primo tempo agli Israeliti e da essi respinto, viene ora indirizzato
a tutte le genti, cioè a tutti coloro che sono disposti ad accoglierlo.
Si fa così strada quello che è il piano fondamentale
di tutto il Vangelo di Matteo in cui il messaggio di salvezza, dapprima
rivolto solo al popolo ebraico, assume via via sempre più, nelle
parabole e nei discorsi di Gesù, un respiro universale, come
del resto era già stato anticipato nei Salmi e nei profeti.
Questa parabola quindi ha un’ importanza sostanziale per comprendere
la missione di Gesù: Dio manda la sua Parola, Cristo, e con Cristo
il suo invito alla salvezza; ma Israele respinge questo invito, che
viene allora rivolto ai pagani.
A questo punto in Luca la parabola termina con un avviso perentorio
nei confronti dei primi invitati che avevano respinto l’invito: «nessuno
di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena»
(v. 24). Come dire che nessuno di loro potrà far parte del banchetto
messianico e potrà gustare la salvezza eterna.
Matteo invece prosegue con un’appendice sulla quale vorrei riflettere
attentamente, perché è un appendice che ci riguarda in
maniera diretta. L’invito del Vangelo viene ora rivolta ai pagani, ma
Matteo precisa che fra loro ci sono i buoni e i cattivi. Questa è
una caratteristica peculiare di Matteo il quale giudica severamente la
comunità cristiana avvertendoci che l’appartenenza a questa comunità
non significa necessariamente che la salvezza sia un fatto ormai raggiunto,
consolidato, acquisito.
Le parole che seguono infatti ci fanno comprendere che non è
sufficiente accogliere l’invito di Dio, ma l’invitato deve anche essere
pronto e preparato a partecipare al suo banchetto con una giusta disposizione
d'animo che viene da Gesù espressa mediante la metafora dell’abito
di nozze. Questa metafora della veste nuziale è carica di un significato
molto profondo ed assume quindi un carattere squisitamente spirituale.
Nella mentalità semitica più in generale, ma soprattutto
nel popolo ebraico in particolare, la nudità è sempre
stata vista, non tanto come un segno di vergogna sessuale, ma piuttosto
come un segno di miseria interiore, di mancanza di dignità. Così
Adamo ed Eva con il peccato perdono la loro dignità di creature
e provano vergogna, tanto che in presenza di Dio vanno a nascondersi.
I prigionieri, i deportati del popolo ebraico vengono spesso descritti
come persone nude, cioè prive di dignità. Dio ama l’uomo
e nonostante il suo peccato non vuole che egli perda la sua dignità
di uomo; perciò anche se lo caccia dal Paradiso, in Genesi ci viene
detto che lo riveste con pelli di animale.
La veste quindi è una delle immagini ricorrenti nella
Bibbia che assume spesso un carattere spirituale. Abbiamo così
molti passi, anche dell’Antico Testamento, che spesso usano questa metafora
del vestito con un significato particolare, come ad es. in Is 61, 10 e
Ap 19, 7-8. In questi passi si dice appunto che Dio riveste i suoi di
giustizia come di una veste nuova.
Una nuova veste quindi equivale quasi ad un nuovo modo di essere
e di porsi nei confronti di Dio e potrebbe essere, nel caso di questa
parabola, la manifestazione di una conversione realmente avvenuta. Viceversa,
ciò che ci esclude dal regno di Dio è l’ostinazione a
mantenere la propria natura, il proprio carattere, il proprio modo di
pensare, addirittura la propria religiosità in contrapposizione
all’invito di Dio a cambiare la nostra vita, a non conformarci a questo
mondo.
Nei primi secoli i catecumeni che venivano istruiti prima del
battesimo, una volta battezzati erano rivestiti con vesti nuove e bianche
per simboleggiare la loro purezza e la loro dignità di persone
che erano nate a nuova vita.
Al di là però di quello che può significare
il simbolo materiale del nuovo vestito usato dei catecumeni dei primi
secoli, Gesù vuole farci capire che possiamo partecipare al suo
banchetto nuziale soltanto se siamo entrati nel nuovo ordine di idee
da lui proposto, simboleggiato appunto dall’abito nuziale.
Non è sufficiente essere invitati; occorre essere delle
nuove creature con un nuovo modo di pensare e di agire; dobbiamo in
altre parole dimostrare che siamo realmente nati di nuovo, che abbiamo
realmente cambiato il nostro vecchio modo di pensare che era legato
ai parametri di questo mondo; come dice anche Paolo: «Se dunque
uno è in Cristo, egli è una nuova creatura, le cose vecchie
sono passate; ecco tutte le cose sono divenute nuove» (2 Cor 5,
17).
Più volte e in più occasione l’apostolo Paolo usa
la metafora del vestito per significare che il cristiano è una
persona che si è spogliata degli abiti vecchi per rivestire quelli
nuovi di Cristo e diventare così degno di far parte della nuova
creazione (Rm 13, 13-14; Gl 3, 27; Ef 4, 20-24; Cl 3, 9-10).
In poche parole l’abito nuziale, del quale fu trovato sprovvisto
l’invitato che venne cacciato fuori nelle tenebre, dove c’è
il pianto e lo stridore dei denti, altro non è se non la mancanza
di una vera, effettiva, reale conversione, senza la quale non sarà
possibile partecipare al banchetto nuziale di Cristo.
Questo deve rappresentare oggi per noi un avvertimento che non
possiamo ignorare senza incorrere nella stessa sorte di quel malcapitato,
che venne inesorabilmente cacciato.
Spesso noi ci aggrappiamo alle nostre sicurezze e non ci rendiamo
conto che non è sufficiente appartenere ad una comunità
cristiana per essere salvati, non è sufficiente frequentare il
culto e le altre eventuali riunioni della chiesa, ma è necessario
che sia avvenuta in noi una reale conversione. Una conversione che deve
durare tutta la nostra vita e che deve essere continuamente rinnovata giorno
dopo giorno e deve dare all'intera nostra vita una nuova impronta, un nuovo
indirizzo verso il quale convogliare tutte le nostre energie mentali, fisiche
e spirituali.
Il nostro impegno verso Dio e verso la Sua chiesa non può
esaurirsi con una nostra presenza passiva. Il nostro impegno verso
Dio e la Sua chiesa è un impegno che non può essere preso
con leggerezza, in maniera superficiale, ma dobbiamo sentirci totalmente
coinvolti con tutta la nostra persona. Questo è l'abito nuovo
di nozze che Gesù richiede da noi e senza il quale saremo esclusi
dal suo banchetto nuziale. Soltanto indossando questa nuova veste mentale
saremo trovati con le carte in regola per far parte a pieno titolo della
famiglia di Dio.
Alla Chiesa di Laodicea che si era intiepidita, che aveva dimenticato
l’impegno della sua conversione, ma che nonostante tutto questo si sentiva
sicura e forte nella sua posizione, il Signore rivolge queste parole:
«Poiché tu dici: Io sono ricco, mi sono arricchito e non
ho bisogno di nulla; e non sai invece di essere disgraziato, miserabile,
povero, cieco e nudo; ti consiglio di comperare da me dell’oro affinato col
fuoco per arricchirti, e delle vesti bianche per coprirti e non far apparire
così la vergogna della tua nudità, e di ungerti gli occhi
con del collirio, affinché tu ci veda» (Ap 3, 17-18).
Alla luce di queste ammonizioni, preghiamo il Signore che possa
scuotere le nostre sicurezze e farci riconoscere le nostre debolezze
per essere veramente trasformati mediante il rinnovamento della nostra
mente.